In tutta la zona delle ex Varesine, i lavori edili che negli ultimi anni hanno fatto tanto discutere sono ormai a uno stato piuttosto avanzato. È pienamente operativo il nuovo palazzo delle Regione, ad opera dello studio americano Pei; resta da aprire il lato di via Restelli, dove il recente arrivo di alberi lascia immaginare una rapida conclusione dei lavori. A buon punto anche l'edificio di Cesar Pelli, che ospiterà tra l'altro 4 mila dipendenti di Unicredit. Oltre la stazione Garibaldi, si intuisce ormai appieno la fisionomia dello stabile progettato da Stefano Boeri: un giardino verticale di nuova concezione per la città, su cui si appuntano le curiosità di molti osservatori. Anche gli altri edifici sono piuttosto avanti; un'occhiata al plastico in visione nella villetta della Fondazione Catella, dice con chiarezza quanto poco manca alla conclusione.
Nella parte viaria, i lavori infrastrutturali sono certamente più indietro; tuttavia il disegno è percepibile. La prossima apertura del primo tratto della linea 5 della metropolitana — quello diretto al Nord, fino a Sesto San Giovanni — renderà la zona quella meglio servita della città, con tre linee di metrò, il passante, la stazione ferroviaria di Garibaldi, e Centrale a due passi. Una volta conclusa la parte stradale, grazie al nuovo tunnel di viale della Liberazione, sarà possibile camminare praticamente senza macchine da via Pola fino a Piazza XXV Aprile (dove, si spera, un giorno termineranno gli eterni lavori del parcheggio).
A nord, l'area si appoggia all'Isola, che per ora è rimasta a guardare, cercando di mantenere la sua fisionomia di quartiere di carattere, con le abitazioni a misura d'uomo, e, negli ultimi anni, un buon numero di locali, a vivacizzare la vita serale e notturna con una movida non eccessiva e perfettamente sostenibile. Rispetto al nuovo che avanza, l'Isola non ha proprio manifestato entusiasmo, tra opposizioni alle nuove costruzioni, un pò di nostalgia e molto scetticismo. A noi pare invece che, pur con qualche evidente difetto (per esempio i nuovi edifici di via Confalonieri incombono sulla strada, troppo stretta per sopportare la mole di quelle altezze), il risultato finale sia più che condivisibile.
Sugli edifici del viale della Liberazione, c'è però un cartello, «La location per il business del futuro» che, al di là dell'agghiacciante anglitaliano, induce al timore che gran parte della zona si trasformi in una pura sede di lavoro, destinata all'abbandono serale. È già accaduto, per esempio, a Bicocca; con risultati certo non encomiabili la notte e i weekend; una volta che è successo, recuperare diventa praticamente impossibile.
Alle Varesine il rischio è evitabile, a patto che si sfrutti adeguatamente la vicinanza con l'Isola, avviando un'integrazione con la sua vita diurna e notturna. Allo scopo, si raccomandano politiche che favoriscano l'apertura di negozi e locali, e mantengano alto il tasso di abitazioni, evitando la proliferazione incontrollata degli uffici. È inoltre essenziale che nelle nuove aree vengano organizzate da subito occasioni frequenti di vita e ritrovo serale, per far sì che, più che una «location», nasca un quartiere, dove oltre che «business» c'è anche vita.
Per chi ha conosciuto quell’area fino agli anni ’80, forse il paragone è possibile e lecito: meglio un quartiere bombardato, di aree ferroviarie dismesse ma sgomberate, di improvvisati praticelli e giardinetti a uso di pendolari in transito, o la baracconata anni ’60 fuori tempo massimo che sta spuntando adesso? Di questo si tratta, infatti, con poche differenze, ovvero del Centro Direzionale vagheggiato a suo tempo, in salsa aggiornata per quanto riguarda le architetture, i serramenti, i boschi verticali. Per nulla cambiato invece per l’orientamento automobilistico, con lo stradone multi corsia ubiquo, gli edifici buttati lì (si capisce un po’ anche dalla descrizione nell’articolo: architetture singole, non ambienti) sul campo aperto. E il “business” visto che non siamo più negli anni ’60 della millecento e delle sigarette doppio filtro per la signora elegante è solo quello immobiliare, come a modo suo racconta il cartello anglofono LA LOCATION PER IL BUSINESS eccetera.
Ovvero quella stilisticamente attempata curtain wall è probabilmente destinata a coprirsi di polvere nell’attesa di qualche inquilino in grado di iniziare un po’ a popolarlo almeno di impiegati in pausa pranzo, quel sedicente quartiere. L’unica speranza è che, come al solito, ci pensino il tempo, e l’adattabile improvvisazione umana, a scavare nel nulla urbanistico di questa ennesima tragicomica caricatura, a dargli un senso diverso dal vuoto pneumatico che ci lascia in eredità il pubblico-privato di marca ciellina & company (f.b.)
«Le scuole materne statali vanno eliminate». Fa sul serio Remo Sernagiotto, la sua non è una sparata di fine estate ma la base di un progetto pilota da presentare al ministro Mariastella Gelmini il 16 settembre, a Cortina. La sua segreteria ha appena finito di metterlo nero su bianco. «É un piano di riforma della scuola dell’infanzia, che parte dal Veneto—spiega l’assessore regionale al Sociale —. Consiste nell’affidare le materne statali e comunali alla gestione di Chiesa, parrocchie, cooperative e famiglie riunite in Ipab, perché così si risparmierebbero circa 300 milioni l’anno, da poter ridistribuire alle famiglie e allo stesso sistema formativo. É il principio della sussidiarietà orizzontale: è dimostrato che gli istituti parificati "puri" costano meno. Soltanto convertendo le comunali paritarie, risparmieremmo 18 milioni: oggi ne costano 33». I numeri in effetti lo confermano.
In Veneto ci sono 1183 materne, il 68% sono parificate e il 32% statali. Le paritarie autonome accolgono 87.952 bambini, al costo di 2.800 euro l’uno all’anno per un totale di 243 milioni; le paritarie comunali contano 6480 iscritti per 5.120 euro ciascuno e una spesa complessiva di 33 milioni; le statali seguono 45.434 piccoli a 6.331 euro pro capite, con un’uscita generale di 287,6 milioni. «Ecco perchè vorrei eliminare le statali — insiste Sernagiotto —o la Gelmini lo capisce o intraprenderò una battaglia mortale per far passare questo modello. E dico una parola anche sui nido: ora diamo 17,5 milioni a quelli di famiglia, i pubblici hanno costi più alti, perciò vanno chiusi e riconvertiti in tre mesi». Ecco, questa è la ricetta del responsabile del Sociale per risolvere l’annosa questione dei tagli e dei ritardi imposti dal governo ai contributi statali per le materne, che ha sollevato le proteste anche dei vescovi. Il Veneto sta ancora aspettando i 50 milioni relativi all’anno scolastico 2010/2011.Ma nessuno si sente di sostenere la scomparsa delle statali, nemmeno la Chiesa.
«Il sistema educativo di formazione e istruzione si basa sulla pluralità dell’offerta— osserva don Edmondo Lanciarotta, coordinatore del Comitato per la parità scolastica—se viene a mancare, cadono anche la libertà di scelta dei genitori e il principio di autonomia. Alla Gelmini chiediamo invece di riconoscere il risparmio di 6,5 miliardi all’anno favorito in Italia dalle scuole paritarie e di ridistribuire parte della cifra alle stesse, per consentirne la sopravvivenza». «Conosco il piano, l’assessore ce lo ha presentato il 12 luglio — rivela Ugo Lessio, presidente regionale della Federazione italiana scuole materne — capisco le buone intenzioni dell’autore, ma è una follia pensare di eliminare 560 scuole pubbliche, con 1700 sezioni e 3400 insegnanti, per affidarle a cooperative e parrocchie che sicuramente non le vorranno. Tra l’altro non puoi toccare i contratti nazionali di lavoro. E poi la presenza delle statali non è un danno ma un arricchimento della proposta formativa ». «L’idea di consegnare al privato la scuola statale è demenziale— insiste Roberto Fasoli, consigliere regionale del Pd ed insegnante — vengono dall’estero a studiare i nostri modelli educativi, tra imigliori d’Europa. Costa di più perchè i contratti sono gestiti dal Miur e perchè il pubblico garantisce diritti non contemplati dal privato. Visto che l’offerta statale è insufficiente, la si sostenga e nel contempo si finanzi adeguatamente le parificate, che integrano il servizio. Se il piano Sernagiotto arriverà in consiglio, il Pd farà di tutto per sbarrargli la strada».
La crisi del turismo e la condanna a morte del sistema insediativo minore – dallo spopolamento più che dalla manovra del governo – sono questioni che stanno insieme. E andrebbero trattate insieme, con decisione: il momento non consente il punto interrogativo nel titolo – quale futuro? – dello stesso dibattito da quarant'anni. Non mancano le visioni coraggiose sul turismo, ma in genere l'approccio è titubante e rituale. Nessuno sa più di tanto sul fenomeno – molto aleatorio – e d'altra parte la confusione rende più facile il grande o piccolo affare mentre il frullatore omogeneizza tutto nel mercato delle vacanze: gelatai e palazzinari, albergatori e faccendieri.
Dovremmo ammettere che non ce l'hanno detta giusta. Perché c'è qualcosa che va oltre le difficoltà globali. Il turismo avrebbe segnato la svolta, e invece eccoci qua. Ci hanno detto che avrebbe prodotto benessere e bellezza e invece solo qualcuno si è arricchito e la bruttezza è diffusa e socializzata; che ci avrebbe collegati facilmente con il mondo e invece abbiamo meno navi; che le filiere si sarebbero evolute e invece è il tripudio di congelato dell'Atlantico in ogni mensa. Abbiamo immaginato la stagione lunga e invece si sono allargate le schiere di case vuote a prezzi inarrivabili per le giovani coppie.
L'occupazione nel turismo è di 40/50 giorni: per fare un anno di lavoro ci vogliono dieci estati. Meglio di nulla, dicono nei centri delle ferie dorate, dove la Caritas è più attiva che altrove. Il Pil relativo al turismo è poca roba e dovremmo leggerlo in confronto ai costi elevati della metropoli turistica sparpagliata, energivora e dissipatrice, a regime per un un mese e mezzo. Poi c'è il capitolo del quanto sfugge al fisco.
Meno arrivi, meno presenze, meno tutto, e i dati peggiori sono ovviamente nei luoghi più marginali e inaccessibili senza mezzi propri. Le ragioni della crisi sono confuse, ma qualcosa si capisce nell' incerto complesso di cose, come nella canzone di Paolo Conte. La Sardegna ha prezzi inammissibili, come se la rendita del metroquadro costituisse ormai il modello: come spiegare altrimenti un chilo di ravioli a 28 euro? E se fosse che l'isola ha perso fascino perché la “troppa Sardegna” – secondo Giuliano Amato – è una sceneggiata mediocre, invadente, debordata oltre le marine dei vip? E se fosse che le risposte deprimono i mercati – come si dice oggi ? (se le istituzioni locali chiamano Briatore a consulto vuol dire che siamo molto vicini ai riti propiziatori per l'estate che verrà).
Racconti ingannevoli da decenni. Come se avessero messo in giro bond-spazzatura, appendendo il futuro di più generazioni a una fiction fondata sul consumo dei paesaggi. E' vero: ci sono eccellenti operatori turistici, ma sono pochi e ai bordi del ciclo edilizio.
Le comunità piccole sono il pesante lato b. L'altra Sardegna: quei comuni passati per numerose avversità e sfide epocali (la formula “vidazzone/paberile” per l'uso della terra ha tenuto uniti pastori e contadini). La proposta di privarli di assemblee civiche è insensata – e infatti accantonata – , ma è servita a evidenziare il deserto che avanza oltre la scorza costiera. Ci riguarda tutti e dovunque stiamo dovremmo preoccuparci di territori senza presìdi. Di paesi privati del futuro solo perché la bassa densità abitativa non merita riguardi e servizi. Lo spopolamento, si sa, procura disservizi. Se non ci sono i numeri non vale metterci un bancomat ad Abinei, il paese-metafora di Giorgio Todde, fermo a 808 abitanti; figurarsi un maestro, un medico, un carabiniere. E più si toglie e più si fiacca l'orgoglio di stare lì, la voglia di provare a resistere senza la prospettiva di un lavoro, difficile da realizzare senza sostegno. L' umiliazione inflitta ai pastori è inaccettabile ed è un grave errore che non si vada in soccorso di quel disagio, anche con generose rinunce. E qualcuno prima o poi chiederà conto dei fondi europei pensati per aiutare le comunità più deboli e spesi per opere inutili in aree più fortunate. O la Sardegna si farà carico con ogni mezzo di salvare ogni parte dell'isola – dove sia bello vivere – o non c'è futuro. E i turisti, appunto, preferiscono i luoghi autentici e abitati con piacere.
Caro Presidente Vendola, siamo i due giuristi che, dopo aver elaborato insieme ad altri colleghi i quesiti per i referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali (referendum n. 1) e contro la possibilità di trarre profitto dal servizio idrico integrato (referendum n. 2), abbiamo patrocinato con successo di fronte alla Corte Costituzionale, il 12 gennaio 2011, la questione della rilevanza costituzionale ed europea dei beni comuni.
Oggi ci troviamo di fronte ad un attacco senza precedenti ai beni comuni, portato avanti sul piano politico, giuridico e costituzionale, che cerca di azzerare i risultati fin qui raggiunti attraverso la battaglia referendaria. Ci permettiamo perciò di scriverLe in quanto Lei è fra i pochissimi leaders politici sensibili alla questione dei beni comuni e del necessario ripensamento del rapporto fra pubblico e privato (vogliamo ricordare Luigi de Magistris che ha voluto un assessorato specifico ai beni comuni e la cui giunta sta provvedendo in questi giorni alla ripubblicizzazione del servizio idrico) a essersi conquistato una posizione istituzionale tale da poterci consentire l'accesso, in via diretta, alla Corte Costituzionale. Come ben sa, avendo già sperimentato questa via proprio a proposito dell'abrogato Decreto Ronchi, nel nostro ordinamento una Regione, e non il Comune, può impugnare una legge o atto avente forza di legge di fronte alla Corte Costituzionale entro sessanta giorni dalla sua entrata in vigore. Abbiamo perciò un po' di tempo, ma non moltissimo, per preparare una memoria stringente, capace di porre anche le più alte istituzioni del paese di fronte ai loro ineludibili obblighi costituzionali.
Le scriviamo questa Lettera aperta anche a nome delle 5000 persone, amministratori, associazioni e gruppi politici sensibili alla questione dei beni comuni che in pochi giorni hanno sottoscritto l'appello che, insieme ad altri giuristi estensori dei referendum, abbiamo lanciato dalle colonne di questo giornale (www.siacquapubblica.it) e intendiamo raccogliere le firme durante tutto l'iter di conversione del Decreto per presentarle infine al Presidente Napolitano.
A nostro avviso infatti non solo l'art. 4 del decreto legge n. 138 del 13 agosto 2011, beffardamente rubricato "Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa europea", ma l'intero impianto della "manovra" di ferragosto è profondamente incostituzionale, violando fra l'altro prerogative di autonomia degli enti locali, precedenti decisioni della Corte Costituzionale, nonché lo spirito di quel nuovo diritto pubblico europeo dell'economia, che faticosamente tenta di affermarsi. La manovra di ferragosto infatti è testimone del clima da shock economy che è stato creato in Europa e che sta condizionando la politica del governo italiano e l'atteggiamento "responsabile" delle opposizioni. Una complessa rete di poteri forti, economici e finanziari ha costruito un dispositivo politico e mediatico che fonda su una presunta improcrastinabile urgenza l'evidente tentativo del neoliberismo di ristrutturare la propria egemonia che la grande crisi ha reso progressivamente meno persuasiva. L'esito di questa politica altro non può essere che un nuovo saccheggio.
In Italia i referendum di giugno e le vicende elettorali di Milano con Pisapia e di Napoli con de Magistris hanno inflitto una netta sconfitta al blocco bipartisan che negli ultimi vent'anni ha portato avanti una politica economica e culturale del tutto coerente con il dispositivo ideologico neoliberista. Prodromica alla "primavera italiana" è stata la Sua conferma come Presidente della Puglia, voluta dal popolo pugliese sconfiggendo proprio Massimo D'Alema, probabilmente il politico italiano che maggiormente incarna l'essenza bipartisan del neoliberismo. In sintesi, tale concezione ci pare essere l'idea che "il privato" sia la soluzione per ogni problema di organizzazione sociale complessa, il solo motore che rende possibile sviluppo e "crescita". Questa concezione produce un susseguirsi di mosse politiche volte a trasferire sempre nuovi spazi e soprattutto nuove risorse pubbliche al privato, sotto diverse forme, siano esse liberalizzazioni, privatizzazioni, dismissioni, grandi appalti, (e naturalmente guerre). Incredibilmente tale politica reazionaria ha preso il nome di riformismo!
Negli ultimi anni, a livello globale e poi anche locale, un pensiero ed una narrazione alternativa, di cui Lei è uno dei più autorevoli esponenti, si è fatto strada dapprima in modo carsico e poi , finalmente, con i referendum del giugno scorso, in modo politicamente maggioritario. Oltre 27 milioni di italiani, la maggioranza assoluta degli elettori, ha dichiarato inequivocabilmente, tramite uno strumento complicatissimo quale il referendum abrogativo, ex art. 75 Costituzione, che occorreva "invertire la rotta", che il privato non è necessariamente "la soluzione" ma molto più sovente "il problema", che occorre immaginare una ristrutturazione fondativa del settore pubblico, capace di renderlo aperto, partecipato e in grado di portare avanti l'interesse pubblico e non soltanto quello privato dei poteri forti che sempre più spesso controllano le istituzioni di politica rappresentativa.
La virulenza costituzionale di questo attacco impressiona e travolge i capisaldi più profondi della nostra costituzione economica, in primis gli articoli 41 (iniziativa economica privata), 81 (bilancio) e 53 (progressività della contribuzione fiscale). Colpisce in particolare la disinvoltura eversiva con cui si maneggia una materia tanto delicata e fondativa di un ordine giuridico legittimo quanto quella della gerarchia delle fonti del diritto. La manovra mette in moto una sorta di processo costituente emergenziale de facto, che anticipa gli effetti di una riforma costituzionale destinata a travolgere i soggetti più deboli ed i beni comuni e che struttura (complice la Lega) un centralismo autoritario che distrugge il pluralismo politico e costituzionale di cui al Titolo V della nostra Costituzione, nonché i principii europei della sussidiarietà e della coesione sociale e territoriale.
Sul piano politico, la retorica della responsabilità e della condivisione interclasse necessaria per superare la crisi sta travolgendo i tratti fondativi del nostro ordine democratico e prelude ad un dopo-Berlusconi segnato dalla discesa in campo di Montezemolo, portavoce accreditato del modello Marchionne. Siamo convinti che sul piano del diritto costituzionale vigente non possano essere riproposte né la privatizzazione\liberalizzazione dei servizi pubblici locali né brutali operazioni di centralizzazione, né provvedimenti lesivi della dignità delle persone e dei lavoratori quali quelli che conseguono all'art. 3 del decreto di Ferragosto secondo cui: «In attesa della revisione dell'art. 41 della Costituzione, comuni, provincie, regioni e Stato, entro un anno dalla data di entrata in vigore della Legge di conversione del presente decreto, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l'iniziativa e l'attività economica privata sono libere ed è permesso tutto quello che non è espressamente vietato dalla legge».
Dal punto di vista dell'accettabilità politica, riteniamo inoltre che non possano essere riproposte dismissioni del patrimonio pubblico (che può invece rendere molto se ben governato), ulteriori precarizzazioni e grandi opere inutili o dannose a loro volta espressamente respinte dal voto popolare a proposito delle centrali nucleari. Le alternative e le possibilità di risparmio esistono. Diverse fra queste sono indicate dallo stesso fraseggio costituzionale nel ripudio della guerra, nella cura del territorio, nell'investimento sulla ricerca e nella progressività fiscale seria. Sta alla buona politica, per la quale Lei certamente è un punto di riferimento, elaborarle meglio nel tempo necessario e metterle in bella copia, senza cadere nella trappola dell'eccessiva urgenza.
Di fronte allo scempio morale, politico e costituzionale che il decreto pone in essere è necessaria piuttosto una reazione forte e seria che va condotta tanto con gli strumenti della politica quanto con quelli del diritto. Mentre dal primo punto di vista compete a Lei e agli altri leaders più sensibili a queste istanze proporre finalmente, in un rinnovato rapporto con i movimenti e con i cittadini, un'alternativa autentica al blocco bipartisan dominante, dal punto di vista giuridico e costituzionale siamo consapevoli che compete a noi, in quanto tecnici portatori della sensibilità e della storia politica necessaria per configurare istituzionalmente la difesa dei beni comuni, presentare nuovamente di fronte alla Corte Costituzionale le ragioni dei 27 milioni di cittadini che vogliono invertire la rotta. Insieme, nel tempo necessario, politica e diritto possono restituire ad un rinnovato settore pubblico gli spazi e l'autorevolezza necessari per governare la crisi. A breve occorre adire le vie costituzionalmente rimaste aperte sempre che il Presidente Napolitano, accogliendo l'appello di tanti cittadini, non intenda intervenire in fase di promulgazione.
Caro Presidente Vendola, noi le abbiamo scritto per metterci a disposizione, nella nostra veste di avvocati abilitati al patrocinio di fronte alle supreme giurisdizioni, per ricevere mandato, naturalmente a titolo assolutamente gratuito, da soli o insieme ad altri legali di Sua fiducia, a rappresentare la Regione Puglia (ed incidentalmente la nuova egemonia dei beni comuni) di fronte alla Consulta in un ricorso diretto di incostituzionalità del Decreto 138\2011.
Riceva un saluto cordialissimo.
Qui per firmare l'appello dei giuristi
Un agosto terribile ma settembre non sarà certo tranquillo e, oltre ai problemi tutti interni al Pd, restano comunque sul tappeto due questioni milanesi di fondo: l´Expo e il Pgt. Dell´Expo continuiamo ad avere brandelli di notizie sul "come" ma il dibattito sul "perché" non lo si vuole affrontare. Prudenza politica, forse incertezze. Quanto al Pgt, dopo che il centrosinistra si è convinto che le operazioni in corso sono solo una sorta di argine contro il peggio, resta da sciogliere il vero nodo: che tipo di prospettiva si vuol dare alla città? Si è dalla parte di chi crede allo sviluppo mosso solo dalla crescita o pensiamo che vi possa essere sviluppo senza crescita? Per capirci: si è con chi in fondo in fondo pensa che ci vogliano più abitanti e più territorio edificato o chi pensa a un diverso equilibrio? Per dirla con Presidente della Repubblica: in che direzione deve andare il "motore del desiderio"? Il presidente Sarkozy nel 2008 ha incaricato una commissione (la Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi) di studiare modelli e indicatori diversi dal Pil e tra questi indicatori ha incluso alcune azioni «quotidiane»: camminare, fare l´amore, fare esercizio fisico, giocare, leggere (non per lavoro), mangiare, pregare.
E ancora, riposarsi, cucinare, prendersi cura del proprio corpo, lavori domestici, lavorare, usare il computer (non per lavoro), prendersi cura dei figli, viaggi/spostamenti e altro ancora.
L´Istat ha avviato un "Gruppo di indirizzo sullo sviluppo della società italiana" basato sul criterio del "benessere equo e sostenibile" il Bes. Che se ne pensa? Ai sostenitori della crescita propongo una riflessione. Nel 1973 Milano contava 1.743.000 abitanti, nel 1993, vent´anni dopo, 1.330.000. Come sono stati questi vent´anni? Un pianto? Una desolazione? La mortificazione della città? Tutt´altro. Sono stati anni di progresso, si è molto aumentata la rete della MM, il traffico e il numero delle immatricolazioni è cresciuto tanto che nel 1977 si è deciso di chiudere piazza del Duomo al traffico. Nel 1978 la Regione si è comprata il grattacielo Pirelli, la Scala ha fatto magnifici spettacoli, la vita culturale e i circoli politici hanno conosciuto momenti di grande fervore e favore,
Cologno Monzese è diventato il regno delle televisioni di Fininvest che nel 1988 si comprava la Standa. Nel 1990 si è fatto il terzo anello di San Siro. Insomma, una città vivace. Partendo da Milano e ritenendo di interpretarne lo spirito, nel 1994 Berlusconi scende in campo e Milano conta 1.333.000 abitanti. Nessuno si sognava di parlare di crisi della città. Oggi, diciassette anni dopo siamo poco più di 1.300.000. Da una decina di anni si parla di crisi della città. Sarà una coincidenza ma da quando è salito al governo della città il centrodestra le cose per Milano non si sono messe bene: una politica non condivisa. Sperare di uscirne con una crescita della popolazione, non solo è illusione ma è follia pensare di far leva sull´edilizia per arrivarci. Adesso si pensa che Expo possa essere una sorta di colpo di reni per rimettere Milano in piedi. Come dicevo all´inizio: perché? E comunque dovendo, ma soprattutto potendo, investire 4 miliardi di euro, questo tipo d´investimento è quello che darà un "rendimento" migliore di qualunque altro per il futuro di Milano?
Morale e politica, questioni non separate
di Luciano Muhlbauer
«Nessuno aveva nulla da obiettare sui privilegi dei nobili di Francia, fin quando essi assicuravano un governo alla nazione». Forse quelle parole di Voltaire non dicono tutto,ma indubbiamente illuminano il nocciolo della questione. Cioè, ieri come oggi, questione morale e questione politica sono inscindibili. Anzi, il dilagare dell’immoralità pubblica è direttamente proporzionale all’intensità della crisi politica. Ecco perché non ha senso discutere della questione morale come se fosse una cosa separata. Sarebbe soltanto un esercizio di ipocrisia e di autoassoluzione.
Vale in generale e vale anche per il caso Penati, comunque vada a finire la sua vicenda giudiziaria. Già, perché quei «dimettiti» e «rinuncia a» sparati ormai a raffica all’indirizzo di Penati, dopo la reticenza iniziale, non convincono. In fondo Filippo Penati non è proprio una meteora. È stato sindaco, segretario provinciale, presidente della Provincia, coordinatore della segreteria nazionale, candidato alla presidenza regionale e vicepresidente del consiglio regionale.
Ma soprattutto è stato l’ispiratore, il simbolo e il capofila di quel Pd del Nord che postulava la risalita della china in terra nemica mediante un’operazione culturale che portasse i democratici ad assomigliare sempre di più all’avversario e ad integrarsi sempre maggiormente nel sistema di potere esistente.
Ed ecco, dunque, il Penati che parlava come la Lega e De Corato, coltivava rapporti ravvicinati con Cl e annessi, emetteva scomuniche contro la cultura del ’68 e, ovviamente, definì una politica delle alleanze incentrata sulla rincorsa del centro e sulla rottura a sinistra. Molto difficile, dunque, sostenere che il caso Penati riguardi soltanto Penati. Beninteso, il punto non è processare il Pd, come vorrebbe la destra. Infatti, anche nel periodo di massima forza del penatismo vi fu chi dentro il Pd dissentì e si oppose, così come fuori dal Pd vi fu chi non si oppose e, anzi, condivise. No, il punto è un altro ed è tutto politico. Cioè, occorre finirla con quella tragica rimozione della politica, perché a disintegrare ogni presunta «diversità» e a costruire il brodo di coltura dell’affarismo fu proprio la concezione penatiana della politica.
E, peraltro, senza nemmeno realizzare l’obiettivo che doveva giustificarla, cioè la risalita della china. Anzi, il penatismo è stato foriero di sconfitte e arretramenti.
L’esempio forse più lampante sono le elezioni regionali del 2010. Penati non ha solo ha rotto il fronte dell’opposizione a Formigoni, estromettendo Rifondazione senza peraltro arruolare l’Udc, ma soprattutto ha realizzato un risultato assolutamente negativo, collocandosi ben 10 punti sotto quello del compianto Riccardo Sarfatti del 2005. Soltanto un anno più tardi Giuliano Pisapia avrebbe vinto le elezioni a Milano, con una politica che era l’esatto opposto di quella di Penati. Anche per questo risultano più che stucchevoli i tentativi di coinvolgere Pisapia, specie se provengono da esponenti dello stesso centrosinistra.
Sarebbe un errore straordinario se il Pd insistesse nella rimozione della questione politica, illudendosi di salvare il salvabile. È vero il contrario, basta guardarsi attorno. La primavera dei sindaci e dei referendum sembra già lontana, le due manovre finanziarie hanno un segno classista esplicito e il governo sembra redivivo e capace di sopravvivere a questo autunno, mentre l’opposizione parlamentare si azzuffa addirittura sullo sciopero generale. Insomma, o il Pd trova la lungimiranza di cogliere l’occasione per un rinnovamento politico serio oppure il prezzo lo pagheremo tutti, con altri Penati e nuove sconfitte.
«Bersani rompa il sistema delle spartizioni al Nord»
Intervista a Marco Cappato, di Daniela Preziosi
Le espulsioni sono «roba buona per i partiti stalinisti, fascisti, dipietristi e leghisti», anziché pensare «a nuove purghe» il Pd dovrebbe «rompere con la politica di complicità con il potere formigoniano e di Comunione e lottizzazione». Marco Cappato, consigliere comunale radicale, a Milano è inmaggioranza con il Pd ma ricorda che alle regionali in cui Penati era candidato del centrosinistra, i radicali non lo votarono: «Perché, lo abbiamo detto, non era alternativo al sistema di potere trasversale che c’è in Lombardia e nel Nord».
Faccia qualche esempio.
Da anni i grandi appalti delle infrastrutture, della sanità e dei trasporti sono esclusiva di reti trasversali di affari della galassia di Cl e della Compagnia delle opere insieme alle cooperative rosse. Il presidente della Regione Formigoni è l’elemento forte. E il Pd, con Penati, si limita a occuparne la quota di minoranza. Non parlo di reati, parlo di una spartizione politica. Penati doveva essere il capo dell’opposizione alla Regione, e invece ha accettato di diventare vicepresidente del consiglio della Lombardia.
Altro esempio: ci sono mille persone che hanno dichiarato alla Procura che le firme sulla candidatura di Formigoni sono false? È un potenziale attentato alla democrazia, ma il Pd non fa niente, se non per una cosa meno grave sotto il profilo democratico chiedere le dimissioni della Minetti. Sulla vicenda del limite dei due mandati di Formigoni, Penati ha aderito in anticipo alla tesi di Formigoni.
Il democratico Errani è nella stessa condizione.
Appunto. In Lombardia il Pd ha chiuso un occhio sulla ineleggibilità del consigliere Pdl Pozzi, che ha sottoscritto dimissioni tardive da aziende controllate dalla Regione, perché ne ha uno proprio, Costanzo, nelle stesse condizioni.
L’allontanamento di Penati dal Pd non basta?
No, né basta rottamare un pezzo di classe dirigente, o fare le scarpe allo stesso Bersani, se non cambia la politica. Ora nel Nord c’è un sistema di spartizione in cui le cooperative rosse sono forti in Emilia, quelle bianche e quelle verdi nel Veneto, quelle bianche di Cl in Lombardia. Se il Pd non cambia questo, e non si batte per regole di trasparenza, non cambia niente.
L’assessore comunale Maran, indicato come uomo di Penati, si deve dimettere?
No. Gli arrivano accuse indirette e fumose. Dimostri di essere fuori da questo sistema. Pensi subito per esempio a realizzare la volontà popolare espressa nei cinque referendum ambientali.
postilla
per chi segue questo sito, forse è abbastanza “consolante” leggere le condivisibili interpretazioni politiche (se vogliamo usare questa parola a dire il vero un po’ impropria) di un caso di cui la cronaca si occupa esclusivamente coi soliti toni un po’ giustizialisti e sbrigativi. Consolante perché emerge chiara, addirittura lampante, la spiegazione di anni, anni e anni di scelte territoriali. Strascico pesante di una cultura industrialista dura a morire? Certo, sicuro, ma poi? Il meccanismo da manuale, quasi caricaturale a dire il vero, con cui da un lato si delineavano scenari di sviluppo anni ’60 a colpi di strade capannoni e centri commerciali, dall’altro si cooptavano direttamente o indirettamente pezzi e diramazioni del mondo che in teoria avrebbe dovuto far muro contro queste ipotesi, adesso un po’ si illumina. E lascia esterrefatti soprattutto scoprire (per i non addetti ai lavori, se si consente, è una scoperta) quanto ramificato e solido fosse, il patto d’acciaio. C’è da sperare proprio che la magistratura possa procedere, ma soprattutto che emerga chiaro quanto e come lo sfascio ambientale e lo spreco di risorse e ricchezza, questioni legali a parte, derivi dal pneumatico vuoto culturale di una classe dirigente e dei suoi tirapiedi e tuttologi a gettone. Che naturalmente ritroveremo presto a pontificare sotto altre insegne. Per alcuni aspetti di questa patologia bi-partisan da Sesto all'eternità, si veda anche il recente commento di Sergio Brenna (f.b.)
Fateci capire: esistono diritti acquisiti di serie A e diritti acquisiti di serie B? È una domanda doverosa davanti alla clamorosa e offensiva disparità che emerge dall'ultima puntata della manovra di aggiustamento finanziario. Un tormentone che vede apparire e sparire (e chissà quanto ciò tranquillizzerà i mercati…) norme che sbattono le ali e muoiono come certe farfalle che vivono poche ore, giusto il tempo di incantare i fanciulli.
Di là non si possono toccare gli evasori che pagando uno zuccherino avevano riportato i capitali (anche sporchi) in Italia o i vitalizi parlamentari perché in entrambi i casi «lo Stato tradirebbe la parola data». Di qua lo stesso Stato può rimangiarsi altri impegni. Come quello preso con larghe fasce di cittadini che anche recentemente (perfino su pressione di campagne governative!) avevano riscattato, spesso a caro prezzo, gli anni del servizio militare, della laurea o della specializzazione (fino a 12 anni, in certi settori della medicina) e che si ritrovano oggi con la pensione che s'allontana di colpo di anni e anni. Una scelta che, ammesso che non venga rinnegata domani come tante altre (è già in corso uno scaricabarile) è platealmente punitiva verso un elettorato considerato, a torto o a ragione, ostile.
E il famoso «contributo di solidarietà» evaporato per tutti tranne i dipendenti pubblici di fascia superiore? Varrà, stavolta, anche per i dirigenti di Palazzo Chigi che, umma umma, furono salvati dai tagli della Finanziaria 2010 perché la cosa aveva «sollevato dubbi di natura interpretativa»? E quanto durerà, stavolta, la grancassa sui «tagli epocali ai costi della politica»? La famosa abolizione dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, sparata poche settimane fa come «la soppressione di 54.000 poltrone», si spense il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Risparmi previsti: zero! Zero carbonella.
È questo il problema. In un momento in cui si moltiplicano le perplessità per i miliardi che mancano ai «saldi invariati» (quattro, cinque, chissà…) e autorevoli istituzioni segnalano che le entrate statali viaggiano verso il 50% del Pil, con il record assoluto di pressione fiscale a dispetto degli slogan «meno tasse per tutti», il governo, la maggioranza, la classe dirigente, avrebbero un disperato bisogno di credibilità. Messa a rischio da troppe norme sfarfalleggianti e sconcertanti contraddizioni.
Prendiamo la lotta all'evasione fiscale. Per anni il Cavaliere, al di là dei condoni a raffica, ha ripetuto che evadere, per chi deve dare allo Stato più di un terzo di quanto guadagna è «un diritto naturale nel cuore degli uomini». Ha detto che «dare soldi alla Guardia di finanza non è considerato reato dall'88% degli italiani». Ha raccontato barzellette tipo: «Due banditi entrano in un ufficio e urlano: “Questa è una rapina”. Un impiegato: “Ah, credevo fosse la Finanza”».
È dura, adesso, far la guerra agli evasori. Tanto più avendo al fianco quel Bossi che sfondò in politica incitando alla rivolta fiscale («Io non lo farei mai», lo bacchettò Silvius Magnago: «La mia patria è l'Austria, ma sono un cittadino italiano. E i cittadini le tasse devono pagarle»).
Vittorie perdute. Ecco che cosa stanno diventando i successi amministrativi e referendari della primavera, la ventata di opposizione costruttiva, la riscoperta della politica. Allora furono poste questioni – la legalità, i costi della politica (la politica ridotta a costo, senza beneficio per i cittadini), i beni comuni, il rifiuto del degrado civile del Paese – che il Pd intercettò solo indirettamente, e quasi di risulta. Le sue prime scelte, infatti, non erano quelle che vinsero a Milano e a Napoli; e solo tardi e con contrasti interni aderì al movimento referendario. Eppure, il Pd si intestò anche quelle vittorie (oltre a quelle, in buona parte sue, che conseguì in centri medi e piccoli); e si propose come l´interprete della domanda di un rinnovamento radicale della politica, del suo rapporto con la società, delle sue procedure, dei suoi costumi.
Ma nell´aggravarsi della situazione del Paese, davanti alla manovra di Ferragosto assurdamente iniqua e alla ‘indignazione´ che per manifestarsi avrà a breve un´occasione nello sciopero generale, l´azione politica del Pd è parsa incerta, tutta politicista – attorcigliata alle beghe interne, e chiusa negli orizzonti del Palazzo –; incerta e dubbiosa è stata la prospettiva di uscita dalla crisi (ora le elezioni, ora i governi tecnici, ora i governi di emergenza), mentre la responsabilità (una parola che nella politica italiana non sempre ha valore positivo, almeno negli ultimi tempi) resa necessaria dalle tempeste finanziarie d´agosto è stata anche un´occasione per l´inerzia, per derubricare le nuove questioni a temi di dibattito in tavole rotonde. O per mandare segnali sconcertanti e disorientanti come quello del salvataggio del province. O per comportamenti al limite del suicidio, come nel caso Penati.
Che, per quel che ci riguarda, è un caso politico. Sotto il profilo giudiziario farà la sua strada. Ma sotto il profilo politico ha già fatto danni colossali. Prima di tutto per le sue proporzioni e per la sua durata, che lo rendono inquietante, e che legittimano l´interrogativo se ci si trovi davanti a un mariuolo singolo oppure a un sistema che lavorava a favore di qualche settore, o cordata, del partito. E poi – posto che Milano non è certo una periferia – per la carriera centrale, romana, che il personaggio ha percorso e poi ha troncato per motivi non chiarissimi. E infine per la lentezza esasperante con cui il Pd ha reagito, convocando gli organi disciplinari (o di garanzia, come si definiscono oggi) solo pochi giorni fa, e accontentandosi finora solo delle dimissioni dell´interessato dagli incarichi, e di un´autosospensione dal partito anch´essa recentissima. Come tardiva, anche, è la pur correttissima richiesta a Penati di rinunciare alla prescrizione e di farsi quindi processare.
Ci si chiede quali equilibri interni siano minacciati da questa vicenda, e se siano tanto importanti da far rimanere inerte il Pd, da accecarlo sui danni terrificanti alla propria immagine e alla propria credibilità che la vicenda sta generando in quella vasta fetta d´opinione davanti alla quale il partito è, sì, veramente responsabile. La responsabilità, infatti, non è solo acquiescenza alla necessità, ma anche, appunto, energia della risposta. E questa energia il Pd finora non l´ha manifestata. Certo, si è difeso duramente dalle critiche della destra sostenendo di esserne di gran lunga migliore; e non ha colto che il punto non è questo, quanto piuttosto di essere all´altezza del compito di riformare (o forse rifondare) l´Italia dopo il quindicennio berlusconiano.
Questa inerzia, questa cecità, hanno alcuni punti di contatto con l´atteggiamento dei partiti di governo ai tempi di Tangentopoli: non per l´arroganza né per il vittimismo (non ancora, almeno), ma per l´incredulità e lo smarrimento con cui si contempla una catastrofe e non si sa che cosa fare, se non consolarsi col dire che gli altri sono peggio, che non tutto il partito è corrotto, e che, dopo tutto, qualcosa di buono lo si è pur fatto. Senza capire che il tragico è proprio qui: nel fatto che quel buono non peserà nulla davanti al marcio che si viene scoprendo.
Manca una dura analisi sui motivi per cui, tra gli applausi dei suoi avversari e lo sgomento della grandissima parte del proprio elettorato, il Pd ogni tanto inciampa in scivoloni – da Delbono a Penati – che ex post paiono sempre ‘incredibili´ ma che forse potrebbero essere evitati con un po´ di ‘pragmatismo´ in meno e un po´ di rigore in più. Non ogni mezzo è adatto ai fini democratici che il Pd si è dato: il banale machiavellismo di periferia – degradazione della ‘grande politica´ machiavelliana – è anzi controproducente: i mezzi cattivi non consentono di raggiungere i fini, ottundono la percezione delle circostanze, e impediscono di rendersi conto che la casa sta bruciando, e che l´emergenza è reale.
In verità, ciò che manca è proprio la politica, prima ancora che l´etica. Manca la capacità di agire politicamente, cioè di avere idee forti, una direzione e un orientamento precisi; manca la determinazione per promuoverle e per servirsi di una accurata mappa mentale che consenta di evitare scorciatoie che sono in realtà labirintici invischiamenti; e manca la prontezza e la durezza nell´allontanare chi sbaglia. La prima riforma che il partito delle riforme deve affrontare non è una ‘rottamazione´ come cambio di personale politico: è la riforma politica che riguarda direttamente le sue procedure, i suoi mezzi, e quindi anche i suoi fini. Una riforma che il Pd – il suo gruppo dirigente – deve fare prestissimo, per non diventare parte del problema, invece di esserne la soluzione.
Nord-Est La relazione del ministro dell'Interno Maroni al Parlamento sull'attività svolta dalla Direzione investigativa antimafia sbugiarda la propaganda negazionista di Lega e centrodestra. Usura e riciclaggio, professionisti in giacca e cravatta al servizio delle «scatole cinesi», cricche che prosperano nelle nicchie dell'economia assistita
Usura e riciclaggio, professionisti in giacca a cravatta al servizio delle «scatole cinesi», cricche e clan che prosperano nelle nicchie dell'economia assistita. È il Veneto dipinto dall'ultima relazione anti-mafia che il ministro Roberto Maroni ha depositato in parlamento. Una «fotografia» del Nord-est che stride con la propaganda (non solo politica) che istituzionalmente offusca la realtà.
C'è un dato eclatante che sbugiarda gli economisti per partito preso: in controtendenza rispetto alle statistiche nazionali, in Veneto raddoppiano le denunce per usura. È lo stesso trend che riguarda la «lavatrice» del denaro sporco. In Italia, i casi sono attestati sulla stessa cifra: 360 all'anno. A Nord-est, invece, le denunce accolte dalle forze dell'ordine e dalla magistratura sono passate da 2 a 12, cioè una al mese nel 2010.
La relazione del ministro dell'Interno al Parlamento sull'attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione investigativa antimafia a luglio-dicembre 2010 (che è appena stata diffusa) certifica il salto di qualità di «famiglie», clan e 'ndrine anche in Veneto. In 536 pagine e 260 tavole la Dia restituisce analiticamente l'evoluzione mafiosa: dall'ombra dell'illegalità alla luce di operazioni finanziarie, con investimenti e partecipazioni societarie più che lecite. Ruota tutto intorno a «una pletora di diversificati assetti societari, ormai paradigmaticamente caratterizzati da profili di particolare efficienza, competitività e versatilità, evidenziate nella capacità di delocalizzazione sull'intero territorio nazionale». Di conseguenza, spiega il rapporto del ministro Maroni, «le imprese colluse sembrano rappresentare i più efficaci vettori della metastasi mafiosa» (pagina 515).
È la Mafia 2.0. In Veneto, le organizzazioni criminali dalla facciata insospettabile (o quasi) hanno saputo infiltrarsi nei settori più redditizi della nuova economia a cavallo fra pubblico e privato: «Energie rinnovabili, logistica dei trasporti, grande distribuzione, import-export e gestione dei rifiuti» (pagina 517). A tutti gli effetti una nuova frontiera; si integra a meraviglia con gli asset detenuti nella old economy, tutt'altro che abbandonata. Anche a Nord-est «non viene meno la tradizionale presenza mafiosa nelle intraprese di ridotta competenza, quali l'edilizia, il ciclo del cemento e il movimento terra che continuano a costituire alimento irrinunciabile per l'economia criminale globale» come ricorda la relazione della Dia.
Inquietanti, soprattutto, «i profili di contiguità tra amministrazioni locali e criminalità organizzata calabrese che rappresentano una costante minaccia alla lineare gestione degli enti pubblici territoriali». Secondo la Dia, «alcune indagini hanno documentato l'esistenza di plurime aree grigie dove si catalizzano consenso politico e malaffare (...) il modello criminale calabrese si va sempre più affermando dove la 'ndrangheta raccoglie significative opportunità di inserimento». Acclarato nella Lombardia del governatore Formigoni, il fenomeno è all'ordine del giorno nel Veronese del sindaco leghista Flavio Tosi.
Le conclusioni del rapporto lanciano l'allarme su «comportamenti della criminalità organizzata protesi ad attuare saldature operative con rami deviati dell'imprenditoria, dell'amministrazione pubblica, del settore bancario e della politica». Come peraltro rilevato anche dall'Unità di informazione finanziaria di Banca d'Italia, secondo cui «nel Veneto permangono i segnali circa la discreta incidenza percentuale delle segnalazioni di operazioni finanziarie sospette pervenute all'Uif, che nel semestre in analisi hanno raggiunto la percentuale del 4,91% sul totale nazionale» (pagina 214).
Tessuti sociali vulnerabili
Alla base dell'aumento di usura e riciclaggio, c'è la «vulnerabilità dei tessuti sociali veneti, non solo per quanto riguarda il continuo incremento dei proventi illeciti, ma soprattutto nei confronti del riciclaggio da parte di organizzazioni mafiose connotate da matrice sempre più imprenditoriale». Progressione che la Dia definisce «silente», sottolineando la pericolosità di azioni criminose che non sollevano allarmi sociali assicurando ampi margini di profitto anche a chi "affianca" le mafie come consulente.
Del resto, la criminalità organizzata funziona meglio delle istituzioni. In Veneto la devolution mafiosa non è un annuncio infinito come il federalismo di Stato. Compiti, ruoli, competenze e livelli di governo chiari, semplici e funzionali. E un codice operativo a prova di conflitto di interesse: alla tradizionale mafia le pratiche estorsive, il mercato della droga, l'infiltrazione nel mondo imprenditoriale, la grande distribuzione e i «nuovi mercati» a partire dal fotovoltaico. Alla 'ndrangheta il settore dei trasporti, la logistica, la gestione delle cave, il «ciclo del cemento» (dal cavatore al costruttore, fino all'immobiliarista), ma anche il franchising delle grandi griffe, il comparto turistico e lo smaltimento dei rifiuti. Il resto è sotto la giurisdizione della camorra, costantemente sotto la lente della Dia per le attività che spaziano dai monti di Belluno alla provincia di Rovigo.
«In Veneto si continua a monitorare la presenza criminosa di campani che oltre a ostentare una particolare prosperità economica risultano contigui a famiglie riconducibili alla camorra». È la cronaca dell'altra faccia della medaglia a Nord-est. Ristoratori dei Colli Euganei che «strozzano» senza pietà padroncini scaricati dalle banche. Imprenditori «ecologici» (in società con politici Pdl) che entrano a pieno titolo nelle inchieste di Napoli. Numeri uno della logistica formato famiglia che spaziano dalla Croazia, a Parma e nelle piattaforme del sud. «Intermediari» che in piena alluvione fra Verona e Vicenza offrono di rilevare capannoni, imprese artigiane e negozi invasi da un mare di fango. Senza dimenticare commercialisti, notai, consulenti del lavoro e studi di fiscalisti che in tutto il Veneto fatturano flussi di denaro tutt'altro che limpido.
Così negli uffici della centrale Dia in via Torre di Mezzavia a Roma, gli analisti continuano ad applicarsi al «lato B» di supermercati, parchi commerciali, outlet, discount e cittadelle dello shopping. «Per la criminalità organizzata rappresentano un mezzo doppiamente utile: servono a riciclare il denaro sporco ma sono anche un importante strumento per consolidare il potere illegale sul territorio attraverso l'offerta di impieghi nell'indotto lavorativo» si legge anche nell'ultima relazione del Viminale.
La scalata degli stranieri
Un rapporto che dettaglia i tentativi di «scalata» dei tycoon della criminalità straniera. Speculazione, in piena regola, alimentata da un «mercato» sempre più aperto e vulnerabile. Dal punto di vista formale, si tratta di operazioni non dissimili alle acquisizioni finanziarie che transitano per Piazza Affari. In Veneto, la penetrazione delle mafie estere è conclamata dallo smantellamento di un «alleanza tra i clan albanesi e magrebini a Verona per la gestione del mercato dell'eroina nel Nord-est. I primi si occupavano di importare la droga dai Balcani, i secondi erano incaricati di smerciare lo stupefacente nelle piazze del Veneto (p. 408). Nel mirino anche la crescente pervasività dei clan nigeriani che «continua a evidenziare proiezioni transnazionali grazie alla presenza di connazionali che garantiscono supporto logistico e operativo» (pagina 428). A riguardo, il rapporto del ministero dell'Interno rileva la particolare capacità della mafia di Lagos di «integrarsi negli ambienti criminali di destinazione e nello stringere alleanze con le organizzazioni criminali autoctone». I dati della Dia confermano poi il ruolo predominante delle mafie rumene e
La più grave crisi capitalistica dopo quella degli anni Trenta del secolo scorso, che precipitò nella grande depressione, non ha intaccato la fede liberista nell´infallibilità dei mercati, anzi del Mercato. Angelo Panebianco ne offre un perspicuo esempio quando (sul Corriere della Sera) trancia con eleganza la questione suprema della superiorità del Mercato sullo Stato come gestore specializzato efficace delle grandi interdipendenze economiche. Per efficace intende, penso, capace di raggiungere e mantenere equilibri stabili. Lo Stato, invece, sarebbe il portatore di interessi particolari, nazionali e democratici destinati per loro natura a turbare i processi di interdipendenza. Insomma, un disturbatore istituzionale.
Posizione elegante ma a mio parere infondata per due ragioni.
La prima è che una posizione di interdipendenza stabile la si può conseguire in vari modi e con varie combinazioni di distribuzione del reddito e del potere. La può raggiungere la Svezia e la mafia; quest´ultima, dal punto di vista del governo delle interdipendenze, in modo efficacissimo. Una posizione di equilibrio può essere raggiunta in condizioni di tendenziale equilibrio distributivo o in condizioni di suprema iniquità. Ora a me pare che Svezia e mafia non siano modelli equivalenti.
Ma la seconda ragione è ancor più importante. Il Mercato infatti in molti casi non riesce a raggiungere un equilibrio stabile ma instaura situazioni instabili o addirittura esplosive. Ciò avviene quando le relazioni economiche non sono di natura compensativa (mi spiego: quando ad esempio un aumento della domanda di beni provoca un aumento dei prezzi che ne riduce l´eccesso) ma quando sono di natura cumulativa (ad esempio un aumento della domanda dei titoli ne aumenta il valore e induce ulteriori aumenti della domanda: le famose bolle). Non è proprio questo che è successo in America all´inizio di questo secolo?
Ma la crisi americana va molto al di là dell´ormai famoso fenomeno dei sub-prime (proliferazione dei crediti immobiliari rischiosi). Essa affonda le sue radici in una condizione di progressiva distribuzione squilibrata dei redditi. La liberazione dei movimenti di capitali promossa dai Paesi anglosassoni all´inizio degli anni Ottanta, promuovendo un ritorno del capitalismo all´obiettivo del massimo profitto nel minimo tempo, ha esasperato, a causa della globalizzazione e del mutato rapporto di forza tra capitale e lavoro (e tra capitalismo e stati nazionali), le diseguaglianze. La politica dei redditi, cardine di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia, nel quale il capitalismo accettava una "normalizzazione" dei profitti e i sindacati dei lavoratori una moderazione delle loro rivendicazioni, è saltata. La diseguaglianza tra redditi di capitale e redditi di lavoro è divenuta mostruosa. Gli effetti depressivi di tale "mutazione" capitalistica sulla domanda sono stati brillantemente evitati grazie a un ricorso massiccio all´indebitamento e al suo continuo rinnovo. L´economista Marc Bloch ha affermato che il capitalismo finanziario era diventato il solo regime economico nel quale i debiti non si pagano mai. La liquidità mondale della moneta (nelle sue forme più varie) aveva raggiunto per effetto di questa accumulazione debitoria nei riguardi dei posteri, nel 2007, alla vigilia della crisi, un livello stratosferico, superiore di dodici volte a quello del prodotto reale mondiale. Purtroppo però neppure i mercati fanno miracoli. Le onde che si accavallano finiscono per infrangersi sulla riva.
Questo è esattamente ciò che è accaduto in America generando una crisi che minaccia oggi di risolversi in recessione. L´immensa liquidità si è di colpo prosciugata, ma gli immensi debiti sono rimasti. Qualcuno doveva pur assorbirli perché il sistema non andasse in malora. E non poteva essere che "il disturbatore" del mercato, lo Stato. L´indebitamento privato si è dunque convertito in indebitamento pubblico attraverso un gigantesco salvataggio e – finale grottesco del dramma – le agenzie di rating, che non avevano mosso ciglio di fronte all´"euforia irrazionale" dei mercati (l´espressione è dell´ex governatore della Banca Centrale americana Greenspan), hanno bocciato gli Stati colpevoli dei loro debiti dando un´altra bella spinta alla crisi.
Dunque non c´entra niente la pressione "democratica". Tanto meno c´entra Keynes, morto e sepolto nel lungo termine, tirato in ballo a sua insaputa da altri illustri liberisti. L´inflazione finanziaria che ha dato origine alla crisi nasce tutta dai mercati che hanno gestito male assai la loro funzione di governo delle interdipendenze; ed è stata sostenuta e amplificata dal governo più liberista del mondo. A meno che sia una quinta colonna keynesiana ad essersi infiltrata alla Casa Bianca e alla Banca Centrale americana, con indiscutibile successo.
La parola magica di questa confusa fine d'agosto è coesione. Sotto gli auspici di un mai così dinamico Presidente della Repubblica, tutti la invocano: coesione tra le forze politiche, coesione tra le forze sociali, tutti insieme per salvare l'Italia nel suo 150° compleanno. Ma da chi, destra e sinistra, capitale finanziario, produttivo e lavoro dovrebbero salvare un paese alla deriva? Dalla Grande Crisi, naturalmente, dalla mancata crescita, dal rischio di bancarotta. Anche la crisi è diventata una parola magica, addirittura neutrale. E la crescita, un dogma indiscutibile. La coesione invocata da troppi e per scopi opposti è un inganno.
La crisi non è il prodotto del destino ma di scellerate politiche liberiste, non colpisce tutti allo stesso modo ma scatena i suoi effetti devastanti sui più deboli. Pensare di uscirne con un'alleanza contro natura tra chi l'ha provocata e accompagnata e le sue vittime sarebbe una scelta suicida, foriera di un massacro sociale insostenibile.
La coesione necessaria, al contrario, è quella tra le forze sociali alle quali si vorrebbe nuovamente presentare il conto dei danni provocati dal maremoto liberista: giovani senza lavoro né reddito, dunque privati di autonomia e futuro; lavoratori ridotti a pedine del capitale, come d'autunno sugli alberi le foglie; precari già caduti dall'albero, a cui ogni diritto è negato; cittadini generosamente disponibili a battersi in difesa del bene comune e del territorio, traditi da una politica cinica e autoritaria; pensionati logorati da una vita di lavoro e da quelle tasse che a troppi vengono risparmiate e condonate.
É sulla base di queste considerazioni che abbiamo accolto con sollievo la decisione del gruppo dirigente della Cgil, questa volta tempestiva, di indire per il 6 settembre uno sciopero generale contro la manovra classista del governo che colpisce in un'unica direzione e usa la crisi per regolare il conflitto di classe a favore dei più forti. E' una scelta che lascia aperta una speranza e forse una sponda a chi ormai sente di aver perduto ogni rappresentanza politica e fatica a trovarne una sociale. E' una scelta coraggiosa che segnala una possibile autonomia da un Pd che ha rotto un equilibrismo per schierarsi contro lo sciopero.
La proclamazione dello sciopero è una netta scelta di campo, potrebbe persino rappresentare un segnale di distensione all'interno della Cgil tra due linee differenti: da un lato chi aveva firmato l'accordo interconfederale Cisl, Uil e Confindustria su contratti e rappresentanza e a seguire un appello comune con banche e imprenditori presentato al governo. Dall'altro lato chi pensa che quei due passaggi abbiano segnato una perdita di autonomia della Cgil e aperto, al tempo stesso, la strada all'aggressione del trio Berlusconi-Tremonti-Sacconi ai diritti dei lavoratori, allo Statuto e alla Costituzione. Ora, esplicitate le opposte ricette anticrisi delle "parti sociali" - Emma Marcegaglia si lamenta per le troppe tasse pagate dai ricchi e si scatena contro le pensioni di anzianità mentre approfitta a man bassa dei prepensionamenti - che senso avrebbe confermare quell'accordo tra lupi e agnelli, magari attraverso una consultazione dimezzata? Lo sciopero generale è una scelta coraggiosa e impegnativa, se chi lo ha indetto ci crede davvero non può contraddirlo rivendicando un'alleanza contro natura. Altri, da ben diverse
Nadia Urbinati, La lezione di mr. Buffett
Gad Lerner, Perché è giusto tassare i patrimoni
Carlo Castellano, L’evasione fiscale
La lezione di mr. Buffett
di Nadia Urbinati
Perché fa tanto scalpore che un super-ricco ritenga di dover pagare più tasse e pensi che i suoi simili debbano fare altrettanto? La proposta del super-ricco Warren Buffett non è nuova: era stata ventilata lo scorso anno da Hillary Clinton la quale ebbe il coraggio di denunciare lo sfacciato privilegio che i ricchi si sono conquistati, anche grazie alla stabilità sociale che la democrazia garantisce. Infatti, se i meno abbienti continuano a stare al gioco e non rovesciano l’ordine sociale, se non bruciano auto e non assaltano negozi (o lo fanno solo sporadicamente), è perché a nessuno è consentito di acquisire un vantaggio così sfacciato da stravincere.
Su questo tacito accordo la disegueglianza economica può convivere con l’eguaglianza politica e non mettere a repentaglio la stabilità sociale. Ora, il Signor Buffett si è rivolto alla Commissione del Congresso che è in procinto di tagliare le tasse per almeno un trilione e mezzo di dollari nei prossimi dieci anni. Ha ricordato ai rappresentanti che a conti fatti, egli paga il 17% per cento di tasse mentre i cittadini medi pagano tra il 33% e il 41%. Ha infine fatto presente che i super-ricchi contribuiscono meno in tutti i sensi ai costi sociali (per esempio non mandando i figli a morire in Afghanistan) mentre sono i più "coccolati" dallo Stato, quasi che "appartenessero a una specie in via di estinzione" che merita protezione - benché siano ben lontani dall’estinguersi visto che hanno agguerriti avvocati difensori nelle commissioni legislative.
Il super-ricco americano ci ha dato un’esemplare lezione di democrazia. Nel nome dell’eguaglianza di considerazione e della libertà che ciascuno gode di ricercare la propria felicità, Buffett ha rivendicato una giusta tassazione che distribuisca sacrifici in proporzione alle possibilità. Prima che l’egemonia reaganiana facesse illudere i poveri che privilegiando i ricchi avrebbero ricevuto un qualche beneficio (perché, secondo la vulgata, meno tasse significherebbe più soldi da investire), i ricchi pagavano di più di quanto non paghino oggi e non per questo la società era più povera. Pochi ricordano e dicono che fino agli anni 50 i super-ricchi americani pagavano molte ma molte più tasse di ora (e anche le tasse di successione, magicamente sparite in molti stati democratici).
Buffett riporta in circolazione quella vecchia idea e rivolto a repubblicani e democratici suggerisce loro di invertire rotta e fare quello che in altri gravi momenti del passato hanno saputo fare: equilibrare il taglio delle spese con l’incremento delle tasse per i più abbienti. Si tratterebbe, lo ha ricordato di qua dell’Atlantico Jean-Paul Fitoussi, di una scelta che oltretutto non deprimerebbe i consumi. Ma, soprattutto, risponderebbe a un maggiore senso di giustizia perché riporterebbe il principio di proporzionalità al centro del discorso politico rinsaldando il patto di unità tra cittadini, un patto che il privilegio, invece, erode. Lo ha ripetuto con straordinaria chiarezza il nostro Presidente della Repubblica dal palcoscenico del Meeting di Rimini: verità sullo stato dell’economica ed equità delle misure economiche sono due facce della stessa medaglia; insieme possono motivare solidale responsabilità.
In questi diversi moniti è riflessa un’identica cruciale questione, emersa insieme alla trasformazione democratica delle società moderne: l’importanza di affiancare ai due pilastri individualisti (libertà ed eguaglianza) quello della solidale responsabilità verso la società tutta; un principio sancito anche nell’articolo 41 della nostra Costituzione, oggi sotto attacco da parte del governo perché, ci dicono i ministri, limita la libertà d’impresa in quanto chiede all’impresa responsabilità verso la società. Solidale responsabilità verso il patto fondativo della società non significa comunismo; significa invece riconoscere che è conveniente per tutti che ciascuno contribuisca secondo le proprie possibilità accertabili e accertate al mantenimento delle basilari condizioni della vita associata - un’idea che a Palazzo Chigi non piace se è vero che il Presidente del consiglio identifica le tasse con il furto ("mettere le mani nelle tasche degli italiani") come se esse non servissero invece a ciò che è negli interessi degli italiani. Avere una giustizia efficiente e giusta, una burocrazia non spolpata ma resa funzionale al suo servizio (del quale la società ha comunque bisogno), un sistema scolastico e di ricerca degno di questo nome, un sistema di difesa e di sicurezza che consolidi il senso di tranquillità del vivere quotidiano: tutto questo è un bene da proteggere. E’ utile per tutti, ricchi e meno ricchi.
Insomma nell’argomento del super-ricco americano all’equità fiscale come nell’appello del Presidente Napolitano alla verità (sullo stato dell’economica ma anche dei contribuenti di fronte al fisco) non c’è alcun moralismo. Non c’è la noblesse oblige di chi è disposto a far l’elemosina al povero né un generico appello buonista alla solidarietá. C’è invece il richiamo molto ragionevole e opportuno alla "fraternità" tra cittadini - un sentimento meglio traducibile con l’interesse bene inteso che aveva colpito Alexis de Tocqueville nel suo viaggio americano, lui che veniva da un paese che aveva pagato un prezzo altissimo a causa dei privilegi di casta e del risentimento da essi generato. I rivoluzionari dell’89, volendo gettare le basi del nuovo ordine politico, avevano voluto affiancare alla libertá e all’eguaglianza la fraternità.
Le vicende tragiche del Terrore non hanno eliminato il senso di questo principio pur cambiandone le forme di attuazione: incardinato in un sentimento religioso di unità e compassionevole aiuto, il termine venne poi reinterpretato come "associazione" (termine caro a Mazzini) così da imprimere un senso di volontarietà al contributo di ciascuno alla vita sociale. Al di là della storia complessa del termine, è importante sottolineare come una società democratica composta di individui liberi e uguali abbia bisogno di un legame di solidarietà fra i cittadini più forte di quello che l’obbedienza alla legge può creare, di un individualismo cooperativo, non atomistico.
In alcuni momenti critici le diseguaglianze economiche richiedono un intervento che sappia infondere un senso di responsabile solidarietà che è poi senso di ragionevole utilità, di vera convenienza. La verità sullo stato dell’economica di una società e l’onestà dei cittadini di fronte ai loro obblighi fiscali sono funzionali alla fiducia, la quale è condizione perché ci sia solidarietà. E appunto, tra le verità da svelare vi è il privilegio di cui godono i pochi. Il super-ricco Buffett ha detto che il trattamento di favore garantito attualmente ai detentori di patrimoni crea un senso di privilegio al quale quei pochi si attaccano come a un dono naturale, con giustificato risentimento da parte dei super-poveri. È un dato certo e misurabile che i privilegi sono in aumento in tutte le società democratiche mentre diminuisce l’eguaglianza di opportunità (in un’intervista rilasciata a questo giornale, Luca Cordero di Montezemolo parlava alcuni giorni fa di un incremento delle condizioni di monopolio). Il privilegio cerca di preservarsi e si radica facendosi ordine castale; questo è un pericolo enorme poiché la diseguaglianza di ceto mina alla radice la democrazia in quanto toglie valore alla solidarietà di cui c’è bisogno per sopportare insieme sacrifici.
Perché è giusto tassare i patrimoni
di Gad Lerner
Non sono riuscito ad afferrare il nesso logico con cui la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, nell’intervista rilasciata ieri a Repubblica, respinge l’idea di prelievi fiscali aggiuntivi a carico dei ricchi italiani.
Quando Roberto Mania le chiede se firmerebbe il manifesto dei sedici imprenditori e manager francesi disponibili a «un contributo eccezionale», così risponde la Marcegaglia: «Se fossi in Francia sì, in Italia no. Da noi una tassa di quel tipo servirebbe soltanto a far pagare di più chi le tasse le paga già con un prelievo che complessivamente ormai sfiora il 50 per cento».
Non voglio pensare ad un mero aggiramento dialettico. Posso condividere, vivendolo pure io, un certo fastidio dovuto al fatto che noi fortunati lavoratori ad alto reddito pagheremo salato (com’è doveroso, viste le circostanze); mentre nulla è richiesto agli altrettanto fortunati detentori di patrimoni, che vivono magari di rendita. In Italia se sei ricco e non guadagni, niente tasse. Questa è la vera differenza con la Francia, dove vige l’Imposta di solidarietà sulla fortuna a carico di chi possiede cospicui patrimoni. Dunque paghi in percentuale su quel che hai già, non solo su quanto incassi.
Sarebbe maggiormente apprezzabile la premura della Marcegaglia a favore di chi guadagna 90 mila euro lordi l’anno, e quindi non può considerarsi un ricco da spremere, se lo facesse seguire da un richiamo alle responsabilità eccezionali cui sono chiamati oggi i veri ricchi. Lo ha proposto il suo predecessore al vertice della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo; dispiace non se ne faccia carico lei. Possibile che in Italia trovino così scarsa udienza le voci di Warren Buffett e della borghesia francese? Che non si avverta la necessità di un contributo straordinario su base patrimoniale per un’equa ripartizione dei sacrifici necessari a fronteggiare l’emergenza?
In verità il ricorso a un’imposta patrimoniale straordinaria non spaventa certo quegli imprenditori che hanno fiducia nelle proprie capacità di creare ricchezza; consapevoli peraltro del fatto che tale prelievo non sarà mai tale da modificare il loro tenore di vita. Ciò spiega anche perché le loro voci isolate siano risuonate, comunque, ancor prima dell’iniziativa di una sinistra italiana ridottasi per troppo tempo a considerare il tema della giustizia sociale poco spendibile sul terreno del marketing politico.
Non dovrebbe mancare all’appello una confederazione degli industriali proclamatasi fautrice del merito contro il parassitismo delle rendite: proprio ieri Il Sole 24 Ore ricordava che l’evasione fiscale tocca percentuali del 56,3% nel lavoro autonomo, ma schizza addirittura all’83,7% fra i rentier.
Il contributo di solidarietà disposto nella manovra economica del governo è viziato per l’appunto da questa distorsione inaccettabile: viene imposto sui redditi ma non sui patrimoni. Tanto per capirci: è giusto che Berlusconi contribuisca solo in ragione delle sue entrate annuali? O dovrebbe essergli richiesta pure una quota relativa alle svariate proprietà immobiliari e mobiliari in cui ha valorizzato il suo patrimonio? Naturalmente la stessa domanda vale per tutti gli altri milionari e miliardari d’Italia. A prescindere dalle loro ultime dichiarazioni dei redditi.
Da Pellegrino Capaldo a Pietro Modiano, sono state avanzate (e ignorate) ormai varie ipotesi di prelievo una tantum sui patrimoni, in grado di garantire un gettito elevato salvaguardando l’ampia fascia di popolazione che ha visto diminuire il proprio reddito nel mentre una minoranza di italiani si arricchiva in proporzioni abnormi rispetto alla mancata crescita del Pil. Si è detto e ripetuto che la rivoluzione italiana passa dalla ricevuta fiscale, nonché da quell’accertamento efficace della ricchezza circolante già costato al benemerito Vincenzo Visco l’epiteto di Dracula. Giusto, ma non possiamo permetterci di star fermi nell’attesa di tale rivoluzione.
In conclusione, vorrei raccontare a Emma Marcegaglia la storia vera di un manager di mia conoscenza che dieci anni fa percepì una liquidazione milionaria e da allora ha deciso di non lavorare più. Per passare il tempo, ha imparato a giocare a golf; e con stupore mi racconta che nei giorni feriali i campi sono affollati di persone come lui che vivono di rendita. Buon pro gli faccia, ma vogliamo chiedere un contributo di solidarietà pure a loro?
Colpire l’evasione
di Carlo Castellano
Non sono un esperto in materia tributaria, né di finanza pubblica. Faccio l’imprenditore di un’azienda italiana, in un settore high-tech, presente sui più importanti mercati mondiali che coprono gran parte della nostra attività. E’ quindi per noi normale conoscere le condizioni in cui operiamo. E confrontando le realtà delle diverse economie, balza evidente che il nodo più macroscopico di differenza tra noi e gli altri risieda nella piaga endemica dell’evasione fiscale.
Sono rimasto quindi "sorpreso" per non dire "sconcertato" nel leggere che, sia nella manovra correttiva di luglio, sia nel decreto legge di metà agosto, il gettito previsto dall’evasione fiscale avrà un ruolo marginale. In particolare il decreto, ora in discussione in Parlamento, individua nel triennio un possibile prelievo aggiuntivo di neanche un miliardo di euro dalla lotta all’evasione, a fronte di un gettito stimato per l’intera manovra di 45 miliardi. Viene ripetutamente detto che "l’evasione è una battaglia persa in partenza" e che da decenni si cerca di abbattere il fenomeno ma con modesti risultati e che, comunque, il governo doveva assumere provvedimenti con effetti immediati, mentre la lotta all’evasione non può che manifestare i suoi effetti solo nel medio-lungo termine.
Ma l’enormità del fenomeno italiano (si stima che lo Stato subisca annualmente un mancato gettito tributario di circa 120 miliardi) e la differenza macroscopica, rispetto a quanto avviene, in tema di evasione, negli altri paesi della comunità europea, pongono interrogativi e scelte non più eludibili. È vero, i mercati e gli organismi internazionali tengono conto degli effetti a breve degli interventi volti a contenere il debito pubblico ma soprattutto valutano i provvedimenti strutturali di risanamento e di sviluppo.
Proviamo quindi a leggere alcuni dati prendendo come riferimento e fonte le pubblicazioni della Banca d’Italia. Ad esempio, emerge che in Italia il "numero delle operazioni pro capite con strumenti diversi dal contante" sono risultate pari nel 2010 a 66 contro una media dell’area euro di 176. Non è un caso che solo la Grecia (14) - paese noto per l’evasione fiscale - risulti l’ultima in classifica. Altri Paesi mediterranei, quali la Spagna (121) e il Portogallo (152) segnano valori non molto lontani dalla media europea. E questo significa che anche nella nostra area del mediterraneo è possibile - se si vuole - cambiare sistema. D’altro canto l’analisi disaggregata per aree territoriali fa emergere in Italia un rilevante divario tra Centronord (84) e Mezzogiorno (39). Una conferma questa che l’utilizzo dei mezzi elettronici è purtroppo modesto anche nelle stesse regioni del Nord comparabili per livello di reddito con quelle europee più sviluppate, quali la Francia che presenta un indice pari a 255. Inoltre non è un caso che la Francia abbia registrato nel 2010 una "emissione netta cumulata" di banconote pari a 84 miliardi di euro mentre per l’Italia il valore risulta il doppio, pari cioè a 145 miliardi.
È evidente che il permanere in Italia di una continua ed elevata propensione all’utilizzo del contante è il chiaro sintomo dell’endemica evasione fiscale del nostro Paese.
La strada principale per combattere l’evasione risiede quindi nell’abbattere la circolazione di carta moneta con l’obbligo di utilizzare per tutte le principali transazioni le diverse forme di pagamento elettronico (bonifici, addebiti, operazioni con carte) e assegni bancari che sono tracciabili e individuabili. Fa impressione leggere che, nel decreto di ferragosto, l’abbassamento della soglia (da 5 mila euro) a 2.500 euro per il trasferimento di contante è riportato tra le norme (art. 2, comma 4) in tema di "prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo". Il provvedimento va nella direzione giusta ma è solo un pannicello caldo anche perché non è inserito in un forte programma contro l’evasione fiscale.
La Francia è riuscita a canalizzare larghissima parte di pagamenti e di riscossione senza movimentare denaro e senza quindi creare i presupposti per l’evasione fiscale. Certo, anche la Francia, come tutti gli altri paesi europei, ha dovuto lottare in questi anni contro l’evasione fiscale assumendo idonei provvedimenti e i risultati sono tangibili.
Ecco perché il governo e il nostro Parlamento devono trovare il coraggio di parlare con verità - come ha detto il Presidente Giorgio Napolitano - e di assumere provvedimenti strutturali di risanamento, di pulizia e di equità. In questa direzione va visto, e quindi riscritto, il decreto legge in tema di evasione fiscale. È assurdo porsi l’obiettivo di abbattere, alla fine del prossimo quinquennio, la metà dell’evasione fiscale attuale, con un vantaggio quindi per le casse dello Stato intorno ai 50-60 miliardi? È certamente un obiettivo durissimo perché tocca interessi diffusi e una incultura profondamente radicata nel nostro Paese. D’altro canto una seria politica volta alla drastica riduzione dell’evasione fiscale può rappresentare un forte stimolo per il rilancio e la crescita del nostro sistema economico e produttivo. Così si potrà avviare la riduzione della pressione fiscale, arrivata ormai a livelli eccessivi per i contribuenti, siano essi imprese o cittadini.
Il presidente Napolitano ha detto una cosa essenziale, domenica a Rimini, e niente affatto ovvia: che nella crisi che traversiamo il linguaggio di verità è un’arma fondamentale. E che se la politica sta fallendo è perché quest’arma l´ha volontariamente ignorata per anni. Per questo siamo «immersi in un angoscioso presente, nell’ansia del giorno dopo»: un popolo tenuto nel buio non vede che buio. A destra la crisi è stata minimizzata, sdrammatizzata, spezzando nell´animo degli italiani la capacità di guardarla in faccia con coraggio e intelligenza. Prioritario era difendere, a ogni costo, l’operato del governo: «anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea». Ma la sinistra non è meno responsabile: nella battaglia contro Berlusconi non c´era spazio per l´analisi della crisi, delle mutazioni che impone, dei privilegi che mette in questione. L´obiettivo degli uni e degli altri era il potere fine a se stesso. Non importa quel che fai, con il potere: importa solo possederlo, o riconquistarlo. Attaccarsi al potere in questo modo è la via più sicura per perderlo, e perdere la democrazia.
Il linguaggio della verità è la rivoluzione più urgente da fare: esso ci farebbe vedere i pericoli che corriamo, quando accusiamo solo la casta politica e non le mille caste che usano il denaro pubblico a fini privati e hanno un interesse nello status quo. Chi ci tiene all´oscuro lo fa con la nostra complicità, tutti abbiamo accettato di essere consumatori ciechi anziché cittadini vedenti. Se cominciamo a voler guardare e sapere, vedremo quel che accade: a governare le nostre esistenze non c´è oggi la politica, con la sua capacità di dominio intelligente sugli interessi. Non c´è il sovrano eletto, con un mandato a termine. Sovrani sono poteri non eletti, come gli speculatori di borsa o le agenzie di rating che storcono le nostre vite e sono i nuovi tribunali delle democrazie. O sono poteri che potrebbero rappresentarci - l´Unione europea, la sua Banca centrale - ma che non hanno vera autorità perché i vecchi Stati-nazione gliela negano.
Il trono democratico nazionale è vuoto, e ancora non esiste il trono europeo. I piccoli vertici Merkel-Sarkozy sono ridicoli, fingono di fare l´Europa e non le danno né istituzioni né risorse perché essa diventi potenza. Vogliono un´Europa a propria immagine e somiglianza: un simulacro di potere, un´ombra che cammina, come in Macbeth, un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena e del quale non si ode più nulla. È come fossimo immersi, oltre che in un angoscioso presente, in un quadro di Magritte: sulla tela c´è il sovrano democratico, c´è l´Europa. Ma la didascalia dice, come sotto la pipa disegnata dal pittore: «Questo non è un sovrano. Questa non è Europa».
Gli effetti dell´impostura pittorica sono visibili a chiunque usi gli occhi. Il quadro è in realtà occupato da forze oscure, opache, che si fanno scudo del trono dipinto. Da una parte la forza dei mercati. Dall´altra le sommosse che esplodono ai margini e fin dentro le metropoli. Disinformate da anni, cullate in sogni di crescita, di consumi, di lavoro rettamente remunerato, le società imbestialiscono pur di farsi vedere, sentire, temere.
Le due forze (speculatori e agenzie di rating; ammutinati delle periferie urbane abbandonate) hanno istinti simili, di branco che s´avventa. Tra i due caos nessun mediatore ma, appunto, l´immagine tradita di Magritte. Il luogo della politica è deserto, afono. Un magistrato esperto di criminalità urbana, Michel Marrus, scrive su Le Monde del 21 agosto che le sommosse inglesi o francesi potremmo vederle, in Tv, commentate con le parole del crac finanziario. Stessa terminologia, stesso registro di distruzione, sfascio, guerra: «gli spiriti si abituano a uno stato permanente di sommossa». Stessa propensione all´illegalità infine, anche se gli Stati combattono l´una e non l´altra. Le agenzie di rating agiscono torbidamente, e impunemente. Non dimentichiamo che la crisi è cominciata con un loro reato: furono loro a regalare ottimi voti (la famosa «tripla A») a titoli tossici che contenevano crediti non esigibili.
L´economista Michael Hudson spiega bene, in un articolo sul sito Counterpunch, la loro degenerazione delinquenziale: da quando non sono più pagate dai risparmiatori-investitori, ma dagli Stati, le imprese, le banche che emettono titoli di debito, le agenzie hanno favorito chi le finanziava. Quando giudicano i debiti sovrani, la ricetta del risanamento è sempre la stessa e in linea con gli interessi delle banche creditrici: distruggere il contratto sociale e privatizzare i servizi pubblici a prezzi stracciati. William Harrington, ex presidente di Moody´s, ha testimoniato nei giorni scorsi davanti alla Consob americana (Sec) l´esistenza di gravi conflitti d´interesse: sistematicamente, Moody´s promuove compagnie e banche da cui è finanziata.
I politici italiani non sono i soli, a fuggire il linguaggio della verità. Fuggono i governanti tedeschi, quando nascondono al popolo i costi di una bancarotta del Sud Europa. Fugge l´America di Obama, quando finge una leadership globale che non ha più. S´inginocchiano tutte le democrazie a una sommossa permanente che è repressa, dunque non regolata, quando viene dalla società. Che è subita quando la scatenano i mercati. Hans Tietmeyer, ex governatore della Banca centrale tedesca, disse nel 1998 che accanto al plebiscito delle urne esiste il «permanente plebiscito dei mercati mondiali». Esiste ormai anche il plebiscito dei tumulti urbani, e anche qui la politica risponde autodecapitandosi. Le sommosse sono «pura criminalità», afferma David Cameron: la colpa è dei genitori, della caduta dei valori, delle psicologie. Mai dello Stato, che può replicare togliendo sussidi alle famiglie disastrate dei riottosi, censurando Internet, chiedendo ai giudici pene non commisurate ai reati. Neanche un attimo la politica è sfiorata dal dubbio che i giovani delle sommosse siano figli dei suoi errori, della sua latitanza.
Fra pochi giorni celebreremo il decimo anniversario dell´11 settembre, e scopriremo che siamo tuttora impelagati nei luoghi comuni di allora. Si parlerà ancora una volta di atti nichilisti, credendo di svelare le vere radici del male. Nulla è svelato, invece. Si descrive la modalità dei tumulti, non la loro radice. Dire che le rivolte sono nichiliste è una tautologia: è come dire che la politica muore perché è morta. Andare alle radici significa, per la politica, ripensare le proprie responsabilità, non indulgere a discorsi psicologici sui valori decaduti. Significa guardare le sommosse urbane e dire a se stessi, con il coraggio che ebbe Rossana Rossanda nel ´78 di fronte ai terroristi: «Sembra di sfogliare il nostro album di famiglia». In Italia significa fare i conti con la cultura dell´illegalità, del bene pubblico depredato. Non ne siamo ancora capaci, in piena crisi. Il solo contratto sociale considerato sacrosanto, in questi giorni, è quello con il mondo del crimine. Non si vogliono colpire gli evasori fiscali, cui Berlusconi e Tremonti permisero, nel 2009, un rientro del denaro rubato a costi irrisori, inimmaginabili in altri paesi occidentali. E il contratto con il contribuente onesto, con il giovane in cerca di lavoro, con l´elettore cui fu promessa una rivoluzione del merito? Non c´è da stupirsi per le sommosse. C´è da stupirsi che durino solo sei notti.
I politici sono frenetici in queste settimane. Soprattutto in Italia, corrono pazzamente qua e là. Ma attenzione: si muovono inamovibilmente, come nei sogni. Come quando la Regina Rossa dice ad Alice: nel mondo oltre lo specchio puoi correre a precipizio, senza che nulla cambi: «Qui ti tocca correre più forte che puoi, per restare nello stesso posto».
Il governo continua a fornire un’immagine di approssimazione e incertezza che lascia increduli. La pesantissima manovra correttiva è rimasta in pochi giorni senza padri. Ma al tempo stesso le numerose e contraddittorie ipotesi di modifica, elaborate all’interno della stessa maggioranza, si sono giustapposte senza trovare sintesi. vra si sposti ora sulla previdenza, senza che le ricchezze vere facciano la loro parte. Anzi, il risultato dello scontro politico crescente tra Pdl e Lega sembra essere quello della paralisi. Ormai non sono più l’equità dei sacrifici, l’interesse generale, l’esigenza della crescita la misura del confronto politico nel governo, semmai la (presunta) tutela delle categorie di riferimento e il posizionamento dei vari attori nella partita del dopo-Berlusconi.
L’Italia è malata. La crisi è globale. I sacrifici sono necessari. Chiunque abbia a cuore il destino del Paese, e noi siamo tra questi, non può non sentire un forte senso di responsabilità verso il bene comune. Ma c’è una barriera che il governo sta presidiando per impedire da un lato la convergenza tra le forze politiche e dall’altro la coesione tra le forze rappresentative delle autonomie sociali. In questo frangente è il delitto maggiore, che va persino oltre l’ostinazione di Berlusconi a resistere nel bunker di Palazzo Chigi nonostante il suo esecutivo sia da tempo inerte e abbia perso all’estero la credibilità residua.
Si possono chiamare le forze nazionali a una collaborazione, ma ci sono condizioni minime da rispettare. Non è possibile che le correzioni della manovra, ipotizzate nel governo, non intervengano sui principali fattori di iniquità. Non è possibile che la (presunta) tutela del blocco sociale del centrodestra prevarichi altri corposi interessi, compreso l’interesse nazionale alla crescita. Come si può pensare a un confronto costruttivo con le opposizioni se dai sacrifici restano fuori i grandi patrimoni immobiliari, se la lotta all’evasione non diventa la priorità delle priorità, se le speculazioni finanziarie vengono risparmiate, se ci si preoccupa della “parola data” dallo Stato solo per garantire i capitali scudati?
Non è questione di scambio politico. È un problema gigantesco di giustizia sociale. Se la comunità deve pagare un prezzo alto, è doveroso che si scomodi innanzitutto chi ha di più. E la misura delle ricchezze nel nostro Paese non è certo data dalla classifica delle dichiarazioni Irpef, che riguarda semmai il lavoro dipendente e chi già paga le tasse. Peraltro, qualunque studente di economia sa che in una fase di stagnazione i prelievi sulle ricchezze immobiliari e finanziarie producono effetti assai meno depressivi che non le tasse sul lavoro o sull’Iva. Ma il governo non vuole. O meglio, è talmente paralizzato da dare l’impressione che non possa. La tassa bis sui capitali scudati impedirebbe condoni futuri? Bene, avremmo preso due piccioni con una fava. Il sospetto piuttosto è che il governo si tenga aperta la strada di nuovi condoni.
Invece l’Italia ha bisogno di riforme strutturali. Servono le liberalizzazioni, ma non la svendita delle maggiori aziende pubbliche (come ha giustamente sottolineato Romano Prodi). Serve una riforma della Pubblica amministrazione che non può essere surrogata dall’intervento sui piccoli Comuni. Si può anche discutere di pensioni, rendendo flessibile la soglia di uscita, ma non si può pretendere che il carico della mano Senza queste condizioni, che il governo non sembra in grado di garantire, il compito prevalente delle opposizioni è allora quello di rappresentare e costruire un’alternativa. Non è un ruolo meno patriottico. Il senso di responsabilità nazionale può condurre in alcune circostanze a scelte coraggiose e incomprese da parte del proprio elettorato. È accaduto in altri momenti della storia italiana. Ma ora, a fronte della chiusura di una maggioranza che non riesce più a dominare le spinte centrifughe nel Pdl e nella Lega, è decisivo che trovino voce e rappresentanza quanti vogliono cambiare e lottare per ottenere maggiore equità. Sarebbe assurdo per le opposizioni farsi stritolare nella tenaglia, proprio mentre la destra cavalca l’onda dell’antipolitica (supportata da terzisti alla Montezemolo e persino da pezzi di sinistra), sostenendo che «tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera».
Anche lo sciopero generale indetto ieri dalla Cgil è una reazione al quadro ingessato e alla reiterazione di un’ideologia della divisione sociale, che si è spinta fino a modificare per decreto il recente patto sulla contrattazione. Non mancheranno le discussioni, anche nel centrosinistra, sull’opportunità di questa scelta. Ma a rompere il patto sociale è stato il governo. Quelle norme sul lavoro e la contrattazione devono essere stralciate dal decreto e rimesse all’autonomia delle parti. In fondo è questo un principio che dovrebbe appartenere ad altri sindacati non meno che alla Cgil.
Fuori dal tunnel dell'eterna urgenza
di Mauro Ravarino
Al forum organizzato dal movimento No Tav, le cifre e i danni incombenti di progetti «non strategici»
È indifferente al contesto, spreca il denaro pubblico, non esprime le necessità di una comunità ma solo le esigenze del potere economico. Indovinare di cosa si tratta è più semplice di quanto si pensi. La risposta è: grande opera «inutile e dannosa». A chiarire il concetto ci ha pensato il meteorologo Luca Mercalli, al primo giorno, venerdì, del Forum interamente dedicato al tema, che si sta svolgendo in Val di Susa. «Opere come il Tav - ha spiegato - dovrebbero essere sottoposte, prima di ogni decisione, a critiche rigorose. Invece si dice, manu militari, che bisogna dare la parola alle ruspe perché è necessaria. Se è necessaria, dimostratelo con le cifre».
E numeri significativi li ha snocciolati ieri, nella seconda giornata, Dario Balotta, presidente dell'Onlit (Osservatorio liberalizzazioni infrastrutture e trasporti) presentando i dati di Cargo Fs, che dimostrano il «crollo del trasporto merci ferroviario» in Italia: 8 mila carri merci e 256 locomotive in meno dal 2008 al 2009. «Pessime performance gestionali»: 7% la quota di trasporto su ferro in Italia rispetto al 12% europeo (Francia al 14 e Svizzera al 64). «Prima di ponti e trafori avremmo bisogno di arrivare agli standard europei». È calato del 72% (dal 2000 al 2009) il traffico merci verso la Francia, -42% quello passeggeri (+16% verso la Svizzera). «Si tratta, quindi, di una direttrice non strategica come vogliono far credere i promotori della Torino-Lione. La vera urgenza - ha sottolineato - non è raddoppiare il tunnel del Frejus, ma adeguare e rilanciare la rete esistente per accogliere le migliaia di tir che arriveranno in treno dal Nord Europa nel 2016 con l'apertura del nuovo tunnel del Gottardo e far proseguire ai container il viaggio su ferrovia anziché su strada come avviene oggi».
Nella mattinata, a Liceo di Bussoleno, si sono alternati comitati italiani ed europei che lottano contro grandi opere ritenute inutili, dalla Germania alla Francia, dalla Spagna all'Abruzzo e alle Marche. Mega-gasdotti, stazioni interrate, aeroporti faraonici, linee d'alta velocità. Non un'opposizione tout-court, ma motivata da analisi e studi. Nel pomeriggio si è svolta una lunga tavola rotonda. Per Domenico Finiguerra, sindaco Cassinetta di Lugagnano fondatore del movimento stop al consumo di territorio, bisognerebbe contrapporre «a poche grandi e dannose opere una miriade di piccole opere utili per risanare il dissesto idrogeologico», ancor di più in questa fase di crisi economica: «Se crolla il tetto del tuo garage, non ti compri una Ferrari, ti sistemi il tetto e ti tieni la Punto. Chi propone opere come il Tav si autoproclama moderato e ci taccia come sovversivi. Estremisti sono, invece, loro che non hanno coraggio di mettere in discussione un modello di sviluppo non più sostenibile». Il mito della crescita infinita ha fallito: «Ogni anno, in Italia, vengono coperti dalla 'crosta repellente di cemento e asfalto', come la definiva Antonio Cederna, 500 chilometri quadrati di suolo, 62,5 metri quadrati al minuto».
È, poi, intervenuto Sergio Ulgiati, docente di Scienze ambientali a Napoli: «È fondamentale capire se l'impatto ambientale e i costi energetici e sociali sono accettabili se paragonati ai benefici e, pure, chi paga i costi (anche quelli occulti) e chi gode dei benefici. Le comunità che vogliono 'controllare il conto' non stanno difendendo il loro giardino ma i diritti e lo stile di vita di popolazioni lontane colpite da uno sviluppo di cui non godranno mai i benefici». Ivan Cicconi, direttore di Itaca (Istituto per la Trasparenza degli Appalti e la Compatibilità Ambientale) ha, invece, inquadrato le caratteristiche della grande impresa post-fordista impegnata a realizzare grandi opere: «Strutturata come un'enorme ragnatela, è orientata solo al mercato e ormai priva di innovazione tecnologica. Scarica la competizione verso il basso alimentando il lavoro nero. L'unico prodotto che può consentire a questo modello di impresa virtuale di massimizzare i profitti è la grande opera che ha un valore solo per il presente, prescinde dal passato e dal futuro». Oggi, a Bussoleno, ancora dibattito (con Gianni Vattimo, Alessandra Algostino ed Elena Camino) e l'assemblea finale.
«Noi non siamo in debito, non faremo ancora sacrifici»
di Francesco Piccioni
Non è ancora settembre, ma la mobilitazione contro la manovra è già in moto. Sciopero generale (sia della Cgil che dei sindacati di base) e movimenti che intendono «generalizzare» la protesta anche al di là del mondo del lavoro. Paolo Di Vetta, di «Roma bene comune» illustra scadenze e piattaforma.
Subito in attività?
Beh, andiamo un po' di corsa, ma la situazione ha subito una forte accelerazione. Già domani ci vediamo, perché c'è la giornata del 6 settembre (lo sciopero, ndr) da preparare. E anche l'appuntamento del 10, che inizialmente doveva essere una grande riunione di delegati di varie situzioni nazionali assume connotati un po' diversi.
Ci sono già idee in campo?
Quella di rimanere in piazza, il 6, se la sera ci sarà ancora la discussione in Parlamento sulla manovra. Eventualmente anche l'assemblea del 10, prevista nel deposito occupato di S. Paolo, diventerebbe un incontro fatto in piazza. Un'occasione per guardare alla giornata del 15 ottobre.
Di cosa si tratta?
Una giornata europea di mobilitazione contro l'austherity, le banche, l'Europa, proposta dai giovani spagnoli; se n'era cominciato a parlare a Genova, negli «Stati generali della precarietà». Quelli di Barcellona hanno promosso un'assemblea di tre giorni - 11,12, e 13 settembre - proprio per preparare la giornata europea, L'idea è di lanciare un appello, già domani, per cominciare a praticare questo percorso, fino a una manifestazione nazionale a Roma.
Soggetti promotori e settori sociali?
La proposta è stata raccolta da tantissimi. Delegati sindacali, di base ma non solo; (ci saranno anche esponenti Fiom e pezzi di Cgil che non condividono l'accordo del 28 giugno (il «patto sociale», ndr), delegati autoconvocati senza tessera. E poi i territori, dai No Tav ai No Ponte, Terzigno, i movimento di lotta per la casa (Firenze, Bologna, Roma, ecc). Dal Cantiere di Milano a Atenei in rivolta, No Expo, ecc. Ci aspettiamo almeno 6-700 delegati.
Come si lotta contro questa manovra?
Noi diciamo due cose: noi non siamo in debito, semmai in credito. Inutile quindi che ci parlino di coesione, di «stare tutti sulla stessa barca», di «essere responsabili». In questo senso, parliamo da «irresponsabili»: la crisi non è colpa nostra e quindi non possono chiederci altri sacrifici, in uno spirito da difesa nazionale. La seconda è che non ci interessa sottostare alla logica dei «saldi finali», come se non fosse importante chi è che paga. Anzi, secondo noi il debito non andrebbe ripagato. Magari facendo come in Islanda, dove sono stati spiccati mandati di cattura per i dirigenti delle banche che speculando avevano fatto fallire il paese. Per questo è fondamentale creare uno spazio indipendente di mobilitazione,
Sapete anche voi che per far fallire una «manovra», ossia un governo, serve una mobilitazione sociale notevole. Ben al di là di un «soggetto indipendente»...
Mi sembra che ci siano tutte le condizioni per allargare lo spazio sociale. La questione dell'«indipendenza» non attiene a un mondo specifico o «separato», ma è legata tutta alla piattaforma di lotta. Se unconiamo un mondo largo, che costruisce il percorso vero il 15 ottobre e che dice «noi il debito non lo paghiamo», invece di dire solo «lo devono pagare i ricchi», è una cosa interesante. Se sull'accordo del 28 giugno in tanti diciamo che non va riconosciuto e rispettato; se il sindalismo conflittuale si allarga... questo intendiamo per «indipendente». Anche le «incomprensioni» tra la Cgil e il Pd ci sembrano significative. E trovo atroce e irresponsabile che sia stato utilizzato Boccuzzi (l'unico sopravvissuto nel rogo della Thyssen, oggi deputato Pd, ndr) per aprire una polemica nei confronti del sindacato.
Una mappa di vere mostruosità
e grandi cattedrali nel deserto
di M. R.
Se si nascondesse il nome di ogni grande opera e si provasse a comparare il modello persuasivo utilizzato per convincere le popolazioni degli ipotetici benefici e anche le contestazioni, sarebbe difficile riconoscere di quale progetto si tratta. Linee d'alta velocità o gasdotti? Poco cambia. Al Forum tematico contro le grandi opere inutili, che si sta svolgendo tra Bussoleno e Venaus (organizzato dal movimento No Tav e patrocinato dal comune di Venaus e dalla comunità montana), è emersa una mappa sotterranea di «opere mostro» che mangiano suolo, sprecano denaro pubblico e non rispondono a nessuna domanda reale. Negli interventi dei tanti comitati presenti sembra di sentire un'unica storia. Prima un progetto faraonico e una propaganda astuta ma completamente indifferente ai dati scientifici. Poi, un'opposizione vivace ma non sempre così ampia come nella mobilitazione in Valsusa. E, ancora, una repressione sistematica e una distorsione informativa da parte dei media mainstream. Non solo in Italia, ma anche in Francia, Germania e Spagna.
Unendo i punti sulla cartina, si va da Stoccarda alla regione della Loira, da Barcellona a Brindisi passando per Sulmona, arrivando a Bologna e al Piemonte (aggiungendo il ponte sullo stretto di Messina si avrebbe un primo quadro della situazione). Stuttgart 21 è il progetto della nuova stazione ferroviaria dell'altavelocità nel cuore sotterraneo di Stoccarda. «Imposta anche con la violenza e contro il volere delle popolazione» ripete il movimento che si oppone all'opera. Cade (Collettivo di Associazioni in Difesa dell'Ambiente) è il movimento No Tav dei paesi baschi francesi cofirmatario della Carta di Hedaye, un vero e proprio manifesto di lotta a livello europeo contro la Tav, dove la Valsusa fa scuola di lotta. A Notre-Dame-des-Landes la popolazione si batte, invece, da tempo contro la costruzione di un mega aeroporto: «Un progetto - denunciano - vecchio di 40 anni e in grado di divorare 2000 ettari di terreni agricoli». A Barcellona è quasi completata la galleria della linea ferroviaria ad alta velocità contro cui hanno lottato diverse associazione.
Arrivando in Italia, ecco il mega-gasdotto di 700 chilometri della Snam da Brindisi Minerbio. I No Tubo si battono contro la costruzione di questa devastante grande opera sulla dorsale appenninica: «Il percorso peggiore. Alle porte de L'Aquila, in un territorio fragilissimo dal punto di vista sismico». E, ancora, a Firenze la lotta contro il sotto-attraversamento della città con stazione e binari della Tav interrati: «Inutile e costosissimo». Consentirà l'altavelocità? «Nemmeno, le curve a 90 gradi permetteranno una velocità massima di 70 chilometri orari». Infine, la tangenziale ovest di Asti e quella Est di Torino (scollegata con la città): due cattedrali nel deserto. Mega progetti figli di nessuna programmazione. Tornando alla mobilitazione sul campo, è notizia di ieri che Giorgio, 33 anni esponente dell'Acrobax di Roma è ora agli arresti domiciliari. Lo ha deciso il gip di Torino, Federica Bompieri. Era stato arrestato durante gli scontri con le forze dell'ordine intorno al cantiere della Maddalena di Chiomonte.
Quando si dice che tra la Prima e la Seconda Repubblica per gli affari di appalti e mattoni sono più le somiglianze che le differenze… Prendete, per esempio, Piergiorgio Baita. Chi è Baita? Un emerito sconosciuto per il grande pubblico, anche se non per i veneziani e gli esperti del settore delle costruzioni; ma soprattutto un caso da manuale di “continuismo mattonaro”. A Venezia anche l’ultimo dei gondolieri conosce Baita perché quel nome significa impresa Mantovani, cioè edilizia, cioè appalti pubblici, cioè grandi opere, cioè Mose, quel grandioso quanto contestato sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna dall’acqua alta. Per i cultori del mattone, invece, Baita è una delle stelle più luminose del firmamento perché nella graduatoria delle imprese più grosse la sua Mantovani è tra le prime venti.
Esattamente 19 anni fa, piena era Tangentopoli, lo rinchiusero nel carcere di Venezia e poi gli concessero i domiciliari al termine di un interrogatorio durante il quale un altro indagato suo pari, Giorgio Casadei, il portaborse dell’allora ministro e deputato socialista Gianni De Michelis, tenne duro senza aprire bocca, e invece lui, Baita, aprì le cateratte illustrando, come scrissero i giornali di allora, “le logiche di spartizione tra Dc e Psi”.
Il pubblico ministero Ivano Nelson Salvarani riconobbe il suo prezioso apporto: “Ora abbiamo un ampio quadro del contesto politico istituzionale in cui operano Baita e le imprese a Venezia”, dichiarò. Baita non parlava a spanne, le cose che raccontava erano precise perché conosceva bene il sistema dal di dentro. A quei tempi era una quarantenne promessa, direttore del Consorzio Venezia Disinquinamento, concessionario unico dei lavori per la pulizia della laguna. Due anni più tardi, Baita uscì indenne dal processo. I magistrati giudicarono invece colpevoli 7 tra amministratori, manager e politici che con Baita avevano lavorato spalla a spalla. Tra questi Casadei e Franco Ferlin, il portaborse dell’ex ministro democristiano Carlo Bernini, e ancora il presidente democristiano della giunta veneta, Gianfranco Cremonese.
Uno si sarebbe aspettato che dopo una vicenda del genere, Baita avesse rinunciato agli affari edili e agli appalti dicendo addio al mattone, magari per rifarsi un nome, una vita e una carriera in qualche altro campo. Neanche per sogno: dopo aver capito che il passaggio in cella non era un episodio di cui vergognarsi, ma anzi faceva curriculum con i nuovi potenti, si rituffò nel business delle costruzioni gomito a gomito con le aziende e le amministrazioni pubbliche. Quanto e più di prima. C’è da meravigliarsi che a distanza di un ventennio, a 63 anni suonati, il suo nome rispunti in affari border line, questa volta in Sardegna?
La storia è quella del contestato ripascimento del litorale di Poetto, la spiaggia dei cagliaritani, un affare che, secondo una sentenza di primo grado della Corte dei conti, avrebbe procurato alle casse pubbliche un danno di 4,8 milioni di euro. I lavori furono eseguiti nel 2002 da un’associazione di imprese guidate da Baita in qualità di presidente della Mantovani, non a regola d’arte secondo l’accusa. Due anni fa politici e manager coinvolti nella faccenda tirarono un sospiro di sollievo grazie alla prescrizione che sbianchettava i reati contestati e di recente sono stati di nuovo gratificati da una sentenza favorevole della Cassazione. Baita compreso, naturalmente, che per la seconda volta riesce a sfilarsi dai guai e a proseguire imperterrito in una carriera costellata di allori.
Giancarlo Galan, per esempio, politico dell’inner circle berlusconiano, per un quindicennio governatore del Veneto e ora ministro dei Beni culturali, nutre nei confronti di Baita un’ammirazione profonda. Nel libro-intervista dal sobrio titolo Il nordest sono io, scritto da Paolo Possamai, Galan riconosce a Baita un merito storico: “Mi ha spiegato che cos’è il project financing”. Baita ha contraccambiato il complimento nell’autunno del 2009 quando insieme ad altri 11 imprenditori di primissimo piano del Veneto accolse con tutti gli onori Berlusconi in visita e colse l’occasione per tessere davanti a lui le lodi del Gran governatore.
Per il project financing poi, dopo averlo spiegato, Baita lo ha messo in pratica con Galan. Un gruppo di aziende guidate dalla Mantovani ha tirato fuori circa 300 milioni per costruire l’ospedale di Mestre e ora lo gestisce con una società, Veneta sanitaria, di cui Baita è vicepresidente. Ma è il Mose, le paratie della laguna, l’opera epica di Baita e del Consorzio Venezia Nuova (Cnv) di cui la Mantovani è azionista di riferimento. Come vent’anni prima con il Consorzio Venezia Disinquinamento, il Consorzio Venezia Nuova è concessionario unico dell’opera. “Un caso singolare” come lo definisce Felice Casson, un tempo magistrato proprio a Venezia e ora senatore Pd.
Baita non se ne cura. A un giornalista che gli faceva notare che la Mantovani ha in pratica il monopolio delle opere pubbliche in laguna, ha risposto sornione che niente vieta agli altri di farsi avanti. Nel frattempo ha collezionato la bellezza di 72 incarichi, presidente, vicepresidente, amministratore delegato, consigliere in 40 società diverse, in prevalenza consorzi. Più altre tre: consigliere del Passante di Mestre e consigliere e vicepresidente della Nuova Romea, poltrone che secondo le visure camerali sono occupate da un Piergiorgio Baita con lo stesso indirizzo di residenza e la stessa data di nascita, ma con un codice fiscale diverso. Chissà perché.
Alcuni articoli pubblicati da Il Sole 24 Ore del 24 Agosto scorso ripropongono in evidenza una situazione agghiacciante: il recente decreto legge n. 70 del 13 maggio 2011 (cosiddetto "Sviluppo") sancisce al comma 3 del suo articolo 5 una modifica dell'articolo 2643 del codice civile con cui si intende «garantire certezza nella circolazione dei diritti edificatori». Questo comma è stato, forse, in queste settimane uno dei punti meno valutati nelle nostre osservazioni critiche all'impianto complessivo del dl Sviluppo, ma dobbiamo ora farvi grande attenzione, perchè il nuovo panorama che delinea è davvero grave: infatti sancisce che sono ora trascrivibili nei registri immobiliari «i contratti che trasferiscono i diritti edificatori comunque denominati nelle normative regionali e nei conseguenti strumenti di pianificazione territoriale, nonché nelle convenzioni urbanistiche a essi relative». La perequazione trionferà ...
Come spiegano Angelo Busani ed Emanuele Lucchini Guastalla sempre sul quotidiano di Confindustria, per effetto del dl 70/2011 «se Tizio e Caio sono proprietari di due terreni (anche non confinanti) e su quello di Caio sono edificabili 900 metri cubi, Caio può ad esempio limitare la propria costruzione a 700 metri cubi e vendere o donare i 200 metri cubi residui a Tizio il quale, con il permesso del Comune, potrà sfruttarli sul proprio fondo. Chiunque comprerà il lotto dal quale la volumetria è stata "prelevata" sarà quindi reso avvertito, dalla lettura dei registri immobiliari, che si tratta di un fondo a capacità edificatoria nulla o ridotta».
Siamo, dunque, nel pieno di quella idea di pianificazione urbanistica basata sulla "perequazione" (letteralmente " rendere uguale una cosa fra più persone"), che consiste nell'affermazione che tutti i terreni esprimono la stessa capacità edificatoria e sottintende che, da ora in poi, non ci saranno più equivoci possibili: la cubatura di competenza dei terreni non edificabili potrebbe, quindi, essere venduta a quelli edificabili.
Nell'articolo di Busani e Lucchini Guastalla viene spiegato ancora meglio la questione: « con questo sistema, in sintesi, viene impresso a ogni metro quadrato di territorio comunale, senza distinzioni, un indice volumetrico standard, di modo che il proprietario del fondo che sia destinato a non essere edificato (perché ad esempio è un'area di uso pubblico o a verde) possa cedere la sua virtuale edificabilità a quel proprietario cui invece la pianificazione comunale consente di costruire. Realizzando in tal modo una completa equiparazione tra cittadini beneficiati dai "retini" del pianificatore comunale e cittadini invece titolari di fondi privi di capacità edificatoria. In concreto, però, l'acquirente potrà usare la volumetria se gli strumenti urbanistici comunali lo consentono: dove ci sono vincoli legati, per esempio, all'altezza degli edifici, una sopraelevazione potrebbe essere impossibile».
Il Decreto approvato pare, così, confermare la criticata impostazione fatta dal Comune di Milano per il proprio nuovo Pgt, che stabilisce per ogni terreno della città una capacità edificatoria e quindi un diritto di costruzione pari a 0,5 mq/mq.
L'Istituto Nazionale di Urbanistica era prontamente intervenuto pubblicamente, rilanciando la propria proposta basata su indici differenziati in base alle caratteristiche del territorio e sostenendo che tematiche come perequazione e compensazione andrebbero disciplinate da una legge nazionale in grado di rinnovare la legge urbanistica del 1942 e raccordarla con le disposizioni regionali.
Anche il Cnappc (Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori) aveva sostenuto la posizione dll'INU suggerendo che il trasferimento delle cubature dovesse essere integrato da un piano nazionale in grado di impedire il consumo di ulteriore suolo e dalla previsione di alti standard di eco-compatibilità degli edifici e qualificazione degli spazi pubblici.
Ora il DL Sviluppo mette chiarezza e certezze ... E, come sempre Il Sole 24 Ore ricorda negli articoli del 24 agosto ("Libera cubatura e tutela del territorio", pagina 22): «si potrà aprire un vero mercato di questi diritti, che di fatto consentono ai nuovi proprietari di allargare le cubature a loro già assegnate, sfruttando quelle cedute da chi le ha solo teoricamente perché l'area è sotto vincolo. Può sembrar strano che l'idea di una casetta rustica alla periferia estrema di una grande città si trasformi in un paio di appartamenti in più in un palazzone di nuova edificazione o una sopraelevazione di un edificio già esistente. Ma la perequazione è proprio questa: dare a tutti il vantaggio di possedere qualcosa da sfruttare in termini commerciali, anche per chi ha la sfortuna di possedere un terreno inedificabile. Così, in nome della giustizia economica, si riusciranno ad aggiungere altri mattoni da qualche altra parte. Come a Milano: sui terreni agricoli piomberanno d'incanto milioni di euro di nuove cubature».
Capito tutto ? Ci vengono idee intelligenti (ed immediate) per fare in modo che chi ha la "sfortuna di possedere un terreno inedificabile" NON possa fare un po' di sano business sui suoi presunti diritti edificatori ?
Sarà forse il caso di preoccuparci (subito ...) di fare qualcosa per lasciare le cubature al loro posto e non sui terreni agricoli di Milano e di ognuno degli oltre ottomila Comuni d'Italia (o seimila e passa, se il taglio dei piccoli comuni andrà in porto. Ma noi non crediamo che le soppressioni verranno fatte: solo fumo per i nostri occhi).
Il dl 70/2011 è stato approvato il 13 maggio 2011 e pubblicato nella G.U. 160 del 12 luglio 2011. Non c'è molto tempo, dunque …
Prima scintilla: Cortina, dove Luca Zaia prese il 77,8%. Seconda: Asiago, dove arrivò al 68,6. E poi Zoldo Alto e Colle Santa Lucia e Borca e Pieve di Cadore... C'è una rivolta di cittadini e paesi e contrade «amiche», sulle montagne del Veneto, contro il Piano Casa regionale. Reo di tradire il primo dei giuramenti autonomisti: «Padroni a casa nostra». Falso, accusano i ribelli: al posto di Roma, decide tutto Venezia. Spalancando le porte agli speculatori, ai palazzinari e ai capitali sporchi.
Tutto avrebbe potuto immaginare, il governatore del Carroccio, tranne che l'insurrezione scoppiasse ai piedi della Tofane, dove l'intero centrosinistra raccolse alle regionali di un anno fa un umiliante 14,6%. E così sull'Altopiano, dove non arrivò neppure al 20%. Eppure i sindaci delle due celebri località turistiche, l'ampezzano Andrea Franceschi e l'asiaghese Andrea Gios, eletti alla guida di liste civiche che guardano a destra, non hanno avuto dubbi nel fare asse e mettersi alla guida della ribellione.
Per capire, occorre partire dalla foto urbanistica. Cortina ha poco più di 6.000 abitanti e circa l'80% della proprietà immobiliare è in mano a non residenti. Asiago ha mezzo migliaio di anime in più e insieme con Roana e Gallio, gli altri due principali poli di attrazione dell'Altopiano dei Sette Comuni, storicamente affratellati dalla comunità cimbra (Siben Alte Komeun) condivide la stessa sorte: quasi tre quarti delle case sono intestati a «foresti». Una risorsa, per chi vive di turismo, e nessuno è così sciocco da lagnarsene. Ma, insieme, anche un problema. Sempre più grave.
Tanto più se in passato la gestione di questa «fioritura» di seconde case è stata un po' troppo «spontanea» col risultato che, denuncia Gios, «esistono zone intere caratterizzate dalla presenza di edifici unifamiliari, ville di dimensioni rilevanti con ampi giardini, costruite negli anni 70 come case per vacanza in lottizzazioni prive di marciapiede con strade strettissime e senza adeguati sottoservizi».
Questo è il contesto. Non dissimile, per certi aspetti, a un'altra ferita del territorio. Quella delle aree industriali. Anch'esse lasciate crescere a dismisura senza una visione d'insieme, come se si trattasse solo di accompagnare senza intralci la crescita dei capannoni. Con la conseguenza che il Veneto si ritrova con 10 aree industriali a Comune che diventano addirittura 14 in provincia di Treviso. Dove Crocetta del Montello, come accusa l'urbanista Tiziano Tempesta, è arrivata ad avere 5.714 abitanti e 28 aree industriali. Una ogni 204 residenti. Da pazzi.
In un territorio così, il più urbanizzato d'Italia dopo la Lombardia anche se è per quasi il 44% montagnoso o collinare, ha senso cercare la ripresa nel cemento? Nonostante migliaia di capannoni vuoti (38 milioni di metri cubi tirati su soltanto nel 2002 grazie alla Tremonti bis) e nonostante siano state costruite in questi anni secondo i calcoli di Tempesta «abitazioni sufficienti a dare alloggio a circa 788.000 persone» e cioè il triplo delle 243.000 in più registrate all'anagrafe, in buona parte straniere?
Bene, in questo contesto il nuovo piano casa del Veneto, per forzare la mano ai sindaci rompiscatole, contiene per la cosiddetta «prima casa» poche righe micidiali. Dove si spiega che i proprietari di un immobile hanno diritto ad aumentare la cubatura purché «si obblighino a stabilire la residenza e a mantenerla almeno per i ventiquattro mesi successivi al rilascio del certificato di agibilità».
«Questo vuol dire — accusa il sindaco di Asiago — che qualsiasi persona, di qualsiasi parte d'Italia, può comprare una casa ad Asiago, richiedere e ottenere l'ampliamento fino al 35% in più rispetto al volume esistente o addirittura fino al 50% in caso di demolizione e ricomposizione volumetrica, solo impegnandosi a trasferire per due anni la residenza. E se poi non si trasferisce davvero? Cosa facciamo: avviamo una causa giudiziaria fino in Cassazione per demolire? Ma ci si rende conto dell'impatto di questi interventi? Così ogni turista che ha una seconda casa è spinto a trasformarsi in un immobiliarista d'assalto». Per non dire, accusano i sindaci, dei rischi di una infiltrazione di capitali sporchi: cosa possono desiderare di più i mafiosi, i camorristi, gli 'ndranghetisti, se non un bell'investimento ad Asiago o a Cortina? Basta comprare un rudere, trovare un prestanome che si impegni a portarci la residenza...
Laura Puppato, già sindaco di Montebelluna e capogruppo in Consiglio regionale del Pd, dice di non essere d'accordo. E spiega che sì, il suo partito a dispetto di tanti ambientalisti ha votato a favore del piano casa delle destre «perché sui centri storici e altri punti avevamo ottenuto dei cambiamenti radicali al testo e volevamo rispondere a chi ci accusava di ostruzionismo. È chiaro che quando voti una legge pensi alle persone perbene: sulla prima casa nel 99% dei casi le persone non vanno ad artefare la propria situazione anagrafica. I Comuni possono fare regolamenti più rigidi come ha fatto Salzano. Possono mandare i vigili a controllare se uno ci vive davvero in quella casa...»
«Eh no, abbiamo letto e riletto tutto con gli avvocati virgola per virgola e manca completamente la sanzione per chi fa il furbo — risponde Andrea Franceschi —. Infatti il proprietario di una baracca per le api, al quale avevamo negato la sua trasformazione in una villa, si è subito fatto sotto. E così i padroni di una casa, anche loro stoppati in passato, che il giorno stesso hanno chiesto di aggiungere un piano per un totale di trecento metri cubi. In entrambi i casi la proprietà, e lì si vede la "buonafede" sulla prima casa, era intestata a società... Mettiamo che la spuntino: una volta che il danno è fatto cosa facciamo? I Comuni sono completamente tagliati fuori dalle scelte regionali. Che Cortina debba avere le stesse regole di Marghera fa venire i brividi».
La cosa più grave, rincara il sindaco di Asiago, «consiste nel fatto che il testo di legge non limita l'incremento delle unità abitative (appartamenti) ricavabili con l'applicazione del piano casa e, dunque, l'edificio ampliato (la vecchia villetta con giardino) potrebbe essere suddiviso in un maggiore numero di unità abitative: dall'originaria villetta turistica i più "furbi" potrebbero ricavare 8/10 nuovi appartamenti da porre sul mercato delle "seconde case" in spregio alle norme urbanistiche locali e alle limitazioni che il nostro Comune ha inserito a salvaguardia del territorio e dei fragilissimi equilibri urbanistici e sociali del territorio».
«Ma mica tutti possono portarsi la residenza!», dicono i sostenitori del «piano». «Dettagli», rispondono a Cortina. «Sui fienili c'erano regole che imponevano la residenza per 20 anni. Ma la scappatoia i furbi la trovano sempre».
Ed è lì che sindaci girano il coltello nella ferita: «Non vogliamo che scelte così importanti, con un così forte impatto sul territorio siano prese a Venezia. Rivendichiamo il diritto e il dovere di decidere le nostre sorti». E citano una dichiarazione di Zaia un attimo prima d'essere eletto: «L'urbanistica la deve fare l'ente locale. Se qualcuno pensa di mettere in piedi un neocentralismo regionale, allora andiamo tutti a casa». «Pienamente d'accordo — ironizza Andrea Franceschi —. Ma lo Zaia di oggi è d'accordo con lo Zaia di ieri?»
Diversi commenti al mio post del 18 agosto affermavano che in Italia di grandi opere non se ne vedono poi molte. Se è un rammarico, come penso, lo ritengo sciocco, per le ragioni che ho già spiegato. Peraltro c’è effettivamente una grande opera che non vede la fine (oltre alla leggendaria autostrada Salerno-Reggio Calabria). Essa è nata nel lontano, mitico 1968 e non si è appunto ancora conclusa. E sarebbe meglio non si concludesse, come dirò in seguito. E’ l’Autostrada Tirrenica, da Livorno a Civitavecchia.
Dicevo, nata nel 1968, con la costituzione di una società che avrebbe dovuto realizzarla (la Sat – Società Autostrada Tirrenica), l’opera rimase nei cassetti fino al 1982 (governo Craxi), anno in cui fu rispolverata. Nel 1993 fu realizzata la tratta Livorno-Rosignano, ma non di autostrada trattavasi, bensì di una nuova superstrada a quattro corsie, realizzata appunto dalla Sat. Restava da coprire il residuo tratto Rosignano-Civitavecchia.
Per questo tratto, subito fu presentato un progetto che potremmo tranquillamente definire demenziale, che prevedeva un tracciato interno, che se ne andava a spasso senza alcun senso per le colline della Maremma, creando un elevatissimo impatto ambientale. Talmente alto che il progetto fu bocciato dalla Commissione Via di allora (ministro per l’Ambiente Giorgio Ruffolo). Era il 1990.
Passarono più di dieci anni e nel 2001 l’Anas – in un soprassalto di saggezza – presentò un progetto che semplicemente prevedeva, al posto dell’autostrada, l’ammodernamento dell’Aurelia, portandola a quattro corsie ed eliminando tutti i punti pericolosi esistenti. Ipotesi evidentemente troppo semplice e troppo poco costosa: in Italia le opere pubbliche devono costare molto per essere approvate. E infatti fu così che nel 2004 l’Anas mise in un cassetto saggezza e progetto.
Ed ecco, come l’araba fenice, con a capo del governo Berlusconi e Lunardi ministro alle Infrastrutture, ricomparire il vecchio tracciato demenziale fra le colline maremmane. Scontato coro di proteste ampiamente giustificate e anche questo progetto viene accantonato, per lasciare posto a quello attuale: un’autostrada che si sovrappone alla vecchia Aurelia, nel senso che a nord di Grosseto essa si sovrappone alla variante Aurelia (superstrada a quattro corsie), a sud di Grosseto si sovrappone proprio all’attuale strada statale.
A questo punto, gli ambientalisti, gli intellettuali, gli studiosi e i sindaci dei comuni di Capalbio, Manciano, Montalto di Castro e Cellere, recuperano uno studio scientifico del 2003 firmato dal prof. Marco Ponti dell’Università Cattolica di Milano (lo stesso che ha dimostrato l’insensatezza della Tav) e dal prof. Andrea Boitani del Politecnico di Milano. Lo studio dimostra che i costi di un ammodernamento dell’Aurelia sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli di un’autostrada costruita ex novo e che la scelta autostradale è irrazionale sotto vari punti di vista (consumo di territorio, impatto, riassetto della viabilità, costi maggiori per la comunità).
Nulla da fare: irrazionalità e opere pubbliche vanno a braccetto, così come destra e sinistra (in questo caso, Governo Berlusconi e Presidenza Regione Toscana). L’ultimo tracciato è stato inserito fra le priorità del Cipe e i lavori dovrebbero iniziare a breve. L’autostrada sarà realizzata dalla sempiterna Sat, come già previsto nel 1968, la quale così si troverà il percorso già in gran parte realizzato, lo acquisirà in concessione e farà pagare il pedaggio. Risultato: i cittadini che fino ad oggi percorrevano strade statali, si troveranno a percorrere un’autostrada a pagamento.
Presidente della Sat è Antonio Bargone (avvocato Pd, buon amico di D’Alema), un tempo sottosegretario ai Lavori pubblici, e poi consulente della Regione Toscana in materia di opere pubbliche, e, pensate un po’, dal 2010 anche Commissario straordinario del governo per la costruzione dell’autostrada tirrenica, col modesto stipendio di 214mila euro lordi all’anno. Nominato da chi? Da Altero Matteoli (Pdl, già sindaco di Orbetello e, tra l’altro, noto per essere stato il primo cacciatore a ricoprire la carica di ministro dell’Ambiente). Aspetto per lo meno curioso: nel 1998 – governo D’Alema e Bargone sottosegretario ai Lavori Pubblici con delega alle autostrade – la Sat (che allora navigava in pessime acque) ricevette 172 miliardi e 500 milioni grazie ad un aumento di partecipazione pubblica nel suo azionariato.
MILANO — Prima la legge sui parchi, adesso le moto. Non c'è pace per le aree protette della Lombardia. La Regione sta lavorando a un accordo quadro con la Federazione motociclistica italiana (Fmi) per permettere ai bolidi su due ruote di entrare nelle zone sottoposte a tutela ed «entro l'anno — spiega l'assessore Alessandro Colucci, che si occupa di parchi e foreste — ci auguriamo di poter definire la nuova normativa».
I motociclisti sono, ovviamente, d'accordo. «Ci stiamo lavorando da diversi mesi — spiega Alessandro Lovati, presidente regionale della Fmi — abbiamo 30 mila soci, quasi 25 mila famiglie che votano, e chiediamo di poter andare anche noi in queste aree, usando però percorsi prestabiliti e un tesserino di identificazione». In Lombardia ci sono 24 parchi regionali che, insieme a quelli sovracomunali e alle riserve, si estendono su 450 mila ettari dalle Alpi al Po.
«Ma a noi di queste trattative per far entrare le moto nelle aree protette non ha detto nulla nessuno — replica Milena Bertani, presidente del Parco del Ticino e di Federparchi Lombardia — anche perché è molto tempo che non abbiamo più un tavolo di confronto con Colucci. Per i parchi le priorità siano altre. E poi se i motociclisti hanno 30 mila soci, solo sui nostri sentieri ciclopedonali lungo il Ticino passano oltre mille persone al giorno». Intanto lo stesso assessore ammette che «la materia non è facile e ha risvolti delicati: vanno posti limiti, regole e, dove il caso lo richieda, anche divieti assoluti. Visto che qualche problema c'è».
Al Parco Adda Sud (fra Lodi e Cremona), dopo il boom dei danni causati dai motociclisti negli ultimi mesi, hanno appena deciso di schierare 60 guardie ecologiche per controlli a sorpresa, riprese video e foto.
«Oltre alle multe chiederemo i risarcimenti — spiega Silverio Gori, presidente dell'Adda Sud. — Nel parco si può venire a piedi, in bicicletta e a cavallo proprio per garantire il rispetto della natura, mentre le moto rovinano i sentieri, emettono fumi di scarico e lanciano raffiche di polvere e pietrisco». Una situazione che in passato ha riguardato anche le ex aree di cava del Parco Adda Nord (fra Lecco, Monza, Milano e Bergamo) e il Parco del Mincio, sulle Colline Moreniche e fra Monzambano e Cavriana. Dopo l'aumento dei controlli, i crossisti hanno traslocato.
«Quelli che fanno danni sono "cani sciolti" non iscritti ad alcuna associazione e che non seguono i nostri corsi di educazione stradale», dice il leader lombardo della Fmi. «Ma in ogni caso — commenta Alessandro Benatti, presidente del Parco del Mincio — anche valutando le singole situazioni, nelle aree di rilevanza ambientale non vedo molte zone per il motocross. E se la natura va tutelata, il peso non è solo di quelli che votano».
Sintetizzando centinaia di qualificati (peer reviewed) studi a carattere più monografico o di caso su città, aree metropolitane, e regioni urbanizzate del globo, un articolo proposto dalla rivista online PLoS ONE ipotizza alcune fondate conclusioni:
Una consolazione e un monito per noi europei: il continente complessivamente è fra quelli dove si sprecano meno superfici per usi urbani. A maggior ragione, non solo occorrerebbe continuare in questa direzione, ma soprattutto si dovrebbe evitare di scimmiottare (con la solita scusa dello sviluppo) culture e impianti normativi che hanno già combinato tanti guai altrove. Di seguito è possibile scaricare il pdf dell’articolo, con link agli articoli della Bibliografia e per le immagini e tabelle al sito PLoS ONE (f.b.)
1. Dalle vertenze al progetto
La prima questione riguarda la modalità di formazione del Convegno. Sulla base dei temi acquisiti nel corso dell’esperienza della Rete in questi anni e ribaditi da parte dell’assemblea del 18 giugno, questo documento - che è stato scritto come punto di partenza delle proposte della Rete per il modello toscano - sarà alimentato dalle idee e dal lavoro dei singoli comitati: a partire dalle proprie esperienze, in generale contestative di politiche, azioni e progetti ritenuti negativi per la qualità della vita degli abitanti e per il futuro della qualità ambientale, territoriale e paesistica della Toscana, le tematiche possono essere arricchite e sostanziate con proposte progettuali; proposte che siano in grado di configurare nel loro insieme un progetto integrato per una conversione ecologica della regione.
Questo modo di procedere risponde allo spirito della Rete che vede nei saperi contestuali espressi dalle manifestazioni di cittadinanza attiva, presenti nelle singole vertenze, le competenze necessarie a costruire un progetto integrato per il futuro della Toscana; un progetto che partendo dalla centralità del territorio, dell’ambiente e del paesaggio, rimodelli le modalità di produzione della ricchezza in forme durevoli e sostenibili.
Questa è la sfida: in un momento storico in cui è essenziale ragionare sulle strategie di uscita in avanti dalla crisi, diventa essenziale riuscire a capitalizzare saperi, esperienze di anni di mobilitazione per la difesa del territorio, in un progetto che alluda pienamente ad un programma di generale di trasformazione socioeconomica e territoriale.
D’altra parte la Rete si è mossa fin dalla sua formazione su questo progetto di ricomposizione dei conflitti locali in programmi generali rivolti sia alla società che alle istituzioni. Citiamo in particolare :
• Il documento politico del 10 novembre 2007, nel quale si lanciava la “vertenza toscana” con la Regione, “sui problemi dell’ambiente, del territorio e della gestione dei beni culturali e, più in generale, sulle forme e le modalità di sviluppo”;
• il convegno su “Le emergenze in Toscana. Crisi di un modello regionale di sviluppo”, Firenze 28 giugno 2008;
• i documenti per le elezioni politiche del 2008, e delle amministrative e europee del 2009, in cui la Rete ha lanciato un messaggio alle forze politiche per dare centralità nei programmi alle questioni ambientali, territoriali e paesaggistiche, partendo dalle vertenze sulla tutela del paesaggio, contro il consumo di suolo, sulle grandi opere e infrastrutture, sulle problematiche energetiche, dei rifiuti, dei beni culturali e della partecipazione;
• il documento per le elezioni regionali del 2010 incentrato in particolare su proposte di trasformazione dei modelli di pianificazione (partecipazione, governance, statuto del territori, pianificazione di area vasta, politiche per il paesaggio rurale, l’energia, le attività estrattive).
Dunque si tratta, in una fase scomposta di berlusconismo al tramonto, di uno sforzo ulteriore di proposta progettuale, fondata sul corpo vivo delle esperienze e dei saperi territoriali, che come tale può incontrare interesse anche oltre i confini della Toscana per la formazione di programmi di governo alternativi. Il tema del “ritorno al territorio” assume particolare rilevanza proprio nella prospettiva dell’uscita dall’attuale crisi, politica ed economica.
2. Dopo i referendum: verso la gestione sociale dei beni comuni
I referendum di giugno, sia quello contro il nucleare che quello per l’acqua pubblica hanno espresso con chiarezza lapidaria il significato ormai socialmente condiviso del concetto di “beni comuni”, in questo caso dei fondamentali elementi di riproduzione della vita, l’energia e l’acqua.
Ma nel dibattito pubblico il concetto di beni comuni si è da tempo progressivamente esteso alla generalità dell’ambiente, al territorio, alla città, al paesaggio: dunque valorizzazione dei beni comuni come alternativa strategica e reazione collettiva ai modelli sociali del neoliberismo, fondati sulla privatizzazione e la mercificazione generalizzata delle relazioni sociali e individuali.
Le mobilitazioni dei comitati e dei movimenti hanno mostrato la centralità del territorio come bene comune sui due aspetti essenziali che proponiamo per il Convegno di autunno: nei processi di ricostruzione di forme di cittadinanza attiva, di democrazia partecipativa, di ricostruzione di aggregati comunitari e di spazio pubblico, di riappropriazione da parte delle popolazioni insediate dei propri ambienti di vita; e infine nel riconoscimento dei valori patrimoniali (ambientali, urbani, territoriali, paesaggistici, socioculturali) che possono costituire la base della produzione di ricchezza durevole attraverso nuove forme di autogoverno della società locale.
Lo sforzo progettuale deve riguardare ora le modalità di gestione dei beni comuni (in primis, territorio, ambiente e paesaggio), che devono superare la storica contrapposizione fra pubblico (burocratico, inefficiente) e privato (finalizzato al profitto, con aumento dei costi e riduzione della qualità dei servizi), verso la sperimentazione di forme di gestione sociale dei beni stessi.
L’orizzonte di questa trasformazione comporta il rafforzamento delle società locali per consentire il loro allontanamento dalle reti globali della finanza e della tecno-cienza, verso l’autosostenibilità ambientale, sociale, culturale:
• costruendo aggregati societari fra cittadini-produttori, microimprese, artigianato, banche locali, società di azionariato popolare, imprese a valenza etica (ambientale, sociale, commerciale, ricerca, innovazione, ecc);
• costruendo patti città-campagna per gestire i mezzi di riproduzione della vita: acque, cibo, salute, rifiuti, energia, ambienti di vita (paesaggi dei mondi di vita, secondo la Convenzione europea):
• rafforzando e innovando attività produttive e filiere integrate (orizzontali e verticali) connesse alle peculiarità dei patrimoni culturali e sociali locali e regionali e promuovendo scambi nel mondo di tipo cooperativo.
E’ possibile pensare di ridurre l’impronta ecologica della Toscana (da 4,3 a 1,9 ha pro capite, per esempio) Molte iniziative di comitati e movimenti alludono a questo problema strategico per la costruzione di relazioni di scambio solidale fra nord e sud del mondo e per politiche di pace: la chiusura locale dei cicli dei rifiuti, verso rifiuti zero e il riuso e dei circuiti dell’alimentazione verso il km zero; il blocco del consumo di territorio e di suolo agricolo; la coerenza fra sviluppo delle energie rinnovabili (produzione energetica locale) e valorizzazione del paesaggio e dell’ambiente; e cosi via.
E’ possibile pensare la Toscana del dopo crisi come un laboratorio innovativo di “ritorno al territorio” anziché un banale (e improbabile) ritorno del PIL ai valori ante 2007 come propone anche oggi la Regione, con il Piano Regionale di Sviluppo? Sarà opportuna, in sede di convegno, una riflessione puntuale sull’evoluzione del “modello toscano” nei programmi e nelle politiche regionali, da Chiti a Rossi4, dai distretti alle piattaforme logistiche e infrastrutturali, fino all’attuale revisione del Piano di Indirizzo Territoriale.
La Toscana, con il suo alto livello di reti civiche, associative, produttive di microimpresa e di lavoro sociale tipiche del modello dell’Italia mediana posto all’attenzione politica alcuni mesi fa da Asor Rosa, potrebbe divenire dunque un importante laboratorio sperimentale di gestione dei beni comuni territorio, ambiente, energia e paesaggio.
3. Una prima agenda tematica del progetto.
Si richiamano di seguito alcuni temi che possono essere corroborati dai saperi e dalle linee culturali emergenti dai comitati e che possono costituire una prima articolazione del progetto di conversione ecologica della Toscana.
• dall’ubriacatura per le multinazionali alla rivalorizzazione dei sistemi economici a base territoriale: dal focus sull’impresa di grande dimensione, in funzione dell’attrazione di investimenti dall’esterno, rispetto ai quali il territorio assume il valore di mero contenitore, al rilancio di relazioni sinergiche fra sistemi produttivi e valori patrimoniali del territorio, secondo un modello bottom-up che valorizzi lo sviluppo e la crescita dei soggetti stessi del territorio e della loro interazione, per determinare politiche e obiettivi e vincoli dell’attività economica finalizzati alla massimizzazione del benessere locale e delle differenti variabili che lo determinano. Non si tratta di riproporre pedissequamente un rilancio dei tradizionali distretti industriali, ma di integrare e qualificare la Toscana manifatturiera con filiere verticali connesse alla multifunzionalità dell’agricoltura, alla crescente produzione di cultura, arte, informazione, alla qualificazione ecologica del turismo.
• dal blocco delle politiche, delle azioni e delle procedure urbanistiche che producono degrado del paesaggio toscano e ne abbassano il valore abitativo (modi di vita) culturale e attrattivo (economia), all’avvio di azioni di riqualificazione dei paesaggi urbani, rurali e industriali degradati (in particolare delle piane e della costa).
• dal blocco del consumo di suolo agricolo, alla riqualificazione della produzione edilizia in funzione della ridefinizione e qualificazione dei margini urbani, degli spazi pubblici, della qualità edilizia e urbanistica delle urbanizzazioni contemporanee; riconversione della produzione agricola verso la multifunzionalità per nutrire le città (attivando reti corte fra produzione e consumo), per la salvaguardia idrogeologica, l’elevamento della qualità ecologica, della qualità paesaggistica e fruitiva degli spazi aperti.
• dalla gestione pubblica dell’acqua alla gestione sociale e allo sviluppo di politiche pubbliche per garantire gli equilibri idrogeologici e elevare la qualità ecologica del territorio regionale (biodiversità, connettività, multifunzionalità delle reti ecologiche e degli spazi rurali, ecc).
• dal blocco delle grandi infrastrutture inutili e dannose alla promozione e al recupero di reti regionali di trasporto pubblico atte a valorizzare i sistemi economici locali, la mobilità infra- regionale e il carattere policentrico dei sistemi urbani regionali,in un sistema di mobilità dolce (recupero ferrovie minori, sentieri, percorsi ciclabili, ippici, navigabilità, ecc) come rete capillare regionale di qualificazione, messa in valore e fruizione dei paesaggi dell'intero territorio come bene comune.
Infine si possono così indicare alcuni temi propositivi più specifici:
• riqualificare i sistemi fluviali (Arno in primis), integrando progetti idraulici con la qualità ecologica, paesaggistica, fruitiva delle riviere; promuovendo, nelle forme possibili, la navigabilità per restituire centralità ai paesaggi fluviali dimenticati;
• restituire valore funzionale, culturale e artistico alle piccole e medie città storiche della Toscana e alle loro reti policentriche (funzionali e infrastrutturali);
• individuare nella rete insediativa storica le opportunità di riuso in funzione di attività economiche e di ricerca di alto livello, anche in rapporto con le prospettive di sviluppo degli atenei toscani;
• valorizzare l'identità paesaggistica e la multifunzionalità del territorio agroforestale, attribuendo ruolo centrale alla rivitalizzazione dei paesaggi rurali storici;
• cooperare a progetti multisettoriali di ripopolamento della montagna, mettendone in valore le potenzialità energetiche, produttive, abitative, ecologiche, turistiche;
• rendere coerenti i progetti di risparmio e produzione energetica da fonti rinnovabili (vento, sole, e anche geotermia) con la domanda effettiva del territorio e con gli obiettivi di qualità paesaggistica e ambientale, mediante l’uso di tecnologie appropriate;
• attivare modalità e strumenti per la produzione la gestione sociale dell’ambiente, del territorio, del paesaggio a partire dalla revisione della legge 1/2005 e della legge 69/2007 sulla partecipazione, anche in funzione di progetti di gestione sociale dei beni comuni.
Agosto 2011
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Immaginate una legge congegnata nel modo seguente: «Abbiamo una Costituzione. Ma vogliamo modificarla. E allora mettiamo da parte la Costituzione vigente e applichiamo subito una Costituzione ipotetica, incerta, giuridicamente inesistente, di cui si ignora se, come e quando verrà approvata».
Un colpo di sole, un effetto della calura agostana? No, questa linea compare nel decreto sull´emergenza economica fin dal suo primo articolo: «In anticipazione della riforma volta ad introdurre nella Costituzione la regola del pareggio di bilancio, si applicano le disposizioni di cui al presente titolo». E più avanti, in maniera ancor più sconcertante, si aggiunge: «In attesa della revisione dell´articolo 41 della Costituzione, Comuni, Province, Regioni e Stato, entro un anno adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l´iniziativa e l´attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge».
"In anticipazione", "in attesa"? Se si rispetta la più elementare grammatica costituzionale, queste sono espressioni insensate, e pericolose. Prima di un cambiamento legislativo, le norme esistenti debbono restare ferme, soprattutto quando si tratta di norme costituzionali - fondamenta del sistema giuridico. Ma quegli articoli del decreto provano il contrario, sono la testimonianza della scomparsa del senso stesso di che cosa sia una Costituzione, manifestano una voglia di liberarsi delle regole costituzionali ignorando la procedura per la loro revisione e imponendo addirittura una radicale e rapidissima (un anno!) riscrittura dell´intero ordine giuridico dell´economia.
La via della "decostituzionalizzazione", già evidente nelle proposte di riforma della giustizia, si fa sempre più scivolosa, può portare ad un vero disordine giuridico. Considerate solo una ipotesi. L´annunciata riforma dell´articolo 41 non viene approvata in Parlamento o è bocciata dal voto dei cittadini, come accadde nel 2006 quando più di sedici milioni di italiani dissero di no alla riforma costituzionale del centrodestra.
A questo punto l´"attesa" sarebbe finita e, mancando il necessario appiglio costituzionale, verrebbe travolta l´intera nuova impalcatura giuridica approvata nel frattempo da Stato e sistema delle autonomie. E, al di là di questa ipotesi estrema, l´arbitrio del legislatore potrebbe già essere censurato dalla Corte costituzionale, alla quale è possibile che si rivolgano enti locali rispettosi della Costituzione vigente. Per evitare disastri del genere, un Parlamento serio dovrebbe cancellare quelle norme.
Il predicato rigore finanziario finisce così con l´essere accompagnato da un irresponsabile lassismo istituzionale, le cui tracce nel decreto sono molte, figlie di improvvisazione e incultura. L´improvvisazione è stata resa clamorosamente evidente dai litigi scoppiati nella maggioranza, e le ipotesi di modifica sono tante che ben possiamo dire che il decreto all´esame del Senato è stato svuotato di ogni senso politico e istituzionale, è ridotto a un canovaccio sul quale nelle prossime settimane si svolgeranno prove di forza tra gruppi in conflitto.
L´incultura traspare in molte norme e nella discussione che le accompagna, dove quasi non v´è traccia di capacità di analizzare i difficili problemi da affrontare. Nel momento stesso in cui i contenuti del decreto venivano annunciati, Tito Boeri, con l´abituale sua nettezza, metteva in evidenza come la riforma dell´articolo 41 fosse un diversivo, perché le difficoltà dell´economia non potevano in alcun modo essergli imputate; e come l´introduzione nella Costituzione della regola del pareggio di bilancio determinasse una rigidità rischiosa, ricordando gli effetti negativi che un vincolo del genere aveva appena prodotto negli Stati Uniti.
Molti hanno ripreso questi rilievi, ai quali tuttavia la discussione politica ha dedicato un´attenzione sommaria e disinformata, visto il modo in cui si è fatto riferimento agli articoli 41 e 81 della Costituzione. Posso sommessamente ricordare che alla genesi di questi due articoli ha dedicato studi penetranti uno studioso attento, Luigi Gianniti, e non sarebbe certo una perdita di tempo se qualche parlamentare desse loro un´occhiata?
Giuste e alte sono state le proteste contro l´iniquità del decreto, che diviene un moltiplicatore di quelle diseguaglianze che stanno distruggendo la coesione sociale, a parole tema di cui tutti si dicono preoccupati. Gli obblighi imposti dalla crisi finanziaria non sono colti come una opportunità per distribuire equamente il peso della manovra, per chiamare all´"adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale" (articolo 2 della Costituzione) i moltissimi che finora ad essi si sono sottratti. Leggendo il decreto, si coglie piuttosto la voglia di usare questa opportunità per una sorta di regolamento finale dei conti soprattutto con i sindacati, con l´odiata Cgil.
Alle letture consolatorie vorrei contrapporre l´impietosa analisi del nostro maggiore studioso di diritto del lavoro, Umberto Romagnoli, che ci ricorda che il lavoro non è una merce e la dignità del lavoratore non è negoziabile. E le infinite smagliature delle parti dedicate alle dismissioni di immobili, alla privatizzazione di servizi e beni pubblici? Si alimentano illusioni facendo balenare l´esistenza di un patrimonio immobiliare la cui vendita colmerebbe ogni voragine dei debiti pubblici. Ma quel patrimonio è al 70% nelle mani di enti locali e i veri esperti stimano che soltanto una quota oscillante tra il 5% e il 10% potrebbe essere proficuamente messa sul mercato. L´urgenza dovrebbe essere sfruttata per accelerare quel lavoro analitico sui beni pubblici invocato da vent´anni e per arrivare finalmente a una classificazione aderente alle loro funzioni (esistono già disegni di legge in materia), non per incentivare privatizzazioni scriteriate (non insegna nulla l´esperienza degli anni Novanta?), per fare cassa sacrificando beni e interessi collettivi.
Vi sono sicuramente beni che possono essere messi sul mercato, ma ancor più importante è stimolare le gestioni virtuose di quelli che possono garantire con continuità risorse al settore pubblico. Proprio in questi giorni si è messo in evidenza come vi siano frequenze digitali che possono assicurare un gettito di tre miliardi. E non dimentichiamo il colpo di mano, per fortuna sventato, con il quale si voleva fare un vero regalo ai gestori degli stabilimenti balneari, portando a 90 anni la durata delle loro concessioni. Traspare dal decreto un´altra voglia di rivincita, contro i 27 milioni di cittadini che, votando sì nei referendum sull´acqua come bene comune, hanno voluto dare una indicazione chiara per una gestione dei beni sottratta alle dissipazioni del pubblico e ai profitti dei privati. Sarebbe grave se il decreto servisse per archiviare uno dei pochi momenti in cui politica e cittadini si sono davvero riconciliati.
Salvare la fabbrica era un po' come vincere alla lotteria. Ora — e solo ora — quelli dell'Innse possono dire di avere in tasca il biglietto vincente. Tra un mese si va all'incasso. Il piano regolatore dell'area è stato cambiato in extremis prima delle elezioni comunali, nel maggio scorso. A settembre, l'imprenditore bresciano che ha rilevato l'attività, Attilio Camozzi, diventerà finalmente proprietario anche di terreni e capannoni. E allora si potrà cominciare a fare sul serio.
«Cavaliere» e figli prevedono di investire qui altri cinque milioni di euro (quasi altrettanti sono già stati spesi). Oggi in via Rubattino lavorano in 47. L'anno scorso erano 36 più dieci in cassa. Il rientro di questi ultimi è iniziato. Ma la grande novità sono le nuove assunzioni. Sette giovani hanno già firmato un contratto. Un inizio. Secondo i piani del «padrone» qui a regime lavoreranno in 150-200.
La storia di quando quelli dell'Innse costrinsero il cerchio a farsi quadrato è cominciata il 4 agosto di due anni fa.
«Allora ragazzi, qui si fa lunga, ci andiamo a prendere un caffè?». Questa fu la parola d'ordine dei cinque per allontanarsi senza insospettire i poliziotti, lì in tenuta antisommossa per garantire l'uscita delle macchine. Un'operazione che avrebbe messo la parola «Fine» sulla storia della ex Innocenti.
Guardandosi le spalle Vincenzo Acerenza, Massimo Merlo, Roberto Giudici, Fabio Bottaferro e Luigi Esposito girarono dietro la fabbrica, entrarono da un pertugio e salirono sul famoso carro ponte. Scelta meditata.
«Avevamo vagliato diverse ipotesi — raccontano oggi —. Prima pensavamo di incatenarci a una delle macchine. Ma poi ci siamo resi conto che così avremmo resistito ben poco tempo. E allora ci è venuta l'idea del carro ponte».
Nessuno del variegato popolo in attesa degli eventi davanti ai cancelli della fabbrica avrebbe scommesso un centesimo sull'Innse. Cronisti, poliziotti, persino molti sindacalisti pensavano che questa fosse l'ennesima storia dall'esito scontato. Un pugno di reduci illusi e uno stabilimento già morto anni prima. Forse non ci credevano fino in fondo nemmeno loro, i cinque che salirono sul carro ponte. Un gesto estremo, dettato dalla determinazione a essere coerenti fino all'ultimo più che da una reale speranza di tenersi stretto il lavoro.
Fecero scuola quelli dell'Innse. Da allora molti si sono arrampicati sulle scale della protesta. Senza fortuna. I cinque di via Rubattino restano un unicum. Ma meglio sarebbe dire i «quattro più uno». Quattro tute blu e un funzionario della Fiom. Roberto Giudici, che continua a occuparsi di aspetti organizzativi per i metalmeccanici della Cgil, abituato a intervenire nelle situazioni più difficili. Vincenzo, Massimo, Luigi e Fabio in questi due anni sono rimasti al solito posto. In fabbrica. Lo sguardo sempre rivolto in avanti: «Quel che è stato è stato — taglia corto al telefono Massimo Merlo —. Non abbiamo niente da festeggiare. Noi pensiamo al futuro. E alle assunzioni che devono venire. Dopo tutto quello che abbiamo fatto l'abbiamo fatto anche per loro. I ragazzi che arriveranno».
postilla
Quando la fabbrica milanese si conquistò le prime pagine sulla stampa nazionale, su questo sito se ne sottolineava il ruolo simbolico, forse anche qualcosa in più, rispetto alle politiche di sviluppo territoriale. Era l’epoca di formazione del piano di governo del territorio diretto discendente della strategia privatistica e banalizzante, di una Milano fatta di metri cubi a prezzi decisi a tavolino, e parallele speculazioni di varia natura. Mentre la resistenza degli operai Innse, proprio di fianco al quartiere Rubattino figlio degenere della “riqualificazione di aree dismesse” a senso unico, poneva l’accento sul possibile futuro della città e dell’area metropolitana: campo giochi per finanzieri e indistinta folla di servi, o città vitale multifunzionale, con uno spazio anche per le attività produttive?
Oggi è cambiata la maggioranza comunale, si sta cercando di intervenire a modificare auspicabilmente in meglio il Pgt, si parla auspicabilmente in modo serio di città metropolitana. Mentre si sviluppa la vicenda di queste aree industriali sull’asse dalla Tangenziale Est verso il nuovo margine urbano della Tangenziale Esterna, a poche centinaia di metri nel territorio dei comuni di prima cintura crescono altri enormi progetti di trasformazione, come quello del megacentro commerciale Westfield-Percassi sull’ex scalo ferroviario. E sorge spontanea la domanda: quale futuro? Si può ancora pensare in termini strategici, oppure le legittime battaglie per difendere un territorio vivo e vario sono solo una specie di ritirata, strategica? La città metropolitana è davvero un obiettivo essenziale progressista (f.b.)