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«Venezia è un bene comune». E' lo slogan che oggi avrebbe dovuto attraversare i luoghi simbolo della città nel corteo organizzata dalla rete di Uniti per l'alternativa. Obiettivo: «Veneto libero, dalla Lega Nord». Mobilitazione più che annunciata, itinerario noto fin nei dettagli. Partenza alle 15 dal piazzale della stazione Santa Lucia; arrivo in Riva Sette Martiri, dove Bossi domani terrà il comizio finale della Festa dei popoli padani. Così fino alle 17 di ieri. Poi il clamoroso stop della questura con l'obbligo di limitare il corteo a metà percorso. Motivo ufficiale? Ordini superiori. Del ministero dell'Interno.

E' Beppe caccia, consigliere comunale e tra i promotori dell'iniziativa a spiegare i dettagli dell'altolà. «Il questore Fulvio Della Rocca ha risposto solo ieri pomeriggio alla notifica della manifestazione con un'ordinanza che impone disposizioni che - sulla base di motivazioni pretestuose e autoritarie - di fatto costituiscono un inaccettabile impedimento al corteo. A una manifestazione che non avrebbe creato problemi di ordine pubblico e che doveva svolgersi lungo strada Nuova viene imposto di concludersi a campo Santa Margherita. E pensare che abbiamo scelto il giorno prima del raduno leghista proprio per evitare problemi. Questa ordinanza - continua Caccia - è una vera e propria provocazione contro l'esercizio del diritto a manifestare liberamente». Dichiarazioni sottoscritte in un comunicato anche da Giorgio Molin (segretario generale Fiom Veneto), Sebastiano Bonzio (consigliere comunale), Sandro Sabiucciu (coordinatore Sel), Vittoria Scarpa (Razzismo Stop), Michele Valentini (Rivolta) e Tommaso Cacciari (laboratorio Morion). Fanno notare: «Ai militanti della Lega che due anni fa si sono resi responsabili della devastazione di un ristorante e dell'aggressione razzista a un cameriere albanese viene concesso di scorazzare a piacimento. Ai cittadini democratici si vuole vietare un corteo pacifico». Da qui la denuncia dell'«emergenza democratica nelle scelte compiute dal Ministero dell'Interno». E l'appello al prefetto: «Si faccia garante di un diritto costituzionale».

Ma prima, squadernare il conflitto d'interesse: «In pratica il ministro dell'Interno della Lega limita il corteo che avrebbe messo in difficoltà la Lega». La prova che il "cartello" di associazioni, centri sociali, sindacati (Fiom e Cobas) migranti, insieme a genitori, studenti e insegnanti (che comunque oggi alle 15 saranno a Santa Lucia) fanno davvero paura. «Sburgiardiamo la favola della diversità leghista e sveliamo l'inganno che ha prodotto l'attuale manovra finanziaria, il razzismo e il fallimento delle poltiche securitarie» spiega la ventina di realtà sociali che ha firmato l'appello «contro la speculazione». Da qui l'operazione-verità sulla devolution: «Al posto del federalismo sono arrivati i tagli alla sanità e al welfare. Al posto dell'autonomia impositiva ticket e nuove tasse».

Il tutto, naturalmente, non ferma il tradizionale tam-tam leghista. La pubblicità della giornata conclusiva della Festa dei popoli si affida alla cicloturistica Monviso-Venezia che prosegue idealmente il Giro della Padania. In Veneto, marketing più che necessario alle alte sfere del Carroccio preoccupate di placare gli effetti dell'alleanza con Berlusconi e delle "guerre" non più intestine. Sullo sfondo, il carbone della centrale Enel di Porto Tolle, «pulito» dai vincoli di legge con una norma ad aziendam sponsorizzata (anche) dalla Lega che non convince il popolo padano. In ogni caso domani, agli Schiavoni, tutti concentrati sul palco del comizio di Bossi. Sovieticamente, disegnerà il nuovo diametro del «cerchio magico». Al punto che nella Lega c'è chi assicura conteranno più le foto delle parole.

Gli italiani, ricchissimi e disperati. Ebbene sì, siamo ricchissimi, più dei francesi e dei tedeschi, più degli inglesi, degli americani e dei giapponesi. Lo dicono i numeri: la ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2010 ammonta a 9 mila 732 miliardi di euro, i debiti (sempre delle famiglie) a circa mille miliardi, la ricchezza netta è quindi pari a 8 mila 700 miliardi. È una cifra enorme, quasi sei volte il pil, quattro volte e mezzo il debito pubblico, 7,8 volte il reddito disponibile, contro il 7,7 del Regno Unito, il 7,5 della Francia, il 7 del Giappone, il 6,3 della Germania e il 4,8 degli Stati Uniti. Siamo più ricchi di loro ma stiamo peggio. Perché?

Per spiegarlo dobbiamo partire dall’inizio, ovvero da come abbiamo fatto ad accumulare tanto. I motivi principali sono che siamo un popolo di risparmiatori (virtù in erosione) e un popolo di evasori fiscali (difetto che non si erode affatto). Un elevato risparmio consente di accumulare e non pagando le tasse si risparmia e si accumula molto di più. Nel 2009 per esempio la ricchezza complessiva è cresciuta di 93 miliardi, 70 dei quali rappresentati dal risparmio e il resto dall’aumento del valore. Non è un’eccezione, tra il 1995 e il 2009 l’aumento della ricchezza è dovuto per il 60 per cento al risparmio e per il 40 all’aumento del valore.

Il passo successivo per avvicinarci a capire perché stiamo peggio è nella struttura economica dell’Italia, la cui sintetica fotografia è questa: debito pubblico enorme e debito privato relativamente contenuto, ricchezza privata immensa che però non produce crescita.

Il presidente del consiglio e il ministro dell’economia, oltre a dirci fino a giugno scorso che l’Italia stava benissimo, ci hanno venduto quel contenuto debito privato e la gigantesca ricchezza delle famiglie con elementi di forza, garanzie della tenuta del nostro debito pubblico. Alla prova dell’estate purtroppo non si sono rivelate tali, per la semplice ragione che più che elementi di forza sono segni di squilibrio. Per quello che comportano e per quello che rivelano.

Quello che comportano è sotto i nostri occhi: il debito pubblico elevato sbilancia l’intero paese e rende più costoso anche quello privato. Se la ripartizione fosse diversa, con un 2030 per cento in più di debito privato e altrettanto in meno di debito pubblico le agenzie di rating e i mercati ci guarderebbero con occhi assai diversi.

Quanto alla ricchezza privata, se è certo che è meglio averla che non averla, è però assai poco utile se non produce crescita. Vuol dire che è immobile e mal gestita. E’ come quelle famiglie aristocratiche che hanno immensi palazzi che non producono neanche il reddito necessario a mantenerli. Il loro destino è segnato, cominceranno a venderne dei pezzi fino a ritrovarsi nella casa del guardiano.

Se questo è quello che la struttura economica dell’Italia comporta, ancora più illuminante è quello che rivela. Debito pubblico e ricchezza privata sono due facce della stessa medaglia, uno stato senza credibilità e autorevolezza e un privato opportunista e spesso saccheggiatore.

A questo punto però, per capire perché questa immensa ricchezza privata non produce crescita, dobbiamo guardarci dentro. Quello che troviamo già dice quasi tutto. Di quei 9 mila 732 miliardi di patrimonio lordo il 57,8 per cento è rappresentato da immobili, il 4,9 per cento da beni di valore e da impianti, macchinari, scorte, attrezzature, brevetti, avviamenti (le cosiddette attività reali) e il 37,3 per cento da attività finanziarie.

Cominciamo da quei 5 mila e 600 miliardi di immobili. Solo il 6 per cento, 330 miliardi o giù di lì, sono negozi, uffici o capannoni; il 4,3 per cento (240 miliardi) sono terreni e il resto, ovvero 4 mila 900 miliardi, sono abitazioni. Di queste (in totale sono 29 milioni 642 mila) l’80 per cento sono abitazioni principali e il restante, 5,7 milioni, sono seconde case (poco utilizzate) o case sfitte. Quelle vuote, inutilizzate, sono ben 1 milione e 200 mila.

Passiamo ora alla seconda voce per importanza, le attività finanziarie. Non sono poca cosa, si tratta di oltre 3 mila e 600 miliardi, metà dei quali sono detenuti in contanti, depositi bancari e postali, titoli pubblici e obbligazioni, altri mille miliardi in azioni e fondi comuni e circa 630 sono riserve tecniche delle assicurazioni. Nel complesso la quota rappresentata dal capitale di rischio è più vicina a un quarto che a un terzo del totale.

Infine la cenerentola di questo elenco, le attività reali, 476 miliardi di euro investiti per un quarto circa in beni di valore (quadri, gioielli, mobili di antiquariato) e solo 380 miliardi in beni produttivi. Pochissimo, per un paese che si dice manifatturiero, per un popolo che si ritiene abbia l’imprenditoria nel sangue. Guardandosi intorno, osservando le decine di migliaia di imprese che affollano tutto il Nord, una parte del centro e qualche pezzetto fortunato del sud, e anche escludendo le società quotate, le cui azioni vanno nel capitolo della ricchezza finanziaria, sembrerebbe che il valore dei macchinari, degli avviamenti e delle scorte di tutte quelle imprese sia ben superiore a quei sparuti 380 miliardi. La spiegazione c’è. Se calcoliamo che secondo il Rapporto Corporate EFIGE 2011, la percentuale dell’attivo di bilancio delle imprese italiane finanziata con il capitale proprio è pari al 12 per cento (in Francia il 30 e in Germania il 34) e l’88 per cento è coperto dal debito, i conti tornano. Il valore complessivo di tutte quelle attività è vicino a 4 mila miliardi, il problema è che i proprietari di tasca loro ci mettono poco, pochissimo, e infatti uno dei vincoli alla crescita di quelle imprese è che sono poco capitalizzate e molto indebitate. I loro proprietari preferiscono mettere i soldi in appartamenti e nella finanza piuttosto che nelle aziende, e infatti loro sono ricchi e le aziende povere.

A questo punto possiamo tornare alla domanda iniziale: perché con un patrimonio così ricco la crescita del nostro paese è così bassa? La risposta, che è già nel modo in cui quel patrimonio è investito, la dà Giacomo Neri, partner di PricewaterhouseCoopers e curatore insieme a Gino Gandolfi dell’Università di Parma di un osservatorio sul risparmio degli italiani (Orfeo): «La struttura di questo patrimonio è difensiva e la sua gestione non è ottimale». Questo patrimonio non serve a costruire il futuro ma a difendersi, per una serie di ragioni di ieri e di oggi, che poi sono le stesse che stanno dietro i capitali all’estero. Alla base c’è la sfiducia nello stato, nel suo arbitrio, nelle sue incertezze e instabilità, in passato c’era anche l’inflazione, che aggiungeva sfiducia nella moneta (e quindi gli immobili). A questa si aggiunge la sfiducia nei mercati finanziari, quelli del parco buoi, quelli nei quali le azioni si pesano e non si contano, nei quali gli azionisti di controllo anche se con un pugno di titoli in mano usano l’impresa come casa propria.

C’è anche, dice Roberto Nicastro, direttore Generale di Unicredit «una ragione culturale: l’immobile piace e rassicura, conserva il valore o lo accresce nel tempo. E l’imprenditore che rischia con la sua attività con il suo risparmio preferisce non rischiare».

Ma la ragione chiave è il fisco. Le tasse servono a pagare i servizi comuni, le strade, l’illuminazione, la giustizia, la difesa, per coprire investimenti comuni come l’istruzione e per difenderci da rischi che abbiamo deciso di mettere in comune, come la salute e la vecchiaia. Ma il modo come le si raccoglie non è indifferente, disegna il modo di essere di un paese e della sua economia. Il fisco italiano da decenni ha deciso di caricare tutto il suo peso sull’impresa e sul lavoro, ovvero su quello che crea la ricchezza, e di privilegiare gli immobili e le rendite finanziarie (il cui prelievo solo con l’ultima manovra è passato dal 12,5 al 20 per cento). C’è una tabella di Banca d’Italia chiara e terribile: nel 2010 le imposte dirette sono state pari al 14,6 per cento del pil, quelle indirette al 14 per cento e quelle in conto capitale, ovvero sul patrimonio, pari ad un misero 0,2 per cento. Il denaro fugge dove viene meno colpito, e in Italia è meno colpito se si ferma, si immobilizza, esce dalla famigerata denuncia dei redditi.

«Lo stock di ricchezza è un vantaggio competitivo nazionale dice Neri ma bisogna valorizzarlo, gestirlo bene, renderlo produttivo e dinamico. Ci vuole una politica orientata a questo, in un paese con tanto risparmio a valorizzare il risparmio gestito favorendo la nascita di grandi imprese del settore, in un paese con un ricco patrimonio immobiliare favorendo la crescita di gestori più grandi e più professionali. In un paese ricco ma fermo riorientando il prelievo fiscale tassando i patrimoni e i beni improduttivi e alleggerendo il carico su lavoro e impresa». Ci stiamo occupando molto, e giustamente, della produttività del lavoro, forse dovremmo cominciare a occuparci anche della produttività del capitale.

Roberto Nicastro aggiunge un segnale di allarme: «Negli ultimi mesi si sta inaridendo il flusso di fondi esteri disponibili a investire in Italia, e se non si recupera rapidamente credibilità e fiducia potrebbe diventare un problema. Questo pone una sfida al risparmio italiano: se continuiamo a mettere i soldi negli immobili come faremo a finanziare la crescita?» Nicastro dà anche la risposta, che riguarda anch’essa le tasse: «Bisogna pensare a un nuovo equilibrio nel trattamento fiscale relativo tra le varie forme di risparmio».

La conclusione è che dobbiamo decidere che paese vogliamo, se puntiamo sull’impresa e sul lavoro oppure sulla rendita. Ma dobbiamo sapere che la rendita non sarà eterna: se le cose non cambiano quel patrimonio cominceremo presto a mangiarcelo.

Ci sono 75 chilometri di nuove piste e corsie ciclabili da realizzare, si tratta di interventi già finanziati, o «appaltati» ai costruttori dei grandi progetti urbanistici, come Porta Nuova o Citylife. E fin qui siamo all'eredità morattiana, che la giunta Pisapia porterà comunque avanti. A Palazzo Marino è stato però già messo a punto il rilancio: è racchiuso in decine di grafici e cartine che compongono il «Piano per la mobilità ciclistica 2011-2016». Un progetto vitale per l'amministrazione «arancione», che dovrà presto dimostrare di essere vicina ai milanesi che scelgono la bicicletta per spostarsi.

Ecco i dettagli del piano, elaborato da qualche settimana: 95-100 nuovi chilometri di percorsi per i ciclisti. Con una scaletta molto dettagliata di priorità (si parte dall'itinerario Castello-Duomo-Monforte, già finanziato dalla vecchia amministrazione) e nuovi criteri per favorire la mobilità delle bici verso luoghi di lavoro e scuole.

La stima dei costi, come sempre in questo periodo, rappresenta il punto critico: serviranno poco più di 30 milioni da qui al 2016. Significa circa 6 milioni l'anno. E probabilmente sarà quello della mobilità ciclistica uno dei primi capitoli di spesa da quando il nuovo Ecopass (per il quale si stima un incasso di 30-35 milioni l'anno) comincerà a portare nelle casse comunali nuove risorse da investire.

Oggi i chilometri di piste/corsie ciclabili sono 135 (110 su strada, il resto nei parchi). La giunta Moratti ha allestito un piano di aumento da 75 chilometri, che dovrebbe procedere senza intoppi; bisogna andare avanti rispettando i tempi per non perdere i finanziamenti già ottenuti. La giunta Pisapia punta però a un piano ancora più ambizioso, che preveda quasi altri cento chilometri, organizzati su «raggi» e «anelli» che potrebbero essere distinti anche per colore (verde, rosso, azzurro) e arrivare a tessere una vera rete rispetto agli «spezzoni» di oggi. «Se non si abbandona la logica delle piste con infrastrutture "pesanti" — spiega Eugenio Galli, di Ciclobby — si rischia di perdere risorse e ottenere pochi risultati.

Il punto chiave sono gli interventi low costsulla segnaletica, le corsie, la moderazione della velocità. La nuova giunta sembra molto attenta, ma ci aspettiamo interventi già dai prossimi mesi». Per comprendere il discorso di Ciclobby, bisogna considerare che una corsia su marciapiede costa 20 mila euro al chilometro, mentre una pista ciclabile ricavata su una carreggiata può arrivare a 3-400 mila euro.

Nell'ambito degli interventi che abbiano «bassissimo costo e massima resa», il verde Enrico Fedrighini sta studiando il progetto di trasformare le fermate del metrò «in nodi di scambio bicicletta/mezzi pubblici». C'è un dato fondamentale: dentro i Bastioni, il 70 per cento degli spostamenti avviene su mezzi pubblici; percentuale che scende al 40 per cento nella fascia più esterna di Milano e crolla al 25 in periferia.

«L'uso dei mezzi perde attrattiva man mano che si dirada la rete — spiega Fedrighini —: per questo bisognerebbe incentivare chi abita entro i due chilometri da una fermata del metrò o del Passante a usare la bicicletta per questo primo spostamento verso il metrò invece che prendere l'auto per tutto il percorso». Servono rastrelliere e posteggi per le bici: «Con costi davvero minimi e tempi rapidissimi — conclude Fedrighini — si potrebbero allestire 50 mila parcheggi per le bici intorno alle fermate e moltiplicare gli utenti dei mezzi pubblici».

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L’aspetto più incoraggiante che emerge dai pochi spunti concreti dell’articolo è l’impianto tendenzialmente trasversale del ragionamento sotteso: la sola citazione dei progettoni pubblico-privati con destinazione funzionale terziaria che in qualche modo dovremo sorbirci in futuro già dice qualcosa. Come dice qualcos’altro la sottolineatura sugli interventi leggeri, ovvero non stiamo parlando di un programma di opere, ma di un’idea di mobilità attraverso le funzioni urbane.

In definitiva, non è affatto vero che si tratta di una eredità della giunta Moratti: la cifra di quei progetti era il caratterizzarsi appunto da un lato come puri interventi di trasformazione, dall’altro l’episodicità di queste trasformazioni, solo ideologicamente connesse a rete nella e con la città.

Resta da chiarire però il vero obiettivo, solo accennato, di uscire dalla benintenzionata logica Ciclo-Lobby (che può servire come ariete di sfondamento senz’altro, ma in sé non porta da nessuna parte), sovrapponendo almeno tre elementi: la dimensione cittadina, ovvero estesa a tutto il territorio comunale e in certi casi anche oltre; una buona intermodalità dolce ovvero tendenzialmente percorsi lunghi passando dal mezzo pubblico alla bici alla pedonalità, con un minimo di attrezzature sia hard che soft , che vadano oltre le pur indispensabili rastrelliere; almeno una riflessione sulle polarità funzionali da privilegiare, magari partendo da una struttura pubblica già esistente come quella delle scuole, aree oggi maledette dal traffico in orari anacronisticamente “fordisti”, con ripercussioni su tutta la mobilità (f.b.)

Ogni volta che, venendo dalla porta di San Sebastiano, torno sull'Appia antica, nel silenzio del Circo di Massenzio o alla solenne Villa dei Quintili, penso che nessun luogo rappresenti meglio la storia remota e pur così immanente di Roma. Le sorprese sono continue, come la colata lavica di 260 mila anni fa, accanto al mausoleo di Cecilia Metella, o le terme con vasche e leggiadri mosaici a Capo di Bove dove ora c'e l'archivio di Antonio Cederna, paladino della difesa del patrimonio artistico, storico e paesaggistico italiano. Ogni tanto lo accompagnavo sull'Appia a verificare lo stato delle cose. Un giorno ci imbucammo a un fastoso matrimonio per rivedere la chiesa di Sant'Urbano, allora proprietà di un boss (della banda della Marranella, si seppe poi). Fummo buttati fuori dai bodyguard. Confiscata, la chiesa è stata data al Comune. Per assegnarla al Parco dell'Appia antica? No, al Vicariato. E proprio da Capo di Bove, in modo agguerrito e competente, il "direttore archeologo" Rita Paris guida l'ardua tutela di 3.000 ettari del Parco, dove l'abuso non si ferma mai.

DETERMINAZIONE E FORMAZIONE SUL CAMPO -

Pensare che, quando Adriano La Regina mi propose questa direzione, rimasi sconcertata. Ero una "da museo"-. E sul volto ostinato le ridono gli occhi azzurri. Una vocazione all'arte, la sua, che non ha radici famigliari (la determinazione positiva sì, viste le origini abruzzesi), ma scolastiche: una brava insegnante di storia dell'arte che la porta alla casa di Livia sul Palatino. Poi maestri come Antonio Giuliano e Carlo Gasparri col quale si laurea. Nel 1980 è già nell'amministrazione. vincitrice di concorso. -Lavoro con Adriano La Regina all'attuazione della legge Biasini per l'archeologia romana. Una formazione sul campo entusiasmante-. Quando parla della catalogazione. -ho l'angoscia dei dati che si perdono-. sento l'eco di certi severi soprintendenti d'antan. Ha anche la chance di lavorare, sia pure con finanziamenti a goccia, al nuovo Museo Nazionale all'ex Collegio Massimo, davanti a quello storico delle Terme di Diocleziano. Ricorda: -Esponemmo, straziati, gli affreschi e mosaici di quanto era stato scavato e poi distrutto nella zona di Termini, per la metropolitana. Come in Ronui di Fellini, dove alcuni sbalorditivi affreschi romani compaiono davanti alla "talpa" che scava e in un lampo si dissolvono-.

PER UN'ARCHEOLOGIA PIÙ FRUIBILE -

All'Appia antica-, racconta ancora, -trovai tanti vincoli archeologici dormienti. Quello paesaggistico del 1953. frutto della campagna di Antonio Cederna, totalmente disatteso. Chiusa Cecilia Metella. Il hasolato romano sepolto da strati d'asfalto. La Villa dei Quintili? Ruderi affascinanti-. Coi fondi del Giubileo, tante cose sono cambiate in meglio, radicalmente. Grazie a Rita Paris questi complessi monumentali sono stati recuperati e aperti al pubblico. -Ora vorrei creare delle "stazioni" di sosta per i visitatori-. Nel 2005 Adriano La Regina. sovrintendente ai Beni Culturali e Artistici di Roma. la sorprende con un'altra richiesta: tornare all'ex Collegio Massimo per dirigere il museo dov'è cresciuta. -Ci davamo ancora del lei. mi comunicò la cosa per fax... Chiesi emozionata se dovevo lasciare l'Appia. "Non è il momento di lasciare niente". mi rispose secco-. Le collezioni di quel museo sono fra le più belle, le dico, ma. specie le statue, mi paiono esposte in modo freddo. -Penso che il Museo debba comunicare di più col pubblico-, risponde. -Ci vogliono più colori, più movimento, la luce biodinamica che cambia a seconda delle ore, e poi più supporti didattici, brevi e leggibili-. L'ultimo piano dell'ex Collegio Massimo è dedicato agli affreschi e ai mosaici delle ville romane, di una bellezza "da sturbo" si dice a Roma. Affascinanti soprattutto gli affreschi della villa di Livia a Malborghetto: piante, fiori. frutta, uccelli. Da qualche mese si è aggiunto il completo riallestimento dei cubicula della Famesina romana. che ora si possono vedere e capire appieno. Troppo raffinati questi affreschi, diceva Vitruvio. Oggi godibilissimi. Ma che fatica riproporli. L'archeologia romana è ancora commissariata per l'emergenza. Basterebbe dare fiducia ad archeologi seri, organizzati, tosti come Rita Paris. Nota a margine: lo stipendio di questi funzionari, con incarico da direttore. è di 1.700 euro mensili, più 7 curo per buoni pasto. o buoni digiuno.

I cinque scenari per la modifica di Ecopass, proposti ieri per passare alla fase di consultazione e a quella delle decisioni, gettano nello sconforto, improntati come sono da un'evidente mancanza di indirizzo. Occorre tornare alla lezione di sano riformismo cui sono improntati i principi espressi dal sindaco Pisapia quando parla di una congestion charge come di «un provvedimento equo, efficace, trasparente e di facile comprensione».

Rispetto all'equità, se, come dichiarato, non si vuole «fare cassa», può dirsi che estendendo il pagamento a tutti i veicoli in ingresso nell'area dei Bastioni, si può avere il coraggio di tariffe poco elevate, comunque dissuasive, da non modulare, semplicisticamente, con gli aumentati costi tariffari del trasporto pubblico.

Un pagamento generalizzato per le autovetture e i veicoli commerciali leggeri, anche di 2,5 euro, garantisce comunque efficacia in quanto gli effetti sul traffico, calcolati da Amat nel marzo 2011, portano ad una riduzione del 36 per cento, con l'ingresso ai Bastioni di 83.000 veicoli contro i 130.600 del novembre 2007; con un ticket di 5 euro esteso ai mezzi commerciali pesanti si avrebbe un'ulteriore riduzione dei 16.500, registrati nel novembre 2010, portandoli a 15.600. Esentati dal ticket i veicoli elettrici, gli ibridi, i veicoli alimentati a Gpl e metano si escluderebbero dall'ingresso i veicoli maggiormente inquinanti, sulla base di quelli già individuati dalla Regione Lombardia per il periodo invernale.

Questa riduzione del traffico è sufficiente ad avviare progetti capaci di dare nuova qualità urbana all'intero centro storico, necessari alla città tutta, oltreché a rappresentare la «magnificenza civile» di Milano alla scadenza del 2015. Contraddetta da ogni ipotesi di modulazione stagionale sarebbe l'efficacia anticongestione del provvedimento, e trascurabili miglioramenti, a fronte di una certa confusione, si avrebbe con l'introduzione di fasce orarie che differenzino il pagamento, in quanto gli ingressi nell'area Ecopass sono soprattutto dovuti a mobilità occasionale: l'88 per cento dei veicoli accede all'area Ecopass meno di due volte al mese, mentre i pendolari in ingresso, che entrerebbero nella fascia oraria 7.30-11.00, utilizzano in via quasi esclusiva il mezzo pubblico o le due ruote, bici e soprattutto moto. Per garantire una «facile comprensione» occorre dunque una radicale semplificazione tariffaria.

Certamente, non si dà semplificazione con una tariffa unica, controbilanciando l'iniquità con la riserva di «sconti» sul trattamento per i commercianti. Occorre, viceversa, una semplice articolazione della tariffa di ingresso prevedendo due sole classi: la prima con autovetture, veicoli commerciali leggeri e autovetture, i mezzi di servizio e di lavoro, la seconda con veicoli commerciali pesanti e autobus turistici con oltre 9 posti. Un indirizzo di «trasparenza» potrebbe configurarsi nell'istituzione di un Fondo comunale dei trasporti, che renda conto di come gli introiti da congestion charge e da park pricing vengono «restituiti» alla città in investimenti per mezzi pubblici e nuova qualità del servizio per Milano e per la sua area metropolitana.

Le insuperabili epistole di Totò alla malafemmina (“Siamo noi con questa mia a dirvi”, “chiudi la parente”) e di Benigni e Troisi a Savonarola? Superate. Perché nella lettera che il governatore della Sardegna Ugo Cappellacci sta pubblicando un giorno sì e l’altro pure sul quotidiano l’Unione Sarda, la realtà vince su qualsiasi ispirazione cinematografica. Due pagine piene pagate con i soldi pubblici per spiegare ai cittadini che il piano paesaggistico regionale va cambiato e che è già pronto il nuovo. È un suo vecchio cruccio fin dai tempi della campagna elettorale: in Sardegna divieti di qua, divieti di là, non si vive, e soprattutto, non si costruisce più. E allora eccola, la sua disamina. Cappellacci inizia bucolico: “Il paesaggio è di tutti noi, ancora di più è in tutti noi”, come dimenticare “la vigna di nonno all’imbrunire”, che “lascia senza fiato”, in un nostalgico tensivo. Però. C’è il però.

“Non possiamo bloccare l’evoluzione della vita. E con essa l’evoluzione del paesaggio”, scrive il Cappellacci darwiniano. “Ma vivere, ed evolvere, con le regole attuali non è possibile”. La maggior parte di queste regole, puntualizza, i sardi neanche le conoscono. “Ce ne accorgiamo – scrive accorato – quando pensiamo di chiudere una veranda perché in cameretta i ragazzi non ci stanno più”. E che nessuno insinui che il governatore vuole fare solo gli affari degli immobiliaristi che premono sulla costa, che vuole svendere ai privati uno dei pochi patrimoni naturali che sono rimasti. Che Cappellacci ambientalista è: “Ce ne accorgiamo quando dobbiamo rifare il tetto con tegole fotovoltaiche per risparmiare qualche euro salvaguardando l’ambiente”. Sembra di vederlo, Cappellacci, seduto alla scrivania, penna in mano, mentre pensa: “Che faccio, ce la metto la storia della bottiglietta d’acqua? Secondo me funziona”. E via: “Ce ne accorgiamo quando per trovare una bottiglia di acqua fresca sotto l’ombrellone dobbiamo tornare a prendere la macchina e cercare un bar da qualche parte ma non so dove”.

Non si capacita proprio come sia possibile non avere uno stabilimento ogni metro di costa, che la spiaggia incontaminata sarà pure bella, però vuoi mettere Rimini. “Ce ne accorgiamo – prosegue – quando leggiamo che i turisti non vengono più in Sardegna perché preferiscono gli alberghi con i servizi adeguati in Croazia piuttosto che in Marocco”. E poi, senza dimenticare ovviamente le case sarde che costano trent’anni di lavoro perché non se ne possono costruire di nuove, il climax: “Ce ne accorgiamo quando vediamo in tivù le immagini delle villette sequestrate perché totalmente abusive, perché quando tutto è vietato e non c’è nessuna direzione verso cui andare, prima o poi qualcuno sfonda il recinto”. Ha scritto proprio così: “Totalmente abusive”, e “uno prima o poi sfonda il recinto”. Come a dire: con queste leggi è normale che uno sia portato a delinquere, perché “le regole di oggi vietano e bloccano. Ma allora non sono regole: sono divieti e blocchi”.

Ora mezza Sardegna si sta chiedendo chi abbia scritto la lettera, se sia totalmente farina del suo sacco o se abbia assoldato un consulente, e quale delle due sia l’ipotesi peggiore, e questo è il lato comico. Se non fosse che la storia è serissima: “Dietro ci sono affari miliardari, interessi di immobiliaristi che hanno già l’ombra delle mani sulla costa e sul paesaggio e che non aspettano altro che il pronti via”, tuona Maria Paola Morittu di Italia Nostra. “Quanto è costata la lettera?”, si agitano le opposizioni, come se il problema fosse solo questo. Più lucido Gian Valerio Sanna, del Pd: “La lettera contiene un’apologia di reato. Ma la modifica del PPR era una promessa che lui deve ai suoi grandi elettori immobiliaristi e che in un anno e mezzo non era riuscito a fare”. Le due pagine portano in basso un inquietante “numero 1”. Per la serie: to be continued.

Nota: il testo integrale dello spot a carico del contribuente l'abbiamo allegato al commento di Sandro Roggio (f.b.)

É tutto un po' più chiaro dopo lo spot del pubblicitario ingaggiato da Cappellacci. Il percorso avviato con il titolo “Sardegna nuove idee” arriva all'atto ultimo o penultimo della commedia del berlusconismo esportato in periferia. La stessa mistificazione: atti di governo giusti e buoni per tutti e invece convenienti per pochi o per uno solo. Così le “nuove idee” per il governo del territorio, indicate come la panacea dei nostri mali, servono in realtà a rendere più agevole la manomissione dei nostri paesaggi.

Si veda nel sito della Regione il polverone di pagine, con spezzoni di concetti condivisibili, richiami alle pratiche di governance, prove di partecipazioni guidate, eccetera. Ma con quel rimando forte e chiaro alle vecchie idee per cui si annullano le premesse: il piano-casa1 (artt. 12 e 13 legge 4/09), rilanciato con il temerario piano-casa2 (e infatti bocciato dai franchi tiratori nel 2010), e ora il piano-casa3, e immaginiamo una quarta versione.

Aspettavamo che parlasse uno studioso più o meno autorevole, per spiegare la necessità delle manovre attorno al Ppr. Ma di conclusioni scientifiche di consulenti-esperti neppure l'ombra, meglio la pubblicità gratuita (nel senso che la paghiamo noi: comunque la pensiamo).

Neppure un accenno al contenuto delle regole in costruzione. Solo il lirismo appiccicoso pensato per consumatori sprovveduti: occorre persuadere che il governo regionale lavora per liberare tutti i sardi dal maleficio del Ppr, dai vincoli che hanno reso la loro vita un inferno, e dove la prosa prende il posto della poesia la Sardegna sembra la Striscia di Gaza (“oltre un milione e trecentomila sardi vive sotto un vincolo paesaggistico !”). Ecco il dramma del popolo sardo. Non sono le facce stanche e tristi dei cassintegrati e dei pastori in lotta a turbare il sonno di Cappellacci, ma le limitazioni subite dai palazzinari ai quali soprattutto si rivolge il sedicente messaggio istituzionale. Per conquistare il consenso, anzi l'applauso per "il gusto pieno della vita” che ci verrà restituito, basta la promessa: un pezzo di terra/una casa (per evitare che i divieti si traducano in giustificati abusi edilizi).

Ti faccio immaginare che farai come ti pare sapendo che non sarà possibile accontentare tutti, pure quelli che – visto che ci siamo – vorrebbero farsi la casa in 500 mq nella campagnetta frazionata di nonno. Così la civile ma impopolare previsione del Ppr si trasforma in temporaneo consenso.

Lo stesso messaggio che da Palazzo Chigi si manda agli insofferenti verso ogni regola. Il trionfo di un' idea regressiva della democrazia che applicata al governo del territorio lascia segni per sempre: e nella scia delle casette le grandi speculazioni in attesa.

Capiremo presto il senso di questa improvvisa accelerazione. Vedremo la deregolazione urbanistica in tre mosse, forse quattro. Nuovo piano-casa, legge sul golf, e un colpo al Ppr: basta depotenziarlo in tre o quattro punti, per non contraddire i nuovi provvedimenti. Non è difficile capire che una legge ordinaria non può modificare le disposizioni di uno strumento convalidato dallo Stato per via del Codice dei beni culturali. E quindi avanti alla rinfusa, temo: approderanno a qualcosa che creerà scompiglio e contenzioso, un cortocircuito di cui qualcuno saprà approfittare. C'è solo da sperare che si facciano sentire gli elettori della destra: molti di loro sanno che la tutela della bellezza del Paese non è una ideologia di parte ma un punto fermo in Europa. Un impegno che viene da lontano, troppo disatteso in Italia, ma che comincia, appunto, con Croce e Bottai.

Nota: sul medesimo argmento si veda qui anche l'articolo di Antonietta Mazzette

Di seguito, riproponiamo l’inserzione a pagamento pubblicata a cura della Regione Autonoma Sardegna su due pagine, nei quotidiani L' Unione Sarda e La Nuova Sardegna di domenica 11 settembre 2011



Domande e risposte

Domanda: ma è vero che vogliono cancellare il PPR per fare in modo che si torni all'assalto delle coste e alla distruzione del nostro patrimonio paesaggistico? Risposta: qualche volta le domande più semplici nascondono le paure più grandi. Queste paure sono alimentate da notizie imprecisi, da pregiudizi o da poca informazione. Ma non c'è niente di più semplice che raccontare le cose come stanno. Per poterle verificare e capire che chi vive di paure non è libero. Il paesaggio è di tutti noi, ancora di più è in tutti noi. E' nel nostro cuore, nel nostro modo di essere. Nelle vacanze al mare da bambini, nel bosco delle nostre gite, nella vigna di nonno all'imbrunire, nei campi gialli dell'afa estiva, nelle chiese della domenica mattina vestite di nebbia, nei vicoli stretti dietro casa di paese, nella vista che ti sembra di essere in una cartolina se non fosse per il maestrale che ti lascia senza fiato.

La Sardegna è il suo paesaggio, come ciascuno di noi è il suo volto, con gli occhi grandi e il naso storto, i capelli scuri e la pelle olivastra. Il paesaggio è identità. In questi anni si è fatto molto perché ce ne rendessimo conto. Indietro non si torna. Ma si deve andare avanti. Oggi le regole fatte per il paesaggio lo hanno intrappolato in una fotografia destinata a sbiadire. Perché non possiamo bloccare l'evoluzione della vita, e con essa l'evoluzione del paesaggio. Ma vivere, ed evolvere, con le regole attuali non è possibile. Oggi oltre un milione e trecentomila sardi vive sotto un vincolo paesaggistico.

La stragrande maggioranza di questi (e siamo noi) neanche lo sa. Ce ne accorgiamo quando magari dobbiamo cambiare gli infissi della nostra casa, o rifare il tetto con tegole fotovoltaiche per risparmiare qualche euro salvaguardando l'ambiente, o quando pensiamo di chiudere una veranda perché in cameretta i ragazzi non ci stanno più. Ce ne accorgiamo quando per trovare una bottiglia di acqua fresca sotto l'ombrellone dobbiamo tornare a prendere la macchina e cercare un bar da qualche parte, ma non so dove. Ce ne accorgiamo quando leggiamo che i turisti non vengono più in Sardegna perché preferiscono gli alberghi con i servizi adeguati in Croazia piuttosto che in Marocco. Ce ne accorgiamo quando i nostri figli stanno ancora a casa perché non ne possono avere una per loro, perché un bivano costa trent'anni di un lavoro che non c'è e il valore di una nuova casa sale anche se nessuno la compra, perché tanto sarà sempre più difficile costruirne altre.

Ce ne accorgiamo quando vediamo in tv le immagini delle villette sequestrate perché totalmente abusive, perché quando tutto è vietato e non c'è nessuna direzione verso cui andare, prima o poi qualcuno sfonda il recinto. Le regole di oggi vietano e bloccano. Ma allora non sono regole: sono divieti e blocchi. Vogliamo avere invece un insieme di regole efficaci e chiare, conosciute e condivise, che siamo una via per lo sviluppo e una speranza per il futuro. Ciò che vogliamo tutelare è il paesaggio, non le leggi sul paesaggio. Tutelare non è vincolare, come educare non è inibire. Vogliamo che i nostri figli e i loro figli e ancora dopo i figli dei loro figli nascano, crescano, conoscano e portino dentro di sé quella Sardegna che noi abbiamo conosciuto, libera e forte nel suo aspetto come nel suo cuore, che sa difendere la sua bellezza ma che rimane vitale e capace di aprirsi al mondo senza perdere la sua identità e la sua storia. Vogliamo essere al passo con il nostro tempo, ma proiettati nel futuro, non girati a rimpiangere il passato mentre cerchiamo di fermare il tempo.

Vogliamo sapere prima di fare le nostre scelte quali sono i modi e i tempi per realizzarle, senza dover sottostare all'incertezza di una burocrazia fatta di sabbie mobili e della politica delle intese fatte per simpatia o tornaconto. Per qusto abbiamo riscritto alcune regole, più semplici da leggere e da applicare, per questo abbiamo messo a disposizione strumenti moderni per far conoscere a tutti cosa sia da tutelare e cosa da vincolare, cosa da salvaguardare e cosa da trasformare. Il PPR è nato pensando che la Sardegna fosse una terra che doveva essere difesa dal popolo che la abita; lo abbiamo voluto riscrivere perché invece crediamo che sia quel popolo, tutto il popolo sardo, di qualunque colore sociale e politico, che voglia difendere la terra in cui vive per affidarla ai figli più bella e più forte.

Certo è facile lanciare slogan interessanti quando si sta all’opposizione, come nel caso del Labour londinese dopo la sconfitta di Ken Livingstone e l’ascesa dell’enfant prodige conservatore Boris Johnson. Si aggiunga che il rapporto Housing Policies for London appena pubblicato non è in effetti il programma politico ufficiale, ma un contributo ad esso, inoltrato in primo luogo al ministro ombra per le aree urbane Caroline Flint, graziosa signora che da sottosegretario alla casa nel governo Brown si è distinta tra l’altro per una serie di dichiarazioni sulle eco-città di bassissimo profilo, dove a volte si scivolava direttamente nello sciocchezzaio della “misura d’uomo” e dintorni. Ma anche fatta la dovuta tara, il documento elaborato dal gruppo di lavoro londinese sulla casa, e discusso nel corso di alcune sessioni nello scorso agosto, appare ricco di spunti. Tralasciando le tematiche finanziarie e di orientamento sociale, pur importantissime se si pensa a quanto avvenuto nel governo conservatore dopo le rivolte, val forse la pena qui di concentrarsi sugli aspetti più legati allo sviluppo urbano. Chi volesse scendere ne dettagli può comunque scaricarsi il rapporto integrale in pdf allegato al termine di questa nota, che vuole proporre del rapporto alcuni temi, adattati e commentati rispetto a una sensibilità più generale.

Il quartiere ambientalmente e socialmente sostenibile

La domanda che potremmo porci è: esiste una idea di città di sinistra?

Forse si, se ciò significa fissare principi generali che leghino obiettivi sociali a una struttura spaziale definita da aspetti come le densità, le qualità edilizie e urbanistiche, il tipo di godimento degli alloggi, il contesto ambientale generale.

E far sì ad esempio che i principi non restino a galleggiare nell’aria, a pura legittimazione di chi li afferma programmaticamente, ma si traducano in tempi certi in qualità tangibili, secondo un programma che metta in primo piano le necessità più urgenti, ad esempio dei servizi, dei trasporti pubblici ecc. Di conseguenza coinvolgendo in modo equilibrato sia le risorse pubbliche che private in termini economici, progettuali, di ricerca.

L’obiettivo è di costruire un tessuto urbano non ghettizzato, sia sul versante funzionale che su quello sociale, inteso dal punto di vista del reddito, delle fasce di età, della condizione professionale e culturale.

Un primo strumento, anche in controtendenza rispetto a certi commenti recentissimi a proposito di alcuni motivi sottesi alle rivolte urbane, è quello di fissare al 50% di qualunque intervento di trasformazione edilizia la quota delle abitazioni economiche entro la circoscrizione londinese. Non basta, visto che nell’accezione di casa economica poi rientrano giustamente diverse fasce di riferimento sociale. Di questo 50% allora un 70% sarà di case sociali in affitto, e il 30% di tipo intermedio, ovvero quanto oggi i conservatori chiamano “affitto controllato” e che non è affatto rivolto ai redditi bassi.

Intervenire sulla casa non significa solo costruire abitazioni, e farlo con l’idea di una società composita ed equilibrata, ma anche porre le basi di una città sostenibile. La pianificazione urbanistica qui deve porre in primo piano la qualità dei quartieri, edilizia, degli spazi pubblici, dell’ambiente riguardo alle emissioni e ai consumi energetici, dei servizi, del verde. Non va scordato ad esempio che una buona gestione dei bilanci energetici alla fine si traduce in un intervento sociale, riducendo il carico delle bollette per gli abitanti. Lo stesso vale per i trasporti e i rapporti spaziali diretti con le attività economiche, che riducono i costi monetari e di tempo della mobilità. Da questo punto di vista sarà fondamentale coordinare politiche per la casa e grandi e piccoli nodi infrastrutturali, in grado di porre le basi per una ottima accessibilità multimodale, a servizio delle varie utenze. Ciò significa anche operare trasversalmente e in modo coordinato alle varie scale e responsabilità dei piani. Il che, pare di capire, è l’esatto opposto dell’ideologico localismo decisionale in urbanistica alla base della Big Society di Cameron.

La centralità dei quartieri secondo i laburisti è del tutto alternativa al modello localista e sostanzialmente nimby dei conservatori, e si basa sulla consultazione, partecipazione, e ripristino di un ruolo centrale degli organismi para-regionali di programmazione cancellati dall’attuale governo, che nel campo della casa avevano iniziato un approccio di area vasta non certo accusabile di particolarismi, e soprattutto coerente agli obiettivi di evitare ghetti qualsivoglia, come avvenuto in altre epoche coi complessi di case popolari di stampo modernista.

In questa prospettiva, a livello nazionale, è auspicabile un rilancio degli interventi in territori sinora emarginati e particolarmente colpiti da fenomeni di crisi locale e spopolamento, dalle aree rurali (dove allo sprawl si affianca spesso una forma di gentrification) a quelle montane, alle zone turistiche dove la speculazione delle seconde case colpisce contemporaneamente qualità ambientale e della vita per i residenti.

Città compatta e tutela del territorio

Tutto quanto detto al paragrafo precedente, a ben vedere, riguarda in genere una idea di città futura e di qualità complessiva dell’insediamento. Potrebbe però apparire abbastanza declamatorio parlare di sostenibilità senza toccare un tema centrale come il contenimento del consumo di suolo. Il documento programmatico del Labour è dedicato specificamente alla casa e dunque non si è ritenuto di esplicitare in capitoli o sezioni apposite questo tema, che però sottotraccia emerge chiarissimo, a partire da affermazioni come questa: “le nuove costruzioni rappresentano comunque solo una piccolissima parte delle abitazioni. Sono quelle già esistenti, e destinate ad esistere probabilmente per secoli coi ritmi attuali di sostituzione, ad essere al centro dell’interesse per un utilizzo migliore, interventi di miglioramento, gestione diversa”.

In termini generali, si introduce così il tema delle aree già urbanizzate, delle infrastrutture esistenti, la classica diatriba fra sostenitori di un approccio in stile new town e l’assai più realistica centralità delle densificazioni locali, del riuso edilizio e urbanistico, della modernizzazione e ristrutturazione anziché sola ricerca di nuovi spazi.

Una strategia di riuso a scala vasta ha come premessa un censimento delle abitazioni esistenti e dell’uso attuale, degli appartamenti sfitti, o sottoutilizzati, degli usi impropri o abusi.

Certo non è il caso di intervenire in modo poliziesco esclusivo e privilegiato nel sistema delle assegnazioni di case pubbliche in base a requisiti familiari e di reddito (grandi superfici con pochissimi abitanti, cessazioni di effettivo diritto per uscita dalle fasce protette, casi di abusivismo), ma è certo che il sistema delle assegnazioni, degli affitti privati convenzionati, va rivisto nei metodi e nel controllo, per ritornare a far svolgere alle case popolari davvero il proprio ruolo.

Del resto in una logica di interventi coordinati anche la mobilità degli inquilini potrebbe uscire dalla sola alternativa fra godimento di un diritto ed esclusione, aprendo incentivi a passaggi intermedi e miglioramento delle proprie condizioni abitative.

A partire dalla riqualificazione integrata del vecchi complessi monoclasse, da riarticolare sia fisicamente che nelle modalità di assegnazione. Questo dell’intervento sui complessi di case popolari esistenti introduce in senso proprio l’altro tema generale, ovvero il privilegiare le zone urbane esistenti, risparmiando per quanto possibile aree agricole, di greenbelt, e in genere superfici aperte.

In nome della realizzazione di case economiche, e spesso sulla spinta di interessi speculativi dei costruttori, si finisce spesso per introdurre varianti nei piani, dove aree libere diventano urbane, magari lontano dai nodi di servizio e infrastrutturali, penalizzando così sia l’ambiente che gli abitanti. Secondo i laburisti (e direi secondo chiunque sia minimamente attento a questi temi) occorre invertire la rotta indicata dal governo attuale, che non privilegia più il recupero delle aree dismesse, anche coinvolgendo in modo coordinato vari operatori pubblici, privati, cooperativi.

Eccellentissimo Presidente Napolitano, le scriviamo come giuristi che, dopo anni di impegno civile a favore di buone regole giuridiche a protezione dei beni comuni e per il buon governo del patrimonio pubblico, abbiamo redatto i quesiti referendari n. 1 (servizi pubblici locali) e 2 (tariffa per il servizio idrico integrato) cui, nella scorsa tornata referendaria di giugno, ha risposto sì la maggioranza assoluta degli elettori italiani.

Il nostro intendimento era quello di arrestare, attraverso un pronunciamento diretto del popolo, nelle forme e nei limiti di cui all'art. 75 della Costituzione, il protrarsi di una logica di privatizzazione ideologica e dannosa per l' interesse comune anche all' indomani della drammatica crisi finanziaria iniziata nel 2008. Tramite il nostro pacchetto referendario volevamo aprire un grande dibattito politico nel nostro paese, teso a ricordare che la crisi non è stata causata dal pubblico ma dagli eccessi di libertà privata. Volevamo denunciare l'irrazionalità di una posizione politica che, lungi dal riequilibrare i rapporti fra pubblico e privato dopo vent'anni di pensiero unico, ulteriormente indeboliva il settore pubblico spingendolo a dismettere risorse che, se ben gestite, avrebbero potuto restituirgli la forza, l'autorevolezza ed il prestigio necessario per governare una crisi drammatica.

Negli scorsi mesi abbiamo lottato, con i mezzi del diritto e della politica democratica, insieme a moltissime persone, per scongiurare i diversi tentativi di impedire al popolo di pronunciarsi. All'indomani del 13 giugno siamo stati soddisfatti per aver contribuito a compiere una buona azione civile per il nostro paese. Quasi due mesi dopo, a fronte di dati sul debito pubblico italiano che non sono sostanzialmente variati nell'ultimo decennio (nonostante l'avvenuta dismissione di quote ingentissime del patrimonio pubblico) nel paese è stato creato un clima da emergenza finale. L'andamento della borsa e della finanza (ancora una volta settore privato) e manovre speculative volte ad attaccare un settore pubblico ulteriormente indebolito dallo sforzo ingentissimo di salvare il settore finanziario dalla crisi, hanno provocato un clima di panico che ancor oggi si protrae.

Al di là delle diverse valutazioni sulla fondatezza di tali allarmi, è certo che ingenti porzioni del Decreto, redatto in fretta e furia a Ferragosto, in particolare l'art. 4 denominato «adeguamento dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'Unione Europea», presentano prima facie tratti di incostituzionalità, confessati in modo privo di precedenti nel nostro sistema delle fonti, dall'annunciata modifica dell'art. 41 della Costituzione contenuta nello stesso decreto.

Tale incostituzionalità risulta in particolare dall'espressa e diretta contrarietà del decreto di Ferragosto (ora convertito con la fiducia) rispetto alla volontà popolare espressa appena due mesi fa con il voto referendario che, come dichiarato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 23 del 2011, non era affatto limitato all'acqua ma coinvolgeva l'intero settore dei servizi pubblici di interesse generale.

Nei giorni immediatamente successivi all'emanazione del Decreto abbiamo dato vita, con i nostri limitatissimi mezzi, ad una raccolta di firme su un appello on line dei giuristi estensori dei quesiti referendari intitolato «La manovra di ferragosto è incostituzionale», cui hanno aderito esponenti illustri della società civile e politica e migliaia di cittadini indignati per l'ennesimo tentativo di scippo del voto referendario.

Con questa lettera ci permettiamo di farle pervenire l'elenco di tali firmatari. Le rivolgiamo inoltre un appello, come Supremo Garante della Costituzione, a considerare il fatto che da anni i conti pubblici italiani non sono in buone condizioni (le alleghiamo due pubblicazioni del lavoro da noi svolto in passato) e che la fretta di privatizzare e liberalizzare ulteriormente l'economia al di fuori da una struttura di principii giuridici solidi e condivisi, lungi da fare l'interesse del popolo italiano soccorre quello degli speculatori internazionali che hanno generato la crisi.

Illustrissimo Presidente, anche in considerazione del fatto che il voto di fiducia ha impedito la necessaria discussione parlamentare, la invitiamo a non promulgare l'art 4 del decreto di Ferragosto. La Sua autorevolezza contribuirebbe così, stralciando provvedimenti che certo non possono esser presi in emergenza e senza largo accordo politico, ad aprire finalmente un dibattito sulla vera priorità istituzionale e riforma strutturale necessaria in questo paese: la ricostruzione di un settore pubblico forte, autorevole, decentrato e democratico.

´Cameron Sinclair è il fondatore di Architecture for Humanity, l’organizzazione nata per aiutare le popolazioni povere o colpite da calamità che è diventata un punto di riferimento in tutto il mondo. Il 23 settembre sarà in Italia per parlarne.

Che l’architettura possa essere utile per l’umanità non c’è dubbio. Basta pensare che tra tre anni 100 milioni di persone nel mondo abiteranno uno slum, che le città grandi e medie sono in crescita rapidissima e in preda a problemi ambientali, sociali, di gestione preoccupanti. L’architettura come la intendono le archistar sembra però piuttosto occuparsi di altro: come lasciare in monumenti ed edifici inutili un contributo indelebile al proprio fragile ego. Cameron Sinclair, il fondatore di Architecture for Humanity,per fortuna non la pensa così. Dice: «Le Corbusier aveva torto nell’affermare "Architettura o Rivoluzione", che l’architettura dovesse in qualche modo prevenire il pericolo di una rivoluzione. Oggi c’è bisogno invece di una rivoluzione architettonica».

Per questo Sinclair fonda, nel 1999 a ventiquattro anni, Architecture for Humanity, un’organizzazione con la missione di mettere l’architettura al servizio di comunità in crisi, catastrofi ambientali, povertà, emergenze. L’idea più geniale ce l’ha però nel costituire una rete mondiale di professionisti che si scambiano informazioni e progetti sulla sostenibilità, la partecipazione degli abitanti e un design con materiali locali: l’Open Architecture Network, che oggi ha quarantamila iscritti e opera in 14 paesi del mondo. Il criterio adottato è opposto al narcisismo delle archistar: la rete è open source, consente a tutti di accedere alle competenze professionali e alle soluzioni, alla conoscenza dei territori e al rapido scambio di informazioni. è quello che si chiama creative commons, l’idea rivoluzionaria che il copyright è cosa vecchia e che oggi ci vuole una comunità che si scambia i processi creativi, proteggendo solo una parte dei diritti dell’intelligenza.

Nel 2006 Sinclair è eletto uomo dell’anno da Ted, il sito del Mit di Boston dove vengono segnalate le innovazioni che avranno impatto sul mondo. Ulteriori conferme della genialità di Architecture for Humanity vengono dalla rivista Wired e dal Moma di New York che dedica buona parte della mostra Small Scale Big Change ai progetti raccolti dall’Open Architecture Network. Nel sito di Architecture for Humanity, accessibile a tutti, trovate alloggi per il dopo tsunami e community planning per la popolazione di Sendai; l’asilo costruito in Colombia o in Ghana con fango e paglia pressata; come il sacchetto dove fare i propri bisogni (che evita le conseguenze terribili delle fogne a cielo aperto e può essere utilizzato per gli orti urbani) per la popolazione di uno slum in Kenia.

L’aspetto architettonico non solo non viene trascurato, ma prende un senso legato a contesto, clima, situazione etnica e sociale. Mi viene da pensare ad un incontro di un anno fa con un illustre architetto italiano, Pierluigi Nicolin, direttore della rivista Lotus che commentava il mio libro Contro l’architettura dicendo che agli architetti non si può domandare di fare i boyscout. Gli rispondevo che non capivo come una cosa del genere si potesse chiedere ai medici, tant’è vero che qualcuno ha inventato Medici senza frontiere, e non agli architetti. Cameron Sinclair gli ha risposto per me.

Corriere della Sera

Il Leoncavallo: «Trattiamo»

di Andrea Senesi

«Entro Natale la questione potrebbe essere sistemata». La «questione» si trascina da trentasei anni e da trenta ingiunzioni di sgombero. La «questione» Leoncavallo si avvia ora a soluzione. L'annuncio è arrivato dagli stessi «okkupanti»: «Settimana prossima parte la trattativa che dovrà portare nel giro di qualche mese a una soluzione condivisa». Giovedì prossimo il «tavolo Leoncavallo» metterà di fronte a Palazzo Marino le associazioni del centro sociale più famoso d'Italia e i proprietari dell'area di via Watteau.

Lo strumento potrebbe essere quello ipotizzato da anni: un affitto «politico» per i diecimila metri d'area dello stabile, e una «ricompensa» immobiliare in un'altra area della città per la famiglia Cabassi. «Ma esistono anche altre vie», ha assicurato il leader storico del Leonka, Daniele Farina: «Ma il passo compiuto da questa giunta è fondamentale».

Una svolta storica. Il Leonka che entra a Palazzo Marino. Un tabù che si rompe e che «spacca» la politica, la città. Cautamente favorevoli e radicalmente contrari. Dice per esempio uno dei tre assessori coinvolti, Pierfrancesco Majorino (Welfare), che «se ci sono delle proposte le prenderemo in considerazione, convinti che sia una vicenda da chiudere positivamente». Gli fa eco la capogruppo pd Carmela Rozza: «Il sindaco Pisapia sta facendo quello che tutti gli altri sindaci dall'88 a oggi hanno cercato di fare senza riuscirci. Conto che Pisapia, alla luce delle esperienze precedenti, riesca a chiudere la vicenda». Tra gli sponsor della soluzione «politica», anche don Gino Rigoldi: «C'è finalmente la volontà di tutti gli attori in campo. Si tratta ora di rendere giustizia ai proprietari dell'area senza distruggere un patrimonio culturale che coinvolge ogni giorno giovani e meno giovani».

Dal fronte opposto si grida allo scandalo. L'ex vicesindaco Riccardo De Corato ricorda per esempio una delle storiche battaglie del Leonka, quella antiprobizionista, con tanto di feste semestrali per semina e raccolto della marijuana. «Anche quest'anno organizzeranno le settimane della "canapa indiana" con gran fumate in via Watteau. Aprendo la trattativa per regolarizzare questi personaggi, la giunta si renderà corresponsabile di una delle più clamorose violazioni di legge». Conferma Romano La Russa, assessore pdl in Regione: «Una scelta che preoccupa. Il Leonka è portavoce di una cultura dell'odio fondata sullo scontro fisico e verbale». Perplesso anche Roberto Formigoni: «Si rischia di generare messaggi ambigui».

Le polemiche hanno già una coda legale. Il leghista Matteo Salvini aveva alzato il tiro: «Folle che il Comune aiuti chi distribuisce droga con eventi pubblici»). La replica delle «mamme» del Leonka è affidata ai legali: querela.

la Repubblica

Un tavolo per legalizzare il Leonka

di Sara Mariani

Le associazioni, i proprietari dell´area e i rappresentanti dell´amministrazione comunale si riuniranno fra pochi giorni per avviare un piano di regolarizzazione del Leoncavallo, da tempo in attesa di una messa a norma. L´annuncio della trattativa provoca subito la reazione decisa del centrodestra. Ma Vittorio Sgarbi: «La destra prenda atto che il Leoncavallo è una realtà».

Dopo 17 anni di tentativi andati a vuoto e sfratti continuamente annunciati e rinviati, Comune, associazioni e proprietari del Leoncavallo si riuniranno intorno a un tavolo per avviare la messa in regola del centro sociale più discusso d´Italia. A dare l´annuncio è Daniele Farina, coordinatore di Sel e portavoce del Leonka: la trattativa partirà la prossima settimana per concludersi entro l´anno. Suscitando subito la reazione dell´ex vicesindaco Riccardo De Corato, da sempre nemico per eccellenza di via Watteau, che tuona contro la giunta «legittimista» e si dichiara pronto a contrastare con tutti i mezzi la trattativa: «Nessun sindaco e nessun assessore si è mai seduto ad un tavolo con i rappresentanti del Leoncavallo» ammonisce in una nota, e promette battaglia su ogni campo, compreso quello giudiziario, se la proposta arriverà in Consiglio.

Annosa questione, quella del centro sociale, che occupa un edificio della famiglia Cabassi: da anni le associazioni e i proprietari sono a un passo dal trovare una soluzione. Finora, però, mancava il "terzo polo": il Comune. Oggi invece a Palazzo Marino i tempi sono maturi per una mediazione. Restano da definire le modalità: la strada maestra, secondo Farina, sarebbe quella di spostare da un´altra parte le volumetrie che i Cabassi avrebbero voluto costruire nell´area. Se si intervenisse sulla legge urbanistica tramite una perequazione, verrebbe abbattuto il valore dell´area e gli occupanti potrebbero pagare un canone di affitto decisamente inferiore agli 800mila euro all´anno valutati dalla proprietà.

«Risolvono con una speculazione immobiliare il problema del Leoncavallo - accusa Carlo Masseroli, capogruppo del Pdl, che interpreta come uno scambio di favori in odore di illegittimità l´avvio della trattativa - . È la cambiale che Pisapia sta pagando al mondo dei centri sociali e a Sel per le elezioni?». Il capogruppo della Lega, Matteo Salvini, definisce «vergognoso che il Comune aiuti chi semina e distribuisce droga con eventi pubblici» attirando così su di sé l´ira delle "Mamme antifasciste del Leoncavallo", con tanto di querela. Fra i frondisti della regolarizzazione, spunta però una voce fuori dal coro: Giulio Gallera, consigliere Pdl, si è detto non contrario alla messa a norma, proprio perché il Leoncavallo avrebbe raggiunto ormai uno status aziendale, e «come tutte le imprese è bene che quando si fanno concerti si paghi l´entrata, si facciano scontrini, ci siano uscite di sicurezza». Si congratula invece con Pisapia il segretario del Pd milanese Roberto Cornelli, per la scelta di «aprire alla città uno spazio che potrà rivelarsi utile a tutti».

Nel terreno occupato si trovano le sedi di 6 associazioni, una casa editrice e uno sportello legale per extracomunitari, su un´area di 10mila metri quadrati: «Dal ‘96 non è stato commesso nessun reato - afferma il consigliere di Sel e avvocato Mirko Mazzali - a Berlino e a Parigi i centri sociali sono una ricchezza e io mi batterò in sede consiliare perché la soluzione venga finalmente raggiunta».

Corriere della Sera

Dalle molotov ai concerti: da 36 anni divide Milano

di Gianni Santucci



L'autodefinizione, forse, racconta più di altre cose questa storia. Era un «centro sociale autogestito», il vecchio Leoncavallo, ex fabbrica chimico-farmaceutica dismessa e occupata in zona Casoretto, il 18 ottobre 1975, Milano cupa degli anni di piombo. Oggi, ormai da dieci anni, è un'altra cosa: uno sPa, che vuol dire «spazio pubblico autogestito», un'«assemblea pubblica — come spiega l'ultimo bilancio sociale — che ha recepito il progressivo costituirsi di associazioni legalmente costituite».

E a ripensarla tutta insieme, questa storia, riemergono fotogrammi all'apparenza incoerenti: le immagini degli scontri, delle molotov, dei sassi, dei caschi della polizia e delle ruspe che risalgono al 1994, anno dello sgombero dalla sede storica, guerriglia urbana che per giorni occupa i titoli dei Tg quando il sindaco della Milano in piena Tangentopoli è Marco Formentini, leghista. E poi l'altra immagine, di dieci anni dopo, 2004, quando l'associazione delle «Mamme antifasciste del Leoncavallo» riceve il premio Isimbardi, l'Ambrogino della Provincia guidata da Filippo Penati.

Allora, più che indagare cosa abbia rappresentato, nel bene o nel male, per la storia di Milano, è interessante scoprire come il Leoncavallo sia stato «usato» o strumentalizzato; come sia diventato l'oggetto che ciclicamente riemerge nella politica come spunto di scontro.

Per quasi vent'anni, quando le amministrazioni milanesi di centrodestra hanno voluto rafforzare la propria immagine legge&ordine, sono andate a bussare là, alla porta del Leonka. Il celodurismoleghista affrontò mattinate di resistenza pesante nel '94; arrivò a un primo sgombero, seguito da una rioccupazione temporanea e poi da quella «definitiva» (quanto meno perché dura ancora oggi) in via Watteau (18 settembre 1994). Da oltre un decennio invece, la battaglia è «civilmente» scivolata tra carte bollate, decreti di rilascio immobile (una trentina), rinvii, trattative più o meno confessate. Con una costante: sempre là s'andava a sbattere, lo sgombero del Leoncavallo, simbolo che ha sempre garantito visibilità alle politiche legalitarie del Comune. Schermaglie continue. Portate avanti, quasi sempre, con la coscienza che in nulla sarebbero finite. Bassa intensità e, comunque, massima visibilità. Anche se nel mondo antagonista con derive violente, quello più problematico per l'ordine pubblico milanese, il Leoncavallo un ruolo non ce l'ha più da tempo.

Essere un simbolo è un destino consolidato. E proprio per questo l'assessore dei primi anni morattiani, Vittorio Sgarbi, proprio mentre il vicesindaco De Corato continuava a chiedere di sgomberare, fece il suo giro nei locali di via Watteau e paragonò i graffiti sui muri a una post-moderna cappella Sistina. Polemiche da una parte, applausi dall'altra. Con un filo conduttore: al di là dell'arguzia di Sgarbi, quella volta il maestro di provocazioni si appoggiò anche lui sul Leonka e ne sfruttò il potenziale evocativo. Su via Watteau si misura da anni la distanza tra impegno e annuncio della politica. Sarà così anche per la giunta Pisapia.

la Repubblica

Sgarbi: "Producono concerti e mostre sono una realtà e nessuno può opporsi"

intervista di Oriana Liso

«Ma il Leoncavallo non è un problema di sinistra o destra. E dopo tanti anni bisognerebbe arrivare a un´amnistia politica e culturale su quella vicenda. Che si potrebbe risolvere con un po´ di buonsenso, quello che certo non ha il centrodestra milanese che non si rassegna a un dato di fatto: la cultura è di sinistra, e loro non possono farci nulla. Il Leoncavallo deve fare come il teatro Valle di Roma, affidato in gestione a Roma Capitale dopo che le maestranze e gli attori l´avevano occupato».

Vittorio Sgarbi, lei è stato uno sdoganatore del Leoncavallo, quando era assessore alla Cultura della giunta Moratti.

«Infatti io iniziai a immaginare un percorso di mediazione per rendere il centro regolare. Ho invitato i responsabili del Leoncavallo a Palazzo Reale, sono andato lì per inaugurare la mostra sui graffiti... La soluzione si può trovare: facendo pagare a questi ragazzi una cifra non simbolica ma adeguata, 30-40mila euro di affitto, dando i diritti di volumetria altrove ai proprietari, e mettendo nelle mani dei leoncavallini la gestione di una struttura che fa concerti, mostre e potrebbe fare anche di più».

Il suo ex collega di giunta De Corato, pezzi del Pdl e la Lega non sono proprio contenti.

«Devono rassegnarsi, è una battaglia inutile, perché sbagliata. Chiedono ai leoncavallini di abiurare la loro storia? Ma a De Corato qualcuno ha mai chiesto di abiurare la sua? Vadano avanti con la loro opposizione, occupino il consiglio comunale, se lo devono fare per recitare un ruolo: tanto i leoncavallini non si curano certo dei loro proclami».

Però forse ha un senso che sia questa giunta e non la precedente ad affrontare la questione.

«Sono un grande amico di Pisapia, anche se ho invitato a non votarlo, e se devo fare un augurio ai suoi assessori è di essere un po´ risoluti nelle decisioni come lo sono stato io. Ma, ripeto: regolarizzare il Leoncavallo non è una decisione politica, ma una presa d´atto che anche la destra avrebbe dovuto fare».

Lei ha fatto anche di più: cinque anni fa ha definito i graffiti del Leonka "la Cappella Sistina della modernità".

«E lo penso. Peccato che poi i leoncavallini abbiano fatto l´errore di coprirli con altri disegni. Ma cavoli loro. Però ai leghisti vorrei anche ricordare che il loro giornale, la Padania, fece un editoriale per dire che anche la Lega ha usato i muri per lanciare un messaggio».

Libero

La Milano dei centri sociali: “Leoncavallo presto in regola”

Milano, la capitale europea dei centri sociali. Giuliano Pisapia lavora sodo per trasformare il capoluogo meneghino nel cuore pulsante dell'antagonismo italiano, ben rappresentato dallo storico centro sociale Leoncavallo. Il sindaco ha infatti varato un tavolo con le associazioni che gestiscono l'area occupata e la proprietà immobiliare per trovare al più presto una soluzione. L'obiettivo della giunta è arrivare alla regolarizzazione entro fine anno. Insorge la Lega Nord, che con Matteo Salvini ha commentato: "Un aiuto folle e vergognoso. I giovani milanesi hanno ben altri bisogni"

La gioia del portavoce -Daniele Farina, storico volto dell'antagonismo milanese, nonché coordinatore cittadini di Sinistra e Libertà e portavoce dello stesso Leoncavallo, non nasconde la sua gioia. Il percorso per portare l'area verso la regolarizzazione sarà la prossima settimana e si svolgerà in uno degli assessorati. Palazzo Marino, ha spiegato Farina, sveolgerà il ruolo di "facilitatore affinché le parti trovino gli accordi". Il portavoce ha spiegato come il Leoncavallo "non chieda soldi al Comune, ma di operare su un piano amministrativo per facilitare il raggiungimento del risultato.

L'ultimo presidio -Dopodomani è previsto l'ennesimo presidio al Leoncavallo, che attenderanno l'ufficiale giudiziario per lo sfratto: come sempre l'ufficiale giudiziario arriverà e firmerà il foglio per rimandare l'esecuzione del provvedimento. Ma questa volta potrebbe essere l'ultima. "I tempi sono maturi - ha continuato Farina -, si poteva fare anche in passato ma si sono persi molti anni. Mi auguro che l'opposizione di centro-destra non alzi barricate ideologiche". Secondo quanto ha riferito, considerata "la buona volontà delle parti", la regolarizzazione potrebbe passare per "diverse strade".

"Che paghino le tasse" -L'opposizione si è scagliata contro la scelta di Pisapia di dialogare con gli antagonisti, di proseguire nel cammino verso l'illegalità. "La messa a norma del Leoncavallo e, a breve, di altre simili realtà non solo non mi convince, ma mi preoccupa, al pari della stragrande maggioranza dei cittadini milanesi", ha commentato il l'assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa. "Al di là degli aspetti pseudo culturali con cui si sono sempre trincerati i frequentatori dei centri in qeusti luoghi di pseudo aggregazione - ha proseguito -, è noto a tutti che l'illegalità e il non rispetto delle regole ha spesso caratterizzato l'attività di queste realtà. Tutti sanno che il Leoncavallo è ormai diventato un'impresa commerciale a tutti gli effetti, forte di un giro di affari stimato in vari milioni di euro. Ma se è così - conclude La Russa - non dovrebbe competere ad armi pari con le altre aziende e realtà imprenditoriali cittadine?". Il riferimento è che la casa dei no-global paga zero tasse e zero contributi. Uno scontrino, al Leoncavallo, è impossibile trovarlo. Chi ci lavora lo fa in nero.

Milano ai musulmani e agli antagonisti -Il vento a Milano è cambiato davvero. Infatti, nemmeno un sindaco né un assessore delle precedenti giunte si era mai seduto a un tavolo con i rappresentati del Leoncavallo. Palazzo Marino tratta con l'area occupata e crea un assoluto precedente. Durissimo l'ex vice-sindaco Riccardo De Corato: "Senza ricordare i suoi nefasti precedenti degli ultimi trent'anni fatti di violenze fisiche nei confronti di chi si opponeva alla loro logica di violenza e sopraffazione, il Leoncavallo ha visto una serie incredibile di violazioni di leggi e normative che sono sotto gli occhi di tutte le istituzioni e che Pisapia e la sua giunta conoscono benissimo". Insomma il sindaco dopo aver saldato il conto con la comunità musulmana promettendo moschee in ogni quartiere e il più grande centro islamico d'Europa, dopo aver fatto capire ai milanesi che per girare in macchina dovranno svenarsi e che prendere i mezzi pubblici sarà un lusso sempre più chiaro, offre la sua riconoscenza anche all'antagonismo, e comincia a prodigarsi per legalizzarne l'assoluta mecca.

Il Giornale

Pisapia regolarizzerà il Leoncavallo. Salvini: "Aiuto folle e vergognoso"

di Sergio Rame



Milano - "Un aiuto folle e vergognoso". Il leghista Matteo Salvini non usa mezzi termini per condannare l'amministrazione guidata dal sindaco Giuliano Pisapiache si è proposta di regolarizzare entro fine anno il Leoncavallo, lo storico centro sociale di Milano. Pisapia ha, infatti, deciso di avviare un tavolo con le associazioni che animano lo spazio occupato e la proprietà dell’immobile per raggiungere una soluzione. "I giovani milanesi hanno ben altri bisogni", tuonano i lumbard accusando il neosindaco di legittimare chi vive nell'illegalità.

Il portavoce delLeoncavallo, nonché coordinatore cittadino di Sel, Daniele Farina esulta. E' una vittoria per il Leoncavallo. Dopo aver rassicurato la comunità musulmana garantendo la costruzione delle moschee di quartiere, adesso Pisapia paga il dazio anche ai no global dei centri sociali. Il primo appuntamento è in programma per la metà della settimana prossima e si dovrebbe svolgere in uno degli assessorati interessati alla partita. Il ruolo di Palazzo Marino sarà quello di "facilitatore affinché le parti trovino l’accordo", ha spiegato Farina che ha sottolineato come il Leoncavallo "non chieda soldi al Comune ma di operare su un piano amministrativo per facilitare il raggiungimento del risultato". Dopodomani perciò potrebbe essere l’ultima mattinata passata dai militanti del centro sociale ad attendere l’ufficiale giudiziario per lo sfratto. "I tempi sono maturi, si poteva fare anche in passato ma si sono persi molti anni", ha proseguito il portavoce dello spazio occupato che si è augurato che l’opposizione di centrodestra "non alzi barricate ideologiche". La regolarizzazione potrebbe passare per "diverse strade", vista "la buona volontà delle parti".

Ed è subito polemica

Il centrodestra attacca duramente la decisione di Palazzo Marino di fiancheggiare l'illegalità. "La messa a norma del Leoncavallo e, a breve, di altre realtà simili, non solo non mi convince ma mi preoccupa, al pari della stragrande maggioranza dei cittadini milanesi - tuona l'assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa - al di là degli aspetti pseudo culturali con cui si sono sempre trincerati i frequentatori dei centri in questi luoghi di pseudo aggregazione, è noto a tutti che l’illegalitàe il non rispetto delle regole ha, spesso, caratterizzato l’attività di queste realtà". Una serie di provvedimenti di facciata non faranno certo cambiare la testa e la mentalità di chi, negli anni, ha coltivato non solo una cultura della protesta ma anche dell’odio e dello scontro fisico e verbale. "Tutti sanno che il Leoncavallo - conclude l'esponente del Pdl - è ormai diventato un’impresa commerciale a tutti gli effetti, forte di un giro di affari stimato in vari milioni di euro. Ma se è così, non dovrebbe competere ad armi pari con le altre aziende e realtà imprenditoriali cittadine?". In primis, pagando le tasse e i contributi come tutti. Quindi, assumendo i dipendenti, emettendo regolari scontrini fiscali e rispettando. Solo in questo caso il centrodestra sarebbe disposto ad aprire il dialogo con il Leoncavallo.

Nessun sindaco e nessun assessore delle precedenti giunte si è mai seduto ad un tavolo con i rappresentanti del Leoncavallo. Per la prima volta Palazzo Marino decide di trattare con un centro sociale. "Senza ricordare i suoi nefasti precedenti degli ultimi trent’anni fatti di violenze fisiche nei confronti di chi si opponeva alla loro logica di violenza e sopraffazione - tuona l'ex vicesindaco Riccardo De Corato - il Loncavallo ha visto una serie incredibile di violazioni di leggi e normative che sono sotto gli occhi di tutte le istituzioni e che Pisapia e la sua giunta conoscono benissimo". Che una trattativa del genere fosse nell'aria lo si poteva intuire, visto che Pisapia deve pagare il prezzo della sua elezione ai centri sociali. Il Pdl assicura tuttavia battaglia. "Contrasteremo in città e nelle aule di Palazzo Marino con ogni mezzo lecito - conclude De Corato - quella che aprirebbe una strada pericolosa visto che bisognerà dimostrare l’interesse pubblico intorno a una vicenda urbanistica di questa portata, e sopratutto visto chi sarebbero gli interlocutori del Comune".

Intanto l'associazione delle "Mamme antifasciste" del Leoncavallo, una delle associazioni che animano il centro sociale, ha deciso di querelare Salvini che ha definito "folle e vergognosa" l’intenzione del Comune di "aiutare chi semina e distribuisce droga con eventi pubblici". "Mi querelano? Sono pronto a confrontarmi con gli occupanti del centro sociale sui modelli di vita e sulla visione di Milano diversi, se vogliono anche nel centro - ribatte l'esponente del Carroccio - chi non condanna con fermezza l’uso e la diffusione di qualsiasi droga e occupa abusivamente non può dialogare con il Comune".

postilla

Chi avesse avuto la pazienza di leggersi anche gli articoli dei giornali di destra, forse non avrà potuto fare a meno di ricordare (e in qualche modo confermare) i paradossali terrori sbandierati dagli stessi personaggi nel videoclip satirico Pisapia Canaglia proposto da radio Popolare nelle ultime e concitate fasi della campagna per le elezioni comunali. A parte l’ovvia caricatura, quel piccolo capolavoro comico riassumeva bene l’atteggiamento della strapaesana destra locale, sostenuta da strapaesani interessi locali, non solo nei confronti di una realtà antagonista, ma di tutto quanto non si riassorbiva nell’idea reazionaria di dio patria famiglia bottega e quattrini. Insomma un’idea di società che fa a pugni in primo luogo con quello che ci aspetta appena mettiamo il naso fuori casa, ma anche con la sensibilità metropolitana (questa sì indistinta, come si dice in altri casi, fra destra e sinistra) di qualsiasi realtà europea e non solo.

Non è un caso che il Leoncavallo, realtà attiva e nota sin dalla metà degli anni ’70, abbia finito per diventare un simbolo contemporaneamente all’ascesa della destra sedicente post-ideologica, ovvero con l’amministrazione leghista-fascista-forzista di Formentini a metà anni ’90. Diciamo che quello che si chiude oggi è soprattutto un faticoso passaggio fra la cultura (vuoi solidale, vuoi autoritaria) della città industriale, e gli scenari del terzo millennio, e che probabilmente toccherà altri aspetti, ambiente e urbanistica inclusi? Beh, almeno proviamo cautamente a dirlo, sopportando pure Sgarbi quando ha ragione (f.b.)

DOLO (VENEZIA) - Adesso si chiama Veneto Green City. Sarà la megalopoli del commercio tra Padova e Venezia. Oltre 715 mila metri quadri di uffici, negozi, bar, ristoranti e alberghi spalmati in quel che resta della Riviera del Brenta. Un'operazione immobiliare da 2 miliardi di euro, cantierata dal re del "ciclo integrato" dell'immobiliarismo e dal banchiere di fiducia dei "giri giusti", con il placet degli enti locali.

«Una valida alternativa alla caotica distribuzione di capannoni» secondo i progettisti. L'ennesima applicazione del «sistema» che permette agli "imprenditori" di incassare milioni senza rischiare un centesimo devastando il territorio. Lo ribadiscono i 12 mila cittadini che hanno firmato l'appello al referendum dei Cat, i comitati ambiente territorio a cavallo fra le province di Venezia e Padova.

Antonio Draghi denuncia l'accordo di programma siglato il 29 giugno tra i privati e i Comuni di Dolo e Pianiga: «Il mostro di Veneto City è una speculazione edilizia di dimensioni gigantesche. Probabilmente la più grande d'Italia. È fondata sulla massima esaltazione della rendita fondiara. In estrema sintesi: si cambia la destinazione d'uso di un'area di 2,5 milioni di metri quadri da agricola a edificabile. Zero rischio di impresa. Basta l'indice urbanistico ad ottenere i crediti in banca. E così, società con appena 10-30 mila euro di capitale ottengono la complicità dei Comuni che mirano a incassare qualche centinaia di milioni in oneri di urbanizzazione. Ma dov'è la pubblica utilità? L'accordo di programma parla di urgenza e indifferibilità per questo progetto assurdo. In cosa consistono, se non nell'interesse dei privati?».

Alla festa di Ferragosto organizzata dalla coop La Ragnatela a Scaltenigo, i Cat hanno preannunciato un "autunno caldo" per l'ingegner Luigi Endrizzi e il suo "spallone finanziario" Rinaldo Panzarini. Sono rispettivamente presidente e direttore di Veneto City Spa, società che ha concepito l'operazione fin dal 2001 (insieme agli altri membri del CdA Giuseppe Stefanel, Fabio Biasuzzi e ad altri investitori minori come Olindo Andrighetti). Endrizzi ha già trasformato il quadrante di Padova Est in un concentrato di ipermercati intorno alla filiale Ikea. Panzarini, invece, vanta un solido curriculum ai vertici degli istituti di credito non solo nella regione. Già direttore della Popolare di Lecco, vicedirettore centrale della Deutsche Bank e direttore di Cariveneto, è anche l'amministratore delegato di Est Capital, società di gestione del risparmio che sta cambiando la skyline del Lido di Venezia.

«Veneto City è figlia del Passante di Mestre, definito da Paolo Feltrin la nuova cinta muraria della megalopoli veneta. I primi 400 mila metri quadri di terreno sono stati acquisiti da Endrizzi nel 1998. Un anno dopo il Comune di Dolo prevedeva capannoni alti tre piani. La Provincia di Venezia, all'epoca governata dal centrosinistra con Davide Zoggia presidente, non ha battuto ciglio. Finché con il Piano territoriale regionale di coordinamento è arrivato il via libera all'operazione. Secondo il dirigente Silvano Vernizzi, non occorre nemmeno la valutazione ambientale strategica. E fioccano gli accordi di programma con Dolo e Pianga, amministrati rispettivamente da una giunta Pdl-Lega e da una coalizione civica ispirata dal Pdl» ricorda Adone Doni dei Cat.

La battaglia popolare, scattata fin dal 2007, è culminata nella scorsa primavera in una grande manifestazione con migliaia di persone in piazza. I comitati hanno depositato 10.500 osservazioni all'accordo, in modo da intasare gli uffici tecnici di due municipi. Ostruzionismo utile a far "grippare" il motore, tutt'altro che green, di Veneto City sul versante amministrativo. Intanto, comincia a pesare la volontà popolare che pretende una consultazione popolare: come per l'acqua e il nucleare, sono in gioco i beni comuni di ambiente e territorio. L'efficientissimo staff di "consulenti" arruolato dai comitati sta limando anche una raffica di ricorsi legali, mentre sul fronte dell'informazione si prepara una vera e propria offensiva mediatica.

Sulla carta, gli escavatori di Endrizzi e Panzarini dovrebbero costruire le fondamenta entro il 2012. Il cantiere, salvo intoppi, durerà dagli 8 ai 10 anni. Dal punto di vista amministrativo l'iter è più che avviato: con la pubblicazione dell'accordo scatteranno i termini regolamentari per la presentazione di osservazioni e controdeduzioni. Poi sarà la volta dei Piani urbanistici attuativi, ovvero del semaforo verde definitivo.

Per i Comuni l'affare si traduce in 1,8 milioni di euro (Dolo) e 1,2 milioni (Pianiga) sotto forma di opere di compensazione tutt'altro che definite. Si aggiungono ai 50 milioni di euro «pronto cassa» incamerati dai permessi di costruzione, e alla promessa di 7 mila posti di lavoro da parte dei costruttori. «Un progetto decisivo per il Veneto» sintetizza l'ingegner Endrizzi. «Innovativo a livello nazionale, perché risolve il rischio idraulico di tutta la zona, riqualifica l'area e sistema la viabilità» aggiunge il socio Panzarini. Visione ampiamente condivisa dalla sindaca leghista di Dolo, Maddalena Gottardo, e dal primo cittadino di Pianiga Massimo Calzavara del Pdl. «L'alternativa sarebbero stati i capannoni previsti dal piano regolatore di dieci anni fa. Sono serena: ho scelto il male minore» spiega la sindaca.

Il più ottimista è l'architetto Mario Cucinella che ha firmato (con Studio Land) la "città diffusa" in versione commerciale. «In questa zona strategica per le infrastrutture, il progetto parte dal concept di paesaggio come matrice. Le funzioni comprenderanno fra l'altro una grande parte di terziario, dedicato principalmente business to business per riunire i produttori locali. Strutture alberghiere, un polo culturale con auditorium e museo, un edificio universitario e anche strutture sanitarie specializzate. La costruzione inizierà con la semplice attrezzatura di un parco, poi si svilupperà e si rinforzerà nel tempo seguendo la morfologia del territorio. Le torri verranno collocate in prossimità della stazione ferroviaria metropolitana, appositamente costruita. Infine si edificheranno i singoli lotti, caratterizzati dalla presenza di molteplici funzioni».

Un quadro inquietante per i Cat che restano immuni da qualunque marketing. «I presidenti di Regione e Provincia, i sindaci di Dolo e Pianiga, così come tutti i consiglieri che hanno dato loro il mandato all'operazione, si assumono una responsabilità gravissima: approvarla senza la valutazione ambientale strategica, sulla base di un rapporto inconsistente e con i pareri contrari di Asl e Arpav, significa mettere a repentaglio la salute e la sicurezza di migliaia di persone. È vergognoso il disprezzo degli enti per la democrazia. E indecente che si approvi un accordo di questa portata in tutta fretta senza nemmeno informare i cittadini, convocando consigli comunali farsa a orari impossibili ed evitando in tutti i modi il confronto. Tutto per accontentare i privati, pressati dalle banche. Ma la partita non si chiude qui...».

Titolo originale: Evicting tenants guilty of rioting – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini (al link del testo originale anche la serie completa delle lettere)

Vi scrivo per chiarire la nostra posizione riguardo agli sfratti degli inquilini di case comunali giudicati colpevoli nelle rivolte urbane. Si tratta di una scelta estrema, e non certo dell’unica opzione. Vengono attentamente valutati i singoli casi delle famiglie così da verificare dove e come offrire sostegno. Qualunque decisione viene presa caso per caso, e non si tratta affatto di decisioni "draconiane" come è stato detto. Esiste una gerarchia di interventi, e ci sono almeno cinque livelli di gravità dei casi e cinque relative forme di azione, prima che si inizi solo a valutare la possibilità di sfratto.

Siamo favorevoli alla richiesta di Ed Miliband perché un apposito organismo indipendente esamini in profondità i problemi sociali che possono aver pesato sulle recenti rivolte. E non si può considerare la questione come un fatto di semplice contrapposizione fra una prospettiva di destra e una di sinistra. Come ha già scritto il Guardian , ben il 75% degli arrestati ha precedenti, nel quasi 80% dei casi si tratta di persone maggiorenni. É un problema di legalità e di ordine pubblico. E se non sono le pubbliche amministrazioni ad applicare la legge, chi altri dovrebbe farlo? Gli inquilini delle nostre case sono responsabili delle proprie famiglie. Non siamo noi a inventare le leggi, né possiamo improvvisare, ma dobbiamo invece applicarle, come si aspettano da noi tutti gli altri inquilini.

Dobbiamo imparare tante cose, e siamo stati davvero colpiti in questo caso dalla risposta immediata e spontanea degli abitanti, degli esercenti, e in particolare dei giovani. Abbiamo organizzato una serie di “dialoghi di quartiere” in tutta la circoscrizione, per raccogliere informazioni e opinioni su da farsi. Spero che tutte le amministrazioni locali dove ci sono state rivolte possano sviluppare iniziative simili, così che si possa anche trar vantaggio da conoscenze collettive più ampie.

(Cllr Ian Wingfield è vicepresidente del consiglio municipale di Southwark, Londra)

postilla

Sembrerebbe tenersi tutto, nel linguaggio attento dell’amministratore pubblico di centrosinistra, se non fosse appunto per quella negazione di una prospettiva diversa fra destra e sinistra. La legge è legge, ma che legge è quella imposta dal governo di coalizione di centrodestra, per punire anche con lo sfratto gli inquilini di case popolari condannati per le rivolte e i saccheggi dell’agosto 2011? Senza tirare in ballo grandi categorie di giustizia, che c’entra la casa con la fedina penale? Certo gli elettori di ceto medio e operaio che abitano gli stessi quartieri potranno anche manifestare consenso, per chi li libera con questa specie di stratagemma di vicini indesiderabili e antisociali. Ma ripeto: che c’entra il diritto alla casa con la fedina penale? Per la destra c’entra eccome, perché nella nazione di proprietari, nella prospettiva del capitalismo compassionevole, la casa pubblica è una graziosa elemosina, giusto per mantenersi l’esercito di disgraziati da cui pescare per i lavori umili, la polizia, l’esercito da mandare in Afghanistan ecc. ecc. Ma la sinistra da queste leggi, anche se magari gli effetti piacciono ad alcuni loro elettori, dovrebbe tenersi a distanza di sicurezza (f.b.)

Giovedì, in una discussione su La7 che ha fatto seguito al film di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, "Silvio Forever", il direttore del Foglio ha detto una cosa importante.

Ha detto che, grazie agli anni che portano l’impronta di Berlusconi, l’Italia avrebbe vissuto una «liberazione psicologica». Si è sbarazzata di vecchie incrostazioni moraliste, di una democrazia con troppe regole, di tendenze micragnose, formalistiche. L’ora dei consuntivi sta arrivando, e nella valutazione dei diciassette anni passati c’è anche questo giudizio sull’avventura berlusconiana, imperturbabilmente positivo: quali che siano i loro esiti, vi sono fenomeni grandiosamente anomali che fanno magnifica la storia, in Italia e altrove.

È significativo che negli stessi giorni si celebri il decimo anniversario dell’11 settembre, perché anche qui fu un fenomeno prodigiosamente anomalo a trasfigurare la storia. I rivoluzionari amano questi prodigi, sia quando li incensano sia quando li demonizzano, perché il Grande Fenomeno fa tabula rasa, crea nuove classi dirigenti, interrompe quel che nella democrazia è lento e monotono, formalistico e incastonato in regole. Il tempo d’un tratto s’arresta, il rivoluzionario prova l’estasi dell’istante liberatorio. Il musicista Karlheinz Stockhausen s’estasiò, il 16 settembre 2001, davanti alla «più grandiosa opera d’arte nella storia cosmica».

Nella discussione diretta da Enrico Mentana, spiccava la figura di Eugenio Scalfari. L’anomalia berlusconiana non gli appariva affatto grandiosa. Il giudizio era gelido, non magato neppure nelle pieghe, allergico all’inconcreto. Faceva impressione la sua presenza perché lo sguardo sul presente era ben più lungo dello sguardo dei colleghi. Il fenomeno Berlusconi (ma avrebbe potuto parlare anche dell’11 settembre, o della crisi economica) non era descritto come un botto improvviso, che fa piazza pulita e crea nuovi mondi. S’iscriveva in una storia lunga, che ancora ci tocca esplorare e che lui scruta dai tempi della prima repubblica con penna precisa. Mi sono chiesta come mai un giornalista con tanti anni di vita e d’esperienza sembrasse non solo il più acuto osservatore del presente, ma il più giovane.

La chiave penso sia la sua curiosità. Il curioso, lo dice l’etimologia, ha cura di quel che a prima vista pare enigmatico. Non gli basta vedere la pelle delle cose, ha brama di investigare, di tuffarsi molto a fondo, immergendosi con la testa come la balena narrata da Melville. Non si accontenta, e in genere usa poco questo tiepido aggettivo: contento. Il suo modo d’essere gli consente di intuire, nelle parole e negli eventi, quel che è altro dalla parola o dall’evento subito percepibili. Heidegger scrive cose simili, sulla tecnica: «L’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico. Non apprenderemo mai la nostra relazione con la sua essenza, fino a quando rappresenteremo e praticheremo solo la tecnica. Sempre rimarremo, non liberi, incatenati alla tecnica: sia che l’approviamo con entusiasmo, sia che la neghiamo».

Nel raccontare l’epoca che abbiamo alle spalle, Scalfari ragionava allo stesso modo: «La questione davvero importante non è Berlusconi. È come l’Italia abbia potuto sopportare un personaggio così per 17 anni. Chi siamo noi è la questione». L’essenza di Berlusconi non è Berlusconi, così come l’essenza dell’11 settembre non è l’11 settembre ma la risposta che all’attentato venne data e la torpida genealogia dell’accadimento. In Italia l’essenza è la misteriosa, sempre ambigua metamorfosi dell’uomo e del suo mondo: il mondo che egli crea e quello che da fuori lo pigia e lo mette alla prova. Che lo spaventa anche, inducendolo a bendarsi gli occhi e seguire chimere per non vedere i precipizi verso cui sta correndo.

Se cito Scalfari a proposito dei bilanci che si stanno facendo (del berlusconismo, dell’11 settembre) è perché la metamorfosi è parte centrale del suo ultimo libro (Scuote l’anima mia Eros, Einaudi 2011) e perché i concetti di cui il testo è disseminato aiutano a capire la crisi che viviamo: la metamorfosi in primis ma anche la guerra fra gli istinti, l’amore di sé e dell’altro, la morte che impronta la vita e dunque viene prima della vita. E l’avarizia infine, una parola che mi ha colpito perché stranamente si è diradata nel dialogo fra le persone. Nel libro è evocata almeno tre volte. Una prima volta quando l’autore s’interroga sul segno («più lieve della traccia che una lepre fuggitiva lascia sulla neve») che resta delle singole vicende umane. Proprio perché la nostra è una «piccola vita circondata dal sonno», scrive citando Shakespeare: «Non dilapidatela, non difendetela con avarizia (...) Vivetela con intensa passione, con speranza ed allegria». Queste cose si imparano nell’adolescenza, quando sei in trasformazione e provi a cambiare in meglio il tuo Io. S’imparano anche in vecchiaia: se vissuta bene, è anch’essa metamorfosi. Ricordo il bellissimo disegno di Goya, al Prado. Un vecchio cammina appoggiato a due faticosi bastoni e sotto è scritto: Aùn aprendo, Ancora sto imparando.

Il secondo accenno all’avarizia è quando i mortali sono descritti come centauri, metà bestie metà uomini, sempre esposti al sopravvento del cavallo. L’avarizia di sé è figlia di questo rachitismo spirituale: dimentichi quel che fa dell’uomo un uomo, sei sopraffatto, rattrappisci. C’è infine un terzo passaggio, in cui ingeneroso è chi crede in una sola verità, e diviene avaro di sé.

L’avaro somiglia molto all’incurioso, che si fascia gli occhi per paura di disperdere quel che ammonticchia per sé. Anch’egli non ha cura dell’altro. Quando gli va incontro, è uno specchio che cerca: dunque vede solo se stesso. Giustamente è stato evocato, nella discussione, il narcisismo che affligge Berlusconi e l’Italia che l’ha scelto come modello. L’avaro incurioso vede l’Uno (la propria verità); al Due non arriva. Quando erano più sferzanti, i critici americani di G.W.Bush lo chiamavano incurious.

Non che sia mancata, subito dopo l’11 settembre, la sete di sapere. «Perché ci odiano?», ripetevano sgomenti i politici Usa. Ma la domanda non era mai rivolta a se stessi, il male assurdo era sempre fuori. Anche Berlusconi chiede, di continuo: «Perché mi odiano?», come se la sua persona fosse satanicamente osteggiata per motivi estranei a quel che lui è e fa. Anche qui è elusa la vera domanda: come avviene la seduzione? Cosa ha prodotto? E in America: come è potuto accadere che la guerra totale al terrore, lanciata caoticamente nel 2001, stia accelerando il crollo della potenza americana?

Dice Scalfari che gli italiani hanno un terzo istinto, oltre a quello buono e cattivo: un istinto anarcoide, antipolitico. Credo non sia un vizio solo italiano: penso alle civiltà suicide descritte da Jared Diamond nel libro Collasso, agli abitanti dell’isola di Pasqua, allo spirito anarcoide con cui distrussero tutti gli alberi fino a non poter costruire una sola barca per andare a pescare e nutrirsi.

In Italia come in America, l’evento cui abbiamo assistito è la morte della politica, il trionfo di poteri paralleli e sommersi che nemmeno Obama riesce a frenare. E la storia di questo trionfo è molto più lunga dei dieci anni che ci separano dall’11 settembre, o dei diciassette che ci separano dal Berlusconi politico. Negli Stati Uniti la dismisura, la hybris, culminò nel Progetto per il nuovo secolo americano, che i neoconservatori scrissero nel ‘97, in collaborazione con l’industria militare: finita la guerra fredda l’America doveva trasformarsi in unica superpotenza, senza più rivali. L’orrore omicida dell’11 settembre permise al progetto di affermarsi. In Italia la hybris è radicata nella storia della P2, che ebbe il Premier tra i suoi affiliati. I fenomeni grandiosamente anomali hanno tutto un pedigree, e non solo: hanno effetti - sulla vita dei cittadini e sul futuro - che il giudizio finale deve incorporare. L’effetto in America è stato il collasso del potere mondiale. Quanto all’Italia, cosa ha prodotto la talentuosa conquista berlusconiana dei consensi? È ancora Scalfari che parla: «Il risultato lo si vede: siamo ridotti in mutande».

Ascoltiamo quel che disse della P2 Tina Anselmi, il 9 gennaio ‘86 in una Camera semivuota: «Ciò che dobbiamo chiederci è se accanto alla politica ufficiale, gestita nei modi e nelle forme che l’ordinamento consente, possa esistere una politica sommersa. Se (...) possa esistere un versante occulto, nel quale programmi e azioni destinate a incidere nella vita della collettività vengono elaborati al di fuori, non dico di ogni controllo ma della stessa conoscenza dell’opinione pubblica (...) Se sia possibile coltivare l’illusione di una correzione del sistema democratico attraverso meccanismi compensativi che, operando in maniera occulta o riservata, sarebbero in grado di assicurargli la necessaria stabilità» (Anna Vinci, La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi, Chiarelettere 2011). Sotto forme diverse (P2, P3, P4) la politica sommersa continua.

Chi siamo noi è la questione. È la sola che conti. Non si tratta di dividersi tra benpensanti e malpensanti. Qui c’è bisogno di pensanti, tout court. Di trasformatori, consapevoli con Nietzsche che «Noi, cercatori della conoscenza, siamo a noi stessi degli sconosciuti, per il semplice motivo che non ci siamo mai cercati».

Dalla Toscana giungono notizie dell’ennesimo conflitto tra interessi privati e difesa del patrimonio archeologico. E ancora una volta sembra che a soccombere, come spesso accade nel nostro paese, debba essere il patrimonio culturale.

Il caso mi è stato segnalato da alcuni amici toscani, non archeologi, che si sono rivolti a me per un parere, conoscendo il mio impegno nel campo della politica dei beni culturali. Ho cercato di acquisire informazioni più precise da colleghi archeologi, che, però, ignoravano quasi completamente l’episodio. La massima segretezza sembra avvolgere la vicenda. Le uniche informazioni, reperibili sul web sono fornite da un comunicato stampa e da denunce di varie associazioni ambientaliste, raccolte da alcuni giornali e da vari siti internet. La cosa che sollecita la mia curiosità e presenta, fin da subito, alcuni lati enigmatici è relativa al progetto di rimozione e ricollocazione dei resti archeologici: una procedura, tecnicamente assai problematica, alquanto rara e costosa. Ma procediamo in ordine.

Il sito è posto nel territorio del Comune di San Casciano: qui è stata prevista la costruzione di un capannone da parte della multinazionale Hymer, proprietaria di LAIKA Caravan. Il progetto risale a molti anni fa, addirittura al 1997. Nel corso dei lavori edili sono emersi, nel 2010, resti archeologici riferibili, sulla base dei pochissimi dati al momento disponibili, ad una ‘fattoria’ etrusca e ad una villa romana. Tengo a ribadire che le informazioni in mio possesso sono a questo proposito assai scarse ed è pertanto assai difficile valutare la reale portata storico-archeologica della scoperta. Lo sottolineo, non perché voglia minimamente proporre un’idea selettiva, ormai fortunatamente abbandonata, che privilegi esclusivamente i manufatti di pregio artistico – ogni documento archeologico è unico e prezioso per la ricostruzione storica e per la conoscenza dei paesaggi stratificati – ma solo per comprendere la ratio delle scelte che si stanno effettuando.

Non tocco le questioni relative all’impatto ambientale o al tema del consumo di territorio, che rientrano nelle competenze di altri. Mi limito a porre una serie di domande limitate al tema archeologico, in attesa di poter disporre di informazioni più precise, che, per trasparenza democratica, si spera possano essere fornite alla pubblica opinione, anche per limitare le polemiche spesso alimentato proprio dall’assenza di informazioni.

Come mai, pur essendo trascorso tanto tempo dalla presentazione del progetto, non sono state effettuate indagini di archeologia preventiva, con l’uso dei metodi e delle tecniche e tecnologie (immagini aerofotografiche, prospezioni geofisiche, ricognizioni, ecc.) tipiche dell’archeologia dei paesaggi (che, peraltro, proprio in Toscana conosce livelli di assoluta eccellenza)? In tal modo certamente le tracce archeologiche sarebbero state individuate ancor prima dell’avvio dei lavori edili e sarebbe stato possibile indirizzare diversamente il progetto.

Quale valutazione è stata fatta dei documenti storici e archeologici individuati? Qual è il loro stato di conservazione?

Ma, soprattutto, perché si è adottata la decisione della rimozione e del trasferimento dei resti archeologici? Mi rassicura sapere che l’operazione è stata autorizzata dalla Soprintendenza Archeologica, dalla Direzione Regionale per i beni culturali, dal Comitato tecnico-scientifico del MiBAC. Ma resta l’interrogativo metodologico. Come dicevo, si tratta di una procedura complessa e costosa, che certo l’archeologia conosce bene ma che di solito viene riservata (proprio per la complessità tecnica e l’elevato costo) a scoperte “eccezionali”. Si potrebbero citare molti casi a tal proposito, ma mi limito a ricordare quello dei mosaici policromi di ville e domus romane della città di Zeugma in Turchia, asportati e rimontati nel Museo di Gaziantep con l’intervento munifico del Packard Humanities Institute (PHI), o, in Italia, quello vissuto in prima persona dei mosaici della chiesa paleocristiana del sito rurale di San Giusto (Lucera), asportati nel 1998 e tuttora in attesa di collocazione: in entrambi i casi l’operazione è stata giustificata dalla costruzione di opere pubbliche, nello specifico dighe, rispettivamente necessarie per la produzione di energia e per l’irrigazione delle campagne. Si tratta, peraltro, di interventi condotti molti anni fa, ben prima che si affermassero i metodi dell’archeologia preventiva. I due siti archeologici, dai quali sono stati asportati solo gli ‘elementi di pregio’ (i mosaici, appunto) sono tuttora sommersi dalle acque delle dighe e non si esclude che in un futuro altri archeologi possano riprendere gli scavi.

Nel caso di San Casciano il problema è: i ritrovamenti sono relativi a “pochi muretti”, come qualcuno sussurra? Se sì, allora, si abbia il coraggio di portare la decisione alle estreme conseguenze, si documenti e si pubblichi l’intero contesto archeologico, e lo si sacrifichi autorizzando la costruzione del capannone al di sopra dei resti. La rimozione e la ricollocazione appare, infatti, una risposta alquanto ipocrita, forse utile solo come risposta alle proteste delle associazioni culturali e ambientaliste: che senso avrebbero i moncherini di “pochi muretti” decontestualizzati e collocati, quasi si tratti di elementi di arredo, in un finto parco archeologico? Senza contare i problemi tecnici posti dallo smontaggio di muri (di terra? in conci di pietra tenuti da malta? in cementizio?) di insediamenti rurali di età etrusca e romana, e ovviamente i costi legati all’operazione, che, perlomeno, mi auguro non si preveda di scaricare sugli ormai poveri bilanci degli Enti locali o delle Soprintendenze. Se, invece, si trattasse di elementi di grande interesse storico-archeologico, tali da richiederne addirittura lo smontaggio e la ricollocazione in altro luogo, allora forse sarebbe il caso di riesaminare più attentamente la questione, privilegiando la conservazione in situ.

Comunque vada a finire, ancora una volta saranno le ragioni dell’archeologia e del patrimonio culturale e paesaggistico a soccombere, forse anche a causa di un deficit di pianificazione e di valutazione preventiva, sotto il peso del consueto facile ricatto dell’occupazione e delle ragioni dello sviluppo economico, sostenute, è evidente in questo caso, da forti interessi politico-economici. E ancora una volta in questo eterno assurdo conflitto si cercherà di confermare l’immagine dell’archeologia – cioè di uno dei beni comuni più rilevanti di cui il nostro paese disponga - nemica dello sviluppo.

Giuliano Volpe è Ordinario di Archeologia e Rettore dell’Università di Foggia

Quel martedí mattina come ogni martedí stavo preparando la mia lezione dopo la consueta corsa in Riverside Park quando ricevetti la telefonata di un´amica che gridava come impazzita «ci stanno bombardando». Non capivo e istintivamente ho acceso la televisione. Tutti i canali mostravano le stesse immagini, quelle del primo aereo che sfonda una delle torri. Difficile non pensare a un film. Ma é realtà quando il secondo aereo finisce il lavoro. Ci hanno davvero bombardato. Questa é una guerra: ho avuto vivida questa sensazione di fatalitá di fronte al disastro, una sensazione che non conoscevo. Chiamo tutti gli amici che conosco. Nessuna risposta dagli amici di Downtown. Ne trovo due, che vivono a Tribecca, a due passi dal City Hall, in quella che sará subito dichiarata "zona rossa", di massimo rischio; rischio di crolli ma anche di contaminazioni tossiche a causa delle esalazioni provocate dagli incendi.

L´amico di Tribecca era uscito di casa alle otto per andare a giocare a tennis, mentre la moglie accompagnava il figlio a scuola. Usciti per ritornare dopo poche ore sarebbero rientrati a casa loro solo quaranta giorni dopo. L´emergenza é proprio questo: l´interruzione imprevedibile e imprevista della quotidianità. Chiedere il permesso alla Guardia Nazionale, essere scortati fino all´uscio di casa da un militare in tenuta da guerra batteriologica, accettare di essere muniti di maschera anti-gas per raccogliere le proprie cose. Invito questi amici a casa, darò loro un letto in attesa che trovino una soluzione. Quando arrivano, hanno negli occhi e sulla pelle il segno di quel che hanno visto e sentito piovere addosso. Un inferno di fuoco e polvere. E di quell´inferno per giorni ho sentito il fetore nell´aria. Dalle finestre aperte a 11 chilometri di distanza dal luogo dell´attentato si é sentito per settimane il fetore emanato dai corpi bruciati.

Mi é stato chiesto varie volte come ha reagito la gente di New York. Da bolognese adottiva, abituata nella gioventù a notizie di attentati terroristici, sono istintivamente portata a uscire in strada. E così ho fatto quella mattina. Ma nessuno era in strada. Tutto sembrava scorrere come prima, come sempre in un giorno lavorativo. Sono andata dopo il crollo della seconda torre verso il campus di Columbia. Nessun allarmismo, nessun segno della tragedia che si stava consumando a Downtown. Dopo poche ore un segno: nei palazzi i portieri affiggevano indicazioni su come procedere per la raccolta di latte e succhi di frutta, poiché le polveri sono state uno degli effetti tremendi delle esplosioni e dei crolli, che oltre a uccidere migliaia di persone hanno provocato problemi seri alle vie respiratorie di migliaia di sopravvissuti.

Ma da quel martedì le cose sono cambiate radicalmente. L´emergenza non é più uscita dalla nostra vita. L´Amministrazione Bush, resa disgraziatamente attiva da quell´attentato, ha deciso di entrare in uno stato di guerra non solo in Afghanistan, e poi in Iraq, ma anche nel Paese. Fu aperto il campo di reclusione di Guantanamo, una terrificante violazione dei diritti umani, mentre la presidenza degli Stati Uniti avocava a sé poteri eccezionali di tipo dittatoriale. Le guerre invocate in nome della vendetta e per prevenire altri attentati sarebbero durate 10 anni, dissanguando le casse dello Stato e senza aver creato quello che irragionevolmente volevano creare, ovvero la democrazia; soprattutto senza riuscire a colpire il nascondiglio di Osama Bin Laden. Le ripercussioni della preemptive strategy sono state pesantissime e hanno scatenato la crisi economica più grave che l´America abbia sofferto dal 1929. Un impero che affonda nelle guerre che provoca: questo é il lascito dell´Amministrazione Bush, nata con un bluff elettorale e costata un danno incalcolabile i cui effetti durano ancora.

A Milano, a Napoli e a Cagliari si gioca la principale scommessa di riuscire a praticare un risanamento effettivamente democratico del governo locale. Quasi un ventennio di governo reazionario e affaristico a Milano e nelle altre città ha inquinato ogni aspetto dell'amministrazione locale; è quindi indispensabile analizzare nei dettagli questo massacro della res publica per poter imbastire la paziente e non certo breve opera di risanamento.

Uno dei settori in cui la destra, e anche buona parte del centro-sinistra, hanno provocato più danni è quello del cosiddetto governo della sicurezza. Com'è ormai ampiamente dimostrato, il gioco becero che è prevalso è stato quello di esasperare le insicurezze e le paure provocate dalla destrutturazione liberista dell'assetto sociale precedente per imporre la tolleranza zero contro i nemici di turno. Questa distrazione dell'opinione pubblica ha occultato a lungo i molteplici affari loschi del malgoverno delle città e dell'intero paese e ha anche legittimato un business sicuritario di cui ancora non abbiamo scoperto l'intera portata. Inoltre - e qui sta l'aspetto più grave - s'è innescata la continua riproduzione delle insicurezze e delle paure che lo sviluppo liberista ha accentuato. Quasi dappertutto le giunte locali hanno trasformato parte della polizia locale in una sorta di armata da aizzare contro nomadi, immigrati, tossicodipendenti e marginali in genere e hanno esasperato i costi del sicuritarismo. Basti pensare al boom della video-sorveglianza e dei diversi controlli "postmoderni", spesso del tutto inutili e non a caso ora in via di smantellamento nelle città inglesi, canadesi e americane a seguito del vero bilancio "costi e benefici".

La popolazione che vive alla mercé delle neo-schiavitù del lavoro nero, degli incidenti sul lavoro, delle malattie professionali, degli strozzini padroni di alloggi e dell'inquinamento s'è sempre più trovata abbandonata a se stessa, senza alcuna tutela. Le prime vittime di violenze, abusi e supersfruttamento, cioè i nomadi, gli immigrati e i circa cinque milioni di italiani senza tutela sono diventati nonpersone. I Sert sono stati chiusi o ridotti a quasi nulla e i tossicodipendenti poveri sono stati rigettati per strada. Gli operatori sociali, spesso, sono stati ridotti ad ausiliari della tolleranza zero o sostituiti dalla video-sorveglianza quando si sa che il costo di una sola videocamera e della sua manutenzione e gestione è superiore al salario annuale di un educatore socio-sanitario.

Tutti questi aspetti si sono aggravati anche e a volte soprattutto a causa della distrazione di competenze delle polizie locali. Se queste, con la collaborazione degli abitanti e dei lavoratori, si occupassero del controllo delle varie attività e della vita quotidiana nel territorio di loro competenza sarebbe assai difficile la proliferazione di cantieri, fabbrichette e laboratori abusivi che si nutrono di lavoro nero e che producono anche incidenti, malattie professionali, prodotti e rifiuti tossici e quindi inquinamento oltre che connessioni con la criminalità organizzata.

Sta qua il nodo principale della scommessa del risanamento effettivamente democratico del governo della sicurezza a livello locale: i costi della sicurezza devono servire a tutelare la salute pubblica, l'ambiente, la popolazione che rischia di subire ingiustizie e malversazioni. È quindi necessario un lavoro di ristrutturazione e di riqualificazione delle polizie locali a cominciare dai vertici che in questo passato ventennio (anche con le amministrazioni di centro-sinistra) sono stati forgiati all'insegna della tolleranza zero contro i deboli e della protezione delle libertà dei soggetti sociali forti. L'Italia è il paese in cui in proporzione si spende di più per la sicurezza pubblica e privata e si hanno meno tutele contro le reali insicurezze. I sindaci democratici devono chiedere una razionalizzazione democratica dell'impiego delle polizie di stato e locali, a cominciare dall'eliminazione delle sovrapposizioni di competenze e degli sprechi.

È a questa scommessa che sono pronte a lavorare tante persone con diverse competenze dentro e fuori le forze di polizia, con pazienza e senza alcuna pretesa, ma con il sostegno di una forte volontà politica delle giunte che sono state elette da una mobilitazione popolare che ha reclamato un cambiamento democratico e che può generare partecipazione.

Domanda. Perché la Giunta regionale ha pagato, con i nostri soldi (del popolo sardo tanto richiamato), ben due pagine dei maggiori quotidiani sardi?

Risposta. Non per fare una comunicazione istituzionale, bensì per esprimere la sua opinione su che cosa essa intenda per regole e per paesaggio. In soldoni vuol dire, ahimè, che le regole sono un abuso e un attentato alla nostra libertà, e che il paesaggio è un bene privato di cui ognuno può fare quel che più gli aggrada.

Non mi soffermo sulle definizioni di “paesaggio”apparentemente ingenue, quali, “il paesaggio è di tutti noi, ancora di più è in tutti noi … nel nostro cuore”, e altre amenità simili. Neppure lo studente più sprovveduto potrebbe dare del paesaggio queste definizioni perché sarebbero la dimostrazione di non conoscere neppure gli elementi rudimentali della materia “Paesaggio” e che in Italia ha avuto una lunga maturazione culturale e un altrettanto lungo iter normativo: dalla legge “Rosadi-Croce” del 1922 alla Legge Galasso del 1985; dalla Convenzione Europea del Paesaggio del 2000 al Codice dei Beni culturali e del paesaggio, noto come Codice Urbani, del 2004. Il PPR approvato durante il governo Soru non è stato altro che la conclusione logica di questo lungo processo, in linea peraltro con le esigenze di tutela del paesaggio, in quanto oggetto urbanistico, più volte richiamate dall’Unione europea.

Ma non facciamoci ingannare, queste semplificazioni e apparenti ingenuità sono finalizzate ad alimentare in ognuno di noi la convinzione che chi interviene a favore della tutela rigorosa e non derogabile del territorio, è il vero nemico dello sviluppo, dell’occupazione, del turismo e quant’altro. Da quando Cappellacci presiede questa giunta, questo fine è stato perseguito con costanza e ostinazione, si potrebbe persino dire che questa sia stata la vera mission (speriamo impossibile) di detto governo regionale. Fine ripetuto in più occasioni: dai permessi di costruire nelle aree più pregiate dell’Isola – da Capo Malfatano a Badesi -, alla benevolenza con cui si è guardato all’abusivismo in diverse parti della Sardegna, mi riferisco a quello più recente e che continua imperterrito a riprodursi, nonostante sia in vigore il Piano Paesaggistico Regionale. D’altro canto, l’infausto Piano casa – qualunque sia l’edizione, proroga compresa -, non è stato forse il manifesto ideologico principale utilizzato a questo fine, insieme alla cosiddetta revisione del PPR?

Se la Giunta Cappellacci avesse voluto fare per davvero Pubblicità Istituzionale, e non bassa propaganda di parte, avrebbe dovuto utilizzare queste pagine per dire con chiarezza quali sono queste “regole, più semplici da leggere e da applicare” e, magari, sulla base di questa informativa, aprire un serio dibattito con noi, “Popolo sardo”, sul paesaggio e che cosa si debba intendere con questo termine, e perché no, sullo sviluppo possibile e durevole di questa nostra disgraziata terra (disgraziata, beninteso, non per cause naturali).

postilla

Torna il linguaggio furbesco degli sponsor di quei distruttori delle coste della Sardegna che si sperava fosse scomparso, dopo le denunce di Antonio Cederna e delle persone di buon senso di tutto il mondo e, soprattutto, dopo la gloriosa stagione di Renato Soru. Ma anche in Sardegna i saccheggiatori del bene comune sono tornati trionfalmente alla ribalta. Adesso hanno conquistato le istituzioni, e il "pubblico" è diventato lo strumento del peggiore e più losco "privato": quello dei distruttori della bellezza, del futuro, e perfino della decenza.

Il traffico è orrendo, anzi peggiora ogni giorno, e questo si sa. Ma quanto esattamente la gente, quella delle metropoli di tutto il mondo, lo odia e vorrebbe prenderlo per il collo se ne avesse uno?

La IBM ha svolto una indagine su un campione di 8.042 disgraziati in 20 città di sei continenti. Scoprendo abissi globali di infelicità, automobilisti devastati dallo stress e dalla frustrazione di questo andirivieni che consuma l’esistenza, ma anche tanti casi in cui si dice che le cose sono assai migliorate per le strade da qualche anno. Questo perché alcune amministrazioni - Bangalore, Città del Messico, Pechino, Nuova Delhi, Milano pare proprio di no – hanno ridotto la congestione stradale grazie a enormi investimenti, migliorando un po’ le cose.

Qualche sprazzo di luce anche per I mezzi pubblici: il 40% dei pendolari globali dice che aiutano a ridurre lo stress. Ma c’è ancora gente che qualche volta non esce proprio di casa pur di sottrarsi alla bolgia.

Scaricabile da qui il rapporto, o altri particolari sul sito INFRASTRUCTURIST

Spesso le grandi manifestazioni sportive o culturali fungono da vetrine per proteste più o meno irrelate, o pretestuose.

La Mostra del Cinema di quest’anno, invece, è percorsa da un’agitazione più profonda, che serpeggia tra i pacifici presidi del Lido e gli animati dibattiti pubblici in città, e che culminerà domenica 11 alle 11 — a Leone assegnato — con la proiezione in Sala Volpi di un video dal titolo Ricordi... il ritorno di Lisa (interverrà l’attrice Ottavia Piccolo).

Non si tratta di una battaglia in nome di principi astratti: nutriti gruppi di cittadini veneziani sentono l'esigenza di denunciare l’imminente scempio del Lido, lo snaturamento dell'isola di Mann in pro dei palazzinari e del turismo internazionale d'altissimo bordo. Alcuni disastri sono già sotto gli occhi dei festivalieri: il taglio della storica pineta dove passeggiavano i divi, l'avviata trasformazione del Forte Malamocco (pur vincolato dalla Soprintendenza) in un villaggio turistico, lo scavo — nei pressi dell'attuale Palazzo del Cinema — di un fosso destinato alle fondamenta di un nuovo Palacinema progettato nel 2004 e destinato a non sorgere mai. Altri interventi sono stati ratificati dalla giunta Orsoni il 23 luglio scorso, e prevedono l’abbattimento dell'Ospedale a mare (che doveva conservare alcuni padiglioni essenziali per i cittadini, e diventerà invece un centro commerciale e di appartamenti turistici) e la creazione di una gigantesca darsena artificiale per gli yacht là dove oggi sorge la spiaggia libera di San Nicoletto. Tutte opere "parassitarie", cresciute attorno all'originario progetto del nuovo Palazzo del Cinema, grazie alla salvifica definizione di quest'ultimo come "grande evento", e alla sua gestione commissariale: stiamo parlando di molte decine di milioni di euro.

La storia incredibile di questa rovina ambientale, perpetrata in nome della "valorizzazione" e del "rilancio turistico-culturale", e condita di aspetti a dir poco sconcertanti (i rifiuti tossici scoperti a posteriori nell'area dell'ospedale; l'amianto scoperto a posteriori nel fosso suddetto, che è costato finora 37 milioni), è stata raccontata da Edoardo Salzano in un aureo libretto, e può essere ripercorsa da ciascuno tramite le sintesi aggiornate sui siti internet di "Italia Nostra Venezia", e dell'associazione "Un altro lido".

Esistono dei responsabili precisi: anzitutto la giunta dell'infallibile filosofo Massimo Cacciari, che pensando di combinare un grosso affare immobiliare ha cacciato il Comune in un gioco dal quale il suo successore Orsoni non ha saputo uscire se non con la resa incondizionata; poi Giancarlo Galan, che dopo aver inaugurato solennemente il fosso nel 2008 da governatore (insieme a Cacciari e Bondi), pochi mesi fa, ormai promosso a ministro dei beni culturali, lo ha metaforicamente richiuso, garantendo che il nuovo Palacinema non si farà (per questo, l’impresa costruttrice potrebbe chiedere risarcimenti milionari); poi il governo Prodi, che nel 2007 ha istituito la figura di un commissario, concretamente nominato però dal Berlusconi IV nella persona di Vincenzo Spaziante, intimo collaboratore di Bertolaso e dei più tristemente noti De Santis e Della Giovampaola, quelli delle escort al Gritti; infine, ovviamente, gli attori principali, ovvero il commissario stesso (che doveva realizzare un Palazzo entro il 2011 e invece per ora ha soltanto sdoganato cemento e darsene), e il Fondo di investimento che ha acquistato le aree, il "RealVenice" della società EstCapital, gestita dall'ex assessore della giunta Cacciari Gianfranco Mossetto, e variamente legata alle imprese che godono dei finanziamenti (630 milioni di euro!) per il progetto Mose.

Chi sospetti nel mio dire un preconcetto misoneismo è invitato a considerare il contesto di Venezia, mai come oggi assediata da progetti pazzeschi: decine di ettari di costruzioni nuove di zecca (e perfettamente inutili) nel Quadrante di Tessera; una metropolitana che corre sotto la laguna; la Tav che passa nel delicatissimo terreno della gronda lagunare; la moltiplicazione delle banchine per le enormi navi da crociera che già oggi più volte al giorno s'incuneano tra San Giorgio e Palazzo Ducale; un luccicante megastore di Benetton nel Palazzo delle poste a Rialto; una mirabolante "porta di Venezia" progettata dall'archistar Gehry. Tutte idee concepite con il solo obiettivo di monetizzare (tramite un facile immobiliarismo, l'intensificazione di un turismo già oggi insostenibile, o luculliane sponsorizzazioni) luoghi benedetti dalla natura, da secoli di storia e da un indubbio prestigio internazionale. "Veneto City", "Venice Gateway", per chi dubitasse del fatto che la corruzione del linguaggio non va mai da sola.

Oltre ai comitati suddetti, tanto attivi quanto passiva sembra l'intelligentsija cittadina, sono i competenti a lanciare gli allarmi più seri e documentati: intendo gli urbanisti dello luav Boato e Vittadini, e gli studenti di Pianificazione di Ca' Tron. Essi non mancano contestualmente di richiamare l’attenzione sull'area industriale dismessa di Marghera, il cui futuro incerto pare non far gola a nessuno; o meglio, il ministro Brunetta, che sta lavorando alla Legge speciale per Venezia, sta pensando di ridisegnarla come pied-à-terre di una piattaforma off-shore per navi petroliere e transoceaniche (sic), nell'ambito di un progetto per la città che il Pd contrasta — apparentemente senza avvertirne il disagio — con ben due disegni di legge diversissimi fra loro. Il firmatario di quello più sensato e deciso è Felice Casson: molti elettori di sinistra si chiedono cosa sarebbe accaduto se fosse stato lui a diventare sindaco di Venezia sei anni fa.

Il bilancio del premio Nobel a 100 giorni dall'insediamento. "La cultura del Pd è sempre quella". E su Penati: "Non è certo un caso che fosse il braccio destro di Bersani. Era lui a consigliare"

Giuliano Pisapia è sindaco da cento giorni, e Dario Fo, suo grande sostenitore, adesso un po’ lo compiange: «Non vorrei essere al suo posto».

Perché?

«Deve tirare calci come un cavallo imbizzarrito per scacciare la gramigna che gli sta attorno».

Gramigna, erba infestante. Forse è il caso di spiegare la metafora botanica.

«Giuliano è stato capace di suscitare un movimento straordinario, e ha vinto perché ha saputo dare un taglio netto a un certo modo di fare politica tipico della sinistra, anzi del Pci milanese. Gli è andata — ci è andata — bene perché la cultura del Pd è rimasta sostanzialmente quella. E non parlo solo della vicenda Penati».

E allora andiamo con ordine: di quale cultura politica parla?

«Prima degli aspetti giudiziari, che contano eccome, bisogna considerare quello che è successo alle primarie del centrosinistra».

E cioè?

«Si è ripetuto lo schema del 2006, quando mi candidai alle primarie: stessa logica di potere, il partito che cerca di imporre il proprio uomo in una competizione che invece dev’essere il più possibile libera. Certo, Boeri era meglio del questurino Ferrante. Aggiungo anche che non faccio accostamenti tra lui e Penati. Ma la logica è stata quella».

Ecco, veniamo al caso Penati.

«Pisapia si è trovato a gestire una situazione in cui un uomo politico indicato come poco onesto gli è stato messo vicino. Anche se di lato: anzi, contro. Questo non è certo bello».

E secondo lei come si è comportato il sindaco?

«L’ho detto: ha scalciato. Insomma, ha deciso di non farsi tirare dentro in quello che io chiamo il mercato dei gestori economici della Lombardia, cercando di farla finita con un andazzo che a Milano ha una storia tragica. Quella della commistione tra una certa sinistra e il potere. Con grossi speculatori che hanno fatto scempio della città, comprandosi i terreni e costruendo grattacieli. C’è da diventar matti».

In che senso?

«Giuliano vince contro queste persone, ma poi qualcuna se la ritrova dentro».

Non crede che occorra distinguere?

«Non sto dicendo che tutto il Pd è Filippo Penati. Resta il fatto che questo partito, almeno alle primarie, ha fatto una campagna contro Pisapia. Che poi ha vinto, facendo diventare vincitore anche il Pd. Un Pd che tuttavia non si accontenta di aver contribuito alla vittoria: continua a fare la sua politica».

Tornando a Penati?

«Non è certo un caso che fosse il braccio destro di Pier Luigi Bersani. Era lui a consigliare, contribuiva a dare la linea. Questo per dire che la logica degli affari andava avanti».

Nel merito, come giudica i primi cento giorni di Pisapia?

«Ultimamente sono stato lontano da Milano, prima di rispondere voglio documentarmi, e soprattutto parlare con lui».

Ma secondo lei il "vento nuovo" della primavera milanese soffia ancora?

«Io lo spero. Ma è dura, quando sei continuamente messo di mezzo da certi personaggi e da una certa politica. Lui non c’entra niente, ma deve fare un lavoro della madonna per buttare alle spalle logiche e comportamenti che perpetuano vecchi schemi».

Insomma, bisogna salvare il soldato Giuliano?

«Confido sia capace di salvarsi da solo. Ma, ripeto, è dura, se il panorama è questo. Prenda D’Alema, che ha brigato per avere un titolo onorifico dal Vaticano. Poi va in tv, e quelli gli chiedono anche che cosa pensi della situazione politica... Uno così dovrebbe essere solo sbeffeggiato, e invece nel Pd conta ancora moltissimo».

Il funzionario della soprintendenza deve andare a fare un sopralluogo sull’Appia Antica, a decine di chilometri dal centro di Roma e ben oltre il Grande Raccordo Anulare? Che ci vada in tram. O in autobus, se preferisce. Peccato che gli antichi romani, ignari del declino civile dei discendenti italici, costruendo la Regina Viarum 2250 anni fa non pensarono di affiancare alle basole in pietra rotaie per tram e corsie preferenziali per autobus. Al ministero dei Beni culturali non importa. Bisogna risparmiare e non è il caso di andare per il sottile: ispettori, funzionari, archeologi in giro per l’Italia a bordo della propria auto non si vedranno più rimborsate le spese di benzina. Se le paghino da sole, come mecenati o volontari, oppure si arrangino con i mezzi pubblici.

Tutti in tram, dunque. Anche se la missione sui cantieri comporta il trasporto di pesanti zaini con attrezzature e vestiti di ricambio. Anche dove i mezzi di trasporto pubblico non arrivano, come in genere capita sulle rovine di civiltà antiche. Anche se la località da raggiungere dista centinaia di chilometri, con due o tre cambi di treno e diverse ore di viaggio, quando in autostrada basterebbe mezz’ora. Anche se la missione richiede più spostamenti in una giornata, incompatibili con le coincidenze dei bus locali. Il risultato, come paventato in un’assemblea di funzionari a Roma, è la paralisi. Ieri qualcuno ha già annullato missioni programmate da tempo per l’impossibilità di raggiungere la destinazione.

Le nuove disposizioni nascono da una norma della manovra finanziaria del 2010 che vieta i rimborsi delle missioni. Il ministero aveva cercato di eluderla, ma esponendosi alla scure della Corte dei Conti, che ad aprile ha interpretato la regola senza eccezioni. Il ministero si è adeguato con una circolare rivolta a tutte le soprintendenze, gli organi sul territorio che tutelano quelle bellezze archeologiche, paesaggistiche e architettoniche di cui lo stesso governo si vanta negli spot televisivi.

I soprintendenti, a loro volta, devono obbedire per non esporsi a processi davanti alla Corte dei Conti per danno erariale. Anna Maria Moretti, capo della Soprintendenza archeologica di Roma, l’ha fatto con una laconica nota che ha lasciato sbigottiti gli archeologi che ogni giorni macinano chilometri per raggiungere musei, ruderi, scavi: «Si comunica a tutto il personale che a decorrere dal 5 aprile 2011 non potrà essere riconosciuto il rimborso per l’utilizzo del mezzo proprio». Al massimo, un euro: il costo del biglietto integrato a tempo da 75 minuti dell’Atac. La disposizione è retroattiva: per le spese sostenute dal 5 aprile a oggi, regolarmente autorizzate, vale la strofa della tarantella napoletana: «Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce ‘o ppassato...».

Oltre al danno, la beffa. Non solo le soprintendenze, prive di quell’autonomia che consentirebbe di aumentare gli introiti promuovendo le gestioni virtuose, vengono strangolate dai tagli lineari (20/30% ogni anno) e, cancellando i rimborsi, ai tecnici viene impedito di svolgere metà delle funzioni di salvaguardia del patrimonio culturale. Il governo che non vuole imporre un balzello agli evasori che hanno beneficiato dello scudo fiscale perché «lo Stato violerebbe il patto di lealtà», rifiuta di rimborsare ai suoi dipendenti spese già effettuate nel suo interesse, violando il patto con cui aveva garantito il ristoro.

Cose che capitano, perché come spiegano al ministero «alla fine i tagli incidono sulla carne di chi lavora». I numeri sono implacabili, in un settore che ha il record di siti Unesco, produce oltre 40 miliardi di euro l’anno con 550 mila lavoratori. In un decennio, il budget culturale ha perso 500 milioni di euro su 2 miliardi, riducendosi dal già esiguo 0,39% del bilancio statale al misero 0,21%. Un decimo di quanto spendono Francia, Gran Bretagna e Germania. Senza l’Appia Antica da raggiungere in tram.

«Un articolo del professor T. Montanari su “In Cristo, uno scambio di opere d’arte fra Mosca e Firenze”, uscito il 1 settembre pare basato su frammenti e pettegolezzi assai sfocati. Il suo pezzo, foto inclusa, indica ai lettori come oggetto dello scambio opere sbagliate, svela battaglie di fatto mai esistite, equivoca le date, erra nell’indicare le istituzioni titolari dei prestiti italiani, inventa pressioni e resistenze di cui il sottoscritto – che effettivamente da alcuni anni si dedica a questo lavoro connesso all’edizione critica dei concili – gli avrebbe potuto certificare la totale insussistenza. Padrone Montanari di considerare l’inesistente scambio che ha raccontato ai lettori di “Saturno”, o quello vero di cui ha letto sul “Corriere fiorentino” del 2 settembre e che vedrà a suo tempo, come un errore, in nome d’un certo rigorismo: ma per essere rigoristi, bisognerebbe pure essere rigorosi. E il Montanari di venerdì scorso non lo era.

Alberto Melloni»

Il 22 aprile scorso l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, ha scritto una lettera alla soprintendente Cristina Acidini in cui chiedeva di spedire in Russia la Croce di Giotto di Ognissanti. In quella lettera, il prelato provò a blindare l’operazione sventolando il consenso «delle più alte cariche dello Stato, in particolare della Presidenza della Repubblica e della Presidenza del Consiglio». Non so come la chiami Melloni: per me si tratta di una pressione indebita e spiacevole su funzionari dello Stato. E quelle parole hanno anche un’aria vagamente millantatoria, perché dubito che il presidente Napolitano sia mai andato oltre un generico compiacimento per l’iniziativa in sé. Quanto al presidente del Consiglio, è lecito dubitare che egli sappia chi sia Giotto.

Comunque, il 20 maggio l’Opificio delle Pietre Dure ha coraggiosamente emesso una relazione tecnica che si concludeva in questo modo: «Come si evince da tutte le osservazioni presentate sia nella parte relativa allo stato di conservazione, sia in quella della movimentazione, i problemi di conservazione sono molti, ed alcuni assai gravi e difficilmente risolvibili in maniera soddisfacente, tanto da far ritenere che sia quasi impossibile pensare di poter organizzare una movimentazione che non presenti rischi gravissimi». Ciò vuol dire che se Giuseppe Betori e Alberto Melloni avessero potuto fare ciò che desideravano, un’opera capitale di Giotto sarebbe stata esposta a «rischi gravissimi». Ma – si dirà – come avrebbero potuto saperlo, visto che di mestiere uno fa il vescovo e l’altro lo storico della Chiesa? Una risposta che non farebbe una grinza, se essi non stessero organizzando una mostra d’arte antica italiana a Mosca.

Ed è esattamente questo il senso principale del mio articolo. La maggior parte delle infinite mostre che ogni anno si inaugurano in Italia non scaturisce dalla ricerca storico-artistica o dal desiderio di aumentare e diffondere la conoscenza dell’arte figurativa: più radicalmente, la maggior parte delle mostre non ha più a che fare con un progetto culturale.

Essa si deve invece all’iniziativa estemporanea e alla volontà autopromozionale di amministratori, politici, imprese, associazioni laiche o enti religiosi. O, ancora, allo scoccare di centenari e anniversari; alla disponibilità di un finanziamento; all’interesse di uno sponsor.

Negli ultimi tempi, poi, si è registrata una decisa propensione della gerarchia cattolica verso l’organizzazione di mostre “confessionali” che riempiano l’intrattenimento culturale di contenuti accuratamente orientati. È il caso, per esempio, della mostra sul Potere e la Grazia. I santi patroni d’Europa tenutasi a Roma tra 2009 e 2010. La mostra – promossa da un certo Comitato San Floriano – non aveva il minimo valore scientifico e ostentava anzi una connotazione pastorale e proselitistica: nondimeno essa è stata ospitata a Palazzo Venezia, e ha goduto di prestiti davvero straordinari (tra cui il San Giorgio dell’Accademia di Venezia, negato invece all’importante mostra monografica di Mantegna al Louvre), oltre a essere inaugurata dal presidente del Consiglio (insieme, s’intende, al cardinale segretario di Stato vaticano). Lo stesso si può dire della reclamizzatissima mostra su Gesù. Il corpo e il volto nell’arte che ha accompagnato l’ostensione della Sindone nella primavera 2010: un’esposizione priva di qualunque rigore storico che raccoglieva opere importantissime all’insegna della più stucchevole retorica religiosa. E qui non si tratta di girare un documentario o di pubblicare un libro, ma di utilizzare (e quindi potenzialmente compromettere) opere di proprietà dello Stato, per alimentare un’operazione non culturale, ma puramente confessionale. Non meno interessanti, in tal senso, sono le iniziative dell’ambasciatore Antonio Zanardi Landi. Quando rappresentava l’Italia presso la Santa Sede, egli ha, per esempio, osato chiedere in prestito (ottenendole!) le celeberrime formelle bronzee di Lorenzo Ghiberti e Filippo Brunelleschi per il concorso del 1401. Queste opere venerabili sono state strappate al Museo del Bargello per presenziare alle celebrazioni dell’ottantesimo anniversario dei Patti Lateranensi: un gesto che ha lo stesso valore culturale che avrebbe l’esposizione di un busto di Pio XII per festeggiare un centenario di quel concorso per la porta orientale del Battistero di Firenze. Nel giugno dello stesso 2009, l’ambasciata di Zanardi Landi ha poi ospitato il gigantesco modello per la Fontana dei Fiumi di Bernini conservato presso i privati che possiedono le ultime reliquie dell’eredità dell’artista. Si tratta di un’opera dall’attribuzione alquanto problematica: ma soprattutto non si vede che senso abbia esporla in occasione della presentazione della trentesima edizione del Meeting riminese di Comunione e Liberazione, immancabilmente avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Siamo evidentemente di fronte a un sistematico sfruttamento del patrimonio artistico, che viene letteralmente abusato, al di fuori di ogni controllo. Ora che rappresenta l’Italia in Russia, l’ambasciatore Zanardi Landi sta gestendo brillantemente il vertiginoso valzer delle opere d’arte che il nostro Paese dissennatamente gli spedisce: e si capisce che dopo tanto maneggiare opere d’arte, egli sia diventato anche un virtuoso dell’ecfrasis, come si evince dalle parole che ha pensato bene di pronunciare ricevendo la Medusa di Bernini a Mosca: «questa scultura, tra tante, non è stata una scelta casuale: Medusa ha lasciato una traccia nella storia dell’arte russa del passato e contemporanea; è pure un personaggio ricorrente nei libri russi per bambini e ha ispirato le canzoni di vari gruppi rock e punk».

Ma torniamo allo scambio Mosca-Firenze. Grazie all’articolo di Melloni sul «Corriere Fiorentino» del 2 settembre (dal significativo titolo Betori, il Battistero e le icone del dialogo) si apprende che il casting non si è chiuso sulla Croce di Lippo di Benivieni (per la quale il 27 luglio la Soprintendenza di Firenze aveva già compilato la scheda conservativa preliminare al prestito), ma che ora si sta riprovando a scritturare un Giotto autografo (la Madonna di San Giorgio alla Costa) e uno di bottega (il Polittico di Santa Reparata). Quale miglior conferma della mancanza di serietà di un’operazione che continua a sfogliare il catalogo del padre dell’arte italiana come se fosse una margherita?

Ed è proprio questo l’aspetto più inquietante del testo di Melloni: l’esibita, financo sprezzante, ignoranza della storia dell’arte. E siccome è raro trovare una dichiarazione tanto esplicita di un sentimento invece piuttosto diffuso tra gli accademici italiani, non è inutile guardare quel testo un po’ più da vicino (lo riprodurrò ampiamente, evidenziandone le citazioni in grassetto; chi lo vuol leggere tutto, lo trova qui). Lo si può dividere in una premessa, nella spiegazione del senso dell’evento fiorentino e moscovita, e infine nella risposta alle critiche del sottoscritto (mai, tuttavia, nominato).

La premessa è articolata in due parti. Nella prima si afferma (invero piuttosto confusamente) che la storia dell’arte è «una disciplina a sé stante» che si occupa solo di «estetiche e tecnicalità» e «che non può che prescindere dalla funzione esercitata da oggetti di cui il committente ha pagato l’oggettività e nei quali l’artista ha usato linguaggi suoi». Ma per fortuna arriva lo storico della Chiesa, che sa decifrare i «significati terzi: che non necessariamente differiscono e non necessariamente coincidono con quelli del committente e dell’autore. Significati legati alla memoria, alla comunicazione o alla fede». Insomma, lo storico dell’arte può dire se una Madonna di Giotto è bella o brutta, e com’è fatta la carpenteria della sua tavola, ma per capirne il significato storico e morale, ci vuole uno storico della religiosità.

Di fronte ad affermazioni di questo tenore viene solo da commentare che le constatazioni che Roberto Longhi faceva nel 1951 (in Il livello medio della nostra cultura artistica) sono validissime ancora a sessant’anni di distanza: riguardo all’arte figurativa «la cultura media in ogni strato non è al livello che si vorrebbe, anzi incredibilmente più in basso». Davvero in ogni strato: anche tra i professori universitari di storia della Chiesa, visto che Melloni ignora non solo Longhi stesso, Panofsky, Baxandall, Haskell o Shearman, ma pure Ghiberti, Vasari, Bellori o Burckhardt. Più semplicemente, egli ignora che la storia dell’arte, da seicento anni a questa parte, è una “storia” (che si occupa anche di funzione e significati), esattamente al pari di quella che insegna lui, e non un gergo per imbonitori o un lessico tecnico per restauratori.

Nella seconda parte della premessa, si tirano le somme di tutto ciò sul piano dell’uso del patrimonio artistico. E sono somme davvero drastiche: dal momento che la storia dell’arte non è una storia, le preoccupazioni relative alla conservazione materiale e a una corretta lettura storica dell’opera nel suo contesto figurativo e culturale sono ubbie di romantici snob. E non sto esagerando: Melloni sbeffeggia e liquida tutti coloro che hanno a cuore la tutela delle opere d’arte definendoli letteralmente «fautori di una degustazione romantica in situ di opere che spesso in quel luogo ci sono finite per caso, o per rapina o per disgrazia e che invece esibendosi, fuori di contesto o per prestito sono diventate patrimonio comune di milioni di esseri umani in carne e ossa, talora perfino giovani, e dunque sprovveduti dell’armamentario critico-linguistico dello specialista, cose che un tempo erano riservate a una eletta schiera di degustatori». Il che tradotto in italiano vuol dire: «signori, finalmente farò capire Giotto ai giovani, e lo farò prendendo un’opera delicatissima, sbattendola nell’inverno russo e recidendone ogni intellegibile legame col contesto figurativo e culturale ancora visibile a Firenze. Alla faccia di quei quattro snob elitaristi degli storici dell’arte».

Dopo averci dunque spiegato in quanta considerazione egli tiene i musei italiani (che per lui sono il frutto non di una luminosa storia culturale plurisecolare, ma del caso e della rapina), Melloni viene al concreto e presenta lo scambio di opere d’arte che pianifica da anni. Per intendere bene quanto segue, bisogna sottolineare il notevole understatement del professore, capace di parlare in questi termini dell’operato della Fondazione per le Scienze Religiose che egli stesso presiede: «un lavoro scientifico finissimo il cui valore non è sfuggito su scala internazionale (è stato presentato da Romano Prodi all’Expo di Shanghai e dal Patriarca ecumenico a Istanbul, capitale della cultura europea) e che ha rafforzato la credibilità di un interlocutore scientifico di prima grandezza». Accanto al lavoro di Melloni, ecco quello di Betori, presentato in modo altrettanto defilato: «la nuova traduzione della Bibbia in italiano – di cui l’Arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori, è stato protagonista – ha attirato sulla sua fine costruzione l’attenzione di diverse istituzioni accademiche e teologiche russe, alla prese con i problemi di una versione della Scrittura consacrata dalla liturgia e difficile per i fedeli». Come una conseguenza logica e ineluttabile di tutto questo dolciastro fumo di turiboli, ecco entrare in scena l’idea della mostra: «Questo ha permesso di formulare la proposta di impreziosire l’anno Italia/Russia con uno scambio di capolavori dell’arte sacra che dicessero esattamente questo: cioè la profondità del legame e la ricchezza della diversità che si basa sulla fede comune del Niceno II». Eccola finalmente, quella funzione delle opere d’arte che i poveri storici dell’arte non sono in grado di capire: venire imballate, imbarcate su un cargo e quindi essere scambiate allo scopo di «impreziosire» un evento a esse radicalmente estraneo, e invece sinistramente prossimo a una smaccatissima operazione di autocelebrazione degli organizzatori.

Come sempre, la scelta delle parole è illuminante, e l’idea che l’arte figurativa abbia il ruolo ancillare e superfluo di «impreziosire» qualcos’altro meriterebbe un’analisi a sé: ma qui basti notare quanto sia impressionante che un professore universitario di storia si esprima esattamente «come il più cafone degli antiquari, o come la sciùra milanese che impreziosisce il centro tavola con una composizione di peonie» (secondo le icastiche parole di un collega reduce dalla lettura del «Corriere Fiorentino»).

Naturalmente non si poteva «impreziosire» con un’opericciuola qualunque, e Melloni dichiara che «la proposta aveva bisogno di capolavori auteloquenti, per nome e per portata». In queste poche, cruciali parole il l’incenso si dirada, e Melloni getta la maschera: il fine esegeta dei profondissimi significati religiosi (quelli che sfuggono alla storia dell’arte) lascia destramente il campo al pratico uomo di marketing che vuole grossi nomi e opere «di portata», quasi si parlasse di un toro da monta o di una vacca da esposizione. E invece no, niente animali: si tratta della «Maestà di San Giorgio alla Costa e del Polittico di Santa Reparata attribuito al “Parente” di Giotto: queste due opere saranno esposte nella sede centrale del celebre museo moscovita, alle spalle della Chiesa della Madonna ‘gioia di tutti i sofferenti’ di cui è titolare il Metropolita di Volokolamsk, Hilarion Alfeev, capo del dipartimento delle relazioni esterne della Chiesa russa. Dalla Tretyakov, per decisione della sua direttrice Irina Lebedeva e della vice Tatiana Gorodkova, verranno a Firenze tre opere senza pari: la Madre di Dio Odighitria di Pskov, la Crocifissione di Dionisij e una Ascensione nella cui straordinaria qualità gli specialisti vedono la mano di Andrej Rublev. Queste icone verranno esposte, con le cautele di tutela del caso, non in un museo: ma nel Battistero di Firenze». Traduciamo: per celebrare un Concilio del 787, Mosca spedirà a Firenze tre icone del XV secolo, e Firenze spedirà a Mosca due dipinti realizzati tra il XIII e il XIV secolo. Un’operazione fumista quasi quanto la prosa che la difende, e in cui è davvero arduo trovare la benché minima traccia di senso storico, o anche un significato morale qualunque. E non si venga a parlare di ecumenismo, visto che un’ora qualsiasi della vita spirituale e sociale di Taizé o di Bose produce frutti cento volte più ricchi di questo micidiale concentrato di retorica, vanità e frusciar di mitrie e corone.

Infine, ecco la risposta alle critiche: il progetto «aveva bisogno di verifiche tecniche negli organi di tutela che sono state richieste e adempiute (hanno dato corso a qualche pettegolezzo fasullo, incautamente raccolto e agghindato con piccole bugie anticlericali, come da noi talora accade). E ha incontrato l’entusiasmo delle massime istituzioni dei due Stati, che hanno gli strumenti per distinguere fra uso e abuso delle opere d’arte».

In questo brano mirabile si contano almeno tre motivi interessanti.

Il primo è l’alterazione dei dati di fatto. A me non risulta affatto che le verifiche tecniche siano state adempiute. Con una solenne gaffe istituzionale, Melloni ha annunciato la partenza di due opere sul cui prestito non si sono ancora espressi gli organi centrali del Ministero per i Beni Culturali. E quando lo faranno, voglio sperare che la boccino, perché sarebbe criminale spedire nella gelida ed umida Mosca invernale un’opera chiave per la ricostruzione del giovane Giotto (peraltro danneggiata dalla bomba mafiosa del 1993), e l’antica pala d’altare della cattedrale di Firenze. Se il valore culturale di una mostra è davvero rilevante, si può anche accettare che opere uniche di settecento anni fa corrano qualche rischio. Ma non certo per «impreziosire l’anno Italia/Russia con uno scambio di capolavori dell’arte sacra».

Il secondo motivo notevole è il disprezzo per le regole, per le procedure e per le riserve degli storici dell’arte, cui si oppone l’entusiasmo dei politici. È davvero curioso che un professore di una pubblica università contrapponga alle garanzie del sapere e delle competenze l’arbitrio del principe: ma evidentemente i venticinque anni di plebiscitarismo berlusconiano hanno profondamente sfigurato l’etica pubblica di questo paese.

Infine la comoda spiegazione, ideologica e pregiudiziale, del dissenso: l’anticlericalismo! Su questo punto vorrei davvero rassicurare Melloni: non avrei scritto niente di diverso se questa irresponsabile iniziativa fosse stata animata da un assessore del PD, da un rabbino o dall’amministratore delegato di un’azienda privata. Ma, da cittadino e da cattolico, non posso far finta di non vedere che la gerarchia cattolica italiana sta facendo un uso assai spregiudicato del patrimonio dell’arte sacra del passato. Pochi giorni fa proprio l’Opera del Duomo di Firenze ha avuto, per esempio, la pessima idea di istituire una tessera tagliacoda a pagamento per l’accesso in Cattedrale, e in molte chiese della città di Betori (a partire proprio dal Battistero che ospiterà le icone russe) si entra versando moneta sonante, con una malcelata simonia che riesce a vanificare contemporaneamente il significato civile e quello religioso di questi indispensabili polmoni dello spirito.

Dettagli per Melloni, che sentendosi evidentemente un novello Giovanni Crisostomo (cioè «dalla-bocca-d’oro», per la sua eloquenza), si getta in una conclusione che sta tra l’omelia e l’esaltazione mistica: «Un catalogo della mostra, nella quale si vedrà l’impegno della Enciclopedia Italiana e si sentiranno le voci delle autorità degli Stati, dei governi, delle Chiese, delle autorità, degli studiosi, dei teologi, accompagnerà queste opere: nel cui viaggiare ciascuno riuscirà soltanto a leggere qualcosa di sé. È giusto così». Personalmente, non riesco a consolarmi pensando che Giotto sarà scortato da un catalogo siffatto, dove la voce degli «studiosi» (e quali? Forse gli storici della Chiesa, non già i disprezzati storici dell’arte!) sarà una su sei, essendo le altre cinque tutte riservate al potere (e perché sia chiaro la parola «autorità» ricorre ben due volte), o alla teologia. Pare davvero inverosimile che l’Enciclopedia Italiana di Giuliano Amato si presti a un’operazione del genere, ma si deve sapere che Melloni siede nei consigli scientifici di Treccani e Dizionario Biografico: dunque conta di fare tutto in casa.

Con il piglio di un vero direttore di coscienze, infine, il professor Melloni prescrive ciò che ciascuno di noi dovrà leggere nel viaggiare di Giotto a Mosca: «soltanto qualcosa di sé». E quindi la chiusa, memorabile: «È giusto così». Mi dispiacere deludere Melloni, ma io in questo «viaggiare» (che spero le istituzioni tecniche-scientifiche dello Stato abbiano ancora la forza di impedire) vedo solo uno dei tanti segni della notte culturale in cui siamo immersi: una notte in cui brillano solo la celebrazione dell’ego e il potere del marketing.

Ed è per questo che vorrei rammentare al professor Alberto Melloni (il quale presiede la fondazione di Giuseppe Dossetti; e il cuore sanguina, a pensarlo) che proprio il costituente Dossetti avrebbe voluto nella Costituzione un articolo che recitasse così: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».

Ecco, temo che per difendere l’articolo 9 della Costituzione – quello per cui «la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione» – sia venuta l’ora in cui gli storici dell’arte, e tutti coloro che amano e conoscono l’arte del passato, diano vita a una vera resistenza nei confronti di ogni tentativo di strumentalizzare, abusare, privatizzare e mettere a rischio quello straordinario bene comune che è il nostro patrimonio storico e artistico.

Sulle orme di Goethe che s’incantava al cospetto della grandiosità antica immersa nella campagna romana, o di Piranesi che ritraeva la monumentalità sublime di cisterne, torri e tumuli leggendari. Finalmente si possono riscoprire da vicino i tesori dell’Appia Antica nel modo più congeniale, secondo quello spirito romantico da Grand Tour: passeggiando. Inaugura domani la rassegna “Appiappiedi”, promossa dalla Soprintendenza speciale ai beni archeologici di Roma e organizzata dalla società PierreciCodess, che propone un trekking archeologico guidato di circa due ore e mezza, che dalla Villa dei Quintili arriva alla Villa di Capo di Bove, attraversando passaggi inediti, e visitando aree di scavo. Appuntamento che replicherà per altre cinque domeniche, il 18 e 25 settembre, il 2, 9 e 16 ottobre. «La novità dell’iniziativa è che stavolta il visitatore può cogliere il senso complessivo dell’Appia nei secoli, col suo sistema di ville e monumenti funerari che si scoprono strada facendo sotto la guida dell’archeologo — racconta la direttrice Rita Paris — dal monumento al centro di recenti scavi e indagini, alle iscrizioni che erano il segno del defunto ma anche un modo di comunicare col viaggiatore dell’epoca. Fino a cogliere i fatti più recenti, l’assetto che ha ricevuto alla metà dell’800 coi restauri del Canina, e le ville dei privati scelte come residenza di lusso negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento. Insomma, è l’occasione per raccontare tante storie sconosciute».

I momenti più suggestivi, li regala la Villa dei fratelli consoli Quintili, su cui si abbattè l’avidità dell’imperatore Commodo che li fece uccidere per impossessarsi di quella meraviglia residenziale. Dal ninfeo fortificato si esce eccezionalmente sull’Appia al V miglio dove la leggera curvatura del rettifilo accarezza i mitici Tumuli degliOrazi e Curiazi e la misteriosa torre della tenuta di Santa Maria Nova. Seguendo la strada verso Roma, si incontrano i “monumentini” funerari e si arriva fino al Mausoleo di Cecilia Metella e al Castrum Caetani, antica dogana del Medioevo. «È l’occasione per scoprir eanche tante notizie sulla geologia dell’Appia, come la straordinaria colata vulcanica di Capo di Bove di 260 mila anni fa — raccontaParis — che ha prodotto una lingua di lava che termina a Cecilia Metella. Nei nostri recenti scavi abbiamo trovato il punto terminale della colata, scoprendo come dodici chilometri di strada siano stati costruiti utilizzando il sedile della colata lavica». E Rita Paris annuncia che sta per partire l’ultimo tratto di restauro tra IV e V miglio del basolato di origine lavica. Epilogo, Capo di Bove, sede dell’Archivio Cederna, con la bella mostra “La Via Appia. Laboratorio di mondi possibili tra ferite ancora aperte”. E qui si può godere il relax tra giardini e tavolini dove, chi vuole, può gustarsi la sua colazione al sacco. Villa dei Quintili, via Appia Nuova 1062, ore 10.30. Biglietto: 6 euro per la vista alla Villa e 10 euro per tour guidato. Per informazioni e prenotazionetel. 06-39967700.

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