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Sei milioni di italiani vivono in 1,7 milioni di alloggi tirati su abusivamente. “Case della domenica”? Nel dopoguerra, negli anni ’50 e ’60. Poi soprattutto case, ville, villone, lottizzazioni, interi quartieri, per esempio a Casalnuovo di Napoli, denunciati dalla trasmissione Rai “Ambiente Italia”. Finanziati sovente con soldi “sporchi”. “Il trionfo del ‘Paese fai da te’ ha portato alla cancellazione di fatto dello Stato in Italia”. Lo sostiene Paolo Berdini autore della recente, documentata “Breve storia dell’abuso edilizio in Italia” (Donzelli).

Eppure Silvio Berlusconi riparla di condoni e quindi anche di condono edilizio.“Per i piccoli abusi”, minimizza lui. In realtà per venire incontro alle attese elettorali del popolo inesausto degli abusivi, degli evasori di ogni regola e legge (“Così rivinceremo le elezioni”). E solo parlandone ridà fiato ai fuorilegge del mattone, alla speranza che quei loro nuovi cantieri rientreranno in una prossima sanatoria. Il centrodestra sembra diviso fra il sì e il no. Lo è pure il governo: contrario il leghista Calderoli, favorevole La Russa che, senza arrossire, definisce il condono “un antibiotico forte” per l’Italia malata. E chi si oppone invocando l’etica pubblica? Per Cicchitto e Boniver è “un Savonarola”. Del condono fiscale si è già detto tutto il male possibile. Quello edilizio è, chiariamolo, un regalo sciagurato alla illegalità criminale e un delitto contro ambiente-paesaggio- difesa del suolo. Quando si costruisce una villa abusiva, tutto è “in nero”: niente oneri di urbanizzazione; nessun rispetto dei vincoli idrogeologici e altro; illegali le imprese di trasporto e costruzione; niente contratti, né contributi per i lavoratori, e così via.

Quindi, sono, già in partenza, una raffica i danni assicurati al bene primario e collettivo “paesaggio”. Ma, almeno, il condono edilizio frutta incassi immediati? Di voti sì, di denari no. Secondo la Corte dei conti, nel 2008 restavano da incassare ancora 5,2 miliardi di euro previsti col condono del 2003-2004, quattro o cinque anni prima, cioè il 20 % del gettito previsto. Ma vi sono ancora aperte pratiche del primo condono, quello voluto, con l’intento in parte sincero, di “chiudere per sempre la partita dell’abusivismo edilizio” dal governo Craxi nel 1984. Una pia illusione, nel migliore dei casi. E sì che il condono berlusconiano del 2003 (il secondo del Cavaliere, dopo quello del 1994) era stato edilizio e ambientale e sanava pure guasti avvenuti in aree protette. Addirittura in aree in parte demaniali. Come del resto è successo per decenni in Sicilia dove la colata di cemento si è riversata a filo di arenile, cioè in buona parte su aree demaniali. Abusi di per sé insanabili. Che da decenni non hanno più nulla a che fare con l’edilizia illegale “di necessità”.

Dunque, il condono edilizio non fa incassare denari a breve. Anzi, ne fa spendere allo Stato: 500 euro ogni 100 incassati, sostiene l’urbanista Berdini. Per portare servizi pubblici essenziali. Oggi esso unisce in un solo fronte contrario i costruttori veri che si oppongono e chiedono (Paolo Buzzetti, presidente dell’ANCE) norme per riqualificare il patrimonio edilizio degradato, i Comuni (“una istigazione a delinquere”, tuona il sindaco di Piacenza, Roberto Reggi), associazioni come FAI e Wwf. Rianima l’edilizia? No, deprime slealmente quella che c’è. E allora, perché inserirlo in questa manovra? Per ragioni sfacciatamente pre-elettorali che riguardano soprattutto il Mezzogiorno dove si concentrano da sempre (record in Sicilia e Campania) i due terzi dell’edilizia fuorilegge. Sono ricorrenti le istanze per una sanatoria speciale dedicata alla Campania, sempre più imbruttita e sfregiata, dove l’abusivismo (inquinato dalla camorra) ha devastato costa, interno e splendide isole come Ischia ormai in costante pericolo di sfacelo. All’inizio della sua “discesa in campo” Berlusconi proclamò: “Ciascuno è padrone a casa sua”. Era l’invito al “fai-da-te” più totale e sfrenato dei padroncini. E alla parallela distruzione di ogni nozione di interesse generale o collettivo, di controllo dello Stato. Peggio del fascismo? Alla fine, probabilmente sì.

Con gli esecutivi di centro destra l'esposizione è cresciuta del 13,5% contro una media del 5,1%. Dal 1982 lo stock è passato dal 63,1% al 121,8% del Prodotto interno lordo

Silvio Berlusconi

ROMA - Da quando Silvio Berlusconi è sceso in politica, nel 1994, sotto i sui tre governi, il debito pubblico è cresciuto più del doppio rispetto agli esecutivi guidati dai suoi avversari.

Negli ultimi 17 anni, Berlusconi è stato presidente del consiglio per quasi la metà del tempo registrando un incremento complessivo del debito pubblico del 13,5%. Molto più del 5,1% registrato sotto la guida degli altri quattro primi ministri: Lamberto Dini, Romano Prodi (due volte), Massimo D'Alema e Giuliano Amato.

Il 13 settembre scorso, a Strasburgo, in Francia, Berlusconi spiegò di aver ereditato il debito dalle amministrazioni che lo avevano preceduto. Il fardello del debito è quasi raddoppiato tra il 1982, quando ammontava al 63,1% del Pil, e il 1994, quando sotto il primo governo guidato da Berlusconi arrivò al 121,8%. Nel 2007, con Romano Prodi a Palazzo Chigi, il debito è sceso al 103,6%, al livello più basso dal 1991.

"Berlusconi non è stato certo aiutato dalla recessione che lo ha colpito mentre era al governo e dagli alti tassi di interesse che hanno aumentato il costo del debito" dice Paolo Manasse, professore di economia all'Università di Bologna. "Tuttavia - prosegue Manasse - con Berlusconi la spesa pubblica è sempre aumentata, anche negli anni di crescita economica e questo, insieme a scelte come quella di abolire la tassa sulla proprietà nel 2008, ha contribuito ad aumentare il debito pubblico".

Le tre principali agenzie di rating hanno recentemente tagliato il giudizio sullo stock italiano, proprio mentre il Paese sta lottando per evitare di essere contagiato dalla crisi europea dei debiti sovrano cercando di portare il proprio sotto il livello 120% del Pil. Il fardello più alto d'Europa, dopo la Grecia.

L'8 agosto scorso la Banca Centrale europea ha iniziato a comprare titoli di Stato italiani dopo che i rendimenti erano schizzati alle stelle e la Grecia si avvicinava al fallimento.

L'immagine è tratta dal sito Bloomberg news online

Per le indicazioni molto dettagliate che contiene, la lettera che Trichet e Draghi hanno inviato al governo italiano conferma quel che alcuni hanno detto: l´Italia di fatto è governata da autorità sovranazionali non elette, che non devono render conto davanti ai cittadini. Pur non appartenendo a un partito, non sono autorità tecniche: fanno politica in senso pieno, governano i conflitti della pòlis constatando che è malgovernata. È un rapporto feudale che viene instaurato: il vassallo inadempiente è salvato dal vero sovrano, e in cambio gli giura obbedienza e restringe le proprie libertà.

Di primo acchito sembrerebbe che solo così possa nascere un´Europa politica, potente mondialmente. Ma le cose sono più ambigue, torbide. Uno Stato corroso come il nostro, manomesso da un premier che lo scardina privatizzando il bene pubblico, non fa nascere l´Europa ma la snatura. A nulla serve che gridi contro il duopolio franco-tedesco; non lo udranno. Il caso Italia dovrebbe far riflettere l´Unione, perché crea un precedente grave: se un organo federale di natura tecnica interviene con pesantezza inusitata su un paese membro, è perché ha di fronte a sé un non-governo, un non-premier. Non è prepotenza la sua, ma il diritto naturale all´interferenza che la Bce acquisisce comprando il nostro debito a colpi di miliardi e risparmiandoci la bancarotta. Il governo sovranazionale ci tiene in piedi, e il potere che acquisisce è la risposta a un´inettitudine, un´impotenza. La crisi dell´euro rimette in questione le sovranità nazionali, svelandone l´illusorietà, e al tempo stesso ridisegna a caldo le loro democrazie, non senza insidie e squilibri fra Stati iper-sovrani e Stati non più sovrani. Il modo in cui le ridisegna è la questione del momento.

Rileggere la lettera della Bce, simile a quelle inviate a Atene e Madrid, Lisbona e Dublino, è istruttivo. Il presidente della Banca centrale non si limita a indicare parametri. Entra negli anfratti della legislazione, decide il suo farsi. Il punto saliente è quello in cui, dopo aver elencato le misure per evitare il default, raccomanda perentorio: «Vista la gravità dell´attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate (...) siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011». Quello che si prescrive è un metodo decisionale (il decreto) che mina la democrazia rappresentativa sin qui conosciuta.

Il decreto è un provvedimento adottato «in casi straordinari di necessità e d´urgenza» (articolo 77 della Costituzione). L´abuso che Berlusconi ne fa è stato più volte criticato dal Capo dello Stato, che della Carta è custode. D´un tratto siamo intimati di aumentarne l´abuso. Le lunghe discussioni parlamentari vanno scavalcate, in nome dell´emergenza. È quanto accade in guerra, quando saltano le procedure ordinarie e predomina un gruppo di esperti (i militari). Qui sono i banchieri centrali a prevalere, anche se operano in rappresentanza di tutta l´eurozona (Italia compresa). Per forza giocano un ruolo politico che sulla carta non hanno, quando i governi da sé non ce la fanno. Per forza la Bce impone la stretta decisionista, a un governo che per anni ha negato la crisi, temendo scelte difficili. La crisi delle democrazie è causa ed effetto di questo prevalere della necessità su una libertà che è fittizia, della tecnica su una politica non meno fittizia. Per questo l´Italia è, in Europa, un precursore in negativo: l´opposizione, quando tornerà al governo, dovrà riconoscere che queste necessità ti vengono imposte, se non le assumi. Altrimenti avrà ragione la Bbc: «Una delle prime vittime della crisi dell´Eurozona sarà la democrazia».

L´elusione del dibattito democratico classico è evidente in altri passi della lettera. Tra questi: i paragrafi riguardanti la «privatizzazione su larga scala» dei servizi pubblici (nonostante un referendum italiano ostile a tali privatizzazioni); la riforma salariale collettiva (gli accordi al livello di impresa devono essere «più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione»); le norme sul licenziamento; la riduzione di stipendi per i dipendenti pubblici. Perfino su una questione delicata (l´introduzione nelle aziende pubbliche degli indicatori di performance) la Bce interviene senza curarsi della discussione che il tema suscita in Europa. Gli indicatori di prestazione - è scritto in numerosi rapporti di medici e psicologi francesi - vanno maneggiati con prudenza perché ledono la tenuta della società, specie in recessione. L´ondata di suicidi avvenuta nel 2009 in aziende come Telecom-Francia e Renault è legata all´introduzione, nel management, di queste forme di controllo.

I conflitti non vengono superati, sospendendo procedure democratiche tradizionali. Si acuiscono, perché non più rappresentati né governati democraticamente. Quel che rischia di scomparire, quando uno Stato impotente è messo in riga, è lo spazio politico dentro il quale più visioni del mondo possono contrapporsi, misurarsi. L´alternativa, sale della speranza, è sostituita da alternanze formali destra-sinistra. Un´unica linea sembra imporsi, respinta ciecamente da cittadini che la vedono decretata e non discussa.

Naturalmente la lettera non ha quest´unico significato, di restringimento dello spazio democratico. Nel governo tecnico di Francoforte è incorporata anche l´Italia, e paradossalmente il restringimento è dovuto al fatto che l´organo sovranazionale agisce in nome di uno spazio ben più vasto, che i politici nazionali tendono sistematicamente a ignorare. Lorenzo Bini Smaghi, membro dell´esecutivo Bce, è stato chiaro, in un discorso a Poros dell´8 luglio: «L´unione monetaria implica un grado di unione politica molto più ampio di quanto abbiano mai pensato molti commentatori, politici, accademici, e anche cittadini. Questo perché in un´unione monetaria, le decisioni prese in una singola parte coinvolgono le altre parti, in modo diretto e a volte drammatico». Quel che i popoli faticano a capire è che «già c´è un´unione politica, anche se l´intelaiatura istituzionale non garantisce un processo decisionale pienamente compatibile con essa».

Resta che un´Unione siffatta non è vista come democratica dai popoli; e non essendolo, inasprisce le loro chiusure nazionali: non solo in Italia ma anche in Germania. I suoi organi danno l´impressione che l´unica preoccupazione sia la tenuta dei conti: non della società, delle regole, della giustizia, dell´etica pubblica. A prima vista è allarmante, ad esempio, che nella lettera della Bce manchi ogni accenno alla sostanza del modello europeo: giustizia sociale, tasse ripartite con equità e senza evasione, correzione delle disuguaglianze abnormi createsi dagli anni ‘80 fra generazioni, classi, regioni.

Dietro queste apparenze, tuttavia, c´è una realtà meno semplice, che vale la pena esplorare. Prendiamo il caso greco, che illumina molte oscurità. Se nelle sue raccomandazioni la Bce non insiste sul modello europeo, è perché in alcuni Stati il modello è proclamato, non praticato. È l´accusa lanciata dall´economista Yanis Varoufakis, ex consigliere di Papandreou: è vero, Atene è stata costretta a misure socialmente devastanti, ma perché non ha avuto il fegato di imporre una tassa sui ricchi, che da decenni godono di vaste immunità: «È a questo punto che Bce e Fmi hanno detto: ok, se rinunciate alle tasse allora tagliate pensioni e salari dei meno abbienti». Gli organi europei «sono class-indifferent», indifferenti a come gli Stati sanano, equamente o no, i conti.

Altro è il loro difetto. Nei confronti degli Stati più potenti, le istituzioni europee non hanno la stessa imparzialità: non sono nation-indifferent. Il Fondo salva-Stati, che Merkel e Sarkozy vogliono dominare non rendendolo federale ma preservando il diritto di veto di ciascuna nazione, nasce imbelle. Nel 2003, Berlino e Parigi trasgredirono il Patto di stabilità: invocarono l´impunità con una sfacciataggine che ancor oggi pesa. Pesa come un masso, nel mezzo della crisi economica e democratica che gli europei stanno vivendo.

Il testo intergrale della lettera della BCE nell'originale inglese e nella traduzione italiana, dal Corriere della sera.

Ogni giorno in Italia vengono cementificati 130 ettari di terreno fertile. Sviluppo necessario? Non sempre, visto il gran numero di aree dismesse destinate a restare inutilizzate. Ma allora perché le misure a salvaguardia del suolo continuano a incontrare tante ostilità?

La Provincia di Torino ha appena approvato un piano di governo del territorio che introduce per la prima volta, all’articolo 1 e come principio cogente per i Comuni, «il contenimento del consumo di suolo». E dunque: stop alle edificazioni indiscriminate su aree libere, riuso di quelle già compromesse. Una rivoluzione, in un territorio in cui le nuove costruzioni in quindici anni hanno occupato un’area vasta quasi quanto Torino, mentre la popolazione rimaneva invariata. La frantumazione dei nuclei familiari (il 53% ha meno di tre componenti), che aumenta la domanda di nuovi alloggi, giustifica solo in parte il fenomeno. Infatti nell’ultimo decennio in Italia sono state costruite 4 milioni di case, ma ce ne sono 5,2 milioni vuote solo nelle grandi città.

«Il consumo di suolo è la grande emergenza del nostro Paese», spiega il presidente della Provincia di Torino Antonio Saitta. «Io non sono un talebano, ma non si può più consumare il futuro». In Italia si cementificano ogni giorno circa 130 ettari di suoli fertili. Si tratta di una stima, perché lo Stato non si è mai occupato del problema e ogni Regione fa a modo suo (solo cinque hanno banche dati), quindi ci si affida ai dossier di associazioni ambientaliste e professionali o a studiosi appassionati tra cui Andrea Arcidiacono, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Georg Josef Frisch, Luca Mercalli, Paolo Pileri, Edoardo Salzano, Salvatore Settis, Tiziano Tempesta.

Dal 2000, con la possibilità di spendere gli oneri urbanistici liberamente, è stata data ai Comuni la licenza di svendere il territorio: con gli incassi si tamponano le falle nei bilanci. Altri Paesi hanno preso sul serio la faccenda. La Germania si è ripromessa di dimezzare i 60 ettari consumati ogni giorno. La prima legge in tal senso fu promossa negli Anni 80 da Angela Merkel, all’epoca ministro dell’Ambiente. Inoltre ha stanziato 22 milioni di euro per ricerche, mentre in Italia l’ultima finanziata con denaro pubblico risale agli anni ‘80. In Gran Bretagna, ogni anno il premier stila un documento sul suolo consumato: quanto, come e perché, ettaro per ettaro, considerando che la legge obbliga a costruire per il 60 per cento su «brownfield sites» (aree già edificate).

In Italia il ministero dell’Ambiente non ha nemmeno un osservatorio. Il suolo è prezioso per diverse ragioni: garanzia di sovranità alimentare, come dimostra l’accaparramento delle terre a opera delle economie emergenti; antidoto al dissesto idrogeologico, in un Paese a rischio per due terzi; serbatoio di anidride carbonica; formidabile riciclatore di rifiuti. «Insomma il suolo è il fegato dell’ecosistema terra», sintetizza l’agronomo Antonio Di Gennaro, autore del libretto «La terra lasciata» (Clean Edizioni). Non solo. La pellicola di suolo formatasi in processi millenari si distrugge facilmente e in modo irreversibile.

A metà del secolo scorso, l’Italia aveva il massimo della superficie coltivata. Poi è cominciata l’edificazione di massa, che negli ultimi decenni si è concentrata sul 20 per cento di territorio pianeggiante, cioè più fertile e delicato. Contemporaneamente, l’abbandono della montagna causava un aumento dei boschi per 80 mila ettari. Notizia solo apparentemente positiva: la montagna senza manutenzione rovescia acqua sulla pianura inflazionata. Seguono disastri. Che fare? Negli ultimi anni, qualcosa si è mosso: dal piano regolatore di Napoli, elaborato ai tempi della prima giunta Bassolino dai «Ragazzi del piano» (titolo di un libro dell’urbanista Vezio De Lucia, Donzelli) a quello della Provincia di Foggia, firmato da Edoardo Salzano, fondatore del sito web eddyburg.

In Lombardia, che ha il record di 15 ettari consumati ogni giorno, Domenico Finiguerra, giovane sindaco della minuscola Cassinetta di Lugagnano, è diventato portabandiera dell’urbanistica a consumo zero di suolo. Per ovviare agli incassi ridotti, ha creato un business dei matrimoni attirando turisti fin dalla Russia: dopo i primi contrasti, è stato rieletto a furor di popolo e ora gira l’Italia a raccontare la sua esperienza. Successo inaspettato ha ottenuto Nicola Dall’Olio, autore del documentario fai-da-te «Il suolo minacciato» sulla pianura padana sepolta dai capannoni vuoti. A Milano la ricerca «Spazi aperti», promossa dalla Fondazione Cariplo e realizzata dal Politecnico, ha monitorato la corona di comuni intorno all’area dell’Expo: in soli otto anni più di mille ettari di campi, prati e boschi sono stati persi «con il rischio che gli appetiti sollecitati dal grande evento spazzino via gli ultimi spazi liberi».

Due anni di lavoro e settemila fotografie sono diventati una mostra alla Triennale con 5 mila visitatori in due settimane. Movimenti e comitati si moltiplicano in tutta Italia e due mesi fa Slow Food ha lanciato un appello con il network «Stop al consumo di suolo», proponendo una moratoria per legge sulle aree non edificate. Proprio quello che ha deciso di fare la Provincia di Torino. Per lunghi anni (e in molte parti d’Italia ancora oggi) questi piani provinciali sono serviti solo a elargire laute consulenze, producendo libroni di vaghi e inattuati precetti. In realtà, possono essere importanti.

La Provincia di Torino lo ha elaborato proprio nel pieno della polemica sul nuovo megastore Ikea. Lo stesso Saitta aveva bocciato il progetto della multinazionale del mobile low cost: un nuovo megastore su una zona agricola nell’hinterland torinese. Saitta aveva obiettato: con tante zone industriali dismesse, non è il caso di compromettere un’area libera. L’azienda aveva già da tempo opzionato i suoli, il cui valore nel frattempo si era moltiplicato da 4 a 16 milioni di euro, impuntandosi: o lì o niente investimento. E così è nato un braccio di ferro. Lo scontro ideologico sull’Ikea avrebbe potuto mandare all’aria il piano del territorio, che negli stessi giorni giungeva a conclusione di un lungo iter.

Invece è accaduto il contrario: è stato approvato rapidamente sia in Provincia (maggioranza di centrosinistra) che in Regione (centrodestra) e condiviso con gran parte dei 315 sindaci del territorio. Ora Ikea sta trattando con le istituzioni una diversa collocazione del megastore, su un’area industriale dismessa. Se l’accordo andasse in porto, un capannone abbandonato sarebbe riutilizzato e oltre 150 mila metri quadri di terreno agricolo (un’area pari a venti campi di calcio) sarebbero salvi.

Nota: per chi volesse saperne di più, di seguito le Norme Tecniche del Piano Territoriale della Provincia di Torino citato nell'articolo

I calcoli più prudenti dicono che nell'ultimo decennio sono stati realizzati almeno 30 mila alloggi abusivi ogni anno. Nove milioni di metri cubi di cemento che distruggono l'ambiente, le città e i territori. Che sfuggono alla legalità, non pagano un euro di imposte, maestranze impiegate al nero, cantieri senza sicurezza.

Quei nove milioni sono lo specchio amaro del declino italiano. Sono la denuncia della distanza che ci separa dal mondo civile. In nessun altro paese occidentale si conosce l'abusivismo. Esiste lo Stato che fa rispettare le regole e tutela gli interessi dei cittadini onesti. Da noi ha trionfato l'Italia fai da te. In queste ore, tutte le giustificazioni con cui tentano di approvare il quarto condono edilizio sono state demolite una dopo l'altra dai migliori osservatori della realtà italiana. Eppure vanno avanti lo stesso.

«Con il condono edilizio si incassano preziose risorse». Ieri sul Corriere della Sera, Gian Antonio Stella dimostrava il carattere truffaldino di questa affermazione. I condoni servono spesso per ottenere una legittimazione formale. Si paga la prima rata e poi si rientra nell'illegalità. Di legalità avremmo invece un bisogno estremo. Enrico Fontana nei preziosi volumi Ecomafia di Legambiente ha dimostrato che gran parte degli abusi edilizi commessi negli ultimi decenni servono alla criminalità organizzata per riciclare denaro. Possibile che non lo sappiano ministri e dirigenti del Pdl? No, non è possibile, lo sanno eccome. La questione non è evidentemente giudicata importante.

«Con il condono almeno si incassa qualche risorsa, tanto nessuno demolirebbe nulla». E chi l'ha detto? Se è vero che la filiera dell'abusivismo è in mano alle organizzazioni criminali è giunto il momento di far vedere che esiste un paese che vuole la legalità. Approvi dunque il Parlamento non il quarto condono, ma un provvedimento che affida ai Prefetti e alla Magistratura il compito di eseguire le demolizioni. E se la maggioranza ha già dimostrato come la pensa, sospendendo le demolizioni che dovevano essere eseguite in Campania, perché l'opposizione non delinea con chiarezza che c'è un'alternativa al baratro che ci sta inghiottendo?

Perché la posta in gioco è proprio il futuro dell'Italia. Dopo tre condoni edilizi, se arrivasse anche il quarto nessuno potrebbe più parlare di regole, di legalità, di sviluppo ordinato del territorio, di rispetto dell'ambiente. Saremmo un paese che dichiara fallimento e ciascuno si sentirà in diritto di fare ciò che vuole: costruire dovunque, inquinare le acque, cancellare il paesaggio.

Battere i malfattori del cemento e i loro protettori politici è dunque l'ultima occasione per tentare di rilanciare il paese. La Comunità europea afferma che nel 2020 l'80 per cento della popolazione dei paesi membri vivrà in ambiente urbano. La sfida per la ripresa economica e per il futuro delle nuove generazioni passa nel saper adeguare le città alle sfide di un futuro di innovazione tecnologica, di risparmio energetico, di qualità dell'aria.

Gli altri paesi europei stanno investendo sistematicamente in questo orizzonte. Le loro città vengono dotate di reti tecnologiche; demoliscono autostrade urbane per costruire reti di trasporto su ferro; avviano processi di riconversione ecologica. In Italia, di fronte alle periferie più brutte e disordinate d'Europa, vogliono approvare il quarto condono edilizio! Non saremo più competitivi e perderemo investimenti preziosi.

Se il governo venisse sconfitto da una battaglia limpida su una questione così importante, l'opposizione dimostrerebbe di saper interpretare le diffuse energie che in questi giorni si esprimono contro il condono. Sarà difficile: Sesto San Giovanni è infatti l'altra faccia dell'abusivismo: Anche lì attraverso l'urbanistica contrattata si cambiavano regole e si aumentavano a piacere le volumetrie da realizzare. Molti hanno fatto credere in questi anni che cancellando regole ne avremmo giovato tutti. La crisi in atto dimostra il contrario. E' ora di prendere atto dell'errore. E' ora di chiudere la fase dell'illegalità: basta con i condoni e con la truffa dell'urbanistica contrattata. Solo le regole potranno salvarci dal declino.

Sul promontorio di Capo Vaticano, che Giuseppe Berto definì «uno dei luoghi più belli della Terra», svettano due ville «transgeniche». I proprietari hanno scavato due enormi buche, ci hanno costruito dentro il pavimento e le pareti e chiesto il condono: vasche di irrigazione. Poi, tolta l'acqua, rimossa la terra intorno, aperte le finestre, ci hanno piazzato sopra un tetto et voilà: due ville.

Uno Stato serio le butterebbe giù con la dinamite: non prendi per il naso lo Stato, nei Paesi seri. Da noi, no. Anzi, nonostante sia sotto attacco da anni l'unica ricchezza che abbiamo, cioè la bellezza, il paesaggio, il patrimonio artistico, c'è chi torna a proporre un nuovo condono edilizio. L'ha ribadito Fabrizio Cicchitto: «Se serve si può mettere mano anche al condono edilizio e fiscale. L'etica non si misura su questo ma sulla capacità di trovar risorse per la crescita». Ricordare che lui e gli altri avevano giurato ogni volta che sarebbe stata l'«ultimissimissima» sanatoria è inutile. Non arrossiscono. Ma poiché sono trascorse solo sei settimane dalle solenni dichiarazioni berlusconiane di guerra all'evasione (con tanto di spot) vale almeno la pena di ricordare pochi punti.

Il primo è che la rivista «Fisco oggi.it» dell'Agenzia delle Entrate, al di sopra di ogni sospetto, ha calcolato che dal 1973 al 2003 lo Stato ha incassato coi condoni edilizi, tributari e così via 26 miliardi di euro. Cioè 15 euro a testa l'anno per italiano: una pizza e una birra. In cambio, è stato annientato quel po' che c'era di rispetto delle regole. Secondo, il Comune di Roma, per fare un esempio, dai due condoni edilizi del 1985 e del 1994 ricavò complessivamente, in moneta attuale, 480 milioni di euro: 1.543 per ognuna delle 311 mila abitazioni sanate. In compenso, fu costretto per ciascuna a spenderne in opere di urbanizzazione oltre 30 mila. Somma finale: un «rosso» di 28.500 euro ogni casa condonata. Bell'affare…

Terzo: la sola voce di un possibile condono, in un Paese come il nostro, dove secondo gli studi dell'urbanista Paolo Berdini esistono 4.400.000 abitazioni abusive (il che significa che una famiglia italiana su cinque vive o va in ferie in una casa fuorilegge) scatena febbrili corse al mattone sporco. Ricordate le rassicurazioni dopo l'ultima sanatoria? Disse l'allora ministro Giuliano Urbani che il condono era limitato a «piccolissimi abusi, finestre aperte o chiuse, che riguardano la gente perbene». Come sia finita è presto detto: dal 2003 a oggi sono state costruite, accusa Legambiente, almeno altre 240.500 case abusive. Compreso un intero rione, vicino a Napoli, di 73 palazzine per un totale di 450 appartamenti.

Non bastasse, tre condoni hanno dimostrato definitivamente un fatto incontestabile: tutti pagano l'obolo iniziale per bloccare le inchieste e le ruspe, poi la stragrande maggioranza se ne infischia di portare a termine la pratica nella certezza che la burocrazia si dimenticherà di loro. Solo a Roma i fascicoli inevasi delle tre sanatorie sono 597 mila. Di questi 417 mila giacciono lì da 25 anni.

E vogliamo insistere con i condoni? Piaccia o no a chi disprezza i «moralisti», salvare ciò che resta del paesaggio d'Italia non è solo una questione estetica ma etica. E visti i danni già causati dagli abusivi al patrimonio e al turismo, anche economica.

Per ridurre drasticamente il traffico in centro la giunta punta non solo sulla congestion charge, il super pedaggio che da gennaio dovranno pagare tutte le auto che entrano nell’area protetta dalle telecamere, ma anche su un tracciato di nuove isole pedonali sparse per la città. Un progetto ambizioso che mira a rendere più sostenibile la vita, a cui Palazzo Marino sta giù lavorando.

Nel mirino dell’amministrazione c’è sempre il cuore dell’alta moda, via Montenapoleone: 500 metri di strada che la scorsa giunta non riuscì a pedonalizzare per le proteste dei commercianti. Pisapia non solo rispolvera il progetto rimasto in un cassetto per anni, ma si spinge ancora più in là. All’arteria del Quadrilatero si sta pensando di aggiungere via Manzoni (da piazza Scala a piazza Cavour) e via Torino (dal Duomo al Carrobbio) in modo da costruire la più lunga strada commerciale della città, due chilometri di vetrine che vanno dalle firme degli stilisti alle jeanserie che piacciono ai giovani, dove ci si muoverà solamente a piedi. O in tram, visto che il progetto prevede il passaggio dei mezzi pubblici, sul modello di Berlino e Istanbul.

«Ne parleremo con commercianti e residenti - spiega l’assessore alle Attività produttive Franco D’Alfonso -. Ma come è già stato dimostrato dall’esperienza di via Dante, un’arteria commerciale pedonale non fa che favorire le vendite, oltre a rendere il passeggio più piacevole e la città più bella». Ecco allora che nel progetto per la città del futuro c’è un reticolato di piccole zone senz’auto distribuite per la città. «Non solo grandi interventi come quello dei Navigli che faremo insieme alla riqualificazione della Darsena - continua D’Alfonso -, ma anche piccole aree pedonali vicine agli assi di scorrimento che aiutino a alleggerire il traffico in centro. E perché no, anche a ridistribuire in maniera più equilibrata la movida che oggi si concentra in poche zone città».

La giunta guarda avanti, l’obiettivo è il 2021: dieci anni per ridisegnare la mobilità del centro storico e cambiare le abitudini dei cittadini. Gli uffici sono già al lavoro perché l’intenzione del sindaco è quella di realizzare i primi interventi entro un paio d’anni. Il primo potrebbe essere proprio quello di via Torino e via Manzoni, due strade commerciali che diventerebbero zone a traffico limitato dove l’unico mezzo di trasporto che vi avrà accesso sarà il tram. Ma ci sono altre idee.

A partire dalle strade della Milano romana, dalla basilica di Sant’Ambrogio alla Biblioteca Ambrosiana, progetto presentato a Letizia Moratti da Italia Nostra che ora la giunta Pisapia vuole analizzare. «Personalmente vedo bene la pedonalizzazione della parte a Est di piazza Duomo, oggi morta sia dal punto di vista commerciale e della vita notturna: piazza Beccaria, piazza Liberty, piazza Santo Stefano e largo Augusto. Quest’ultima soprattutto. Era il vecchio Verziere, un centro di scambi commerciali importanti, oggi sfruttato poco. Basterebbe riqualificarlo per renderlo un luogo di aggregazione sia diurno che serale». Stessa cosa per piazza Beccaria: la prova generale sarà a dicembre verrà allestito il mercatino di Natale. Ma un domani la chiusura alle auto potrebbe essere permanente.

Sullo sfondo dello splendido dittico di Federico da Montefeltro e della moglie, Battista Sforza, di Piero della Francesca, visibile agli Uffizi, si delinea il dolce paesaggio collinare che dalle Marche declina verso l'Adriatico.

Uno dei tanti luoghi incantati della penisola che ogni italiano dovrebbe salvaguardare come cosa propria e ineguagliabile bene collettivo. Per amara esperienza sappiamo che così non è.

Neanche in questo caso, come prova con icastica ironia un manifesto illustrato di Italia Nostra che riproduce quel paesaggio nel prossimo futuro, sconciato dall'offensivo profilo del più grande impianto eolico mai realizzato.

Si tratta, in questo caso, di ben 36 torri di 180 metri, un'altezza finora mai vista, dislocate a cavallo di due Regioni, la Toscana e l'Emilia Romagna, con impatti diretti anche sulle Marche. Prende il nome dalla località Poggio Tre Vescovi,e si estende attraverso i comuni di Verghereto (Forlì, Cesena), Casteldelci (Rimini) e Badia Tedalda (Arezzo). Siamo in un crocevia interessantissimo dal punto di vista paesaggistico e culturale, dove le antiche strade di cui si conservano i resti furono percorse dagli eserciti di Annibale verso Roma, utilizzate in seguito dai "Romei" che negli anni giubiliari si recavano ad Assisi ed uniscono a tutt'oggi borghi storici di grande pregio, fortificazioni e resti dell'incastellamento medievale. Sono le terre dei duchi di Urbino, di Cesare Borgia, di Lorenzo il Magnifico.

Il progetto è destinato a devastare questi luoghi, a meno che non venga bloccato dalla Conferenza dei Servizi che si riunisce oggi presso la Regione Toscana con la partecipazione delle altre Regioni interessate, dove saranno prese in considerazione le valutazioni di impatto ambientale.

Tra l'altro andranno analizzate le conseguenze degli sconvolgimenti nella rete dei trasporti, poiché dovrebbero essere realizzati 18 km di strade di collegamento, più 28 interventi di allargamento e rafforzamento di arterie provinciali per il passaggio dei mezzi pesanti. Altro elemento di perplessità desta la morfologia dei luoghi che conserva una buona tenuta del suolo se resta integra la copertura boschiva, mentre presenta una pericolosità erosiva laddove questa viene meno. Lo prova, sul fronte opposto di una delle vallate investite dal progetto, il verificarsi nel 2010 di un fenomeno franoso tra i più vasti dell'ultimo mezzo secolo. Preoccupa, quindi, un'opera che implica ingenti movimenti di terreno e chilometri di sbancamenti. Ma le perplessità non finiscono qui. Tra le più significative vi è la diffida del ministero dei Beni culturali che smentisce la relazione paesaggistica dove si afferma che le pale saranno di colore grigio chiaro per renderle visivamente meno impattanti, mentre una precedente conferenza dei servizi, considerato che la zona è di intenso traffico aereo, aveva già deciso che le pale, andrebbero, comunque, tinteggiate con grandi strisce rosse.

Da ultimo è venuta la denuncia di Italia Nostra alla Procura di Arezzo in cui si segnala che la richiesta di autorizzazione paesaggistica e idrogeologica, compreso il piano particellare di esproprio, viene presentato dai tecnici del Comune di Badia Tedalda. In proposito si sottolinea, come dalla documentazione emerga che il 50% dei terreni interessati sono di proprietà del sindaco Fabrizio Giovannini e di suo fratello Roberto. C'è, quindi, vasta materia d'indagine sui presupposti di conflitto d'interesse e d'interesse privato in atti d'ufficio. Infine l'investimento, supportato dai soliti meccanismi d'incentivi e certificati verdi, ammonta a 220 milioni. Lo promuove una società a responsabilità limitata denominata, Geo Italia, di cui i movimenti ambientalisti non sono riusciti a conoscere nulla. Si tratterà di una delle solite reti di "facilitatori" in cui l'autorità giudiziaria si è già imbattuta nei numerosi crimini emersi quasi ovunque attorno ai parchi eolici?

La «tigre di carta» americana e gli a-islamici Pakistan e Arabia Saudita. Questi gli obiettivi di Osama bin Laden. Che cosa è accaduto a questi tre paesi?

Immagino una conversazione dell'11 settembre 2011 in cui i grandi capi di al Qaeda esprimono un giudizio sullo stato delle cose a dieci anni dall'attacco portato su suolo americano. Credo che si complimenterebbero per quanto hanno ottenuto. Per capirlo dobbiamo considerare quello che ritenevano di dover ottenere con l'attacco dell'11 settembre. Allora Osama bin Laden espresse chiaramente i suoi obiettivi sul lungo periodo. Disse di voler cancellare ottanta anni di umiliazione per il mondo islamico. Ottanta anni? Bin Laden si riferiva all'eliminazione del califfato nel 1924 (non proprio 80 anni) ad opera di Mustafa Kemal Ataturk. Il suo obiettivo dichiarato era la restaurazione di un califfato, presumibilmente ad opera di un discendente diretto di Maometto, che regnasse sull'intero mondo islamico e che fosse governato dalla sharia.

Che cosa si opponeva a un simile progetto? Tre grossi ostacoli. Il primo erano gli Stati Uniti che usavano il loro potere per soggiogare il mondo islamico. Il secondo e il terzo erano i governi di Arabia Saudita e di Pakistan, che bin Laden considerava due pilastri di supporto degli Stati Uniti all'interno del mondo islamico, e di cui denunciava i governi come «a-islamici». In che modo gli attacchi dell'11 settembre lo avrebbero avvicinato al suo obiettivo? Seguiamone il ragionamento. L'attacco diretto e spettacolare agli Stati Uniti sullo stesso suolo patrio era inteso a mostrare come il paese fosse una "tigre di carta" e a insinuare paure profonde negli americani a proposito della loro incolumità e del loro futuro collettivo. Solo la settimana scorsa, al Qaeda ha criticato pubblicamente il presidente iraniano Ahmaninejad per aver suggerito che l'attacco dell'11 settembre era opera degli americani e non di al-Qaeda.

Gli americani, nelle speranze di bin Laden, sarebbero stati trascinati in una "guerra", una guerra che non avrebbero potuto vincere, pur non "perdendola" sul breve periodo dal punto di vista militare. Bin Laden prevedeva che lo stress continuo di una guerra senza fine avrebbe finito per fiaccare gli Stati Uniti, per via degli alti costi materiali e geopolitici. Se questo era l'intento di bin Laden, sarebbe difficile, nel 2011, sostenere che gli ultimi dieci anni abbiano mostrato che aveva torto.

Ma allora perché cercare di colpire anche il governo saudita e quello pachistano? E in che modo? Secondo Bin Laden entrambi i governi - che riteneva corrotti oltre che a-islamici - riuscivano a sopravvivere, anzi a fiorire, per via dell'ambiguità del loro discorso. Entrambi i governi cercavano di conservare il supporto sia delle élite occidentalizzanti e materialiste, sia delle forze popolari fortemente islamiche parlando due lingue: una al mondo occidentale e una a quello interno.

La strategia di Bin Laden era chiaramente di svelarne la duplicità per forzarli a scegliere tra i due discorsi. Per questo contava sulla pressione statunitense - come effetto dell'11 settembre - che lo avrebbe aiutato a fare quello che voleva. Ovvero gli Stati Uniti sarebbero divenuti il suo strumento per fare leva sui regimi saudita e pachistano costringendoli a mettere fine a quella ambiguità.

Oggi, nel 2011, sembra chiaro che questo è esattamente quanto si sta verificando in Pakistan. Con la situazione militare sempre più difficile per gli Stati Uniti in Afghanistan, gli Usa tollerano sempre meno che il regime pachistano - o almeno quella parte del regime rappresentata dai potenti servizi segreti, Isi - dia apertamente sostegno a vari gruppi che combattono attivamente gli Stati Uniti in Afghanistan: i Talebani, la rete Haqqani, e la stessa al Qaeda.

Il Congresso statunitense, sempre più inquieto, chiede di tagliare gli aiuti al Pakistan. Il nuovo Segretario della Difesa, Leon E. Panetta, spinge per un'azione militare americana diretta in Pakistan. E perfino l'ammiraglio Michael Mullen, capo di stato maggiore uscente, che finora aveva insistito sul mantenere grande prudenza nei confronti dei pachistani (riflettendo la forte riluttanza interna alle forze armate statunitensi a impegnarsi militarmente su un'ennesima arena), sembra abbia definitivamente perso la pazienza ed ha criticato apertamente il governo pachistano.

Come ha risposto il Pakistan? Il ministro degli interni, Rehman Malik, ha a sua volta apertamente criticato gli attacchi unilaterali degli Stati Uniti ai militanti islamisti in Pakistan, e ha chiesto agli Stati Uniti il «rispetto della sovranità» del paese. I pachistani si sono poi rivolti agli altri stretti alleati per trovare sostegno. E hanno ottenuto il pieno appoggio a difesa della loro «sovranità» dal vice primo ministro cinese. E il capo dell'Isi è volato in Arabia Saudita per rinsaldare la comune resistenza pachistano-saudita alla pressione Usa.

Al Qaeda si può rallegrare del fatto che sia stata proprio l'uccisione del loro leader ad opera dei Navy Seals statunitensi a precipitare il conflitto aperto tra leader statunitensi e leader pachistani, esponendo così pubblicamente la divisione interna al governo pachistano tra coloro che avevano contribuito a nascondere bin Laden (e di conseguenza non erano stati informati dagli Stati Uniti del raid imminente) e i complici del governo Usa, che avevano indicato il rifugio di bin Laden. Dopo il blitz la quasi totalità dell'opinione pubblica pachistana era unanime nel condannare l'attacco americano.

Oggi, l'alleanza Stati Uniti-Pakistan è generalmente ritenuta fragile e al Qaeda di certo se ne compiace. Ma ha avuto altrettanto successo rispetto al regime saudita? Non proprio. Il governo dell'Arabia Saudita è riuscito a perseverare nella sua ambiguità fino a un certo punto ma solo prendendo maggiori distanze dagli Stati Uniti e dalle loro diverse azioni all'interno del mondo arabo. Il regime saudita era ovviamente preoccupato che si potesse arrivare a una rottura delle relazioni con gli Usa analoga a quella che si sta verificando Pakistan.

I sauditi sono riusciti in questo combinando una grande fermezza interna con alcune ulteriori concessioni ai gruppi di élite (come testimonia il recente annuncio secondo cui le donne avranno diritto di voto), l'intervento diretto, se necessario, a sostegno dei governi dei vicini stati del Golfo (come testimoniato dalle truppe spedite in aiuto al governo del Bahrain), e un aumentato aiuto economico e diplomatico ai palestinesi. Ma tutto questo basterà? Il più grosso problema per il regime è la controversa minoranza sciita oppressa che si trova fortuitamente proprio nei pressi dei più grandi depositi di petrolio. Inoltre al-Qaeda non aiuterà il regime sciita a trattare in modo intelligente le rivendicazioni sciite.

Dunque, come riassumere tutto questo? I leader di al Qaeda sono stati uccisi in gran numero dai reparti speciali statunitensi, questo è vero. E di fatto hanno perso lo stesso bin Laden. E tuttavia non sembra che questo li abbia rallentati. Al Qaeda è diventata un franchising islamico, e a quanto pare si formano sempre nuovi gruppi ansiosi di portarne il nome, anche se di fatto agiscono in modo autonomo. Gli Stati Uniti oggi sono chiaramente più deboli dal punto di vista geopolitico rispetto al 2001. Il regime pachistano lotta per sopravvivere e quello saudita è molto preoccupato. Il Califfato non è ancora risorto, ma i leader di al Qaeda sanno essere pazientemente impazienti. Dal punto di vista operativo sono impazienti. Da quello strategico sono molto pazienti.

Traduzione di Maria Baiocchi. Nell’icona: Manhattan, 11 settembre 2001 /foto Reuters

All’interno della crescita esponenziale che ha caratterizzato l’industria finanziaria mondiale negli ultimi 30 anni, un posto di rilievo è sicuramente rappresentato dai cosiddetti derivati finanziari. Si tratta di strumenti che hanno permesso e ancora oggi permettono – di trasferire in misura massiccia i rischi da una persona ad un’altra.

Il meccanismo è semplice: un soggetto si impegna a compensare un altro soggetto nel caso in cui un debitore si trovi per una serie di motivi predeterminati nella condizione di non poter onorare il proprio debito. Quando a metà degli anni Ottanta i derivati cominciarono a diffondersi, la Banca dei Regolamenti Internazionali aveva subito avvertito che in questo modo il rischio poteva finire nelle mani di soggetti assai poco attrezzati per valutarlo e gestirlo adeguatamente e, soprattutto, non sottoposti ad una adeguata vigilanza.

Eppure proprio coloro che avrebbero dovuto padroneggiare la materia meglio di chiunque altro la complessa e intricata galassia degli economisti finanziari non sembrava particolarmente preoccupato. Vi era anzi una fiducia pressoché totale nel fatto che, proprio grazie all’uso dei derivati, il sistema finanziario e creditizio avrebbe avuto la possibilità di aumentare la propria efficienza e favorire una crescita economica duratura. A provarlo è un questionario che l’International Swaps and Derivatives Association ha sottoposto nel febbraio del 2004 a 84 professori di finanza appartenenti alle 50 migliori business school mondiali fra cui la Columbia University, il MIT, l’Università di Chicago e anche la nostra Bocconi.

A leggere oggi le risposte a quelle domande c’è da restare quasi increduli: il 98% degli intervistati sosteneva che i derivati avrebbero consentito alle imprese di aumentare stabilmente il valore azionario. Addirittura il 100% sosteneva che l'uso dei derivati avrebbe aiutato le aziende a gestire meglio il rischio finanziario. Più della metà di chi ha risposto al questionario sosteneva che i derivati non avrebbero creato nuovi rischi. Ma il bello viene alla fine: il 99% degli intervistati credeva che l’impatto dei derivati sul sistema economico globale sarebbe stato positivo e oltre l’80% era sicuro che i rischi associati all’uso dei derivati fossero stati sovrastimati.

LA REALTÀ E LA TEORIA

A giudicare da come sono andate le cose viene da pensare che avesse ragione Josiah Bartlet, il presidente degli Stati Uniti e Nobel per l'economia della celebre serie televisiva The West Wing, quando diceva che «gli economisti servono solo per dare credibilità agli astrologi». Con la mente oscurata da modelli matematici sempre più complessi e da ipotesi sempre più ardimentose, gli studiosi di finanza avevano perso di vista la realtà delle cose, ovvero il fatto che l’innovazione finanziaria stava cambiando il rapporto fra produttori e finanziatori, con tutti le conseguenze che questo stava portando con sé.

La dissociazione fra realtà e teoria è un errore che è stato ripetuto anche negli ultimi mesi in Europa. Con il supporto di economisti e commentatori in gran parte vicini alle forze politiche conservatrici, le istituzioni europee hanno insistito nell’affermare che per rilanciare la crescita economica era necessario impostare sempre più gravosi piani di austerità per ridurre rapidamente l’indebitamento.

L’idea di fondo è che a fronte dell’impegno dei singoli governi a ridurre la spesa pubblica e successivamente le tasse, le famiglie si sarebbero attese “razionalmente” di poter beneficiare in futuro di un crescente reddito disponibile e quindi avrebbero aumentato i propri consumi sin da subito rilanciando così la domanda.

A giudicare dai risultati finora ottenuti, non sembra che questa bizzarra teoria avrà maggiore fortuna di quella che aveva portato a decantare le lodi dei titoli derivati. Proprio l’altro ieri l’Economist confermava la revisione al ribasso delle stime di crescita per i prossimi mesi già preannunciate dalla JP Morgan dieci giorni fa. Essere accostati agli astrologi è una cosa che certi economisti hanno loro malgrado imparato ad accettare. Non vorremmo invece che i politici europei finissero per prendere l’abitudine di essere le uniche persone che ancora credono a maghi e fattucchiere.

Mentre la politica italiana s´ingarbuglia nella complicata liquidazione del berlusconismo, le prime vittime della Grande Depressione, cioè i giovani, mirano più in alto. Da temerari, lanciano una sfida globale contro la superpotenza finanziaria. Usano lo spagnolo per definirsi indignados. Scrivono in inglese i loro striscioni: Save school, not banks! S´interconnettono nella scelta dei bersagli: agenzie di rating, Borsa, banche d´affari, istituzioni finanziarie sovranazionali. Se la primavera araba ha abbattuto dei tiranni decrepiti, l´autunno occidentale si misura con l´anonimato di un´altra tirannia che traballa: i dogmi di un´economia incapace di distribuire equamente il benessere.

Troppo facile accusarli di velleitarismo, ora che il loro movimento ha circondato perfino il santuario di Wall Street. Neanche il più nostalgico dei marxisti avrebbe osato pronosticare un simile evento storico: lo spettro dell´anticapitalismo si aggira per gli Stati Uniti d´America? Calma e gesso, l´individualismo e lo "spirito animale d´intrapresa" restano connaturati all´America. Mai però la contestazione aveva insidiato prima d´ora i forzieri del capitale, là dove buona parte della ricchezza planetaria viene convogliata e ripartita secondo criteri incomprensibili a noi comuni mortali. Fino a erigere la piramide assurda dell´ingiustizia sociale che neppure i suoi beneficiati osano più giustificare.

Nella Grande Depressione in corso ormai da quattro anni, ha proliferato dapprima diffuso un senso comune anti-élitario, di destra o di sinistra. E ora ne scaturisce un´inedita contestazione eretica dei vincoli dell´economia di mercato. Quando è apparso evidente come all´arricchimento smisurato di pochi corrispondesse l´impoverimento di nazioni intere, gli indignados hanno lanciato la rivolta contro gli intoccabili.

Questi giovani pretendono (si illudono?) di dare un volto ai giocatori che speculano sull´azzardo finanziario. Denunciano le conseguenze di un debito da costoro continuamente riacceso e dunque (solo per loro vantaggiosamente) infinito. Insieme ai tecnocrati, contestano i professori di economia arcisicuri che la sofferenza sociale vada sopportata, perché dalla crisi si uscirà prima o poi ripristinando la baldoria di prima.

La simultaneità dei movimenti di protesta giovanile esplosi a ogni latitudine, rompe i vecchi schemi terzomondisti. Oggi è nel cuore del sistema capitalistico occidentale che si genera l´antagonismo sociale, impersonato da soggetti nuovi come i lavoratori della conoscenza. D´un colpo è invecchiata pure la terminologia suggestiva ma generica di Toni Negri sull´"Impero" circondato da "moltitudini" espropriate: un movimento statunitense che si autodefinisce "Occupy Wall Street" esprime ben altro che la protesta delle periferie del pianeta. Atene, Tel Aviv, Madrid, Santiago non sono più così distanti da New York. Semmai è l´Occidente stesso che comincia a patire le conseguenze della sua eclissi. Smette di credere alla favoletta della ripresa dietro l´angolo, perseguibile con apposite manovre governative dettate dall´alto. Dubita dell´efficacia di piani di rientro del debito sempre più onerosi. Si domanda se una civiltà che prevede un limite ai minimi salariali, per sostenibilità non debba contemplare pure un limite ai compensi elevati.

Trovano così cittadinanza, nel senso letterale del termine, le domande scandalose che purtroppo l´accademia e l´establishment commettono l´errore di liquidare con sufficienza.

La politica, compresa la politica di sinistra, evita di rappresentarle, considerandole naïf, perché a sua volta affida le proprie chance di successo ai rapporti confidenziali che intrattiene con l´accademia e l´establishment. Nessuno che aspiri a governare l´Italia, per esempio, azzarderebbe una contrapposizione esplicita alla lettera-diktat spedita dalla Bce l´agosto scorso. Gli indignados di casa nostra, viceversa, pretendono di consegnare nei prossimi giorni alla Banca d´Italia una lettera dai contenuti diametralmente opposti.

L´appello messo in rete per la giornata europea di mobilitazione, convocata il prossimo sabato 15 ottobre, si rivolge alla Commissione europea, alla Bce e al Fondo monetario internazionale, assimilati alle multinazionali e ai poteri forti: "Ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita". La replica degli indignados è secca: "Non è vero che siano scelte obbligate". Alla politica chiedono di esercitare un contropotere rispetto alla superpotenza finanziaria globale, perfino rivendicando il "diritto all´insolvenza".

L´equazione grossolana secondo cui "il debito non l´abbiamo contratto noi, quindi non lo paghiamo", comincia a essere declinata in forme più articolate. Come l´ipotesi di un "default concordato e selettivo" a protezione dei ceti deboli. Anche per rintuzzare la voracità di cui sono vittime i paesi più indebitati, come la Grecia, a rischio di spoliazione. È una follia questa richiesta di sottrarsi alle regole dei mercati? Può darsi, ma nel caso bisognerà spiegarlo con umiltà a molta gente che nei decenni trascorsi – quando pure furono dei tecnici eccellenti a guidare le politiche di risanamento – ne subirono ingenti decurtazioni di reddito. Neanche l´idea di accollare agli Stati un oneroso piano di rifinanziamento delle banche risulterà accettabile, finché latitano provvedimenti di maggiore giustizia sociale. "Salvate le scuole, non le banche", appunto.

Succede quindi che su ambedue le coste dell´Atlantico si riconosca un nemico comune. Magari ridotto in caricatura semplicistica da chi imbratta le sedi delle banche e occupa gli uffici delle agenzie di rating. Ma si tratta di una reazione comprensibile di fronte a un´economia trasformatasi in ideologia. Sono due docenti dell´università Bocconi, Massimo Amato e Luca Fantacci, a denunciare il feticcio di un sistema finanziario solipsistico in cui pareva possibile che i conti non si chiudessero e i debiti non si pagassero mai (Fine della finanza, Donzelli editore). Fino all´"eternizzazione dell´espediente": da ultimo, creare debito impagabile prestando soldi a chi non può permettersi di rimborsarli, tanto… chi vivrà, vedrà.

Ecco, non si può pretendere che gli indignados, italiani, greci, islandesi, spagnoli o americani che siano – comunque figli rimasti esclusi dai nostri privilegi – credano ancora che l´innovazione sia di per sé portatrice di miglioramento. La creatività dei finanzieri, se mai fu ammirevole, oggi risulta detestabile. E per favore non chiamatela invidia sociale.

Presentando al consiglio comunale di Cupertino il suo progetto per una nuova sede centrale dell’azienda, il patron di Apple conferma che non sempre all’avanguardia tecnologica corrisponde l’avanguardia in senso lato. Del resto ce lo dicevano già i cartoni dei Pronipoti

Come sanno gli appassionati di fantascienza, fra i mille rivoli in cui si frammenta questo ramo della letteratura contemporanea se ne possono di sicuro individuare due famiglie omogenee, che secondo la cosiddetta legge di Sturgeon si spartiscono la torta nella quota l’una di circa il 10% (la produzione che vale qualcosa), l’altra del 90% (paccottiglia allo stato puro, quando va bene). In sostanza, una piccola parte della narrativa futuristica si pone davvero problemi rilevanti, vuoi di ordine scientifico che sociale, o ambientale ecc., e li sviluppa in modo complesso e articolato cercando di farci riflettere anche sullo stato attuale delle cose. La stragrande maggioranza di ciò che compriamo in edicola, in libreria, o guardiamo al cinema e in televisione, è solo un modo come un altro per rifilarci cose già sentite e banali, travestendole più o meno elegantemente con orpelli insoliti, dai viaggi dentro le astronavi, alla vita dentro a enormi labirinti sotterranei o nelle profondità dell’oceano. Ma come capisce chiunque non basta sostituire al cappello a larga tesa e al cavallo una tuta spaziale e la velocità della luce, per passare davvero dall’avventura western a qualcosa di diverso.

Ce l’hanno insegnato sin da bambini i cartoni dei Jetsons (i Pronipoti) che si può condurre una vita del tutto noiosa e senza particolari sorprese, anche se si abita su una stazione spaziale circondata dalle stelle invece che in una villetta con giardino. Si va con mamma e papà al supermercato il sabato, salvo che i carrelli magari fluttuano in aria e le scatolette hanno forme un po’ strane. Suona il campanello della stazione spaziale, e compare il rompiscatole Sprizzi Sprazzi a cercare di venderci un aspirapolvere atomico, e via di questo passo. Ho provato una sensazione del genere dopo aver visto il breve filmato in cui Steve Jobs, con la solita buona capacità comunicativa, raccontava al consiglio comunale di Cupertino la propria “offerta che non si può rifiutare” in materia di nuova sede degli uffici Apple. Gli argomenti preliminari sono, come si può immaginare, del tutto ovvi: l’azienda cresce “come un’erbaccia infestante” e ormai si è infilata un po’ dappertutto in città, dentro a sedi proprie o meno proprie, moderne e meno moderne. Oggi scoppia, e Jobs premette il classico “vorremmo rimanere qui, dove siamo nati e cresciuti”. Figurarsi cosa ne penserebbero i nostri eroici consiglieri comunali, di veder andar via il fiore all’occhiello tecnologico e occupazionale di tutta la Silicon Valley …

La Apple è qualcosa di molto più che non un gigante dell’high-tech: è un vero e proprio simbolo di post-modernità, tutti i suoi prodotti e anche l’immagine dell’impresa (come ben sa Jobs) contribuiscono a dare il segno alla nostra epoca. Siamo in California, anzi nel cuore socioeconomico e culturale della California, dove si dovrebbero intrecciare al meglio tutte le potenzialità, ad esempio nel rapporto fra ambiente, territorio e attività umane. L’ex Governatore Arnold Schwarzenegger, anche mettendosi contro una parte del suo elettorato Repubblicano, un paio d’anni fa ha varato la cosiddetta SB 375, una legge che sostanzialmente impone di iniziare ad allontanarsi dal modello classico dell’american dream, ovvero un mondo fatto di villette, centri commerciali, autostrade, e centinaia di litri di benzina bruciati e scaricati nell’atmosfera per fare qualunque cosa. Uno dei capisaldi di questo mondo da cui ci si dovrebbe gradualmente allontanare, è il parco per uffici, ovvero la grande concentrazione extraurbana delle sedi di imprese, raggiungibile solo in auto, immersa nel verde, lontanissima dalle abitazioni e da tutto il resto. Apple è impresa virtuale per antonomasia, e invece cosa fa Steve Jobs?

Davanti al consiglio comunale di Cupertino, Jobs racconta la sua storia di adolescente che trova il primo lavoro, tanti anni fa, alla Hewlett Packard, nella stessa città. Oggi quel campus è dismesso, perché l’azienda si è ristretta, e la Apple si è comprata tutti i settanta ettari del terreno … per farci un nuovo office park! Seguono descrizioni dettagliate del concept plan già abbozzato dallo studio dell’archistar Norman Foster, una specie di enorme salvagente di cristallo, che come scherza lo stesso Jobs assomiglia parecchio a un’astronave. Tutto molto ambientalista e tecnologico, massimo risparmio energetico, gestione integrata di luce, acqua, rifiuti, bonifica e ripiantumazione massiccia dei terreni, niente da dire sotto questo profilo. Siamo davvero su un altro pianeta rispetto ai classici general headquarter suburbani delle grandi imprese, di solito costruiti in una logica anni ’60, e che in caso di riuso pongono enormi problemi. Ma rispunta quella vaga sensazione di trovarsi di fronte a un cartone animato dei Pronipoti: tanti spunti avveniristici, stimoli, divertimenti, ma alla fin fine non si esce dal modello che già conoscevamo, ovvero la grande sede suburbana di un’impresa, dove tutti arriveranno “da fuori” nel migliore stile del pendolarismo novecentesco, pur immersi nel verde fino al collo, ma senza alcuna integrazione urbana e sociale.


Le teorie di Richard Florida sulla cosiddetta creative class hanno molti aspetti discutibili, specie quando si osserva nella pratica il tipo di riqualificazione urbana che inducono, con espulsione dei ceti a redditi medio-bassi e relative attività commerciali e di servizio. Questo piallare verso l’esclusività interi quartieri si accompagna però a un percorso parallelo virtuoso: un vero mixed-use spaziale, dove ad esempio le potenzialità delle tecnologie sono sfruttate al massimo per lavorare da casa, dal bar, per spostarsi a piedi, in bicicletta, coi mezzi pubblici, e solo quando davvero serve o se ne ha il desiderio. Ciò consente insediamenti densi, che offrono molti servizi, in una parola centri urbani in senso proprio, del tipo che abbatte le emissioni e che è raccomandato dalla SB375 di Schwarzenegger, contro la crisi energetica e il cambiamento climatico. Invece con il campus a forma di astronave dei Pronipoti voluto da Steve Jobs nell’ex parco per uffici della Hewlett Packard si riproduce un modello di azienda suburbana concentrata classica, nonostante tutte le eccellenze ambientali.


E pensare che tante imprese, come hanno rilevato da anni gli studiosi, spinte anche dalla voglia di ritrovare bacini di manodopera qualificati e concentrati, si stanno ricollocando al centro delle regioni metropolitane, in posti densi, abitati, con tante funzioni composite. I problemi della mobilità, della eventuale dispersione fra sedi diverse, della non costante prossimità fisica nel medesimo edificio, sono cose ormai rese obsolete dalle possibilità delle comunicazioni: per un lavoro qualificato appare assai più importante avere stimoli dall’esterno che trovarsi TUTTI dentro la massiccia sede centrale della multinazionale. E invece, sotto sotto, lo stratega della Apple sembra rifiutare ciò che del futuro non gli piace: lui l’american dream lo preferisce classico, con la partenza dell’automobile dal bianco steccato tutte le mattine, e l’arrivo davanti al modernissimo ufficio una mezzoretta dopo. Che importa se nel frattempo abbiamo riscaldato l’atmosfera coi nostri scarichi, ,quello è un problema secondario, che risolveremo sicuramente con un nuovo modello di iPhone, o tavoletta multi-tutto. Insomma onore al merito, ma come dicono da secoli, diffidiamo dei profeti, anche di quelli che in qualche modo ci azzeccano.

POSCRITTO: oggi 7 ottobre 2011 alcuni osservatori americani commentano, ricordando la presentazione di Jobs al consiglio comunale di Cupertino, che probabilmente la nuova futuristica sede della Apple è da interpretare come grande opera lasciata ai posteri dal visionario imprenditore. Il che non sposta di un millimetro il giudizio, sia mio che di altri, a proposito del modello obsoleto suburbano di riferimento del progetto Jobs/Foster; nella versione dell'articolo su Mall. un paio di links in più (filmato, immagini del progetto, commenti ...)

Tutela e rilancio del parco agricolo sud, dotazione di servizi di qualità che prevedano anche la collaborazione tra pubblico e privato, incentivo al social housing e riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente, ridimensionamento delle volumetrie edificabili, costruzione di un progetto per il “dopo Expo” , riorganizzazione del sistema dei trasporti milanesi. Sono i sei punti chiave del documento “Un Pgt che si fa progetto, per il rilancio di Milano” redatto da molte delle associazioni e dei gruppi che in questi anni hanno fatto propria la battaglia per un Piano di Governo del Territorio più vicino alle esigenze della città e di chi la vive. Non solo.

Il documento ha visto la collaborazione pressoché inedita di mondi diversi e opposti: ACLI, AGCI, ARCI, ANCE, Associazione delle Imprese Edili e complementari, Federazione Lombardia Confcooperative, Fiab Ciclobby, Genitori Antismog, Legacoop Abitanti Lombardia, Legambiente Lombardia, Libertà e Giustizia. Imprese edili, cooperative edilizie, associazioni cittadine e ambientaliste da quest’estate si sono riunite con l’obiettivo di consegnare all’Amministrazione un ulteriore contributo in fase di revisione del Piano di Governo del Territorio deliberato dalla Giunta precedente, destinato a tornare in Consiglio Comunale dopo la revoca della delibera di approvazione per la discussione integrale delle osservazioni dei cittadini.

Più qualità e meno quantità, ovvero minor sfruttamento del suolo e investimenti sul patrimonio edilizio esistente.

Se per Damiano Di Simine di Legambiente è fondamentale consolidare il patrimonio agricolo del Parco Sud annullando la logica della perequazione introdotta nel Piano dalla Giunta precedente (che prevedrebbe il dirottamento delle volumetrie di proprietà privata all’interno del parco su altre zone della città), per Claudio De Albertis di Assimprendil è necessario recuperare i vecchi edifici, quelli degli anni 60-70, costruiti con materiali di scarsissima qualità e fortemente inquinanti, e che oggi rappresentano il 70% del costruito. Tutti concordi, questa volta anche i costruttori, sul fatto che l’attuale situazione economica impone un ripensamento sul progetto di espansione e cementificazione ipotizzato dal Piano dell’ex Assessore all’urbanistica Carlo Masseroli.

Un Masseroli inedito, quello intervenuto alla presentazione del documento, improvvisamente –azzardiamo “miracolosamente”- favorevole alla revisione del suo Pgt, dopo aver svilito per mesi il diritto al coinvolgimento della città nella sua stesura e aver sostenuto strenuamente la necessità di costruire case per oltre mezzo milione di nuovi abitanti. “Potrei metterci la firma anche io su queste richieste- ha detto l’ex Assessore di fronte ad una platea quasi incredula- In fondo sono solo piccole modifiche al Piano che abbiamo deliberato. L’incremento del social housing, l’impossibilità di costruire all’interno del Parco Sud, gli incentivi sul risparmio energetico: sono tutte cose già stabilite da noi. Per quanto riguarda la riduzione dei volumi, mi sembra un tema di poco interesse: dipende dai gusti. Il centro città ad esempio è sovraedificato ma piace così e ci si vive bene”.

Sono pochi mesi che Masseroli non ha più lo scettro dell’urbanistica di Milano ma sembra aver già dimenticato alcuni passaggi fondamentali del lungo iter che ha portato all’approvazione del Pgt; di come sia stato duro il lavoro in consiglio comunale del centro sinistra per riuscire a salvaguardare il parco agricolo sud dalla cementificazione (su cui per altro vige la legge regionale che vieta l’edificazione al suo interno), per porre vincoli più stretti alla realizzazione di social housing, per garantire un rafforzamento delle politiche di risparmio energetico per le nuove costruzioni.

“La pianificazione territoriale richiede dialogo tra i soggetti coinvolti e questo documento è la strada giusta- ha detto Lucia De Cesaris, assessore all’Urbanistica- ne terremo certamente conto in sede di redazione del documento di indirizzo che porteremo entro ottobre in consiglio comunale”. A gennaio dovrebbe cominciare invece la discussione di quelle 4765 osservazioni che la Giunta precedente ha ritenuto di liquidare nel giro di una manciata di votazioni. Chissà questa volta come voterà l’ex Assessore Masseroli, ora capogruppo dell’opposizione: prevarrà il sentimento di tutela del Pgt di cui si è orgogliosamente fatto padre o il nuovo spirito ambientalista?

Silvio Berlusconi non si fida di quello che non può comprare: per questo, quando sente parlare di cultura, mette mano al portafogli, cioè a Mediaset, a Publitalia, o comunque a qualcuno dei suoi stipendiati. Il penultimo ministro della Cultura, Sandro Bondi, era stato il suo segretario particolare; l’attuale – quel Giancarlo Galan il cui avvento aveva suscitato qualche speranza (o piuttosto illusione) – deve la sua carriera politica all’esser stato direttore centrale di Publitalia.

È questa la chiave per capire perché proprio Galan ha nominato Giulio Malgara alla presidenza della Biennale di Venezia. Questa mossa, infatti, non è solo l’ennesima epifania della concezione dinastico-patrimoniale dello Stato in base alla quale Berlusconi nomina deputati o ministri i suoi avvocati, i suoi dipendenti, i suoi testimoni, i suoi lacchè o le sue fornitrici di patonza. No: mettere l’inventore dell’Auditel (vale a dire il marchingegno che ha sradicato dal sistema televisivo italiano financo il concetto di qualità) a dirigere la massima manifestazione culturale del Paese è uno sbrego di immenso valore simbolico. Equivale a neutralizzare la cultura, sancendo una volta per tutte che essa è un prodotto, una merce come un’altra: e che conta solo a quanta gente la vendi e quanti quattrini ci tiri su.

E non è una mossa isolata, bensì lo ‘scacco al re’ di una partita che dura da un pezzo. Chi dirige, per esempio, la Triennale di Milano? L’ex direttore artistico di Canale 5 ed ex responsabile della comunicazione Fininvest, Davide Rampello. Chi è stato nominato da Galan al vertice di Cinecittà-Istituto Luce? Rodrigo Cipriani, direttore di Media digit (la sezione di Mediaset che si occupa dei new media) ed ex Publitalia. E chi dirige la Valorizzazione del patrimonio artistico italiano? Il consigliere di amministrazione della Mondadori Mario Resca.

Quest’ultimo, per esempio, sta cercando (in perfetta buona fede) di mettere in piedi un marketing fatto di eventi spettacolari, mostre a getto continuo, ‘noleggi’ di opere a privati e spedizioni di ‘capolavori’ all’estero. L’idea è quella di trasformare Caravaggio o Raffaello in commessi viaggiatori di un’Italia a sua volta trasformata in Disneyland, a cui dovrebbero portare vantaggi di immagine ed utili economici (secondo una petizione di principio, questa sì, puramente ideologica e non suffragata da un mezzo numero reale). Così la ‘valorizzazione’ diventa un lavoro da pierre o da piazzisti, completamente indifferenti alla funzione e all’identità stessa del prodotto che vendono. Nessuno sembra ricordare che la Costituzione italiana tutela il patrimonio artistico perché esso produca cultura, cittadinanza consapevole, senso critico, educazione e crescita morale: e che, se lo si trasforma in una merce da vendere o in un intrattenimento di tipo televisivo, non solo lo si danneggia materialmente, ma lo si rende completamente inerte, inutile, perfino dannoso.

Ma forse il fine è proprio questo: smantellare, dopo la scuola e l’università, anche il sistema dell’arte e della cultura – pericoloso vivaio di dissenso e pensiero libero –, sottraendolo alle detestate e inaffidabili ‘persone di cultura’ e consegnandolo invece a fidati pubblicitari, dipendenti delle aziende del Presidente del Consiglio. E in tutto questo si riesce ad avvertire – quasi fisicamente – il rancore, la diffidenza, la paura verso la libertà della cultura. Quella cultura, a cui, prima o poi, bisognava pur riuscire a imporre un auditel, un guinzaglio, una museruola.

Titolo originale: Pakistan gated community sparks controversy – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Lungo curatissimi prati e casette marciapiedi in perfetto ordine scendono il pendio della collina artificiale di fianco a steccati bianchi, coi bambini che giocano e i vicini che si scambiano saluti.

Il grande quartiere si chiama Bahria — " Vieni nella tua casa esclusiva" recita la promozione — e gestisce in proprio raccolta rifiuti, scuole, pompieri, moschee, rete idrica, polizia di pronto intervento: una specie di stato perfettamente efficiente dentro a un altro stato che efficiente non lo è affatto. E tutto quanto è garantito senza neppure pagare le bustarelle indispensabili fuori, precisano gli abitanti.

"Mi piace abitare qui" racconta Abdul Rashid, ultrasessantenne ex impiegato governativo in pensione. "É come abitare in un piccolo paese tranquillo e garantito: pulizia, servizi che funzionano, la famiglia si può rilassare. Se si presenta qualunque problema, si dà un colpo di telefono alla sicurezza".

La stridente presenza di questo quartiere di ceto medio alto, in un paese tanto violento, ha avuto la strada spianata anche dai militari. Grazie alle leggi dell’epoca imperiale britannica, che assegnavano terre alle truppe amiche, l’esercito oggi controlla circa il 12% delle superfici di proprietà pubblica del Pakistan, secondo alcune stime. E nella propria posizione privilegiata è in grado di coinvolgere con vantaggi reciproci e facilitazioni grossi costruttori.

Bahria e il suo corrispettivo militare Defense Housing Authority insieme coprono una superficie doppia rispetto alla città di Rawalpindi, piazzaforte a circa 30 minuti dalla capitale Islamabad.

Nella zona elegante di Safari Villas, tra la Sunset Avenue e College Road, Mohammad Javed, 69 anni, dà un’occhiata al suo giardinetto prima di rientrare nella casa da tre stanze sull’angolo, e accomodarsi nell’angolo divano beige davanti all’ultrapiatto televisore Samsung. I prezzi vanno dai 25.000 ai 60.000 dollari, fuori portata per la maggior parte dei pachistani.

Ha avuto un gran successo, Bahria, non solo tra chi aveva dei soldi e stava qui, ma anche tra chi torna dall’estero. Come Javed, gestore di un distributore di benzina in Canada rima della pensione, spera di continuare anche qui il suo stile di vita nordamericano. Il muro di cinta protettivo attorno a Bahria dà sicurezza, spiega, anche se ancora non si fida a far venire qui i parenti, per timore che succeda qualcosa di brutto fuori. "Ci vediamo in Thailandia o in Canada".

Difficile criticare i pachistani che si proteggono dietro le mura private, quando sono in crescita attentati suicidi, imboscate a sfondo politico, irrequietezza diffusa, ovvio che si sia preoccupati. Ma si teme che questo progetto possa allargare la distanza fra ricchi e poveri, oltre ad essere dannoso per l’ambiente.

L’edificazione si espande e divora terreni agricoli, alimenta un traffico da incubo, distrugge i rapporti sociali, commenta l’architetto Jamshaid Khan, che progetta le case di Bahria e altrove. In tutta la gated community non ci sono campi da calcio né da cricket, neppure biblioteche: non sono cose da cui si guadagna.

"Mi sono offerto di progettarle gratis, le biblioteche, anche di regalare dei libri" ci racconta nel suo studio stipato di lucidi. "Non le hanno volute".

Questo tipo di quartieri sottolinea anche lo squilibrio economico.

"Non è bello" commenta il sarto trentenne Mohammad Ameen, che abita giusto fuori dal cancello di ingresso di Bahria, col metro appeso attorno al collo. "I pachistani ricchi fanno la bella vita, e noi soffriamo. É uno stato dentro lo stato. L’energia che consumano provoca a tutti gli altri cadute di tensione".

Il settore foreste di Rawalpindi accusa Bahria di essersi allargata troppo su aree non di propria competenza. Ci sono ricorsi in tribunale che sostengono un trattamento troppo di favore grazie ai contatti con polizia, politica locale, magistratura. La gestione non ha voluto rispondere alle nostre domande.

Questa settimana l’amministratore generale di Bahria, il colonnello in pensione Saeed Akhtar, è stato arrestato insieme al supervisore Muhammad Iqbal con l’accusa di aver acquisito circa 70 ettari di superficie con documentazione falsa. L’avvocato del gruppo, Malik Waheed Anjum, dichiara al giornale Express Tribune che Bahria è vittima di altri documenti falsi, quelli di proprietà prodotti dal fisco.

Tutto il progetto è partito dall’allora piccolo costruttore Malik Riaz negli anni ‘80. La concorrenza si rivolgeva ai super ricchi, lui ha cominciato a costruire per l’emergente ceto medio, diventando il più importante operatore di tutto il Pakistan.

Secondo i critici l’impero di Riaz a Bahria è troppo condizionato dai legami con gli ambienti militari. Ayesha Siddiqa, autrice di Military Inc: Inside Pakistan Military Economy, sostiene che è grazie a quei legami se si sono acquisiti i terreni, restituendo poi il favore ad alti ufficiali sotto forma di immobili.

"Anche i migliori, quelli che hanno fama di non essere corrotti, alla fine si sono ritrovati con due o tre immobili. Vantaggi per tutti".

Le cifre ufficiali affermano che i militari possiedono poco meno di cinque milioni di ettari di terreni, vale a dire il 12%, delle superfici statali del Pakistan, spiega la Siddiqa, di cui la metà direttamente controllata da ufficiali in servizio o in pensione, in un paese dove ci sono venti milioni di contadini senza terra.

"Nessuno salvo i militari ha un potere del genere". L’amministrazione di Bahria ha appena emesso un bando pubblico rivolto ad alti ufficiali in pensione, per importanti incarichi nel gruppo- prosegue la Siddiqa – e sta qui la chiave per avere altro potere”.

Ma per chi ci abita, come l’imprenditore alimentare Shaheryar Eqbal, sono tutte questioni marginali se si pensa a quanto vantaggi comporta Bahria.

"Il governo dovrebbe consideraci un modello, e realizzarne altre. L’esercito ha un accordo, che funziona a Bahria. Tutto funziona. Il Pakistan certo supererà la fase del terrorismo, ma la chiave del futuro è qui".

URBANIZED: made urban in nature; taking on urban characteristics. Si può iniziare da queste definizioni per raccontare l’ultimo lavoro del regista newyorchese Gary Hustwit che si intitola, appunto, Urbanized, (qui il trailer ufficiale) la cui traduzione letterale “rendere urbana la natura” o “assumere caratteristiche urbane” restituisce quella dimensione di perpetuo movimento e cambiamento che ogni città ha nel proprio dna e che, a fronte di mutamenti economici e sociali sempre più veloci, rischia di condannarla all’ingovernabilità.

Più del 50% della popolazione mondiale vive in aree urbane e prima del 2050 la percentuale è destinata a raggiungere il 75%. A fronte di questi spostamenti demografici cosa succederà al supporto fisico (case, strade e tutto quello che compone lo spazio urbano) destinato ad ospitare i nuovi arrivati? Per cercare di comprenderlo, e di raccontarlo, Hustwit interroga architetti, urbanisti e politici su oltre quaranta progetti urbani che si propongono di affrontare le nuove sfide della città contemporanea: mobilità, politiche ambientali, spazio pubblico, sviluppo economico e sociale, solo per citarne alcune.

Un ampio campionario di tecniche urbane che ha innescato un esercizio progettuale e di confronto tra politica, professioni e cittadinanza, catalizzando l’interesse dell’opinione pubblica sul futuro delle città: quali scelte e politiche intraprendere per migliorare la qualità degli spazi urbani, per aumentare il verde, per spostarsi più facilmente? Come trasformare i tessuti edificati abbandonati per rispondere in modo efficace alle domande delle metropoli contemporanee? Poter vedere come risposte progettuali diverse, ma nate dalla stessa domanda, producano forme, e quindi esiti, molto differenti ha innescato un formidabile meccanismo di partecipazione collettiva in cui ognuno si è sentito chiamare in causa non solo per fare valere i propri diritti ma anche per esternare le proprie idee e speranze maturate nel personale esercizio quotidiano di pratiche urbane.

La tournée organizzata per presentare Urbanized sembra infatti aver attirato l’attenzione di amministratori, tecnici e semplici abitanti, dando l’avvio a un acceso dibattito che, partendo dai temi affrontati nel film, è arrivato ad occuparsi dei problemi dei singoli contesti locali. Ed ecco che il Sindaco di Toronto ha dovuto in tutta fretta ritirare un progetto, presentato solo qualche giorno prima, di fronte a una nuova consapevolezza e capacità di critica (che potremmo chiamare post-Urbanized), in virtù della quale l’opinione pubblica ha demolito, ma solo metaforicamente, la sua proposta di recupero del litorale.

L’opera di Hustwit dimostra, un po’ inaspettatamente, un rinato interesse per i temi delle politiche pubbliche e delle trasformazioni della città da parte dei destinatari finali: i cittadini, finalmente consapevoli che dietro ogni cartello di “lavori in corso” può nascondersi un progetto che migliorerà le loro condizioni di vita oppure un’ennesima occasione persa con tanto di sperpero di denaro pubblico e finalmente consapevoli che la possibilità di scelta spetta anche a loro.

Non ci resta che attendere l’uscita di Urbanized in Italia, per vedere l’effetto che farà, augurandoci che possa ridestare l’attenzione di un’opinione pubblica che sembra sempre più rassegnata a vivere in contesti urbani brutti e poco funzionali, nei quali ogni giorno si deve affrontare una vera e propria lotta alla sopravvivenza, cercando di evitare buche stradali, che in alcuni casi sono vere e proprie voragini, di scansare cadute di tegole e di calcinacci provenienti da edifici fatiscenti e precari, di arrivare in orario al lavoro nonostante i ritardi cronici dei mezzi di trasporto pubblici, di accaparrarsi l’ultimo posto disponibile nell’unica panchina all’ombra dell’unico parco esistente nel raggio di un kilometro e di fare jogging senza rischiare la vita ad ogni attraversamento pedonale. In fondo trovare risposte ad alcuni di questi modesti e comuni problemi porterebbe a migliorare la vita di molte persone comuni, forse addirittura di tutti.

Caro Eddyburg, venerdì 7 ottobre, dalle ore 12.00 alle ore 19.00 “Sacile Partecipata e Sostenibile” ha indetto in Via Cartiera Vecchia un presidio composto da esponenti della suddetta lista civica e di associazioni ambientaliste, così come da tutti i cittadini che vorranno passare e partecipare al nostro pacifico appuntamento.

Lo scopo è quello di manifestare la nostra gratitudine al Sovrintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici del Friuli Venezia Giulia, arch. Luca Rinaldi, per la decisione dello stesso di effettuare di persona un sopralluogo nella zona della Mineraria Sacilese SpA al fine di verificare più precisamente nel merito le istanze prodotte dall’attuale Amministrazione di Sacile favorevole all’avvio della prevista lottizzazione successiva al trasferimento della società.

Riteniamo che la presenza del Sovrintendente sia una preziosa dimostrazione di chi compie con convinzione e competenza il suo dovere di vigilare sul territorio inteso come bene pubblico. Con i tagli subiti dal Ministero ai Beni Culturali (un miliardo di euro in tre anni) pare essere più un Ministero agli sgoccioli, o quanto meno allo sbando. Avere nel territorio Uffici che, sebbene sguarniti di tutto, ancora lavorano con tanta accuratezza, merita come minimo una attestazione di stima. Trattandosi poi della previsione di una tale devastante edificazione si trasforma anche in una grande e probabilmente ultima speranza per molti sacilesi.

Una buona notizia, e insieme il segno del disastro nel quale viviamo, e la speranza per un futuro possibile. La buona notizia: che il funzionario pubblico, appartenente a un’amministrazione devastata dal privatismo arrabbiato dei padroni di oggi, voglia comprendere con i suoi occhi le ragioni di una protesta per prendere i provvedimenti necessari. Il segno del disastro: che questo atto assomigli a un gesto eccezionale, anziché il comportamento normale di un pezzo dello stato. La speranza per un futuro possibile: la presenza attiva e combattiva di un gruppo di cittadini come il vostro, che ha “osato” fare politica nel modo giusto. Cioè, darsi da fare per difendere gli interessi e i beni comuni delle donne e degli uomini di oggi e di domani contro i saccheggiatori. Auguri per il vostro presidio. Chi volesse approfondire la questione di merito, può rivolgersi qui: Sacile partecipata e sostenibile, e conoscere e sostenere così anche il vostro lavoro.

L´illusione tecnocratica, l´assalto ai governanti "tutti ladri e corrotti": analisi di un fenomeno che da decenni attraversa la storia della Repubblica L´indignazione non è contro un sistema da abbattere ma contro un ceto che ha deluso e che viene rifiutato con la stessa energia con cui lo si era amato. C´è già chi si prepara a sfruttare ancora una volta, dopo la prima nel 1994, la stanchezza dei cittadini per costruirci sopra una nuova carriera

Antipolitica è molte cose. È la disperazione di Adelchi morente: «non resta che far torto o patirlo. Una feroce forza il mondo possiede». La politica ha in sé, per sempre, lo stigma del peccato, della violenza che si replica nei secoli. Antipolitica è essere persuasi che la politica è l´Inferno in terra. Antipolitica è anche l´ostinazione di Antigone a uscire dall´implacabile logica amico/nemico che il re Creonte codifica nelle sue leggi: chi ha combattuto contro la città va messo al bando dall´umanità, anche da morto; va escluso dalla sepoltura. Ma un´uscita verso una comunità d´amore e non d´odio – quell´uscita che Antigone desidera – non può avvenire sulla terra: solo nell´Ade c´è spazio per la pietà. Antipolitica è poi quella di Julien Benda che difende la purezza disinteressata del sapere dalla commistione con la politica. Ed è anche lo sforzo di Thomas Mann di sfuggire alla forza d´attrazione gravitazionale che si sprigiona dal semplice sapere che la politica esiste, e che è la dimensione della nostra finitezza.

Questa antipolitica "di rinuncia" (tragica oppure profetica: dopo tutto anche il Sermone della Montagna è antipolitico) è una critica della politica così radicale che, paradossalmente, la conferma nei suoi tratti più crudi – quelli stessi evidenziati dai "realisti" più spietati –, proprio perché vede nella politica solo violenza e dominio. Una posizione che rinuncia ad agire, rivolgendosi all´aldilà o ipotizzando un mondo radicalmente diverso da questo; e che deve accettare di pagare con la morte e con la sconfitta – sempre – ogni tentativo di modificare la politica e le sue bronzee leggi.

Ma antipolitica può anche essere, al contrario, l´atteggiamento rivoluzionario di chi vede in un sistema politico un ostacolo da rimuovere integralmente, per instaurare un nuovo ordine di cose. L´originaria aspirazione del marxismo era portare l´umanità, attraverso il proletariato, a superare del tutto la politica: che è falsa e mistificante perché rispecchia e codifica l´alienazione che si genera nei rapporti di produzione capitalistici. Ma non si può certo affermare che questa fosse una fuga dalla politica: anzi, ha generato una potenza politica enorme, un anelito alla palingenesi che ha segnato più d´un secolo di storia mondiale.

Ci sono poi altre forme di antipolitica. C´è la tecnocrazia, ovvero la convinzione – maturata nel positivismo ottocentesco, e nelle pratiche manageriali novecentesche – che la politica sia un modo primitivo di regolare la coesistenza degli uomini. Quanto più la scienza e la tecnica progrediscono, tanto più emergono problemi oggettivi, né di destra né di sinistra, che richiedono, per essere risolti, non politica ma competenza, non conflitti ma decisioni efficaci, nate da un sapere specialistico, interno alle cose. È cronaca di oggi, ma è anche storia: la storia dell´illusione novecentesca della pianificazione, l´utopia dell´automazione. Ed è anche la ricorrente tentazione di non volere vedere che quanto più la società è complessa tanto più è intrinsecamente politica; che non esistono soluzioni ‘tecniche´ ai problemi politici, che la pretesa di oggettività è sempre veicolo di potere: che chi pianifica – chiunque sia – fa politica, non tecnica.

Se questa antipolitica vuole cacciare i politici perché incompetenti, per sostituirli con tecnici, un´altra, analoga a questa, li vuole cacciare perché ladri e corrotti. Ma l´antipolitica ‘di protesta´, dell´indignazione, dell´onestà e della legalità, per giustificata che sia (del resto, anche quella della competenza lo è: pensiamo ai tunnel per i neutrini), non va al di là della rabbia contro la Casta, del lancio di monetine, dello sventolio di cappi. In ogni caso, questa antipolitica è rivolta non contro la politica in quanto tale né contro un sistema da abbattere con la rivoluzione, ma contro un ceto politico che ha deluso le aspettative – che viene rifiutato con la stessa feroce energia con cui lo si era amato; che viene respinto come corrotto tanto quanto da esso ci si era lasciati corrompere – . Ed è quindi, con ogni evidenza, essa stessa una politica, che non sa di esserlo, o non vuole ammetterlo.

Il rischio a cui va incontro è che risulti passiva e inefficace, che sia una valvola di sfogo per i cittadini, che si sottraggono alle proprie responsabilità e le scaricano sulla classe politica, divenuta il capro espiatorio universale. È questo rischio che rende questa antipolitica manovrabile da chi ne sa cogliere l´ingenuità credulona, cioè dall´imprenditore politico populista, che sfrutta il qualunquismo e l´indignazione per sostituirsi ai vecchi politici, e finge che tutto cambi perché tutto resti com´è (o peggiori radicalmente).

Non a caso, c´è già chi (il solito Cavaliere) si prepara a sfruttare ancora una volta – dopo la prima, nel 1994 – la stanchezza dei cittadini per l´indecenza, l´inettitudine, la corruzione, dei politici, e a costruirci sopra una nuova carriera politica. E ci si dovrà veramente dichiarare "antipolitici" se questa operazione di ri-verginazione avrà successo: se cioè Berlusconi, con un "partito dell´antipolitica" (un ossimoro che si smaschera da sé), riuscirà a convincere gli italiani che è un uomo nuovo, non toccato da scandali, competente, non contaminato dalla politica. Se cioè, invece di venire escluso, saprà ancora includere gli italiani nel suo populismo affabulatorio – tanto più politico quanto più antipolitico –.

Forse bisogna comprendere che la politica non è solo quella che governa la società attraverso le istituzioni, i metodi, le strutture che conosciamo, ma è qualcosa che è immanente al rapporto di ciascuna persona con la collettività. C’è una frase che illumina questa definizione della politica, che è ‘unica, oggi, che dà speranza. L’ho trovata in un libro di Lorenzo Milani scritto, molti anni fa, con gli allievi della sua Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica». Forse è partendo da questa concezione della politica che si può combattere la “politica” di oggi in nome di una Politica vera.

Davvero i diritti rischiano di non abitare più in Italia. Abbiamo già accumulato abbastanza discredito internazionale per l´incapacità di gestire la crisi. E anche per l´impresentabilità oltre frontiera del Presidente del consiglio. Ora si è fatta ancor più palese la vocazione censoria della maggioranza di centrodestra con le ultime iniziative contro la libertà d´informazione, e il mondo comincia a guardarci con il giusto sospetto verso chi mescola prepotenza e ignoranza. Prepotenza, perché siamo davvero di fronte ad uno di quei casi classici di "tirannia della maggioranza", della quale parlò Alexis de Tocqueville, i cui scritti i sedicenti liberali italiani non hanno nemmeno annusato. Ignoranza, rivelata dal modo in cui è stata affrontata la questione dell´informazione e della conoscenza su Internet, con norme incompatibili con la natura stessa della rete, come ha denunciato proprio oggi Wikipedia, con una pagina che già sta facendo il giro del mondo (la parziale marcia indietro su questo aspetto della legge non fa venir meno il discredito che già ci è caduto addosso).

I fatti di ieri sono chiarissimi. Con il nuovo emendamento presentato dal Governo, diventa totale il blackout sulla pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni, anche per riassunto, fino all´udienza-filtro, di cui rimangono incerti i tempi. Registrando questa novità, la presidente della Commissione giustizia, Giulia Bongiorno, si è dimessa da relatrice del provvedimento, smentendo con questo suo gesto le dichiarazioni rassicuranti del ministro della Giustizia, che ha sostenuto che nulla sostanzialmente cambia rispetto al testo già approvato in commissione. La finalità puramente censoria dell´iniziativa del Governo è rivelata dalla situazione contraddittoria e paradossale che si verrebbe a creare per effetto dell´emendamento. Anche prima dell´udienza-filtro, infatti, i contenuti delle intercettazioni non sarebbero più coperti dal segreto, e godrebbero quindi di un particolare regime di pubblicità derivante dal fatto che esse compaiono negli atti giudiziari a disposizione delle parti, come l´ordinanza con la quale viene disposto l´arresto di una persona. Nulla vieterebbe, quindi, alle parti stesse e ai loro avvocati di utilizzarle nel modo ritenuto più conforme al diritto di difesa, parlandone con altri, trasmettendole a consulenti, periti, investigatori. Si creerebbero così due circuiti comunicativi, che si vorrebbero non comunicanti anche quando le intercettazioni rivelano vicende gravi o comunque rilevanti per la valutazione politica e sociale dei comportamenti delle figure pubbliche.

Questo è un classico meccanismo censorio. L´obiettivo dichiarato di impedire la pubblicazione delle parti non rilevanti delle intercettazioni non può essere perseguito vietando la pubblicazione di tutti i contenuti delle intercettazioni. Non si può trasferire nel mondo dei diritti fondamentali l´irragionevole tecnica che sta a fondamento dei tagli lineari in economia. E, per quanto riguarda la sbandierata tutela della privacy, bisogna invitare per l´ennesima volta a leggere la norma cha limita la tutela per le figure pubbliche ai soli casi in cui le informazioni che le riguardano non hanno "alcun rilievo" per l´informazione dei cittadini. Di una disciplina differenziata per le figure pubbliche, per i "cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche", parla l´articolo 54 della Costituzione, stabilendo che quelle persone devono comportarsi con "onore e disciplina". E tutti noi siamo titolari del diritto di poter valutare se ci si comporta in modo conforme a questi principi.

Da qui il dovere di informare e il diritto di essere informati come snodo essenziale del processo democratico, che sarebbe gravemente inquinato da quel doppio registro ricordato prima, perché rendere segreto quel che già è pubblico fatalmente, e quasi doverosamente, spinge a creare condizioni perché il meccanismo censorio non possa funzionare. Si può ancora fare appello alla responsabilità del legislatore perché non crei inammissibili situazioni di conflitto? Per esperienza sappiamo che solo un forte movimento nella società può indurre a qualche ripensamento, e stimolare le opposizioni. E poiché la buona politica deve essere nutrita da buona cultura, in questo difficile frangente vale la pena di ricordare le parole di Ronald Dworkin: "l´istituzione dei diritti è (...) cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera". Se quella logica viene travolta, allora è l´idea stessa di costituzione a scomparire e, con essa, il fondamento moderno del sistema dei diritti.

Dopo una lunga battaglia in assise civica, il consiglio comunale di Monza ha adottato la variante al Pgt (Piano di governo del territorio) che ridisegna la città brianzola e consente di edificare 580mila metri cubi di case e uffici alla Cascinazza, il celebre terreno che il fratello del presidente del Consiglio acquistò negli anni Ottanta per costruirci Milano4. Il provvedimento è sempre stato molto a cuore al ministro Paolo Romani. Il titolare del Sviluppo economico, del resto, a Monza è assessore con delega all’Expo 2015, ma prima di entrare nel Governo Berlusconi rivestiva la carica di assessore all’Urbanistica. I più maligni, dicono addirittura che il premier l’avesse inviato lì proprio per occuparsi della cambio di destinazione d’uso di quei terreni, che da agricoli rischiano di diventare edificabili.

Una bella rivalutazione dell’area che, calcolando il costo al metro quadro prima e dopo la modifica, la fa valere oggi circa 120 milioni di euro in più rispetto al 2007. Ma la Cascinazza non è l’unico esempio a Monza di terreni agricoli o a verde pubblico che valevano poco o nulla quando sono stati acquistati e che ora, con la variante del centrodestra adottata ieri mattina, sono diventati edificabili per svariati milioni di metri cubi. Chi possiede quei terreni ha potuto beneficiare di una riqualificazione complessiva che si avvicina ai 500 milioni di euro. Di certo una bella fortuna, in tutti i sensi.

Ma la vera sorpresa arriva quando, per soddisfare una semplice curiosità, si va a vedere chi sono i proprietari di alcune delle aree in questione. Un lungo lavoro di controllo che è emerso anche in consiglio comunale e che sta interessando adesso la Procura, alla quale spetterà capire se si tratta solo di coincidenze. Perché laLenta Ginestra, la società che ha incorporato nel 2008 la Istedin diPaolo Berlusconicon un finanziamento soci infruttifero di scopo per corrispettivi 40 milioni di euro, non possiede a Monza solo il terreno della Cascinazza. Ne ha almeno due direttamente controllati che si stima valgano 49 milioni di euro in più grazie all’intercessione dell’assessorePaolo Romani, tra cui un’area, all’interno del Parco della Boscherona, dove si potranno costruire 375mila metri cubi di cemento. La Lenta Ginestra è controllata al 70% dal Gruppo Brioschi Sviluppo Immobiliare della nota famigliaCabassi. L’altro 30%, invece, è in mano alla Axioma Real Estate srl diAngelo Bassaniche a sua volta è controllata per il 75% dalla Marconi 2000 Spa diGabriele Sabatinie di Bassani stesso.

E proprio quest’ultima società possiede altri tre terreni che si stima siano stati rivalutati per circa 11 milioni di euro nel documento urbanistico promosso dall’allora assessore all’Urbanistica Romani e poi concluso da altri. Risultato: rivalutazione complessiva dei sei terreni della società per un totale di circa 180 milioni di euro. MaPaolo Berlusconinon aveva venduto tutto? Non proprio. Gli addetti ai lavori ravvisano nella struttura statutaria la caratteristica per la quale gli introiti delle operazioni vengono divisi tra i soci, tra cui anche la Istedin stessa, acquisita per incorporazione. Il che significa solo una cosa: in un modo o nell’altro, anche il fratello del premier in questo momento sta sorridendo. Anche perché la Cascinazza era sempre stata la spina nel fianco delle sue operazioni immobiliari.

Acquistato nel 1980 daiRamazzotti(quelli dell’Amaro), il terreno era costato 11mila lire al metro quadro perché era considerato agricolo (vi sorgeva solo l’antica Cascina, da cui la zona prende il nome). I nuovi proprietari però avevano chiesto subito l’edificabilità appellandosi a un vecchio piano di lottizzazione del 1962 già decaduto. Tentativi di edificare tutti falliti, fino a quando la Cassazione nel dicembre 2006 aveva espresso l’ultima parola, condannando laIstedina pagare le spese legali per aver fatto causa al Comune di Monza che non gli permetteva di edificare. “Deve essere rigettato il ricorso che chiedeva diritto ad edificare e nessun indennizzo è dovuto alla proprietà”, stabilì la Cassazione, chiudendo così la questione. Già il ‘Piano Benevolo’, voluto qualche anno fa dalla Lega, rendeva inedificabile l’area. Questo prima che arrivasse Romani e facesse ben altre scelte. Ma adesso quel “terreno maledetto” rischia di tornare ad essere una bella spina nel fianco.

Nota: sul caso della Cascinazza questo sito ha seguito la vicenda sin dall’inizio e in alcuni sviluppi chiave; come sempre per trovare gli articoli basta digitare la parola chiave nel motore di ricerca interno (f.b.

La prima azione antismog della giunta Pisapia è dettata dalle regole scritte dall'ex sindaco Moratti. È in base a quella vecchia ordinanza, che risale al 24 gennaio ed è ancora in vigore, che da oggi vengono bloccate circa 120 mila auto. E domenica nessuno potrà circolare tra le 8 e le 18. Domenica a piedi, dopo la serie di 12 giorni con lo smog sopra le soglie.

Fermi da oggi i veicoli a benzina Euro 0, i diesel Euro 0, 1 e 2 senza filtro antipolveri e le moto e i motorini a due tempi Euro 1 e, se a gasolio, Euro 0 e 1. Il divieto è in vigore a Milano, ma se si considerano tutte le auto immatricolate in Provincia e che spesso entrano in città, i mezzi coinvolti dal blocco potrebbero essere quasi 300 mila. Lo stop al traffico di domenica, invece, riguarderà tutti i mezzi. Queste sono le misure della «Fase 1» della vecchia delibera. Non si dovrebbe arrivare alla «Fase 2» (dopo il 18esimo giorno «rosso») perché, secondo le previsioni meteo, nel fine settimana vento e pioggia dovrebbero disperdere l'inquinamento. La domenica a piedi arriverà probabilmente con lo smog già rientrato nei limiti (per informazioni sui divieti e i blocchi, oltre a visitare il sito del Comune, si possono contattate i seguenti numeri: 020202; 800368636; sabato e domenica, dalle 7 alle 19, 02-77270398).

Potrebbe comunque essere l'ultimo blocco domenicale stabilito all'ultimo momento: insieme alla bozza di modifica per inasprire le misure antismog (fino alla quasi totale chiusura al traffico della cerchia dei Bastioni), l'assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran, sta valutando l'ipotesi di una serie di domeniche «ecologiche» decise a tavolino, probabilmente una al mese.

Un progetto sul quale è molto critico il Verde Enrico Fedrighini: «Una o anche due domeniche a piedi al mese non servono a nulla per combattere l'emergenza smog». L'ambientalista suggerisce altre misure: «Accesso gratuito in tutti i parcheggi di corrispondenza Atm, tra le 7 e le 9 del mattino, alle auto con 3/4 persone a bordo; tariffa agevolata del biglietto Atm a 2 euro per l'intera giornata; accesso e sosta libera delle biciclette all'interno dei parcheggi di interscambio lungo tutte le linee del metrò; corsie preferenziali riservate al trasporto pubblico che proviene dall'hinterland e alle auto con almeno 3 persone a bordo». Diversa la posizione del capogruppo del Pdl, Carlo Masseroli: «Programmare le domeniche a piedi per favorire altre forme di mobilità può avere senso, ma se può anche essere un'occasione per le grandi arterie commerciali, non si può assolutamente pensare di bloccare tutta la città. Ad esempio, nel periodo natalizio, bisogna lasciare aperto il traffico in periferia e far vivere quei quartieri con eventi e manifestazioni».

Su un altro tavolo di lavoro aperto a Palazzo Marino, ieri sono andati avanti gli incontri con le categorie produttive sulla trasformazione dell'Ecopass incongestion charge, il ticket da 5 euro per tutti. Il Comune sta cercando di capire che tipo di deroghe e agevolazioni potrebbero eventualmente essere concesse al trasporto merci. In piazza San Babila, oggi, partirà invece una raccolta firme per l'abolizione dell'Ecopass. A guidarla, l'assessore regionale del Pdl Stefano Maullu, che spiega: «Occorre creare una cabina di regia che ponga in essere delle linee guida uguali per tutti. Non bastano soluzioni tampone come i blocchi palliativi, le targhe alterne e quant'altro. Adesso si rischia che per entrare a Milano pagheranno tutti. Ecopass è una tassa e basta».

postilla

Sono lustri che la stagione invernale (adesso anche il fine estate virtuale) ci riserba sforamenti clamorosi di tutte le soglie di attenzione e rischio possibili, e che i cosiddetti interventi si limitano in pratica all’emergenza, alla speranza in Giove Pluvio, mentre in parallelo la gestione business as usual evita scrupolosamente qualunque passo per favorire un tipo di mobilità (magari personale, magari volontario, magari chissà) diverso da quello automobilistico privato di massa, unica “soluzione per la vita moderna” in una logica che sarebbe comica, da film di Totò e Peppino, se non ci fosse di mezzo la salute, l’efficienza economica vera, la qualità della vita metropolitana. Le cose proposte in questo articolo sono le stesse di cui si parla da vent’anni, cioè da quando i primi virtuosi e lungimiranti passi (la chiusura totale del centro alle auto, che doveva aprire politiche generali più organiche e meno repressive per un’area vasta) sono stati buttati alle ortiche da particolarismi così meschini da apparire quasi inimmaginabili se non si è dei complottasti. La differenza è che forse, finalmente, come si dovrebbe capire dal piccolo elenco di cose fattibili subito, forse sono davvero cose che si possono fare subito: aprire i parcheggi (realizzati da lustri coi soldi dei contribuenti e lasciati a marcire vuoti), sostituire alla logica dell’azione simbolica ed emergenziale cose prevedibili e a cui ci si può abituare e adeguare, evitare la frammentazione. Tanto per fare qualche esempio. E invece? No: ci vuole una grande Commissione per valutare … e tirare tardi finché passa la nottata, ci si dimentica del passato e si risale in macchina sgommando verso il futuro. Magari un futuro come quello emerso dalle dichiarazioni del “caso Penati”, quando l’imprenditore spiegava che i suoi finanziamenti al partito servivano naturalmente a evitare che si inserisse la linea tranviaria nel piano regolatore, per favorire i suoi torpedoni neorealisti ingolfati nel traffico, no? Oppure per lasciare che le piastrelle di un parcheggio da centro commerciale, di fronte a una stazione delle linee Nord Milano, fossero quasi totalmente scalzate da ALBERI cresciuti mentre quel parcheggio realizzato, recintato, con tanto di casetta del custode, se ne stesse perfettamente VUOTO dieci anni. Ma si sa, il problema è un altro … (f.b.)

Un aspetto impressionante, nella crisi che traversiamo, è l´impreparazione dei popoli. Non è l´impreparazione di chi si sente riparato. La crisi, inasprendo ineguaglianze divenute smisurate lungo gli anni, pesa sui popoli da tempo. Ma questa volta gli animi sono impauriti, disorientati, come se mancasse loro una bussola che indichi dove sta, veramente, il Nord. Nei Paesi più colpiti, come la Grecia, la disperazione può sfociare in guerra civile: come può sdebitarsi una nazione così sprofondata nella recessione, senza sfasciarsi? Nei Paesi che stanno meglio, come la Germania, cresce un isolazionismo antieuropeo non meno intirizzito. In Italia il disorientamento è diverso: la democrazia è talmente guastata, il legame sociale talmente liso, l´opinione talmente disinformata, che ciascuno scorge nella crisi qualcosa che concerne gli altri, mai se stesso.

Anche se diversi, i popoli hanno però questo, in comune: non sanno la storia che fanno. Vivono come in una caverna: fuori c´è un aperto da cui dipendono - l´Europa, il mondo - ma di cui non sanno nulla. Non vedono il futuro, sempre aperto visto che lo scriviamo noi. Non vedono che il futuro è ormai cosmopolitico nei fatti, non nella teoria. La cosa che più temono è cambiare ottica. Ogni novità appare ominosa, mai si presenta come occasione d´imparare la vita all´aperto. Come in Balzac, gli impauriti accettano che il passato domini il presente, e del presente diventano i proscritti.

Questa impreparazione non è tuttavia priva di speranze, in Italia. Basta una cifra - 1 milione 200 mila che condannano la legge elettorale - e subito si capisce come il popolo voglia riprendersi il futuro, partecipare al suo farsi. Come sia disgustato da politici che usano il popolo, che gli tolgono sovranità nell´attimo in cui ne magnificano il primato. L´essenza del populismo è questo bluff. Nei quattro ultimi referendum c´è sete non solo di verità ma di società maggiorenne, e non stupisce che tanti partiti li abbiano avversati o vissuti passivamente.

È stato difficile, trovare i banchetti per affossare il Porcellum: indicazioni assenti, orari fasulli, reticenze nelle sedi del Pd. Se fosse stato facile, forse avrebbero votato 3-4 milioni. Cosa dicono infatti i referendum? Dicono che sì, i popoli sono impreparati, ma perché qualcuno li vuole così: incavernati, frammentati, dunque malleabili. Dicono che la formazione dell´opinione pubblica - ingrediente fondamentale in democrazia - è stata guastata dal dominio politico sulle tv. I firmatari del referendum giudicano che la politica, come organizzatrice del bene comune, non fa il suo mestiere ma protegge poteri e ricchezze di clan.

Paul Krugman spiega bene come tali poteri si nutrano di dottrine economiche «completamente divorziate dalla realtà», fondate sulla menzogna: la menzogna secondo cui non c´è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza di regole (New York Times, 29-9-11). Le parole di Napolitano, venerdì a Napoli, smascherano questo fallimento: non sono parole politiche, quelle che promettono mini-Stati padani, ma «grida che si levano dai prati». Così come è grida la difesa di una legge elettorale nella quale «conta soprattutto mantenere buoni rapporti con il partito che ti nomina, non con gli elettori».

In questo la crisi economica somiglia alla guerra che Samuel Johnson descrive nel ´700: le sue «maggiori calamità sono la diminuzione dell´amore della verità, e la falsità dettata dall´interesse e incoraggiata dalla credulità». Questo fanno i moderni pretendenti politici: invece di guidare incoraggiano la credulità, assecondano gli interessi di chi vuol conservare privilegi e ineguaglianze che la deregolamentazione liberista ha creato.

Ma soprattutto di Europa i politici non sanno parlare, in nessun Paese dell´Unione: la evocano sempre come nostro obbligo, mai come nostra opportunità. Denunciano sempre la sua inconsistenza, senza chiarire che se l´Europa è debole è perché i governi la mantengono in questo stato, non affidandole poteri e aggrappandosi al proprio diritto di veto. Loro compito sarebbe di far capire come stiano davvero le cose, di smettere le illusioni di cui nutrono se stessi e gli altri.

È perché i politici non sono all´altezza - la politica è nulla, senza pedagogia delle crisi - che i popoli s´immobilizzano. Il populismo lusingandoli li sfrutta, per occultare quel che accade: una crisi che rovina non solo l´economia, ma quel che tiene unite le società e dunque la democrazia. Una diserzione delle classi dirigenti, restie a spiegare come solo in un governo europeo ritroveremo la padronanza (la sovranità) che tutti stiamo perdendo, governati e governanti. Secondo alcuni, il populismo è il marchio del XXI secolo. Orfano di alfabeto, proscritto dal presente: ecco il popolo-Golem che i populisti plasmano. Ora i popoli gli si rivoltano contro. Erano consumatori, anziché cittadini. Costretti d´un colpo a consumare meno, sgomenti, si riscoprono cittadini.

La paura può divorare l´anima, la storia non essendo progressista lo testimonia. Ma può anche aguzzare la vista. Nell´800, una prima previdenza pubblica nacque perché il socialismo incuteva spavento. Bismarck, in Germania, fu il primo a creare lo Stato che protegge i deboli e l´interesse generale, trasformando la paura di perdere il passato in costruzione del futuro. Così la destra storica in Italia. Le prime norme a tutela del lavoro, della vecchiaia, dell´invalidità, degli infortuni vennero dal liberale Giolitti. La destra di oggi non somiglia in niente a quella di ieri.

Va detto che l´Italia, pur anomala, non è un caso isolato. È venditrice di illusioni perfino la Germania, sono populisti Sarkozy e Cameron, per non parlare di governi liberticidi o corrotti come Ungheria o Bulgaria. Se oggi i governanti volessero ritentare la via di Bismarck, dovrebbero abituare i popoli a pensare che da soli non ce la faranno. Ogni giorno constatiamo che la statura conta, nella globalizzazione: sei forte se rappresenti non uno staterello (la Padania ad esempio) ma se competi con le grandezze demografiche della Cina, dell´India, del Brasile, degli Usa, della Russia.

Inizialmente il populismo sorge come risposta democratica alle oligarchie. Un laccio stringe il capo al suo popolo, e questo laccio, simbolo della sovranità popolare, comanda su tutto, non tollerando né istituzioni intermedie né autorità sovranazionali. Il populismo semplifica, quando per uscire dalla crisi urge complicare, differenziare i poteri. Si parla spesso di una ricaduta nel Trattato di Westfalia, che consacrò gli Stati sovrani assoluti. Si dimentica che l´Europa nel 1648 era in ascesa, mentre oggi precipita frantumandosi. Due guerre mondiali l´hanno emarginata storicamente, e resuscitare Westfalia è grottesco oltre che pericoloso.

L´Italia è in questo un laboratorio. Il deserto tra leader e popolo non resta vuoto, viene occupato da nuove oligarchie: più mafiose di prima, indifferenti al bene comune. Al posto del legame sociale s´insedia l´identità (etnica, religiosa, sessuale) fondata sul rigetto dell´altro. Le liste di politici gay, apparse in rete giorni fa, è un episodio da Ultimi Giorni dell´Umanità. In una democrazia decente i giornali le ignorano. Se non lo fanno è perché il populismo è l´aria che tutti respiriamo.

La crisi diventa occasione se si dice la verità. Bisogna cominciare a dire che in Occidente non riusciremo a crescere come ieri. Secondo gli esperti, ci vorranno 40-50 anni perché i salari dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia) raggiungano i nostri. Il nostro futuro sarà fatto di meno consumi. Non di crescita zero, purché sia un crescere diverso. Fu inventata per questo l´Europa unita. Perché non aveva più senso, costruire il futuro facendosi governare dalle menzogne sul passato.

Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l´ora. Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all´insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.

Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l´Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l´esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia. Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l´alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l´ingresso nella truppa della criminalità). L´affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d´Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.

Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po´ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l´anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l´ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.

Con la delibera di giunta siglata ieri, Napoli aderisce ufficialmente al network di città, al di qua e al di là dell'Atlantico, che applicano il protocollo «Rifiuti Zero». Sarà la città di maggiori dimensioni in Europa a strutturarsi intorno ai principi di riduzione alla fonte degli imballaggi, riciclo, riuso e compostaggio, trattamento meccanico manuale della frazione residua. Niente inceneritori quindi, ribadisce il sindaco Luigi de Magistris, né nuove discariche o ampliamento dell'invaso di Chiaiano. A ratificare l'impegno Paul Connett, professore emerito di chimica della statunitense St. Lawrence University, tra i maggiori teorici della strategia «Rifiuti Zero», già applicata in centri urbani come San Francisco, Oakland, Camberra o in regioni come la Nuova Scozia in Canada o in Galles, ma anche in Italia a Capannori, nel lucchese, e a La Spezia. Sarà lui a presiedere l'Osservatorio che avrà il compito di monitorare il percorso. All'interno della struttura rappresentanti dell'amministrazione, dell'azienda comunale Asia, addetta alla raccolta, e dei comitati di cittadini, i primi a credere e chiedere un piano alternativo per oltre sette anni, contro la politica istituzionale di destra e di sinistra e la grande stampa nazionale.

«La prima volta che ho conosciuto Connett - racconta il vicesindaco Tommaso Sodano - era il 2004, eravamo ad Acerra e la polizia caricava la popolazione che manifestava contro l'inceneritore in costruzione. Adesso è un onore averlo a Palazzo San Giacomo, sede del comune partenopeo. Già immagino l'ironia sui giornali perché con la delibera ci impegniamo ad abbattere la produzione di immondizia senza fosse e forni entro il 2020, quando il problema a Napoli non è ancora risolto. Ma noi stiamo lavorando a progettare un futuro sostenibile». In concreto, la delibera prevede: attrezzature negli esercizi commerciali per ridurre il volume degli imballaggi; prodotti alla spina nei punti vendita della grande distribuzione; l'introduzione del vuoto a rendere; incentivi all'uso di stoviglie biodegradabili, pannolini lavabili, imballaggi lavabili o biodegradabili; sistema tariffario basato sulla reale quantità di rifiuti prodotti; la realizzazione di un centro comunale per la riparazione e il riuso di beni durevoli e imballaggi. In settimana dovrebbe arrivare anche l'annuncio ufficiale della partenza della navi con i rifiuti verso l'Olanda, passo necessario per alleggerire gli impianti da riconvertire. Su tutto pesa la messa in mora da parte dell'Europa, per cui sarà necessario «lavorare con regione, provincia e governo per evitare che venga avviata la procedura d'infrazione e il blocco dei fondi», ha ribadito de Magistris. È stato lo stesso Connett ieri a spiegare che a Napoli si può applicare il modello utilizzato a San Francisco, una città con conformazione e popolazione simile. Quando si è cominciato, nel 2000, la raccolta differenziata era al 50%, quest'anno è al 77%. Come a Vedelago, in provincia di Treviso, si possono immaginare piattaforme dove separare l'immondizia (plastica, ferro, alluminio, carta, vetro...) da rivendere sul mercato di materie prime secondarie. Quello che avanza diventa un granulato plastico impiegato ad esempio in edilizia. L'umido negli Usa viene trattato in impianti di compostaggio vicini ai terreni agricoli, dove viene usato come fertilizzante. In tutta Italia stanno sorgendo catene che vendono solo prodotti alla spina per la casa, per il corpo e alimenti. «Quello che non si può riusare, riciclare o compostare - conclude Connett - non dovrebbe essere prodotto. Le imprese hanno una grande responsabilità». Un modello che chiedono anche i comitati del vesuviano, invece delle continue minacce di ampliare o aprire nuove discariche nel Parco nazionale.

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