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(traduzione di Fabrizio Bottini)

Una simulazione di città, grande come tutto il centro di San Diego, è stata costruita in un angolo solitario del deserto nella California meridionale, per allenare le forze armate al combattimento in ambiente urbano. Questo centro allenamenti del costo di 170 milioni di dollari è stato presentato ufficialmente martedì alla base militare di Twentynine Palms, circa 150 km a nord-est di San Diego. Complessivamente gli edifici sono 1.560, e consentiranno alle truppe di apprendere e perfezionare tecniche utili in molte parti del mondo, secondo i responsabili del Corpo dei Marines. Nel paese sono già stati costruiti finti villaggi afgani per preparare le truppe prima delle missioni. Il nuovo complesso è fra i più grandi e completi fra quelli realizzati. Ci possono operare in contemporanea oltre 15.000 uomini fra marines e marinai.

Nota: qui in una ventina di diapositive le travolgenti passeggiate urbane dei nostri eroi (f.b.)

Una città dove sarà possibile condurre uno stile di vita moderno nel contesto della tradizione. È questo slogan che ti accompagna quando ti avvicini ai cantieri di Rawabi, in arabo «le colline», la new town palestinese da 6mila appartamenti che, grazie un finanziamento da 800 milioni di dollari (in parte di provenienza qatariota), sta sorgendo tra Ramallah e Nablus e situata a metà strada tra Tel Aviv e Amman. Sino ad oggi hanno chiesto di viverci oltre 8 mila palestinesi, che si sono prenotati online.

Commercianti, impiegati pubblici, professionisti, ossia la piccola borghesia attirata dai centri commerciali, i boulevard e i caffè, dalla vicinanza all'università di Bir Zeit, dal verde, dai campi sportivi, dalle scuole pubbliche e private, dal cinema ma anche dalle moschee e dalla chiesa che promette la «Massar», l'impresa edile di Bashar Masri, parente di Munib Masri, l'uomo d'affari palestinese più ricco e influente. «Questo progetto è parte della costruzione nazionale - dice Masri - che non è solo politica ma vuol dire significa anche offrire una miglior qualità di vita alle persone e rilanciare l'economia creando migliaia di posti di lavoro».

All'inizio verranno venduti appartamenti per 25 mila palestinesi, in seguito per altri 15mila, grazie a prezzi abbordabili e a mutui che le banche offriranno a basso interesse oltre a quello finanziato dall'Overseas Private Investment Corporation che permetterà di acquistare un appartamento per 700 dollari al mese. Un debito mensile che Masri definisce «sopportabile» e che invece la maggior parte dei palestinesi non può permettersi.

Osservandola da lontano la new town, «fiore all'occhiello» per l'Anp e per il suo premier Salam Fayyad, assomiglia parecchio alle colonie israeliane che si incontrano nei paraggi. Stesso stile, stessi materiali, stessa luce accecante della pietra bianca e (troppi) tetti rossi. Insomma, è una sorta di colonia palestinese contrapposta a quelle ebraiche. Non sorprende perciò che il progetto sia stato accolto freddamente da quella parte di architetti e pianificatori palestinesi indipendenti che avrebbe preferito che la nuova città avesse un look più arabo, più vicina alle belle ed antiche costruzioni palestinesi. Senza dimenticare le critiche degli ambientalisti che sollevano dubbi sulla scelta di costruire Rawabi in una delle poche aree naturali che resistono agli assalti della colonizzazione israeliana della Cisgiordania. Altri hanno criticato il massiccio coinvolgimento d'Israele nel giro di affari ma le principali obiezioni sono venute dai quei contadini che si sono opposti alla cessione dei propri terreni: circa 1/5 di Rawabi viene costruito su terreni requisiti sbrigativamente dall'Anp.

A battersi con più accanimento contro Rawabi sono però i coloni e i loro sostenitori nel governo Netanyahu e alla Knesset. Insieme conducono una battaglia senza sosta contro la nuova città palestinese che, dicono, provoca danni all'ambiente e mette a rischio gli insediamenti israeliani. Accuse paradossali se si considera che i coloni sono i principali devastatori della natura in Cisgiordania dove vivono illegalmente in violazione delle risoluzioni internazionali. Lo scorso autunno Ghilad Erdan, il ministro israeliano dell'ambiente, ha chiesto una approfondita verifica delle ripercussioni della costruzione di Rawabi, in particolar modo per quanto riguarda la discarica dei rifiuti.

Erdan ha mai mostrato tanto rigore e interesse nei confronti delle colonie ebraiche edificate sulle colline palestinesi? Forse, non si sa. È certo invece che Rawabi si trova in buona parte in «area B», la zona della Cisgiordania sotto controllo civile dell'Anp e dove Israele ha il controllo di sicurezza. Le sue strade di accesso perciò si trovano sotto totale controllo dell'esercito di occupazione e dei coloni. La campagna anti-Rawabi si è intensificata da quando si è appreso che una dozzina di aziende israeliane avevano accettato di firmare contratti di forniture con la «Massar», sottoscrivendo, a quanto pare, una clausola che le impegna a non lavorare contemporaneamente negli insediamenti colonici.

Lo scorso anno l'Anp ha lanciato una campagna per il boicottaggio delle colonie e dei loro prodotti che, almeno nella sua fase iniziale, ha conseguito risultati significativi e mandato su tutte le furie i settler israeliani e il governo Netanyahu. Ora, a distanza di mesi, l'offensiva anti-colonie è scemata, sotto l'urto delle pressioni americane.

È stato lo stesso Bashar Masri a rivelare qualche settimana fa che oltre alle 12 società israeliane avevano firmato il contratto proposto dalla «Massar». Non solo. La sua impresa è stata contattata da un'altra ottantina di imprese israeliane che vogliono vendere i loro prodotti e materiali e si dicono disposte a rispettare la clausola sugli insediamenti. Rivelazioni che hanno scatenato un putiferio in Israele. Alcune decine di deputati di diversi partiti si sono prontamente attivati per lanciare una campagna di boicottaggio delle società che si rifiuteranno di avere rapporti commerciali con gli insediamenti colonici. Le imprese impegnate a Rawabi, a cominciare dalla Itung Blocks, per evitare guai, hanno dovuto recitare il mea culpa e la professione di fede agli ideali del sionismo e alla colonizzazione. «Siamo un'azienda israeliana al 100% e partecipiamo alle costruzioni in Eretz Israel (la biblica Terra di Israele)», ha comunicato l'amministratore delegato della Itung, Sasson Har-Sinai. Ma le sue assicurazioni non bastano ai coloni che vogliono mettere alla gogna tutte le imprese «traditrici».

Nota: il fatto che la città nuova sia una fotocopia del sogno americano non è sfuggito a suo tempo alla stampa internazionale, come spiega bene questo articolo dell'australiano The Age tradotto per Mall (f.b.)

La signora dell’architettura è già al lavoro sulla nuova Banca Centrale. E dal governo iracheno arrivano altre offerte

Hadid sogna di riprogettare la capitale del suo Paese

Il suo sogno sarebbe «ricostruire il piano urbanistico di Bagdad dall’inizio, pianificarlo dalle fondamenta». Ma per ora si limita a puntare tutto sulla progettazione dell’edificio della Banca Centrale nel cuore della capitale. In agosto ha vinto la gara aperta a tutti i più grandi studi di architettura mondiali. «È un primo passo. Ci sono altre offerte da parte del governo iracheno. Devo ancora valutarle con attenzione», spiega Zaha Hadid da Londra. Sarebbe la controrivoluzione architettonica nell’era della democrazia contro quella della dittatura. Come Saddam Hussein tra gli anni Settanta e Ottanta fece radere al suolo i quartieri storici della capitale per imporre la sua visione dell’impero in stile assiro-babilonese, così l’architetta cresciuta nella diaspora occidentale, proiettata allo zenit dei nuovi design più avveniristici, pensa di ridare alla città la sua antica dimensione umana.

Un nome che è garanzia d’eccellenza. Nata a Bagdad nel 1950 ed emigrata sin da bambina con la famiglia all’estero, Zaha Hadid ha studiato matematica a Beirut, prima di laurearsi a pieni voti alla Scuola di Architettura di Londra e quindi insegnare a lungo nelle migliori università americane. Lavoro, impegno e grandi successi internazionali sono poi arrivati a cascata. Da quando nel 2004 ricevette il «Pritzker Architecture Prize», il premio Nobel nel suo campo, viene definita la «donna architetto più famosa al mondo». Tra le realizzazioni più note: il trampolino da sci di Innsbruck, il ponte a farfalla di Saragozza, gli uffici centrali della Bmw a Lipsia, il centro acquatico per le Olimpiadi di Londra nel 2012. In Italia ha all’attivo almeno sei progetti maggiori, tra cui il Museo delle Arti Contemporanee di Roma inaugurato l’anno scorso e il complesso City Life a Milano.

Pure, non è strano che la figlia per eccellenza dei circoli più cosmopoliti dell’intellighenzia contemporanea guardi adesso alla «sua» Bagdad come a una grande sfida. «Non ci sono mai tornata dalla mia partenza da bambina. Spero di visitarla, presto. Ma ancora non ho fissato una data», confida. Un anno fa sembrava tutto più facile. Le grandi operazioni militari americane d e l 2007-8 avevano fatto diminuire sangue e massacri ai minimi storici dalla guerra del 2003. Si sperava che le elezioni parlamentari dello scorso marzo avrebbero dato una qualche stabilità. Non è stato così. Il prolungarsi del braccio di ferro tra sciiti, sunniti e curdi per la formazione del nuovo governo è terminato solo una settimana fa e con esiti ancora molto incerti. Nel frattempo gli attentati, specie contro cristiani e sciiti, hanno riacceso le vecchie paure. La Hadid cerca di non parlare di politica. Ma non nasconde che il Paese è ancora immerso sino al collo in un «sacco di gravissimi problemi». Memore dei disastri degli ultimi trent’anni e dello sfascio urbanistico, l’architetto parla da professionista: occorre pianificare tutto da capo. «La prova del nove sta nella volontà del governo centrale di lanciare una nuova pianificazione urbana. L’Iraq necessita di un onnicomprensivo progetto di opere pubbliche che ripensi il Paese dalle macerie in cui è affondato».

La sfida è aperta. Nel 1991 lo scrittore e architetto Kanan Makiya appena fuggito a Londra dall’Iraq pubblicò un v olume, « I l Monumento», con lo pseudonimo di Samir al-Khalil in cui illustrava la grandiosità aggressiva e militaresca dell’architettura imposta da Saddam. Era una durissima critica contro gli Albert Speer iracheni. Vi si riprendeva il tema sempre attuale della strumentalizzazione del paesaggio urbano al servizio della dittatura. Oggi la Hadid vorrebbe davvero cambiare le coordinate di quel periodo. L’Iraq è in ginocchio. Ma non è un Paese del terzo mondo. Le scuole di artisti e scultori hanno riaperto. Le università funzionano. L’embargo internazionale è terminato. Si può volare a Bagdad direttamente da Parigi, Istanbul, Amman, il Kuwait e altri scali sono in apertura. Ecco la speranza: «Il governo vorrà ricostruire musei, teatri e biblioteche. Noi potremo esserci».

Reportage Dalle Marche al golfo di Venezia, tra scempi paesaggistici, idee folli e inquinamento. Il confronto, anche aspro, con le amministrazioni locali e i pescatori in difficoltà per il blocco ittico Spiagge di cemento, il nuovo look della costa Adriatica Quanto pesa l'industria del paesaggio nel calcolo del cosiddetto prodotto interno lordo?

Raggiungo, dalla stazione, il lungomare di Pesaro, felice di imbarcarmi su Goletta Verde ormeggiata nel porto canale. Mentre in lontananza già si intravedono le bandiere gialle di Legambiente, nella mia mente si addensano i ricordi della mia prima visita nella cittadina marchigiana. Era l'agosto di quasi cinquant'anni fa e, per amore di una ragazza, avevo lasciato Ravenna su una lambretta, quella con i due sedili, sfidando le insidie della statale 16.

Le nostalgiche immagini del lungomare di allora vengono rapidamente sopraffatte dall'invasione di cemento e asfalto che, in questi 50 anni, hanno via via occupato tutto, tanto da occultare il mare. Al posto delle baracche di legno e del piccolo bar, entrambi da rimuovere a fine stagione, oggi ci sono enormi stabilimenti in cemento che a seconda delle ore fungono da ristoranti, discoteche, addirittura stadi per i tornei di beach volley, trasformando il mare in un inutile optional. Il brutto sogno si è trasformato in realtà e anno dopo anno Goletta deve constatare che la costa adriatica è quasi totalmente occupata da una città lineare. Solo nelle Marche dei 180 km che separano San Benedetto del Tronto da Gabice, ben 98 risultano trasformati in case e infrastrutture. Quando arrivo al porto canale l'equipaggio di Goletta un po’ per ricordarmi che sono uno dei rappresentanti dell'invecchiamento del Paese, soprattutto per festeggiarmi mi ricorda gridando in coro "viva il nonno" che da due giorni nella mia vita è entrato il piccolo Jacopo. Deposito sacco a pelo e zaino e subito vengo catapultato in un dibattito su come bonificare il mare davanti a Pesaro dagli ordigni bellici che i tedeschi vi gettarono per non abbandonarli ai partigiani e all'esercito alleato. Sembra incredibile, ma nei nostri mari ci sono parecchie realtà come questa, tanto che è sorto un movimento che chiede la bonifica di questi siti, al quale Goletta Verde e Legambiente intendono dare sostegno e voce, promuovendo la campagna "Veleni di Stato".

La discussione è animata e si placa solo quando gli impegni di politici e amministratori appaiono sinceri. A notte fonda ripartiamo, per raggiungere Cervia la mattina dopo. Ci attende un confronto duro con la Giunta comunale accusata, dal nascente circolo di Legambiente, di aver lasciato mano libera alla speculazione edilizia. Conservo di Cervia ricordi bellissimi: alla fine degli anni 80 si svolse il primo sciopero ecologico da cui prese vita un grande movimento di popolo perla salvezza dell'Adriatico, assediato dalle alghe che coloravano il mare di viola e gli toglievano ossigeno e vita.

Il comune ci offre la sala dove discutere, ma si sottrae al confronto. Tanti protagonisti delle lotte di allora sono invece in sala e insieme a tante persone guardiamo sgomenti le immagini delle piccole e belle casette, che una volta si perdevano nella pineta, trasformate oggi in orrendi palazzi multipiano. Sempre più la campagna di Goletta Verde si sta trasformando in una denuncia dell'occupazione di suolo da parte di speculatori e amministratori compiacenti. Da quando la legge ha reso balneabile ogni spiaggia rendendo più permissivi i parametri della balneabilità abbiamo anche deciso di fare prelievi solo alla foce dei fiumi, che immancabilmente ci dicono che il carico di veleni che essi trasportano verso il mare aumenta anziché diminuire, a testimonianza dell'assenza di qualsiasi politica di prevenzione a monte in difesa dell'ecosistema marino.

La mancanza di risorse ci costringe ormai a una campagna frenetica che ci obbliga a lasciare Cervia e a navigare a vele spiegate verso Porto Garibaldi, dove dovremmo animare un confronto importante con i pescatori sulla campagna promossa per valorizzare il cosiddetto "pesce povero": acciughe sardine, anguille. I dati sulla riduzione degli stock ittici non solo giustificano ampiamente il fermo pesca di due mesi appena cominciato, ma anche la validità di questa campagna, che i racconti dei pescatori sul giro del mondo che il loro pescato deve fare prima di raggiungere il consumatore rende ancora più veritiera. Chiudiamo la discussione con una bella scorpacciata di alici e sardine fritte e con l'impegno a sostenere la lotta dei pescatori.

L'indomani è prevista la visita alle Valli del Comacchio, la vera perla del Parco del Delta. Ci incamminiamo fra gli stagni pieni di fenicotteri e subito si fa forte la sensazione che la vera ricchezza di questa terra è proprio il parco, per le meraviglie che fa vedere e godere. Quanto pesa, mi chiedo, l'industria della contemplazione, tutti quei beni che si guardano e non si consumano, in poche parole il paesaggio, nel calcolo del cosiddetto prodotto interno lordo e nella demenziale ossessione dei sacerdoti del dogma dell'eterna crescita? Evidentemente nulla visto che quando pensano alla ricchezza il loro pensiero non va al parco, ma corre alla nuova autostrada da progettare o ai nuovi palazzi da costruire. Non a caso proprio dentro il parco consumiamo il successivo blitz, andando a protestare contro l'idea folle di riconvertire a carbone l'inutile centrale di Porto Tolle. Siccome al peggio non c'è limite ecco che l'idiozia di autorizzare una centrale a carbone in un parco lascia l'oscar dell'ignoranza e demenzialità a ciò che si sta progettando di fare a Venezia e al suo lido, prossima tappa di Goletta. Per il secondo anno consegneremo la bandiera nera a chi sta cercando di distruggere Venezia, città simbolo delle meraviglie italiche. Non bastava il Mose, e la sua folle pretesa di fermare un mare. Adesso il commissario straordinario del consorzio Venezia Nuova, Spaziante, ha pensato di aggiungere ulteriore cementificazione, trasformando l'unico tratto libero del lido in un grande porto per mille posti barca, da circondare ovviamente con supermercati e negozi.

È sempre bene ricordare cosa evoca in questo paese la parola commissario: poteri di spesa attraverso ordinanze in modo da sfuggire ad ogni controllo della cittadinanza e vincolo dei comuni. In altre parole decenni di inchieste testimoniano che dal G8 della Maddalena al terremoto dellAquila, queste figure sono i punti di riferimento del malaffare e della corruzione. Consegneremo la bandiera nera attaccando da terra e dal mare. Rigorosamente vestiti di giallo i volontari di Legambiente invadono la spiaggia del lido, mentre Goletta sopraggiunge dal mare e li saluta a sirene spiegate. In pochi minuti si aggiungono tantissime persone venute al lido a godersi la meravigliosa giornata di sole. Tre volontari liberano in mare mille barchette di carta a simboleggiare cosa potrebbe diventare il lido se non si impedirà la costruzione del porto. Spaziante non è venuto, ma gli verrà consegnata dal circolo di Legambiente Venezia e dai tanti cittadini che hanno solidarizzato con la nostra protesta e si sono dichiarati pronti a darci una mano per impedire l'ennesimo scempio.

Il viaggio termina qui con un breve giro di Goletta lungo il canal grande fino a Piazza San Marco. Dai nostri occhi scompare l'orrendo spettacolo dei vari cantieri del lido per riempirsi delle meraviglie di quella che io considero la più prodigiosa ed ingegnosa occupazione di suolo mai pensata. Non so se ce la faremo a salvare queste meraviglie, ma l'indignazione che serpeggiava negli occhi delle tante cittarline-i che si sono unite alla nostra protesta ci fa dire che ce la metteremo tutta per disturbare il manovratore.

Mentre tutto va male nel mondo economico, ci siamo dimenticati che dai palazzi vaticani arriva la buona notizia che stiamo per diventare (in ottobre) 7 miliardi. Per di più, e meglio ancora, arriva anche una nuova previsione demografica. Finora si stimava che nel 2050 saremmo arrivati a 9 miliardi, per poi cominciare a decrescere. Ma oggi la stima è diventata che a fine secolo, nel 2100, saremo 10 miliardi. È anche perché l'Aids è diventato controllabile e non ucciderà più come prima. Ma è anche per merito (o per colpa) della Chiesa cattolica che si ostina – pressoché sola tra tutte le religioni – a proibire i contraccettivi e a demonizzare il controllo delle nascite.

Eppure la nuova proiezione dei dieci miliardi è terrorizzante. Anche perché il sovraccarico demografico colpirà soprattutto l'Africa. Per fortuna per fine secolo la popolazione cinese scenderà a quota 950 milioni, e anche se l'India dovrebbe salire da 1 miliardo e 200 milioni di oggi a più di un miliardo e 500 milioni, anche così il totale dei due colossi asiatici rimarrebbe invariato. Invece l'Africa è davvero votata al disastro. Quest'anno la zona in crisi di siccità e di cibo è il Corno d'Africa; ma lo è da parecchio, si tratta di una crisi ricorrente. Che ricorre un po' dappertutto. Ma la proiezione che più spaventa è quella della Nigeria, che dai 150 milioni di oggi dovrebbe addirittura salire a 730 milioni. Follia suicida? Certo. Ma la stessa follia è diffusa in tutta l'area, fino al Sud Africa.

Aggiungi che i dati demografici non dicono tutto. Di tanto un Paese povero si sviluppa davvero, di altrettanto aumentano i consumi pro capite: consumi di cibo ma anche di comodità di vita. Chi non ha mai visto la luce elettrica, ora la vuole; chi ha sofferto il freddo dell'inverno e il caldo dell'estate ora vuole riscaldamento e condizionatori; chi va in bicicletta aspira a una motocicletta; chi mangiava solo riso ora vuole anche carne. Quindi l'aumento demografico comporta aumenti moltiplicati di cibo e di comodità. È giusto. Ma il «carico ecologico» diventa così sempre più insostenibile. L'altra faccia del problema è che la sovrappopolazione fa salire l'inquinamento e anche il riscaldamento dell'aria. Per il 2100 l'aumento dovrebbe essere di 4 gradi con effetti sconvolgenti sul clima e anche sul livello del mare.

E mentre l'acqua salata cresce, l'acqua dolce diminuisce. Ovunque le falde acquifere che alimentano l'agricoltura si assottigliano (scendono) da decenni. Cina e India possono ancora contare sui fiumi alimentati dai ghiacciai dell'Himalaya; ma il granaio del mondo, gli Stati Uniti, dipende in buona parte dalle falde acquifere di Ogallala, che oramai si abbassano tra i trenta e i novanta centimetri l'anno.

Che fare? Io dico che la crescita demografica va fermata ad ogni costo. Ma nessuno osa dirlo; l'argomento è proibito. Tutti o quasi tutti invocano la tecnologia e le sue scoperte. Ma non c'è tecnologia che basti e che ci salvi con dieci miliardi di viventi.

postilla

e se ci potesse mettere una piccola grande pezza (anche) una intelligente politica urbana? Non solo da lustri la povera sottofinanziata e decadente scienza occidentale ci spiega che la città correttamente pianificata (non lo slum globale in fondo amato dai finanzieri) ha una impronta ecologica e un consumo energetico proporzionalmente inferiore a quella di insediamenti tradizionali. Non solo anche le attività agricole che oggi degradano il territorio troverebbero spazio qualificato e ruolo virtuoso nei contesti urbani post-moderni. Ma soprattutto, come ci insegna la storia, la società urbana fabbrica automaticamente meno figli, paternità e maternità cosiddette responsabili, ovvero meno automaticamente legate all’atavico istinto dell’accoppiamento (se mi si consente di semplificare così la faccenduola), e meno legate alla pure atavica idea della famiglia autoritaria e patriarcale, della progenie come braccia per i campi, del brulicare di sudditi come simbolo di potere. Paiono sciocchezze, ma sarebbero sciocchezze storicamente confermate, no? (f.b.)

Un Paese addormentato Che risveglio può esserci oggi dopo trent’anni di fascismo blando e di cui tutti si è stati, più o meno, partecipi e consenzienti? La grande ipocrisia Tutti portiamo qualche responsabilità: per lo stile di vita che abbiamo accettato, approvato e solo a parole rifiutato

I moderni alligatori dell’economia, della politica, della scuola, dei media sanno bene che il cibo per loro non mancherà mai. Nemmeno ora che la crisi imporrebbe a tutti un prezzo da pagare Il vento della crisi dovrebbe farci ricordare alcune semplici cose: che una qualche responsabilità la portiamo tutti, per l’adesione allo stile di vita (l’idolatria del Mercato e le sue conseguenze) che abbiamo accettato, e approvato anche quando a parole ce ne dichiaravamo nemici; che la crisi è il prodotto di un “pensiero unico”, di un’ideologia dell’economia e dello sviluppo assolutamente bipartisan. Ci sono gradi di responsabilità diversi, certo, e se per alcuni il vento della crisi dovrebbe significare, né più né meno, un allontanamento dalle responsabilità pubbliche, per altri dovrebbe quantomeno significare un’autocritica che certamente non ci sarà.

Sull’ultimo numero della rivista «Lo straniero» abbiamo ripescato un vecchio articolo di Carlo Levi del 20 ottobre 1945, a sei mesi dalla Liberazione, intitolato Quattro tesi sull’epurazione, di eccezionale saggezza e lungimiranza, ben comprensibile avendo Levi scritto in quegli anni il più bel romanzo politico italiano dopo I promessi sposi, L’orologio, che, almeno a sinistra, tutti dovrebbero aver letto. Allora l’epurazione intese salvare, dice Levi, l’economia, risparmiando le «attività destinate a rimanere nell’orbita del diritto privato» e considerandola tra quelle, mentre era proprio su quelle che bisognava puntare, insieme ai campi dell’amministrazione, dell’esercito e della cultura «che sono, ancora oggi, particolarmente pericolosi», allontanando «dagli impieghi e dagli incarichi tutti coloro che approfittando del fascismo, li hanno ottenuti senza avere la necessaria capacità, e che perciò costituiscono un peso morto per lo Stato e per la vita del paese» (e insisteva sulla scuola, sull’Università, sulla cultura).

«L’epurazione non può essere un fatto moralistico: non è una vendetta, né una punizione. Averla intrapresa con questo spirito è stata la causa del suo fallimento. (...) Singolarmente molti fascisti possono essere più stimabili di molti che non lo sono stati; ed è cosa grave, e impossibile, il giudizio su un uomo», eppure l’epurazione è una misura necessaria, se condotta con saggezza e guardando alle responsabilità vere e maggiori nel disastro in cui chi ha gestito il potere ha precipitato il Paese. «Allontanati i fascisti e gli incompetenti dall’alta burocrazia statale, dall’esercito, dalle università e dai centri del potere economico, industriale, commerciale e agrario; colpiti con i tribunali i rei di delitti; tolti, almeno per le elezioni alla Costituente, i diritti di voto e di eleggibilità a tutti coloro che hanno avuto cariche fasciste, il processo epurativo non dovrebbe estendersi oltre, e dovrebbe rapidamente cessare».

Sarebbe necessaria anche oggi, questo tipo di epurazione? Forse sì, ma naturalmente a tutto assisteremo meno che a questo. Il risveglio del Paese e lo spirito della democrazia e della ricostruzione vennero, nel ’45, dopo vent’anni di dittatura di cui sette di guerra mondiale e due di guerra civile, dopo anni di lacrime e sangue, ma che risveglio può esserci oggi, dopo trent’anni di fascismo blando che ha avuto la sua legittimazione dal benessere e dalla manipolazione mediatici e di cui tutti si è stati, più o meno, partecipi e consenzienti? E dove sarebbero le “forze di ricambio”, dove pescarle? Le stesse facce di sempre continueranno a “rappresentarci” nel mondo, rappresentando al peggio tutte le nostre ipocrisie sul grande palcoscenico della politica, insieme a quelle dei loro figli, magari “ribelli” per qualche mese (per farsi le ossa e aver più valore nel mercato dei voti).

Non è vero che i coccodrilli piangono dopo aver divorato una o più vittime, tanto meno i coccodrilli dell’economia, della politica, dei media, della scuola. Alcuni si sono specializzati nel “far finta” anche in questo caso, con i loro romanzi buonisti e le loro messe in guardia dalla rivolta (nel linguaggio delle classi dirigenti il ripudio della violenza significa non ribellarsi mai a niente), altri non hanno mai trascurato l’arte della predica e della denuncia, così redditizie sul mercato giornalistico, televisivo, librario. Le lacrime dei coccodrilli sono una reazione fisiologica al troppo mangiare, e i coccodrilli moderni sanno benissimo che loro non mancheranno mai di cibo, e in abbondanza, che avranno sempre di che triturare riducendoci ai loro voleri e facendo pagare a noi che non siamo classe dirigente la crisi che hanno provocato e a cui pretendono di esser loro a porre rimedio senza nulla cambiare delle consuete ricette.

Quella presentata da Berlusconi e dalla sua cricca al governo non è una manovra economica per consentire all'Italia di rimettere in sesto i suoi disastrati conti: è un golpe e nulla ha che vedere con le tante precedenti manovre a cui siamo stati abituati, finalizzate a spostare crescenti risorse dai salari e dalle pensioni ai profitti e alle rendite. Con quegli strumenti il 10 per cento della ricchezza era già stato dirottato dal lavoro al capitale, ma oggi sta avvenendo qualcosa di molto più grave. Con un colpo di teatro il potere che viene concentrato nelle mani di pochi, strappando per decreto alle vittime dell'esproprio proprietario i diritti fondamentali, persino quello alla difesa. Un Berlusconi nascosto vilmente dietro l'Europa, un Tremonti grondante sangue altrui, un Sacconi armato dalla Confindustria e garantito dal servizio d'ordine dei sindacati complici, hanno approfittato di una crisi drammatica che porta la loro firma per ridisegnare i rapporti di forza.

Viene stravolta la Costituzione, oltre che per trasformare in totem il pareggio di bilancio, per armare le imprese, liberandole da quelli che chiamano "lacci e lacciuoli" ma in italiano si traducono con democrazia: il permesso di licenziare quando come e chi vogliono cancellando con l'articolo 18 l'intero Statuto dei lavoratori; il permesso di scegliersi i sindacati a cui dare ordini, dopo aver ammutolito i lavoratori; la possibilità di cancellare il contratto nazionale, sostituito dai contratti aziendali. Vi basta? No, alla Fiat non bastava e allora gli sceriffi di Nottingham truccati da Robin Hood rendono retroattivi questi privilegi di classe per santificare i misfatti di Pomigliano, Mirafiori e Bertone.

Così viene giustiziato chi chiede giustizia e ridotto al silenzio il giudice che dovrebbe garantirla. Ecco dunque che alla ossificazione del welfare e alla svendita dei beni comuni, alle privatizzazioni, allo schiaffo ai dipendenti pubblici e privati, ai giovani, ai precari, ai pensionati, si accompagna la cancellazione per decreto di un secolo di compromessi democratici che avevano garantito forme di equilibrio e tutele nel conflitto capitale-lavoro. Se per l'aggressione economica ai danni dei più deboli il governo si nasconde dietro il liberatorio "ce lo chiede l'Europa", per giustificare l'aggressione ideologica ai diritti del lavoro chiama in causa le parti sociali: "ce lo hanno chiesto loro" con l'avviso comune, siglato questa volta anche dalla Cgil.

La categoria del tradimento è estranea alla storia di questo giornale, preferiamo apparire ingenui e ammettere di non capire il senso di quell'infelice firma apposta da Susanna Camusso in calce a un accordo che asfaltava la strada alla controrivoluzione reazionaria. Se nella crisi democratica, che fa traballare il futuro del paese più ancora della crisi economica, dovesse affiancarsi la perdita di una rappresentanza sociale alla perdita già consumata della rappresentanza politica, la risposta del malessere sociale di un paese non pacificato potrebbe manifestarsi in forme spurie, disperate. Basta guardarsi in giro per rendersi conto di come i tumulti abbiano preso il posto della protesta novecentesca, quando c'erano ancora partiti, sindacati e movimenti a dare una prospettiva e una speranza alla società. In Italia c'è ancora un filo rosso, sottile, che può tenerci legati a un'idea forte di democrazia. Non spezziamolo. Una delle tante cose necessarie a non spezzarlo è il ritiro della firma della Cgil da un progetto subalterno e suicida e indire lo sciopero generali.

Prima di raccontare il disastro (artistico?) di Gibellina, prima di chiedere alla Regione Siciliana di restituire la Venere di Morgantina al Getty Museum di Los Angeles, vorrei invitare chi crede in Dio a pregare per Saiful Islam, il giovane del Bangladesh che ha ucciso a coltellate Ludovico Corrao, il suo generoso principe, che certamente gli voleva bene.

E vorrei invitare chi crede nell´uomo a riflettere su questo nuovo «pulviscolo sociale» direbbe Marx, questo sottoproletariato composto in Italia dai badanti sessuali del Terzo Mondo, ragazzi belli e forti senza diritti, neppure quello alla pietà.

A Gibellina tutti sanno che Saiful era l´ombra del senatore, il suo bastone da passeggio. Al geniale Corrao piaceva camminare con quel ragazzo che stava lì da quando aveva 12 anni. Mi raccontano che il sontuoso senatore aveva insegnato a Saiful che bisogna tenere le mani sempre libere – e sembra di vederli avanzare sulle pietre di Gibellina – per far meglio ondeggiare le spalle mentre si cammina «come le mangrovie sul Delta del Gange, dove non è mai fatica dondolarsi e intanto stare con le radici dentro l´acqua e abbracciare con lo sguardo l´orizzonte». Anche Garibaldi aveva la sua ombra nera, un ex schiavo di Montevideo, Andreas Adujar, che, negli ultimi istanti di vita, il generale fece colonnello. C´è sempre un guerriero che copre le spalle a un generale.

Adesso che Corrao è stato seppellito e Saiful ha cercato il suicidio sbattendo la testa sul cancello del carcere di Marsala, a Gibellina anche le famose opere d´arte sono più spettrali e persino la «follia urbanistico-architettonica condita da salsa artistica», come la definì Federico Zeri, ha perduto anche la velleità, la pretesa di incantare. Perché c´è sicuramente un rapporto tra le erbacce che hanno sfondato il cretto di Burri, tra la ruggine che se lo sta mangiando e quelle coltellate sul vecchio corpo stanco della questione meridionale che Saiful, prima di colpire, ha ancora una volta lavato. È il sud del sud il Bangladesh in Italia, ma solo in Sicilia il Bangladesh è il misero che fa sentire ricco il povero.

Sono stato a Gibellina tante volte. La prima, subito dopo il Grande Evento, nel gennaio del 1968. Ero giovanissimo e volevo vedere e dare una mano. Ci sono tornato negli anni dell´immaginazione al potere e dei professori di architettura. A Gibellina ho imparato che anche le rovine possono andare in rovina, e che la rinascita del Belice è un miracolo sempre rimandato. E oggi che Corrao è morto e la sua utopia è stata giustamente celebrata dalla cultura, dalla politica e dalla chiesa, tutti dovrebbero andare a vedere come è ridotta la città che ha tormentato gli intellettuali siciliani, com´è più invasiva la spazzatura e come sono più tristi, tra i Consagra e i Purini, le baracche provvisorie che sono diventate ambiente e natura. Le opere commissionate da Corrao sono state mostrificate dal tempo e dall´avanzare del contesto ma non hanno il fascino dei mostri di Bagheria. Il sottosviluppo, l´arretratezza e la marginalità non sono stati riscattati ma al contrario esaltati da Samonà e da Venezia, da Pomodoro, Mendini, Salvatore, Franchina, Colla, Spagnuolo, Melotti, Cascella. La prima volta che vidi ‘il giardino dei profumi´ - un miliardo e mezzo di lire - era ricco di rosmarino, salvia, menta, piante mediterranee... In due anni divenne tutto secco, pietre friabili, terra arida e puzza. E le costruzioni sono gabbie razionaliste spesso transennate e meridionalizzate, tra scheletri di elettrodomestici, buste di plastica volanti, crolli, opere mai completate e opere corrose, sfinite.

Corrao, con le sue Orestiadi e con i suoi mantelli neri, era il notabile di questa idea di bellezza salvifica. Una volta, quando tornai a Gibellina perché era crollata la chiesa del Quaroni, gli chiesi perché non aveva chiamato gli ingegneri idraulici invece degli artisti e dei professori di architettura e mi rispose con le tante belle cose che sapeva dire bene, gli spiriti maligni, gli scarafaggi neri, le nuvole … A Gibellina ci sono i collezionisti dei testi dei suoi comizi. Padrone di casa del terremoto come risorsa, come grande evento, Corrao era sempre divertito e mai appagato.

Era un ‘terremoto’ pure lui. Il bianco dei lini e del panama non lo avrebbe notato nessuno se non si fosse incastonato sul nero del malessere che non è solo geografico in quella terra: i fotografi, ancora oggi, in Sicilia lavorano quasi esclusivamente con il bianco e nero. E fu un terremoto prima del terremoto il passaggio di Corrao dalla Dc degli agrari e di Scelba al Pci dei capi contadini, verso l´intrallazzo del milazzismo (1958 e 1959) che giustamente per Sciascia fu un orrore di immoralità. Pensate: il peggio della Dc di allora, insieme con il Msi e il Pci. Veri fascisti mussoliniani e veri comunisti stalinisti agli ordini di una pattuglia di veri democristiani che letteralmente compravano i deputati regionali e assoldarono pure qualche mafioso.

Il terremoto cambiò la mente e l´abito di tutti, non di Corrao che era già un sottosopra. E il terremoto mise in subbuglio anche le libido nel Belice: si sa che dopo la catastrofe il sesso diventa un bene rifugio. Finalmente gli dissi, e litigammo, che l´arte mi pareva un pretesto, una scusa per l´Evento, per far suonare la banda, per attirare il forestiero, l´esteta della miseria, «cacche d´artista – provocai – per mosche fameliche, finanziamenti inghiottiti dalla burocrazia e dalla corruzione, l´arte come immunità e come impunità». L´importante è fare una bella festa, accogliere il conquistatore, una giornata di gloria e poi si torna al niente, «poca vita, sempre quella» canta Lucio Dalla: l´Evento, senza misura e senza temperanza, è la disgrazia del Sud, da secoli fuori mano.

Andate, per esempio, a ripescare su Youtube l´arrivo della Venere di Morgantina ad Aidone. Sembra il trionfo di Bocca di Rosa, o di Berlusconi a Lampedusa: i sindaci con le fasce tricolori, i gonfaloni, la banda, fiori e chiasso e facce sdentate, un´antropologia da nomenclatura sovietica, il sottosviluppo di piazza, la Sicilia di Baaria, la bocca aperta e lo schiamazzo delle feste patronali, il bisogno del miracolo e degli imbonitori, della Venere che torna dal Los Angeles come lo zio d´America. Parla anche di questo il fallimento dell´architettura di Gibellina: c´è il mito antico dell´uomo che viene da fuori, dell´uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore, ma anche una statua, uno scultore di cretti, purché venga appunto da fuori nel Sud che dentro di sé non trova pace.

Ovviamente anche la Venere è stata inghiottita dalla decadenza alla spicciolata. Sono stato a vederla il mese scorso. Ho posteggiato l´auto davanti all´ingresso principale del museo, ho contato in quel giorno tredici visitatori. Ad Aidone la Venere è chiamata "la dea", forse perché è più giunonica che erotica. Grande e imponente sembra in prigione in quella stanzetta bianca. A Los Angeles era onorata dal mondo, la più vista, la più cercata. Esportata in America dai tombaroli che l´avevano disseppellita è come se fosse stata di nuovo seppellita ad Aidone.

Nella cameretta accanto ci sono gli acroliti, chissà perché vestiti con un tristissimo scialle grigio dalla stilista Marella Ferrera. Il museo è ricco dei reperti che i tombaroli hanno scartato. Il barone Vincenzo Cammarata, un numismatico che gira con le monete antiche in tasca e che per il trafugamento della Venere fu arrestato, parlò in un´intervista di tre statue, poi chiese scusa, disse che si era sbagliato: boh.

Ogni tanto la polizia fa irruzione in case private che sembrano musei, a Enna, a Catania, a Palermo e chissà dove. La Venere fu portata in Svizzera e poi in America, dove forse dovrebbe tornare. Sicuramente aveva ragione Francesco Rutelli, allora ministro dei Beni culturali, che fortissimamente la voleva a Roma. E inutilmente il presidente Giorgio Napolitano offrì il Quirinale. La Venere merita di essere di nuovo disseppellita e magari ceduta in affitto. Purché sia restituita al mondo.

L'Accademia della Crusca è l'istituto, ospitato in una villa medicea presso Firenze, che cura e vigila sulla lingua italiana dal 1612. Per i 150 anni del nostro paese si sono sprecate le affermazioni sull'importanza dell'italiano come elemento che ha legato un territorio diviso. Ora la Crusca rischia di venir soppressa con la manovra: è tra gli enti con meno di 70 dipendenti insieme all'Istituto per l'Africa e l'Oriente, quel che rimane del Coni e altri istituti.

A rischio anche la storica Accademia della Crusca di Firenze: è infatti uno degli enti, una trentina in tutto, che sono sotto i 70 dipendenti e dunque che potrebbe rientrare nella norma della manovra varata ieri dal consiglio dei ministri. Nella stessa situazione ci sarebbero anche l'Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente, l'Agenzia per il Terzo Settore, il Museo Storico della Fisica e quel che è rimasto del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, il Coni, dopo la privatizzazione dell'ente. Nel decreto legge non c'è una indicazione precisa degli enti che potrebbe essere fatta in un secondo momento con un provvedimento ad hoc.

Nicoletta Maraschio, docente universitaria e presidente dell'Accademia, è incredula: “Non posso credere che la cancelleranno”.

Professoressa, stando alla manovra voi siete candidati a sparire.

Non posso credere che lo faranno davvero. Non si sapeva se l'Accademia era davvero nell'elenco, invece pare di sì. Nel 2009 Brunetta e Calderoli la salvarono tirandola fuori dall'elenco degli enti inutili, ora non se si farà riferimento a un decreto legge di dicembre che ne riprende uno del 2009. Fatto sta che siamo tra gli enti non economici con meno di 70 dipendenti.

Quanti siete?

Abbiamo 6 dipendenti, tre in biblioteca e tre in segreteria. Poi gli accademici che saranno più di 50 studiosi di tutto il mondo, e che lavorano a titolo gratuito, come me. Poi abbiamo i collaboratori che vivono in condizioni di totale precarietà con contratti a progetto in base ai soldi che troviamo. Variano da 20-30 persone e sono quelli che concretamente mantengono il sito, digitalizzano le opere, aggiornano l'archivio e così via.

Cosa vi servirebbe?

Da tre anni cerchiamo di avere una legge apposita che definisca una nostra natura giuridica pubblica e preveda una dotazione ordinaria, finora non ci siamo riusciti. Noi e i Lincei di Roma siamo le uniche accademie pubbliche italiane: non credo loro abbiano 70 dipendenti ma hanno una legge che forse li tutela. Non posso credere che il governo cancelli un'istituzione secolare come la Crusca legata al nostro vocabolario, che è un riferimento fondamentale per l'italiano dal 1612 a e oggi siamo un istituto di ricerca attivo in tutti i settori. Vedremo se hanno il coraggio di farlo.

Quale è il vostro ruolo?

Tutti i paesi del mondo hanno un'istituzione che si occupa della lingua nazionale. Questo è nostro ruolo da secoli e abbiamo fatto da modello per gli altri paesi. Cancellare la Crusca cosa significa? Nel 2011 si è detto e ridetto che la lingua è il collante fondamentale e l'identità in un paese diviso socialmente e linguisticamente. E si cancella l'istituzione che è garante della lingua?

Siete un ente che spreca soldi?

(scoppia in una sonora risata, ndr). Passo il tempo in accademia, non prendo un euro, è un lavoro volontario come quello degli accademici. Dal ministero dei Beni culturali riceviamo circa 190mila euro. Tutti gli altri soldi, oltre un milione di euro, li dobbiamo trovare noi attraverso rapporti con enti, istituzioni, grazie all'associazione degli Amici della Crusca, con una convenzione con Cnr, con il contributo annuale della Regione (per il 2011 darà 200mila euro). Attraverso un lavoro enorme nostro ci procuriamo soldi per sopravvivere ma senza poter programmare il futuro: sono sicura dei soldi fino al 31 dicembre ma dopo non so cosa succederà. Se mi arrivassero solo i fondi del ministero, allora non importerebbe nemmeno fare il decreto, chiuderemmo.

Qualche anno fa Romano Prodi si è felicitato di aver fatto l’unità dell’Europa cominciando dalla moneta. Se avessimo cominciato dalla politica – è stato il suo argomento – non ci saremmo arrivati mai data la storica rissosità dei singoli stati. Mi domando se lo ripeterebbe oggi. È vero che la moneta unica, l’euro, c’è ed è diventata la seconda moneta internazionale del mondo, ma lui medesimo, che aveva a lungo diretto la Commissione, Jacques Delors, che l’aveva preceduto – nonché Felipe Gonzales, presidente all’epoca del governo spagnolo ed altri minori responsabili di quegli anni – hanno scritto sabato su Le Monde un preoccupato testo sul suo destino. Quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono indebitati fino agli occhi e sono entrati in una zona di turbolenza pericolosa per tutto il continente. Soprattutto i padri dell’euro riconoscono che “certe misure” che si sarebbero dovute prendere a suo tempo, “come un coordinamento delle politiche economiche”, non sono state prese e “si stanno elaborando oggi" e “nel dolore”. Di furia, perché siamo alle strette. Se ho capito bene, si tratta di alleggerire il debito greco con l’emissione di Eurobonds che se ne assumono una parte a lunga scadenza (e senza specularci sopra come hanno fatto le banche tedesche e francesi) e poi andare a un programma economico di tutti i paesi europei che cessi di lasciare ciascuno a cavarsela da sé. E non getti sui cittadini greci tutto il “dolore” e il peso del rientro del debito e della ricostruzione di una economia. Paghino una parte del conto “i grossi investitori istituzionali”, cioè le banche estere hanno investito a rischio, e il rischio è il loro mestiere.

Parole prudenti, ma sufficienti, penso, a non trovare l’accordo dei paesi che si riuniranno giovedì 21 a Bruxelles – per cui la Germania sarebbe stata incline a prendere più tempo. Un suo illustre economista sostiene, una pagina più in là, che bisogna invece mettere la Grecia temporaneamente fuori dall’euro a spicciarsela con le sue dracme, una loro energica svalutazione e senza l’aiuto degli Eurobonds. È la linea liberista. Che si incrocia, in tutt’altra prospettiva, con quella di Amartya Sen, di alcuni economisti e sociologi francesi come Jacques Sapir e Emmanuel Todd e di politici di sinistra come Mélenchon e una parte dell’amletico Partito socialista, e dell’estrema destra di Marine Le Pen – via dall’euro e per sempre.

Non so – non trovando traccia delle procedure di abbandono dell’euro nelle varie bozze di trattati – se sia fattibile né ho capito in che cosa migliorerebbe le condizioni della Grecia un ripescaggio della dracma; la poderosa svalutazione si accompagnerebbe, certo, a una maggiore possibilità di esportare i suoi prodotti (ammesso che ne abbia di appetibili oltre il turismo) ma anche a un aumento, di proporzioni pari, del debito con le banche tedesche. O sbaglio?

Sta di fatto che alla vigilia del ventesimo compleanno della moneta europea, il giudizio su che fare è una cacofonia. Non a caso l’appello di cui sopra chiama prima di tutto ad avere “una visione chiara” e condivisa dello stato dell’Europa. Sarebbe stato utile arrivarci prima e non con il coltello alla gola. Oltre alla Grecia infatti, Portogallo, Spagna e Italia hanno accumulato un indebitamento pubblico mostruoso e vacillano sotto l’occhio spietato e non disinteressato delle agenzie di rating. Per il patto di stabilità non si dovrebbe superare il 60 per cento del Pil mentre noi, per esempio, siamo al 120. Ma la nostra economia appare in stato ben migliore di quella greca e, cosa che conta, il nostro indebitamento è soprattutto all’interno, non ci sono banche tedesche che ci ringhiano addosso.

Per cui anche se Moody ci abbassa la pagella, la Commissione si limita a ordinarci cure da cavallo, tipo la manovra votata a velocità supersonica qualche giorno fa, per “rientrare”. La cui filosofia è uguale per tutti: tagli alla spesa pubblica (scuole ospedali e amministrazioni locali in testa), vendita di tutto il vendibile (perché la Grecia non cederebbe il Partenone a Las Vegas?), privatizzare il privatizzabile, cancellazione dello stesso concetto di “bene pubblico”. Il governo greco, naturalmente di unità nazionale come tutti quelli delle catastrofi, è andato già a un taglio del 10 per cento dei salari e delle pensioni, e la collera e le manifestazioni della gente vengono dalla disperazione. E già per l’euro è un sisma.

Forse non è inutile ricordare che fra pochi giorni, il 2 agosto, gli Stati Uniti si troveranno, mutatis i molti mutandis, nella situazione greca di non poter pagare i salari né onorare le proprie fatture, perché il debito pubblico ha superato il tetto imposto dalla legge. Se non ché a innalzare quel tetto basta un accordo fra i democratici e i repubblicani, che finora lo hanno negato. Nessuno stato europeo può invece spostare da solo il patto di stabilità. Più che consolarsi sulle vaghe analogie sarà meglio chiedersi se questi indebitamenti dell’ex ricco occidente non abbiano qualche radice comune.

Mi rivolgo a chi ne sa più di me, cioè agli amici economisti e ai padri e ai padrini (di battesimo, in senso cattolico) della Ue, nella speranza che rispondano ad alcune altre domande che a una cittadina di media cultura si presentano ormai impietosamente. Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?

La prima domanda è come mai i padri dell’euro si erano convinti che un’unificazione della moneta sarebbe stata di per sé unificatrice di un’area vasta di paesi dalla struttura economica così diversa per qualità e robustezza. Tanto convinti da non avere previsto misure di recupero per chi non riuscisse a stare nel patto di stabilità. Non è forse che consideravano impensabile che la mano invisibile del mercato non riuscisse ad allineare a medio termine le economie di questi paesi? Per cui bastava affidarsi a una politica monetaria e attentamente deflazionista – linea che la Bce ha fedelmente seguito – per garantirne il successo? L’euro e la Ue sono nati in quella fede nel liberismo, che von Hajek aveva ripreso, proprio prima della guerra, contro la politica rooseveltiana seguita al 1929 e le proposte di Beveridge e di Keynes di trarre da quella crisi la consapevolezza del pericolo che rappresenta una frattura economica e sociale profonda, trovarsi di fronte una destra populista come quella che negli anni ’30 si sviluppò, oltre il fascismo, nel Terzo Reich di Hitler, nella Grecia di Metaxas e nella Spagna di Franco? Non era necessario evitarla andando a un vero compromesso fra le parti sociali, costringendo i governi a (mi sia premesso il gioco di parole) costringere il capitale a cedere una parte meno iniqua del profitto alla monodopera, in modo da: a) garantirsi una certa pace sociale (c’era ancora di fronte l’Urss che aveva fatto arretrare i tedeschi a Stalingrado); b) garantire un potere d’acquisto di massa per una produzione di massa (fordista)? Le costituzioni e le politche dei governi europei del secondo dopoguerra andarono, più o meno, tutte in questa direzione.

Dalla quale la Ue svoltava decisamente.Tre anni prima era caduto il Muro di Berlino, e i partiti di sinistra e i sindacati avrebbero seguito, più o meno convinti, la strada. I conti della scelta liberista ci sono oggi davanti agli occhi. Al di là degli effettivi successi in campo giuridico in tema di diritti umani, non è forse vero che, malgrado le enfatiche dichiarazioni, i vari trattati, quello di Nizza incluso, registrano un arretramento dei diritti sociali rispetto ai Trenta Gloriosi? Probabilmente si riteneva che costassero troppo: nessuno è stato eloquente su questo punto come il New Labour di Tony Blair. Sta di fatto che, dichiarando nobilmente la piena libertà di circolazione delle persone, delle imprese e dei capitali, messi sullo stesso piano, la Ue dava libero corso alla finanza, alle delocalizzazioni e assestava ai lavoratori una botta epocale.

Cittadini, imprese e capitali non sono infatti soggetti della stessa natura, e non hanno la stessa libertà di movimento. Altra cosa è spostarsi in Lituania per il salariato di una impresa lombarda ed altra per la sua impresa andarvi in cerca di dipendenti da pagare di meno. E ancora altra lo spostarsi virtuale di un quotato in borsa da Milano a Tokyo. Ma non stiamo a fare filosofia. Con la Ue cessava infatti ogni controllo sul movimento dei capitali in entrata e in uscita, non solo da parte di ogni singolo stato ma del continente; e siccome in Europa i lavoratori avevano raggiunto collettivamente un salario più alto e una normativa migliore che nel resto del mondo, i capitali scoprivano presto che potevano ottenere dalle operazioni finanziarie un profitto assai più ingente di quello che si poteva ottenere dagli investimenti nella produzione, materiale o immateriale che fosse. La finanza ha preso un ritmo di crescita senza precedenti, le sue figure si sono moltiplicate inanellandosi su se stesse fino a perdere ogni base effettiva, abbiamo scoperto parole suggestive, come i fondi sovrani, i trader, gli asset, i futures, e capito meglio a che e a chi servisse un paradiso fiscale, la Ue liberista apriva insomma il varco a manipolazioni non illegali ma mai conosciute prima, le stesse che gonfiandosi hanno formato la grandiosa bolla finanziaria scoppiata nel 2008. Nella quale gli stati sono dovuti intervenire con i soldi pubblici per evitare il crollo delle banche (una, la Lehman Brothers, è colata a picco) e dei relativi e ignari depositari. Coloro che erano stati consigliati di comperare una casa dall’allegria finanziaria delle banche stesse si sono trovati per strada. Un trader più esperto dei suoi superiori ha fatto perdere cinquecento milioni di euro alla antica Sociéte Générale, per amore della mirabolante professione, senza mettersi in tasca un quattrino. Alcuni imbroglioni hanno fatto miliardi, uno di loro, Madoff, s’è fatto pescare. Il G20 e il G21, riuniti in fretta, hanno innalzato lamenti, denunciato la finanza, inneggiato all’intervento dello Stato, denigrato fino un mese prima, deprecato l’esistenza dei paradisi fiscali e si sono fin giurati di ridare “moralità” al capitale. Ma tutto è tornato come prima, neppure l’obiettivo più semplice, chiudere con i paradisi fiscali, è stato realizzato. L’investimento nella finanza resta golosissimo.

Sulla stessa linea, i capitali che restavano nella produzione scoprivano che avrebbero realizzato ben altri profitti se avessero spostato le loro imprese fuori dall’Europa occidentale, dove imperversano ancora, sebbene assai allentati, i “lacci e lacciuoli” e la “rigidità” del lavoro. Così succede, per offrire qualche esempio, che un gruppetto bresciano si sia acquistato in Francia una vecchia e gloriosa marca di piccoli elettrodomestici per portarla in Tunisia (prima della rivolta). Che un miliardario indiano si sia acquistato le residue acciaierie d’Europa per chiuderle, restando solo sul mercato con l’azienda paterna. I governi non si permettono più di intervenire sulle parti sociali, correndo dietro ai capitali e mettendogli il sale sulla coda con agevolazioni e detassazioni. Chi non sa che una impresa paga meno tasse di quanto debba pagare un salariaro? Se poi è una multinazionale del petrolio, come la Total, che è insediata in diversi paesi, può succedere che in Francia non paghi nulla.

Infine, il capitale ha avuto più intelligenza delle sinistre nel puntare sul trasferimento del lavoro in tecnologia. Poteva essere un enorme risparmio di fatica e un enorme aumento della produttività della manodopera, ma è solo servito a ridurla. Può sorprendere che in tutta Europa i disoccupati superino oggi i cento milioni? Che il 21 per cento dei giovani non trovi lavoro? I governi pensano poi a demolire, per facilitare le imprese, le difese restanti del salario e della normativa nel lavoro dipendente. L’invenzione del precariato è stata geniale. Certo resta ancora da fare per raggiungere l’inesistenza di diritti e contratti collettivi dell’Egitto e della Cina, ma si direbbe che l’obiettivo sia quello.

Come si faccia a tener alte le entrate e modificare la crescita e in direzione compatibile con un impoverimento diretto e indiretto, attraverso i tagli nel welfare della grande maggioranza delle nostre societa è per me un mistero. Come si possa stupirsi che gli operai, occupati o disoccupati, scombussolati dalle scelte dei partiti di sinistra e dei sindacati, non amino questa Europa? E crescano dovunque in voti le destre?

Vorrei essere smentita. E che mi si dimostrasse che l’Europa non c’entra, che non può, e non solo non ha voluto, far altro.

Trattandosi di faccende del Vaticano, la delibera approvata dal Comune di Roma scomoda il latinorum e parla di ius aedificandi, cioè diritto a costruire. Un diritto ampio, per tantissime costruzioni, proprio nel momento in cui, ironia della sorte, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, in pratica l’immobiliare della Santa Sede, sta accelerando sugli sfratti in città, da via del Gonfalone a via di Porta Pertusa, come sottolinea al Fatto il segretario dei Radicali, Mario Staderini. Al Vaticano il Campidoglio concede 65mila metri quadrati di superficie utile lorda, 210mila metri di cubatura, per un valore di circa 400 milioni. Quattrini che in Vaticano si ritrovano da un giorno all’altro in cassa grazie alla reverente prodigalità del Campidoglio. Un regalone, in pratica, uno di quei doni che meritano riconoscenza eterna.

Riconoscenza a chi? Ovviamente al sindaco, Gianni Alemanno, che però deve dividere il “merito” con i consiglieri presenti, opposizione compresa e Pd in prima fila. Perché quando si è trattato di votare, nessuno ha voluto “sfigurare” con le alte prelature. In un afflato bipartisan tutti si sono devotamente genuflessi ai desideri della Santa Sede e hanno votato sì. Solo un consigliere ha fatto il bastian contrario, un pasdaran del Pdl che si è astenuto, non si sa bene se a ragion veduta oppure se si è confuso.

La faccenda è stata ufficialmente presentata come uno “scambio” tra Comune di Roma e Vaticano, ma dello scambio, cioè dell’operazione alla pari, la decisione assunta non ha proprio nulla. Il comune incamera 60mila metri quadri dei 117mila di proprietà del Vaticano inseriti nel parco regionale urbano di Valle Aurelia a Roma conosciuto come il parco della tenuta di Acquafredda e in cambio dà alla Santa Sede il diritto ad edificare su una superficie all’incirca equivalente in una qualche zona della città. Dove non è ancora chiaro. Al momento il diritto non è “atterrato”, come dicono i tecnici, cioè non è incardinato a un’area precisa. Una volta individuata o acquisita l’area, il Vaticano potrà procedere alla costruzione dei palazzi oppure, più verosimilmente, potrà vendere il diritto acquisito a un terzo, magari a qualche grande costruttore capitolino. In altri termini: il Comune di Roma ottiene dal Vaticano poco o nulla, un’area che è già parco naturale da destinare di nuovo a parco, mentre il Vaticano incassa il diritto a costruire, che equivale a moneta sonante. Tanta. Ironizza il presidente laziale dei Verdi, Nando Bonessio: “Quando il Vaticano chiama, il Campidoglio risponde”, mentre Angelo Bonelli, presidente nazionale conferma: “È un regalone con il fiocco”. La delibera è stata presentata a ridosso di Ferragosto quasi sicuramente non a caso, forse per poter contare sulla generale rilassatezza pubblica. Per di più il consiglio capitolino è stato riunito in seconda convocazione quando, a norma di statuto , per approvare delibere non c’è bisogno del 50 per cento più uno dei presenti.

La delibera, infatti, è stata votata solo da 27 consiglieri su 60. Con questo voto Alemanno ha bruciato sul filo di lana la collega di partito Renata Polverini, presidente della Regione Lazio, che già nei mesi passati si era prodigata per venire incontro ai desiderata del Vaticano. Sono almeno 15 anni che la Santa Sede cerca di risolvere a modo suo la faccenda dei terreni di quella zona, un’ampia area verde nel cuore di Roma nord, tra Aurelia e Boccea. Nel 1997, ai tempi di Francesco Rutelli sindaco, il comune approvò una variante al piano regolatore del 1964 con una delibera detta delle “certezze” in forza della quale i terreni del Vaticano fino ad allora in parte edificabili, ma solo per servizi pubblici (scuole, ospedali, teatri etc..), venivano trasformati in area agricola. La scelta fu ribadita subito dopo dalla regione Lazio che destinò tutta la zona a parco. Undici anni dopo, a marzo del 2008, con l’approvazione del nuovo piano regolatore, la giunta di Walter Veltroni confermò implicitamente la scelta. All’articolo 19, quello in cui vengono individuate le compensazioni a favore dei proprietari dei terreni che hanno subìto variazioni d’uso, non c’è infatti alcun riferimento alle aree di Acquafredda. Negli ultimi mesi il Vaticano aveva cercato di accelerare le pratiche di sfratto della decina di famiglie di contadini che ancora lavorano quelle terre, forse con l’intento di spianare la strada alla delibera comunale. Che infatti è arrivata puntualmente, alla vigilia di Ferragosto.

Si, la vicenda di Rimigliano è durata troppo. I ritardi amministrativi vanno combattuti, ma, aggiungo, perseguendo il bene comune, perché la rapidità, di per se, non è detto che generi effetti socialmente positivi. A Rimigliano devono essere analizzati tutti gli interessi in gioco.

É interesse legittimo, non un “sacrosanto diritto acquisito”, quello della società “Rimigliano srl” che, in base alle previsioni del Piano Strutturale, chiede di poter realizzare un albergo di 6.000 mq. e di trasformare in circa 180 abitazioni tutti i fabbricati rurali, demolendo e ricostruendo gran parte del patrimonio edilizio, per scorporarle poi dalla tenuta agricola e venderle liberamente sul mercato come seconde case.

É interesse legittimo anche quello di chi chiede di istituire l’ANPIL [Area naturale protetta d’interesse locale], dopo decenni di ritardo, e di realizzare il parco naturale come era stato concepito negli anni 70 e 80, con la conservazione dell’uso agricolo nella tenuta (non l’esproprio) e la pubblicizzazione della fascia a mare, con impegni finanziari sicuramente sostenibili per un Comune che ha più case che abitanti e alti incassi da oneri di urbanizzazione e ICI. Qui, più che altrove, è necessario tutelare le residue aree agricole e le coste pubbliche.

Questi interessi sono entrambi attuali e concreti, perché prima della sottoscrizione di convenzioni con i privati o del rilascio dei permessi di costruzione, qualsiasi decisione urbanistica può essere modificata. Atti che mancano a Rimigliano. Il Comune può quindi decidere liberamente cosa fare di quel territorio. Se in passato le amministrazioni avessero assunto come “vincolo” il piano regolatore che prevedeva 300.000 metri cubi di volumi turistici lungo la costa, oggi non si parlerebbe neppure del parco. Lo stesso vale per i parchi di San Silvestro, Sterpaia, Populonia e Baratti dove sono state cancellate previsioni urbanistiche per milioni di metri cubi e centinaia di ettari di cave. Se quei terreni avessero mantenuto le destinazioni originarie, avrebbero prodotto grandi rendite per i proprietari, ma non sarebbero stati realizzati i parchi della Val di Cornia.

La “Rimigliano srl” rivendica la costruzione dell’albergo e delle seconde case ricordando che “il prezzo pagato per l’acquisito della tenuta è stato di 30,5 milioni di euro, mentre se avesse avuto destinazione solo agricola il suo valore sarebbe stato solo di 6 milioni di euro”. Dunque la “Rimigliano srl” ha acquistato per 24,5 milioni di euro la “rendita immobiliare” regalata dal Comune alla Parmalat quando, nel 1998, decise di fargli costruire un grande albergo nel parco. Per questo chiede ora di attuare remunerative operazioni immobiliari. I dirigenti del PD sollecitano il Comune a chiudere rapidamente la vicenda e gli amministratori comunali obbediscono, assicurando che faranno presto.

E’ la conferma che il sistema politico ha sposato la tesi secondo cui la rendita creata dalle decisioni pubbliche in materia urbanistica costituisce “titolo esigibile” dai proprietari e vincola i Comuni a non modificare più le scelte compiute. Al più si contratta. Ma nessuna legge lo prevede. Addirittura la legge regionale 1/2005 stabilisce che “le previsioni soggette a piani attuativi perdono efficacia se entro 5 anni non viene stipulata la convenzione” tra Comune e privati. Contrariamente alle leggi, si è invece consolidata una prassi che “garantisce perennemente” le rendite. E’ per questo che si è investito più nella rendita che nella produzione e sono stati distrutti beni essenziali non riproducibili, come il paesaggio e il patrimonio culturale.

San Vincenzo non si sottrae a questa logica e dimostra che il centrosinistra non è in grado di contrastare il dominio del “partito trasversale della rendita”. Anzi, non sembra neppure interessato a valutare soluzioni alternative che a Rimigliano esistono con la costruzione di un albergo fuori dal parco, il rilancio dell’agricoltura e un qualificato progetto di recupero del patrimonio esistente per fini agrituristici, come integrazione del reddito agrario. La disputa vera, quindi, non è tra chi persegue lo sviluppo e chi lo avversa, ma tra chi sta acriticamente dalla parte della rendita immobiliare e chi chiede maggiore considerazione dei beni comuni e dell’interesse generale.

Massimo Zucconi è stato il costruttore, e per molti anni il presidente, della “Parchi Val di Cornia”. Ora è capogruppo della lista civica Comune dei Cittadini.

Dalla guerra del capitale contro il lavoro si può uscire soltanto restituendo ai lavoratori reddito, risorse e diritti. Tutto il resto non fa che rafforzare la crisi, semplicemente perché è la crisi. Ma c'è qualcuno, tra i politici, che intenda davvero combatterla? Probabilmente no

Bisogna resistere alla tentazione di risolvere tutto con la comoda spiegazione della follia. Dio acceca chi vuol perdere, si dice. Così si pretende di spiegare quanto sta accadendo in questi giorni, a cominciare dai principali snodi della crisi finanziaria mondiale. Ma ci si inganna.

Indubbiamente lo scenario è a dir poco paradossale. La ricchezza reale aumenta di anno in anno a dismisura. Mai come oggi il mondo è stato un «gigantesco ammasso di merci». La produttività dei mezzi di produzione è alle stelle. Mai la tecnologia è stata altrettanto sviluppata. Ma, invece di godere i frutti di questo progresso, il mondo «avanzato» si dibatte nella crisi. Registra il dilagare della disoccupazione e il drammatico impoverimento di masse crescenti. E sperimenta il panico, la rivolta, la depressione economica e psichica. Questo film corre sullo schermo globale da tre anni a questa parte, per limitarci a quest'ultima Grande crisi, esplosa negli Stati Uniti a seguito dell'insolvenza dei titolari di mutui e dei crediti facili al consumo. Ma nemmeno l'esperienza di questi tre anni pare avere aperto gli occhi alle classi dirigenti. Il nuovo picco della crisi è la diretta conseguenza delle risposte «sbagliate» opposte all'esplosione della bolla speculativa nel 2008. Da allora e sino all'anno scorso gli Stati si sono incaricati di sanare con soldi pubblici (cioè nostri) le voragini dei bilanci privati, di banche, assicurazioni, finanziarie e grandi gruppi industriali a rischio di bancarotta per gli azzardi speculativi. Oggi - naturalmente - a rischiare il fallimento sono gli Stati stessi, dissanguati da quel generoso soccorso. Ci si aspetterebbe finalmente una risposta conseguente, visto che sbagliare una volta (si fa per dire) è umano, ma perseverare è diabolico. Invece che si fa?

Si ripete l'«errore». Non si pretende dai privati la restituzione dei prestiti, con tanto di interessi, né, tanto meno, la cessione degli enormi profitti accumulati in tre decenni di baldoria neoliberista. Al contrario: per ridurre l'indebitamento degli Stati si tornano a chiedere soldi alla collettività, cioè al lavoro. Sotto forma di tagli alle retribuzioni, alle pensioni, al welfare, ai posti di lavoro e alla spesa pubblica. E a mezzo della mercificazione di beni e servizi vitali e della svendita di quanto resta del patrimonio pubblico. La grande bouffe continua. Anzi, per timore che domani possa saltare in mente a qualcuno di cambiare rotta, nel nome della cosiddetta «stabilità» si progetta di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, cioè l'autoimposizione di politiche recessive, assoluta garanzia di crisi croniche. E si immagina (ultima trovata del governo tedesco, principale responsabile della spirale in cui tutta l'Europa - Germania compresa - si sta avvitando) di commissariare i Paesi ad alto debito, al preciso scopo di impedire tassativamente il varo di eventuali politiche espansive.

Di fronte a questo scenario la tentazione di parlare di follia è comprensibilmente forte. Ma è necessario resistere, perché le cose non affatto stanno così. Hanno una loro logica e una loro razionalità, non per caso accuratamente occultata dal giornalismo mainstream. Torniamo all'inizio. Il mondo che oggi trema vedendo avvicinarsi a grandi falcate lo spettro di un crack di inedite proporzioni non è diventato improvvisamente povero. La ricchezza reale è immensa e così la capacità di produrre. Vi è una enorme disponibilità di forza-lavoro qualificata e giganteschi bisogni sociali insoddisfatti (abitazioni e servizi alla persona, formazione e conoscenza, cura dell'ambiente e del territorio ecc.). Ma allora che cos'è questa «crisi»? C'è un modo di raccontarla che spieghi questi giorni tumultuosi scartando dagli schemi ideologici utili agli interessi dominanti?

C'è. E siccome le idee importanti non si inventano ogni giorno, basteranno due citazioni. Bertolt Brecht, che al Congresso internazionale degli scrittori (Parigi, 1935) fece incazzare tutti chiedendo che, oltre che di difesa della cultura, si parlasse anche dei rapporti di proprietà. E Karl Marx, che centocinquant'anni fa mise in rilievo la funzione cruciale dei rapporti di produzione, struttura giuridica a presidio dei rapporti di forza tra le classi. Ebbene, la cosiddetta crisi non è che un dispositivo economico, politico e mediatico funzionale allo spostamento di ricchezza (di titoli di proprietà) a vantaggio delle oligarchie possidenti. Negli anni Settanta e Ottanta questo spostamento è avvenuto soprattutto colpendo il lavoro direttamente nel conflitto sociale. Dagli anni Novanta ha luogo principalmente attraverso lo strumento monetario e la speculazione finanziaria. Il che non significa che la deflazione salariale e l'attacco ai diritti del lavoro non restino il punto di caduta dell'operazione, come non toglie che da quarant'anni a questa parte la guerra è stabilmente parte integrante di questa grande operazione di ingegneria sociale. Che questo gigantesco spostamento di ricchezza comporti anche dure contrapposizioni in seno alle oligarchie e aspri conflitti tra le borghesie nazionali (con buona pace di chi teorizza l'irrilevanza della dimensione statuale nell'era della globalizzazione) è del tutto ovvio e normale. E lo è anche quanto ne consegue: la concreta possibilità che i conflitti economici, politici e sociali tracimino in nuovi conflitti bellici. Fare previsioni su questo terreno è difficile, ma è bene sapere che non è possibile escludere nulla. Letteralmente nulla.

Questa e soltanto questa è la sostanza, che però va accuratamente celata. Di qui la grande narrazione del «debito». Tutti (anche noi) ne parliamo, come se fosse ovvio e indiscutibile che qualcuno (lo Stato per conto della società) ha ottenuto un «prestito» da qualcun altro (il «creditore»). Ma se un governo decidesse di finanziare la spesa pubblica con i profitti delle imprese private, con le rendite speculative e con gli introiti di un fisco equo ed efficiente, il debito dove andrebbe a finire? Scomparirebbe. Il che dimostra che «debito» è soltanto il nome di una politica economica finalizzata all'incremento dei redditi da capitale.

Ora, siccome questa operazione funziona alla grande, procurando enormi benefici alle oligarchie dominanti, parlare di follia è insulso e impedisce di capire cosa sta succedendo. Esattamente come non serve a nulla - anzi è sbagliato e fuorviante - favoleggiare di una presunta impotenza della politica a fronte delle sentenze dei «mercati» e delle agenzie di rating. Se a Bretton Woods si imposero regole che oggi non esistono più è perché chi ha il potere di decidere (a cominciare dai governi e dai parlamenti) non vuole né regole né vincoli, o meglio, vuole solo quelle regole e quei vincoli (a cominciare dal Patto di Stabilità e dagli accordi in sede di Wto) che rafforzano il processo in atto.

Così stando le cose, se ne può trarre un'unica conclusione. Ci sarebbe un solo modo per contrastare la dinamica della crisi: prendere il toro per le corna e imporre misure draconiane, sì, ma di segno specularmente opposto: misure redistributive in senso proprio. Da una cosiddetta crisi finanziaria che altro non è se non l'ennesimo capitolo della guerra del capitale contro il lavoro si può uscire soltanto restituendo al lavoro (al proletariato e alle classi medie in via di proletarizzazione) reddito, risorse e diritti. Tutto il resto non fa che rafforzare la «crisi», semplicemente perché è la crisi. Ma c'è qualcuno - tra i politici - che intenda davvero combatterla? Non si direbbe. Ha ragione Giorgio Ruffolo: la sinistra non esiste più. Si è suicidata una trentina di anni fa in Italia come in Europa, come in tutto l'occidente capitalistico. Ma anche qui: non per follia, sia pure lucida, bensì per un accorto calcolo. Perché diciamoci la verità: partecipare alla grande bouffe, sia pure come «oppositori», non è affatto spiacevole. Anzi, è alquanto gratificante.

Titolo originale:Them and us: the young Londoners who we can't afford to alienateScelto e tradotto da Fabrizio Bottini



Si volatilizzano i servizi essenziali per mantenere i giovani senza fissa dimora con cui lavoro nell’ambito della società civile. Per chi fra noi opera in quella terra di frontiera, era chiaro da tempo che qualcosa, in qualche modo, sarebbe arrivato a sconvolgerci.

E lunedì si è capito che era cominciato. Nel pomeriggio, mi entravano in ufficio ragazzi gridando “Sta cominciando a Lewisham. Accendi il notiziario, accendi”. Nel giro di mezz’ora, si è capito che avevano ragione. Durante la giornata, continuavano a chiedere cosa dicevano i notiziari, se sapevo qualcosa io, cosa si vedeva sugli schermi TV. É la prima volta, dopo un anno di tentativi per interessarli al mondo che li circonda, che qualcuno di loro manifesta un po’ di interesse per quello che dicono i media. Uno mi ha chiesto “Cosa dicono di noi?”

Mi ha colpito quel “noi”, l’identificazione immediata coi ragazzi di Lewisham. Nessuno di loro aveva mai messo piede nei quartieri in rivolta, ma non c’era alcun dubbio sul fatto che si ritenessero parte di quella vicenda. Martedì mattina una ragazza mi ha detto che quelli dei Cherry Boys, famigerata banda del sud-est londinese, lunedì pomeriggio spingevano le persone in entrata e uscita dal negozio JD Sports di Charlton: “ Muovetevi. Muovetevi. Prendete la roba e lasciate posto al prossimo”.

Sono anche riuscita a cavare da un altro ragazzo qualche notizia a proposito della sua spedizione a Woolwich con gli “amici”. Lo conosco da quasi due anni e so bene quanto abbia subito dalle bande di Woolwich. L’ultima volta che era stato in quella zona, più di un anno fa, l’avevano preso a coltellate, quasi ammazzato. Ma la rivalità, che gli era quasi costata la vita, adesso non contava più: “Sai, capo – mi ha detto – Ieri sera Londra era libera”.

Ma è evidente che mentre le cose continuano ad accadere nessuno ascolta le storie di chi partecipa alla rivolta. Se ascoltassimo, riusciremmo a capire che esistono spiegazioni molto migliori di quella della “pura e semplice criminalità” proposta da David Cameron.

Negli ultimi giorni la gente ha paura a uscire di casa, ma i giovani si sentono per la prima volta liberi di muoversi nei quartieri, dopo dieci anni. Gli abitanti sono infuriati perché si sono colpite al cuore le comunità, ma quei giovani parlano di “noi”. I negozianti hanno combattuto per difendere ciò che possiedono, contro chi cercava di appropriarsi di quanto non può avere. Si sono invertite le parti; la città e la società ribaltate. Sorprende, che vogliano ciò che vogliamo anche noi, ovvero la possibilità di muoversi liberamente, di esprimere comunità, identità, e naturalmente possesso materiale? Ed è questo il modo in cui ce lo dicono quei giovani insoddisfatti, di solito privi di voce.

Abbiamo chiuso i loro centri di aggregazione, eliminato i fondi per la formazione. Eroso le loro aspettative nella società. Possiamo solo ascoltare, perché ci stanno dicendo qualcosa, magari in modo non del tutto efficace, senza giustificazioni, distruttivo. Capire non vuol certo dire perdonare. Ma liquidare le rivolte come azioni sconsideratamente criminali significa negare le gravi carenze del sistema, ed emarginarli ulteriormente da una società che non sentono più loro.

Ogni nuova prospettiva di governance europea che pure sarebbe necessaria, non riesce neppure a essere sperimentata perché va subito a infrangersi contro l'inevitabile "logica del mercato"

Nelle vicende dell’Unione europea ci sono molti passaggi su cui ha senso interrogarsi. Rilevanti, ovviamente, non solo per leggere come si è arrivati alla situazione in cui ci troviamo adesso: soprattutto per guardare avanti. Appunto per guardare avanti riprendo la sollecitazione che viene dalle analisi e domande – soprattutto dalle domande – che Rossana Rossanda ripetutamente pone (“a chi ne sa più di me”). Nel dibattito e negli interventi si porta l’attenzione principalmente sui temi dell’economia, dunque comincio così: mi è capitato di riprendere in mano un piccolo libro, Idee per la programmazione economica (di Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini, pubblicato nel 1963 da Laterza). Rileggerlo oggi è illuminante. Cosa significa “programmare”, con quali “idee”. Altre parole: “indirizzi”, “strumenti”, “politiche” -al plurale-; e “analisi critica”, fondamentale. Riguardano gli economisti, ma certo anche gli “specialisti” di altre discipline; e noi “cittadini”.

Farò riferimento, guardando in termini necessariamente aggiornati alle questioni di cui discutiamo, alla chiave di lettura che ha messo a fuoco i processi europei proponendo alcuni termini che negli scorsi decenni sono stati al centro di contributi e dibattiti: governance, Europa post-nazionale, Europa cosmopolita. E democrazia, ovviamente. Anche le chiavi di lettura sono molteplici: in alcuni casi l’attenzione va alle caratteristiche e alla storia del contesto europeo; si mettono a confronto i differenti dati a livello nazionale; nel portare l’analisi sui processi di trasformazione in atto si mettono a fuoco anche resistenze ai cambiamenti e tendenze che li contrastano, legate a vicende proprie della nostra parte del mondo. E c’è piena consapevolezza delle dimensioni di complessità e di pluralità del sociale. Alcuni dei numerosi studiosi che di questi temi si sono occupati sono Daniele Archibugi, Ulrich Beck, James Bohman, Edgar Grande, Claus Offe, e in contributi più recenti, Owen Parker.

Mi sembra utile riprendere brevemente due linee di riflessione: cosa significhi e cosa implichi il passaggio (terminologico, ma evidentemente non solo) alla parola “governance”, rivedendo quella che era scontata ma ormai inadeguata, “governo”. Si è trattato di assumere consapevolezza, e realizzare e valorizzare, strutture e meccanismi nuovi (anche, ritenuti auspicabili: così nei riferimenti alla “società civile”, alla “democrazia deliberativa”). L’altra linea di riflessione riguarda le scelte e le pratiche messe in atto con questa “svolta” (così è stato detto) nelle istituzioni europee: appunto, con l’obiettivo di una gestione della politica articolata e plurale. E, questo ci si era proposti, tendente a realizzare strutture di connessione e collaborazione, nei processi decisionali, tra diversi “attori” e ai diversi livelli.

I riferimenti al concetto di governance sono stati al centro di dibattiti e analisi a partire dagli anni novanta, in una prospettiva che si voleva riuscisse a essere “post-nazionale” e anche “globale”. Si sono proposti modelli considerati appropriati per definire un sistema “a molti livelli e molti attori”, con attenzione alle istituzioni pubbliche ma anche ai soggetti del privato, allargando lo sguardo al settore no profit e agli ”attori sociali”. Moltissimi sono stati i contributi, in sedi “europee” di ricerca e riflessione (di politologi, sociologi della politica, studiosi dei processi di trasformazione), sugli assetti istituzionali che andavano prendendo corpo nell’ambito dell’Unione. A questo è soprattutto utile portare l’attenzione.

Sintetizzando la lettura che ne fanno alcuni degli studiosi che prima ho ricordato, c’è stato un progressivo passaggio: dal mettere al centro i nuovi attori e i molteplici livelli, a un “annacquamento” (così è stato descritto), via via, di attenzione e riconoscimento. In particolare due fasi vanno considerate. Ci sono stati i lavori di un gruppo di studio, il Forward Studies Unit, un think tank europeo che nel 1997 ha reso disponibili alcuni importanti rapporti. Si mettevano in luce in termini problematici la dimensione dell’incertezza nel fare previsioni per il futuro, la complessità dei meccanismi e la necessità di monitorarli. Sul piano metodologico si proponevano letture della società europea articolate in una pluralità di prospettive. Si suggerivano pratiche di comunicazione che valorizzassero partecipazione e meccanismi di feedback da parte dei diversi “attori”. In contributi degli anni successivi si segnala che di questi documenti (ripresi da Prodi nel 1999 durante la sua presidenza) e degli stimoli che se ne potevano trarre, si è tenuto poco conto.

Si arriva poi a una fase successiva, (definita con la sigla Omc, “open method of coordination” ) e al White Paper on Governance. In numerosi studi – appunto nella fase che viene dopo il Libro bianco del 2001 – sono state analizzate le procedure, la visibilità data alle politiche, le connessioni tra i diversi livelli della governance europea. Secondo queste letture, a fronte delle proposte di apertura, degli obiettivi di inclusività dei diversi attori e livelli, di impegni a misure e iniziative coordinate ha prevalso, al contrario, la “logica del mercato”. Riprendo la conclusione a cui si arriva in un testo recente (Owen Parker, “The Limits of a Deliberative Cosmopolitanism: the Case of New Governance in the EU”). Si afferma che “coloro che sostengono la prospettiva di una ‘deliberative post-national governance’ non hanno portato l’attenzione sui meccanismi per cui il principale attore, la società civile, risulta strettamente condizionato dai criteri dominanti, i criteri che privilegiano il mercato”.

Dunque, scarsa consapevolezza di questi meccanismi; meglio, la scelta di non portarli pienamente alla luce. Ma non possiamo non vedere le inadempienze e le difficoltà della “nuova governance”. Pensiamo alla fase che stiamo vivendo: di fronte ai movimenti e alle vicende nel Nord Africa, e in particolare a quello che sta ancora succedendo in Libia, nessuna capacità - peggio, nessuna volontà e impegno - per realizzare una politica di “coordinamento europeo”. Sul problema dei profughi e degli arrivi a Lampedusa, immediata chiusura “nazionale” da parte dei governi (Italia e Francia, ma non solo). E ancora: nel difficile percorso che ha portato, tra contrasti e rinvii, alle politiche messe in atto per affrontare la “crisi greca” è emerso in piena evidenza che non c’erano né volontà né capacità di coordinamento: ma neppure ci si è mostrati disposti a vedere questa prospettiva, o modello, o riferimento, come cruciale per il futuro.

Molte le domande che rimangono aperte, certo rilevanti per la “rotta europea”. La mancanza di risposte (peggio ancora, di attenzione e consapevolezza) nella prospettiva di guardare avanti non soltanto preoccupa: equivale a un rifiuto della “nuova governance”. Guardiamolo, questo passaggio, nelle sue molte dimensioni. Vorremmo arrivare a sperimentarle, forme di “democrazia partecipata”. E vorremmo un’Europa capace di reagire alla logica dei “criteri dominanti, i criteri che privilegiano il mercato”.

1/8/2011

Finalmente Monna Lisa arriva a Firenze. È questo, infatti, il nome dell´enorme fresa d´acciaio che scaverà sotto la città per realizzare sei chilometri di passante Tav e una nuova stazione ferroviaria. Lo dice il sito di Coopsette, il raggruppamento di imprese che si è aggiudicato l´appalto: l´arrivo della fresa in cantiere è previsto per ottobre. La "talpa" avanzerà di 15 metri al giorno alla profondità di 25 metri, insinuandosi tra l´altro sotto la Fortezza da Basso di Antonio da Sangallo.

Arrivando invece del quadro di Leonardo vanamente reclamato da incauti assessori, questa Monna Lisa meno sorridente e più ingombrante farà egualmente felici Provincia, Comune e Regione, che il 3 agosto hanno firmato a Roma, con le Ferrovie e il ministro Matteoli, l´accordo per il via ai lavori. Il progetto della stazione è di Norman Foster, ma il suo prestigio non basta a garantire la bontà dell´operazione, visto che a lui si deve anche il progetto del quartiere di Santa Giulia a Milano, i cui cantieri sono stati sequestrati perché posti sopra un gigantesco deposito illegale di scorie cancerogene provenienti da stabilimenti dismessi (viene in mente l´amara riflessione di Giancarlo De Carlo sul «fenomeno della copertura professionale» di grandi architetti in occasione di operazioni speculative).

A Coopsette si devono anche i lavori della stazione Tav di Roma-Tiburtina, che verrà inaugurata in ritardo dopo il devastante incendio di cantiere del 24 luglio. Fra le partecipate di Coopsette c´è Milano Logistica Spa, partecipata al 50% da Argo, società del gruppo Gavio, uno degli azionisti principali (con Ligresti e Benetton) di Impregilo. L´ad di Impregilo è stato appena assolto in appello dalle gravissime accuse di disastro ambientale sulla tratta Bologna-Firenze (dove l´impresa partecipava al 75%): nel 2009 il tribunale di Firenze lo condannò, con altri 26 imputati, per aver inquinato con sostanze tossiche 24 corsi d´acqua e prosciugato 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti. Anche sul tunnel di Firenze pesano gravi dubbi, come risulta da un esposto di Italia Nostra. Il Genio Civile di Firenze ha contestato il 19 luglio l´adeguatezza delle indagini sul rischio sismico, che «non sembrano possedere i requisiti richiesti dalle Nct 2008», cioè dalla normativa antisismica in vigore. Inoltre, prosegue Italia Nostra, i materiali risultanti dallo scavo (tre milioni di metri cubi) sono destinati alla miniera abbandonata di Santa Barbara in comune di Cavriglia (Arezzo), che però non è una discarica autorizzata. Per di più, i due terzi del materiale sono "rifiuti di perforazione", classificati col codice Arpat 010599, che non esclude la presenza di sostanze inquinanti o tossiche, che metterebbero a rischio in particolare il lago di Castelnuovo, adiacente alla miniera di Cavriglia.

Di rifiuti, Impregilo se ne intende. Oltre a cospicue opere pubbliche, fra cui il Ponte sullo Stretto, questa impresa ha infatti la concessione in toto della gestione dei rifiuti in Campania, coi metodi e i risultati a tutti noti e ben esposti nel libro Ecoballe (2008) di Paolo Rabitti, perito della Procura di Napoli, e ora anche da Antonio Polichetti, nell´ottimo Quo vadis, Italia? (La scuola di Pitagora, Napoli 2011); per non dire del "sistema Commissariato-Impregilo-Camorra" bollato da Adriano Sofri in questo giornale (28 giugno). Rischio sismico malcalcolato e dubbia gestione dei rifiuti dovrebbero essere ragioni sufficienti per qualche prudenza sul "passante fiorentino" e sulla stazione di Foster: ma questa non è la stagione della prudenza e delle attese. Al contrario, la tempesta dei mercati e le incapacità del governo concorrono a creare un´aria di crollo imminente che non solo mette fretta alle istituzioni, ma incrementa il peggior cinismo speculativo, e non solo in borsa ma nei territori. Qualche esempio, come in un bollettino di guerra che vede ogni giorno nuove devastazioni del paesaggio, nuovi crimini contro l´ambiente in nome del profitto d´impresa. Con un blitz estivo, la giunta leghista di Treviso ha raddoppiato il territorio agricolo cementificabile, portandolo a 338 mila metri quadrati: mossa irresponsabile in una città in cui il 40% del costruito negli ultimi anni risulta invenduto. A Milano continuano indisturbati gli scavi per un parcheggio sotto la basilica di Sant´Ambrogio, dato che (pare) il Comune teme di dover pagare una qualche penale alle ditte interessate: ma oltre ai soldi, ci sono anche moralità, dignità, decenza. Più alto di qualsiasi penale (ammesso che una ve ne sia) è il prezzo che Milano pagherebbe danneggiando uno dei massimi santuari della cristianità e l´immagine della città. Nel mirabile sito archeologico di Sepino in Molise si vuol collocare un vasto parco eolico calpestando il vincolo paesaggistico e il provvedimento cautelare del tribunale di Campobasso; singolarmente anzi, in presenza di un´azione penale, il Consiglio di Stato sembra voler dare una mano all´impresa contro la Soprintendenza. A Cecina in Toscana, su una costa già funestata da cementificazioni, si minaccia di cancellare dune e pinete per aggiungere un nuovo "porto turistico" a quelli che sorgono, semivuoti, a pochi chilometri di distanza. Dalle Alpi alla Sicilia, tutto è ridotto a terreno di caccia per i professionisti della razzia, mentre le pubbliche istituzioni che dovrebbero tutelare il bene comune e l´interesse della collettività somigliano sempre più spesso a comitati d´affari, intenti ad aggirare le leggi per favorire chi divora il paesaggio.

In questa corsa al saccheggio, il confine fra le parti politiche si attenua talvolta fino a sparire. Il pessimo "piano casa" della regione Lazio, approvato in questi giorni con la complicità di frange di "sinistra", è stato subito accusato dal ministro Galan di palese incostituzionalità (illecito condono edilizio, raddoppio della cubatura nelle aree vincolate, sgangherate deroghe alla pianificazione paesaggistica): possiamo sperare che dai Beni culturali arriveranno sanzioni altrettanto severe agli altri "piani casa" regionali, dal Veneto alla Sardegna? Sarebbe una degna risposta alla proposta di Confculture di chiudere il ministero, passando i Beni Culturali fra le competenze del ministero dello Sviluppo (V. Emiliani, L´Unità, 11 luglio), cioè monetizzando patrimonio culturale e paesaggio in dispregio non solo di ogni competenza specifica, ma della Costituzione.

L´assalto alla diligenza a cui stiamo assistendo è senza precedenti, anche se insiste nell´abusata retorica degli ultimi trent´anni: i "giacimenti culturali", l´espansione edilizia senza regole e senza fine come cura della crisi. Eppure dovremmo esserci accorti che perseguire (a destra come a "sinistra") questo modello ha contribuito a portarci nel vicolo cieco in cui siamo. Secondo la Cnn (5 agosto) «l´economia italiana cresce allo 0,3% annuo, e così sarà nei prossimi anni: un tasso fra i più bassi al mondo, che si unisce all´enorme debito pubblico, fra i più alti al mondo. Perciò l´economia italiana non è in grado di generare risorse sufficienti a ripianare il debito». A questo siamo giunti inseguendo l´idea perdente dell´edilizia come motore primario dell´economia, incoraggiandola con un´ondata di piani-casa, col "silenzio-assenso", con condoni e sanatorie in materia urbanistica, paesaggistica e ambientale. Sarebbe tempo di capire che ogni degno progetto per l´Italia dovrà far perno sul rigoroso rispetto della nostra massima risorsa, patrimonio e paesaggio, per investire sul futuro anziché cannibalizzare il presente.

Ecco l'immagine della fresa Monnalisa, il tarlo che minerà le fondamenta di Firenze, nota nel passato come "città d'arte":

Nella storia di questo disgraziato paese (l'Italia, intendo, per chi non ami le metafore), c'è una sindrome spesso ricorrente: si chiama la linea del Piave. Funziona così. Per anni, talvolta per decenni, gli alti comandi, i Governi, le classi dirigenti in genere, prendono decisioni inique, sbagliate, avventurose, persino ciniche e anche delinquenziali: l'incredibile mediocrità degli alti comandi medesimi, la strategia irresponsabile dell'attacco frontale, il mostruoso disavanzo di bilancio, l'incapacità del ricambio, la stralunata soggezione dell'interesse pubblico agli interessi privati o di gruppo, ne rappresentano le manifestazioni più significative ed esemplari. Poi, ad un certo punto, dai e dai, si verifica la catastrofe: le linee cedono, il bilancio crolla, l'economia va in pezzi, le classi dirigenti, d'ogni razza e colore - ripeto: d'ogni razza e colore - annaspano nel vuoto che loro stesse hanno creato. È a quel punto che a qualcuno viene in mente la linea del Piave: gli interessi non sono più diversi, separati e magari contrapposti, diventano "unico". La catastrofe si può affrontare solo tutti insieme, senza più differenze né di razza, né di colore, né di collocazione sociale, né di orientamento politico. E questo, a pensarci bene, è anche giusto: chi, infatti, vorrebbe vedere gli austriaci a Milano o a Venezia?

Se poi, come nel caso di oggi, la linea del Piave assume dimensioni planetarie, la solidarietà di tutti intorno a un modello unico di soluzione assume un'evidenza ancor più eloquente: o ci si salva tutti oppure non si salva nessuno. E anche questo potrebbe essere giusto. Ma vediamo fino a che punto il discorso del Piave regge e, ammesso che regga, quali diverse impostazioni gli si possono dare.

Facciamo (almeno noi) un passo indietro e torniamo in Italia. Negli ultimi tre-quattro mesi è accaduto nel nostro paese qualcosa che in precedenza sarebbe stato inimmaginabile: e cioè un cambiamento vistoso della costituzione materiale, un aggiustamento invisibile dei meccanismi decisionali. Tutte le più importanti scelte in materia politica ed economica sono state, non certo prese, ma indotte con forza e con, appunto, autorevolezza "dall'alto". E quale esempio più lampante di "Camere congelate" di quelle che, nel giro di quarantotto ore, hanno votato un bilancio dello Stato strangolatorio e, nel caso di certi partiti, addirittura apertamente non condiviso? Non sto dicendo né che sia stato un bene né che sia stato un male: mi limito per ora a constatare che è accaduto. Ricordate il mio articolo sul manifesto del 13 aprile? «Ciò cui io penso è una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instauri quello che io definirei un normale "stato di emergenza", eccetera eccetera». L'unico auspicio di quell'appello che non sia stato per ora praticato è il ricorso all'Arma dei carabinieri e alla polizia di Stato: non ce n'è stato bisogno, e comunque la magistratura e le forze dell'ordine erano impegnate in altro (sempre però nei dintorni: Papa, Milanese, Penati, Bisignani eccetera eccetera).

Ma in generale la linea più volte adottata è andata puntualmente in quella direzione, tacciata allora dai pulpiti più diversi d'imbecillità, provocazione, golpismo, ecc. ecc. Oggi tutti i dubbi e le riserve sono svaniti nel nulla: la linea estrema di difesa delle istituzioni repubblicane e dell'economia e coesione sociale nazionali è diventata il Governo del Presidente (non quello del Consiglio, naturalmente), universalmente invocato dalle forze, partitiche e d'opinione, che si collocano all'opposizione dell'attuale maggioranza parlamentare.

Restiamo anche noi all'interno del ragionamento, ma al tempo stesso prendiamoci la libertà di porci - di porre - alcune domande decisive: a favore di chi? Con quali mezzi? Con quale, non solo istituzionale, ma anche politica autorevolezza? Le linee del Piave, in sé e per sé considerate, non servono a scardinare i sistemi, servono a confermarli e a renderli ancora più inattaccabili. La difesa del "bene comune" è pagata sempre da una sola parte. Sul Piave (storicamente, non metaforicamente inteso) la linea fu tenuta dalla leva dei '99, giovani diciottenni gettati in massa nel rogo a difendere l'integrità e l'unità nazionale. Oggi nel tritacarne dell'unità nazionale sono destinati ad essere macinati - alfieri del tutto involontari d'un patriottismo a senso unico - gli anziani e le famiglie deboli, i pensionati, gli operai, i giovani (soprattutto i giovani), i piccoli e medi borghesi, impiegati e professionisti, gli uni e gli altri ovviamente senza rendite parassitarie alle spalle. Sull'atteggiamento da tenere nei confronti di questa situazione si è già sfarinato il fronte delle opposizioni: il Terzo Polo ha subito adottato la linea della massimizzazione dei "sacrifici popolari" (davvero singolare in questo quadro - mi sia permesso di osservarlo - l'atteggiamento della formazione che recentemente ha scelto di chiamarsi "Futuro e Libertà": non dovevano essere la forza di rinnovamento del quadro politico italiano e sono finiti alleati in tutto e per tutto subalterni dei moderati più moderati?). Ma lo sfarinamento ha già raggiunto vertici e settori anch'essi in precedenza inimmaginabili: vedere la Camusso, leader di un'organizzazione operaia e popolare come la Cgil, collocarsi anche fisicamente, quasi a segnare il rapporto gerarchico nuovo testé costituitosi, alle spalle della Marcegaglia, leader delle organizzazioni padronali, ha avuto la portata e il valore di un manifesto, ben comprensibile ai più.

La linea del Piave, per essere minimamente condivisa prima che accettata e praticata, avrebbe bisogno di molte condizioni, di cui per ora non si vede traccia, anzi, per essere più esatti, quasi nessuno parla. A scopo puramente provocatorio, come di consueto (poi fra qualche mese si vedrà meglio), ne elenco due, una di carattere economico-sociale, l'altra di carattere politico, la seconda, ovviamente, condizione sine qua non perché la prima diventi credibile.

La condizione economico-sociale è la conservazione integrale dello Stato sociale, e cioè, per essere più precisi, di quell'insieme di statuti, regole, leggi e abitudini, che garantiscono la libertà e il benessere ai cittadini più deboli. Quanto al pareggio di bilancio, bisognerebbe chiedersi se le cure prospettate, in dimensioni e rapidità di tempi, non siano destinate ad ammazzare il cavallo invece di rimetterlo in piedi. La distribuzione dei pesi e delle misure, e le loro conseguenze effettive, devono perciò fin d'ora essere elencate con estrema precisione: l'obiettivo, infatti, è garantire con assoluta certezza - e la cosa è tutt'altro che impossibile - che dalla crisi ci si proponga di uscire con uno stato più giusto, non con uno più infame.

La condizione politica è che dalla crisi si esca con un riassetto del sistema di potere che almeno garantisca la riapertura di una nuova fase. Dobbiamo invece prendere atto che finora si è andati nella direzione esattamente contraria: e cioè - nella più pura tradizione delle linee del Piave nazionali (ma almeno Cadorna nel '17 perse il posto) - la crisi ha paradossalmente rafforzato, o almeno lasciato più tranquillo, il Governo Berlusconi: è entrato a far parte anch'esso, infatti, della "soluzione unica nazionale" della crisi. Ma questo è intollerabile, e quindi inaccettabile: significherebbe far pagare al paese, come prezzo per uscire dalla crisi, la perpetuazione delle ragioni più profonde della crisi medesima, l'inaffidabilità, il discredito, interno ed internazionale, l'assoluta mancanza del senso dell'interesse pubblico da parte dei suoi goverrnanti.

Perché la linea del Piave sia almeno decentemente compresa e condivisa, occorre che il governo del Presidente metta in programma questa apertura di una nuova fase in netta, inequivocabile discontinuità con quella precedente: anche ricorrendo, in tempi ragionevoli, ad un nuovo responso elettorale. Ai costituzionali - notoriamente ce ne sono molti e di molto eccellenti - va richiesta con urgenza una rilettura del primo comma dell'art. 88 della Costituzione, il quale recita (com'è universalmente noto): «Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti; sciogliere le Camere o anche una sola di esse». Le interpretazioni correnti, che depotenziano in genere la facoltà del Capo dello Stato di assumere autonomamente tale decisione, mi sembrano estremamente discutibili, e perciò andrebbero ridiscusse, in una situazione come questa in cui si potrebbe da un momento all'altro avere bisogno di disporre tranquillamente di tale estrema risorsa.

Insomma: il Governo del Presidente comporterebbe una netta e puntuale individuazione dei pesi e delle misure da adottare, una equa distribuzione dei sacrifici, una preliminare scelta di campo a favore delle classi e dei ceti più deboli e, preliminarmente e contestualmente, la ricostituzione d'un quadro politico in grado di giocare la partita nella piena dignità ed efficacia dei suoi possibili mezzi (e uomini). Altrimenti, sarà un confuso, inane e un po' disperato tentativo di tenere in piedi il sistema a favore dei soliti "amici". Non sarebbe una bella cosa, e non funzionerebbe.

Caro direttore, nel 2003 la Coppa America rappresentò un pretesto per stravolgere la pianificazione e realizzare un immenso porto dentro la colmata e parte del parco, ridurre lo stesso parco, aumentare le volumetrie. Stravolgimento formalizzato in un accordo di programma voluto da quello stesso Bassolino che, solo 10 anni prima, aveva fatto del recupero ambientale di Bagnoli lo slogan della campagna elettorale. Oggi la situazione è diversa ma questo non vuol dire meno grave. Diversa perché la giunta ha escluso ogni deroga. Grave perché in venti anni nulla di quanto promesso è stato realizzato. L’errore originario è stato prevedere una società di trasformazione urbana con una mission sbagliata, perché impostata secondo una gestione prevalentemente finanziaria.

I risultati sono: 1) un indebitamento di 339 milioni di euro al 2010 che i revisori dei conti considerano preoccupante; 2) realizzazioni stupefacenti, come la porta del parco, un ettaro di cemento armato - auditorium e centro benessere costruito peraltro ben lontano dalle fonti termali – lì dove il piano prevede "attrezzature di quartiere" (ciò che fa dubitare della conformità urbanistica); 3) grovigli giuridici infiniti (dall’esproprio dei suoli, annullato dal Tar, alla vicenda relativa al porto, la cui ultima versione, il porto partenope, prevista in una recente conferenza dei servizi, è stata giustamente annullata dal Consiglio di Stato); 4) inchieste penali che da anni stanno verificando la correttezza della bonifica, stranamente non ancora concluse; 5) la mancata realizzazione del parco; 6) l’approvazione del progetto del primo lotto del parco di soli 40 ettari, più pavimentato che verde; 7) l’aumento delle cubature residenziali deciso dalla Iervolino; 8) la "seconda" gara in corso per la vendita dei suoli più pregiati di Bagnoli, quelli a ridosso del mare; 9) la realizzazione con sperpero di soldi pubblici di barriere artificiali sulla battigia e coperture della sabbia inquinata con teli e sabbia pugliese per rendere possibile l’elioterapia.

Eredità pesantissima che crea ancora più difficoltà a chi come de Magistris intende finalmente realizzare il progetto originario. La riduzione del parco, l’aumento dei volumi e la trasformazione della colmata in porto erano obiettivi espliciti dell’accordo di programma del 2003. Oggi lo stravolgimento del disegno originario non passa per la Coppa America, ma deriva dalla mala gestione. Certamente se si dovesse utilizzare la colmata come base delle barche la speculazione potrebbe avere un facile pretesto per chiederne la conservazione: sarebbe quindi un errore e occorre trovare una soluzione alternativa.

Ma la vera questione Bagnoli oggi è rappresenta dall’eredità disastrosa (economica, giuridica e amministrativa) che è stata lasciata. Questa eredità costringe la giunta de Magistris a ricercare una difficilissima soluzione alla quale devono partecipare tutte le energie sane della città e tutti coloro che in questi anni si sono opposti con forza a questa gestione. Occorre un radicale cambiamento di strutture, mission, pratiche amministrative sinora seguite e degli uomini, che sia studiato per realizzare quanto promesso da venti anni: rimozione della colmata, ricostituzione della morfologia naturale della linea di costa, come previsto dalla legge dello Stato e dal vincolo paesistico, recupero della balneazione (senza nessun porto) e realizzazione del parco urbano.

L’autore è presidente della commissione Urbanistica del Comune di Napoli

L’amico del cardinal Tarcisio Bertone, l’amico di Gianpiero Fiorani (emigrato in Nigeria dove si occupa di petrolio) e il braccio destro del senatore Pdl Luigi Grillo (a sua volta legato ai furbetti del quartierino). Con una serie di società con sede in Lussemburgo e in paradisi fiscali stanno investendo centinaia di milioni, comprando mezza Liguria, pronti a sbarcare in Toscana. Cemento, pallanuoto e calcio, sono dappertutto. A cominciare dal contestato progetto per il porto di Santa Margherita.

Si parla di un investimento da 70 milioni che prevede moli, bagni extralusso, centri di talassoterapia, giardini pensili e 250 box interrati in una delle località più famose del Mediterraneo. Un progetto che ha visto l’opposizione di comitati di cittadini e di liguri del calibro di Renzo Piano. Ma amministratori e giornali locali non hanno dubbi: “Si trasformerà la cittadina in un salotto eco-sostenibile”. A guardare le immagini dei rendering dello studio architettonico Gnudi sorge, però, qualche dubbio: ecco i moli, le passerelle di legno degli stabilimenti e gli enormi scalini di cemento proprio sul mare. L’architetto Giorgio Gnudi, però, assicura: “Abbiamo studiato ogni dettaglio per ridurre l’impatto. Siamo pronti a discutere”.

Ma il cemento è la punta dell’iceberg, il grosso della storia sta sotto il pelo dell’acqua. E racconta un intreccio di nomi che vantano amicizie dal Senato al Vaticano. A realizzare il nuovo porticciolo sarà infatti la società Santa Benessere & Social srl. Tra i soci c’è la Rochester Holding, società anonima lussemburghese (a sua volta controllata da società delle Isole Vergini e di Panama), un “dettaglio” che potrebbe suscitare polemiche se il Comune dovesse affidarle una concessione pubblica. Per ammissione di chi propone il progetto, la società fa capo a Gabriele Volpi. Originario di Recco, poi emigrato a Lodi e quindi in Africa, oggi risiede a Lagos (Nigeria) e guida un impero con 15 mila dipendenti e 300 milioni di patrimonio che fino a pochi anni fa risultava controllato da società offshore. È un uomo schivo, nonostante il jet personale e lo yacht da 60 metri, che ha fatto la sua fortuna fornendo appoggio logistico alle multinazionali del petrolio. Volpi ha sempre respinto le voci che lo associavano al commercio di armi: “Non ho mai avuto bisogno di fare cose del genere”. Insomma, leggende metropolitane. Volpi oggi è una potenza nella sua Liguria. Oltre alle attività edilizie si è lanciato in avventure sportive che gli procurano largo consenso: è proprietario della Pro Recco che sta sbancando il campionato italiano di pallanuoto. Suo anche lo Spezia Calcio. Ma Volpi non ha mai nascosto la sua amicizia con Fiorani (anche lui in passato interessato a investire in Liguria il frutto delle sue operazioni finanziarie). Anzi, il furbetto del quartierino dopo le disavventure giudiziarie del 2005 scelse una partita della Pro Recco per ricomparire in pubblico.

L’operazione di Santa Margherita, però, rivela altre alleanze di Volpi. Presidente di Santa Benessere & Social è Andrea Corradino (che guida anche lo Spezia Calcio). Area Pdl, Corradino è l’avvocato dell’onorevole Luigi Grillo. E qui le coincidenze si moltiplicano: Grillo, uomo del Pdl nel mondo delle banche, è stato condannato in primo grado a 2 anni e 8 mesi per l’inchiesta Antonveneta sui furbetti. E proprio l’influenza di Grillo nel sistema bancario e nella Cassa di Risparmio della Spezia, dicono i critici, avrebbe portato Corradino alla presidenza di Carispezia.

Non basta: nel cda della Santa Benessere ecco Gianantonio Bandera, costruttore amato dalla Chiesa. Ma soprattutto dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone, ex cardinale di Genova. Bandera è membro del cda dell’impresa che sta realizzando a Roma un progetto caro al Vaticano, ma ancora più contestato di quello di Santa Margherita: auditorium, uffici e laboratori dell’ospedale Bambino Gesù (presieduto da un altro fedelissimo di Bertone, Giuseppe Profiti, condannato a sei mesi per l’inchiesta genovese di Mensopoli). Bandera è consigliere di società che fanno capo all’Amministrazione Patrimonio della Sede Apostolica ed è stato nominato dalla Curia di Genova Magistrato della Misericordia, fondazione che amministra i beni della Diocesi destinati ai poveri, un patrimonio enorme.

Ma il trio è impegnato anche nella mega operazione immobiliare nelle aree dismesse della Iml, a Recco: stadio di pallanuoto, residenze per gli atleti, hotel a 4 stelle, uffici, più gli immancabili parcheggi con residenze. Altra operazione che divide la popolazione. Nella società San Rocco Immobiliare spa ritroviamo Corradino e Bandera. Proprietaria dell’impresa è la Recina Invest, società con sede in Lussemburg, a sua volta con rimandi a Panama (Daedalus Overseas inc) e alle Isole Vergini Britanniche (Bright Global sa).

Lo stesso schema replicato a Recco nella Sant’Anna srl. Stavolta si parla del progetto di riqualificazione della piscina (con la costruzione di posti auto sotterranei in riva al mare) che sarebbe gestita dalla Pro Recco di Volpi. Basta? No, Bandera era impegnato in operazioni immobiliari nei terreni delle parrocchie della Riviera. Ma sono bruscolini, l’imprenditore pensa in grande, per diventare uno dei signori della Liguria con investimenti di almeno 200 milioni: attraverso il consorzio Lavagna Futura ha proposto un progetto di riqualificazione del porto di Lavagna, il più grande del Mediterraneo (1.300 posti barca). Poi si parla di Lerici e, dicono ambienti a lui vicini, della Toscana. Del resto a Carrara c’è già la sede di molte sue società, negli uffici del commercialista Giulio Andreani (candidato sindaco di Carrara nel 2002 con il centrodestra). Progetti realizzati contro la popolazione? No, secondo il sondaggio commissionato a Renato Mannheimer il 57% dei residenti è favorevole al porto di Santa Margherita. C’è, però, chi, come il giornalista Marco Preve, ricorda un dettaglio: “Mannheimer compare come socio o titolare di quote in diverse società che si occupano di comunicazione, finanza e immobiliare. In una di queste, la Opera Multimedia in liquidazione di Pavia, ha tra i suoi soci anche l’Union des Banques Suisses, che controlla interamente uno dei soci dell’impresa che realizzerà il porto”.

Queste non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato. Le rivoluzioni non sono la conseguenza inevitabile delle ineguaglianze sociali, lo sono invece i terreni minati.

I terreni minati sono quelle aree disseminate a caso di ordigni esplosivi: si può star certi che alcuni di essi, a un certo punto, salteranno in aria, ma nessuno è in grado di affermare esattamente quali e quando. Se le rivoluzioni sociali sono invece fenomeni mirati, ecco che è possibile intervenire per identificarle e disinnescarle in tempo. Ma non le esplosioni da terreno minato. Nel caso dei terreni minati per mano di soldati di un esercito, si possono inviare soldati di qualche altro esercito a rintracciare le mine per disarmarle. Un compito rischiosissimo, come dice l'adagio dei militari: «Lo sminatore può sbagliare una sola volta». Ma nel caso di terreni minati predisposti dalle diseguaglianze sociali persino un simile rimedio, per quanto pericoloso, è fuori della nostra portata: il compito di interrare le mine e quello di dissotterrarle deve essere eseguito dal medesimo esercito, che non può tuttavia smettere di aggiungere nuovi ordigni, né evitare di camminarci sopra — all'infinito. Disseminare le mine e cadere vittima delle esplosioni diventa allora un circolo inevitabile e inarrestabile.

Le diseguaglianze sociali, di qualunque genere esse siano, derivano dalla divisione tra coloro che hanno e coloro che non hanno, come fece notare Miguel Cervantes de Saavedra cinquecento anni or sono. Ma a seconda delle epoche, l'avere o non avere certi oggetti rappresenta, rispettivamente, la condizione più ardentemente ambita o più ferocemente risentita. Due secoli fa in Europa, e ancora pochi decenni fa in molti luoghi lontani dall'Europa, e oggigiorno nei teatri bellici dove si combattono guerre tribali o dove dettano legge i tiranni, il principale oggetto del contendere tra i ricchi e i poveri era la pagnotta, o la ciotola di riso. Grazie a Dio, alla scienza, alla tecnologia e ad alcuni espedienti politici di buon senso, abbiamo superato queste emergenze. Il che non vuol dire, tuttavia, che l'antico divario sia morto e sepolto. Al contrario... Gli oggetti del desiderio, la cui assenza provoca una reazione scomposta e rabbiosa, sono oggi sempre più numerosi e variegati — il loro numero, anzi, aumenta di giorno in giorno, assieme alla tentazione di impadronirsene. Così crescono di pari passo il malumore, la rabbia, l'umiliazione, il risentimento rinfocolato dal non averli, come pure l'impulso di distruggere tutto ciò che non si può ottenere. Il saccheggio e l'incendio dei negozi sono la conseguenza di quello stesso impulso e soddisfano quello stesso desiderio.

Oggi siamo tutti consumatori, innanzitutto e soprattutto consumatori, consumatori per diritto e per dovere. Il giorno dopo la tragedia dell'11 settembre, nel suo appello lanciato agli americani per incoraggiarli a superare il trauma e tornare alla normalità, il presidente Bush non trovò niente di meglio da dire che «ricominciate a comprare». È il livello della nostra attività di acquirenti e la facilità con cui ci sbarazziamo di un oggetto di consumo per sostituirlo con una versione più «nuova e aggiornata» a fissare i parametri fondamentali del nostro status sociale e il nostro punteggio nella corsa al successo. A tutti i problemi che incontriamo sul nostro cammino, noi cerchiamo la soluzione nei negozi.

Dalla culla alla bara, siamo stati istruiti e addestrati a considerare i negozi come farmacie traboccanti di medicamenti per curare o almeno alleviare ogni malattia e afflizione della nostra vita individuale e collettiva. I negozi e lo shopping acquisiscono pertanto una vera e piena dimensione escatologica. I supermercati, nella celebre citazione di George Ritzer, sono diventati le nostre cattedrali; e di conseguenza, mi sia consentito di aggiungere, la lista della spesa è diventata il nostro breviario, le processioni nei centri commerciali i nostri pellegrinaggi. Nulla ci emoziona e ci riempie di entusiasmo come acquistare per impulso e scartare oggetti che non ci piacciono più per sostituirli con altri, più invitanti. La pienezza della gioia del consumo equivale alla pienezza della vita. Compro, ergo sono. Comprare o non comprare, questo è il problema.

Per i consumatori senza accesso al mercato, i veri poveri di oggi, il non poter acquistare è lo stigma odioso e doloroso di una vita incompiuta, la conferma della propria nullità e incapacità. Non semplicemente l'assenza di ogni piacere, bensì l'assenza della dignità umana, l'impossibilità di dare un senso alla propria vita e, da ultimo, la privazione stessa di umanità, autostima e rispetto per gli altri.

I supermercati saranno anche cattedrali aperte al culto per i fedeli, ma per gli esclusi, gli scomunicati, gli indegni, per tutti coloro che sono stati allontanati dalla Chiesa del Consumo, essi rappresentano le postazioni del nemico, erette nei deserti dell'esilio. Quei bastioni fortificati sbarrano l'accesso ai beni che tutelano altri da un così triste destino. Il presidente Bush sarebbe d'accordo nell'affermare che essi impediscono il ritorno alla «normalità» (e addirittura l'accesso alla normalità, per quei giovani che non hanno mai partecipato al culto). Griglie e saracinesche di ferro, telecamere di sorveglianza, guardie di sicurezza appostate all'ingresso e in borghese all'interno, non fanno altro che confermare l'atmosfera di campo di battaglia e di ostilità in corso. Queste cittadelle armate e sorvegliate, popolate di nemici asserragliati nel territorio di coloro che non hanno, ricordano agli abitanti, giorno dopo giorno, la loro miseria, la loro incapacità, la loro umiliazione. Insolenti nella loro presuntuosa e arrogante inaccessibilità, sembrano urlare parole di sfida e provocazione: ma a che cosa?

Testo pubblicatosul Social Europe Journal(traduzione di Rita Baldassarre)

Un piano che prevede la trasformazione delle colline di Serravalle Scrivia. Una nuova realtà, che già qualcuno chiama “Serravalle 2”, dovrebbe nascere alle spalle di uno degli outlet più “visitati” del Nord Italia. L’ormai “vecchio” Designer McArthurGlen non basta più, ora si pensa alla “Serravalle bis”. Cementificazione dell’ambiente o riqualificazione del paese? Il timore degli abitanti della zona è quello di «assistere, impotenti, a una totale devastazione del paesaggio. Una colata di cemento sul verde e sulle vigne». I residenti, forse spaventati dai trascorsi della costruzione dell’outlet, temono di vedere le proprie verdi colline trasformate in un mare di mattoni.

Il piano - chiamato “Masterplan Bollina” - è stato portato in Comune dalla società Pragaotto, la stessa Praga holding che nel 1999 ha gettato la prima pietra della zona commerciale di Serravalle. «È stato presentato alla commissione edilizia - conferma il sindaco Antonio Molinari -, il completamento dell’area della Bollina».

Un nuovo quartiere che ospiterà residenze e alloggi. Quasi due milioni di metri quadri di sbancamento dei verdi colli piemontesi. «In termini turistici è a mio avviso - puntualizza il sindaco - un progetto che va a completare e a offrire nuove strutture ricettive e ulteriori opportunità di lavoro. Con le nuove attività che verranno offerte, si migliorerà e si valorizzerà il sito che gravita intorno all’orbita dell’outlet. La sfera commerciale andrà a fondersi con quella turistica». L’amministratore delegato della Praga holding, la ditta che si occupa dei lavori, rassicura: «L’obiettivo è quello di puntare alla rivalutazione di un territorio prevalentemente collinare. Saranno anche inseriti, nella nuova costruzione, diversi dettagli che puntano all’eno-turismo».

«Le colline del Gavi, comunque sia, verranno invase dalle piastrelle dei viali e dai mattoni delle ville», sostengono quelli che si oppongono.

«Seguendo le linee del progetto - specifica Roveda - c’è l’intenzione di ricostruire tutta l’area alle spalle del centro commerciale, con una parte nuova, dedicata alla residenza per privati, ma attenta al mantenimento del verde. In più i vigneti attuali verranno ampliati». È, inoltre, prevista la formazione di un parco divertimenti, una nuova cantina di vini e diversi impianti a carattere turistico ricettivo. Verrà anche ridisegnato il campo da golf della “Bollina”.

Il nuovo look, a detta dei promotori, sarà attento all’ambiente. Tutto il nuovo quartiere otterrà energia da fonti di energia rinnovabile. Ecologia, dunque, e non solo. Verranno realizzati diversi percorsi e, una volta coperti dagli alberi, saranno calpestabili grazie a una rete di passerelle e ponti. I lavori sembrano voler contribuire alla formazione di «un grande parco con molto verde, in cui verranno create palestre e impianti sportivi», specifica l’amministratore delegato Roveda.

«I progetti innovativi, che andranno a prendere vita sulla collina, saranno attenti anche al rapporto tra il turismo e i quartieri residenziali», puntualizza il primo cittadino.

Residenziale, si, ma - secondo gli scettici - solo per pochi eletti. Il mercato a cui sono dedicati i nuovi villini, sembrerebbe rivolto a una clientela ben definita.

D’altra parte la ditta e le istituzioni provano a mettere sul piatto della bilancia il progresso. Con la formazione delle nuove colline, spiegano i responsabili, si provvederà a dotare tutta l’area di nuove attrazioni. Un cinema multisala, una grossa rete di ristoranti. «In più - sottolinea Roveda - verranno creati alberghi e quelli già presenti saranno potenziati, in modo da offrire il migliore servizio possibile a chi desideri fermarsi dopo la visita all’outlet». In paese non si parla d’altro. La nuova Serravalle e la durata dei lavori per la sua trasformazione. «Quanto tempo ci vorrà per finire», si domanda qualcuno seduto ai tavolini di un bar. L’amministratore delegato non si sbilancia, lasciando intendere che è impossibile stabilirlo. «I fattori burocratici sono i primi bastoni tra le ruote che rallentano l’avanzamento del cantiere stesso», precisa.

Tra dubbi, progetti e qualche protesta, i modelli e i disegni sono stati presentati.

Questa volta, sul ponte dell’Accademia, l’incendio è partito: i vigili urbani l’hanno dovuto chiuderlo al traffico pedonale per più di un’ora e sospendere gli attracchi ai due pontili dell’ Actv sottostanti, mentre i vigili del fuoco, oltre a spegnere il fuoco, con la motosega hanno eliminato quelle parti di legno danneggiate dove poteva ancora covare il fuoco.

In poco più di quattro mesi è la quinta volta che i pompieri sono costretti ad intervenire su quel ponte che nel 1933 venne edificato in poco più di un mese: doveva essere provvisorio e invece, dopo 78 anni, è ancora là. Eppure in quindici lustri e mezzo non si sono verificati principi d’incendio se non in poche occasione, ora in quattro mesi è accaduto ben cinque volte e l’ultima, ieri, non c’è stato solo fumo, per la prima volta si sono viste anche le fiamme.

Fino ad ora si è parlato di cicche non spente finite sul rivestimento di legno, ma una volta può accadere casualmente, cinque no. «Non me lo so proprio spiegare» afferma l’assessore ai Lavori pubblici Alessandro Maggioni. L’ipotesi che non si tratti di casualità, ma di qualcuno che la sigaretta o qualcos’altro la infili proprio per far partire l’incendio? «Non ho elementi certi per affermarlo - risponde l’assessore - ma non è da escludere, anche perchè ha piovuto da poco e il legno, seppur in cattive condizioni, in questi giorni non è certo secco».

Ieri, è accaduto poco prima delle 17: un passante ha visto il fumo che saliva da sotto uno dei gradini delle rampa verso le Gallerie dell’Accademia e ha dato l’allarme. Sono arrivati i vigili del fuoco e la Polizia municipale, c’era già qualche brace che cadeva sul Canal grande sopra i due pontili della fermata Actv. I pompieri hanno azionato le pompe con l’acqua sia da sotto sia da sopra e, nel frattempo, il ponte è stato chiuso al traffico pedonale e la fermata dei mezzi pubblici sospesa per poco più di un’ora. L’intervento è durato circa due ore e si è concluso con la motosega per eliminare il legno sul quale potevano covare altre braci.

«Il ponte è stato messo in sicurezza e riaperto - spiega l’ingegner Roberto Benvenuti, dirigente tecnico dell’assessorato ai Lavori pubblici - ma certo bisogna trovare una soluzione tampone fin tanto che non partono i lavori di restauro». Passare con la vernice ignifuga tutte le parti lignee sarebbe un lavoro lunghissimo, mettere i cartelli perchè i passanti prestino attenzione serve ma non basta, Comune e Vigili del fuoco si incontreranno per trovarla. «L’episodio di ieri - conclude l’assessore Maggioni - dimostra l’estrema urgenza di dare gambe al progetto di restauro. Dobbiamo fare in fretta».

Postilla

A mo’ di postilla pubblichiamo un brano del libro: E. Salzano, Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto, Corte del Fòntego, Venezia 2010, p. e nota

«Per lo Stucky le destinazioni previste dai piani rendevano necessaria una iniziativa concordata con la proprietà. Si prevedeva – tenendo conto anche delle caratteristiche strutturali degli edifici – la realizzazione di un centro congressi, di un albergo, di un luogo ove sistemare i moltissimi archivi comunali oggi ancora collocati in spazi meglio utilizzabili per altre funzioni urbane (a questo scopo si prevedeva di utilizzare i giganteschi silos di cereali), e infine edilizia residenziale. Ciò che si chiedeva alla proprietà era la cessione gratuita dei silos, a titolo di oneri di urbanizzazione e costruzione, e il rigoroso convenzionamento dell’edilizia residenziale per i veneziani. La proprietà non accettò queste condizioni e il complesso rimase abbandonato finché l’ amministrazione, agli albori del nuovo secolo, accettò le pretese della proprietà. Adesso lo Stucky è una esclusiva enclave di lusso. I silos, le cui facciate erano interamente prive di aperture, sono stati vittima di un incendio che li ha completamente distrutti (lasciando miracolosamente illesi gli edifici adiacenti) . Sono stati ritrovati disegni “originali” che avrebbero previsto la realizzazione di finestre sulle facciate; su questa base anche quell’ala è stata trasformata in albergo. Lucrosamente: per la proprietà, s’intende.

«(80) “E' stato un incendio doloso per il pm di Venezia, Michele Maturi, quello che ha semidistrutto il mulino Stucky sull'isola della Giudecca nella città lagunare. Il pubblico ministero ha infatti parlato di una "mano umana" e ipotizzato "il gesto di un folle o l'imprudenza di un barbone o, più probabilmente l'iniziativa dolosa di qualcuno". Al momento non ci sono gli elementi per confermare questa pista, ma la strada sembra essere quella giusta. Il mulino Stucky, importante esempio di architettura industriale ottocentesca, era in fase di restauro e pronto ad essere trasformato in un grande albergo e centro congressi” (da “Edilportale”, 18 aprile 2003).»

Un ponte fa tremare la laguna. E i nervi lasciati scoperti dalla tormentata vicenda di quello realizzato da Santiago Calatrava sono nuovamente scossi: spunta infatti un progetto per sostituire sul Canal Grande il ponte dell´Accademia, a pochi passi da San Marco. Ed ecco sollevarsi discussioni, approvazioni e reprimende. Favorevoli il Comune e la Soprintendenza, prudente il ministero per i Beni culturali, molto scettici architetti e urbanisti.

L´opera dovrebbe sostituire il ponte che attraversa il canale in pieno centro storico, fra le sponde dove sorgono le Gallerie dell´Accademia e Palazzo Franchetti. La polemica invade i social network, si mobilitano i comitati. È necessario rifare quel ponte? E, se è indispensabile, è corretta la procedura per intervenire in un luogo tanto pregiato? Due anni fa il Comune bandì un concorso, che si chiuse senza esiti. Ma a giugno scorso un´impresa di costruzioni bolognese, la Schiavina, e un´architetta veneziana, Giovanna Mar, che non vanta esperienze in fatto di ponti, presentano un progetto. Il Comune apprezza. Il costo, 6 milioni, sarebbe a carico dell´impresa e coperto da sponsor. Una specie di omaggio alla città. Ma quanto gratuito?

Il nuovo ponte dell´Accademia si sovrapporrà alla vecchia struttura realizzata in legno nel 1933, e immaginata allora come provvisoria. Di fatto, però, è un oggetto del tutto diverso. I materiali sono lame d´acciaio, lastre metalliche di zinco-titanio e alluminio. Il progetto sta bruciando tutti i passaggi: ha l´approvazione della Soprintendente ai beni architettonici, Renata Codello, e l´assessore ai lavori pubblici del Comune, Alessandro Maggioni, ha assicurato che la decisione avverrà in settembre. Ma Franco Miracco, consigliere del ministro Giancarlo Galan, frena: «È impensabile che la vicenda si risolva in sede locale. Saggiamente il direttore regionale dei Beni culturali ha inviato tutto al comitato di settore del ministero, che esaminerà il progetto».

«Serve un nuovo ponte? Non mi sembra», interviene Edoardo Salzano, urbanista, ex preside dell´Iuav (l´Istituto universitario di architettura). «Ormai il ponte è diventato parte integrante del paesaggio veneziano. La struttura è intatta, infatti viene conservata dal nuovo progetto». È d´accordo Lidia Fersuoch, presidente della sezione veneziana di Italia Nostra: «Quel ponte non è pregiato, ma ha una sua dignità. Perché non lo si restaura?». Secondo l´assessore Maggioni, invece, «il rifacimento è indispensabile, perché i costi di manutenzione del legno sono insopportabili: negli ultimi mesi si sono anche verificati tre piccoli incendi». Eppure, aggiunge Maggioni, «non esiste pericolo di crollo».

Gli interrogativi incalzano. «Che cosa dovrà pagare la città per quest´opera?», insiste Salzano. «Certamente venderà un altro pezzo di se stessa, cancellando con grandi pannelli pubblicitari parti della sua bellezza». Il rapporto fra pubblico e privato tocca un altro nervo scoperto: brucia la vendita dell´area dell´Ospedale a Mare al Lido ceduta a un fondo immobiliare che costruirà case, alberghi e un porto. Il tutto per realizzare il Palazzo del Cinema. Che però non si farà più.

Ma brucia anche la vicenda Calatrava. Una perizia commissionata dal Comune definisce il contestato ponte dell´architetto spagnolo «in prognosi riservata». La questione non è nuova: le sponde su cui poggia si muovono e la struttura ha bisogno di manutenzioni che fanno crescere i costi. Costi che si aggiungono ai 15 milioni finora spesi (il ponte nasceva anch´esso come un "regalo"). Autore della perizia è un professore bolognese, Massimo Majowiecki: lo stesso che firma il progetto strutturale per l´Accademia.

Molte discussioni solleva il fatto che per il nuovo ponte non si sia bandito un concorso. «Se un concorso va deserto, la legge consente la trattativa privata sulla base di quel bando», replica l´assessore Maggioni. Obietta Francesco Dal Co, storico dell´architettura all´Iuav e direttore di Casabella: «Il concorso è fondamentale per ogni opera pubblica. Ma lo è tanto più a Venezia, in quel punto del Canal Grande». «Al primo concorso per il ponte, negli anni Trenta, partecipò anche Carlo Scarpa», racconta Dal Co. E negli anni Ottanta immaginarono soluzioni gli architetti Robert Venturi e Franco Purini. «Per un´opera del genere si cimenterebbe il meglio dell´architettura internazionale», insiste Dal Co. E invece? «E invece succede che chi mette i soldi decide anche il nome dell´architetto. E questo, purtroppo, al committente pubblico va bene».

Postilla

Timeo Danaos et dona ferentes . Abbiamo un precedente recentissimo di ponti "donati" alla città, il ponte di Calatrava. Sembrava che fosse gratis, poi si è saputo che costerà al contribuente circa 15 milioni di euro. E mi domando, a chi serve? Del ponte di Calatrava lo abbiamo saputo, basta leggere il libretto di Paola Somma, Benettown , per l’editore Corte del fontego. È servito per “valorizzare” le proprietà dirette o indirette (Grandi Stazioni) di Benetton, padrone ormai delle grandi aree strategiche di Venezia.

A che serve il nuovo Ponte dell’Accademia? Rende più bello il paesaggio? Non mi sembra, ormai il ponte ex provvisorio è diventato parte integrante del paesaggio veneziano, La struttura è intatta, infatti viene conservata dal nuovo progetto. Corre voce che il ponte rischia di incendiarsi: questa diceria m’insospettisce. Ricordo che la demolizione dei silos granari dello Stucky (volumi privi di finestre), e la conseguente realizzazione al loro posto di un albergo, furono precedute da un incendio di chirurgica precisione, che distrusse solo quello che alla proprietà serviva distruggere per potervi sostituire un edificio dotato di finestre.

Che cosa dovrà pagare la città per ottenere la costruzione del nuovo, inutile, ponte? Dovrà vendere solo un altro pezzo di se stessa, cancellando con grandi pannelli pubblicitari parti della sua bellezza? L’assessore “competente” dice che “a fare il ponte sarà l’impresa Schiavina” (viva la concorrenza), ma per finanziarne la costruzione si ricorrerà a soluzioni innovative, tra cui l’azionariato popolare (e se ne parla anche nella relazione del progetto). Già. L’aumento della povertà è diventato parte integrante del paesaggio sociale, in Italia e in Europa. Pensiamo che il “popolo” comprerà volentieri “azioni” per costruire un nuovo (inutile) ponte? E in ogni caso, ha senso spendere qualche milione di euro per rivestire di nuovi moderni materiali un ponte che c’è e funziona, quando non ci sono soldi per gli asili nido e l’assistenza ai malati?

Per la ristrutturazione del Ponte dell’accademia ci fu un concorso, che passò sotto silenzio e in cui nessun progetto fu nominato vincitore. Adesso si dà il via libera senza alcuna discussione pubblica, senza alcun coinvolgimento di professionalità di alto livello, a uno dei progetti presentati e discussi a quel concorso solo perché “donato” da un’impresa di costruzioni? Almeno, per l’altro ponte, quello di Benettown, il lustrino era l’archistar Santiago Calatrava, i gonzi potevano crederlo una garanzia.

Non sembra necessario chiedere a chi governa la città di andarsene: sembrano aver già dato le dimissioni dalle responsabilità dei loro compiti.

Si narra che nel 250 a.C. per trasbordare 140 elefanti catturati ai cartaginesi, al console Lucio Cecilio Metello era venuto in mente di costruire un ponte che collegasse la Sicilia al continente. E che poi il progetto si fosse arenato per la paura che la faraonica struttura non reggesse il passaggio dei corpulenti pachidermi.

Un paio di millenni più tardi ci si riprovò ma da subito gli ingegneri più avveduti sconsigliarono vivamente la costruzione di un’opera così monumentale per le impervie condizioni ambientali dello stretto, i fondali irregolari, le burrascose correnti, le raffiche di vento, l’elevata sismicità…

Nel 1985 è Bettino Craxi ad annunciarne la prossima realizzazione. Un testimone che l’attuale presidente del Consiglio non poteva non raccogliere… E infatti pochi giorni fa la notizia ufficiale che, tuttavia, il premier Berlusconi ha preferito non sbandierare nel suo inconsistente intervento alla Camera e al Senato, forse per evitare polemiche: il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto di Messina è stato approvato. Con la viva e vibrante soddisfazione, per dirla con Crozza, dello stesso Silvio Berlusconi, di Gianni Letta, del ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, e dell’amministratore delegato della società Stretto di Messina e presidente dell’Anas Pietro Ciucci.

Quello che sembrava uno spettro lontano prende orribilmente corpo: un ecomostro lungo oltre 3,5 chilometri sospeso a quattro cavi d’acciaio con due piloni posti sulle sponde. Per realizzarlo servono poco meno di 9 miliardi di euro, due in più di quelli precedentemente ipotizzati. Praticamente il costo di una Finanziaria, poco meno del fabbisogno delle principali banche italiane, un decimo del finanziamento dello Stato per il Servizio Sanitario Nazionale (già ampiamente ridotto).

9 miliardi di euro. Una parte ce li metteremo noi, dirottandoli da grandi arterie ferroviarie e stradali che avrebbero urgente bisogno di interventi ben più cospicui di quelli fin qui destinati, o che magari potevano essere utilizzati per la ricostruzione (mai iniziata) dell’Aquila.

Un’altra ancora (circa 4 miliardi di euro) verrebbe raccolta sui mercati finanziari ma a nessuno sorge il dubbio che in questo momento di grave crisi dalle conseguenze incalcolabili possa essere un pò complicato racimolarli…

La terza tranche verrebbe dall’Unione europea. Peccato che l’Ue sembra voler voltare le spalle all’inutile e pericolosa costruzione e che i fondi verranno convogliati sul “corridoio” Berlino-Palermo che è da anni bloccato a Napoli.

Ora, ammesso e non concesso che Berlusconi troverà i fondi mancanti, sottraendone magari altri alla sanità, alla scuola pubblica o alla ricerca resta un banalissimo interrogativo: come la mettiamo con le frane a rotta di collo sul versante messinese e ancora peggiori sul fronte calabrese? E con la relazione di progetto in cui c’è scritto che quella è una delle zone a maggior rischio idrogeologico d’Italia? E con gli elevatissimi rischi sismici paventati da autorevoli geologi?

E una volta completato dovremo testarlo con 140 elefanti prima di farlo attraversare da migliaia di camion e automobili?

Perché dunque questa ostinazione nel voler realizzare un’opera così pericolosa e per niente redditizia dal momento che le grandi strutture di questo tipo, dal Golden Gate Bridge al Canale sotto la Manica sono tutte in perdita?

Forse la risposta ce la fornisce il diplomatico americano J. Patrick Truhn, console generale a Napoli in cinque dispacci datati tra il 2008 e il 2009 e pubblicati da Wikileaks: “La mafia potrebbe essere tra i principali beneficiari della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina”…

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