L'Italia precipita sempre di più nel pozzo senza fondo della sua crisi politico-istituzionale. Per capire bene il senso di questa affermazione, bisogna però fare un passo indietro. Mi riferisco infatti prevalentemente a quanto è accaduto fra l'11 e il 14 ottobre scorsi, e su cui, con sospetta tempestività, il 15 ottobre romano ha subito steso un velo pietoso (che finora i politici e i commentatori non hanno ritenuto di dover risollevare). L'11 ottobre il governo Berlusconi è stato battuto alla Camera non su di una leggina qualsiasi ma sull'art.1 del Rendiconto dello Stato (atto non casualmente regolato dall'art.81 della Costituzione). Il 13 Berlusconi, senza sentire il bisogno di riferire al Quirinale su quanto accaduto (diversamente da quello che, correttamente, aveva ritenuto di dover fare Gianfranco Fini), si presenta alla Camera per chiedere la fiducia; il 14 la Camera gliela accorda. Questo dovrebbe consentirgli di riscrivere l'art. 1 (?) e farlo approvare (magari con un altro voto di fiducia?).
La mia opinione è che, con l'adozione (come dire: forzosa) di tali procedure, si siano abbondantemente superati i limiti, non solo di una normale correttezza istituzionale (inutile invocarla da parte di un individuo di tal fatta), ma dello stesso dettato costituzionale. Mi dispiace impancarmi di nuovo in ragionamenti su siffatta materia: ma poiché gli specialisti tacciono, bisogna pure che qualcuno parli. L'art. 81 della Costituzione, secondo me, non lascia dubbi in proposito.
Se le Camere non approvano il rendiconto consuntivo presentato dal Governo (e l'art. 1 è da questo punto di vista, anche preso in sé, ovviamente decisivo), il Governo è molto più che «sfiduciato», deve andarsene a casa (i precedenti, del resto, parlano tutti in questo senso). Se non se ne va, e ripresenta tranquillamente il provvedimento e si fa ri-fiduciare (magari per due volte di seguito), c'è qualcosa che non funziona da qualche parte.
E pure, - anche indipendentemente dal velo opportunamente fatto scendere sull'accaduto in conseguenza del 15 ottobre romano - nulla è davvero accaduto nonostante la gravità del caso. Sul versante istituzionale io sostengo che il combinato-disposto degli Artt. 54, 81 e 88 della Costituzione imporrebbe-autorizzerebbe scelte molto più incisive di quelle che finora sono state, non dico prese, ma anche soltanto adombrate. Sul versante politico il parziale Aventino parlamentare, su cui le opposizioni, comunque unite nella scelta (il che rappresenta un passo in avanti non trascurabile), si sono ritrovate, rappresenta una pallidissima, larvale (e un po' rinunciataria, come tutti gli Aventini) anticipazione di quel che sarebbe opportuno fare. Ma su questo tornerò più avanti.
Su questo quadro, di per sé debole e slabbrato, si è precipitata, sconvolgendolo ulteriormente, l'onda d'urto degli scontri romani del 15 ottobre. Forse, anzi di sicuro, sopravvalutati per dimensione e per impatto; ma non da sottovalutare. Si ripete così una storia italiana, pluridecennale: non appena qualcosa si muove - e questo, è il caso di ricordarlo, è esattamente quel che stava accadendo negli ultimi mesi - un corpo estraneo ed ostile gli si appiccica addosso, lo fa sanguinare, ne rallenta o addirittura ne arresta i movimenti, prepara, nel conflitto che si apre, esiti ancora più catastrofici (perché questo accada in Italia e non altrove, comporterebbe un discorso assai lungo, non impossibile da farsi, ma non qui ed ora). Soltanto che la ripetizione apparentemente fatale degli eventi non può impedirci di vedere che anche da questo punto di vista, come tutto in Italia, le cose sono degenerate negli ultimi anni fino al complessivo degrado della situazione presente. Insomma: dalla «seconda società», che ora, a quanto pare, sta con il «movimento», fortemente contestativo ma non violento, si è staccata la costola della «terza società»: ribellismo allo stadio puro, senza niente dietro e soprattutto niente davanti, né sinistra né destra anche loro, in fondo, come tanti altri, anche colti, anche «perbene», che predicano attualmente l'antipolitica: solo la violenza che hanno imparato dal sistema corrotto e degenerato, che appunto li ha prodotti. Oggettivamente sono i migliori alleati della banda Berlusconi-Bossi, - che ne ha predisposto il vero brodo di cultura - quindi, se la logica in politica ha ancora un senso, sono i nostri peggiori nemici e come tali vanno politicamente isolati e combattuti (per questo sono sbagliate le parole di Valentino nel fondo del manifesto del 16 ottobre). Soggettivamente - se si escludono gli infiltrati, che in una situazione del genere non possono non esserci - sono il frutto di una disgregazione sociale, a cui finora nessuno ha saputo dare una risposta.
Torno al quadro iniziale, ma tenendo conto anche della considerazione centrale. Questo paese, l'Italia, rischia ormai da vicino la dissoluzione, non solo economica, ma sociale e culturale, in una parola identitaria. Se è vero, vuol dire che siamo in una situazione di estrema emergenza; e le situazioni di estrema emergenza richiedono proposte e soluzioni di estrema emergenza. Non un programma per fare dell'Italia il meglio che ci sia al mondo; ma un programma per evitare che l'Italia divenga il peggio che ci sia al mondo. Perché questo accada bisogna che le istituzioni facciano presto quel che loro compete. Ma le istituzioni, ormai è chiaro, non faranno quel che loro compete finché la politica, la politica!, non farà quel che le compete. Alla politica compete di stendere un programma, - un programma dimensionato, com'è ovvio, all'emergenza, il che vuol dire poco, anzi, in questa situazione, forse, può persino voler dire troppo, - e formulare una proposta di governo. Per quanto la cosa - tenendo conto dello sfondo catastrofico che ci sta davanti agli occhi tutti i giorni - appaia sovranamente incredibile, questo finora non è accaduto, anzi, non è neppure cominciato. La verità è che questa maggioranza, per quanto divisa e persino rissosa, è profondamente unita su di un punto: la propria sopravvivenza, il che vuol dire la sopravvivenza di ognuno di quelli che la compongono: la minoranza, invece, si presenta divisa, spesso alla ricerca di soluzioni partitiche separate e contrapposte. Inoltre - e non è l'aspetto minore del mio ragionamento - con chi potrebbe colloquiare la grande massa apartitica dei movimenti, in crescente dispiegamento di forze (la faccia enormemente positiva del 15 ottobre), se la politica continua a fare i suoi giochini per linee interne? Un interlocutore unico e certo è meglio, per chi vuol cambiare, di quattro-cinque interlocutori separati e concorrenziali, e perciò inevitabilmente inattendibili.
Bisogna perciò che le opposizioni escano dall'improduttivo Aventino per tentare la proposta di governo: tutte insieme, ora, anzi subito - perché non c'è altra soluzione possibile -perché il disastro è incombente: un governo di risposta alla crisi, di risposta all'impasse istituzionale, di risposta al vuoto ideale e culturale, di risposta al disagio sociale.
Per tutti questi motivi, non serve, anzi si presenterebbe effimero e improduttivo, un governo tecnico e/o di transizione (con questo Parlamento!): servono invece elezioni subito, perché l'investitura dell'esperimento unitario, - l'unica via possibile di uscita dalla crisi, - abbia, com'è giusto e necessario che sia, l'avallo dell'investitura popolare. Il governo di coalizione democratica di tutte le attuali opposizioni vince oggi con qualsiasi legge elettorale: non c'è bisogno di aspettare, si può fare a meno di aspettare. I «giochi», - quelli elettorali e altri, molti altri, - si cambieranno dopo: non c'è tempo né modo per farlo prima. E tutto questo, anticipando il momento in cui la crisi s'avviterà inevitabilmente in catastrofe. E' possibile farlo, va fatto.
L´uccisione di Gheddafi, la fine della guerra in Libia e il difficile assetto di quel paese hanno dominato le pagine dei giornali e gli schermi delle televisioni. Non ho esperienza di quei problemi e quindi non me ne occuperò, ma voglio dire che cosa penso della feroce esecuzione del dittatore libico mentre fuggiva da Sirte sulla strada che conduce a Misurata. Concordo con tutti quelli che hanno riprovato la ferocia; bisognava consegnarlo alla Corte di giustizia internazionale per un regolare processo sebbene la stessa Corte, la Nato e i comandi militari del governo provvisorio dei ribelli ne avessero chiesto la cattura "vivo o morto".
Quando cade un tiranno che ha terrorizzato e insanguinato un Paese per anni ed anni, la tentazione del linciaggio è incontenibile e talvolta colpisce perfino degli innocenti supposti colpevoli. Figurarsi quando la colpevolezza è palese e si è macchiata di delitti orribili. Se poi l´autorità legale è debole - come ancora lo è nella Libia di oggi - manca ogni possibilità d´impedire il giudizio sommario. La storia è purtroppo piena di queste esplosioni di rabbia incontenibile e incontenuta, sicché dolersene è doveroso ma stupirsene no.
Ciò premesso, i temi odierni sono soprattutto due: il movimento dei cattolici messo in moto dal cardinale Angelo Bagnasco e dal convegno delle associazioni e comunità da lui promosso a Todi e il movimento degli "indignati" con le violenze degli "incappucciati" che gli hanno rubato la scena a piazza San Giovanni.
Gli "incappucciati" sono un problema di ordine pubblico come gli "ultras" degli stadi e come quelli vanno trattati. Gli "indignati" sono invece un problema sociale che si identifica con la mancanza di lavoro e con l´emarginazione.
La situazione che fa da sfondo a questi avvenimenti è la vera e propria paralisi del governo, il disfacimento dei due partiti di maggioranza e l´alternativa ancora indistinta dalla quale le opposizioni non riescono ancora ad uscire.
Partirò da lontano per meglio affrontare e tentar di chiarire questo viluppo di problemi: da due colloqui che ebbi con Aldo Moro il 18 febbraio del 1978 e con Enrico Berlinguer il 28 luglio del 1981. Quei due eccezionali personaggi sono morti da tempo, ma i loro pensieri e le loro previsioni sono attualissimi, sembrano datati oggi, perciò è da quelle parole di allora che partirà il mio ragionamento.
* * *
Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, ha scritto ieri su queste nostre pagine un commento di grande interesse sul nascente movimento dei cattolici. Bianchi è anche lui un cattolico, ma di una caratura molto particolare. Ricorda per certi aspetti Pietro Scoppola che fu uno dei fondatori del partito democratico; infatti anche Bianchi come Scoppola non sono molto nelle grazie della Gerarchia, come del resto non lo è il cardinal Martini e neppure l´arcivescovo Tettamanzi che ha da poco lasciato la guida della diocesi milanese.
Quest´ala della cattolicità pone il problema del rapporto tra il laicato cattolico e la Gerarchia sottolineando la notevole sproporzione da sempre esistita tra questi due aspetti della religione, a tutto vantaggio dell´istituzione e a danno del popolo di Dio. Che l´istituzione guidata dalla Gerarchia sia indispensabile è un dato di fatto, ma che il popolo dei credenti sia stato ridotto al pio gregge nelle mani del pastore rappresenta una palese deformazione della predicazione evangelica. Antepone la liturgia alla pastoralità e quindi il dogma e la politica all´afflato della fede.
Questa, con rare eccezioni, è stata la storia della Chiesa, soprattutto a partire dalla guerra delle investiture e dalla vendita delle indulgenze, almeno fino al Concilio del Vaticano II. Di lì, cioè dal pontificato di papa Giovanni, ebbe inizio un tentativo di modernizzare la Chiesa, ponendola come un seme destinato a confrontarsi con il pensiero illuminista sul piano culturale e con il laicato cattolico su una più intensa concezione della fede e dei comportamenti etici da essa ispirati.
Non sembrino peregrine queste considerazioni; esse costituiscono la base necessaria per chiarire la natura di quel movimento di rilancio cattolico promosso dal cardinal Bagnasco, che si propone di affrontare un altro ed essenziale tema che la modernità pone alla Chiesa e cioè il confronto tra la Chiesa-istituzione e la democrazia dello Stato laico.
Un´ultima osservazione su questa questione preliminare. Era sembrato, all´esordio del pontificato di papa Ratzinger che egli parteggiasse piuttosto dalla parte di chi voleva frenare l´ispirazione conciliare del Vaticano II. Si sta invece verificando che non è questo, o non è più questo, il pensiero del Papa. Ne ha fatto fede il discorso da lui tenuto nelle scorse settimane al Bundestag di Berlino e in particolare nel discorso, durante quel suo viaggio in Germania, sul cristianesimo protestante.
Ratzinger è un agostiniano e questa sua formazione la dice già molto lunga sulla natura della sua fede, agganciata al pensiero di chi fece della "grazia" il pilastro della salvezza. Ma la frase più significativa Benedetto XVI l´ha riservata al promotore della "riforma": «Lutero - ha detto - ha creduto in Dio più di noi». Forse voleva dire che Lutero propugnò il rapporto diretto tra il credente e il suo Creatore, senza la necessaria intermediazione della Gerarchia, del dogma, della pratica liturgica.
La frase comunque è stata quella che di per sé evoca una vera e propria rivoluzione come l´altra: «Meglio un non credente di retto sentire che un ateo devoto».
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Veniamo all´incontro con Aldo Moro. Si svolse nel suo studio in via Savoia alla presenza di Corrado Guerzoni, suo stretto collaboratore. Il tema era l´ingresso del Pci nella maggioranza del governo che si insediò, presieduto da Andreotti, pochi giorni dopo il nostro incontro e poche ore dopo il rapimento di Moro in via Fani e la strage della sua scorta.
Alla mia domanda Moro rispose così: «Molti si chiedono nel mio partito e fuori di esso se sia necessario un accordo con i comunisti. Quando si esaminano i comportamenti altrui bisogna domandarsi anzitutto quale è l´interesse che li motiva. Se l´interesse egoistico c´è, quella è la garanzia migliore di sincerità. E qual è l´interesse egoistico della Dc a non essere più il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana? Io lo vedo con chiarezza: se continua così, questa società si sfascerà, le tensioni sociali non risolte politicamente prendono la strada della rivolta anarchica e della disgregazione. Se questo avviene noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del Paese e affonderemo con esso. Noi non siamo in grado di "tenere" da soli un Paese in queste condizioni. Occorre una grande solidarietà nazionale. So che Berlinguer pensa e dice che in questa fase della vita italiana è impossibile che una delle maggiori forze politiche stia all´opposizione. Su questo punto il mio e il suo pensiero sono assolutamente identici. Dopo la fase dell´emergenza si aprirà quella dell´alternanza e la Dc sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi».
Questo disegno moroteo fu attuato e consentì di battere il terrorismo. Lui ci rimise la vita ma il frutto d´una democrazia finalmente compiuta si realizzò.
Quel disegno era valido allora (e proprio per questa ragione gli interessi interni e internazionali che non volevano una trasformazione riformista del Pci organizzarono l´agguato di via Fani) ma è ancora più valido oggi perché il partito comunista non c´è più e la sinistra - tutta la sinistra - è interamente democratica.
I cattolici che militano nel Pdl (ma quelli veri sono assai pochi) dovrebbero riflettere sulle parole di Moro, ma ancor più dovrebbe riflettere Casini che ancora recalcitra di fronte all´ipotesi dell´alleanza che il Pd gli offre. Casini vuole essere l´ago della bilancia, accetta l´alleanza col Pd solo se sarà dimezzato, solo se Vendola andrà per conto proprio portandosi appresso metà del partito democratico.
Ma valgono anche per Vendola e per Di Pietro le parole che Moro allora indirizzava all´intero Pci. Chi pensa alla propria bottega vede l´albero ma non la foresta, antepone i propri interessi e le proprie ambizioni alla salvezza del Paese. E chi, nel partito democratico, si divide tra l´alleanza con Casini e quella con la sinistra radicale, fa lo stesso errore. Ci vuole - e tutti dovrebbero volerla - la grande alleanza del centro e della sinistra riformista. Con un programma comune, limitato ai pochissimi punti necessari a superare l´emergenza. Poi verrà il tempo dell´alternanza tra i moderati e i riformisti, entrambi ligi all´etica costituzionale e repubblicana.
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Il colloquio con Berlinguer avvenne tre anni dopo quello con Moro. Il Pci aveva sperimentato l´alleanza con la Dc, il terrorismo era stato battuto lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Ma i nodi del Paese non erano stati risolti, la questione morale si era diffusa con tutte le sue brutture, la Dc aveva registrato una regressione con l´alleanza Craxi-Andreotti-Forlani, mafia e corporazioni dominavano, il debito pubblico aveva superato la soglia della tollerabilità.
Berlinguer illustrò a lungo la questione morale individuandone la causa nell´occupazione delle istituzioni da parte dei partiti (anche del suo in alcune diffuse situazioni locali). Poi parlò della "diversità" comunista. Ne enumerò tre, ma le prime due avevano piuttosto l´aria di voler lanciare una sollecitazione contro il pericolo che anche il Pci diventasse "casta" anziché rappresentanza popolare quale fino ad allora era stato.
La terza "diversità" ha invece un tratto sorprendente di attualità: «Noi abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici, ma anche quelle degli strati emarginati della società a cominciare dalle donne, dai giovani e dagli anziani. Il principale malanno delle società industriali è la disoccupazione. L´inflazione è l´altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro tutte e due, ma guai se per domare l´inflazione si debba pagare il prezzo d´una recessione massiccia e di un´altrettanta massiccia disoccupazione. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili. Noi abbiamo sostenuto l´austerità contro il consumismo. Abbiamo detto anche che i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di risanamento, ma che l´insieme dei sacrifici doveva esser fatto applicando un principio di rigorosa equità. Il costo del lavoro va anch´esso affrontato e contenuto operando soprattutto sul fronte della produttività. Voglio dirlo però con tutta franchezza: quando si chiedono sacrifici al Paese si comincia sempre con il chiederli ai lavoratori; quando poi si abbia alle spalle una questione come la P2 è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili».
Su queste parole debbono meditare tutti, al centro e a sinistra. Della destra non parlo nemmeno perché la destra non c´è. C´è un´accozzaglia di clientele tenute insieme dall´interesse e da residui di un ex comunicatore che ha scelto come amici intimi Scilipoti, Lavitola e Verdini. "Unicuique suum" direbbe la liturgia. Quanto alla fede, chi ce l´ha avrebbe dovuto sapere da gran tempo che nei luoghi del morente Pdl la fede non è mai stata di casa. Quel partito e il suo premier possono aver concesso qualche favore ai "valori non negoziabili". Al quale proposito -da un non credente interessato alla questione - concludo con due osservazioni: 1) anche i laici hanno valori non negoziabili; chi vuole affermare i propri deve concedere la reciprocità. 2) I valori non negoziabili non sono separabili l´uno dall´altro, costituiscono nel loro complesso una coscienza etica e dunque è su quella che ci si confronta.
Ora aspettiamo di vedere se le intimazioni alla manovra di crescita che l´Europa e la Bce ci hanno rivolto saranno accolte dal governo. Altrimenti su questo cadrà.
Premettendo che ogni previsione su come sarà il mondo tra duecento anni è un esercizio che si lascia volentieri ai premi Nobel, la visione nel nuovo libro di Robert B. Laughlin offre spunti interessanti. Il tema è l´energia, ma soprattutto l´agricoltura. La tanto bistrattata agricoltura, ritenuta da moltissimi un settore marginale, data così tanto per scontata da essere trascurata, lasciata per troppo tempo e con troppo potere in mano a un sistema agroindustriale globale che ha finito con il metterla in ginocchio, prima nei paesi poveri e ora anche in quelli ricchi. E sempre con effetti nefasti per ambiente, contadini e consumatori.
Laughlin sostiene che tra due secoli l´agricoltura sarà fondamentale per continuare a garantirci la vita. Dice che il settore agricolo sarà il principale produttore di energia nell´era post-fossile. L´idea di coltivare oceani e deserti per non far entrare in competizione cibo ed energia è molto affascinante e neanche tanto fantascientifica. Però bisogna ricordare che il cibo stesso è energia, perché ci nutre e ci fa muovere e perché cresce grazie alla fotosintesi clorofilliana, dunque all´energia del sole. L´agricoltura è sempre stata, lo è oggi e sempre sarà ciò che ci garantisce la vita.
Una volta presa coscienza di questo assunto banale ma un po´ troppo spesso dimenticato, va però fatto un discorso su come dovrebbe essere l´agricoltura del futuro. Che si debba cambiare profondamente, che la si debba rinnovare è un atto dovuto anche per il palese fallimento del modello intensivo-industriale che ha dominato l´ultima metà di secolo. Che l´interazione tra produzione di cibo e produzione di energia sia già nelle cose è dimostrato poi da come facilmente molte aziende agricole facciano già le due cose insieme. Il problema è che quando prevalgono la concentrazione, l´inseguimento di presunte economie di scala, l´idea per cui l´agricoltura è come uno qualsiasi dei settori industriali - e risponde alle stesse leggi economico-produttive - cibo ed energia saranno sempre in competizione tra di loro. Non bisogna fare "cibo o energia", ma "cibo e energia". Potremo coltivare gli oceani, i deserti e anche gli altri pianeti, ma senza cambiare il nostro modo di pensare continueremo sempre a risolvere un problema creandone un altro.
Sono sicuro che ci saranno innovazioni importanti in campo energetico, e tecnologie sempre più pulite per sfruttare direttamente o indirettamente l´energia solare (l´unica vera, enorme, sicura, perenne centrale che ci fa piovere addosso, in ogni momento, enormi quantità di energia) con tutte le forme che ne derivano. Ma ci vorrà la consapevolezza che tutto questo andrà realizzato in un sistema complesso che non dovrà più essere governato in maniera centralizzata. Ci vorrà un sistema capillare, diffuso, in cui le comunità e le persone diventano produttrici di cibo ed energia prima di tutto per se stesse e poi per gli altri, in rete tra di loro. È necessaria una democratizzazione della produzione energetico-agricola, con tecnologie accessibili che si diano come obiettivo primario la sostenibilità dei processi e non la possibilità di realizzare speculazioni. Già ora vediamo come biogas e fotovoltaico, che potrebbero essere dei modi perfetti per integrare la produzione agricola a livello aziendale, in nome del profitto e dei grandi numeri possano diventare altamente insostenibili, ponendosi come alternative, e non complementari, a un´agricoltura che così com´è risulterà sempre perdente, siccome non riesce più a generare entrate dignitose per i contadini. Per garantire il futuro non sarà tanto questione di quali tecnologie ci inventeremo, ma piuttosto in quale paradigma le vorremo calare.
Ora è ufficiale. Dopo quanto anticipato da Repubblica, che già un mese fa aveva rivelato le obiezioni di costituzionalità mosse dall’ufficio legislativo dei Beni culturali al Piano Casa del Lazio e l’intenzione di Giancarlo Galan di chiederne l’impugnazione, è lo stesso inquilino del Collegio Romano a confermarlo dalle colonne del Corriere della Sera. «Non sarò certo io il ministro che permetterà abusi sul paesaggio senza controlli» ha affermato, minacciando le dimissioni.
Ma a questo punto i tempi sono strettissimi. Se infatti il consiglio dei ministri non approverà la proposta entro dopodomani, il Piano Casa del Lazio non potrà più essere impugnato per scadenza dei termini. Ecco perché, ragionano nel Pdl, Galan ha deciso di forzare con quell’uscita sui giornali. Circostanza che, al contrario, spiega come mai finora non sia stata calendarizzata la discussione a Palazzo Chigi: rischia di aprire più d’una crepa (fra favorevoli e contrari alla Polverini) in seno a una maggioranza già spappolata. Nel frattempo le opposizioni attaccano. «Il centrodestra ha varato un piano devastante, che noi cercheremo di fermare» annuncia il commissario del Pd Chiti. Rincara il senatore Zanda: «Le osservazioni di Galan rendono chiaro come la Polverini sia stata sorpresa con le mani nella marmellata».
In subbuglio la Pisana. «Dopo l’appello del ministro, il governo non può più far finta di niente» avverte il capogruppo di Sel Nieri. «Il provvedimento è incostituzionale perché viola leggi urbanistiche e piani regolatori dando il via a una deregulation che ferisce profondamente il territorio regionale» gli fa eco il pd Montino. E mentre Foschi parla di «scempio ambientale» invitando la Polverini a ripensarci, il verde Bonelli plaude all’iniziativa di Galan. Ma il Pdl fa quadrato, bollando come «strumentali» le polemiche. «Il Piano Casa dovrebbe essere preso a esempio, non criticato» taglia corto il segretario romano Sammarco. «È un fiore all’occhiello, voluto fortemente da Berlusconi», incalza il vice del Lazio Pallone. Con il sottosegretario Giro che tenta di minimizzare: «È prerogativa del ministero verificare i requisiti di costituzionalità di una legge regionale. Su quella del Lazio è in corso un confronto sereno e costruttivo: una procedura assolutamente normale».
Premessa: il Piano Casa della Regione Lazio fa schifo. E’ probabilmente il peggiore dei consimili provvedimenti finora approvati.
E quindi benissimo ha fatto Galan a chiederne l’impugnazione. Meno bene quando ha specificato che la sua non è contrarietà a priori sui piani casa che, anzi, in Veneto, nel suo ruolo di presidente della Regione, ha sostenuto con ogni mezzo.
Come i nostri lettori sanno bene, eddyburg ha costantemente denunciato l’incredibile massacro del territorio perpetrato dalla presidenza Galan. Ma noi di eddyburg siamo inguaribilmente ottimisti e ci auguriamo seriamente che col cambio di giacchetta il ministro abbia operato anche un’insperata capriola ideologica e sposato, doverosamente, la causa della tutela del paesaggio, così come gli impone la Costituzione sulla quale ha giurato.
Contiamo quindi che, non solo mantenga la promessa di impugnazione in Consiglio dei Ministri nonostante i tempi quasi proibitivi, ma che perseveri coerentemente nella lotta contro ogni tipo di condono edilizio, mascherato o palese, regionale o nazionale: abbiamo il sospetto che la sua tempra di difensore del paesaggio sarà messa a dura prova fin dai prossimi giorni…(m.p.g.)
Il commissario europeo Johannes Hahn arriverà mercoledì fra le rovine di Pompei. A lui il compito di sbloccare i finanziamenti per il grande piano di rinascita degli scavi disastrati: 105 milioni in tutto, è stato detto. Ma purtroppo non è così.
Purtroppo non ci sono 105, ma nemmeno cento o cinquanta milioni per le rovine di Pompei. Alla fine, si potrà constatare che non sono realmente spendibili neanche dieci milioni per il rilancio degli scavi, questo patrimonio dell'umanità che si sbriciola ad ogni temporale.
La zona del muro perimetrale venuto giù venerdì scorso è ancora sotto sequestro. Ed è anche lì che il commissario Hahn arriverà per vedere lo stato delle rovine accompagnato dai ministri dei Beni culturali Giancarlo Galan e degli Affari regionali Raffaele Fitto. C'è un programma di interventi da 105 milioni approvato dal Consiglio superiore dei Beni culturali che Hahn deve sbloccare. Ma i soldi per gli scavi sono davvero pochi.
Guardiamolo, il piano. E per cominciare a fare i conti c'è una prima facile operazione di sottrazione: la cifra stanziata di 105 milioni non è tutta per Pompei, ma serve anche per opere di Napoli, della zona Flegrea, di Ercolano, Oplontis, Boscoreale, Poggiomarino. Dunque? Sulla carta per il rilancio degli scavi di Pompei rimangono quarantasette milioni e mezzo di euro, più o meno. Sulla carta.
Ma andiamola a leggerla quella carta. È un lungo elenco di lavori e di opere da realizzare per il restauro di Pompei. Trentanove voci, per l'esattezza. Trentanove progetti: purtroppo la maggior parte sono tutti in fase preliminare. Ovvero il risultato è una lista di cose da fare senza alcunché di operativo. Nulla per cui quei soldi stanziati possano essere spesi realmente, almeno secondo le leggi vigenti.
I progetti esecutivi, quelli cioè davvero operativi, non sono che otto, in tutto. Per un totale di nemmeno otto milioni di euro. Anzi: ce ne è uno in più. Lo stanziamento più caro fra i progetti esecutivi: quattro milioni e mezzo di euro per completare un bunker in cemento armato costruito nel bel mezzo delle rovine, fra porta di Nola e porta Vesuvio. Un deposito brutto che deturpa il panorama antico e che fino ad oggi è già costato quasi cinque milioni di euro.
Il bunker è in assoluto la cifra più impegnativa, seguita soltanto da quel milione e ottocentomila euro stanziato per il restauro della casa di Sirico, domus ignota alle guide turistiche, così come la casa del Marinaio (un milione e mezzo di euro) o la casa di Fullonica di Stephanius (600 mila euro).
Ci sono altre tre domus semisconosciute fra i restauri operativi, insieme ad interventi di muri nelle strade prima di cogliere un restauro degno di nota: quel milione e 769 mila euro per la domus dei Dioscuri, perla rara di restauro fra questi progetti.
In calce all'elenco ci sono quattro voci imponenti: otto milioni per il piano della conoscenza (rilievi e verifiche e indagini idrogeologiche); sette milioni il piano della fruizione della comunicazione; due milioni per il piano della sicurezza; 2,8 milioni per il rafforzamento. Non è specificato per quale sito debba servire. Ma sono in calce a tutte le opere e dunque da dividere ancora una volta per tutti i siti citati nell'elenco.
La gravità di quanto accaduto giovedì (ma reso noto solo oggi) a Pompei, oltre che nella perdita di un elemento del nostro patrimonio archeologico risiede soprattutto nella devastante dimostrazione che nulla o quasi è stato fatto in oltre un anno.
Italia Nostra denunciò una situazione di fortissimo rischio e alcuni crolli (Casa dei Casti Amanti) fin dal gennaio 2010; un anno fa, il 6 novembre, la distruzione della Schola Armaturarum parve riattivare un percorso virtuoso di attenzione sul sito.
Mesi di annunci e promesse, un decreto (il n. 34, del 31 marzo 2011) che sembrò poter cambiare la situazione in tempi brevi e apportare concrete risorse per il piano di recupero del sito stesso.
Ad oggi, alla Soprintendenza Archeologica di Napoli e Pompei, non sono state assegnate nè risorse economiche, nè umane. Addirittura, nel mese di giugno, è stato deciso lo storno di alcuni milioni da Pompei al polo museale di Napoli (Capodimonte).
Nessuno dei 25 funzionari promessi, archeologi e architetti, è mai stato assunto: il comma che doveva servire a sbloccare la procedura, fortunosamente inserito nel ddl stabilità (n.2968), giovedì scorso 19 ottobre è stato stralciato perchè palesemente incongruo con il provvedimento. Ultimo drammatico segnale di un livello di incapacità amministrativa del Mibac che ha ormai superato il livello di guardia.
E continuano a rincorrersi, al più alto livello, dichiarazioni a dir poco fuorvianti e pericolose sulla necessità di realizzare “servizi e infrastrutture” non meglio identificate all’esterno degli scavi, quasi a voler giustificare quello strano comma 6 del decreto di marzo che, come denunciò immediatamente Italia Nostra, rendeva possibili, con la deroga da ogni strumentazione urbanistica, operazioni di dubbia utilità se non addirittura dannose per il sito stesso.
Italia Nostra richiede con forza che il piano di recupero e manutenzione di Pompei sia avviato immediatamente, partendo dalle recommendations elaborate dagli ispettori inviati dall’Unesco nel gennaio scorso. A garanzia scientifica e operativa di tale piano è necessario attivare, al più presto, un board di esperti di riconosciuta competenza pompeiana a livello nazionale e internazionale (Pompei è patrimonio universale).
Compito del board sarà inoltre quello di un primo addestramento ai nuovi archeologi che devono essere assunti in tempi rapidissimi (con apposito provvedimento legislativo d’urgenza).
Occorre inoltre stanziare fondi aggiuntivi immediati nelle disponibilità della Soprintendenza, affiancandone il personale con un ristretto gruppo di esperti in procedure amministrative, in grado di avviare in tempi celeri gare e appalti: soluzione molto più idonea ed operativa rispetto ai soliti carrozzoni onerosi e privi di competenze specifiche quali Invitalia.
In prima battuta si potrebbe trattare di risorse non enormi, ma vi è bisogno adesso, subito, di dare il segnale che abbiamo ancora la capacità di tutelare il nostro patrimonio archeologico.
Un anno è passato invano: non c’è più un’ora da perdere.
A Pompei da giorni si guardava intensamente il cielo. Appena diventava grigio, tornava l´incubo della pioggia che gonfiava d´acqua il terrapieno dietro i muri di via dell´Abbondanza. Dal 6 novembre 2010, quando venne giù la Schola Armaturarum (Domus dei Gladiatori), è passato un anno. Ma poco è cambiato. E il crollo c´è stato.
Ha ceduto il muro di cinta nei pressi di Porta Nola, nella zona Nord degli scavi archeologici. Promesse, giuramenti: non è arrivato neanche un soldo di quelli annunciati più volte e neanche un´assunzione è stata avviata. E così il sito - sessantasei ettari di cui quarantaquattro scavati, stesi sotto un cielo nero e ostile - è rimasto senza le protezioni che erano state assicurate dopo che lo sbriciolarsi dei muri aveva scioccato il mondo intero. Mercoledì 26 arriva a Pompei il commissario europeo Johannes Hahn che dovrebbe dare il via libera allo stanziamento di 105 milioni di euro. Una somma che, stando ai trionfalismi del ministero, sembrava già nei cassetti da mesi. «Gravissima è la responsabilità dei Beni culturali di non avere saputo proporre alcuna soluzione: né in termini economici né di risorse umane», è il commento di Maria Pia Guermandi del Consiglio nazionale di Italia Nostra.
Tutti sono d´accordo, almeno a parole, che solo una capillare, costante manutenzione ordinaria può mettere al riparo Pompei dai disastri. È scritto in un piano redatto dalla Soprintendenza e approvato dal ministero. Lo ha ribadito il rapporto dell´Unesco, che rinvia ma non cancella l´ipotesi di inserire gli scavi vesuviani nella lista dei beni in pericolo. Ma i mezzi e gli uomini a disposizione della Soprintendenza diretta da Teresa Cinquantaquattro non bastano. «In un anno abbiamo completato la mappatura di tutto lo scavo e cercato di tamponare le situazioni di massima emergenza. Ma senza quei 105 milioni e senza assunzioni i progetti di messa in sicurezza e di restauro non possiamo realizzarli», spiega la soprintendente. E così prima il ministro Giancarlo Galan, poi il sottosegretario Riccardo Villari sono arrivati ad ammettere che davvero un´abbondante pioggia avrebbe potuto di nuovo trascinare con sé terra, fango e muri antichi. Almeno le profezie al ministero le azzeccano.
L´ultima mazzata si è abbattuta giovedì sera al Senato. Dove è stato stralciato dal disegno di legge di stabilità, approvato cinque giorni prima dal Consiglio dei ministri, il comma sulle assunzioni di nuovo personale a Pompei. Non c´entrava niente con quel ddl e ora seguirà un iter autonomo. «Al ministero sono in stato confusionale», commenta Guermandi. E così affinché arrivino una ventina fra archeologi e tecnici (ma all´inizio si diceva una trentina) occorre aspettare ancora. E intanto la situazione si è fatta disperata. Mancano vigilanti e non si riesce a coprire tutti i turni. Il laboratorio degli affreschi conta su tre restauratori soltanto. Gli archeologi sono sei, gli architetti sette e oltre che a Pompei lavorano a Ercolano, Oplonti e Stabia. Gravissime sono le carenze fra i capotecnici, figure essenziali per vigilare i cantieri, che così sono affidati integralmente alle ditte esterne.
È un anno che si parla di nuove assunzioni. I rinforzi erano garantiti dal decreto legge approvato ad hoc per tacitare lo scandalo pompeiano nel marzo scorso. Sono stati sbandierati prima da Sandro Bondi e poi da Galan come il segno di una risposta forte dello Stato. Recentemente è stato Villari, new entry nel governo e ora investito di una delega speciale per Pompei e l´area napoletana (ha anche aperto un ufficio in Castel dell´Ovo, sul lungomare partenopeo) a indicare e poi spostare in avanti le scadenze: fine settembre, fine ottobre... Ma non è accaduto nulla. Eppure c´erano graduatorie pronte, frutto di un concorso svoltosi due anni fa. Archeologi e architetti idonei erano in attesa di chiamata.
Altro capitolo doloroso, quello dei soldi. Ancora nei giorni scorsi Villari "si augurava" che i 105 milioni sarebbero stati "scongelati" in occasione della visita del commissario europeo. Teresa Cinquantaquattro insiste: «Allo stato attuale abbiamo speso solo i pochi soldi della Soprintendenza. Tutto quel che avevamo è impegnato». Ma la macchina burocratica sarà lenta e complessa. Un ruolo negli interventi a Pompei lo avrà anche Invitalia, società pubblica a metà fra il ministero dell´Economia e quello guidato da Fitto. La cui mission, come si legge sul sito, c´entra poco con l´archeologia: favorire l´attrazione di investimenti esteri, sostenere l´innovazione e la crescita del sistema produttivo, valorizzare le potenzialità dei territori. La comparsa sulla scena pompeiana di Invitalia è recente: nel decreto di marzo si parlava dell´apporto di un´altra società, Ales, questa sì di proprietà dei Beni culturali.
Ma a Pompei nutrono anche altri timori. Villari, sempre lui, ha fatto capire che i soldi promessi da un gruppo di investitori francesi (che potrebbero arrivare a 200 milioni) sono legati a una serie di iniziative fuori del sito archeologico promosse da imprenditori napoletani. Che, tradotto, vuol dire infrastrutture, alberghi e altro. Oltre alla pioggia, su Pompei potrebbe abbattersi un diluvio di cemento.
Legambiente preme e chiede un intervento. La Regione apre, seppur con cautela. Al congresso regionale di Bergamo l'associazione ribadisce l'allarme per il consumo di suolo, considerata una vera e propria emergenza alla luce dei dati che evidenziano come il suolo urbanizzato in cinquant'anni si è quintuplicato (nella sola Bergamasca è passato dal 3 al 14%), e rilancia la proposta di legge di iniziativa popolare che mira a imporre uno stop al cemento.
Daniele Belotti, assessore regionale al Territorio, non si tira indietro: «Siamo sensibili al tema del risparmio del territorio. In linea di principio siamo aperti al confronto, anche se bisogna essere chiari: non si possono cambiare le regole a partita in corso». Il 31 dicembre 2012 scadono i Piani di Governo del Territorio. «Poi la normativa cambierà sicuramente — aggiunge Belotti —. Ma fino ad allora non possiamo rischiare di essere sommersi dai ricorsi dei Comuni». Legambiente incassa ma non abbandona lo scetticismo. «Quattro anni fa abbiamo posto alla Regione una questione fino ad allora affrontata solo in modo superficiale e propagandistico — spiega il presidente Damiano Di Simine —. Oggi possiamo dire che la questione è entrata nell'agenda politica, ma le soluzioni sono ancora lontane».
L'associazione invita i partiti a gettare la maschera. «I politici di ogni parte si dicono d'accordo con noi, ma la legge, ferma in Consiglio regionale da due anni, non arriva in aula. Chiediamo un voto, a scrutinio palese, che ci dica chi davvero vuole fermare il cemento». Sul medesimo tasto batte anche, intervenendo al congresso, il consigliere regionale dell'Idv Gabriele Sola: «La proposta di legge di Legambiente è un'occasione da non lasciarsi sfuggire per colmare un vuoto normativo". Nel dibattito dell'assise regionale i temi affrontati sono anche altri: dal nucleare alle energie rinnovabili, dai parchi all'inquinamento atmosferico. L'assessore regionale alle Reti e all'Ambiente Marcello Raimondi è intervenuto per ricordare l'impegno del Pirellone sul fronte dello smog. «In dieci anni abbiamo speso 2 miliardi per l'ambiente e contro l'inquinamento atmosferico sono state messe in campo oltre cento misure. Grazie anche al pungolo di Legambiente la sensibilità è molto cresciuta».
Nota: su questo sito già dalla prima pubblicizzazione del progetto di legge lombardo sul consumo di suolo si sono sviluppate discussioni, a partire da una domanda fondamentale, ovvero se sia possibile ridurre la questione a faccenda settoriale. La risposta pare darla il comportamento dell'amministrazione regionale, che evidentemente si è posta (in forma rigorosamente non pubblica) la medesima domanda, trovando per ora la risposta del rinvio continuo, per domani chissà (f.b.)
Le macerie? Hanno cominciato a rimuoverle, ma si sono accorti che andando avanti sarebbe caduto il palazzo qui a fianco, poi quello a destra, quindi l’altro a sinistra…». Davanti alle rovine della dimora barocca Lo Jacono-Maraventano ridotta in polvere, il parroco della cattedrale, Mario Russotto - anche lui sfrattato dal tempio pericolante -, indica a perdita d’occhio pareti inclinate, balconi sbrecciati, stanze a cielo aperto, case storte. Una città di cartapesta. Il centro storico di Agrigento è come il gioco dello shanghai, quello dei bastoncini cinesi: basta che se ne muova uno e viene giù tutto. Nel silenzio, nell’indifferenza, nella distratta rassegnazione degli abitanti che poco più in là, davanti al municipio, si «vasano» cuffarianamente sulle due guance mangiando dolci di ricotta, la città dei Templi sta inghiottendo se stessa.
Un Titanic, già quasi del tutto affondato. «Che ci posso fare io? Sto a San Leone, sul mare, mi affaccio sulla terrazza e mi ‘nni futtu», taglia corto un passante. Di fronte, irreale, fungo gigante di cemento e serrande, c’è Palazzo Vita, il mostro dei mostri, cinquantatré metri di altezza che svettano sulle casupole antiche, costruito negli anni Sessanta: qualche comitato civico, di tanto in tanto, propone di abbatterlo, o almeno di tagliarne metà. Li chiamano «tolli», qui, questi alieni che svettano in cielo, parola che in dialetto vuol dire cosa inutile, ingombrante e fuori posto. «Il piano di fabbricazione dell’epoca spiega l’architetto Simona Sanzo, autrice di un volume sul sacco edilizio - imponeva un massimo di altezza di 25 metri, ma con la possibilità di deroghe». Sorride: «Questo palazzo non è abusivo».
Bisogna venire qui e guardare il panorama per capire la «corda pazza» agrigentina, il rovesciamento della realtà, lo spirito di una terra che ha partorito Pirandello. La terra che ha l’acqua più cara d’Italia, nonostante arrivi a singhiozzo. La provincia che ha il record di evasione fiscale (41,9 per cento) e il massimo della disoccupazione. Già, mentre Agrigento cresceva inghiottendo ogni metro cubo d’aria, mentre si lasciava alle spalle la memoria della frana del 1966 con cinquemila sfollati, mentre costruiva per loro quartieri satellite temporanei che sarebbero diventati definitivi, mentre piazzava uno dopo l’altro propri politici sulle più importanti poltrone romane e palermitane (Mannino, Cuffaro, Alfano, per citare solo gli ultimi), il centro storico restava solo e abbandonato.
Adesso si sta sbriciolando tutto. Sotto i colpi di due diverse scuri: la minaccia idrogeologica, perché parte della città sorge su una collina che scivola verso valle, e la fragilità degli edifici. A febbraio la cattedrale seicentesca, reinaugurata solennemente nel 2007 dopo decenni di chiusura, ha dato segni di cedimento insieme con tutto il costone su cui sorgono gli edifici religiosi di via Duomo. Sfrattato dalle sue stanze pure il vescovo, Francesco Montenegro, il primo a dare l’allarme, memore della tragedia di Giampilieri che aveva vissuto. Il primo a invocare un piano di sgombero, perché da questo quartiere non c’è una via di fuga. «È quasi pronto», dice Attilio Sciara, il responsabile della Protezione civile del Comune, uno che se piove non dorme dall’ansia.
A marzo è imploso Palazzo Schifano, danneggiando anche la vicina Casa della Carità delle suore di San Vincenzo de’ Paoli. Il 25 aprile, mentre gli agrigentini mangiavano e bevevano fuori porta, si è polverizzato il gigante nobiliare, Palazzo Lo JaconoMaraventano, dove l’impresa incaricata dal Comune aveva appena concluso gli interventi di messa in sicurezza. Pochi giorni dopo, inseguito da urla e contestazioni, il sindaco Marco Zambuto, 38 anni una parabola politica che ha attraversato quasi l’intero arco parlamentare -, ha fatto le valigie e ha trasferito il municipio nella palazzina di fronte.Come dire, l’istituzione è qui. Peccato che qualche giorno dopo abbia dovuto firmare un’ordinanza di auto-sgombero perché stava per crollare anche quella. Ora è tutto macerie, a due passi dalla solida villa del regista Michele Guardì, uno dei pochissimi che hanno voluto investire in un centro storico che per gran parte degli agrigentini è morto. Un caro estinto che i più avrebbero già seppellito sotto un sudario di cemento come le rovine di Gibellina terremotata, e che invece - fantasma inquieto - si ostina a far sentire la sua voce, tra boati e crolli.
«Più pericoloso vivere qui che in cima all’Etna», diceva negli anni Novanta l’allora capo della Protezione civile, Franco Barberi. Cinquantanove le famiglie sgomberate, e il numero si ingrossa a ogni pioggia. Quando arrivano i vigili con l’ordinanza in mano, qualcuno piange, qualcuno impreca, qualcuno in silenzio prende in braccio i figli e si rassegna all’ospitalità del Comune - finché dura nell’albergo «Bella Napoli». «Abbiamo speso 400 mila euro del nostro bilancio e 700 mila della Protezione civile regionale per tamponare le situazioni di massima urgenza - dice il sindaco Zambuto -, adesso non abbiamo più un soldo neanche per questo. L’unica cosa che possiamo fare è portare via le famiglie e pregare che non ci scappi prima il morto». Ristrutturazioni? «Quando sono arrivato - allarga le braccia - il Comune aveva un buco di 50 milioni di euro, adesso è risalito a meno quindici, l'unica speranza è nelle risorse esterne». Mostra una mappa della città, un lungo elenco di opere già finanziate: c'era anche il restauro di Palazzo Lo Jacono-Maraventano, per 2 milioni e 800 mila euro. Ma è già crollato.
Difendere le rive dal lago dall'assalto del cemento. È questo l'obiettivo del Comitato appena costituito a Desenzano, al quale hanno aderito 250 cittadini gardesani - di nascita o di adozione -, compreso il notissimo cantautore Roberto Vecchioni, vincitore dell'ultima edizione di San Remo. Coinvolgimento dettato dagli stretti legami fra l'autore di «Luci a San Siro» e il Garda, visto che il «professore» ha insegnato al liceo Bagatta ed ha abitato a Barcuzzi.
«Il valore di Desenzano è sotto minaccia - ha recentemente dichiarato Vecchioni -. Il progetto del lungolago che invade con il cemento le rive del lago ha dell'incredibile. Per me, milanese di nascita e gardesano d'adozione che ha scelto di frequentare questi luoghi abitandovi, il dispiacere è grande. Ma è anche grande la volontà di sostenere tutti coloro come il Comitato "Difendiamo le rive dal cemento", che si sono ribellati a questo stato di cose».
Postilla
ottima cosa, che per la tutela del paesaggio e delle risorse naturali del paese, si schieri anche una voce molto importante in termini di visibilità, come quella di un cantante. Se ne ricordano in molti, di cosa ha voluto dire ad esempio il concerto dello stesso Vecchioni a sostegno dell’allora considerata impossibile candidatura di Giuliano Pisapia a Milano. E l’impegno contemporaneo dei musicisti per le questioni urbanistiche a memoria del sottoscritto risale almeno alla fine degli anni ’50, quando il giovane cantautore Bob Dylan fu contattato dall’attivista Jane Jacobs per comporre una ballata in difesa del loro quartiere Greenwich Village, minacciato dal progetto di un’autostrada urbana.
Ma per fare a tutti i costi l’avvocato del diavolo, le attuali dichiarazioni di Vecchioni, pur certamente in ottima fede, potrebbero rischiare di apparire poco più di un’espressione nimby , magari a difesa della veduta dal terrazzo del soggiorno, più che degli interessi generali. Perché è giusto ricordare che appena l’anno scorso lo stesso Vecchioni senza troppo pensarci su si dichiarava favorevolissimo a spostare le sue famose Luci a San Siro, insieme a tutto l’impianto dello stadio, dentro al Parco Agricolo Sud Milano. Sicuramente preso alla sprovvista, per carità, magari anche per colpa di chi queste cose le capisce, ma sempre si spiega poco e male fuori dal dibattito di bottega. Cerchiamo, tutti, di far meglio in futuro, eh? (f.b.)
Si chiama «progetto di piantagioni di nuova generazione», ma il nome è ingannevole. Si tratta del progetto promosso dagli enti forestali di alcuni governi (Cina, Svezia e Regno unito), un pool di aziende internazionali del settore (Forestal Mininco/Cmpc, Masisa, Fibria, Mondi, Portucel, Sabah Forestal Industries, Veracel, Stora Enso, Upm-Kymmene), e sostenuto anche dal Wwf, una delle più note organizzazioni ambientaliste internazionali. Il Ngpp (acronimo di «new generation plantation project») consiste nel definire «pratiche sostenibili» per la gestione di piantagioni, e promuoverle presso le aziende forestali, le autorità governative, gli investitori per «promuovere l'adozione delle migliori pratiche nelle piantagioni forestali»: così si legge sul sito del Wwf. Che argomenta: le piantagioni intensive sono controverse perché distruggono le foreste originarie e altri ecosistemi naturali, oltre ad avere impatti sociali, calpestare i diritti delle comunità locali, e così via, ma non è necessario che sia così, se si adottano pratiche di «foresteria sostenibile».
Il progetto però è contestato da alcune grandi reti ambientali e sociali latinoamericane. Con il progetto delle nuove piantagioni «credono o fanno credere che per magia si risolveranno le contraddizioni intrinseche alla foresteria industriale: accaparramento e concentrazione di terre, espropriazioni delle comunità locali ed esclusione di altre forme produttive già esistenti, dell'esaurimento delle acque e del suolo», si legge in un comunicato della Rete latinoamericana contro la monocultura degli alberi (Recoma), creata durante il Forum sociale mondiale del 2003 (ha rappresentanti in Argentina, Brasile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, Messico, Paraguay e Uruguay). Questa rete si batte per limitare l'espansione delle monocolture a favore di specie locali adattate al clima e al terreno, di multiuso e a beneficio delle popolazioni locali, con sistema produttivi agroforestali regionali. Insomma: non si coltivino alberi solo per produrre legna e cellulosa per le grandi aziende, olio di palma, biodiesel - o per essere monetizzati sul nascente «mercato del carbonio». Le grandi corporations, conclude il Recoma, «hanno sempre cercato di ridipingere di verde le loro attività commerciali».
Con una conferenza stampa tenuta di recente a Buenos Aires, altre tre reti latinoamericane - la Federazione argentina degli Amigos de la Tierra, il Foro Boliviano Ambiental e la Red de Alerta Contra el Desierto Verde brasiliana - hanno criticato il progetto Ngpp. Sostengono che punta ad aprire le porte del settore forestale al mercato energetico e del carbonio, permettendo così che ancora più terre fertili vengano accaparrate dai grandi gruppi agroindustriali. Fanno notare ad esempio che il sito web del Ngpp cita nove esempi di piantagioni forestali industriali sostenibili che avrebbero «aiutato a proteggere e ampliare la biodiversità»: peccato che cinque di questi casi corrispondano a zone dove le comunità locali e indigene hanno presentato denunce per espropriazioni indebite, distruzioni ambientali e assenza di studi preventivi di impatto ambientale: si tratta delle monocolture «verdi» dell'impresa Upm in Uruguay, della Vercael/Stora Enso in Brasile, della Masisa in Argentina e delle Cmpc/Forestal Mininco in Cile. Il Wwf si sforza di sostenere i «benefici economici e eco-sostenibili» di queste monocolture arboree, che giustifica perché parte del mercato delle commodities (materie prime) - ribattono le tre reti latinoameticane - è proprio questo sistema di produzione industriale che perpetua modelli insostenibili per gli ecosistemi, per le biodiversità, e per gli umani che di queste risorse vivono. Dimenticando che una piantagione forestale non è ne sarà mai un bosco.
Una lettera della dottoressa Barbera, Soprintendente della Toscana spiega che a San Casciano i nostri cronisti sono stati respinti da una persona che ha agito in proprio senza indicazioni del suo ufficio. Ma le immagini dimostrano che un funzionario ha ribadito che i giornalisti non potevano fare riprese.
Dalla dottoressa Mariarosaria Barbera, Soprintendente per i beni Archeologici della Toscana, riceviamo e pubblichiamo questa precisazione sull'episodio accaduto a San Casciano dove i nostri cronisti sono stati respinti mentre riprendevano il cantiere di scavo archeologico oggetto di una dura polemica tra lavoratori della Laika e ambientalisti. I fatti, però, stando alle immagini da noi pubblicate, sono andati diversamente.
Gentile Direttore,
una troupe di Repubblica. it si è recata alcuni giorni fa sul cantiere di scavo archeologico di S. Casciano Val di Pesa, loc. Ponterotto per riprendere l'area dell'erigendo stabilimento Laika. Uno scavo recentemente oggetto di una campagna di stampa che, tra i primi effetti, certamente non desiderati ma oggettivi, ha generato l'interesse di malintenzionati che già due volte sono entrati e hanno danneggiato le protezioni di scavo.
Nel video, pubblicato sul vostro sito, un'archeologa perde la calma e tenta di allontanare i giornalisti, pur rimasti in area pubblica a ridosso del cantiere, risolvendosi infine a chiamare i Carabinieri. Fin qui la cronaca.
Poi un pesante tocco di fiction: "la Soprintendenza - commenta il giornalista - ha ordinato agli archeologi sul cantiere di tenere alla larga i giornalisti e diffidarli dal pubblicare le immagini". Come dire: la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, da me attualmente diretta, ha di certo qualche "scheletro nell'armadio" e per questo complotta contro il quarto potere.
Sono francamente dispiaciuta per l'incidente. Ma non riesco a comprendere la ragione di tutto ciò: proprio la settimana scorsa ho rilasciato a Francesco Erbani un'intervista telefonica, né breve né omissiva, rispondendo alle domande poste e spiegando posizione e motivazioni della Soprintendenza (di cui peraltro ho assunto la direzione solo a gennaio). Perché non propormi di visitare lo scavo insieme, con la vostra telecamera? Avremmo organizzato tempestivamente e secondo regole che avrebbero tutelato sia la sicurezza dello scavo sia il diritto di cronaca. Senza spostare l'attenzione dalla consistenza dei reperti, il nocciolo della questione, alla reazione personale di un'archeologa.
Perché è dalla consistenza dei reperti che dipende la decisione del Ministero: le cui valutazioni tecniche e scientifiche saranno presto consultabili dal pubblico sulla rivista archeologica digitale Fasti on line, con un'ampia presentazione dello scavo e dei suoi risultati a cura della Soprintendenza. Le stesse valutazioni che forniamo in questi giorni a parlamentari e associazioni.
Mariarosaria Barbera - Soprintendente per i Beni Archeologici della Toscana
Ed ecco la risposta dei nostri inviati
“La replica della soprintendente di Firenze è stupefacente ed è smentita dal video che attesta come sono andati i fatti. E lascia senza parole l'intenzione di addossare ogni responsabilità all'archeologa che era sul sito di San Casciano e che avrebbe "perso la calma" e agito spinta da una "reazione personale". Noi siamo stati invitati con veemenza ad allontanarci dal cantiere e a non proseguire le riprese in virtù di una motivazione infondata ("lo vieta il Codice dei Beni culturali") che un funzionario della soprintendenza ribadisce parlando al telefono con il maresciallo dei carabinieri. Ciò è ampiamente dimostrabile sulla base della testimonianza di tutti i presenti alla scena, compreso il maresciallo dei carabinieri che ci riferisce il contenuto della telefonata".
Francesco Erbani e Mario Neri
Postilla
Non paia un fraintendimento di lieve entità quello descritto nello scambio epistolare fra Soprintendente e giornalisti. Fortunatamente, in questo caso le riprese consultabili sul sito rendono giustizia ai fatti.
Grave è sicuramente che una Soprintendenza, quindi un’istituzione pubblica, cerchi di porre ostacoli al diritto di cronaca accampando inesistenti norme del Codice dei beni culturali, ma se possibile ancora peggiore è il fatto di rovesciare le responsabilità di una scorrettezza su chi, per posizione professionale, si trova in una condizione di debolezza e ricattabilità, quale è l’archeologa precaria presente sullo scavo al momento delle riprese.
Esemplare illustrazione dell'atavico, desolante atteggiamento “forti con i deboli, deboli con i forti". (m.p.g.)
Gentile Presidente, gentile Direttrice, come forse sapranno, alcune settimane fa sono intervenuto con una breve nota (http://eddyburg.it/article/articleview/17623/1/92) in merito alla questione dei rinvenimenti archeologici di San Casciano. Il mio intervento, come archeologo e come cittadino italiano interessato alla conoscenza, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, si limitava a brevi considerazioni e soprattutto a porre alcune domande, che nel frattempo non hanno ricevuto alcuna risposta. E nessuna risposta, mi sembra, ha ricevuto anche Salvatore Settis, che ha espresso pubblicamente i suoi dubbi e le sue riserve.
Poiché non conosco la situazione, non disponendo di informazioni di prima mano (e come me, credo, nessuno, al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori), non posso e non voglio entrare, anche in questa occasione, nel merito del significato e del valore, dell’entità scientifica e culturale del ritrovamento, né del perché dell’assenza di indagini preventive che probabilmente avrebbero evitato questa contrapposizione, e nemmeno delle scelte - a mio parere assolutamente discutibili, anche se certamente legittime e, in altri casi eccezionali, praticate - di ‘delocalizzare’ i resti archeologici (uso volutamente questa brutta espressione), pur restando dell’idea, come avevo già scritto, che:
a) «se i ritrovamenti sono relativi a “pochi muretti”, come qualcuno sussurra, si abbia il coraggio di portare la decisione alle estreme conseguenze, si documenti e si pubblichi l’intero contesto archeologico, e lo si sacrifichi autorizzando la costruzione del capannone al di sopra dei resti»;
b) «se, invece, si trattasse di elementi di grande interesse storico-archeologico, tali da richiederne addirittura lo smontaggio e la ricollocazione in altro luogo, allora forse sarebbe il caso di riesaminare più attentamente la questione, privilegiando la conservazione in situ».
Il problema che invece pongo, a questo punto, è un altro, forse ancor più significativo, perché tocca la concezione democratica e trasparente dell’archeologia. Perché non si sono fornite notizie sui ritrovamenti? Perché non si sono aperti i cantieri ad archeologi, ad esperti, ad associazioni, ai cittadini, come avviene in tutti i paesi europei, anche in problematici contesti urbani e rurali? Corrisponde a verità quanto si dice a proposito della minaccia dell’intervento delle forze dell’ordine per impedire alla stampa la ripresa fotografica e video dei resti?
L’opacità produce sempre dubbi e sospetti. L’archeologia ha bisogno di trasparenza e di coinvolgimento sociale.
Il prossimo anno terremo a Firenze un convegno sull’Archeologia Pubblica, al quale un gruppo di archeologi, tra cui chi scrive, sta lavorando da tempo. Come potremmo parlare di archeologia pubblica, di ruolo sociale dell’archeologia, di partecipazione democratica, mentre non si garantisce nemmeno, in situazioni come queste, un minimo di trasparenza?
Sono sicuro che, anche in questa occasione, la Regione Toscana, regione di solide tradizioni democratiche e modello di politiche di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico, saprà offrire una risposta capace di fugare quei dubbi e quei sospetti che finora questa triste vicenda ha oggettivamente prodotto.
Con i saluti più cordiali e con grande stima
Giuliano Volpe
Con il comunicato di ieri del presidente della Regione Enrico Rossi e con l’intervista di oggi su Repubblica di Antonella Mansi, presidente di Confindustria Toscana, la vicenda Laika al Ponterotto passa ad una nuova fase. E’ vero, abbiamo cercato di impedire il trasferimento dei reperti archeologici che per quasi tutti (tranne i responsabili, per l’appunto) è uno scempio senza senso, che ci coprirà di ridicolo. Una soluzione poteva anche essere trovata, lasciando i reperti al loro posto e modificando la planimetria del capannone: ma non ne hanno voluto sapere. Vogliono far presto e bene, come dice spesso Rossi: perderanno un sacco di tempo (e di soldi) e faranno male, diciamo noi.
Tutto ciò ha contribuito a rimettere in luce una vicenda lunga dieci anni, pieni di dubbi e di passaggi poco chiari. Il terreno, agricolo, è stato venduto a prezzo industriale come dice oggi il direttore di Laika De Haas, e ripete il presidente Rossi, oppure no? Circa 20 € al metro quadro, nel 2002, sono tanti o pochi? Quali erano le alternative, se sono state cercate, e se no, perché? E la lunga procedura della valutazione, richiamata dal Sindaco, è stata una cosa seria o una farsa? E le cosiddette mitigazioni, a cui ancora oggi ci si appella, hanno ancora senso, dopo la scoperta dei reperti? E perché non è mai stato fatto un serio rilievo del terreno, quando era il momento? E chi, fra i responsabili ai vari livelli, conosce davvero la consistenza dei ritrovamenti, sui quali non è ancora stata prodotta alcuna relazione? E perché tutta questa segretezza, nel tenere nascoste decisioni già prese più di un anno fa, nell’impedire addirittura la visione dell’area ai “non addetti ai lavori”?
Queste domande resteranno senza risposta, anche se si può dire che se prima se ne parlava solo a San Casciano, ora se ne parla in tutta Italia. Ma partiamo dall’episodio di giovedì 13 ottobre, ben documentato su: http://inchieste.repubblica.it/. Nel corso della preparazione di un servizio sul caso Laika due giornalisti di Repubblica, Francesco Erbani e Mario Neri, si avvicinano con la telecamera per riprendere, dall’esterno, la zona degli scavi più vicina alla strada provinciale, dove stanno lavorando alcuni addetti della Soprintendenza: i quali accorrono subito al cancello del cantiere, intimano ai due giornalisti di andarsene e minacciano l’intervento dei carabinieri. Il tutto in nome del “Codice del Paesaggio”, che dovrebbe, a sentir loro, tutelare la riservatezza degli operatori, anche quando si tratta di beni culturali oggetto di discussioni pubbliche (e di fotografie sui giornali). Un simile trattamento non era certamente stato riservato, solo due giorni prima, ai rappresentanti delle categorie, inclusa Confindustria, invitati dal Sindaco alla presentazione del progetto e alla visita degli scavi. Il Codice non dice niente di simile, ovviamente, ma l’episodio è indicativo di un certo modo di procedere, che d’ora in avanti sarà bene cambiare profondamente.
Il quadrato intorno a Laika, come titolava la settimana scorsa il giornale locale Metropoli, formato da amministrazione comunale, partiti (PD + PdL) sindacato e Confindustria, è così “magico” che ha sempre pensato di far scomparire con un tocco di bacchetta ogni forma di dibattito fondato sulla conoscenza dei fatti. Se la scoperta dei reperti archeologici è venuta a galla, già all’inizio dei lavori nella primavera del 2010, lo dobbiamo al fatto che alcuni cittadini curiosi, che ben conoscono questa parte del territorio, seguivano con molta apprensione lo sviluppo del cantiere, ben sapendo che quel terreno nascondeva notevoli sorprese, come infatti si stava puntualmente verificando. L’impresa non poteva far altro che chiamare la Soprintendenza archeologica, che in un primo tempo accettava qualche forma di dialogo con i visitatori (i curiosi) locali. Quando le prime pietre cominciano a venir fuori dal terreno, secondo i solerti scavatori sono solo tracce di quei muretti che si mettono intorno agli olivi (forse in Puglia?): al che un agricoltore del posto fa notare che in quel fondovalle gli olivi non si coltivano, bisogna salire un centinaio di metri più su. Si trattava infatti del sito di origine etrusca, che emergeva ai piedi della collina accanto a una fontana settecentesca: proprio quello che i curiosi locali si aspettavano. Ne dà conto, del ritrovamento, un breve trafiletto su Repubblica del 7 giugno, che fa imbestialire la Soprintendenza. E qui si chiude ogni possibilità di rapporto amichevole con le autorità preposte allo scavo.
A una mia cortese richiesta via mail, l’ispettrice Alderighi rispondeva: “Le comunico che la situazione è del tutto tranquilla; è stato previsto un controllo archeologico dell'area su mia indicazione fin dal momento della procedura per la VIA; gli scarsi rinvenimenti che possono avere un interesse archeologico sono di minima importanza e verranno valorizzati nel miglior modo possibile”. E proseguiva con un tono sempre più seccato: “La curiosità sua e della popolazione deve attendere ancora un po’ in quanto è norma di questa Soprintendenza non rendere noto alcun risultato né agli studiosi né ai curiosi se non al termine dei lavori e, per iscritto, sul Notiziario della Soprintendenza che viene pubblicato l'anno successivo; pertanto, da parte di questa Soprintendenza, come per tutte le attività in altri siti, non è autorizzato alcun sopralluogo né rilasciato alcun comunicato durante i lavori; ad ogni modo si tratta di un cantiere privato e quindi, anche per quanto riguarda l'intero cantiere, a prescindere dai miseri ritrovamenti, un eventuale sopralluogo deve essere autorizzato dalla Proprietà”.
La mail è del 9 giugno dell’anno scorso. Soltanto di recente, nel mese di settembre, veniamo a sapere che nello stesso mese di giugno quella stessa Proprietà, con la maiuscola, aveva avanzato la richiesta di trasferire i “miseri ritrovamenti”, che allora comprendevano solo il sito etrusco-ellenistico, in altra sede: per poi estendere la richiesta, tre mesi dopo, a proposito del sito della villa romana. La richiesta era stata accolta dalla Soprintendenza regionale, e inviata a Roma al Ministero, che poi finirà per accoglierla, come è noto. Di tutto questo non trapela nulla, né sulla stampa né negli atti dell’amministrazione comunale.
Ogni tentativo di saperne di più era stato frettolosamente respinto. Cito dall’ordine del giorno presentato il 29 settembre da Lucia Carlesi:
“con domanda di attualità (delibera CC n. 26 de1 12 aprile 2010) furono richieste informazioni circa i ritrovamenti che stavano emergendo a Ponterotto avanzando richiesta di massima trasparenza e conoscenza del progetto e l'Amministrazione assicurò la presentazione di una relazione; la commissione Ambiente e Territorio nella seduta del 16 giugno 2010 esaminò la richiesta di sopralluogo sul cantiere Laika avanzata dei gruppi consiliari Laboratorio per un'Altra San Casciano-Rifondazione Comunista, Futuro Comune e Popolo della Libertà, per prendere visione degli scavi in corso e che tale richiesta fu respinta;”
Del trasferimento dei reperti si viene a conoscenza soltanto nello scorso agosto, anzi alla fine del mese, perché chi va a pensare che una delibera così importante venga presa dalla Giunta comunale il primo di agosto, senza alcuna pubblicità. E chi si poteva aspettare che il primo atto ufficiale in cui si parla di “accordo per la disciplina dei rapporti per la rimozione, ricollocazione, restauro e valorizzazione delle strutture archeologiche rinvenute in San Casciano Val di Pesa, località Ponterotto” venga non dalla Soprintendenza o dalla Regione, ma dalla Giunta che anticipa – senza neppure interpellare il Consiglio: e qui hanno commesso anche un errore procedurale, molto probabilmente – un protocollo che tutti gli interessati dovrebbero poi firmare. Qui si può dire che l’abitudine a lavorare di nascosto aveva preso un po’ la mano, ai nostri amministratori, forse convinti che nessuno si sarebbe accorto di quello che stavano facendo. Tanto più che se poi andiamo alla ricerca di qualcosa che somigli a un progetto di questa famosa “ricollocazione e valorizzazione” dei reperti dobbiamo andare a pescarlo in una deliberuccia precedente, risalente al 27 giugno, dal misterioso titolo “progetto esecutivo di valorizzazione dei siti archeologici e del parco sportivo ‘la Botte’ attraverso un sistema integrato di segnaletica turistica”.
Come mai il Sindaco avrà aspettato l’11 ottobre per presentare ufficialmente un progetto che se ne stava ben nascosto da tre mesi e mezzo? Come mai avrà scelto di presentarlo ai rappresentanti delle associazioni di categoria, e soltanto a loro: con successiva visita a “quei quattro sassi”, come li ha definiti la presidente di Confindustria? La risposta è semplice: perché solo nel mese di settembre un serio lavoro di denuncia e di comunicazione ha impegnato associazioni e comitati, oltre all’unica forza di opposizione rappresentata in Consiglio Comunale, quella di Laboratorio per un’altra San Casciano – Rifondazione Comunista. E’ stato sufficiente inventare un sito (http://archeopatacca.blogspot.com/), preparare qualche comunicato che dava pubblicità alla protesta per la mancanza di trasparenza. I primi attestati di solidarietà sono venuti proprio dal mondo degli archeologi, per i quali la stessa idea dello spostamento dei reperti suonava come uno scherzo di cattivo gusto. “La cosa che sollecita la mia curiosità e presenta, fin da subito, alcuni lati enigmatici è relativa al progetto di rimozione e ricollocazione dei resti archeologici: una procedura, tecnicamente assai problematica, alquanto rara e costosa”, così Giuliano Volpe il 12 settembre sul sito eddyburg, uno dei principali luoghi del dibattito sul territorio su scala nazionale.
Al resto ci hanno pensato proprio i sostenitori del progetto Laika, che per difenderlo con ogni mezzo hanno finito per contribuire a fare da cassa di risonanza: fino all’invasione del Consiglio Comunale in occasione della discussione su un ordine del giorno presentato da Lucia Carlesi, l’unica consigliera contraria all’operazione, accusata di voler togliere il lavoro agli operai e sottoposta a un vero e proprio tentativo di linciaggio politico. Antonella Mansi attacca gli “ambientalisti in cachemere”, e l’assessore Anna Marson risponde per le rime. Ma anche in questo caso quella che sembrava una posizione isolata, a San Casciano, è stata oggetto di una solidarietà ben più vasta e significativa, estesa a tutte le componenti dell’ambientalismo vecchio e nuovo. Anche fra le forze politiche che sostengono la Giunta regionale si sono manifestati seri dubbi sulla correttezza dell’operazione, fino al momento in cui Enrico Rossi ha chiuso ogni spiraglio annunciando la prossima firma del protocollo su “ricollocamento e valorizzazione” dei reperti, visto che è tutto in regola, con il benestare degli organi di tutela. L’archeopatacca si farà, dunque?
A questo punto possiamo promettere solo una cosa: che non staremo a guardare passivamente. Il lavoro di questi due mesi ha fatto emergere tutti i vizi di una vicenda nata male e continuata peggio. Un errore urbanistico iniziale, un disegno campanilistico in nome di presunti interessi dei lavoratori che coincidono con quelli dell’azienda, finisce per produrre una gaffe culturale senza precedenti. Ci dispiace che i dipendenti Laika siano stati tirati in ballo a sproposito per coprire responsabilità politiche (qualcuno ha anche parlato di “scudi umani”). E allora anticipiamo fin d’ora quelle che saranno le nostre domande nei prossimi mesi.
Quanto tempo ci vorrà per spostare i reperti in condizioni di sicurezza? Si parla di completare tutta l’operazione a primavera, del 2012: vogliamo scommettere che si arriverà a quella del 2013?
Quanti soldi costerà l’operazione? Si parla di 400.000 € da parte dell’azienda: e il resto? Il Comune dove li trova, i soldi (cosa che le delibere non chiariscono minimamente)? Li metterà la Regione, e con quale giustificazione? Ricordiamo che per rimpinguare le scarse risorse finanziarie il Comune ha già provveduto a vendere pezzi del proprio patrimonio: continuerà così?
Che aspetto avrà il sito-patacca? Le opere murarie saranno davvero “restaurate” come si sente dire, e inserite in un bel giardino pubblico? Quante risate si faranno i visitatori? O ci sarà da piangere?
E infine, quanti operai resteranno senza lavoro, una volta completata la nuova struttura produttiva, in nome della razionalizzazione invocata dall’azienda? E quali diritti spetteranno ai dipendenti che si sono schierati con il padrone (non si dice più?) legandosi mani e piedi alle sorti dell’azienda?
Sarà molto triste, fra qualche anno, dire che avevamo ragione: quando la frittata sarà fatta, con tutto il danno irreversibile a quel bene comune che è il paesaggio con i suoi valori storici e culturali. Se non possiamo impedire lo scempio, possiamo almeno dire che chi lo ha voluto se ne dovrà assumere la responsabilità, che l’operazione non potrà mai più essere sepolta sotto le formule del “è tutto sotto controllo” e “lasciateci lavorare”. Ci hanno provato, a fare tutto di nascosto: ma non ci sono riusciti. Questa è la nostra modesta vittoria, per ora: provino a sostenere il contrario.
Claudio Greppi si esprime anche a nome della Rete dei comitati per la difesa del territorio.
Titolo originale: La ville grignote les campagnes – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
L’Istituto Centrale di Statistica: i francesi si stabiliscono sempre più nella periferia allargata
La Francia pare ormai invasa dalla città. Soltanto il 5% degli abitanti non fa riferimento a un centro urbano. Quei tre milioni di persone che vivono e lavorano in campagna o nelle aree montane. Ovunque, altrove, la città avanza. E a passi da gigante, secondo la ricerca pubblicata martedì dall’Insee. Sbocciano costruzioni nei campi, via via che nuove coppie con figli escono dal centro alla ricerca di più spazio, e se possibile diventare proprietari. A conferma di una tendenza di lungo periodo, «le fasce circostanti le grandi città non smettono di allargarsi, e diventano autonome», commenta Bernard Morel, responsabile della sezione regionale. Territori che trasformati in periferia della periferia si allargano a coprire una superficie che interessa il 28,6% del totale.
Si allungano gli spostamenti
La regione parigina, in cui si concentrano 12 milioni di abitanti, pare già tentacolare. Ma prosegue nel processo di ulteriore estensione. Sono spesso gli abitanti delle periferie, soprattutto dei quartieri più difficili, a cercare la tranquillità più all’esterno, specie nell’area Seine-et-Marne.
E le regioni urbane di Lione, Bordeaux, Nantes e Rennes si sono allargate del 50% in dieci anni! Le villette crescono attorno ad antiche tenute di campagna. Le circondano, poi si trasformano in veri e propri quartieri. La popolazione non smette di crescere su tutta la fascia atlantica e l’asse del Rodano. A Lille, dove le possibilità di crescita non sono infinite, la popolazione si concentra. E poi iniziano a crescere cerchi concentrici anche attorno a centri di 20.000 abitanti. Ormai i grandi centri urbani e le loro corone di periferie interessano la metà del territorio e quasi l’85% della popolazione e dei posti di lavoro.
Imprese e pubblica amministrazione restano nei nuclei centrali di queste agglomerazioni, e così gli spostamenti da casa al lavoro si allungano. In media, precisa l’Insee, si percorrono 15 chilometri dal luogo di residenza alla fabbrica o all’ufficio. Nelle grandi agglomerazioni si sono sviluppate infrastrutture di trasporto che ne indicano l’estensione territoriale, e i nuovi insediamenti si collocano lungo le strade. É l’automobile il mezzo principale, con costi non indifferenti che certo le famiglie non avevano messo nel conto decidendo di comprar casa nell’area allargata.
I desiderio della casa unifamiliare
C’è uno studio del Datar che mostra sino a che punto le giovani coppie abbiano sottovalutato tempo e denaro degli spostamenti pendolari. Non è affatto raro che poi la moglie lasci il lavoro per essere più presente e badare alla famiglia, man mano la città si estende sempre più lontano fra lottizzazioni e edifici isolati; «Seguiamo un modello di crescita all’americana che pone problemi di governo pubblico, lamenta l’urbanista Jean-Loup Msika, decisamente contrario a questo sviluppo in orizzontale. Perché costa molto di più realizzare servizi in queste zone tanto remote e popolate in modo non denso» Ma il processo anche dopo trent’anni non accenna ad attenuarsi, spinto dalle dinamiche immobiliari, dai ritmi di lavoro, dal desiderio sempre vivo della proprietà della casa. Sino a ridefinire completamente il tessuto sociale, come osserva il geografo Christophe Guilluy, con una parte della Francia nella grande città, e tutta la fascia periurbana sostanzialmente abitata dai ceti popolari.
Il 15 ottobre scorso a Roma la rabbia di chi era deciso a manifestare la propria indignazione puntando ai "Palazzi" e ai simboli del potere è stata assai più facilmente "sfogata" a spese e contro il corteo e gli obiettivi di centinaia di migliaia di altre persone. Facendosene scudo e prendendole in ostaggio; e beneficiando, tra l'altro, di comportamenti delle forze dell'ordine che hanno enormemente facilitato quest'esito. Quelle persone si erano invece convocate e riunite per manifestare in tutt'altro modo: cioè pacificamente; e con tutt'altro obiettivo: quello di dare, innanzitutto a sé stessi, e poi al mondo intero, una immagine circostanziata e "aggiornata" delle forze e delle idee che si contrappongono alle scelte che stanno portando le loro vite, quella del nostro paese e quella dell'intero pianeta a imboccare una deriva senza ritorno.
Iniziative che si concludono con scontri con le forze dell'ordine e con assalti più o meno devastanti ai simboli del potere non sono un'esclusiva del nostro paese, né di questa stagione: hanno spesso accompagnato, e a volte caratterizzato, alcune delle scadenze con cui, nel corso degli ultimi dodici anni, il movimento altermondialista ha cercato di rendere visibile al mondo il suo totale dissenso dalle scelte compiute dai cosiddetti Grandi della Terra. Ed è probabile, quale che ne sia la valutazione che ciascuno ne dà in base ai propri principi morali o alle proprie valutazioni politiche, che iniziative più o meno analoghe si faranno più frequenti negli anni a venire, in concomitanza con l'aggravarsi della stretta finanziaria, economica e ambientale che sta distruggendo la convivenza umana sull'intero pianeta. Lo confermano le recenti vicende della Grecia, giunta ormai a una fase della crisi che per molti versi anticipa e prefigura quello che sembra destinato a succedere in molti altri paesi, tra cui il nostro. Questo è uno degli aspetti della crisi con cui bisogna imparare a convivere, adoperandoci, se e perché lo si ritiene rovinoso, o pericoloso, o anche solo sbagliato, per limitarne le dimensioni e gli effetti.
A Roma la scelta di chi ha voluto a ogni costo dare a questa giornata un esito violento a spese di tutti gli altri è stata "giustificata"- quando lo è stata - con motivazioni che denotano una totale subalternità alla cultura e ai pregiudizi dominanti. Per esempio quella di "far saltare" un presunto accordo, con finalità elettorali, tra il centrosinistra - o una parte di esso - e alcune delle organizzazioni che hanno promosso la manifestazione; oppure (si è letto e sentito anche questo) quello di dare corpo alla rabbia dei precari contro la o le generazioni precedenti - largamente rappresentate nel corteo - che avrebbero rubato il loro futuro con i loro "diritti acquisiti".
La prima motivazione evidenzia come, anche tra i segmenti più ai margini - e che per questo si ritengono più "radicali" - si siano ormai insediati approcci tutti interni agli schemi della politica più deteriore: quella interamente costituita dal mercanteggiamento delle scomposizioni e ricomposizioni degli schieramenti che tutti i giorni ci viene esibita dal ceto politico. La seconda motivazione riprende il cliché che mira spiegare e affrontare la crisi in termini di scontro generazionale e non di conflitto tra sfruttati e sfruttatori; tra lavoro e capitale; tra poveri e ricchi; tra chi paga le tasse e chi le evade; tra chi cura l'ambiente e chi lo devasta; tra ricostruzione e distruzione dei legami sociali.
In entrambi i casi - e, probabilmente, in molti altri che occorre affrontare con pazienza e umiltà, nelle sedi più aperte e più appropriate - la posizione di chi ha voluto portare la giornata del 15 ottobre all'esito che ha avuto è simmetrica e speculare a quella di tutti i media e i giornalisti che la hanno commentata. I quali si sono limitati a distinguere - nel migliore dei casi - o a confondere - in tutti gli altri - un ridotto gruppo di vandali "violenti" e una stragrande maggioranza di manifestanti "pacifici". Ma non hanno colto, per malafede, per mancanza di cultura, per incomprensione, le caratteristiche principali di quella giornata. Sicché la cultura degli uni - i media - spiega molto del comportamento degli altri: i "violenti". Poche osservazioni bastano a evidenziarlo.
1. Si è manifestato nello stesso giorno in più di 80 paesi e in più di 500 - o 900? - città: contro gli stessi eventi, le stesse entità, con le stesse parole d'ordine; con uno slogan che, come ha ricordato Naomi Klein parlando a Zuccotti Park, è partito l'anno scorso dal movimento degli studenti italiani («Noi la vostra crisi non la paghiamo») e, a un anno di distanza, è rimbalzato in tutto il mondo nella forma: «Il debito non si paga». Vorrà pur dire qualcosa questo obiettivo, se è così condiviso da milioni di manifestanti, nonostante sia così osteggiato dall'establishment accademico, politico, finanziario e mediatico, che non riesce nemmeno a prenderlo in considerazione come ipotesi. O no? E, quale che ne possa essere la realizzazione, non sarà questo obiettivo altrettanto rilevante, e molto di più in termini prospettici, delle "violenze" che si sono viste in piazza a Roma?
2. La manifestazione di Roma è stata di gran lunga la più ampia del mondo: dieci o venti volte di più della maggiore di quelle che si sono svolte nelle altre città. Qui non interessa la "conta"; Maurizio Landini ci ha insegnato, giusto un anno fa, a non impuntarsi su conte del genere, dove la meglio l'ha sempre e comunque chi controlla i mezzi di comunicazione di massa. Ma nessuno, sembra, si è chiesto come mai fossimo in tanti. Non certo per la presenza dei black bloc, o di chiunque sia stato designato con questo termine! È il fatto di essere stata voluta, convocata, preparata e condivisa da un numero di persone che già pochi mesi fa ha dato un'idea della propria consistenza con i referendum contro la privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici locali, contro il nucleare e contro l'immunità di Berlusconi.
3. Questa manifestazione, infatti, non è stata convocata da nessun partito, da nessuno dei sindacati cosiddetti maggioritari - quelli che siedono, o sedevano, al tavolo delle trattative nazionali - da nessuna delle istituzioni che pretendono di rappresentare il paese o una sua componente. È stato il frutto di mille, diecimila iniziative dal basso, alcune esclusivamente locali, altra ormai consolidate, o temporaneamente coordinate, a livello nazionale; che si sono riconosciute in un comune sentire: quello dell'indignazione, per usare un termine che, più che scelto, gli è stato appiccicato addosso: benvenuto! Non solo contro Berlusconi (negli altri paesi questo problema non esiste). Ma contro la finanza internazionale, le sue scelte e le sue imposizioni; che è invece un problema comune a tutti. Tutte queste persone si sono riconosciute anche in alcuni obiettivi generali - il ripudio del debito, la lotta contro precarietà, disoccupazione, incultura, deprivazione - e in un percorso da costruire in comune: attraverso un confronto e una consultazione aperta e senza pregiudizi. E innanzitutto, a Roma come a New York, a Madrid come a Barcellona, nella gioia di essere veramente "insieme"; o, come dice Naomi Klein, di poter dire al vicino «mi importa di te».
4. Non era un corteo di giovani, come tutti i commentatori hanno continuato a designarlo. Nella manifestazione erano presenti i temi più diversi: dall'acqua ai diritti dei lavoratori, dalla difesa della cultura a quella dell'ambiente, dalla promozione delle energie rinnovabili alla salvaguardia di scuola, università e ricerca, dall'agricoltura biologica alla lotta contro la vivisezione; ma nessuno - tranne, certamente, la volontà di farla finire in uno scontro - è stato vissuto come incompatibile con gli altri. Soprattutto, erano presenti, in modo massiccio e ben rappresentato, forse per la prima volta, tutte le generazioni: nonne e nonni, madri e padri, figlie, figli e nipoti; un vero family-day, di una famiglia molto allargata. E una risposta eloquente - come si è detto - a tutti i tentativi di analizzare la crisi in termini di conflitto intergenerazionale.
5. Che cosa sarebbe successo, infine, se quel corteo avesse potuto proseguire tranquillamente il suo percorso e concludersi, come avremmo voluto, in Piazza San Giovanni? Nessuno, nei media, se lo è chiesto. Ne sarebbe seguita un'acampada di centinaia di tende - e non di quelle poche decine che hanno fortunosamente trovato un'alternativa in Piazza Santa Croce in Gerusalemme - tante da rendere difficile il loro sgombero e quasi automatica una loro crescita e un continuo rinnovamento. Un problema in più per l'establishment! Tale da poter concludere che, da come sono finite le cose, gli è proprio andata nel migliore dei modi.
L'ordinanza che vieta di manifestare viola la nostra Carta, spiega il costituzionalista: «È un diritto inalienabile» Parla Stefano Rodotà: «Stanno sospendendo le garanzie costituzionali». Ma anche sui violenti niente sconti: «Danneggiano il movimento e chi cerca nuovi strumenti di democrazia reale»
Leggi Reale, divieti a manifestare nella forma corteo, fermi di polizia e "Daspo politico". «Sono davvero sbalordito, questo è un Paese che ha perduto la memoria». Stefano Rodotà è indignato. Perché con questi divieti «inammissibili» si stanno «sospendendo le garanzie costituzionali». E perché quando un ministro di governo, come Maroni, parla di «terrorismo urbano» usa una «violenza verbale di segno uguale e contrario a quella del 15 ottobre a Roma».
«Attenti al linguaggio», è il suo monito. Ma è rivolto anche a noi: «Non sono d'accordo con Valentino Parlato», dice. «Certo che devo cercare di capire, ma subito dopo non faccio sconti. Chi ha usato la violenza, sabato scorso, l'ha fatto intenzionalmente contro quel movimento che aveva deciso di mettere in atto forme di democrazia partecipativa. Quella violenza ci ha fatto fare a tutti un brutale passo indietro».
Per la prima volta da tempo immemore un corteo della Fiom - che ha sfilato a Roma perfino nel '77 - viene vietato. Come valuta questo provvedimento?
Una misura assolutamente inammissibile. Per due motivi. Primo perché non si possono sospendere le garanzie costituzionali, e il divieto generalizzato di fare cortei a Roma in questo periodo imposto da Alemanno è un provvedimento contrastante con l'articolo 17 della Costituzione. Oltretutto non si può precludere alcuna forma in cui esercitare legittimamente il diritto a manifestare. Secondo: il divieto è sì contemplato nell'articolo 17 della Costituzione ma solo per «comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica». Motivi che non possono essere ipotetici. Deve appunto essere «comprovato» che chi organizza il corteo - in questo caso la Fiom - mette a rischio la sicurezza pubblica. È un dettato di stretta applicazione e va applicato tenendo sempre presente che nel bilanciamento tra i due diritti, quello a manifestare è preminente. Vorrei sapere come è stato motivato questo divieto. Dobbiamo considerare che da sabato scorso Roma è diventata una città a rischio, in cui la libertà di manifestazione del pensiero è temporaneamente sospesa, almeno in alcune sue forme? È questo il nuovo status della città?
Valentino Parlato solo per aver detto che gli scontri di sabato scorso «sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile», ha scatenato un «dispiegamento di buoni sentimenti», come dice Rossana Rossanda. Lei cosa ne pensa?
Non condivido la posizione di Valentino. Dire che - lo riassumo grossolanamente - il rischio di violenza è ormai insisto nelle manifestazioni, dato l'attuale contesto e la conseguente tensione sociale, è un argomento molto rischioso perché può essere usato con conseguenze gravissime, come abbiamo visto.
Lei si è fatto un'idea di chi sono questi giovani «violenti»?
No, ma ho letto che la loro è stata una scelta anche contro quel tipo di manifestazione considerata troppo «debole». So bene che la violenza nella storia c'è, che non viene dal nulla e è più facile trovarla nel disagio. Ma guardiamo il lascito drammatico di quella giornata: sta tornando in voga l'argomento che le manifestazioni si devono di nuovo irreggimentare, devono prevedere un servizio d'ordine. Sta passando l'idea che la libertà di manifestare richiede un'infinità di cautele, a cominciare da parte di chi le organizza. La violenza ha svuotato di ogni senso l'iniziativa politica. Non ci dimentichiamo che l'obiettivo del corteo era di andare a San Giovanni per mettere le tende e creare un presidio permanente. Non dico proprio una piazza Tahrir a Roma, ma comunque cercare di creare qualcosa che potesse dare stabilità, responsabilità, visibilità pubblica, opportunità di confronto. Tutto ciò è stato spazzato via, e questo è un atto di irresponsabilità.
Il linguaggio di Maroni richiama gli anni '70. È giusto?
Non c'entrano nulla gli anni '70. Non c'era, allora, questo tipo di rabbia. Nessuno pensava: «Ci avete levato il futuro, volete farci pagare il vostro debito».
Quanto influisce il fatto che siano orfani di rappresentanza politica?
Questi giovani non solo non hanno una rappresentanza politica ma sono disillusi e rifiutano la democrazia rappresentativa. Pensiamo però che la crisi della democrazia partecipativa possa aprire spazi a una svolta violenta? Ricordiamo che l'ambizione dei movimenti che hanno sfilato il 15 ottobre era proprio tentare di salvaguardare la democrazia reale e ripristinare forme partecipative di rappresentanza. Volevano andare in piazza con una tenda, segno di precarietà e al contempo di stabilità, dimostrare che il movimento non è più volatile ma ha un luogo proprio, rappresentantivo, dove esercitare il confronto senza mediazioni. Tutto questo è stato impedito. Ed è, ai miei occhi, imperdonabile. I violenti hanno danneggiato gravemente il movimento togliendo voce e forza a tutti coloro che stavano cercando un minimo di mutamento politico. Noi dobbiamo a tutti i costi salvaguardare questo tentativo, uno sforzo comune a centinaia di migliaia di persone.
Potrei essere vostra madre, o vostra sorella - per fortuna non lo sono, perché immagino che per quanto amiate le vostre madri e sorelle, la loro saggezza vi appaia come un altro pezzo di quel presunto perbenismo che siete venuti a disfare con le vostre mani, con le vostre braccia giovani, con le vostre spranghe e i vostri bastoni. Ma non sono né vostra madre né vostra sorella, sono una giornalista, lavoro da tanti anni in una radio indipendente, e da poco meno di un anno faccio un lavoro che prima nemmeno esisteva, il curatore di social media, una persona che verifica e sceglie contenuti tratti dal lavoro collettivo della rete per produrre a sua volta contenuti informativi. Seguo da dieci mesi le rivolte arabe, e questo mi ha cambiato la vita. Non solo perché le rivolte l’hanno cambiata a tante persone, ma perché le migliaia di ragazze e ragazzi che stanno lottando per il futuro dei loro paesi mi hanno restituito la passione civile, mi hanno fatto sentire interrogata sui modi in cui facciamo politica, mi hanno strappato dal meccanismo di delega vuota degli ultimi quindici anni, e mi hanno fatto restare in un paese che prima volevo lasciare. Studiare l’attivismo in rete mi ha condotto alle stesse conclusioni di altre decine di curatori: non esiste bloggare o twittare da una posizione di neutralità; si può offrire alla rete la propria esperienza di verifica, di studio, di approfondimento, ma si diventa partecipi, e in qualche modo attivisti, senza quasi rendersene conto, senza averlo deciso. E un bel mattino si accetta che sia così. Perché, vi assicuro, non si può stare immersi nella lotta di piazza Tahrir senza sentirsi in qualche modo responsabilizzati, interrogati nel profondo, chiamati - non a riempirsi la bocca di slogan, ma a fare sul serio. E così come faccio dirette Twitter sul Cairo col cuore in gola perché ad ogni sit-in o corteo uno di quei ragazzi può lasciarci la pelle - come è successo a Mina Daniel, disarmato, durante il massacro dei copti il 9 ottobre - così ho twittato la Roma del #15O con crescente apprensione. Ho avuto paura che vi faceste accoppare da un poliziotto che perdeva la testa. Ho avuto paura che vi faceste pestare a sangue come chi è stato a Genova dieci anni fa ricorda bene e non dimenticherà mai. Ho avuto paura che saltaste in aria nell’esplosione di una di quelle auto che avete bruciato. Ho avuto paura che uno di quei blindati ubriachi vi investisse. Ho avuto paura che ammazzaste un poliziotto. Ho avuto paura che il vostro disprezzo evidente per la gran massa di gente perbene fra cui vi siete mimetizzati vi portasse a ferire, o a uccidere, o a far uccidere, una persona che un bastone o una spranga non li userebbe mai.
Poi ho capito che voi non avete paura. Voi vi piacete così, vi sentite belli con la vostra ferocia, con la vostra rapida coreografia della morte, ho capito che corteggiate il pericolo, che non vi importa delle conseguenze, che pensate di non avere niente da perdere (e siete troppo giovani per capire che invece avete parecchio), e soprattutto ho capito che non state costruendo niente. Senza quella folla immensa in cui vi siete nascosti - lo sapete benissimo - non siete niente, nessuno vi guarda, nessuno si cura di voi, non contate un accidenti. È vero, siete bellissimi e subdoli e veloci come un branco di lupi che discende in pianura. I miei amici antagonisti vi ammirano, sono dalla vostra parte, riconoscono in voi una rabbia profonda che tutti proviamo. Salvo poi essere un filo confusi - infiltrati della polizia oppure intrepidi compagni?
Devo scrivervi perché ho rispetto per chi muore per le cose in cui crede. Per chi non ha scelta. Per chi in piazza ci va studiando, facendo fatica, mediando con persone che la pensano diversamente. Per chi si stanca, e piange, per chi diventa eroe suo malgrado, e perde amici e fratelli, e pure non smette. Per chi da dieci mesi non dorme una notte intera, per chi si interessa della democrazia e si domanda come crearne una che funzioni e darle il proprio contributo. Per chi si fa un culo pazzesco nelle scuole, nella magistratura, nei sindacati clandestini, nei giornali censurati, nella tutela legale dei prigionieri politici, nel servizio d’ordine della piazza più rivoluzionaria del mondo. Per chi va in galera a vent’anni per aver scritto una cosa di troppo in un blog, o viene torturato per un graffito. Per chi rinunciando ad armarsi ha scelto la strada più lunga e produttiva. Per chi le botte e i gas lacrimogeni se li risparmierebbe se potesse, per chi i sassi li tira perché ha di fronte un apparato infernale e corrotto che da 40 anni lo schiaccia e lo tortura - e non per modo di dire. Per chi soltanto una settimana fa ha visto i soldati gettare nel Nilo cadaveri di cristiani disarmati. Voi siete solo imitatori, attori, pedine. Non avete rispetto per i vostri diritti, e ricoprite un ruolo ridicolo nella stessa recita che tanto detestate. È nato un movimento internazionale, se vi va di rendervene conto, che potrebbe perfino salvarci dal nostro provincialismo. Ha quattro regole in croce, e chiede di rispettare solo quelle. Ha scelto la resistenza passiva - la studia, la pratica, sa a cosa serve. Se volete, è anche casa vostra. Sta a voi. Dentro al movimento, con le vostre forti braccia e magari anche il cervello, potete sperare di contare qualcosa. Ma se non avete rispetto, se non vi fidate di nessuno, se siete cinici e nichilisti e avete già deciso che non cambierà mai niente, se pensate di essere un po’ più derubati degli altri, più precari degli altri, più disoccupati degli altri, allora andate a fare gli esclusi per scelta sugli spalti degli stadi, o a spaccare vetrine da soli finché non sarete cresciuti - con la vostra illusione di avere sempre ragione, di sfidare il sistema, o di distruggere i simboli della proprietà privata mentre è vostro padre che paga ancora le rate. Vi va bene che siete italiani. Vi va bene che qui c’è qualcuno a cui fa comodo che esistiate, che finge di non vedere i bastoni nascosti a San Giovanni dalla sera prima, che non vi ferma alla stazione Termini mentre passate col viso coperto e un metro di legno che vi spunta dagli zaini. Vi va bene che qui il rapporto di fiducia con la polizia è così corroso e malato che a via Merulana si è fatta un’assemblea tragica in mezzo ai lacrimogeni per decidere se consegnare o no 3 di voi agli agenti - perché la polizia è maiale se ti carica, o se carica quelli sbagliati, ma è anche vigliacca se non ti protegge dai provocatori. Vi va bene che siete nati in un paese così bizantino e pieno di segreti che le teorie del complotto sono sempre lecite. Vi va bene che siete in un paese vecchio, l’unico in cui il movimento che dichiara la fine di un sistema fallimentare scende in piazza ancora coi suoi stracci di bandiere, con le sue divisioni tribali, con i suoi rottami di sindacato, col suo ritardo spaventoso in un paese governato da un impunito. Vi va bene che siete in un paese ipocrita, teatrale, che sfila in tv ma poi alle assemblee di discussione non ci va, e che ha aspettato invano per anni che qualcuno lo chiamasse in piazza invece di andarci e basta. E vi va bene che siamo ancora così stupidi da organizzare cortei-fiume in mezzo ai palazzi più preziosi del mondo invece di occupare pacificamente una piazza - perché certo, poi ci toccherebbe anche metterla in sicurezza noi stessi, e tenerla pulita, e prendercene la responsabilità. Vi va bene che vi sia stato offerto di nuovo un palcoscenico - voi, e tre ore di caroselli anni ‘70 delle camionette in diretta tv. Col “sistema” sembrate d’accordo almeno su una cosa: sul fatto che è meglio non manifestare del tutto, che è meglio tenere la bocca chiusa e starsene a casa, cioè esattamente l’opposto di quello che reclama questo movimento - il diritto a riprendersi lo spazio pubblico, e a usarlo per il bene comune. Avrete pure vent’anni ma siete vecchi anche voi, non scandalizzate nessuno, e vi lasciate usare. Vi hanno fatto credere che la prima linea sia quella piazza da cui avete divelto i sanpietrini, e ci siete cascati. E invece, come vi dirà qualunque vero rivoluzionario, la prima linea è dentro, e si trova insieme, e costa tempo, pazienza, e fatica.
Una cosa è sicura - questo movimento sarà anche ingenuo, ma tanto non sarete voi a cambiare il mondo. Avreste dovuto restare a bocca aperta, quando la basilica ha aperto i suoi giardini ai manifestanti soffocati dai lacrimogeni a San Giovanni. A bocca aperta per la bellezza straordinaria di quel luogo che appartiene all’umanità intera, e che è nostro privilegio conservare a prescindere dalla fede religiosa. E qualcuno avrebbe dovuto dirvi che a gennaio, per proteggere con una catena umana il Museo Egizio del Cairo, uomini e donne si sono presi per mano mentre dai tetti gli sparavano addosso i cecchini del loro stesso presidente. E che quegli uomini e quelle donne sanno che la non-violenza ha un prezzo salato, come 700 morti, che non si finisce mai di pagare. Ma ci ricordano che è uno strumento collettivo di straordinaria civiltà e potenza; ti permette di vincere battaglie decisive, ti migliora, ti moltiplica, ti eleva, ti fa contare sul serio, e ti conquista il rispetto del mondo.
Marina Petrillo
In tempi forse peggiori di questo, quando nei cortei si sparava, la parte migliore della sinistra aveva risposto in piazza con una parola d'ordine forte e chiara: la democrazia si difende con la democrazia. Questo era anche il titolo del manifesto il giorno del rapimento di Aldo Moro, ma questo soprattutto gridavano in quello stesso giorno gli operai di Mirafiori, in piazza San Carlo a Torino. E nel '77, un anno certo non facile per chi rifiutava drasticamente l'equazione conflitto uguale terrorismo, la Fiom manifestava in piazza per i diritti dei lavoratori e in difesa della democrazia. Una delle più liberticide leggi della storia repubblicana, la legge Reale, marciava nella direzione opposta e in nome della difesa dell'ordine pubblico restringeva le libertà, criminalizzava singoli e movimenti, provocava negli anni una strage con centinaia di morti e feriti. Oggi che quegli anni sono per fortuna alle nostre spalle, anche grazie alla difesa della democrazia e del conflitto sociale garantita da forze come la Fiom, spuntano neo-nostalgici di quella legge sciagurata persino tra chi si vuole in prima fila nella lotta contro Berlusconi.
Vietare il corteo di venerdì indetto dalla Fiom nel giorno dello sciopero generale della Fiat e della Fincantieri è un attentato alla democrazia, un atto suicida di chi non ha imparato nulla dalle centinaia di migliaia di manifestanti pacifici che sabato hanno invaso Roma; nulla della domanda di cambiamento democratico per liberarsi di un regime globale autoritario e classista alla cui cupola si sono autoinsediati organismi finanziari privi di qualsivoglia delega democratica. Quella manifestazione chiedeva più politica, e non è accettabile che la risposta sia solo repressiva contro tutti quelli che non sono disposti a mettersi in riga. Non è ai responsabili dei gravi disordini di sabato che si punta ma al cuore del movimento democratico. La Fiom, come il 99 per cento delle persone scese in piazza a Roma, non ha bisogno di dimostrare la sua estraneità alla violenza: fin troppe immagini oltre alla storia di questi anni ne sono testimoni. Gli operai che pretendono di esercitare i loro diritti, difendere il lavoro e riconquistare il contratto nazionale manifestando a Roma il giorno dello sciopero generale Fiat sono figli e nipoti di chi ha già salvato questo paese e l'ha fatto crescere nella democrazia. Sono i figli e i nipoti di quei carrozzieri, meccanici, verniciatori, lastratori che nel '72 erano scesi in treno da Torino e Milano tra le bombe fasciste disseminate lungo i binari per liberare Reggio Calabria dai boia chi molla.
Gli operai metalmeccanici, come gli studenti e coloro che si spendono generosamente per costruire un ordine sociale più giusto, dunque un nuovo modello socialmente ed ecologicamente compatibile, non sono una minaccia alla democrazia e all'ordine ma ne rappresentano il presidio. Ragioni politiche e senso di responsabilità chiedono che quel divieto venga ritirato.
Caro direttore, lascio l’insegnamento al Politecnico prima di quel che avrei voluto. In via Bonardi ho potuto esercitare la libertà d’insegnamento, ma il meccanismo decisivo, quello della selezione del corpo docente, è andato sempre più orientandosi, nel settore scientifico-disciplinare dell’urbanistica e della pianificazione territoriale, verso il dilagare del pensiero unico, fratello e socio del "modello Lombardia" in campo politico. È il modello secondo il quale esistono formalmente due schieramenti politici che talvolta si danno il cambio nel governo, ma che sostanzialmente vivono di un patto stabile di non aggressione, fondato sulla spartizione dei collegamenti con interi pezzi del sistema economico.
Alla maggior parte dei miei colleghi questo sistema di governance post liberale piace e lo considera come fattore di stabilità e addirittura di successo per la nostra regione. A me pare invece che esso configuri da un lato il tramonto sostanziale della democrazia, e dall’altro una vera jattura sotto il profilo del modello di società e di città che va costruendo. La Lombardia ha cancellato, con una legge senza pari in Italia, quasi ogni garanzia sulla qualità e sull’efficienza nelle trasformazioni del territorio, senza che né la minoranza in Consiglio regionale né le Province né i Comuni di diverso orientamento politico si siano opposti efficacemente.
Milano, dopo avere inaugurato negli anni 90 la stagione del "fai da te" dell’urbanistica, con effetti già abbastanza preoccupanti che sono sotto gli occhi di tutti (dall’Isola-Garibaldi-Repubblica a Fiera-CityLife), ha adottato, con la precedente giunta, un cosiddetto Piano di governo del territorio, anch’esso unico nel panorama italiano per l’elefantiasi delle previsioni insediative, per la brutalità della densificazione, per l’inefficacia delle scelte infrastrutturali e di quelle di tutela della qualità urbana e ambientale, per la mancanza di strategie di sviluppo economico e infine per miope municipalismo.
A entrambi i livelli, al di là di qualche distinguo di maniera, il nocciolo di potere accademico del settore scientifico di cui faccio parte, in passato diversificato per orientamenti culturali e ora invece uniformato, ha finto di ignorare, oppure ha sostenuto, o talvolta ha persino determinato questi processi. E soprattutto ha operato all’interno dell’università affinché l’insegnamento si adeguasse a queste idee e le voci di dissenso fossero progressivamente emarginate. L’amministrazione milanese ora è cambiata, ma quale sostegno può venire al grande cambiamento che è necessario, da un’università così orientata e conformata?
Sono persuaso che questa deriva faccia un gran male a Milano e al nostro Paese. Un’università che cancella il pensiero critico e diffonde il gas anestetico del pensiero unico, che forma organizzatori del consenso invece che progettisti capaci di ideazione e innovazione, è forse il peggior male che possa capitare a una società. Non si può far finta di niente, bisogna reagire rifiutando l’omologazione, con la mente rivolta soprattutto ai giovani. Per incoraggiarli a scegliere una strada diversa: quella di formarsi, di misurarsi, e se necessario di battersi come urbanisti che si considerano al servizio di tutta la società e non, solo e comunque, del potere in carica.
E' ragionevole ritenere che sulla decisione di Giuseppe Boatti abbia pesato il silenzio con il quale la struttura universitaria alla quale appartiene ha reagito alla grave azione di intimidazione nei suoi confronti esercitata dal Giornale , come abbiamo denunciato su queste pagine raccontando «antefatto, fatto e brutto pensiero a proposito dell’urbanista Giuseppe Boatti “sbattuto in prima pagina”».
Se il "pensiero unico" pervade anche l'università allora davvero non è da lì che può venire speranza per il futuro. E' bene uscirne sbattendo la porta, e cercando altrove gli strumenti per sollecitare nei giovani lo spirito critico necessario per comprendere il mondo e cambiarlo. Grazie, Beppe, del tuo lavoro e del tuo gesto.
Il successo delle fonti energetiche rinnovabili in Italia è stato finora basato su generosi contributi versati a chi, privati o enti pubblici, installa impianti di produzione di elettricità dal Sole o dal vento o dalla combustione di prodotti agricoli e forestali, compresi i rifiuti urbani con la scusa che contengono una parte di cibo e verdure. Tali contributi hanno dato vita a fenomeni speculativi; chiunque avesse un tetto, o un capannone, o un campo ha accettato le allettanti proposte di “promotori” che garantiscono la ricerca di finanziamenti, l’installazione di pannelli fotovoltaici, i contratti di acquisto dell’elettricità, e la sicurezza che chi accetta queste proposte ne avrà un utile economico diretto. Si tenga presente che una parte del pubblico denaro dei finanziamenti è poi pagato dai cittadini con un aumento delle bollette elettriche.
Da un certo punto di vista potrebbe anche essere giusto che tutti i consumatori di elettricità risarciscano coloro che producono tale elettricità con sistemi che, pur costosi in assoluto, consentono di evitare le importazioni di petrolio e carbone e gas naturale utilizzando le forze nazionali del Sole e del vento e che permettono di evitare le emissioni di gas responsabili dei mutamenti climatici. Le critiche che cominciano a circolare riguardano però il carattere puramente speculativo che caratterizza alcune installazioni, talvolta fatte in fretta senza tenere conto dell’intensità dell’energia solare e del vento effettivamente disponibili.
Alcuni criticano le “offese” al paesaggio provocate dalla comparsa di estensioni di pannelli e di torri eoliche, e delle strade che tagliano le colline per raggiungere queste installazioni. Altri si chiedono se “vale la pena” installare impianti fotovoltaici in terreni finora coltivati, che da anni assicurano un reddito, anche se faticoso, e che tale reddito potrebbero assicurare in futuro, per avere un reddito a breve termine, non si sa quanto duraturo in futuro. A Trani di recente si è visto che una strada era affiancata da una fila di ulivi espiantati dai campi per fare spazio ai pannelli fotovoltaici, ulivi che, dopo decenni di vita non daranno mai più quell’olio di cui la Puglia è stata il principale produttore nel mondo. Senza contare che pannelli e pale eoliche sono in genere prodotti all’estero e in Italia assicurano occupazione soltanto per le opere di installazione e di manutenzione, non si sa per quanto tempo.
La rapida diffusione delle fonti rinnovabili, nel passato decennio, fa venire in mente che anche dopo la crisi petrolifera degli anni settanta del Novecento ci fu una breve rapida passione per impianti solari, poi ben presto svanita quando il prezzo del petrolio ritornò basso. Inoltre, sia in quegli anni settanta, sia oggi, la stessa rapida passione non è stata accompagnata da un adeguato sviluppo di imprese italiane produttrici di impianti solari ed eolici per i quali, come si accennava prima, che adesso in gran parte siamo costretti ad importare. Un altro aspetto riguarda il fatto che la produzione di elettricità dal Sole e dal vento dipende dalle condizioni climatiche e dalle stagioni e dal ciclo diurno e notturno della fonte solare; queste irregolarità di erogazione devono essere compensate con complicati sistemi di collegamento con i grandi elettrodotti che dovrebbero essere adattati, con dispositivi “intelligenti”, in modo da utilizzare al meglio la nuova elettricità.
Le precedenti considerazioni non giustificano una sfiducia verso le fonti energetiche rinnovabili, tutt’altro ! Intanto elettricità “rinnovabile” potrebbe essere ottenuta anche utilizzando i piccoli salti di acqua corrente, con vantaggi per la lotta all’erosione del suolo e alla sistemazione di fiumi e torrenti nelle valli. Ma soprattutto le fonti energetiche rinnovabili, tutte derivate, direttamente o indirettamente, dall’enorme energia irraggiata dal Sole verso la Terra, sono le uniche adatte a fornire elettricità a comunità sparse nel territorio, in grado di utilizzare l’elettricità a mano a mano che diventa disponibile.
Il governo norvegese ha organizzato il 10 e 11 ottobre 2011, un incontro sul finanziamento dell’accesso all’elettricità dei paesi poveri: “Energia per tutti”. E il prossimo 2011 sarà proclamato dalle Nazioni Unite “Anno dell’energia sostenibile per tutti”. Nella sola Africa subsahariana 600 milioni di persone sono prive di elettricità, pur avendo abbondanza di Sole, di vento, di fiumi abbondanti e continui, di biomassa vegetale. La produzione e distribuzione di elettricità rinnovabile con reti locali sarebbe determinante per assicurare servizi e sviluppo e benessere a innumerevoli paesi e villaggi.
Ironicamente proprio cento anni fa il chimico italiano Giacomo Ciamician (1857-1922) aveva già preconizzato che l’energia solare avrebbe contribuito a riportare “la civiltà” nei paesi africani da cui essa aveva avuto origine: abbiamo perso un secolo di tempo e a questo obiettivo dovrebbero tendere con tutte le forze e le innovazioni i ricercatori e le imprese anche italiani.
Questo articolo è stato inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
Quale dispiegamento di buoni sentimenti ha accolto l'editoriale di Valentino Parlato dopo la manifestazione di sabato 15! L'indignazione si è levata contro di lui, sospettato, dopo una vita di mitezza e semmai di dubbi, se non di complicità almeno di concorso morale (come dicevano i giudici dell'emergenza) con i black bloc. Pensare che non me ne ero accorta e sono corsa a rileggere quel pezzo fatale. Scrive che è un gran bene che la manifestazione, per di più internazionale, sia così riuscita, e che i potenti del mondo devono sentire di avere perduto il molle consenso universale che credevano di avere e anche capire che la collera possa trascendere e mescolare alla protesta qualcosa di torbido.
E allora? Non lo doveva scrivere? Doveva far precedere a quel «è un bene» che la manifestazione sia riuscita che «è un male» che qualche centinaio di incappucciati, più o meno sinceri o, chissà mai, d'accordo con la polizia, vi si siano infiltrati? Doveva mettere le mani avanti, mostrare i documenti? Qualcuno si strappa i capelli: il manifesto, già definito per vent'anni come la destra della sinistra radicale, si è iscritto ai black bloc.
Suggerirei di non perdere la testa. Sono oltre trent'anni che vediamo inserirsi in ogni manifestazione di popolo gruppetti esagitati che fanno di tutto per farla fallire. Sono trent'anni che credono di colpire la finanza spaccando le vetrine d'una agenzia bancaria che conta, come loro, quanto il due di picche. Di frenare Marchionne dando fuoco alla prima auto che si vedono a tiro. Sono trent'anni che chi protesta è sotto ricatto, se non manifesta non esiste e se manifesta è responsabile di metter a fuoco Roma. Sono almeno due decenni che ai giovani si dice che i vecchi gli hanno tolto il futuro, e ci sorprende se qualcuno, sprovveduto o troppo furbo, si incappuccia e crede di essere in guerra. Sono trent'anni che la sinistra si lascia dire che ha sbagliato tutto. Sono trent'anni che la libera stampa, con la quale solidarizziamo ogni cinque minuti, sta al gioco del Ministro degli Interni. Tutto già visto; da noi, da Maroni, da chiunque si trovi al Viminale. Adesso si propone a tale incarico il popolare sceriffo d'Italia, Di Pietro, cocco della sinistra per bene. La quale vorrebbe manifestare in santa pace, anzi - come scrive una gentile amica - con pensionati e bimbetti in carrozzina.
Se il manifesto ha sbagliato qualcosa (e non sarebbe una tragedia) è di lasciar credere nel suo titolo che: a) a Roma c'è stata una guerriglia; b) che era un avviso per la Bce. Userei la parola guerriglia, che è tragica, con prudenza, e l'indirizzo non sarebbe quello giusto. Se Valentino ha sbagliato qualcosa è nello scrivere che questo sabato ha cambiato un'epoca. No, non l'ha cambiata, né l'ha cambiata il fortunato appello di Stephane Hessel. Non sono loro a mettere stavolta il capitalismo in crisi, ci si è messo da solo. È avvezzo a sguazzare nelle sue crisi da quando esiste, e alla fine di ognuna di esse qualcuno è ancora più debole e qualcun altro si è arricchito. Ha però un punto debole, che si deve assicurare anche fra i suoi una maggioranza che crede nell'efficienza del sistema, crudele ma funzionante.
Stavolta ha strabordato, si è ispirato più ai baroni ladri e al Far West che a Adamo Smith, sta inciampando nei meccanismi che ha messo su e in alcune loro conseguenze. Povero Marx, lo pensava più intelligente, avrebbe estinto la rendita e il proletariato avrebbe estinto lui. Invece si è buttato follemente su di essa perdendo ogni controllo sul materiale-reale. Quanto al proletariato, dove sono i suoi partiti? Spenta l'Urss, si sono dati assenti.
Un tempo chi ci leggeva diceva di trovare nel manifesto una buona "cassetta degli attrezzi" per capire quel che succede nel più complesso e avvitato sistema di produzione della storia. Attrezzi per sapere, per mettersi assieme, lavorare sui giunti giusti. Con intelligenza per sapere e passione per fare, l'una senza l'altra non funziona, come diceva anche Spinoza buonanima. Ci abbiamo creduto fino al 1989. Poi, distraendoci dalle ragioni per cui eravamo nati, ci siamo detti che un giornale non era un laboratorio. Forse abbiamo sbagliato allora.
Metalmeccanici
La Fiom ottiene Piazza del Popolo
di Massimo Franchi
Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, al termine di una giornata di trattative per la piazza di domani, può annunciare che la sua organizzazione potrà manifestare a Roma. La Questura concede Piazza del Popolo.
Dopo almeno cinque proposte e altrettanti dinieghi da parte di Alemanno e Questura, la Fiom chiede di poter tenere la sua manifestazione di domani a Roma nella “storica” piazza del Popolo, scelta fra le “sette piazze citate dallo stesso sindaco”. E la ottiene. Ieri sera la Questura di Roma ha dato il via libera. Lo sciopero dei gruppi Fiat (e affini, componentistica e autobus) e Fincantieri (e anche di tutti i metalmeccanici del Lazio) di venerdì non sarà una questione di Stato. Anche se ancora una volta i lavoratori che rischiano il posto di lavoro sono stati costretti a subire le conseguenze di comportamenti non loro. Il ricordo degli scontri e delle devastazioni di sabato scorso ha portato il questore di Roma Francesco Tagliente ad essere, in un primo tempo, perfino più prudente del sindaco Alemanno, autore della contestata ordinanza che vieta per un mese i cortei nel centro storico della Capitale. E allora la Fiom trasforma il corteo in un comizio collettivo a più voci dando spazio dal palco a tanti lavoratori dei due gruppi prima dei discorsi conclusivi di Maurizio Landini e di Susanna Camusso. «Abbiamo scoperto spiega il leader dei metallurgici della Cgil che anche fuori dal I Municipio non c'è la possibilità di fare cortei. Nonostante una lettera scritta e firmata dal sindaco Gianni Alemanno, la Questura dice che per questione di ordine pubblico non è possibile fare cortei. Non si può negare il diritto a manifestare spiega ancora Landini -. Di fronte a questa situazione, dopo aver fatto presente alla Questura la possibilità di usare tutte le piazze messe a disposizione dal sindaco, riteniamo necessario nel rispetto lavoratori verrano di fare un atto di grande responsabilità. Chiederemo piazza del Popolo come sede della manifestazione, facendola diventare la piazza di Roma per la riconquista di spazi della democrazia». E aggiunge: «Se ci diranno di no occuperemo la piazza». Ma non ci sarà bisogno. La Fiom, in risposta alla proposta di Maroni di fidejussione per manifestare, risponde con l'iniziativa «Un euro per la democrazia, un euro per la libertà di manifestare».
«Daremo inizio a questa raccolta tra tutti i partecipanti alla manifestazione». Con quanto ricavato «si finanzieranno le altre iniziative». Una iniziativa per far capire che «agli atti di violenza non si risponde limitando gli spazi della democrazia». E, a proposito degli scontri di Roma, Landini assicura: «Non ci saranno caschi, facce coperte o guanti. Come sempre, ci sarà il nostro servizio d'ordine che assicurerà che tutto vada per il meglio».
Una manifestazione aperta ai rappresentanti del mondo della cultura e delle forze sociali quella della Fiom, chiamando a raccolta tutti coloro i quali «sentono con forte senso di responsabilità il desiderio di riappropriarsi degli spazi della libertà e della democrazia». A tutti, il segretario offre il palco di Piazza del Popolo. Ma «la politica, gli esponenti dei partiti sono invitati a manifestare con noi», quindi senza intervenire dal palco. Su quel palco si alterneranno invece delegati Fiat e Fincantieri, arrivati a Roma con gli oltre 90 pullman previsti per domani. E ancora una volta le polemiche stanno mettendo in ombra le ragioni dello sciopero.
Che Landini ribadisce a maggior ragione alla luce delle dichiarazioni di ieri di Marchionne: «Dice che l'Alfa Romeo andrà in America, è la dimostrazione che il piano “Fabbrica Italia” non c'è. La scelta della Fiat è il disimpegno dal Paese.
Ecco perché chiediamo di andare in piazza».
Camusso:
«Vogliono una politica per ricchi.
È nostra la battaglia di libertà»
di Oreste Pivetta
La segretaria Cgil: «Sabato una grande domanda di futuro. Ma sul no alla violenza bisogna essere espliciti. Per cambiare le cose non serve un governo d’emergenza»
Un’antica questione: il discrimine violenza-non violenza . «No, su questo, contro la violenza, non si transige», dice Susanna Camusso, segretaria della Cgil, ieri a Berlino, dove si è discusso di due Risorgimenti, assai vicini negli anni, quello italiano e quello tedesco. Il commento di Susanna Camusso arriva a qualche giorno di distanza dal sabato romano e dopo gli annunci del ministro degli Interni, denunciando da un lato la strumentalizzazione, dall’altro però il limite «di una discussione non condotta sino in fondo».
Che cosa si sarebbe dovuto fare? È stata comunque una grande manifestazione...
«Una manifestazione straordinaria per la partecipazione di giovani e di meno giovani, un grande popolo di studenti, di precari, di disoccupati, di gente stanca, un popolo tutt’altro che ripiegato su se stesso, sulle vicende italiane, capace invece di guardare al resto del mondo, non genericamente critico ma pronto a contestare quelle soluzioni, tra banche mondiali e finanza globale, che non sono soluzioni per il futuro, mentre la domanda fondamentale è proprio: quale futuro ci aspetta? Però poi ci siamo imbattuti anche nell’altra faccia della manifestazione, faccia che si è delineata a partire da un punto non risolto: proprio il discrimine violenzanon violenza. Credo che nell’organizzazione di quella giornata si sia naturalmente riflettuto su questo, ma lasciando qualcosa in sospeso, come si può dedurre da quanto è accaduto. Con le conseguenze che sappiamo: che si è oscurato il senso della protesta, nonostante il tentativo della maggioranza assoluta dei manifestanti di distinguersi dai violenti, e che è andata persa quella domanda, quale futuro?, che esprime volontà di costruire, non di distruggere. Da quella domanda bisogna che si ricominci, ciascuno ovviamente per la sua parte di responsabilità. Noi siamo il sindacato, abbiamo compiti nostri, non mettiamo il cappello su un movimento che è di tanti soggetti, fortunatamente, con i quali interloquire. Ma la discussione sulla violenza deve essere ripresa e in modo assolutamente esplicito. Non possiamo ripassare attraverso tragiche storie del passato».
Non possiamo neppure consentire che una manifestazione democratica venga impugnata da qualcuno, magari da un ministro, come questione di ordine pubblico...
«Eppure, come è evidente, è successo proprio questo. L’effetto era scontato. Alemanno e Maroni non hanno perso un attimo, oscurando un principio fondamentale in ogni democrazia e della nostra Costituzione: la libertà di manifestare il proprio dissenso, purchè venga rispettato il principio della non violenza. Maroni ha escogitato questa idea delle fideiussione, così può manifestare solo chi ha i soldi e i disoccupati non potrebbero mai manifestare. Può sembrare un’idea strana, ma corrisponde a una loro logica, di destra: la politica sulla base del censo... Cioè: può candidarsi chi ha i soldi, farsi eleggere chi ha i soldi, manifestare infine chi ha i soldi. C’è un’altro aspetto: tra i cittadini e lo Stato s’è stabilito un patto, per cui si pagano le tasse per godere in cambio di alcuni servizi, compreso quello che dovrebbe garantire l’ordine pubblico. Anche in questa negazione (o ignoranza) del patto di cittadinanza, vedo una loro coerenza: visto che ti lascio evadere le tasse, pagami poi il servizio eventuale».
Si potrebbe aggiungere: così pagano sempre i soliti. Comunque c’è stato, anche da parte del governo, un deficit di previsione.
«Ora denunciano la violenza organizzata. Lo dice il ministro. Non si capisce perché non abbiano tentato di individuare prima la macchina di questa organizzazione, invece di immaginarsi dopo misure repressive che non risolvono nulla». Senza soldi che decreto sulla crescita potrebbe mai essere?
«La verità è che non vogliono mettere mano a una politica di giustizia fiscale, che sarebbe anche una politica di giustizia sociale. Adesso si inventano il concordato, che è un altro condono, cioè un altro modo per premiare l’evasione. D’altra parte Berlusconi ci ha fatto sapere che non gli piace la patrimoniale...».
Teme di dover pagare lui più di tutti.
«C’è di mezzo anche il conflitto di interessi, infatti. Non vuole la patrimoniale anche perché, da furbo, non vuole scontentare lo zoccolo duro del suo elettorato, che ha sempre premiato. Paghino gli altri: la diseguaglianza è la tragedia di questo Paese, diseguaglianza tra ricchi e poveri, diseguaglianza tra Nord e Sud, tra chi paga le tasse e chi no. Ma Berlusconi non ha fretta. Lui ha fretta solo per il processo breve e ha dimostrato di poter nominare in pochi minuti due viceministri e due sottosegretari».
Ancora ieri abbiamo ascoltato un altro richiamo di Napolitano.
«Il presidente sta compiendo uno sforzo straordinario per riportare il Paese nella giusta direzione».
Un governo d’emergenza nazionale potrebbe essere la direzione giusta?
«Il problema non è Berlusconi. Il problema sono le politiche che il suo governo ha espresso. Un governo d’emergenza, un governo di tecnici, rischia di muoversi nella continuità. Lo stato del Paese dice che è necessaria un’altra politica, che è necessaria una rottura. C’è solo un modo per scegliere quale politica: ridare il voto ai cittadini».
Sì, però, davanti all’urna, qualcuno può chiedersi: dove sta l’alternativa?
«Intanto non dobbiamo lasciarci suggestionare dal ritornello che ci stanno cantando all’infinito governo, maggioranza, certa stampa, in varie versioni: tanto sono tutti uguali. C’è un difetto all’origine in questa affermazione: un conto è stare al governo, un conto è vivere all’opposizione. Quindi inviterei tutti a rifuggire dal mito del leader. Quella del leaderismo è una cultura imposta da questo centrodestra e da Berlusconi, inclini al populismo. Prima non viene il leader, prima viene la politica. Basta con i candidati che si candidano a vicenda e che si silurano a vicenda. Avviare un processo democratico: questo bisogna fare».
L’economista Giavazzi sul Corriere vi ha messo in compagnia della Confindustria: due corporazioni che si sorreggono a vicenda.
«Dovrebbe dirci dove noi del sindacato avremmo peccato di corporativismo. Chi ha sempre pagato i conti? I lavoratori e il sindacato dei lavoratori. Il giudizio mi sembra ingeneroso anche nei confronti di Confindustria: in vario modo il sistema produttivo ha cercato di reagire alla crisi».
Ma la vostra ricetta è diversa da quella di Confindustria?
«Profondamente. Loro insistono sulla riforma delle pensioni e sull’innalzamento dell’età pensionabile. Noi insistiamo sui giovani e sulla necessità di far posto ai giovani».
Lasciamo stare Marchionne? Sembra un disco rotto...
«Finora ha solo chiuso stabilimenti. Siamo qui ad aspettare gli investimenti».
Una buona notizia arriva da Bruxelles: il ponte sullo Stretto di Messina non è inserito nell'elenco delle opere infrastrutturali prioritarie europee, per il settore dei trasporti. L'elenco complessivo delle 15 opere più importanti verrà ufficializzato oggi dalla Commissione europea che specificherà anche i parametri che dovranno essere rispettati per beneficiare dei finanziamenti comunitari.
Il piano da attuare tra il 2014 e il 2020, prevede la distribuzione di fondi Ue per circa 31,7 miliardi di euro e il lancio di project bond, cioè spiegano dalla Commissione, strumenti finanziari innovativi che grazie alle garanzie comunitarie, potranno raccogliere sul mercato le altre risorse necessarie per completare le grandi reti di comunicazione del vecchio continente.
Per quanto concerne il ponte sullo Stretto di Messina la Commissione europea ha specificato che «se l'Italia vorrà portare avanti il progetto dovrà trovare da sola i soldi per realizzare l'opera». Chi come greenreport pensa che questa opera non costituisca una priorità per l'Italia (il Sud solo per fare un esempio rimanendo nel settore dei trasporti è dotato di ferrovie non degne di un paese tra i più industrializzati al mondo) può tirare un sospiro di sollievo, anche se il ministro dei trasporti Altero Matteoli si è impegnato a trovare i finanziamenti e l'elenco pare che possa essere modificato e aggiornato anche successivamente.
Ma i tempi saranno comunque stretti perché i fondi assegnati saranno persi se la realizzazione del progetto non sarà stata avviata entro un anno dalla data prevista al momento della concessione del finanziamento.
Per quanto riguarda invece le opere "promosse" da attuare su territorio italiano, è previsto l'inserimento nel corridoio Baltico-Adriatico dei collegamenti ferroviari e delle piattaforme multimodali di Udine, Venezia e Ravenna e dei porti della stessa Ravenna, di Trieste e di Venezia.
Al Nord confermata poi la priorità assegnata alla Torino-Lione (notizia che ha già fatto alzare la "temperatura" in Val di Susa dove domenica è prevista una manifestazione dei No Tav), al tunnel del Brennero e al collegamento ferroviaro Genova-Milano-Svizzera. Per quanto riguarda il Sud Italia sarà potenziata la ferrovia Napoli-Reggio Calabria, e la tratta Napoli-Bari. E' stata poi anche ribadita la disponibilità a sostenere il miglioramento del collegamento tra Messina e Palermo.
«Non inserendo il ponte sullo Stretto nell'elenco delle opere strategiche l'Unione europea ha ancora una volta sconfessato il governo italiano- hanno commentato gli europarlamentari del Pd David Sassoli e Rita Borsellino- A causa dello scarso peso del nostro governo nelle scelte di Bruxelles non solo abbiamo rischiato di perdere l'asse tra Napoli e Palermo, ma non è stato possibile completare il quadro degli interventi di cui il nostro Paese ha bisogno, a partire da una maggiore interconnessione tra il Mezzogiorno e il resto d'Europa e da un ulteriore potenziamento dei collegamenti ferroviari interni».
Considerato che prima o poi andremo a nuove elezioni, anche l'opposizione dovrà chiarire quali sono i punti fermi nel campo dei trasporti (e non solo) su cui puntare, avendo come stella polare, auspichiamo, lo sviluppo sostenibile del Paese.