Titolo originale: Work starts on solar bridge at Blackfriars station- scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Oggi cominciano davvero i lavori, con l’installazione del primo di oltre 4.400 pannelli solari sopra la pensilina della stazione di Blackfriars.
Lo storico spazio londinese sta subendo un importante e costoso intervento di modernizzazione con un prolungamento delle piattaforme verso il ponte di Blackfriars, costruito nel 1886.
Una volta completati i lavori nel 2012, sulla struttura di epoca vittoriana ci saranno 6.000 metri quadrati di pannelli fotovoltaici (PV): il principale impianto solare di Londra.
L’impresa responsabile, Solarcentury, prevede una produzione di circa 900.000kWh di elettricità l’anno, ad alimentare la stazione ed evitare 511 tonnellate di emissioni di CO2.
"Il ponte di Blackfriars è un posto ideale per l’energia solare; un ampio spazio in un edificio simbolico nel cuore di Londra" dichiara i direttore di Solarcentury Derry Newman.
"I fabbricati e ponti ferroviari rappresentano un elemento essenziale del paesaggio urbano, e in questo caso potremo produrre da ora in poi quotidianamente energia. La gente vedrà che il solare funziona, si tratta di un importantissimo passo in avanti per le energie pulite del futuro”
Ne caso di Blackfriars ci sono anche altri interventi di risparmio energetico, come Il sistema di raccolta delle acque piovane, o I condotti per la luce naturale, nel quadro dei programmi di Network Rail per ridurre entro il 2020 le emissioni del 25% per passeggero/chilometro.
Lindsay Vamplew, responsabile di progetto di Network Rail per Blackfriars, spiega che gi interventi di trasformazione faranno della stazione un nuovo modello per tutto il mondo.
"Il ponte vittoriano di Blackfriars fa parte della nostra storia ferroviaria. Realizzato nell’epoca del vapore, oggi lo stiamo di colpo trasportando nell’era delle tecnologie solari del XXI secolo, a creare una stazione simbolo in città"
Esiste oggi solo un altro ponte solare, quello pedonale di Kurilpa a Brisbane, in Australia, ma ad esempio in Belgio quest’anno si sono posati 16.000 pannelli su un a galleria, con una produzione in grado di coprire ‘intera rete ferroviaria del paese per un giorno.
L'«Autunno americano» dopo la «Primavera araba»? L'anemico fronte deiliberal che negli Stati Uniti rialza la testa e dà vita a una versione di sinistra della rivoluzione dei Tea Party? Fino alla settimana scorsa immaginare che un movimento senza leader e senza programmi definiti come quello sbocciato a due passi dalla Borsa di New York potesse prendere quota e addirittura arrivare a controbilanciare il peso acquistato a destra dai «rivoluzionari del tè» sembrava fantapolitica.I ragazzi di «OccupyWallSt.org» erano snobbati anche dai media più imbevuti di cultura di sinistra: per la rete tv Msnbc, la radio pubblica NPR o la rivista della sinistra sindacale Mother Jones, erano studenti idealisti e volenterosi, ma condannati all'irrilevanza. Molte cose sono cambiate nel week end scorso, con la comparsa di movimenti analoghi in 21 città americane, con la «saldatura» tra i contestatori di Wall Street e i sindacati Usa e con Manhattan attraversata da cortei sempre più consistenti, fino all'episodio degli arresti di massa (per poche ore) sul ponte di Brooklyn.
Ma qualcosa di altrettanto nuovo è avvenuto ieri a Washington dove la sinistra «alternativa» ha aperto in un luogo assai poco alternativo (l'Hilton di Connecticut Avenue) una convention dal titolo suggestivo (Ridateci il sogno americano) con l'obiettivo esplicito di rilanciare l'iniziativa politica dei liberal e di contrastare l'iperattivismo dei Tea Party anche ricorrendo all'energia politica della protesta studentesca di New York. Un «gemellaggio» realizzato attraverso un collegamento video tra Zuccotti Park, la piazza-giardino incastrata tra la Borsa e Ground Zero che è il campo-base della protesta, e gli «stati generali» di Washington organizzati da «MoveOn.org» e dall'American Dream Movement di Van Jones: grosse organizzazioni di sinistra oggi deluse da Obama, ma che quattro anni fa hanno lavorato alacremente per la sua elezione e sono rimaste al suo fianco nella prima parte del mandato alla Casa Bianca.
Un'offensiva della sinistra per mettere alle strette Obama o una mossa in qualche modo incoraggiata dalla Casa Bianca? Il dubbio è alimentato dal fatto che il presidente, che all'inizio aveva chiesto alla sinistra radicale di abbassare il suo profilo per non dare appigli ai conservatori che lo dipingevano come un estremista, ha ormai dovuto prendere atto che la sua strategia non ha funzionato: una riforma sanitaria «centrista», molto simile a quella varata dal repubblicano Romney in Massachusetts, è stata demonizzata con successo dai Tea Party. E la ragionevole proposta del presidente di rimettere a posto il bilancio, oltre che coi tagli, anche tornando a tassare i ricchi come nell'era Reagan, è stata bollata dai conservatori come la mossa di un presidente socialista.
«Come è potuto accadere?» si è chiesto più volte lo stesso Obama. Secondo una tesi che ha preso quota, è stato proprio il ripiegamento della sinistra, materializzatosi mentre l'offensiva dei Tea Party sfondava nei media, a consentire ai conservatori radicali di occupare ampi spazi politici a destra. Ciò ha dato la sensazione che i repubblicani moderati fossero il nuovo centro e ha, così, sospinto Obama a sinistra agli occhi di larghe fasce dell'elettorato.
Molti conservatori pensano che il presidente stesso condivida questa analisi e si stia muovendo di conseguenza. Ma a conclusioni simili è arrivato anche il giornalista-politologo progressista E.J. Dionne secondo il quale (Washington Postdi ieri), negli anni 30 del Novecento Roosevelt riuscì ad attuare politiche efficaci contro la disoccupazione grazie al sostegno dei movimenti dei lavoratori e di quelli per i diritti civili.Quella di rianimare una contrapposizione vivace tra radicali di destra e di sinistra potrebbe essere una mossa molto rischiosa per chi deve governare in una congiuntura difficile come quella attuale. Non è detto, insomma, che dietro ci sia Obama. Ma il disegno esiste. L'enigma ruota intorno al nome di Van Jones: il ribelle deciso a organizzare la «rivoluzione d'autunno» con un passato nella Casa Bianca di Obama e che, anche dopo la rottura col presidente, è rimasto il contatto coi democraticimainstream, attraverso il Center for American Progress di John Podesta.
Dopo avere perseguito a lungo una visione che vede nell'aumento della produzione di cibo la condizione per alleviare la fame, la Fao affronta un necessario rinnovamento. Seguendo forse, finalmente, le indicazioni di studiosi come Wolfgang Sachs o Annette Desmarais
Ai vari organismi internazionali che si occupano di politiche agricole e alimentari Silvia Pérez-Vitoria nel suo Il ritorno dei contadini, non aveva risparmiato critiche anche molto aspre. Ma tra questi, la Fao (l'organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura) si era meritata l'attacco più duro, perché ancorata a quella visione produttivista contestata aspramente anche nell'ultimo saggio dell'economista franco-spagnola, La risposta dei contadini (vedi articolo in basso).
Se le critiche alla Fao non sono dunque una novità, più recente è invece la piena e diffusa consapevolezza che questo organismo, istituito formalmente il 16 ottobre 1945 in Québec, abbia bisogno di una profonda rifondazione. Ne è consapevole il brasiliano José Graziano da Silva, che dal prossimo gennaio assumerà la carica di direttore generale, e che, appena eletto, ha sostenuto di voler «condurre a una conclusione soddisfacente» il processo di riforma della Fao. E ne sono consapevoli tutti i suoi dipendenti, soprattutto dopo la pubblicazione, nell'ottobre 2007, del rapporto Fao. The Challenge of Renewal («Fao. La sfida del rinnovamento»), commissionato due anni prima dalla Conferenza della Fao (il più alto organo politico dell'organizzazione) a un'agenzia di valutazione esterna e indipendente.
Prospettive obsolete
Primo di questo genere, il rapporto riconosce apertamente i limiti di un'organizzazione «in profonda crisi finanziaria e programmatica», viziata da «una burocrazia pesante e costosa», che la rende «conservatrice e lenta ad adattarsi e a distinguere le aree di genuina priorità da quelle che sono le ultime tendenze», e invoca una nuova cornice strategica per un ente ridotto «a una forma istituzionale di vita assistita».
Anche il più recente rapporto redatto dal Britain's Department for International Development non risparmia critiche a un organismo che, per essere trasformato in «una istituzione moderna trasparente e responsiva, particolarmente al livello nazionale», avrebbe «bisogno di un profondo cambiamento culturale...». In effetti, prima ancora che alla vulnerabilità istituzionale e finanziaria e alla difficoltà di agire all'interno di un'architettura internazionale tutt'altro che sistemica, i limiti della Fao sembrano rimandare innanzitutto alla sclerotizzazione culturale denunciata da Silvia Pérez-Vitoria: la Fao ha perseguito a lungo, e continua a perseguire, una visione che è stata definita econometrica e tecnologica, basata su una concezione quantitativa dello sviluppo, che si è tradotta nell'invito ad abbandonare «le tecniche agricole tradizionali giudicate arcaiche e poco produttive» in favore della modernizzazione agricola.
False equivalenze
È, questa, una prospettiva analizzata criticamente già da Soulaïmane Soudjay nel suo La Fao (L'Harmattan 1996) e più di recente, nel saggio La Via Campesina (Jaca Book 2009), da Annette Desmarais, che critica l'idea di «estendere i benefici dello sviluppo mediante programmi di miglioramento tecnologico e attraverso l'aumento della produttività e della produzione». Un'idea - quella che «aumentare la produzione di cibo sia una condizione sufficiente per ottenere la sicurezza alimentare», giudicata parziale persino nel già citato rapporto interno commissionato dalla Conferenza della Fao.
Sta proprio qui, dunque, il vizio di fondo, ideologico, delle politiche della Fao: l'incapacità di sottrarsi al paradigma «sviluppista», quel veicolo concettuale della monocultura economicistica che, ci ha insegnato Wolfgang Sachs con il suo Dizionario dello sviluppo (Gruppo Abele 1998), pur avendo subito nel tempo una tornata di inflazione concettuale, non ha smesso di orientare politiche pubbliche e immaginari simbolico-culturali, da quando il presidente americano Henry Truman se ne fece portavoce, nel discorso inaugurale al Congresso degli Stati Uniti del 20 gennaio 1949.
Si tratta di quel paradigma che per tutto il Novecento ha contribuito a naturalizzare l'equivalenza tra crescita economica e giustizia sociale, in base all'assunto che il progresso e la crescita potessero di per sé risolvere le disuguaglianze sociali, sostituendo o rendendo meno rilevanti le politiche redistributive. In questi termini, così come in ambito economico è prevalsa l'idea - quasi monopolistica nel secolo scorso - che «l'espansione della torta economica (crescita del Pil) rappresentasse il modo migliore per alleviare i confitti economici distributivi tra gruppi sociali» (J. Martinez Alier, L'ecologia dei poveri Jaca Book 2009), allo stesso modo, nell'ambito delle politiche agro-alimentari elaborate dal principale organismo delle Nazioni Unite in materia, è prevalso quel modello culturale che «percepisce ancora l'industrializzazione come progresso associandolo ai falsi concetti della produttività e dell'efficienza» (Vandana Shiva, Il ritorno della terra, Fazi 2009).
La morte in vita
La Fao ha sposato la logica economica prevalente, anche quando se ne è dissociata apertamente, senza accorgersi - ha sostenuto Jean Ziegler, già special rapporteur delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, in Dalla parte dei deboli, Marco Tropea 2004 - che «puntare in modo circoscritto sull'aumento della produzione non può alleviare la fame perché non altera la distribuzione di potere economico - altamente concentrata - che determina chi può comprare cibo in eccesso». Senza riconoscere quindi la tautologia che sta a fondamento del sistema alimentare moderno, un sistema che «crea la povertà proprio mentre favorisce l'abbondanza di cibo, determina fame e malattie tramite i suoi meccanismi di produzione e distribuzione», come scrive Raj Patel ne I padroni del cibo (Feltrinelli).
I problemi del cibo, la fame, non derivano dalla scarsa produttività dei contadini e dei piccoli agricoltori, dal loro presunto «ritardo» rispetto ai «progressi» dell'agricoltura industrializzata, ma sono l'esito di processi di esclusione, come autorevolmente segnalava già diversi anni fa il medico e attivista brasiliano Josué de Castro, tra i fondatori della Fao e suo direttore dal 1951 al 1955, in Geografia della fame: «Fame significa esclusione. Esclusione dalla terra, dal lavoro, dalla paga, dal reddito, dalla vita e dalla cittadinanza. Se una persona arriva al punto di non aver nulla da mangiare, è perché tutto il resto le è stato negato. È una forma moderna di esilio. Di morte durante la vita».
Una manifestazione "per dare voce all'Italia che in queste settimane ribolle di passione civile". Libertà e Giustizia la organizza per sabato prossimo a Milano. Gustavo Zagrebelsky, presidente onorario dell'associazione, spiega così il significato di "Ricucire l'Italia".
Professor Zagrebelsky, com'è nata l'idea?
"E' venuta due settimane fa a una signora che partecipava al nostro seminario di Poppi in Casentino, nel castello in cui Dante scrisse i versi del sesto canto del Purgatorio: 'Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello'. L'ambizione è quella di provare a invertire la china, a ricucire le diverse fratture che attraversano l'Italia in questo passaggio particolarmente difficile della sua vita politica".
Si riferisce al tentativo secessionista della Lega?
"A quello, ma non solo. Certo, c'è da contrastare la balorda idea che si possa allargare il solco tra Nord e Sud fino alla secessione: sarebbe un bel paradosso a 150 anni dall'Unità, come giustamente ha sottolineato il Presidente Napolitano".
Quali altre fratture vedete?
"C'è quella sociale, il divario che aumenta sempre più tra ricchi e poveri. C'è la frattura generazionale, quella che divide i giovani precari dai lavoratori più anziani. C'è anche una frattura di natura etnica tra immigrati e residenti. Se ci pensiamo, in questi anni la politica ha lavorato per aumentare queste fratture, in alcuni casi ha addirittura fatto fortuna sulla loro esistenza".
Avete preparato un manifesto per l'iniziativa di sabato. Qual è, tra le tante, la frattura principale da ricucire?
"Sabato partiremo da quella tra gli elettori e il ceto politico, tra rappresentati e rappresentanti. Ci sono stati in questi mesi diversi segnali su cui riflettere: il successo dei referendum ma anche certe candidature vincenti alle amministrative ci dicono che il sentire degli italiani è sensibilmente diverso da quel che viene percepito non solo dal governo, ma anche dai partiti e dal Parlamento".
Parla della distanza tra società civile e palazzo?
"E' così anche se dobbiamo stare attenti. Non mi piace fare nomi ma in queste settimane c'è il rischio di lasciarsi andare alle tentazioni dell'antipolitica. Non dobbiamo cedere alla demagogia distruttiva del 'tanto i politici sono tutti uguali'. Userei anche con cautela l'espressione 'società civilè di cui Libertà e Giustizia si sente parte: è un'espressione che è usata spesso come sinonimo di salotti".
Che cos'è invece, a suo parere, la società civile?
"Sono i tanti, giovani e meno giovani, che incontro a lavorare nelle associazioni di volontariato, cattolico e laico. Volontariato in senso molto largo: persone che sono disposte a dare tempo, capacità professionale, denaro in modo disinteressato per il bene di tutti. E' volontariato anche partecipare alla nostra manifestazione di sabato. A questi molti, moltissimi, la politica ufficiale sembra avere sbarrato le sue porte. E' ora che questa società civile decida di far sentire la sua voce in politica".
Avete partecipato alla raccolta di firme per il referendum elettorale. E' meglio andare subito alle elezioni anticipate o modificare la legge attuale, magari con un governo di transizione?
"Noi abbiamo raccolto le firme con lo slogan: 'Mai più al voto con questa legge'. Dunque, per coerenza, sarebbe preferibile che prima delle prossime elezioni si modificasse la legge. Come e chi debba modificarla è oggetto della discussione politica. Certo bisognerà trovare il modo di andare al voto in tempi brevi perché il protrarsi dell'attuale stallo renderà molto difficile la ricostruzione quando si aprirà una fase nuova".
Una nuova manifestazione, dopo le molte dei mesi scorsi. Che cosa potrà cambiare?
"Non è una manifestazione da sola che può rivoluzionare il quadro politico. Ma proprio le manifestazioni di questi mesi sono servite a far sapere che quella frattura tra paese reale e palazzi della politica si stava allargando. Queste iniziative servono a far capire che un'altra Italia è possibile. Anzi, c'è già. Si tratta ora di organizzarla, vedremo chi saprà farlo".
«La crisi, paradossalmente, può rappresentare un'occasione».
Non scherziamo.
«Tagliare le spese non deve coincidere con la riduzione dei servizi di trasporto. Ci sono attività che fatte dal Comune determinano costi pesanti e sono poco sfruttate dalla collettività». La crisi, insiste il capogruppo pdl Carlo Masseroli, «può accelerare una riforma quanto mai urgente dell'ente locale. Dobbiamo alleggerire la "macchina" e aumentare l'efficienza dei servizi grazie a un approccio liberale di coinvolgimento dei privati».
La giunta ha investito sulla spending review. Non basta?
«Non è chiaro cosa vuole sacrificare e con quali obiettivi».
Il suo modello, Masseroli?
«L'Inghilterra di Cameron. Il controllo rigido e totale indebolisce la responsabilità, deprime l'iniziativa e l'azione civica. Favoriamo la crescita dal basso, non soffochiamola».
Proposte concrete?
«Partiamo dai 2 milioni di tagli tra progetti di infomobilità e interventi di mobility management. Cos'è stato azzerato? Un uso intelligente dei dati comunali per orientare i flussi di traffico. Ecco l'idea, che presenterò in un emendamento al bilancio: "Pubblicazione e libero utilizzo di tutte le informazioni sulla mobilità". A Londra si chiama "London data store", a Parigi è il "Paris open data". Non è solo questione di trasparenza, ma è soprattutto un'opportunità di business per giovani e innovatori che possano generare applicativi per i parcheggi, gli ingorghi, gli orari di aerei e treni...».
La manovra colpisce anche car pooling e radiobus Atm. Controproposte, consigliere Masseroli?
«Novità. I mezzi serali, per dire, girano semivuoti. Ogni passeggero costa all'Atm circa 5 mila euro l'anno. Troppo. Puntiamo sui taxi collettivi».
postilla
La politica come dicono certi poeti a gettone è l’arte del possibile, ma a volte può anche rivelarsi solo artigianato delle balle un po’ più ben confezionate della media. Non ci vuole una gran memoria per ricordarsi, solo la primavera scorsa (quando avevamo ancora addosso le stesse magliette leggere di oggi) l’adesso serioso e british Masseroli lanciarsi con la sindaca Moratti in sbracate imbrattature del marciapiede, dove verniciava sinistre sagome di biciclette assassinate, e spiegava garrulo as usual ai passanti che toccava stringersi un po’, per far passare le macchine, senza le quali non c’è sviluppo. Passano un po’ di settimane, il voto dei cittadini lo toglie dall’inopinato seggiolino di governo, ed ecco la miracolosa transustanziazione ecologista e tecno-progressista, nel segno dell’altro paravento di oltre Manica, David Cameron. Il quale col tono pensoso e appunto molto british che ha imparato a tenere come cifra personale, copre tutte le miserabili magagne di una classe dirigente tory fatta di servi degli interessi particolari, che se ne fregano di cittadini ed elettori, quando non sono rigorosamente ricchi e finanziatori di campagne elettorali.
Queste brevi note si rivolgono in particolare a chi (beata gioventù) trovasse magari condivisibili tutti quei giri di parole, pieni di termini simil-specialistico-internescional. Che però non ricordano mai la montagna di sciocchezze disservizi e altro combinate dalla maggioranza di chi ora parla con tono tanto saggio, in lustri di governo della città. Studi pure da leader dell’opposizione, questa reincarnazione di Tory allo zafferano: magari in convento di clausura, come si addice a un dichiarato credente (f.b.)
Prima ancora di apparire in Italia (dove uscirà l’8 ottobre per le Edizioni Skira), L’inverno della cultura di Jean Clair si è imposto all’attenzione pubblica, chiamando in causa il mondo della critica. La sua denunzia della deriva dell’arte contemporanea, ridotta a mero oggetto di speculazione nelle mani di pochi mercanti, non può, in effetti, lasciare indifferenti. Non solo perché viene da un critico insigne, membro dell’Académie française ma anche da uomo del mestiere, già direttore del Museo Picasso e commissario di mostre celebri come quelle monografiche consacrate a Duchamp o a Balthus, o quelle tematiche sulla "Malinconia" o su "Delitto e castigo". La riflessione di Jean Clair non si limita d’altronde ai mali che affliggono il mondo dell’arte.
È, più in generale, la perdita di memoria storica di cui soffre l’Europa, e la crisi di identità che ne consegue, che è al centro delle sue preoccupazioni.
Signor Jean Clair, lei si definisce un reazionario; cosa intende dire con questo?
«Il reazionario è colui che reagisce, obbedendo in questo a una legge quasi generale. In fisica, il mondo è regolato dalla coppia azione/reazione. Nel mondo dell’arte, la vita delle forme è un susseguirsi di azioni e reazioni, il Rinascimento reagisce al gotico, il neo-classicismo al Romanticismo, ecc. Nell’antropologia freudiana, la reazione, l’anamnesi, "il ritorno indietro", è un fenomeno di difesa e di salvezza. Ma senza dubbio mai come ora si è sentita l’urgenza di questa "reazione", di questo ritorno, di questa anamnesi. La celebre formula di Marx: "i filosofi si sono limitati a interpretare in modi diversi il mondo; quel che importa è trasformarlo" è ormai superata. Ciò che oggi importa non è più cambiare il mondo ma conservarlo. Ma un simile sforzo suppone una reazione proporzionale a questo sforzo, senza dubbio smisurato, di salvaguardia. Non sono sicuro che il mondo, almeno quello occidentale moderno, sia ancora capace di provocarla, vista la nostra convinzione della ineluttabilità del progresso, della crescita indefinita, del senso della Storia e via dicendo».
Qual è il posto dell’arte in questa diagnosi?
«L’arte funge da sismografo, da rivelatore estremamente sensibile, soprattutto in quegli empori-depositi che sono i musei. Che senso ha questo accumulo prodigioso di ricchezze? A chi sono destinate e a qual fine? L’arte è sempre stata al servizio di una comunità o di una causa: favorire la caccia presso gli uomini preistorici, conciliarsi la benevolenza delle potenze infere, rappresentare la bontà di un dio, incarnare il progresso dei Lumi, annunciare, accompagnare, illustrare le utopie politiche degli anni ‘30 o, infine, esaltare, come avviene oggi, l’onnipotenza dell’artista: un artista rimasto solo, senza nessuno a cui dovere rendere conto, e che gode del singolare privilegio dell’impunità quali che siano le stupidaggini o le provocazioni senza precedenti delle sue "opere". L’arte per l’arte è al servizio di chi e di che cosa? Quali Lumi e quale Universale possiamo portare noi francesi con la creazione, sotto il patronato del Louvre, di un Museo a Abou Dhabi, nelle sabbie degli Emirati? L’arte ha un senso, una funzione, una destinazione, un pubblico. Un’arte che abbia in se stessa la propria finalità è una buffonata. O, peggio ancora, l’obbiettivo cinico di un mercato di traders».
Qual è stata, a suo giudizio, la frattura irrimediabile, il punto di non ritorno da cui ha preso l’avvio la deriva dell’arte contemporanea?
«Il 1968, l’avvento di una società caratterizzata dall’efebismo e l’edonismo e in cui – a suo dire – non esiste più il male. È anche l’epoca del Women’s Lib, delle manifestazioni contro la guerra del Viet Nam. L’arte non ha più finalità, diventa, con gli happening, le azioni, le installazioni, effimera, transitoria, autodistruttiva. È il momento che Robert Klein chiamerà "L’eclissi dell’opera d’arte"».
Lei dedica pagine di grande interesse alla riproduzione perfetta delle opere d’arte raggiunta dalla tecnologia moderna, in contrasto con la celebre tesi di Walter Benjamin sulla perdita dell’"aura" in un’epoca di riproducibilità delle immagini.
Preferisco un’opera che ritrova la sua destinazione e il suo senso, fosse anche una copia, a un’opera originale dislocata nel vacuum semantico e spirituale di un museo. Benjamin dimenticava che, assieme a quelle popolari, tutte le incisioni da Dürer a Goya, hanno permesso di inondare l’Europa di "repliche" magnifiche. Nel Settecento molte opere d’arte religiosa erano copie originali celebri, magari fatte semplicemente di cartapesta. Solo il culto della firma inimitabile, della mano impareggiabile, del genio unico - tutti fantasmi generati dal culto sfrenato dell’ego romantico - hanno potuto far credere che un’opera non poteva essere riprodotta. In compenso, la delocalizzazione delle opere senza tener conto della loro funzione, com’è avvenuto per la Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi, staccata dalla cappella d’origine per essere esposta nella scuola vicina, più adatta ad accogliere folle di visitatori, mi pare uno snaturamento. È quanto avviene oggi con le opere nei musei: il loro accatastamento mi ricorda i cabinets de curiosités, i bric à brac surrealisti, quali che siano i criteri – cronologici, tematici, di paese, di tecniche, di materiali, ecc. – in base ai quali si pretende di ordinarli».
Ne L’inverno della cultura, così come nel precedente Dialogues des morts, lei ribadisce l’esistenza di un legame imprescindibile tra l’arte e il sacro e insiste sulla necessità dell’artista di continuare ad intessere "il filo di un dialogo continuo con il trascendente", sul fatto che l’arte è "un capitale spirituale". Che significato dare oggi a queste parole?
«Tento di descrivere il passaggio dalla "cultura del culto" – quando l’arte, con la musica, la pittura, l’architettura serviva a celebrare Dio nelle cerimonie religiose – al "culto della cultura", una sorta di religione laica e repubblicana che pretende di farci vedere nell’arte la più alta realizzazione del genio umano messo al suo proprio servizio, quello che Nietzsche e i tedeschi hanno chiamato lo Selbstvergötterung, una sorta di auto-deificazione dell’uomo. Tre tappe e, a mio giudizio, tre gradini discendenti: il culto, ossia l’arte e la fede, la cultura, ossia l’arte e l’umanesimo, il culturale, ossia l’arte e il suo mercato».
Lei afferma che "non c’è mai stata cultura senza religione e che quella laica viaggia nel deserto", eppure sembra fare sua la concezione moderna del museo, nato con la Rivoluzione, dove le opere sono esposte secondo una gerarchia dettata dal divenire storico. Non era questa una espressione del tutto laica della cultura?
«Confesso il mio imbarazzo. Il museo come collezione pubblica aperta a tutti è stato creato nel 1793 nel solco della Rivoluzione. Era inizialmente un modo di salvaguardare il patrimonio della Nazione dalle degradazioni, i saccheggi, i vandalismi che accompagnano tutte le rivoluzioni. Era anche il mezzo, per il popolo vincitore, di appropriarsi del passato, della storia, dei suoi testimoni e, grazie al museo e ai suoi tesori, di diventarne in qualche modo il legittimo depositario. Il museo custodiva il patrimonio della Nazione e al tempo stesso serviva da strumento per trasmetterne a tutti la memoria, vale a dire la storia su cui fondare l’identità collettiva. Bisogna però riconoscere che, tre secoli dopo, questo ideale non è stato realizzato. Dei milioni di curiosi rumorosi e indifferenti circolano nelle sale, senza riguardo, senza rispetto per la sicurezza delle opere, ma ugualmente senza più essere in grado di capire, di leggere ciò che hanno sotto gli occhi, che è la loro storia, il loro passato, la loro fede, le loro lotte. Il museo assomiglia ormai a un parco giochi, stile Disneyland. È una cosa derisoria».
Nonostante tutto questo, lei ha espresso più volte il desiderio di potere creare un museo dell’arte europea, stigmatizzando il fallimento di quello di Bruxelles che porta questo nome.
«Sarebbe, in effetti, una grande occasione per restituire al museo, e all’arte che esso racchiude, il suo ideale e il suo significato. Penso a un museo della storia d’Europa, che non solo riunisca una serie di capolavori provenienti da tutti i musei d’Europa a testimoniare l’unicità del suo genio, ma che si sforzi soprattutto di rintracciare la storia del nostro continente, le sue origini, la cristianizzazione, le guerre di religione e quelle di conquista, le imprese coloniali, la nascita dei totalitarismi, l’antisemitismo, i campi di sterminio… Il Deutsches Museum a Berlino ha già tentato di mettere in scena museograficamente una storia della Germania vista attraverso la storia dei suoi vicini europei. È un’iniziativa coraggiosa e spesso sconvolgente. Ma bisognerebbe fare lo stesso su scala europea, perché l’Europa del passato aveva una unità intellettuale e spirituale fatta di circolazione di idee, dove gli scambi letterari, filosofici, artistici erano costanti, immediati, intensi. Ma l’Europa di Bruxelles è un mostro acefalo, un animale senza cervello. Il museo, in quanto entità materiale che espone delle opere aventi l’autorità di capolavori, una autorità che non consenta replica, potrebbe essere quella testa, quel capo superbo e generoso che ci restituirebbe il piacere di guardare, di sentire, di capire e di amare la nostra eredità».
I manifestanti protestano da due settimane contro le logiche dell'alta finanza e le politiche adottate dall'amministrazione Obama per fronteggiare la crisi. L'intervento della polizia quando hanno bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn
NEW YORK - Circa 700 persone aderenti alla campagna contro Wall Street sono stati arrestati a New York. Le forze dell'ordine sono intervenute quando i dimostranti hanno bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn e hanno cercato di dar vita a un corteo non autorizzato. "Vergogna, vergogna" hanno urlato i manifestanti all'indirizzo degli agenti. Testimoni hanno raccontato di averne visti moltissimi ammanettati, seduti a terra mentre tre pullman arrivavano per portarli via. Un portavoce della polizia ha dichiarato che erano stati ripetutamente avvertiti che se avessero invaso le corsie destinate ai veicoli sarebbero stati arrestati.
La protesta del movimento Occupy Wall Street (Occupare Wall Street) va avanti da due settimane e si sta estendendo ad altre città, a cominciare da Washington e Boston. Nella capitale del Massachusetts oggi sono state fermate 24 persone che partecipavano a un sit-in non autorizzato davanti alla sede di Bank of America, che di recente ha annunciato un piano di tagli per 30.000 impiegati con risparmi stimati in cinque miliardi di dollari fino al 2014.
A New York circa 2.000 dimostranti - disoccupati, reduci di guerra, studenti, insegnanti - hanno installato il loro quartier generale a Zuccotti Park, tra la Broadway e Liberty Street, non lontano dai grattacieli di Wall Street. E hanno intenzione di rimanerci per mesi. Da lì, verso le 15.30 ora locale, si sono mossi in direzione del ponte di Brooklyn, distante circa quattro chilometri. Una marcia con cui hanno voluto, tra l'altro, sostenere
il movimento SlutWalk contro gli abusi sessuali sulle donne.
Il movimento contesta le politiche seguite per fronteggiare la crisi economica. Il collante è la protesta contro le logiche di Wall Street, ma anche la delusione nei confronti del presidente Barack Obama che a loro avviso, come ogni presidente, è "schiavo" di quelle logiche. L'ispirazione viene dagli "indignados" spagnoli 1, dalle manifestazioni greche 2, dalle rivolte in Egitto e in Tunisia, dalle tende montate dai manifestanti a Tel Aviv 3. "Questa protesta è l'unico modo per rappresentare noi stessi", spiega Norman Koener, un insegnate di Filadelfia venuto a New York per sostenere il movimento anti Wall Street. "Il Congresso non legifera per noi, e Obama è andato contro tutti i suoi propositi iniziali. Non penso che riuscirà ad essere rieletto ma del resto anche i Repubblicani sono un fallimento. A che serve votare per due partiti corrotti? L'unica soluzione è la democrazia che si vede in questa piazza", conclude amaro il professore.
Quello di Zuccotti Park non è un vero e proprio accampamento perché le tende sono proibite. I manifestanti dormono avvolti in teli di plastica. Ma hanno allestito una cucina e una biblioteca e hanno sparso in giro poster in cui sono enunciati chiaramente i loro slogan. Negli ultimi giorni sono andati tra loro il regista Michael Moore e l'attrice Susan Sarandon. Appoggio alla protesta arriva anche dai cittadini di New York: non sono pochi i passanti che offrono donazioni e alcuni ristoranti hanno donato del cibo.
La rete di comunicazione grazie alla quale il movimento si sta allargando ad altre città si avvale dei mezzi ormai imprescindibili in questi casi, YouTube, Facebook, Twitter. Da Zuccotti Park vengono trasmessi aggiornamenti in tempo reale in streaming e si fa circolare un quotidiano, The Occupied Wall Street Journal. Il 6 ottobre il movimento si sposterà a Washington, simbolo della politica e delle lobby, in occasione del decimo anniversario della guerra in Afghanistan.
Cantiere Italia
di Aurelio Magistà
L´edilizia ferma è il simbolo di una nazione immobile. Ma, anche se le previsioni non possono essere ottimistiche, al Made di Milano convegni, mostre, tecnologie e prodotti innovativi creati dalla ricerca mettono in campo le migliori idee per rilanciare il settore. E far ripartire il paese
L´edilizia è ferma, l´Italia è immobile. Quello delle costruzioni come settore trainante dell´economia nazionale è un luogo comune un po´ abusato, ma certo fondato su dati reali. Così, lo scenario di gru spente, betoniere mute, ponteggi vuoti e fondamenta che si riempiono di sterpi ed erbacce diventa metafora di un paese prigioniero di un´impasse, che non è più in grado di edificare il proprio futuro. La nazione come casa comune appare sempre più una dimora che avrebbe davvero bisogno di una bella ristrutturazione, ma senza più risorse per farlo, un cantiere che ha licenziato gli operai. «Dal 2009 abbiamo perso oltre trecentomila addetti», sintetizza Andrea Negri, presidente di Made eventi anticipando uno dei dati della ricerca di Federcostruzioni che verrà presentata agli stati generali dell´edilizia, il 5 ottobre, giorno dell´inaugurazione di Milano Architettura Design Edilizia. Una difficoltà testimoniata anche dal fatto che l´importante appuntamento nel 2010 si sia tenuto a febbraio: il posticipo a ottobre, oltre che per opportunità di date, è stato dettato anche dalla crisi generalizzata. «Lo scorso anno», prosegue Negri, «non siamo riusciti a recuperare i 47 miliardi di euro persi nel 2009 e non ci riuisciremo nemmeno quest´anno, considerato che le previsioni anticipano un calo dell´1,8, con fortissimi sperequazioni: i settori che esportano molto riescono a ritrovare il segno positivo, ma altri, come la filiera del cemento, registrano perdite vicino al 50 per cento». La pazienza sembra proprio finita
L´altro giorno l´assemblea dell´Associazione nazionale costruttori ha contestato duramente il ministro delle Infrastrutture e trasporti Altero Matteoli, colpevole non solo di inciampare nella lettura dell´intervento, per un´evidente scarsa familiarità con il testo, ma anche perché rappresentante del governo che non ha saputo mantenere nessuna delle sue promesse. Matteoli si è giustificato dicendo: «Mi rendo conto dello stato d´animo degli imprenditori in un momento di scarsità di risorse e di crisi economica e finanziaria. Ma di soldi non ce ne sono». Una risposta che suona quasi beffarda per un settore che chiede prima di tutto riforme. «Certo», nota Negri, «dispiace che il governo abbia bloccato tutti i grandi cantieri e le opere infrastrutturali, anche se tra l´approvazione e il reale inizio dei lavori può passare davvero tanto e quindi bloccarli adesso significa non farli partire nemmeno nei prossimi anni. Ma che cosa dire dei quattordici miliardi di euro che lo stato deve alle imprese per lavori già realizzati e non ancora pagati? Non pagare, di questi tempi, significa mettere a rischio la sopravvivenza stessa delle aziende creditrici. E che cosa dire del piano casa, bloccato dalla lotta tra stato e regioni, regioni e comuni? E che cosa dire di un governo che deprime i consumi aumentando l´Iva e spalmando il rimborso del 55 per cento delle spese per migliorare il risparmio energetico delle case su dieci anni invece che su cinque come era all´inizio?».
Lo scenario è questo, ma una nota positiva viene proprio da Made, che malgrado le premesse e la sordità del potere - «Ormai preferiamo parlare direttamente con regioni e comuni perché il governo non c´è», conclude Negri - lancia proposte per un rilancio. Le idee sono ad ampio spettro. Si va dagli scenari un po´ avveniristici ma molto attendibili di Vegetecture e Bring the forest in the city, mostra e convegno che raccontano un futuro (e un presente) in cui l´architettura si integra con le piante vive, fino all´housing sociale, che garantisce case ad alta efficienza, buona qualità e basso costo, fino al pragmatico programma di recupero dei centri storici e dei borghi, «cui si potrebbe applicare l´housing sociale con l´aiuto della Cassa depositi e prestiti», ipotizza Negri, «mettendo insieme due modi virtuosi di rilanciare l´edilizia».
Da segnalare ancora la serie di incontri dedicati a Nuovi materiali e tecnologie: uno sguardo al futuro, tante inziative per tre giorni, in cui diciotto università di tutta Italia presentano i risultati delle loro attività di ricerca che potrebbero essere utili alle imprese. Un tentativo di transfer technology, di trovare applicazioni pratiche all´innovazione creata dalla ricerca. «Fra i temi più importanti», spiega il professor Giovanni Plizzari dell´università di Brescia, «la sicurezza sismica, la riqualificazione del costruito esistente, considerato secondo la legge italiana che la vita media di una nuova costruzione è circa cinquanta anni, la sostenibilità, che passa anche per il riutilizzo di materiali che fino a ieri erano considerati rifiuti, per esempio il calcestruzzo di demolizioni oppure le polveri di acciaieria che possono sostituire gli aggregati fini come le sabbie». Anche perché con i tempi che corrono è davvero meglio non buttare via niente.
L´agricoltura va in città
di Ilenia Carlesimo
Portare orti e coltivazioni vicino ai luoghi abitati e costruire rispettando il collegamento tra cielo e terra. Così si ottiene uno sviluppo sostenibile e una società attenta
Per andare avanti, c´è bisogno di fare un passo indietro e tornare a un´architettura integrata con il paesaggio e le attività agricole. A quando si progettava in base alle stelle: e dunque in base alla specificità del territorio.
È la riflessione che invita a fare Planetarium: la mostra a cura di Fortunato D´Amico - in programma a Made Expo all´interno dell´evento AAA Agricoltura, Alimentazione, Architettura (con le tre A che vogliono essere anche segnale di emergenza) - in cui vengono esposti alcuni progetti di architettura e design dedicati alla costruzione di una società più attenta al rapporto tra attività umane e agricoltura. Tutto restituendo centralità all´astronomia - come ricorda anche il titolo stesso della mostra, che cita uno strumento per riprodurre la volta celeste - e avviando una filosofia del progetto che riporti armonia tra ambiente, cielo, costruzioni ed esigenze dell´uomo.
«L´astronomia» afferma Fortunato D´Amico «è la base per la nuova architettura. Finora è stata sostituita dal petrolio, e questo ha portato a costruire senza distinzione in posti diversi, senza partire dalle caratteristiche del territorio. Ma i popoli vissuti prima di noi ci hanno insegnato altro: a prendere le stelle come riferimento, a costruire rispetto al sistema astronomico, a sfruttare - in senso positivo - le specificità di ciascun posto, dalla luce al clima, al tipo di terreno».
E Planetarium - attraverso esposizioni e dibattiti (con il contributo di enti, progettisti e produttori di tecnologie e materiali) - vuole fare proprio questo: invitare a fermarsi, perché come ricorda D´Amico «è ora di dire basta alle città delle merci», e indicare la strada della sostenibilità. Non solo per tornare a rispettare l´ambiente, «da troppo tempo cacciato dalle città» ma anche per recuperare il paesaggio e riportare l´agricoltura vicino ai luoghi dell´abitare. Come? Mettendo orti nei terrazzamenti dei grandi palazzi e frutteti nei parchi pubblici. O tornando, come già in parte si sta facendo, a verdure di stagione e a chilometri zero.
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Quanto ci piacerebbe se chi parla o scrive di una cosa tenesse presente tutti gli aspetti di quella cosa! Nella fattispecie ci piacerebbe se, quando si parla dell’industria edilizia, delle difficoltà che essa attraversa oggi e delle prospettive per il suo futuro si tenesse conto anche dei danni che la sua abnorme espansione ha provocato. Danni al territorio, ai suoi abitanti, all’economia. Se non si parte da questo tutte le scelte ce ne conseguono sono sbagliate. Ci piacerebbe che si ricordasse sempre che il peso dell’edilizia nel sistema italiano deriva in larghissima misura nel fatto che questo settore dell’industria è lo strumento per rendere possibile il trasferimento di ricchezza dal pubblico e dal comune al privato mediante la mediazione di due fenomeni, poderosi in Italia più che altrove : le distorsioni nell’assegnazione e nella gestione degli appalti di opere pubbliche, che consentono ai “capitalisti” del mattone e del cemento di ottenere elevati profitti senza correre rischi; la legislazione e la prassi dell’urbanistica, che consentono, soprattutto nei decenni più recenti, di accrescere consistentemente gli incrementi della rendita immobiliare e la sua privatizzazione. Così come quando si parla dell’industria meccanica e del suo futuro bisogna ipotizzare un futuro con enormemente meno automobili di quelle che circolano oggi, così bisognerebbe pensare a un’industria delle costruzioni che ampli il suo impegno in settori oggi minoritari, se non quasi evanescenti, come la manutenzione edilizia e urbana, la sistemazione dei terreni extraurbani, i sistemi di mobilità collettiva, il restauro dei beni culturali. Nel dibattito sulla crisi finanziaria (sulla crisi del finanzcapitalismo) sono emerse molte proposte su questo tema; ne abbiamo registrate diverse su eddyburg. Ma esse stentano a diventare pensiero comune. Forse perché sono rivoluzionarie. Poiché implicano che prevalga un’economia che sia finalizzata al ben essere dell’uomo e della società, che sostituisca quella basata della finalizzazione dell’uomo all’arricchimento dei già ricchi e al dissolvimento della società.
Se l’Italia somigliasse al condominio in via Caduti nelle missioni di Pace 3, vivremmo nel Paese più giovane d’Europa. Se in città valesse la proporzione fra bimbi e adulti che fa risuonare di gridolini e pianti notturni il palazzo, il Comune dovrebbe convertire in asili tutti i centri anziani, i musei, i consigli di Zona. «Cento dei 300 abitanti non raggiungono i 10 anni», dice Bianca Giorgi, portavoce del comitato del quartiere Rubattino.
Una situazione simile riguarda tutti gli undici palazzi di nove piani costruiti dal 2003 a oggi nel quartiere alla periferia Est di Milano: 4mila abitanti, destinati ad aumentare con l’innalzamento, già previsto, di altri tre blocchi di edifici.
L’anomalia di Rubattino è il risultato del piano di edilizia voluto dall’assessore all’Urbanistica della prima giunta Albertini, il ciellino Maurizio Lupi. Una convenzione con i costruttori prevedeva per le giovani coppie vantaggi sull’acquisto di case costruite da zero nell’ex area Innocenti. Ha funzionato: hanno comprato, hanno avuto figli e si è creata la piccola città dei bambini. A Milano gli under 10 sono 127.968, il 9,6 per cento della popolazione. Al Rubattino gli abitanti che non hanno finito le elementari sono quasi uno su tre. E qui viene il problema. «Quando il Comune presentò il progetto - racconta Giovanni Berta Mauri, presidente del comitato - ci furono mostrati rendering del quartiere dove avremmo vissuto. Abbiamo comprato casa proprio perché erano previsti parchi gioco, scuole, campi da calcio». E invece niente.
Il sogno del quartiere dei bimbi si è arenato in una giungla di convenzioni non rispettate, lungaggini burocratiche, fondi mai spesi. La scuola (nido, materna ed elementare), per cui il Comune ha stanziato 3,1 milioni nel 2006, non esiste. I bambini che vivono in via Caduti in missione di pace e in via Caduti di Marcinelle ogni mattina devono percorrere oltre un chilometro per raggiungere via Cima o via Pini. «Un gruppo di nonni e genitori li accompagna a piedi in comitiva - racconta Carla, due figli in età da asilo - ma la buona volontà non basta, ci vuole la scuola». Il campo da calcio, promesso dal Comune nel 1998, non ha porte, il terreno è dissestato e l’erba non viene tagliata. In pratica, non c’è. Come non c’è il campo giochi attrezzato. «È una fregatura», taglia corto Berta Mauri. Eppure, senza dovere spendere un euro, il Comune avrebbe gli strumenti per completare il sogno. Ed è quello che i residenti chiedono a Palazzo Marino e al Consiglio di zona.
«Parte dei servizi previsti dal Piano di riqualificazione del 1998 sarebbe a carico di Aedes, l’azienda che ha costruito le case - dice Bianca Giorgi - ora il Comune pretenda quanto dovuto». Oltre alle strutture per i bambini, sono molti gli interventi previsti e mai realizzati. La Casa di cristallo, immersa nel parco, doveva diventare «centro per sport, spettacoli e aggregazione», invece è una struttura abbandonata. Il piano parcheggi, che prometteva «un posto d’auto per ogni famiglia», si riduce a un silos da 800 posti, chiuso dalle 21 alle 8 e la domenica. Al posto della farmacia, in piazza Vigili del fuoco è arrivata una parafarmacia e si aspettano barriere anti-rumore che isolino le case dalla Tangenziale est. L’ultima richiesta all’assessorato provinciale ai Trasporti è del 2 maggio scorso. «Potrebbe essere il quartiere più felice di Milano - dice Rocco, 36 anni, padre di due bimbe bionde - basterebbe che chi amministra tenesse presente che esistiamo».
INACCETTABILE BCE
di Loris Campetti
Volevamo abolire le province e invece adesso ci ordinano di abolire lo stato. Purtroppo non è la vivificazione del sogno di Karl Marx, l'estinzione dello stato. Intanto, il soggetto rivoluzionario committente non è animato dallo spirito dell'internazionalismo proletario ma dal pensiero unico liberista, che è un po' diverso. In secondo luogo, la tappa intermedia non è, come scriveva il grande vecchio di Treviri, la dittatura del proletariato ma quella della finanza. La lettera «segreta» della Bce al governo italiano, pubblicata ieri dal Corriere della sera, è straordinaria tanto per la sua lucida coerenza quanto per la sua prepotenza, una prepotenza legittimata, prima ancora che dalle regole, dalla sua assunzione passiva da parte dei governi di tutti i colori. Se lo dice la Bce è vero, così come ha ragione Standard&Poor's se ci declassa.
Si potrebbe dire che il segreto che copriva la lettera era il segreto di Pulcinella: chi non immaginava che avrebbe ordinato tagli allo stato sociale, alle pensioni e ai salari, privatizzazioni e liberalizzazioni? Eppure, persino il segreto di Pulcinella ci può stupire, e anche farci incazzare. Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, più che una lettera hanno stilato un manifesto ideologico per indicare le ricette draconiane e antipopolari per uscire dalla crisi, ma anche le forme con cui le bastonate dovrebbero essere assestate («decreto legge», il tempo è danaro). Dunque, abbattimento del debito anticipando di un anno l'iter della manovra di luglio, buona ma «insufficiente»; liberalizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni con «privatizzazioni su larga scala»; innalzamento dell'età pensionabile, portando a 65 anni la soglia per le donne anche nel privato, da subito; riduzione dei costi nel pubblico impiego, «se necessario, riducendo gli stipendi». Poi, e qui c'è l'aspetto ideologico e di rivincita classista contro le conquiste dei lavoratori del XX secolo, si ordina a un governo che non aspettava altro, un'ulteriore «riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livelli d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende».
Ora, si può capire - accettare o no è una libera scelta - che la Bce decida i numeri necessari a rientrare dal debito pubblico, e persino i tempi. Non è tollerabile invece che entri nel merito dei provvedimenti, che ordini di bastonare operai e pensionati invece che evasori e ricconi, o di tagliare la spesa sanitaria invece di quella militare, di risparmiare sui salari degli impiegati invece che sul ponte di Messina. Soprattutto, non è accettabile che la Bce ordini al governo di imporre a tutti il modello Marchionne che cancella i diritti fondamentali di chi lavora.
Enrico Letta ha detto che «i contenuti della lettera rappresentano la base su cui impostare politiche per far uscire l'Italia dalla crisi... qualunque governo succederà a Berlusconi dovrà ripartire dai contenuti di quella lettera». Difficile accusare di qualunquismo chi dice «sono tutti uguali, tanto varrebbe tenersi Berlusconi». Una sinistra che sceglie di restare nel recinto di Draghi e Trichet, quello in cui si è prodotta la manovra economica con annesso articolo 8, non va da nessuna parte.
I BUONI MOTIVI PER EVITARE IL SACCHEGGIO
di Ugo Mattei
Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea, la sanità, l'università, un teatro pubblico o cerca di "vendersi" il patrimonio immobiliare (come fatto ieri da Tremonti e Berlusconi) esso espropria la comunità (ognun di noi pro quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un'altra opera pubblica. Nel primo caso infatti si tratta di trasferimento immediato o graduale di un bene o di un servizio dal settore pubblico a quello privato (privatizzazioneliberalizzazione) mentre nel secondo caso il medesimo trasferimento (di una proprietà o di un'attività d'impresa) è dal privato al pubblico. In un processo di privatizzazione il governo cioè non vende quanto è suo ma al contrario quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità, proprio come quando espropria un campo per costruire un'autostrada esso acquista (coattivamente) una proprietà che non è sua. Ciò significa che ogni processo di privatizzazione deciso dall'autorità politica attraverso il governo pro-tempore espropria ciascuno di noi della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell'espropriazione di un bene privato. Tuttavia, mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell'autorità pubblica (Stato) attraverso l'indennizzo e richiede che una legge dichiari la pubblica necessità dell'espropriazione, nessuna tutela giuridica (men che meno costituzionale) esiste nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata.
Di ciò manca completamente la consapevolezza non solo a livello politico, visto che la privatizzazione è considerata un'opzione assolutamente libera e percorribile dal governo in carica per il sol fatto di esserlo (al seminario romano di ieri Tremonti e Letta si comportavano da "padroni" dei nostri beni) ma anche a livello degli operatori e teorici del diritto proprio per la mancanza di elaborazione teorica della nozione di bene comune. Questa asimmetria costituisce un anacronismo giuridico e politico che deve essere assolutamente superato, soprattutto in virtù del mutato rapporto di forza fra gli Stati ed i grandi soggetti economici privati transnazionali. Infatti, le conseguenze di questa asimmetria costituzionale si stanno provando devastanti. Consentire al governo in carica che vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica, è sul piano costituzionale tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l'argenteria migliore per farsi carico della sua propria necessità di andare in vacanza. Purtroppo l'assuefazione alla logica del potere della maggioranza tipica della modernità ci ha fatto perdere consapevolezza del fatto che il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano e non viceversa. Certo, il maggiordomo (governo) deve poter disporre dei beni del suo padrone (beni comuni della collettività) per poterlo ben servire, ma deve esserne amministratore fiduciario (sulla base di un mandato o al massimo di una proprietà fiduciaria) e certo non proprietario libero di abusarne alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente. Infatti i beni comuni una volta alienati o distrutti non esistono più, né sono riproducibili o facilmente recuperabili né per la generazione presente che si dovesse render conto di aver scelto (a maggioranza) un maggiordomo scellerato, né per quella futura cui non si può neppure rimproverare la scelta del maggiordomo. Ecco che la questione dei beni comuni non può che avere valenza costituzionale (o costituente) proprio perché è nelle costituzioni che i sistemi politici collocano le scelte di lungo periodo sottratte al rischio di arbitrio del governo in carica.
All'attuale condizione di inconsapevolezza politica diffusa e di conseguente accettazione generalizzata della visione dominante del mondo (la rivoluzione reaganiana è stata possibile e poi diffusa in tutto il mondo esattamente accettando la logica del maggiordomo dissipatore e del popolo sovrano inconsapevole espropriato) è urgente opporre l'elaborazione teorica e la contestuale tutela militante dei beni comuni come un genere dotato di autonomia giuridica e strutturale nettamente alternativa rispetto tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica (intesa come demanio eo patrimonio dello Stato e delle altre forme di organizzazione politica formale). Ciò è tanto più urgente nella misura in cui il maggiordomo è oggi vittima del vizio capitale del gioco ed è conseguentemente piombato nelle mani degli usurai che paiono assai più forti di lui e che ne controllano ogni comportamento. Nella stragrande maggioranza delle realtà statuali (e l'Italia dal '92 fa tutt'altro che eccezione) infatti il governo, controllato capillarmente da interessi finanziari globali, dissipa al di fuori da ogni controllo i beni comuni utilizzando come spiegazione naturale (e dunque politicamente in gran parte accettata) la necessità autoriproducentesi di ripagare i suoi debiti di gioco. Questa logica perversa che naturalizza uno stato di cose che è tuttavia frutto di continue e consapevoli scelte politiche camuffate da necessità, deve essere smascherata perché i popoli sovrani possano riprendere controllo (ancorché forse tardivo) dei mezzi che consentono loro di vivere un'esistenza libera e dignitosa. Bisogna fra capire a Tremonti e Berlusconi, ma anche a quanti nella cosiddetta opposizione condividono questo realismo politico fatto di false necessità, che il popolo italiano non vuole vendersi il patrimonio per ripagare i debiti di gioco di una classe dirigente incapace e disonesta. Ci abbiamo provato con il referendum ma il maggiordomo vizioso, sorretto da un dispositivo ideologico incostituzionale sostenuto al più alto livello, non pare sentire ragioni. Non ci resta che insistere in tutti i modi possibili. Il 15 ottobre ci darà un'altra preziosa occasione di far sentire chiara e forte la voce del popolo saccheggiato: bisogna invertire la rotta.
L’impianto del Salaria Sport Village ha ottenuto il nulla osta idraulico, e dunque il parere favorevole, il 31 marzo 2008, da parte di Roberto Grappelli, segretario generale dell’ Autorità di Bacino del Fiume Tevere (ABT), dopo che il Commissario delegato ai Mondiali di Nuoto Roma ’09, Angelo Balducci prima e Claudio Rinaldi poi, presentarono il progetto come “opera di interesse pubblico non residenziale, non delocalizzabile e come tale trattata ai sensi degli articoli n.46 delle Norme Tecniche di Attuazione (NTA) del Piano di Assetto Idrogeologico (PAI)”. Il Salaria Sport Village situato tra le aree esondabili del Piano di Stralcio – PS1 dell’ABT, classificate come ‘Zona A’, si trova in un’area dove è vietata qualunque attività di trasformazione dello stato dei luoghi (morfologica, infrastrutturale, edilizia), ma dove possono essere realizzati impianti destinati ad attività sportive compatibili con l’ambiente senza creazione di volumetrie (p.es., un campo di calcio senza spogliatoi attigui), purché venga consentita la libera attività espansiva delle acque per la sicurezza di tutti gli abitanti di Roma e dove l’attività edificatoria è fortemente limitata, salvo che per le opere pubbliche o di pubblico interesse. L’art.46 recita infatti: “all’interno delle fasce fluviali e delle aree a rischio idraulico ed idrogeologico è consentita la realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico purché compatibili con le condizioni di assetto idraulico e/o geomorfologico definite dal PAI e non altrimenti localizzabili”.Quali sono dunque le motivazioni che hanno portato l’ABT a rilasciare il nulla osta idraulico per la realizzazione dl Salaria Sport Village ? Sostanzialmente tre: 1) opera di interesse pubblico 2) opera non delocalizzabile, 3) opera compatibile con le condizioni di assetto idraulico e/o geomorfologico. In dettaglio:
1. OPERA DI INTERESSE PUBBLICO.
Secondo la sentenza del TAR del Lazio nr.00906/2011, a seguito del ricorso nr.2834/2010 presentato dallo stesso Salaria Sport Village, l’impianto non può considerarsi di ‘interesse pubblico’. Ricordiamo che si definisce ‘opera pubblica’ un’opera che prevede la materiale modificazione e trasformazione di un bene immobile, che è destinata all’interesse pubblico e che è realizzata da un ente pubblico. Un’opera di interesse pubblico (poiché i termini “pubblica utilità”, “pubblico interesse”, “interesse generale” sono sostanzialmente equivalenti) deve avere gli stessi requisiti, ma è realizzata da parte di un soggetto privato – anche per perseguire utilità di natura privata – ferma restando la soddisfazione di un concreto interesse pubblico (per esempio un privato può costruire un parcheggio tramite project financing e ricavarne utili per soddisfare l’interesse pubblico, quello di dotare l’area di un parcheggio necessario ai cittadini). Ne segue che ogni opera pubblica è di pubblica utilità (ma non sempre è vero il contrario) e che un’opera di pubblica utilità deve comunque avere un interesse pubblico. Inoltre, la definizione di ‘interesse pubblico’ di un’opera deve essere dichiarata esplicitamente dalla pubblica amministrazione. Il Salaria Sport Village è stato dichiarato opera di interesse pubblico dal Commissario delegato ai Mondiali di Nuoto Roma ’09, pertanto doveva assolvere finalità di carattere generale legate alla sua funzione nel contesto della città di Roma. Non era allora, e non lo è nemmeno ora, possibile assumere ogni generico interesse pubblico (nel caso specifico, mancanza di piscine) per disattendere i limiti imposti dall’ordinamento urbanistico.
Su questo tema si è inserito il Comune di Roma che nella deliberazione di Giunta Comunale n.196 del 30 giugno 2010 ha ribadito l’interesse pubblico e fatto propri i relativi progetti di soli 5 impianti sportivi realizzati su aree di proprietà comunale in occasione dei Mondiali di Nuoto Roma ’09, escludendo da tale determinazione gli impianti di proprietà privata come il Salaria Sport Village. In base a ciò il TAR ha sentenziato quanto segue: “Si rivela un assunto indimostrato che, ai fini in discorso, ogni intervento compreso nel piano delle opere per i Mondiali di Nuoto 2009 sarebbe dovuto essere considerato d’interesse pubblico in quanto realizzato per un’iniziativa rispondente a tale interesse, a prescindere dalla circostanza che sia stato posto in essere su strutture di proprietà pubblica o privata”. Secondo il TAR dunque il Salaria Sport Village non è un’opera di interesse pubblico. Si attende l’espressione del Consiglio di Stato, che doveva esprimersi il 30 giugno.
2. OPERA NON DELOCALIZZABILE
Sostenere che in tutto il IV Municipio non ci fosse un’altra area dove realizzare delle piscine per ‘interesse pubblico’, non è credibile. Anche perché il Comune di Roma ha sempre espresso con chiarezza “parere non favorevole all’ampliamento e al potenziamento degli impianti” (conosciuti anche come ex centro sportivo della Banca di Roma, a Settebagni), così come negativo è stato il parere della Provincia di Roma. Come ha potuto dunque Roberto Grappelli, segretario generale dell’ABT, autorizzare il 31 marzo 2008 come “non altrimenti localizzabili” i 160 mila metri cubi di cemento del Salaria Sport Village in area esondabile? Non si sa, quello che invece si sa è che Grappelli è stato premiato, il 13 agosto del 2008, con la nomina a Presidente di Metropolitane di Roma”, carica che ha mantenuto fino al 19 gennaio 2010, per divenire poi amministratore unico di Officine Grandi Revisioni (OGR), la società interna dell’Atac, società responsabile della manutenzione dei treni delle metropolitane. Così come si sa che l’impresa che ha eseguito i lavori al Salaria Sport Village era della moglie di Diego Anemone, Vanessa Pascucci, a sua volta socia e finanziatrice della moglie di Angelo Balducci di una casa di produzioni cinematografiche . La realtà è che nessuno ha mai detto fino ad oggi perché, per dotare di un impianto natatorio il IV Municipio, si dovesse a tutti i costi posizionarlo proprio lì, sul fiume. Perché non era ‘altrimenti localizzabile’?
3.OPERA COMPATIBILE CON LE CONDIZIONI DI ASSETTO IDRAULICO E/O GEOMORFOLOGICO
L’area del Salaria Sport Village è indicata come area esondabile nel Piano di Stralcio – PS1 dell’ABT e classificata come ‘Zona A’, caratterizzata appunto da costante rischio di naturale esondazione delle acque del fiume Tevere. La normativa su di essa, come riportato all’art.39 del PAI, è quella del 1° Stralcio Funzionale – PS1, “Aree soggette a rischio di esondazione nel tratto del Tevere compreso tra Orte e Castel Giubileo”. Se l’area non fosse stata imposta come ‘opera di pubblico interesse’ dalle dichiarazioni del Commissario Delegato, sarebbe stato al massimo consentita la “realizzazione di aree destinate ad attività sportive compatibili con l’ambiente senza creazione di volumetrie” (art.4, c.4, lett.f), il tutto armonizzato con le norme tecniche del piano paesistico territoriale n.4 “Valle del Tevere” della Regione Lazio. In pratica, non poteva esistere il Salaria Sport Village.
Invece, dichiarandolo come ‘opera di pubblico interesse’, il caso del Salaria Sport Village è stato fatto rientrare sotto l’art.7, in cui in pratica si impone soltanto che venga convocata una Conferenza dei Servizi per studiare, con l’ABT, come realizzare l’opera prevista. L’ABT, in questi casi, deve imporre una serie di prescrizioni realizzative che devono essere rispettate alla virgola, compresa tutta la parte relativa all’impiantistica. La mancata attuazione di queste prescrizioni, e dunque l’eventuale riduzione dell’area a disposizione dell’espansione delle acque del Tevere in caso di esondazione, è motivo di mancato rilascio del nulla osta idraulico da parte dell’ABT. Questo vale soprattutto per l’area subito a monte di Castel Giubileo, in sinistra idraulica, dove le quote del terreno sono tali per cui la S.S. Salaria può essere inondata per circa 2 Km, così come anche il centro di Settebagni (la ferrovia Roma – Firenze si trova invece in quota di sicurezza). Le linee tecniche di indirizzo per il rilascio dei pareri in materia di concessioni edilizie prevedono per esempio che le quote di calpestio dei manufatti edilizi che possono essere realizzati nelle aree a rischio di esondazione, devono essere a quota superiore a quella del massimo livello prevedibile delle acque in caso di esondazione. Analogamente, la struttura portante demandata a sostenere il piano di calpestio, deve essere realizzata mediante i cosiddetti “pilotis” ad elementi verticali, la cui dimensione massima di ingombro non può essere superiore a 100 cm posti ad un interasse non inferiore a 9.00 mt a luce libera, senza tamponature. E così via, con tutte le eccezioni dei casi ‘non residenziali’ in cui quasi sicuramente è stato fatto rientrare il Salaria Sport Village. Ora di queste prescrizioni non è mai stata data informazione e sarebbe opportuno che l’ABT, per maggior chiarezza del suo operato, le rendesse pubbliche al fine di permettere non certo un’ispezione popolare sul realizzato, ma per chiarire tutti i dubbi che ancora esistono sulla regolarità dei controlli effettuati prima del sequestro dell’opera.
Riassumendo: fino ad oggi del Salaria Sport Village si è parlato in termini di vicinanza al fiume, cioè della sua collocazione in area esondabile, incolpando solo il Comune di Roma per non aver controllato i poteri del Commissario Delegato. In realtà l’esistenza del Salaria Sport Village la si deve al nulla osta idraulico dell’ABT, nulla osta che si basa sui tre punti sopra esposti. Gli scenari futuri allora sono due, entrambi legati al parere del Consiglio di Stato. Se riconoscerà che non è opera di pubblico interesse, come già sostenuto dal TAR, tutti gli impianti vanno demoliti perché l’ABT dovrà gioco forza ritirare il nulla osta idraulico (per questa ragione LabUr non ha mai compreso le motivazioni della raccolta di firma per l’acquisizione a patrimonio pubblico del Salaria Sport Village). Se invece il parere del Consiglio di Stato rovescerà l’espressione del TAR, bisognerà verificare che tutte le prescrizioni dell’ABT siano state rispettate, cosa che fino ad oggi nessuno ha mai fatto (che ci risulti, neppure la Procura, dove l’ABT è stata ascoltata sul caso ben 9 volte). Resta l’amarezza che nessuno, ma proprio nessuno, ha mai fatto rispettare la Legge sul Salaria Sport Village, creando un groviglio tale di interpretazioni che lasciano solo spazio a chi ha interessi, sicuramente non pubblici.
LabUr (laboratorio di urbanistica) è un’associazione no profit, con sede a Roma, il cui impegno essenziale è aiutare tecnicamente, culturalmente e politicmente i comitati, le associazioni e i gruppi di cittdinanza attiva nelle loro vertenze per la difesa del territorio, sulla base i principi molto vicini a quelli di eddyburg e della sua scuola.
Comune e Regione obbligati ad andare d'accordo, con Palazzo Marino che entra con il 34,6 per cento (quindi la medesima quota del Pirellone) nella società Arexpo creata per l'acquisizione delle aree dell'Esposizione universale. E con il consiglio comunale che potrà dire l'ultima parola sui piani di sviluppo per il dopo Expo 2015: avrà poteri decisionali di indirizzo e anche di veto. Mettendo sul piatto 32 milioni di euro la giunta Pisapia ha deliberato ieri il passaggio molto atteso.
Mettendo sul piatto 32 milioni di euro la giunta Pisapia ha deliberato ieri il passaggio molto atteso dell'ingresso in Arexpo, con coordinate che danno forma, secondo l'assessore a Expo Stefano Boeri, a «una società di scopo e non immobiliare».
Il provvedimento ora dovrà passare al vaglio del consiglio comunale, presumibilmente entro la metà di ottobre, e prevede un esborso per il bilancio di Palazzo Marino di 28 milioni di euro, perché quattro saranno scontati per il conferimento di terreni di proprietà comunale. Sette milioni saranno versati subito, mentre la restante parte arriverà in quattro rate annuali.
L'assetto societario di Arexpo vede accanto al Comune e alla Regione la Fondazione Fiera con il 27,7 per cento (ieri anche il consiglio generale di Fondazione Fiera ha approvato all'unanimità la partecipazione nella società), la Provincia con il 2 e il comune di Rho con l'1 per cento e stabilisce che per ogni decisione ci sia l'accordo, appunto, del Pirellone e di Palazzo Marino.
Soddisfatto l'assessore. «Le indicazioni del consiglio comunale — spiega — ci hanno dato una grande forza nella trattativa. È stato sancito il carattere pubblico della società, che sarà una società di scopo e non immobiliare. E stata inoltre definita la possibilità del Comune di avere un ruolo effettivo sull'iter di approvazione delle scelte e degli indirizzi per le fasi successive». L'impostazione di Boeri, però, non piace alla Regione: «Sbaglia il Comune a metterla sul piano dei diritti di veto — fa sapere il Pirellone — La nostra è un'ottica puramente costruttiva».
La delibera di ieri fissa dunque alcuni passaggi importanti, tra cui il costo «congruo» delle aree. «I prezzi restano indicati alla forbice più bassa, 164 euro al metro quadrato», segnala ancora Boeri.
Nel Cda di Arexpo siederanno 5 membri, 3 con diritto di voto (Comune, Regione e Fondazione Fiera, e due osservatori, la Provincia e il comune di Rho. Ma l'assessore assicura che i costi «saranno bassissimi»: «Il presidente sarà a costo zero e ai consiglieri verranno rimborsate solo le spese».
Sugli scenari successivi all'Esposizione universale l'assessore ricorda che il Comune ha di fronte «la stella polari del referendum». «Sono in campo varie ipotesi — sottolinea — ma il futuro dell'area è legato a un interesse collettivo pubblico».
Ma l'aspetto su cui l'assessore delegato a Expo insiste è «l'ampissima garanzia di governo e controllo sulla trasformazione dell'area». «È un risultato politico di grande valore», commenta. Boeri infine ringrazia gli interlocutori «che sono stati disponibili a rivedere posizioni inizialmente rigide».
Il 25,26 e 27 ottobre il Bie sarà a Milano. Il giorno prima il sindaco e l'assessore inviteranno tutte le comunità straniere presenti in città a una grande convention su «come lanciare Expo».
Intanto si lavora anche sul fronte della deroga al Patto di stabilità. Giuliano Pisapia ieri ha annunciato di essere stato convocato per il 5 ottobre in audizione davanti alla commissione Lavori pubblici del Senato.
«È un segnale che il Parlamento si sta occupando del problema — afferma il sindaco — in quella sede si discuterà anche la deroga al Patto per Milano, e spero anche per la Provincia e per la Regione, per tutte le spese di investimento per Expo 2015. È un passaggio fondamentale per le istituzioni, anche perché vogliamo ricordare ancora una volta che l'evento riguarda tutto il Paese e non solo Milano».
Salvate il Parco Agricolo Sud. Dalle ruspe, dalla cementificazione, da strade e autostrade «che rischiano di frantumare i poderi dei contadini», dalla destrutturazione di un patrimonio «fondamentale per Milano». Il presidente onorario del Fai, Giulia Maria Mozzoni Crespi, rinnova il suo appello a difesa della cintura verde cittadina, 47 mila ettari di coltivazioni, cascine, abbazie. E con lei scendono in campo gli agricoltori e il Comitato Expo, sostenuti da Intesa Sanpaolo. Con una priorità: far conoscere ai milanesi le ricchezze del Parco Agricolo Sud. Il primo appuntamento: domani in piazza dei Mercanti e domenica nelle campagne. All'aria aperta.
Un weekend di itinerari storici, naturalistici, di laboratori, assaggi, visite guidate, gite in bicicletta. Si chiama «Via Lattea» l'iniziativa promossa dal Fai, dalla Confederazione italiana agricoltori, da Expo. Il progetto è quinquennale, da qui al 2015 i milanesi saranno accompagnati alla (ri)scoperta del Parco Sud, «polmone» agricolo della città (ma non sufficiente a nutrirla: l'autonomia alimentare della Provincia è di circa 35 giorni) e culla identitaria della millenaria cultura lombarda.
Ecco quindi il programma. Domani, dalle 10 alle 18, tra piazza e via Mercanti saranno allestiti stand con degustazioni di prodotti lattiero caseari. Si possono portare anche i bambini: per loro ci saranno laboratori, pannelli illustrativi e una piccola fattoria con gli animali. E il giorno dopo si parte: domenica i volontari del Fai Lombardia accompagneranno i milanesi lungo quattro percorsi (pedonali e ciclabili) nei luoghi della produzione del latte (per informazioni, www.fondoambiente.it). C'è il circuito Albairate-Cascina Forestina, quello di Gaggiano, di Zibido San Giacomo, del Parco delle Risaie. Natura e cultura. In mezzo, chiese, cascine, musei, borghi, marcite.
La filosofia, tanto semplice quanto efficace, è quella che accompagna il Fai dal 1975: «Si difende ciò che si ama e si ama ciò che si conosce». Obiettivo non facile. «Ma siamo una squadra unita», dice il vicepresidente esecutivo del Fai, Marco Magnifico. E combattiva: «È necessario conservare questo patrimonio che non è riproducibile — è il messaggio di Giulia Maria Mozzoni Crespi al presidente della Provincia, Guido Podestà —: non servono nuove autostrade (dalla Brebemi alla Tem) che frammentino il territorio». La risposta di Podestà: «Condivido, ma non posso dire che tutto è semplice». Sarà una lunga battaglia. Ma al Fai ci sono abituati: «Certe tendenze vanno invertite. Dobbiamo pensare al domani, non all'oggi».
Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario concentrano i poteri, alimentano la recessione, espropriano la democrazia. Si deve ripartire dal modello sociale europeo e da un’autorità politica democratica
Quali sono stati i punti deboli della formazione dell'Ue?
La Ue è nata con due gravi difetti strutturali, insiti nello statuto e relative funzioni della Commissione europea e della Bce. La Ce opera di fatto come il direttorio della Ue, ma non è stata eletta da nessuno, le sue posizioni differiscono sovente da quelle del Parlamento europeo, organismo eletto, e appare in troppi casi funzionare come la cinghia di trasmissione dei dettami iperliberisti dell’Ocse e dell'Fm
Da parte sua la Bce è una banca centrale di nome, che però opera solo parzialmente come tale. I paesi entrati nell’euro hanno rinunciato al potere più importante che uno stato possa detenere: quello di creare denaro. Oggi solo la Bce può farlo. Ma lo fa male e in modo indiretto, ad esempio concedendo per anni imponenti flussi di credito alle banche che poi creano denaro privatamente con i prestiti che concedono a famiglie e imprese. Il maggior limite della Bce deriva dal suo statuto, che le impone come massimo scopo quello di combattere l’inflazione, laddove una banca centrale dovrebbe avere tra i suoi scopi anche la promozione dello sviluppo e dell’occupazione. Va notato ancora che la sua indipendenza dai governi maschera in realtà la sua dipendenza dal sistema finanziario e la sua mancanza di responsabilità sociale in nome di un ottuso monetarismo. Democratizzare la Ce e la Ue sarebbero compiti impellenti per i governi europei, se non fosse che per governi di destra, come di fatto son diventati quasi tutti, in fondo una governance non democratica e socialmente irresponsabile della Ue non è poi un gran male.
La centralità della moneta unica, come esclusivo campo d'unità europea, quali vuoti ha prodotto nello sviluppo economico degli stati membri?
Gli stati della zona euro hanno ceduto il potere di creare denaro, com’era necessario per creare una grande realtà politica ed economica quale è la Ue, ritrovandosi poi senza una banca centrale che presti loro, in caso di reale necessità, il denaro occorrente. La Bce dovrebbe operare come un prestatore di ultima istanza – così sostengono vari economisti – non diversamente da quanto avviene con altre banche centrali quali la Fed o la Bank of England. Tuttavia il suo statuto per ora le impedisce di assumere in modo diretto un simile fondamentale ruolo e potere. Ciò ha influito negativamente in tutta la Ue sulla possibilità di condurre politiche economiche e sociali adeguate alla situazione dell’economia europea e mondiale. Le economie più forti, quali la Germania e la Francia, ne sono uscite meglio – non da ultimo perché i banchieri tedeschi e francesi che siedono nel consiglio della Bce han fatto tutto il possibile per evitare troppi danni alle banche dei loro paesi.
Cos'è mancato di più, nel processo unitario, dal punto di vista sociale?
Se c’è un elemento che più di ogni altro potrebbe e dovrebbe fondare l’unità della Ue è il suo modello sociale, cioè l’insieme dei sistemi pubblici intesi a proteggere individui, famiglie, comunità dai rischi connessi a incidenti, malattia, disoccupazione, vecchiaia, povertà. Sebbene il modello sociale europeo presenti notevoli differenze da un paese all’altro, nessun altro grande paese o gruppo di paesi al mondo offre ai suoi cittadini un livello paragonabile di protezione sociale – la più significativa invenzione civile del XX secolo. Ne segue che i governi Ue che attaccano lo stato sociale sotto la sferza liberista della troika Ce, Bce e Fmi, nonché del sistema finanziario internazionale, minano le basi stesse dell’unità europea, oltre a fabbricare recessione per il prossimo decennio e piantare il seme di possibili svolte politiche di estrema destra.
Alla luce della crisi attuale, perché l'Ue appare impotente?
Anzitutto perché non ha ancora alcuna istituzione che svolga qualcosa di simile alle funzioni di un governo centrale democraticamente eletto e riconosciuto dalla maggioranza dei suoi cittadini. Di conseguenza ciascun paese pensa per sé. A ciò contribuisce pure lo strapotere del sistema finanziario internazionale, in assenza di qualsiasi riforma che sappia arginarlo. Inoltre, se si guarda ai singoli paesi, i partiti al potere hanno un orizzonte decisionale di pochi mesi, ovvero pensano soprattutto alle prossime elezioni, mentre dovrebbero ragionare su un arco di più anni. Peraltro l’impotenza deriva anche da una diagnosi sbagliata – quando non sia volutamente artefatta – delle cause della crisi di bilancio. Quest’ultima viene concepita come se derivasse da un eccesso di uscite generato dai costi dello stato sociale, laddove si tratta in complesso di un calo delle entrate che dura da oltre un decennio. Esso è stato causato da diversi fattori: i salvataggi delle banche, che solo nel Regno Unito e in Germania sono costati un paio di trilioni di euro; le politiche di riduzione dell’onere fiscale concesse ai ricchi, che hanno sottratto centinaia di miliardi ai bilanci pubblici (in Francia, ad esempio, tra i 100 e i 120 miliardi nel decennio 2000-2009); infine il fatto che grazie alle delocalizzazioni le corporation pagano le imposte all’estero, dove tra l’altro sono minime, e non nel paese d’origine. Ancora in Francia, per dire, si è molto discusso del caso Total, il gigante petrolifero che nel 2010 ha conseguito 12 miliardi di utili, ma in patria – del tutto legalmente – non ha pagato un euro di imposte (salvo qualche milioncino che vale come indennizzo ai comuni dove opera ancora qualche suo impianto). Ora se un governo è ossessionato dall’idea che il deficit sia dovuto unicamente a un eccesso di spesa sociale punta a tagliare quest’ultima, cercando però al tempo stesso di evitare ricadute negative in termini elettorali, e per la medesima ragione si rifiuta di accrescere le entrate alzando le imposte ai benestanti, o alle imprese delocalizzate. È ovvio che non fa differenza se quel governo sa benissimo che la diagnosi è errata, ma la abbraccia per soddisfare le forze economiche cui ritiene di dover rispondere. In ambedue i casi il risultato sono manovre che picchiano soltanto sui più deboli, mentre le radici reali della crisi non sono nemmeno intaccate.
I vincoli di bilancio quali conseguenze hanno sull'economia «reale»?
Le più visibili sono l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario. I licenziamenti in tanti paesi di centinaia di migliaia di dipendenti della PA, insegnanti compresi, i tagli alle spese dei ministeri ed ai servizi resi dai comuni, a partire dai trasporti pubblici, l’aumento delle imposte indirette come l’Iva, comportano nell’insieme una riduzione dei consumi e con essa una minor domanda di beni e servizi alle imprese. Queste reagiscono licenziando o assumendo quando capita solo con contratti a termine, il che genera altra disoccupazione, in un minaccioso avvitarsi dei processi economici verso il basso.
Ha senso, come alcuni fanno, auspicare il default o il ritorno alle monete nazionali?
Sarebbe una pura follia. In primo luogo il ritorno a diciassette monete diverse solleverebbe difficoltà tecniche assai complicate da superare, poiché l’integrazione economica, finanziaria e legislativa tra i rispettivi paesi ha fatto nel decennio e passa dell’euro molti passi avanti. Inoltre parecchi paesi avrebbero a che fare con tassi di scambio catastrofici. Tra di essi vi sarebbe sicuramente l’Italia. Il giorno dopo un eventuale ritorno alla lira ci ritroveremmo con il franco a 500 lire (era a 300 quando venne introdotto l’euro), il marco a 2.000 (era a 1.000) e la sterlina a oltre 3.000. A qualche imprenditore simili tassi possono far gola, poiché favoriscono le vendite all’estero; ma essendo quella italiana un’economia di trasformazione, che all’estero deve comprare tutto, dal gas ai rottami di ferro, il costo degli acquisti dall’estero le infliggerebbe un colpo insostenibile.
Gli stati, i governi hanno ancora qualche margine di manovra e qualche peso sulle decisioni di fondo o tutto è nelle mani di Fmi, Bce o Commissione di Bruxelles?
La troika in questione ha di fatto espropriato i paesi Ue della loro sovranità – con l’eccezione della Germania per la sua capacità produttiva e del Regno Unito perché ha conservato una moneta sovrana. Senza le riforme strutturali della Ue, implicite in ciò che dicevo all’inizio, essa continuerà a dettar legge.
Che giudizio dà sulla manovra italiana? E sull'atteggiamento un po' rassegnato – sul merito – delle opposizioni parlamentari?
La manovra italiana è una fotocopia sbiadita delle solite ricette che la troika di cui sopra trasmette regolarmente ai paesi in difficoltà. Di certo essa accrescerà la disoccupazione, impoverirà ulteriormente il paese, ponendo così le basi per dieci anni di recessione – teniamo conto che il nostro Pil è ancora parecchi punti al disotto del livello raggiungo nel 2007 – e per giunta non servirà in alcun modo a ridurre il debito pubblico. Su questo fronte l’opposizione difficilmente poteva opporsi all’ultimo momento, poiché quando la nave sta affondando uno cerca di salvare il salvabile, piuttosto che continuare a insistere sui difetti di progettazione della nave. Peraltro le opposizioni hanno avuto anni per chiamare i cittadini a discutere su tali difetti, quelli della povera scialuppa del governo ma anche quelli della nave Ue, e provare a disegnare insieme con loro un progetto diverso. Non mi pare che finora le loro proposte abbiano lasciato traccia di sé, nella memoria dei cittadini o nei documenti.
È una storia da kamasutra del diritto. Un collegio arbitrale interviene come da prassi nel contenzioso tra una società di costruzioni e la pubblica amministrazione. Dà ragione alla società, la Condotte d’Acqua del gruppo Ferfina, ex Ferrocemento, come avviene nel 95 per cento dei casi. La Condotte, privata, è presieduta dall’ex ministro Franco Bassanini, che presiede anche la Cassa Depositi e Prestiti, una delle maggiori casseforti statali.
Il commissario straordinario per la realizzazione dell’opera presenta un esposto alla Procura della Repubblica di Roma, segnalando presunte irregolarità nell’arbitrato. L’Avvocatura dello Stato, a sua volta, impugna l’arbitrato, sostenendo che, dei 38 milioni di risarcimento assegnati, alla Condotte non deve andare neppure un euro. In più la stessa Avvocatura nota che i tre arbitri, chiedendo il pagamento di una parcella da 2 milioni di euro per il disturbo, hanno un po’ esagerato, e sostiene che dovrebbero prendersi non più di 150 mila euro. E qui il cerchio si chiude: sapete chi è il presidente del collegio arbitrale contestato? Sergio San-toro, presidente dell’Autorità di vigilanza sugli appalti pubblici. Santoro, 60 anni, ha il tempo di fare tre lavori insieme: consigliere di Stato, presidente dell’Autorità di vigilanza, libero professionista in grado di svolgere missioni così complesse da farsi pagare per un giudizio arbitrale una parcella di circa 800 mila euro.
Riassunto: un commissario governativo e l’Avvocatura dello Stato agiscono legalmente contro il presidente dell’Autorità di vigilanza sugli appalti per la sua attività privata nel settore degli appalti. Troppo complicato? Vediamo allora la storia nella sua concretezza.
Da trent’anni l’Acquedotto Pugliese vuole realizzare il raddoppio della galleria Pavoncelli, che porta l’acqua dall’Irpinia alla Puglia. Sono già state bandite quattro gare d’appalto. Nei primi tre tentativi fatalmente i lavori si sono interrotti dopo poche settimane, dando luogo a contenziosi. Prima fu la Pontello (oggi Btp, società che fa capo a Riccardo Fusi) a uscire dall’appalto con una risarcimento di oltre tre miliardi di lire. Poi toccò all’Impregilo (allora Cogefar-Impresit, gruppo Fiat) portarsi a casa un assegno da 18 milioni di euro. In tutto 21 milioni di euro pubblici spesi senza ottenere niente, come ricorda l’interrogazione presentata due giorni fa dal deputato Pd Raffaella Mariani.
Adesso in ballo c’è la Condotte. Ha vinto il terzo appalto, ha realizzato lavori per 7 milioni di euro - secondo la denuncia dell’assessore pugliese alle Opere pubbliche, Fabiano Amati - e ha aperto un contenzioso nell’estate del 2009. Il 24 novembre 2009 si è insediato il collegio arbitrale e compie un atto inedito, chiedendo come primo atto un anticipo da 765 mila euro alla Condotte. Quattro mesi dopo lo stesso collegio chiede un anticipo di pari importo al Commissario straordinario Roberto Sabatelli. Il quale non ci sta, chiede un parere all’Avvocatura dello Stato, forse perché chiedendo all’Autorità di vigilanza gli sarebbe venuto da ridere, e gli viene detto di non pagare, perché l’istituto del pagamento anticipato agli arbitri non esiste in nessuna delle migliaia di leggi in materia. Intanto gli arbitri lavorano, e alla fine danno ragione alla Condotte, assegnandole un risarcimento di 38 milioni. A questo punto le carte bollate si arroventano. Il commissario Sabatelli fa partire il quarto bando per la costruzione della galleria Pavoncelli bis, e la Condotte fa ricorso al Tar, ma lo perde. Sabatelli intanto fa altre due mosse: un esposto alla magistratura sull’operato del collegio arbitrale, composto, oltre che da San-toro, dagli avvocati Federico Tedeschini di Roma e Luigi Volpe di Bari; e la richiesta all’Avvocatura dello Stato di impugnare l’esito dello stesso arbitrato. Che non solo assegna alla Condotte un risarcimento da 38,3 milioni di euro, ma accolla alle casse dello Stato anche le spese dell’arbitrato: 1 milione 978 mila euro per i tre membri del collegio e 423 mila euro per il consulente Marco Lacchini che ha redatto la relazione tecnica di 234 pagine. Secondo l’Avvocatura ai tre arbitri non dovrebbero andare più di 150 mila euro. Finora ne hanno già incassati in tutto 979 mila, quindi se il commissario straordinario vincesse dovrebbero restituirne oltre 800 mila.
Beffa finale. Il 15 giugno scorso, pochi giorni prima della nomina di Santoro, il suo predecessore all’Autorità di vigilanza sugli appalti, leggendo la relazione annuale al Senato, ha detto: “Le stazioni appaltanti mostrano una scarsa capacità di gestione degli appalti pubblici che spesso porta ad un prolungamento dei tempi di realizzazione dei lavori nonché ad inasprire il livello di contenzioso”. E che cosa fanno i membri dell’Autorità per ridurre il contenzioso? Gli arbitrati. Il conflitto di interessi elevato a kamasutra.
La tramvia di Desio va in pensione. Oggi, dopo 130 anni, i vagoni che hanno trasportato generazioni di studenti e lavoratori dalla Brianza a Milano si fermeranno dopo l’ultima corsa delle 23.10. Carrozze vecchie di quarant’anni e rotaie senza manutenzione da due anni l’hanno reso «pericoloso per gli utenti», ha sentenziato il ministero delle Infrastrutture in una relazione di sei mesi fa. I Comuni attraversati dal tracciato, Desio e Nova Milanese su tutti, però non ci stanno e annunciano battaglia.
Dal centro della cittadina brianzola fino al capolinea a Milano, in via Ornato, in zona Niguarda, le rotaie in alcuni punti sono così malmesse che i conducenti devono procedere alla velocità di cinque chilometri all’ora. «La linea non viene chiusa, solo sospesa per disposizione del Comune di Milano e di Atm. Mantenerla in attività non aveva senso, in gioco c’è l’incolumità dei passeggeri», taglia corto Giovanni De Nicola, assessore provinciale ai Trasporti. Per ora, al posto delle carrozze scende in campo un servizio sostitutivo di autobus, che si dovrà fare carico dei mille pendolari che ogni giorno usano il tram. «Bus di 18 metri che finiranno per congestionare ancora di più il traffico - replica Roberto Corti, sindaco di Desio - . Ancora non ci hanno nemmeno fornito il percorso e non sappiamo dove sono previste le fermate».
Entro marzo dovrebbero partire i lavori per spostare la vecchia linea che passa dal centro della cittadina brianzola per portarla in periferia, in via Milano. Il progetto, 230 milioni di investimento, è pronto da dieci anni. Il 60 per cento dell’opera è già stato finanziato dal governo, il restante 40 è da suddividere tra Regione, Province di Milano e Monza e Comuni interessati. «Col Patto di stabilità voglio vedere dove troveremo i soldi», si domanda Corti. «In primavera partiranno i lavori e per giugno 2014 tutto sarà a posto», assicura l’assessore. Ma il primo cittadino di Nova Milanese, Laura Barzaghi, è scettico: «Nel 1981 a Vimercate tolsero il tram dicendo che a breve sarebbe arrivata la metropolitana, tutto era pronto. A distanza di trent’anni i cittadini aspettano ancora che inizino gli scavi. Non siamo disposti a fare la stessa fine».
postilla
Quella di smantellare artificiosamente le reti di linee tranviarie di superficie usando via via motivazioni tecniche per modernizzazioni, sicurezza, diseconomicità e compagnia bella, è una pratica iniziata verso la metà del ‘900 dalle grandi compagnie automobilistiche americane a livello nazionale, che faceva tra l’altro anche, localmente, il gioco di alcuni speculatori immobiliari. Là si acquisiva la maggioranza azionaria della compagnia e poi con sotterfugi di vario genere (finanziari, accordi apparentemente vantaggiosi con la pubblica amministrazione, ricerche addomesticate ..) si arrivava al classico trionfo del mezzo privato, e comunque della rete stradale con la sua controparte di “indifferenza localizzativa” e impossibilità di politiche pubbliche territoriali serie. Non è un sospetto da urbanisti dietrologi, ma un fatto documentato da parecchie ricerche storiche negli archivi delle compagnie colpevoli. Si veda ad esempio il bell'articolo di Al Mankoff sul sito istituzionale Trasporti New Jersey.
Noi, indipendentemente da modi e tempi, seguiamo a ruota: ha senso, in un’epoca di discussione su mobilità dolce, spazi condivisi, primato del trasporto su rotaia in diretto collegamento agli spazi pubblici centrali e alla multifunzionalità, cancellare, e/o decentrare una linea del genere? Credo che la risposta non sia necessaria, e neppure un esercizio di dietrologia. Al massimo, di psichiatria (f.b.)
Personalmente e a nome della ReTe dei Comitati per la difesa del territorio esprimo piena solidarietà a Lucia Carlesi, consigliere comunale di San Casciano per il gruppo Laboratorio per un’altra San Casciano – Rifondazione Comunista, che nel corso di una movimentata seduta, nel pomeriggio del 29 settembre, è stata oggetto di violenze verbali, di insulti e di un vero e proprio tentativo di linciaggio politico.
L’occasione è stata la discussione su un ordine del giorno presentato da Lucia Carlesi a proposito dei reperti archeologici (etrusco-ellenistici, romani, settecenteschi) venuti alla luce nel corso della costruzione del nuovo stabilimento Laika Caravans al Ponterotto (sulla vicenda tutta la documentazione è reperibile su: archeopatacca.blogspot.com ).
L’ordine del giorno è stato spostato al primo posto per dar modo a un folto gruppo di dipendenti Laika di partecipare alla seduta, con cartelli e striscioni dentro e fuori la sala comunale. In questo modo si è voluto mettere in violenta contrapposizione chi difende il patrimonio culturale del territorio da chi difende il posto di lavoro, scaricando sugli ambientalisti la responsabilità dei ritardi nella realizzazione del progetto Laika, che prese il via ormai dieci anni fa.Davvero la colpa dei ritardi è degli ambientalisti? Non sapevamo di essere così potenti …
Ma andiamo con ordine: la trattativa per l’acquisto del terreno da parte di Hymer AG, la multinazionale tedesca che aveva rilevato l’azienda della Sambuca, iniziava nel 2001, sotto la guida del Sindaco di San Casciano e con l’accordo dei sindacati. Il terreno, di circa 15 ha (di cui 10 in fondovalle), era a destinazione agricola e quasi tutto faceva parte della fattoria di Sorbigliano, un’azienda agricola in perenne crisi. Il consiglio di amministrazione di Laika ne deliberava l’acquisto il 9 settembre 2002, e il consigliere delegato assicurava che i lavori si sarebbero conclusi (addirittura!) entro l’estate del 2004, mentre per il momento nessun atto ufficiale prevedeva il cambio di destinazione. Nell’estate del 2004 finiva però la legislatura, lasciando in eredità soltanto una mozione approvata dal Consiglio Comunale che auspicava il trasferimento di Laika al Ponterotto. La nuova amministrazione si impegnava in una complicata procedura urbanistica, barcamenandosi fra un Piano Strutturale appena adottato (ma non approvato, e poi abbandonato) e un vecchio PRG. Si scelse la via della variante a quest’ultimo, che venne adottata dopo ben due anni, nell’agosto del 2006. Ed è solo in questa fase che le associazioni ambientaliste (Legambiente, WWF, Italia Nostra) entrano in campo presentando una serie di osservazioni, come previsto dalla legislazione regionale. Da notare che una di queste osservazioni segnalava che la variante mancava del tutto della necessaria verifica cartografica di dettaglio, perché era disegnata in scala 1:10.000: ma neppure questa osservazione fu presa minimamente in considerazione, mentre un serio rilievo del terreno avrebbe consentito già allora l’indagine di archeologia preventiva.
A questo punto le associazioni ambientaliste hanno provato, inutilmente, a fermare l’operazione, denunciando la ferita che un capannone così grande (300.000 mc!) avrebbe inferto al territorio e proponendo alternative in zone industriali vicine: alla stessa Sambuca, dove nel frattempo si liberavano numerosi spazi, o alla Zambra in comune di Barberino, per non parlare delle aree industriali in val d’Elsa, dove si è formato il vero e proprio distretto della camperistica. Nessuno ha mai sostenuto che Laika non dovesse costruire un nuovo capannone, ma si contestava la scelta del Ponterotto. Si contestava con ricorsi ed esposti: che non hanno minimamente inciso sui tempi della progettazione del capannone stesso. Forse era l’azienda che non aveva molta fretta? Fatto sta che per la concessione edilizia dobbiamo aspettare il 2008, e per l’approvazione di un’ulteriore variante (richiesta dall’azienda stessa) il 2009. Ed eccoci al presente: appena cominciamo i lavori, nel 2010, saltano fuori i reperti.
Tutti sapevano, al Ponterotto, che quella era una zona “sensibile” all’archeologia, bastava grattare il terreno per trovare dei cocci: l’indagine preventiva (che evidenzia le strutture murarie) avrebbe evitato di trovarsi impreparati proprio al momento in cui i lavori dovevano iniziare. I lavori del cantiere venivano seguiti giorno per giorno da chi si aspettava che qualcosa venisse fuori: e siccome quei reperti non passavano inosservati fu necessario coinvolgere la Soprintendenza: altro tempo perso, che non dipendeva certo dagli ambientalisti, i quali stavano a vedere e aspettavano di capire quali fossero gli sviluppi della situazione.
Ma da questo momento in poi, per più di un anno, della questione non si sa più niente, in Comune si trincerano dietro un “è tutto in mano alla Soprintendenza”, alla Soprintendenza rispondono con un “lasciateci lavorare, è tutto sotto controllo”. Fino a scoprire, ma soltanto nello scorso agosto, che era già stato proposto (da Laika) e autorizzato (dal Ministero) il trasferimento dei reperti in altra sede. Di questo trattava, appunto l’ordine del giorno di Carlesi: se è vero, come sostengono gli archeologi più qualificati, che il trasferimento fuori dal contesto di reperti di questo tipo non ha senso, perché accordarsi (in gran segreto) per un finto parco archeologico, con una forte spesa da parte del Comune, e nuovi ritardi di mesi e mesi, invece di adeguare il progetto del capannone, che fra l’altro non sembra nemmeno destinato a utilizzare tutti i 20.000 mq della superficie utile? Oppure, ci dicevano gli stessi archeologici, se i reperti non hanno grande valore, si faccia il rilievo e poi si ricoprano, come si fa in tante situazioni, o si distruggano, se ci si vuole prendere la responsabilità di farlo. Come ha detto la presidente di Confindustria toscana, perché quattro sassi devono intralciare un progetto così rilevante?
E qui veniamo alla seduta del Consiglio Comunale. Lucia Carlesi è rimasta da sola con il suo ordine del giorno, contro destra e sinistra, padroni, sindacati e operai. Una vera e propria ammucchiata, che il Sindaco Pescini ha avuto la sfacciataggine di definire “la vera comunità di San Casciano”. Nel Consiglio Comunale Carlesi era sola, ma al di fuori non lo è, come dimostra la partecipazione sulla rete, sul blog e su Facebook. E’ vero, su oltre 500 iscritti al gruppo Fb, molti non sono sancascianesi: ma è proprio questo che conta. Se alziamo un momento lo sguardo dal campanilino del paese e guardiamo un po’ più in là, ci accorgiamo che è il Comune di San Casciano ad essere isolato: si veda l’articolo di Salvatore Settis, il più autorevole esperto di paesaggio, del 28 settembre scorso su la Repubblica, dove la vicenda del Ponterotto è citata come scempio di portata nazionale. La scelta di volere per forza un insediamento industriale di quella portata dentro i propri confini comunali è miope e campanilistica, se non vogliamo pensare ancora peggio. Se i lavoratori Laika stanno ancora aspettando questo benedetto trasferimento, dopo dieci anni, devono solo ringraziare i propri rappresentanti politici e sindacali.
Titolo originale: The Not-So-Green Mountains – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Le ruspe sono arrivate un paio di settimane fa qui vicino, alle falde delle Lowell Mountains, e hanno cominciato a squarciasi la strada attraverso i boschi sino al crinale, dove la Green Mountain Power ha in progetto di realizzare 21 turbine, alte complessivamente più di centocinquanta metri ciascuna all’estremità della pala.
Un sacrilegio, nel nome dell’energia “verde” che avviene qui in Vermont, nel Northeast Kingdom, in una delle principali aree boscose naturali di proprietà privata di tutto lo stato. Dove come accade in altri luoghi — per esempio in Maine o al largo di Cape Cod — il potere dell’energia eolica minaccia di distruggere paesaggi molto delicati.
Costruire turbine per uno sviluppo di cinque chilometri di crinale, richiede strade — su un crinale, con alcuni tratti larghi quanto un’autostrada — in posti dove di solito le corsie per spostarsi le segnano l’orso, l’alce, il gatto selvatico o i cervi.
Si devono modificare i profili della montagna perché ci si possano far arrivare le gru e i veicoli di servizio. Lo stanno facendo usando più o meno trecento chili di esplosivo, che ridurranno parti di queste cime a mucchi di sassi, da usare poi nelle strade di accesso.
Si devono anche disboscare più di cinquanta ettari di pendii alberati, oggi accesi con magnifici colori dell’autunno. Ci sono ricerche che piegano come disboscare voglia dire più erosione, peggioramento della qualità delle acque sorgive, con meno vita nei torrenti, e acque meno buone per tutti a vale, umani e non.
L’elettricità prodotta dal progetto non ridurrà di molto le emissioni di gas serra in Vermont. Che dipendono solo per il 4% dalla produzione energetica (quasi la metà viene invece da auto e camion, un altro terzo dal gasolio per il riscaldamento).
Il vento non soffia sempre, e non lo fa a velocità ottimale, così la produzione di quelle turbine — il “fattore capacità” — è di circa un terzo dei 63 megawatt teorici. Al meglio, si produrrà a sufficienza per alimentare 24.000 abitazioni per un anno, secondo gli stessi proponenti.
Ma il vento soffia sui crinali delVermont. Secondo il Public Interest Research Group, ad esempio, con l’energia eolia si potrebbe arrivare a coprire sino al 25% del fabbisogno di tutto lo stato, naturalmente estendendosi con le turbine su una cinquantina di chilometri di crinali. Altri sostenitori del vento, come David Blittersdorf, massimo esponente di una impresa privata del settore a Williston, arrivano a proporre addirittura di metterne su trecento chilometri di crinale.
Queste sono le stesse Green Mountain che sono state visitate da quasi 14 milioni di persone venute qui in Vermont solo nel 2009, a spendere un miliardo e mezzo di dollari nel turismo. Montagna che fanno parte della nostra identità, non a caso siamo lo Stato delle Montagne Verdi, che ci danno aria e acqua pura, flora e fauna.
Il Vermont ha una gloriosa storia di efficace tutela dell’ambiente naturale, che oggi viene accantonata. Questo progetto è on orribile precedente, che devasta un sistema perfettamente sano e intatto, con la scusa di intervenire contro il cambiamento climatico. In cambio, la Green Mountain Power ci guadagna 44 milioni di dollari in crediti fiscali federali su 10 anni.
Proprio strano che i gruppi ambientalisti dello stato non abbiano preso posizione su questo progetto ecologicamente devastante. A quanto pare, non vogliono intralciare lo sviluppo delle energie “verdi”, e non importa quanta distruzione incomba così quanto in Vermont conta di più: il paesaggio che fa di noi ciò che siamo.
Inseguire così progetti altamente impattanti è un terribile errore di prospettiva e programmazione, un equivoco su come dovrebbe agire una società responsabile che vuole rallentare il riscaldamento del pianeta. É anche non voler proprio capire il valore del paesaggio, per l’identità e l’economia futura del Vermont.
MILANO — Dopo mesi di parole su Expo arriva un segnale importante dal mondo delle aziende. Un segnale che vale 43 milioni di euro e che dimostra, in un momento di crisi mondiale, che i privati cominciano a farsi avanti. Per la prima volta nella storia dell'Esposizione del 2015 un'azienda mette risorse per contribuire alla realizzazione dell'evento, in una logica di partnership. Per dirla con l'ad di Expo, Giuseppe Sala, «i privati ci credono». Così come ci credono i Paesi del mondo: già totalizzate 53 adesioni e si punta ad arrivare a 70 entro dicembre.
A fare da apripista tra i privati (Sala è sicuro che questa collaborazione rappresenta la prima di una lunga serie) è Telecom Italia, che ha vinto la gara d'appalto per la scelta del partner tecnologico di Expo. Il gruppo telefonico doterà il sito di infrastrutture e tecnologie avanzate, investendo 12 milioni di euro cash e oltre 30 nello sviluppo di reti fisse in fibra ottica e wi-fi, reti mobili anche di quarta generazione e altre soluzioni d'avanguardia che resteranno in dote alla città. «Le infrastrutture, sia fisse sia mobili — ha confermato l'amministratore delegato di Telecom Italia, Marco Patuano — rimarranno anche successivamente». In cambio, il gruppo avrà l'esclusiva merceologica, uno spazio commerciale dedicato e potrà sfruttare i diritti d'utilizzo del logo e delle immagini.
Ma con l'arrivo delle risorse private si delinea indirettamente anche il progetto. Sul sito dell'esposizione sorgerà la prima «Smart City» del futuro, con un tandem tra tecnologia avanzata e sostenibilità ambientale e con servizi che consentiranno ai visitatori di cogliere rapidamente tutte le opportunità dell'evento e agli amministratori di risparmiare sui costi di gestione. Qualche esempio? Luci e lampioni potranno essere controllati dai computer. Sarà possibile pagare l'ingresso o il parcheggio con il cellulare, programmare il proprio itinerario tra gli stand, ma anche esplorare i padiglioni dai banchi di scuola o da un letto d'ospedale. Anche questo caratterizzerà la «Città intelligente» nella quale, grazie all'investimento di 43 milioni, si trasformerà l'area dell'esposizione.
«È uno dei giorni più felici della storia di Expo», ha sottolineato Giuseppe Sala annunciando la nuova partnership. «Al mondo delle aziende chiediamo di partecipare con infrastrutture e in conto economico per circa 400 milioni di euro — ha aggiunto — In passato potevano esserci perplessità, oggi ci siamo assicurati un grande partner e circa il 10% di quel budget». Già individuate altre aree tematiche per lanciare nuovi appalti: dai sistemi di sicurezza all'illuminazione, dalla mobilità al settore finanziario.
Intanto si parte. Con una «tappa nuova e importante per la costruzione dell'esposizione», come ha precisato il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, commissario generale di Expo. Per il governatore, la partnership con Telecom «ribalta la concezione di Expo come perennemente rachitica, bisognosa di sovvenzioni e di vitamine» e «va contro quel perdurante scetticismo e pessimismo». L'impegno dei privati per Expo ieri è stato anche al centro di un incontro a Palazzo Marino, dove il sindaco Giuliano Pisapia ha ricevuto il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabé, e l'amministratore delegato Marco Patuano.
In queste settimane si è riacceso il dibattito sui gravi rischi che stanno per abbattersi sul paesaggio sardo. I goffi tentativi della Giunta Cappellacci di camuffarli con parole come identità, salvaguardia e rispetto, connesse, però, a “revisione del PPR”, “legge sui 25 campi da golf” e “proroga del Piano casa”, ben chiariscono quanto sia coerente questa Giunta in materia di cementificazione del territorio secondo un’ottica privatistica di governo. Alcuni di noi hanno parlato di questi rischi più volte e credo che a nulla siano valse le nostre riflessioni per modificare quest’ottica, così come credo che a nulla varranno le considerazioni di illustri studiosi, da Salvatore Settis a Michele Salvati, da Fulco Pratesi a Edoardo Salzano. Seppure sconfortata da questa consapevolezza sono convinta che tacere oggi equivalga ad essere corresponsabili di quel che si sta abbattendo sulla Sardegna. Ed eccomi qui, ancora una volta, a sostenere perché le regole, i vincoli e dire No al consumo di suolo siano la vera strada da percorrere per dare ossigeno all’economia sarda.
Ma perché questa Giunta regionale è così sorda a qualunque richiamo di buon senso? Perché è questione di buon senso non rovinare il paesaggio, non solo perché la società presente ha il dovere di trasferirlo indenne alle generazioni future, ma anche perché se lo roviniamo per quale ragione i turisti dovrebbero venire fin qui? Nel VII congresso dell’Associazione Mediterranea di sociologia del turismo, da molte ricerche nazionali e internazionali è emerso con chiarezza che la ragione primaria per cui i turisti visitano la Sardegna, nonostante le difficoltà di trasporto e i costi elevati, è data dall’unicità e irriproducibilità del paesaggio sardo; semmai, i veri problemi sono legati all’accessibilità, alla riqualificazione del patrimonio esistente, alla professionalità del comparto e alla messa in rete delle risorse. Perciò, se modifichiamo il paesaggio cementificandolo o trasformandolo, che futuro si prospetta per il turismo sardo? Lo sanno bene i veri operatori turistici che poco hanno a che vedere con quanti costruiscono ville nella pineta di Badesi, o Resort mostruosi in mezzo alla macchia mediterranea di Capo Malfatano.
Ma il buon senso non rientra nell’orizzonte di questa Giunta, non tanto perché non sia consapevole anch’essa che far costruire a ridosso delle coste e attorno a fantasmagorici campi da golf non equivalga a benessere sociale, quanto perché deve rispondere, in primis Cappellacci, alle pressioni di un blocco sociale costituito da proprietari di suolo e imprese che facilmente riescono a trascinare su questo terreno i tanti disoccupati. È evidente che questi ultimi non hanno responsabilità degli scempi compiuti ma sono l’anello più debole, usati come ostaggio e grimaldello per scassinare il territorio. Non mi stupisce che dei disoccupati, pur di lavorare qualche mese, siano pronti a scendere in piazza dietro la fascia tricolore del sindaco di turno (Arzachena o Teulada che sia) o a firmare appelli, ma mi indigna che degli amministratori del bene pubblico siano così sensibili ai richiami degli interessi privati, talvolta molto forti come quelli della Marcegaglia o di Tom Barrack. Ci sono però altre ragioni perché questa giunta si sta muovendo con così tanta fretta per modificare le regole del PPR, e queste sono sì di tipo elettorale, ma sono anche il bisogno di dare una risposta legale ai tanti abusi che si sono verificati nonostante i vincoli del PPR. Inoltre, vi sono esigenze provenienti dai tanti comuni che hanno piani urbanistici in itinere o hanno appena approvato e che non solo prevedono volumetrie ingiustificabili se si rapportano alle esigenze sociali, ma molte di queste non sarebbero giustificabili neppure dagli strumenti di piano vigenti, a partire dal PPR.
Questo blocco sociale è destinato a scomporsi nel momento in cui le case costruite rimarranno invendute e avranno arricchito soltanto pochi speculatori, mentre i disoccupati continueranno a rimanere tali e il territorio sarà irrimediabilmente compromesso.
Dopo il tracollo del settembre 2008, la finanza pubblica dell’Occidente ha iniettato nel sistema bancario enormi quantità di denaro per far fronte alla crisi di liquidità che l’esplodere della bolla speculativa aveva generato. Mai nel dopoguerra si era assistito a un piano di salvataggio di così ampie e sistemiche proporzioni realizzato a suon di miliardi di euro/dollari per ricapitalizzare il sistema bancario americano ed europeo. Con quella manovra si voleva evitare che il collasso del sistema finanziario trascinasse con sé l’intera economia mondiale dando il via a una recessione analoga a quella degli anni ’30.
Nel 2010, nel giro di pochi mesi, i principali istituti finanziari e bancari sono tornati a macinare profitti, grazie agli impieghi realizzati proprio con la liquidità addizionale messa a disposizione dagli Stati. Impieghi finanziari che solo in minima parte hanno favorito progetti imprenditoriali e industriali diretti. La stragrande maggioranza di quelle risorse sono invece tornate – come se nulla fosse successo pochi mesi prima – a puntare sui prodotti offerti dalla finanza speculativa e d’azzardo.
Insomma, mentre gli Stati s’indebitavano, buttando nel cestino, nel volgere di pochi giorni, decenni di dichiarazioni solenni sull’inderogabilità dei patti di stabilità, stracciando impegni sovranazionali basati sul rigido rispetto di politiche monetarie restrittive quale unico baluardo contro l’instabilità (chi si ricorda più dei vincoli di Maastricht oggi?), ebbene di fronte a questa svolta epocale, le Banche con totale non chalance confermavano quelle stesse regole di gestione e di massimizzazione dei profitti che le avevano condotte tra il 2007 e il 2009 sull’orlo della bancarotta.
Per usare un’immagine speriamo efficace, la storia a cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio è quella di un naufrago che, salvato dai flutti nei quali, a scienza certa, stava affogando, appena riprende fiato, non trova nulla di meglio che correre a comprare una pistola con la quale uccidere il proprio salvatore. Basta guardare ai crudi fatti perché ne risulti confermata questa paradossale ma purtroppo autentica storia.
Le decisioni di investimento, di impiego e di smobilizzo messi in atto dagli operatori finanziari, direttamente o indirettamente, corrispondono a questa immagine: infatti un buon numero di queste istituzioni hanno puntato sul fallimento di alcuni Stati dell’Unione europea, gli stessi che pochi mesi prima avevano anch’essi deciso il loro salvataggio.
E’ un dato di fatto che dagli attacchi speculativi a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia – i cosiddetti PIGS - alcuni investitori ribassisti hanno ricavato ingenti margini. Dove sono ora finite quelle prese di profitto? Certamente al sicuro, in qualche banca svizzera o in qualche fondo off-shore, o semplicemente su altre piazze finanziarie mondiali considerate più sicure. L’effetto cumulativo delle ondate speculative torna ora come un boomerang e sembra non voler risparmiare nessuno.
Così, a piangere e a lamentarsi, oltre ai piccoli risparmiatori, ai dipendenti pubblici e privati, ai precari, ai disoccupati, ai giovani e ai pensionati, ecco aggiungersi, ancora una volta, le banche, europee e americane senza distinzione. Alcune piangono di più, ad esempio le francesi e le tedesche, e altre di meno.
Di che si lamentano? Le banche si lamentano della qualità dei loro portafogli, pieni zeppi di titoli di stato dei PIGS, comprati non secoli fa ma pochi mesi fa o anche solo l’altro ieri, allettate dai considerevoli rendimenti che la speculazione ha originato. Ma se domani la Grecia prima e dopodomani l’Italia dichiarassero lo stato di default, quegli attivi diventerebbero automaticamente carta straccia.
Qual è allora l’ultima trovata del G20 e del Fondo Monetario Internazionale? Creare un Fondo salva-Stati che entrando nel capitale delle Banche permetta loro di assorbire le perdite che si creeranno quando quei titoli del debito pubblico non varranno più nulla.
Sorge subito un dubbio: ma perché se si devono salvare gli Stati, si salvano innanzitutto le banche? Non sarebbe più semplice con l’emissione di eurobond sostituire in parte i titoli nazionali rendendo quel debito sovrano meno rischioso? E a proposito di banche, non è proprio per il fatto che i titoli dei PIGS sono così rischiosi che esse, in quanto principali investitori istituzionali, ricevono per la loro sottoscrizione tassi di interesse stratosferici, del 4, 10 e sino al 20% in più degli interessi pagati sui titoli tedeschi? Del resto, se si trattasse di debito privato saremmo già oltre il tasso di usura!
Certo, con l’intervento europeo, scomparirebbe il rischio (perché pagato dal pubblico) e quei tassi dovrebbero ritornare su livelli normali – salvo che continueremmo a non sapere che fine hanno fatto le prese di profitto. E sia, diciamo che questo ennesimo sacrificio pubblico mira a rimettere in ordine le cose, a evitare il peggio. Ma allora, ci chiediamo: chi ci garantisce che la storia non si ripeterà?
Perché non si ripeta la beffa della capitalizzazione del 2009, quali condizionalità saranno imposte alle banche, quale sarà il potere di veto dell’azionista pubblico sulle scelte di investimento e di gestione dei banchieri? Oppure, ancora una volta, in nome della “sacralità del mercato” le nuove risorse bancarie torneranno ad abbattersi, come letali armi di distruzione di massa, sulla vita dei cittadini che gli stessi Governi dovrebbero tutelare?
Questa nuova fase sarebbe doppiamente fatale – e così per certi versi è già negli annunci: da un lato, si scatenerebbe un’ondata supplementare di privatizzazioni per saldare i nuovi debiti originati dal Fondo salva-banche e, dall’altro, quelle risorse sarebbero impiegate proprio per comprare a prezzi stracciati interi comparti del patrimonio pubblico. L’inevitabile risultato sarebbe il secco impoverimento della popolazione e il corrispettivo aumento del tasso di finanza cattiva nei gangli dell’economia mondiale.
Il paradosso è dunque quello di un mondo alla rovescia in cui più ti comporti male e più vieni premiato? Purtroppo, la beffa è che in nome dell’infallibilità dei mercati, le sanzioni applicate appaiono totalmente asimmetriche: se il debito pubblico non è credibile, bisogna licenziare, tagliare, vendere; se invece la finanza privata non sta in piedi, allora va salvata, perché altrimenti il panico dei mercati si potrebbe estendere a macchia d’olio, eccetera, eccetera.
Morale lapalissiana: se il mondo è storto, vuol dire che non è dritto. Occorre dunque ricostruire un mondo equilibrato e portatore di un’etica degna di questo nome. Le banche debbono semplicemente tornare a fare il loro mestiere: cioè utilizzare i risparmi delle persone per concedere crediti a chi ha progetti validi ed è capace di produrre lavoro e ricchezza. Né più né meno che questo. I Governi, d’altro canto, hanno il sacrosanto dovere di consolidare il debito storico ormai ingestibile, un fardello che non può pesare ad infinitum sul futuro nostro e dei nostri figli.
In un mondo così complesso, le cose a volte possono essere a tratti meravigliosamente lineari e comprensibili. Renderle tali è compito della Politica, ottemperando ai propri fini che sono quelli dell’interesse pubblico e non quello di pochi, voraci e autodistruttivi pescecani.
Qui il blog del Gruppo di cultura politica Fondamente
Dopo tre mesi di intenso lavoro, durante il quale sono stati consultati esperti di differenti discipline economiche, giuridiche, aziendali, oltre ad esponenti della società civile e delle associazioni ambientaliste, la giunta di Napoli ha approvato la trasformazione della società per azioni Arin che gestisce il servizio idrico a Napoli in azienda speciale. Si tratta della prima giunta in Italia che attua la volontà referendaria del 12-13 giugno 2011.
L'azienda speciale Acqua Bene Comune Napoli, ente di diritto pubblico, nasce dalla consapevolezza che in tutto il mondo le più recenti trasformazioni del diritto hanno prodotto l'emersione a livello costituzionale, normativo, giurisprudenziale e di politica del diritto della categoria dei beni comuni, ossia delle cose che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona e che vanno preservate anche nell'interesse delle generazioni future. E in questo senso ieri il consiglio comunale di Napoli ha approvato una modifica del suo stesso statuto, con la quale si inserisce tra valori e finalità dello Statuto il riconoscimento e la garanzie dei beni comuni, quali beni direttamente riconducibili al soddisfacimento di diritti fondamentali.
I beni comuni, in primis l'acqua, sono dunque adesso direttamente legati a valori che trovano collocazione costituzionale e che informano lo statuto del Comune di Napoli. Essi vanno collocati fuori commercio perché appartengono a tutti e non possono in nessun caso essere privatizzati. L'acqua bene comune è radicalmente incompatibile con l'interesse privato al profitto e alla vendita. Al tempo stesso è ormai del tutto chiaro nell'esperienza italiana che le privatizzazioni hanno determinato forti incrementi delle tariffe e nessun beneficio per i cittadini in termini di qualità del servizio. Acqua Bene Comune Napoli, chiamata a governare il bene comune acqua della città di Napoli, vuole interpretare, attraverso una buona pratica di democrazia partecipata dal basso, il suo dovere fondamentale di difendere il bene acqua. L'azienda speciale, com'è noto, è un ente pubblico economico strumentale del comune che non persegue finalità di profitto. L'azienda speciale ha l'obbligo del pareggio di bilancio e del suo equilibrio finanziario con una autosufficienza gestionale. La sua attività si svolge secondo gli obiettivi e i programmi dell'ente territoriale, cioè del comune e dei suoi cittadini. Tant'è che la strumentalità dell'azienda speciale comporta l'approvazione degli atti fondamentali e la copertura dei costi sociali da parte del Comune, il quale potrà pianificare la sua politica relativa al servizio idrico integrato in base alle proprie disponibilità finanziarie e agli obiettivi di investimento. La qualità del servizio e la sua sostenibilità con l'azienda speciale assume maggiore rilievo, rispetto alle scelte quantitative che nella gestione privatizzata possono venire comunicate o rappresentate al di fuori di essa in modo più opaco. Acqua Bene Comune Napoli, per come congeniata statutariamente - attraverso un consiglio di amministrazione rappresentativo con voto deliberativo delle associazioni ambientaliste e un comitato di sorveglianza rappresentativo oltre che della cittadinanza attiva anche dei dipendenti dell'azienda - consente di affrontare, o meglio valutare, le conflittualità delle politiche idriche e dell'utenza, anche in termini di trasparenza ed accessibilità agli atti.
Governo pubblico partecipato significa proprio un coinvolgimento attivo dei cittadini alla gestione dei beni comuni, un principio fondamentale, che era originariamente previsto anche in Puglia nel processo normativo di trasformazione dell'Aqp spa in azienda pubblica. Inoltre, lo Statuto prevede che qualora l'amministrazione comunale, per ragioni di carattere ecologico o sociale, ed in relazione ai propri fini istituzionali disponga che l'azienda effettui un servizio o svolga un'attività il cui costo non sia recuperabile deve in ogni caso essere assicurata la copertura del costo medesimo. In questa dimensione ecologica e sociale vanno letti anche gli artt. 27 e 28 dello Statuto che rispettivamente disciplinano e garantiscono il quantitativo minimo giornaliero e il fondo di solidarietà internazionale. L'auspicio è che parta da Napoli un nuovo vento che sappia concretamente reagire alla manovra di ferragosto che ha calpestato la volontà referendaria e soprattutto il principio della sovranità popolare.
* Gli autori sono assessori rispettivamente ai beni comuni e alle società partecipate del Comune di Napoli
Saldi di fine stagione per paesaggio e patrimonio artistico. Nell´Italia devastata dal berlusconismo e dal secessionismo leghista, impoverite non sono solo le nuove generazioni, condannate alla disoccupazione o al precariato perpetuo. Impoverito è lo Stato, cioè noi tutti, borseggiati da chi governa il Paese svuotando il nostro portafoglio proprietario di cittadini e i valori di una Costituzione fondata sul bene comune. Questa erosione del patrimonio e dei principi della Repubblica ha preso la forma della rapina. Rapina, letteralmente, a mano armata: armata dei poteri residui dello Stato, cinicamente usati per smontare lo Stato e spartirsi il bottino.
Nel grande (e irrealizzato) progetto che si incarnò nella Costituzione del 1948, l´idea di un´Italia giusta, libera e democratica s´impernia sulla condivisione di beni comuni, intesi come proprietà di tutti i cittadini e garanzia di attuabilità del disegno costituzionale. Tali sono prima di tutto i beni del Demanio, elemento costitutivo di uno Stato sovrano; tali sono i beni pubblici indirizzati a scopo di utilità sociale (per esempio per scuole, ospedali, musei); tale è l´ambiente e il paesaggio, scenario della nostra vita individuale e sociale e strumento di salute fisica e mentale (o di patologie); tale è il patrimonio artistico come memoria storica. Di qui l´articolo 9 della Costituzione, secondo cui «la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione», e deve farlo in modo identico dalle Alpi alla Sicilia. Essenziale alla legalità repubblicana, questo principio si lega ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2), al «pieno sviluppo della personalità umana» (art. 3), alla tutela della salute «come fondamentale diritto dell´individuo e interesse della collettività» (art. 32). Il bene comune non comprime, ma limita i diritti di privati e imprese: alla proprietà privata deve essere «assicurata la funzione sociale» (art. 42), la libertà d´impresa «non può svolgersi in contrasto con l´utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41). Contro questa architettura di valori è in atto un feroce attacco. Smontando l´art. 41 si vuole una libertà d´impresa senza limiti: e dunque anche in contrasto con l´utilità sociale, anche se calpesta sicurezza, libertà, dignità umana. L´indegna farsa del "federalismo demaniale" già devasta l´orizzonte dei beni comuni.
Un esempio, Agrigento. Atto I: il 4 agosto la Regione Sicilia annuncia che lo Stato ha ceduto alla Regione la Valle dei Templi, che diviene «patrimonio dei siciliani». Atto II: il 31 agosto il sindaco mette all´asta la Valle dei Templi, con l´idea di «cederla ai privati, affittarla a grandi multinazionali, a griffe internazionali». Ma di chi erano i templi di Agrigento prima della "legittima restituzione ai siciliani"? Erano di tutti gli italiani, dai siciliani ai veneti; come le Dolomiti (ufficialmente valutate 866.294 euro) erano proprietà dei veneti, ma anche dei siciliani. Lo spezzatino dei beni pubblici, ridistribuiti su base regionale o comunale per favorire il secessionismo leghista, svuota il portafoglio proprietario degli italiani, ci rende tutti più poveri.
Massimo simbolo della cultura italiana della tutela è l´ordine del Real Patrimonio di Sicilia del 21 agosto 1745, che simultaneamente impose la conservazione delle antichità di Taormina e dei boschi del Carpinetto ai piedi dell´Etna: prima norma al mondo in cui la tutela del paesaggio e quella del patrimonio artistico sono tutt´uno, secondo una linea che giungerà fino alla Costituzione. Eppure la Regione «intende privatizzare, per far cassa, il patrimonio boschivo e forestale siciliano» (La Sicilia, 23 agosto). In questa generale devastazione, il depotenziamento delle Soprintendenze mediante il blocco delle assunzioni e il taglio dei fondi (ne ha scritto su queste pagine, l´8 settembre, Francesco Erbani) colpisce la tutela alla radice.
Ma che cosa c´è da aspettarsi da un Ministero che ormai espressamente invita non a proteggere il paesaggio, ma a genuflettersi davanti alle imprese? Lo dice chiaro e tondo un documento del 13 ottobre 2010, che in materia di autorizzazione paesaggistica invita sfacciatamente i soprintendenti a «pervenire ad espressioni di pareri la cui formulazione si configura come una prescrizione di buone maniere», evitando come la peste «pareri che siano in contrapposizione alle proposte progettuali».
Esempio estremo di questa deriva (auto)distruttiva è, nella Toscana un tempo "rossa", la vicenda di uno scavo archeologico a San Casciano in Val di Pesa. Importanti resti di edifici ad uso abitativo e agrario di età etrusca e romana, ancora inediti, sono emersi durante i lavori per l´estensione di uno stabilimento della multinazionale Laika Caravans. Fino a pochi anni fa una scoperta come questa avrebbe comportato la salvaguardia dei reperti in situ, e obbligato la ditta a spostare altrove i suoi capannoni. Ma il Comune (governato da una giunta di "sinistra") ha adottato la cultura delle "buone maniere", cioè della resa alle imprese, e ha stretto con Laika un accordo per sfrattare l´archeologia in favore dei capannoni, smontando fattoria etrusca e villa romana per spostarle in un "parco archeologico" fasullo che i comitati locali hanno subito battezzato "archeopatacca". Il modello è chiaro: si applica all´area archeologica lo scambio di volumetrie già previsto da perfidi codicilli del recente decreto sviluppo, il principio di «libera cubatura in libero Stato», secondo il quale ogni terreno, anche inedificabile, è per sua natura dotato di una "capacità edificatoria" virtuale che può formare oggetto di diritti, essere venduta o scambiata con nuove edificazioni. Così, ha commentato Il Sole (24 agosto), «in nome della giustizia economica, sui terreni agricoli piomberanno d´incanto milioni di euro di nuove cubature». Anche sui terreni archeologici, a quel che pare: basta rimontare i ruderi altrove, come assemblando mattoncini Lego. Alla cultura della tutela si sostituisce il più volgare mercatismo parassitario, e sfrattare gli Etruschi diventa una virtù. Interessante principio: che anche i Templi di Agrigento, finalmente "restituiti ai siciliani" a cui gli italiani li avevano rubati, possano essere smontati e trasferiti da una multinazionale, regalando ai "legittimi proprietari" qualche scampolo di "capacità edificatoria"?
La crisi del debito non ha insegnato nulla: in Italia si continua a tagliare tutto, eccetto che gli sprechi sulle infrastrutture. Un sollievo per i (pochi) sostenitori del Ponte sullo Stretto di Messina, la “grande opera” che, in più di quarant'anni (33 governi e 12 legislature), ha già dilapidato circa 400 milioni di euro di fondi pubblici. “Per la costruzione del ponte dello Stretto mancano ancora delle risorse economiche, ma noi le recupereremo”, è la promessa che ieri ha fatto a Messina l’amministratore delegato della società responsabile del progetto, la Stretto di Messina, Pietro Ciucci (che è anche numero uno dell’Anas). Come? Se lo Stato non paga, lo faranno gli imprenditori, con la solita formula del project financing (in cui, alla fine, paga poi sempre lo Stato): “Dovremo recuperare il 60 per cento dei fondi dell’opera da privati, ma siamo sicuri di riuscirci”.
Per i giudici della Corte dei Conti, solo tra il 1986 e il 2008, il ponte sarebbe costato agli italiani 200 milioni di euro. Un importo che potrebbe raddoppiare tra assunzioni, pubblicità, formazione e “strutture compensative”, oltre alle infinite consulenze (21,3 milioni tra il 2001 e il 2007). Senza considerare il denaro speso prima della nascita della società Stretto di Messina (Sdm), la concessionaria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti fondata nel 1981 e tenuta in vita dall’ex ministro Antonio Di Pietro, nonostante il ponte non rientrasse nel programma dell’Unione di Prodi. Una scelta a lungo contestata, che nel 2008 ha permesso a Berlusconi il rilancio del progetto e, due anni dopo, la propagandistica “posa della prima pietra” a Cannitello, lungo la costa calabra dello Stretto.
Anche se l’opera quasi certamente non si farà mai (manca perfino il progetto esecutivo), il bancomat di Stato continua a erogare denaro. “Migliaia di euro saranno spese per le operazioni di esproprio dei terreni interessati dai cantieri, anche se non si conoscono con precisione costi e tempi”, dice al Fatto la deputata radicale Elisabetta Zamparutti, prima firmataria di un’interrogazione parlamentare che chiede di fermare gli espropri, annunciati negli scorsi giorni dalla Sdm. L'ultima parola spetterà al Comitato interministeriale per la programmazione economica, il Cipe, che a dicembre dovrà sancire se il ponte rientra tra le infrastrutture di “pubblica utilità”, in seguito alla richiesta di Eurolink, l’associazione di imprese (con Impregilo capofila) che nell’ottobre del 2005 vinse l’appalto per costruire l’opera. Ma intanto accelerano gli espropri, anche se i soldi per l’opera proprio non ci sono. Lo ha certificato anche il VI rapporto sullo stato di attuazione delle Legge Obiettivo: al momento sono disponibili solo 2,5 miliardi di euro sui 7,2 necessari .
Sul progetto, però, sia il governo che la Stretto di Messina non intendono tornare indietro. “Il ponte è già in fase di realizzazione: abbiamo firmato contratti con chi ha il compito di procedere alla sua costruzione”, ha ricordato Pietro Ciucci, annunciando l’inizio dei lavori entro 12 mesi e l’apertura al traffico nel 2019.
Intanto alle mille schede di esproprio pubblicate e ai relativi rimborsi, si sono aggiunti i 500 mila euro stanziati dalla Regione Calabria per finanziare un bando sui corsi di formazione professionale delle maestranze attraverso la società CalabriaLavoro. Anche le Università di Messina e Reggio Calabria si sono lanciate nella “grande opera”, attivando tirocini formativi per laureandi che si concluderanno a novembre. Una frenetica accelerazione difficile da spiegare, alla luce del dissesto delle finanze pubbliche e alla difficoltà di trovare investimenti privati stranieri. “L’interesse del fondo sovrano cinese China Investment Group si è subito affievolito, a causa dei costi eccessivi”, sostiene l’onorevole Zamparutti, smorzando gli entusiasmi seguiti all’incontro tra il gestore cinese Low Jiwel e i ministri Altero Matteoli e Giulio Tremonti, per discutere su un’eventuale partecipazione al project financing dei privati, attraverso il quale si vorrebbero coprire le spese.
Ad affossare l'opera è stata però la Commissione Europea, quando lo scorso luglio ha bocciato l’intervento, cambiando la geografia delle grandi infrastrutture. Nella proposta di bilancio “Europa 2020”, inviata dalla Commissione all’Europarlamento, vengono infatti ridefiniti i “Ten”, ovvero i grandi corridoi europei. La priorità non va più all’asse precedente Berlino-Palermo, ma al network Helsinki-La Valletta: dalla Finlandia si scenderebbe così a Bari, per poi proseguire fino a Malta lungo “un’autostrada del mare”. Un percorso che renderebbe inutile la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina.
Continuano anche le proteste. I comitati “No Ponte” da anni spingono per trasferire i fondi agli interventi contro il dissesto idrogeologico dell’area, oltre a denunciare il rischio di infiltrazioni della malavita. Gli enti locali del messinese minacciano di non firmare l’accordo di programma con la Sdm senza finanziamenti alle opere “compensative”, cioè senza altri soldi pubblici sul territorio.
Il Wwf ha fatto due conti, ieri, su quanto costa nel complesso al Paese l’illusione di collegare Reggio Calabria e Messina: “Non ci possiamo permettere di destinare a una singola opera, insostenibile dal punto di vista economico-finanziario e ambientale, risorse pari ad oltre mezzo punto di Pil”. Cioè, appunto, oltre 7 miliardi. In crescita, nota il Wwf: “Non è in alcun modo giustificato un aumento dei costi in un anno di oltre il 34% chiesto dalla concessionaria pubblica Stretto di Messina S.p.A. al momento dell’approvazione del nuovo Piano economico-finanziario”. Ma anche se l’opera fosse cancellata, non si fermerebbero comunque gli sprechi. In caso di recesso, una penale riconosce ai costruttori dell’Eurolink una somma corrispondente al 10 per cento sui 4/5 del valore contrattuale: altri 400 milioni di euro versati dai contribuenti italiani.
Box: Svimez 2011, la crisi ha affossato il Sud Italia
La crisi economica ha aggravato la situazione già precaria del Sud del Paese: è quanto emerso dal rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno presentato a Roma. Un’area in forte recessione che non riesce a crescere con gli stessi ritmi del Centro-Nord: il Pil è infatti aumentato solo dello 0,2 per cento, distante un punto e mezzo rispetto alle stime relative al resto del Paese (+1,7%). Nella classifica delle regioni più ricche, al Sud riescono a difendersi Abruzzo, Molise e Sardegna, mentre è la Campania a registrare l’indice più basso. Altra situazione grave è quella relativa al mercato del lavoro, dove pesa l’elevata presenza degli irregolari. Ufficialmente al Sud lavora meno di un giovane su tre (31,7 per cento, 25 punti sotto la media nazionale), con un tasso di disoccupazione reale al 25 per cento. Un’assenza di prospettive di lavoro che si traduce facilmente nella “fuga” dei cervelli verso l’estero e il Nord d’Italia. Il rapporto denuncia così il rischio “tsunami demografico”: nel 2050 gli over 75 potrebbero aumentare di 10 punti percentuali, trasformando il Sud in un’area anziana ed economicamente dipendente dal resto del paese. Un nuovo progetto per il Sud è secondo lo Svimez l’unica strada per invertire la tendenza: il rapporto invita così a puntare sui settori più innovativi, come la geotermia e le rinnovabili. Altro che ponte sullo Stretto di Messina. (al.so.)