Il teorema Sacconi è lineare e infatti insiste. Ma certamente non è nuovo: ci sono forze politiche e sociali che, accusando il governo delle difficoltà del paese, gettano paglia sul fuoco della protesta, come dimostrerebbero gli scontri del 15 ottobre a Roma. La protesta, si sa, è come una bomba e una volta innescata è difficile da spegnere. Può assumere le forme civili del dissenso, ma anche quelle incontrollabili della violenza dentro cui ineluttabilmente si insinua e si nasconde il cancro del terrorismo. Non è questo che ci insegnano decenni di storia italiana? Morale: bandire la critica, vietare i cortei e, soprattutto, rigettare sui cattivi maestri - opposizioni politiche e sociali - le responsabilità di quel che potrebbe succedere. E che potrebbe succedere? Potrebbe scapparci il morto. Questo lo dice lui, la realtà è che il ministro teme che la protesta sociale possa riuscire là dove un'opposizione politica afona non riesce: mandare a casa lui e il suo capo Berlusconi.
Questa volta però il ministro Sacconi ha superato ogni limite, facendo perdere la pazienza persino a chi del suo teorema infame si è nutrito per decenni. C'è chi tenta di giustificarlo ricorrendo a strumenti psicologici: poverino, era così amico di Marco Biagi (e magari così pieno di sensi di colpa per la revoca della sua protezione) ammazzato dai terroristi che bisogna capirlo. Si potrebbe controbattere che nascondere le sue politiche liberticide e antioperaie, nonché il suo irresponsabile allarmismo, dietro il corpo di Biagi è un'operazione sporca.
Dire che il «socialista» Sacconi se le cerca sarebbe altrettanto irresponsabile, quasi un appello a metterlo a tacere. Invece non dovremmo metterlo a tacere, ma rimandarlo a casa a riflettere sui suoi incubi: i comunisti - sì, anche lui se li sogna la notte - il '68, la Cgil. Per non parlare della Fiom. Sacconi è assetato di vendetta, ha in testa solo il ritorno ai bei tempi, quando di fronte al padrone ci si toglieva il cappello, vuole tirare una riga sopra le conquiste - lui dice le aberrazioni - degli anni Settanta quando il ministro livido cominciò a elaborare il suo teorema. Ma è difficile mandare a casa Sacconi e il suo governo quando persino le bestemmie - per aumentare l'occupazione bisogna rendere più facili i licenziamenti - raccolgono applausi in tutto l'arco costituzionale. Quando giuslavoristi dinosauri denunciano l'eccesso dei diritti dei presunti garantiti, quando i giovani rottamatori scoprono le meraviglie del teorema Marchionne. Se anche mandassimo a casa Sacconi, e speriamo davvero di riuscirci prima che avveleni definitivamente il clima politico e sociale, ci resterebbero i fans di Marchionne e Ichino, e quelli che pensano che se i giovani oggi non hanno lavoro e domani non avranno la pensione, la colpa sta nel fatto che non si lavora fino a settant'anni e che c'è l'articolo 18.
Solo ricostruendo una razionalità di sinistra con gli anticorpi per non cadere nel trabocchetto del modernismo e del pensiero unico, potremmo essere certi di non trovarci a sostituire un Sacconi con un altro Sacconi, anche se è oggettivamente difficile pescarne uno come lui, persino cercando con impegno nel nutrito battaglione del pentitismo socialista italiano. Ma in tutto questo il terrorismo non c'entra nulla: non basta evocare i fantasmi per dar loro la vita.
Divertente è un aggettivo che non si predica di solito per un vocabolario, non più che per un elenco telefonico. Eppure è proprio piacevole il Dizionario tecnico-ecologico delle merci di Giorgio Nebbia (Jaca Book, pp. 336, euro 25). Le sue 98 voci, che vanno da Acciaio a Zucchero passando tra gli altri per Bambù, Celluloide, Gabinetti, Luce, Nylon, Patata, Vento e Zolfo, si leggono come capitoli di una storia di cui il lettore vuole sapere come va a finire, poiché attraverso queste merci proprio la storia della nostra modernità (e postmodernità) è presa di sguiscio, attraversata di sbieco.
Intanto ti accattiva la curiosità per i dettagli, come per esempio l'origine dell'espressione «matto come un cappellaio» che si ritrova in Toscana e in Inghilterra (il cappellaio matto è uno dei personaggi di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll): nell'800 sali di mercurio erano usati per tingere in nero le fibre proteiche come la lana dei feltri per la preparazione dei cappelli e gli stessi capelli umani, ma presto ci si accorse degli «effetti devastanti del mercurio sulla mente degli operai che lo maneggiavano in fabbrica». Anche l'espressione «spirito di patata» in voga nella prima metà del '900 per indicare una battuta fiacca, che non fa ridere, deriva dalla bevanda alcoolica che si estrae dal fermentato di patata che è «simile all'acquavite ma di sapore più blando». Oppure, nella voce «Spinaci», apprendiamo non solo che Braccio di Ferro (PopEye) è il primo personaggio a fumetti cui è stata dedicata una statua, ma che questo personaggio è nato durante la grande depressione, in un'area del Texas in cui si coltivavano e s'inscatolavano spinaci, che proprio a questo fumetto l'industria conserviera attribuì l'aumento del 30 % del consumo di spinaci in scatola tra il 1931 e il 1936 e che infine il nome originale della partner di Braccio di Ferro, Olivia, era in realtà Olive Oyl, anch'esso teso a pubblicizzare un genere alimentare, il nostro olio d'oliva.
Montagne di bambù
Ma al di là delle curiosità che pure lo rendono tanto gradevole, questo dizionario mantiene fisso il suo interesse su alcune direttrici costanti. La prima è restituire all'ignaro lettore l'immensa, inimmaginabile portata della produzione nel nostro mondo industriale: voce dopo voce, siamo martellati dai milioni, e miliardi di tonnellate delle singole merci: ogni anno si producono nel mondo 10 milioni di tonnellate di gomma naturale, 13 milioni di tonnellate di gomma sintetica. Di un materiale che ci appare tanto marginale quanto il bambù, se ne smerciano nel mondo ben 25 milioni di tonnellate all'anno, soprattutto per il suo uso nell'edilizia: è impressionante vedere in Cina le silhouettes di ipermoderni grattacieli in acciaio e vetro ergersi solo grazie alle esili, flessibili impalcature del bambù. Ma poi si passa ai 35milioni tonnellate l'anno di alluminio (estratti da 200 milioni tonnellate di bauxite), ai 400 milioni di tonnellate di carta, per arrivare ai pesi massimi come i 2 miliardi di tonnellate di cemento, i 4 miliardi di tonnellate di petrolio e i 6 miliardi di tonnellate di carbone.
Con queste cifre martellanti Giorgio Nebbia ci ricorda quanto sia fallace l'idea di una postmodernità immateriale: l'immaterialità della nostra società si basa su un'incredibile materialità di supporto. Niente lo dimostra meglio dell'acciaio, il simbolo stesso del Moderno («età dell'acciaio») che ci appare ormai alle spalle, il termine da cui Iosif Vissarionovic Dzugasvili prese il suo pseudonimo Stalin: acciaio si dice in russo sta'l, in tedesco Stahl, in inglese steel. Nel corso del XX secolo l'acciaio è stato sempre più sostituito da altri materiali in un numero sempre maggiore di prodotti, per esempio le carrozzerie delle auto, o i motori delle motociclette (ormai in alluminio), eppure nel corso del '900 la produzione mondiale di acciaio è passata dai 30 milioni di t nel 1900 ai 140 milioni del 1940, ai 700 milioni del 1973 ai 1.400 milioni di oggi: ovvero la produzione si è moltiplicata 50 volte, mentre la popolazione mondiale si è quintuplicata: il consumo pro capite è decuplicato! Alla faccia del postmoderno
Nello stesso tempo, se è vero che il mondo nel suo insieme è un immane stabilimento industriale sempre più gigantesco, è anche vero però che i paesi industriali si deindustrializzano. Questo Dizionario è cosparso di fabbriche abbandonate come tutte le grandi acciaierie integrali italiane (tranne Taranto), di miniere chiuse come quelle di carbone in Belgio, o quelle di mercurio sul Monte Amiata che ancora negli anni '60 producevano 1.200 t l'anno, e furono chiuse attorno al 1980.
La produzione di acido borico (dai soffioni boraciferi di Larderello) aveva fatto la ricchezza della Toscana, ma dopo la seconda guerra mondiale declinò e nel 1997 cessò del tutto. Oppure la canapa, di cui l'Italia ancora nel 1957 produceva 30.000 tonnellate e che ora è scomparsa dai nostri campi. O ancora le fabbriche di glutammato come la Insud-Ajinomoto costruita con i contributi della Cassa per il Mezzogiorno a Barletta, che funzionò più male che bene dal 1965 al 1977 e poi fu chiusa. Così è stato chiuso l'ultimo impianto che produceva acido solforico, quello di Scarlino in provincia di Grosseto, quando nell'800 lo zolfo era praticamente un monopolio siciliano sotto i Borboni. Persino impianti che hanno fatto la storia dell'industria moderna, come la raffineria La Palma di nitrato in Cile, che aveva dominato il mercato mondiale per tutto l'800, è stata definitivamente chiusa dopo la seconda guerra mondiale e, come epitaffio funebre, nel 2005 è stata dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità.
Questo inesausto nascere e morire di impianti, fabbriche, cave, miniere, questo migrare da un continente all'altro si esprime anche nella transitorietà delle merci che sembravano pilastri della civiltà e poi invece svaniscono nell'oblio. Così è avvenuto alla Celluloide, che ha addirittura designato un mondo, quello del cinema, e che oggi viene usata solo per produrre palline da pingpong per cui pare sia insostituibile.
Materie prime, semilavorati, merci finali sembrano dotati così di una loro vita, un loro nascere e morire. Per esempio i metalli sono da sempre presenti sulla terra, ma alcuni sono noti da millenni, come il rame, lo zinco, lo stagno, il ferro. Altri invece, presenti solo in composti difficilmente scindibili, sono noti solo da poco. Per esempio, l'alluminio, il metallo oggi più diffuso e più usato dopo l'acciaio, è noto solo dal 1827 e ottenerlo era così complicato che quando infine «arrivò sul mercato, costava più dell'oro».
Le merci non solo sono dotate di una propria vita, ma sono intrise della vita - e della morte, e dei dolori e dei patimenti - degli umani che le hanno prodotte. Come non ricordare il luogo su cui sorgeva la più grande fabbrica tedesca di gomma e benzina sintetiche durante la seconda guerra mondiale, e cioè Auschwitz? Il coltan è indispensabile per i nostri telefonini, ma ognuno di essi gronda del sangue della guerra civile in Congo. E lo stesso avviene per i diamanti. Per i nitrati Cile, Perù e Bolivia combatterono una guerra nell'800. A volte invece la storia s'insinua in un materiale in modo più subdolo. È il caso del butanolo, un carburante ottenibile dai vegetali, con più ottani rispetto all'alcol etilico. Il butantolo fu scoperto dal chimico ebreo russo Chaim Weizman (1874-1952) che era dovuto emigrare prima in Svizzera, poi in Germania e infine in Inghilterra. Weizman scroprì che un batterio trasforma gli zuccheri in butanolo e acetone. «Durante la prima guerra mondiale l'Inghilterra aveva bisogno, per la produzione dell'esplosivo cordite, di acetone che fino ad allora era stato importato dalla Germania. Weizman accettò di cedere al governo inglese il suo brevetto se avesse dichiarato - la dichiarazione Balfour del 2 novbembre 1917 - di "vedere con favore la costituzione in Palestina di una 'sede nazionale' per il popolo ebraico"». Weizman fu non solo un grande chimico, ma anche il primo presidente dello stato d'Israele dal 1949 al 1952.
Piombo letale
In altri casi la storia delle lotte dei popoli si affievolisce con l'estinguersi della merce che le aveva generate. Così, i fiammiferi sono una merce in via di estinzione, sostituiti dagli accendini. Nessuno ricorda le grandi lotte che scossero l'Italia di fine '800 per protestare contro la tassa sui fiammiferi, una tassa inasprita per far fronte alla guerra coloniale in Africa che si concluse con le sconfitte di Amba Alagi (1895), Macallè e Adua (1896) e con voragini nel bilancio dello stato.
Ma proprio i fiammiferi ci portano all'altro grande filo conduttore di questo Dizionario, quello ecologico, come si vede già dal titolo. L'industria dei fiammiferi era fiorente nell'800, ma usava per il rivestimento delle capocchie fosforo bianco che era estremamente dannoso per gli operai che lo maneggiavano. Ma le pressioni dei fabbricanti ostacolarono per più di mezzo secolo qualunque misura che difendesse la salute degli operai. E anche dopo che l'Italia aveva firmato la convenzione di Berna (1906), grazie all'«emergenza nazionale» della prima guerra mondiale, i padroni dello zolfanello riuscirono a rimandarne l'applicazione al 1924 a prezzo di migliaia di malattie e morti premature degli operai. Sono tanti i casi in cui si ripete la storia di produttori che in nome del «progresso» o dell'«occupazione» difendono produzioni tossiche. Esemplare è quella del piombo tetraetile che serviva ad aumentare il numero di ottano nella benzina, e dei decenni che ci sono voluti per bloccarne la produzione e avere «benzina senza piombo». La storia della Società lavorazioni organiche inorganiche (Sloi) è da manuale. Spostata a Ravenna nel 1940, già nel '45 aveva fatto almeno 8 morti tra gli operai e aveva inquinato i terreni circostanti. Nell'inondazione di Trento del 1966 la fabbrica fu allagata e provocò un'esplosione. Si moltiplicarono campagne stampa per gli operai ricoverati a ripetizione per avvelenamento. Ma quando nel 1971 il giudice chiuse la fabbrica, gli stessi operai protestarono per non perdere il posto di lavoro. Solo un'altra esplosione nel 1978 chiuse questo capitolo tossico.
Tutto il libro non fa che sottolineare la doppiezza della tecnologia, il suo doppio volto che produce benefici ma veicola pericoli e veleni. Così è per tutta la filiera del cloro, usato nello sbiancamento della carta e che portò ai gas asfissianti della prima guerra mondiale, al Ddt, il potente insetticida messo fuori legge; ai defolianti usati dagli Stati uniti nella guerra del Vietnam, agli erbicidi, ai clorofluorocarburi usati nei frigoriferi e considerati in parte responsabili del buco dell'ozono, al cloruro di vinile, una materia plastica rivelatasi cancerogena, e alla diossina prodotta dal suo incenerimento.
L'ozono è un altro esempio dell'ambivalenza ambientale di un materiale. Alla sua diminuzione negli strati alti dell'atmosfera è attribuita la responsabilità dell'aumento di radiazioni ultraviolette che giungono al livello del mare e quindi dell'aumento dei tumori cutanei e delle malattie degli occhi. Ma nello stesso tempo la combustione degli autoveicoli produce un eccesso di ozono nella «troposfera», al livello del suolo, che a sua volta provoca disturbi respiratori e irritazioni e facilita la formazione di altri agenti inquinanti e tossici.
Ingegno generale
Perciò grande attenzione dedica questo Dizionario alle tecnologie alternative che potrebbero attutire l'impatto ambientale, generare posti di lavoro «verdi». Mettendoci però in guardia da innovazioni che poi si sono rivelate miti: «Ogni tanto ritorna in circolazione la speranza della scoperta di una plastica biodegradabile, adatta, soprattutto, per i sacchetti della spesa, gli shopper, il cui consumo ammonta a miliardi di unità all'anno, a centinaia di migliaia di tonnellate all'anno», speranza che si è sempre rivelata vana perché proprio biodegradabili quei sacchetti non erano. Nebbia ci insegna che riciclare è un'arte difficile, che andrebbe appresa e insegnata (per esempio vetro bianco e vetro colorato non possono essere riciclati insieme). E poi fa curioso venire a sapere che dopo la seconda guerra mondiale il governo italiano aveva creato un ente pubblico, l'Azienda Rilievo Alienazione Residuati, l'Arar, per riciclare i residuati bellici che l'esercito americano si era lasciato dietro.
Insomma questo dizionario è uno straordinario ritratto del nostro mondo e della nostra società. Intanto ci ricorda della centrale importanza di una scienza, la chimica, spesso e a torto considerata ancella delle altre discipline. Poi ci sciorina davanti agli occhi l'incredibile, multiforme, capillare ingegnosità di tanti umani che hanno creato procedimenti, scoperto metodi, inventato prodotti, vero proprio general intellect che ha provocato la radicale rivoluzione tecnologica e sociale di cui ormai non ci rendiamo più conto. General intellect che è fatto non solo di intelligenza, estro, fantasia, tenacia, ma anche di furbizia, scaltrezza, capacità di raggirare in una versione imprenditoriale di «Ulisse dal multiforme ingegno». Di questa opinabile ma stupefacente scaltrezza Nebbia ci dà un'ampia illustrazione nel capitolo sulle Frodi, tra cui personalmente mi ha colpito una sull'olio d'oliva che richiese davvero tanta immaginazione, quando si scoprì che l'olio di semi di tè è l'unico olio vegetale che presenta caratteristiche uguali a quelle dell'olio di oliva. «Fu così organizzato un 'commercio triangolare': veniva acquistato a basso prezzo olio di tè dalla Cina, questo arrivava in qualche porto dell'Africa settentrionale dove, senza nessuno spostamento, con un abile cambiamento dei documenti di trasporto, veniva fatto figurare che la nave aveva scaricato olio di tè e imbarcato olio di oliva. L'olio di tè entrava così in Italia come regolare olio di oliva». Come avrebbe detto il nipote di Rameau: «Questo è genio!»
Prati al posto dell´emeroteca, panchine invece che postazioni multimediali di consultazione. La Beic, la grande Biblioteca europea prevista in una parte dell´ex stazione di Porta Vittoria, pensata fin dal 1996 ma rimasta mero progetto fino a oggi, lascerà il posto a un giardino pubblico di 40mila metri quadrati. Il nuovo piano è stato illustrato dall´assessore all´urbanistica Lucia De Cesaris al Consiglio di zona 4 e alla sua commissione territorio, dopo le lamentele di molti residenti per il degrado e l´incuria che regnano nell´area di fatto abbandonata. «O Beic o verde, non ci sono altre alternative possibili» precisa l´assessore.
Ad augurarsi una soluzione rapida è soprattutto chi abita nelle residenze Giardini Vittoria di viale Molise, vendute pochi anni fa come abitazioni di lusso: 5mila euro al metro quadro a pianterreno, 8-9mila per gli attici, con la promessa di una riqualificazione imminente del circondario. Ma per ora non è così: «Per entrare in casa - racconta Elisabetta B. - siamo costretti a percorrere un viottolo malmesso che sbuca da via Cena, delimitato da una rete di alluminio, tra topi e sterpaglie». Via Cena è chiusa; via Ortigara è stata riaperta al traffico da un paio di mesi ma rimane terra di vandali, specie di notte, tra auto sfregiate e portiere divelte.
Tutto l´isolato è in abbandono e le strade sono bloccate da lavori che non procedono secondo i piani: l´enorme cantiere della Porta Vittoria Spa di Danilo Coppola, adiacente allo spazio del Comune, è un cumulo di gru ferme. Erano previsti un cinema, un albergo, un Esselunga, residenze, uffici e 400 parcheggi sotterranei. Da aprile però non si lavora più, ufficialmente in attesa di un cambio nel progetto iniziale ( al posto della Multisala qualche residenza in più), più verosimilmente per la ridefinizione finanziaria. I tempi si allungano, dunque: si parla ora di conclusione dei lavori per il 2015, sempre che ripartano per fine anno.
Il primo passo per il grande giardino sarà una sorta di ulteriore bonifica e la rimozione dell´attuale terreno «perché dal punto di vista ambientale, per commutare una zona a verde destinata anche all´infanzia, ci vuole più attenzione che per mettere in piedi uffici» precisa Fabio Nonis, progettista dell´intervento sull´intera area. Tonnellate di terreno e macerie verranno sostituiti con un tappeto vegetale: alberi, arredi e fiori renderanno fruibile il parco, una grande striscia di verde che collegherà viale Umbria con viale Molise lungo via Ortigara. Nessun cambio di destinazione, data la provvisorietà dello spazio verde: una provvisorietà che comunque potrebbe durare decenni.
Quanto alla Beic, precisano all´assessorato, formalmente l´ambizioso progetto non è stato definitivamente accantonato: ma i fondi necessari, 300 milioni di euro per la realizzazione e 18 milioni annui per la gestione ordinaria, di questi tempi sono davvero introvabili. «La zona però è strategica, relativamente centrale e ben servita - spiega Nonis - non è detto che un domani il grande progetto di Wilson possa essere realizzato». Antonio Padoa Schioppa, presidente della Fondazione Beic, spera ancora che a Roma il ministero della Cultura recuperi entusiasmo sulla Biblioteca europea, sede d´elezione per un patrimonio di 900mila volumi: «Fare un giardino ora è una buona idea - spiega Padoa Schioppa - ma non la vedrei come una mossa che prelude all´accantonamento definitivo della Beic. Noi intanto ci siamo dati da fare e a fine anno metteremo in rete migliaia di volumi appena digitalizzati».
Intanto la società Porta Vittoria, in cambio della volumetria accordata per il lotto più grande, dovrà pensare anche a risistemare l´area oltre viale Molise, verso la periferia: altri 25mila metri quadri di sterpaglie di proprietà comunale avranno, secondo l´ultimo progetto presentato (ma ancora in fase di definizione), una nuova destinazione. Accantonata l´idea di realizzare un´autorimessa, una stazione di pullman e un campo sportivo con un impegno di 10 milioni di euro da parte del privato, ora gli accordi sono cambiati: un grande impianto sportivo con due piscine al chiuso, impegno finanziario raddoppiato, ma facoltà all´operatore privato di gestire la struttura per un certo numero di anni da concordare. Le tariffe al pubblico per l´ingresso all´impianto le deciderà il Comune: ma prima di tuffarsi in piscina, se tutto va bene, passeranno almeno tre anni.
L'AQUILA - Nuovi impianti da sci, alberghi, residence, piscine e campi da golf in una delle più vaste e preziose aree naturalistiche protette d'Europa. Il governo e un'ampia pattuglia di sindaci bipartisan della provincia dell'Aquila sono convinti che sia questa la strada migliore per risollevare l'economia delle aree colpite dal terremoto dell'aprile 2009 e lo hanno messo nero su bianco nel Protocollo d'intesa1siglato a Palazzo Chigi lo scorso febbraio. Un testo contestatissimo sul quale i lettori ci hanno chiesto attraverso il sondaggio suRepubblica.it di svolgere un'inchiesta. Il documento promosso dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta, otto pagine in tutto, come è ormai abitudine, è poco più di un lungo elenco di cose che si vorrebbero fare, ma non contiene impegni precisi, scadenze e - soprattutto - riferimenti a come reperire i fondi necessari.
I tre progetti più temuti.
Tanto è bastato però a far coalizzare un vasto movimento di opposizione messo in allarme da quelli che il consigliere regionale di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo definisce "progetti che, ignorando i vincoli ambientali, incidono irreparabilmente sulle ricchezze ecologiche delle aree di maggior pregio ambientale della Regione". Tra le opere suggerite dal Protocollo quelle che suscitano l'allarme maggiore sono tre. La prima è la costruzione di sei o sette nuovi impianti di risalita in grado di collegare il comprensorio sciistico di Campo Felice a quello di Ovindoli. La seconda è la costruzione, alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga, di una "cittadella della montagna" da oltre mille posti letto per ospitare a Fonte Cerreto i turisti richiamati dalla realizzazione di nuovi collegamenti tra Montecristo, Campo Imperatore e la Scindarella. La terza, infine, è la creazione di campi da golf ai Piani di Pezza, in pieno Parco regionale del Velino-Sirente.
Il precedente.
Progetti che Wwf, Lipu, Cgil, Rifondazione, Sel e una manciata di altre associazioni civiche e ambientaliste abruzzesi sono convinti non abbiano alcuna necessità e possibilità di essere realizzate. "Ci hanno già provato anni fa sul Monte Greco, per collegare Roccaraso con Barrea passando da una zona di ripopolamento dell'orso, un Sic, un sito di interesse comunitario, ma gli abbiamo fatto saltare una speculazione da oltre 80 milioni di euro", racconta Antonio Perrotti, uno degli instancabili animatori della protesta.
"Pentitismo" bipartisan.
Il problema è piuttosto più vasto e riguarda quello che Perrotti chiama "il pentitismo" al quale sarebbe in preda il ceto politico abruzzese. "Nel Pdl come nel Pd c'è una spinta fortissima - spiega - a rivedere il vecchio piano paesistico che ha garantito sino ad oggi la tutela del territorio, facendo dell'Abruzzo la regione dei parchi naturali". Il corollario è che a confrontarsi sono due differenti visioni dello sviluppo e quindi del futuro. L'accusa più forte al Protocollo Letta è proprio quella di aver ritirato fuori vecchi progetti di cementificazione rimasti bloccati da oltre 30 anni nei cassetti. "Sotto l'ombrello del Protocollo e dietro l'emergenza del sisma - denuncia Dante Caserta del Wwf - si vuole far passare una miriade di piccole micro opere ferme da tempo, legate a un modello fallimentare che non è più proponibile". "Ma ormai - denuncia ancora Perrotti - tra Ici sulle seconde case, oneri di urbanizzazione e tassa sui rifiuti, i comuni riescono a fare cassa solo con l'edilizia".
Ambiente o lavoro?
"Ma non si sono accorti - ironizza sempre Perrotti - che in tutto il mondo la gente è scesa in piazza per dire basta a questa malattia della crescita ad ogni costo? Che le persone cercano altro, che l'unico sviluppo possibile passa per una microimprenditorialità diffusa che valorizzi il territorio, che bisogna puntare sui sentieri, i percorsi da mountain bike, le gite a cavallo, i prodotti tipici...". E se questo è un tema su cui di solito ambientalisti e sindacati si sono trovati su fronti opposti, stavolta in Abruzzo le cose stanno diversamente. I contenuti del Protocollo, accusa Mimì D'Aurora della Cgil, sembrano "configurare un consapevole abbandono del progetto strategico che faceva del sistema dei parchi abruzzesi un volano di sviluppo regionale" grazie anche al contributo dato negli anni '80 dal sindacato "raccogliendo ben 30 mila firme per l'istituzione del Parco nazionale del Gran Sasso, vincendo l'idea del conflitto perenne tra ambiente e lavoro".
L'ira del sindaco.
Ma che questo conflitto esista eccome ne è convinto Massimo Cialente, sindaco Pd dell'Aquila. "Purtroppo il Protocollo Letta è completamente bloccato. Il potenziamento degli impianti del Gran Sasso - dice - se avessi i soldi lo metterei in appalto già la prossima settimana. E' inserito in un Piano d'Area approvato da anni con il consenso dell'Ente parco. Il Gran Sasso dopo il terremoto è rimasto la nostra unica risorsa e le nuove funivie sono indispensabili per rilanciare il turismo. Chi si oppone lo fa per ragioni ideologiche. Questi che protestano sono dei garantiti, degli eco-chic che poi vanno a sciare sulle Dolomiti. A guardare gli uccellini ci puoi stare un giorno, poi la gente si stufa e io gli devo offrire dove dormire e qualcosa da fare. Ora vengono solo i romani con il panino da casa, usano i bagni e ci lasciano i rifiuti da smaltire. L'Abruzzo nel 2009 era al 17esimo posto nella classifica regionale delle preferenze dei turisti, ma di che cosa parlano allora questi signori?".
Gli alberghi chiedono infrastrutture.
Lo sfogo del sindaco è lo stesso degli albergatori. "Bisogna mettere in cantiere infrastrutture, creare attrattive: esercizi, piscine, centri benessere, campi sportivi, piste da pattinaggio. Ora nella zona del Gran Sasso non c'è neppure un tabaccaio, gli ambientalisti bloccano tutto e a noi resta solo il turismo mordi e fuggi. Noi non vogliamo annullare le aree protette, ma servono delle aperture", dice la vicepresidente di Federalberghi L'Aquila, Mara Quaianni. "Unire le zone attorno a Campo Imperatore, con i nuovi collegamenti e piste poste a quote diverse, permetterebbe di rendere il turismo più flessibile anche davanti all'insidia dei repentini cambiamenti del meteo - aggiunge il direttore degli impianti Marco Cordeschi - e se è vero che lo sci non basta, il suo effetto traino rimane indispensabile".
Una società in rosso.
Chi si batte contro il Protocollo resta però convinto che l'idea di fare del Gran Sasso un'alternativa da offrire ai patiti della neve di Roma e Napoli sia una follia, non solo per via dell'innevamento sporadico a capriccioso, ma anche alla luce dei dati nazionali 3 che registrano il turismo di montagna in lento ma chiaro declino. "Ma chi vuoi conquistare con qualche nuova pista da pochi metri di dislivello da percorrere in pochi secondi a fronte di lunghe attese per risalire?", lamenta ancora Perrotti.Una cosa è però certa. La situazione così come è ora non può andare avanti a lungo. Il Centro turistico del Gran Sasso, la municipalizzata del Comune dell'Aquila che grazie a una trentina di dipendenti gestisce gli impianti è in profondo rosso. Ogni anno le perdite (interamente di denaro pubblico) oscillano tra i 200 e i 300 mila euro e il passivo accumulato è arrivato ormai attorno ai 10 milioni. Attualmente vengono staccati più o meno 70 mila biglietti l'anno per circa 630 mila euro di incasso, ma solo per pareggiare le uscite (senza contare i soldi necessari a investire in migliorie) queste cifre dovrebbero raddoppiare.
Per inaugurare questo blog (mai ne ho fatti prima), vorrei anticiparne un po’ i temi, che poi spero saranno specificati e approfonditi dai lettori interessati. Tratterà principalmente di trasporti e mobilità (cose che conosco), ma non solo. Mi avventurerò, con prudenza, in altri settori dell’azione pubblica, sempre con un taglio economico, ma certo non accademico: città, agricoltura, mercato del lavoro, servizi pubblici locali in generale.
Ma veniamo ai trasporti, innanzitutto per sfatare alcuni solidi miti (o “leggende metropolitane”).
Molte cose vanno male nei trasporti italiani, ma non tutto. Per esempio, non ci sono gravi insufficienze nelle infrastrutture, se non intorno alle grandi città. La notizia è stata messa in giro con forza da ben riconoscibili interessi costituiti.
Poi, gli utenti dei trasporti pubblici hanno, è vero, servizi modesti, ma pagano molto meno degli altri viaggiatori europei, il che non è cosa da poco, soprattutto per quelli meno ricchi.
I trasporti nel complesso sono una manna per le casse dello Stato: quelli stradali, dominanti, gli rendono 50 miliardi all’anno, che sono un sacco di soldi. Per le imprese, il trasporto merci è molto meno importante di quanto vogliono far credere: l’incidenza del costo del trasporto per l’industria italiana, che produce cose di alto valore, è in media basso. Non è così ovviamente per beni “pesanti”, come grano o minerali o legname, ma noi ne produciamo pochi. Diverso è il problema della logistica, cioè dell’organizzazione complessiva della movimentazione delle merci, ma di cui il trasporto è solo una componente.
Anche il ruolo dei trasporti per l’ambiente è sopravvalutato: tutte le emissioni che fanno male alla salute sono molto migliorate (nelle grandi città rimangono un problema, anche se minore di quanto si creda). E’ invece aumentata la quantità di CO2 (che genera il riscaldamento globale) emessa dai trasporti, che però sono il settore che ne emette di meno: industria, energia, riscaldamento ecc. sono responsabili per il 75% di queste emissioni, e costa meno diminuirle in questi settori che nei trasporti.
Una persistente “leggenda metropolitana” è che si possa, e si debba spostare grandi quantità di merci e di passeggeri dalla strada alla ferrovia (o al trasporto pubblico). Certo che si può spostare una quota del traffico, ma tutte le esperienze e gli studi dimostrano che questo spostamento potenziale è molto piccolo. Poiché la strada muove circa il 90% del traffico, e la ferrovia il 10%, si potrebbe al massimo (ma è molto difficile) arrivare a un 5% di spostamento. Il che vuol dire che comunque l’85% del traffico rimarrà sulle strade, ed è su questo 85% che occorre concentrare gli sforzi per ridurne i costi sociali (es. ambiente) e privati (es. congestione).
Cosa va invece davvero male, e occorre migliorare urgentemente? Innanzitutto le politiche pubbliche: non solo si costruiscono infrastrutture di dubbia o nessuna utilità invece di quelle che servono, ma queste infrastrutture costano allo stato, o a chi le usa, molto di più di quanto dovrebbero costare. Costa troppo anche produrre i servizi di trasporto pubblico: se costasse di meno, si potrebbe fornirne di più dove servono, o diminuire le tariffe, o finanziare altri servizi più urgenti, o diminuire le tasse.
Emerge un quadro complicato, che ha poco senso guardare “dall’interno”: per capire i problemi, e discutere ragionevoli risposte con gli (eventuali) lettori (eventualmente) interessati, occorrerà tenere in evidenza il poco allegro contesto politico ed economico in cui ci troviamo.
Titolo originale: Land over nature – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si sa che le città continuano ad espandersi. Si sa anche molto bene quanta biodiversità stiano erodendo. La cosa inquietante però è il ritmo di questo irreversibile fenomeno a scala globale. Tra il 1970 e il 2000, l’espansione ha coperto l’incredibile superficie di 58.000 chilometri quadrati. E quasi la metà a spese della biodiversità. Con questi ritmi, nel 2030 la superficie urbana sarà di almeno 430.000 km quadri, più o meno le dimensioni di tutto l’Iraq. E un’espansione ulteriore e indiscriminata potrebbe farci arrivare a una superficie urbanizzata di 12.568.000 chilometri quadrati. É il risultato raggiunto da un gruppo di ricerca coordinato da Karen Seto della Yale School of Forestry and Environmental Studies negli Usa. Si sono analizzati 326 studi condotti in tutto il pianeta per costruire una carta della conversione ad aree urbane negli ultimi trent’anni.
Sinora, l’urbanizzazione è stata studiata utilizzando l’indicatore della popolazione. Questa nuova ricerca, pubblicata dal periodico online PLoS One in agosto, quantifica oltre alle dimensione anche i ritmi. Per comprendere le trasformazioni del suolo sono state utilizzate tecniche a sensori remoti. I ritmi più rapidi di conversione a superficie urbana sono in India, Cina e Africa. Sui tre decenni esaminati, l’urbanizzazione massima si è verificata in Nord America. Fra i motivi la crescita di popolazione e prodotto interno lordo pro capite. “L’aumento annuale di prodotto interno lordo pro capite induce circa metà dell’urbanizzazione osservata in Cina. Influenza anche moderatamente l’urbanizzazione Indiana e Africana, ma qui il processo è spinto molto di più dall’incremento della popolazione urbana” si legge nella ricerca. Nei paesi ad alto reddito, i tassi di espansione sono più bassi in rapporto alla crescita del prodotto interno. In Nord America la principale causa dell’espansione urbana è la crescita generale di popolazione.
Si colpisce la biodiversità
A scala mondiale, è la spinta dell’espansione urbana alla base della scomparsa di habitat naturali, afferma la ricerca. Il 47% delle aree urbanizzate si trova in un raggio di 10 km da zone classificate come protette dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. “Così si mettono in discussione le strategie di tutele” scrive. Si è rilevata un’espansione notevole nelle aree costiere a bassa quota, fino a 10 m sopra il livello del mare. Circa il 34% delle aree studiate ricade entro 10 m da zone del genere. L’urbanizzazione delle coste può essere dannosa all’uomo per via dell’intensificarsi dei fenomeni atmosferici e dell’innalzamento del livello del mare. Lo studio, primo nel suo genere, prova a ipotizzare i motivi di questa espansione globale. Afferma che l’estensione urbana è legata a una serie di fattori tra cui il flusso internazionale di capitali, le economie informali, la pianificazione urbanistica. La ricerca però non copre tutte le grandi città del mondo. Cinque delle più popolose —Dacca, Karachi, Kolkata, Jakarta e Delhi — non sono state studiate.
L’area urbana di Delhi è stata invece studiata dalla Jamia Millia Islamia University. Confermando come la conversione d’uso sia un grave pericolo per la biodiversità. A Delhi le superfici residenziali sono quasi raddoppiate fra il 1994 e il 2004. Usando sensori remoti e immagini dal satellite, oltre che Gis, si è rilevato un incremento costante dell’area urbana. “Su un totale di 148.375 ha del 1992, la superficie agricola era di 65.114 ha. É diminuita del 12% fino a 54.153 ha nel 2004” afferma la ricerca. Ogni giorno, sono 664 le persone che si spostano a Delhi dalle aree rurali. Un flusso enorme che produce questa espansione, afferma Atiqur Rahman, professore di geografia all’università e coordinatore della ricerca.
Questa urbanizzazione che colpisce la biodiversità innesca anche cambiamenti climatici, cambia il sistema dell’impermeabilizzazione e altera il ciclo dell’acqua. “A Delhi si sono trasformati gli ecosistemi urbani. Suolo fertile è stato impermeabilizzato, e le acque sotterranee si sono allontanate” continua Rahman. Qualcosa di simile e altrettanto significativo avviene nella ricca biodiversità di Bengaluru. É una delle zone urbane di più rapida crescita al mondo, con una superficie urbanizzata diventata il doppio in dieci anni, dai 740 chilometri quadri del 2001 ai 1.306 di oggi. “La città era cresciuta negli anni ’70, e poi di nuovo nell’ultimo decennio. Ma nella seconda fase è stato molto più forte l’impatto sui sistemi ecologici della regione” commenta Leo Saldanha di Environment Support Group.
la Repubblica ed. Milano
"Salviamo il territorio" appello del forum verde per una legge sul suolo
di Anna Cirillo
Sono arrivati da 17 regioni per riunirsi sotto gli alberi del parco dai colori autunnali di Cassinetta di Lugagnano e ascoltare, tra gli altri, Carlo Petrini, patron di Slow Food, e Giulia Maria Crespi, fondatrice e presidente onorario del Fondo per l’Ambiente Italiano. Nella cornice romantica di uno dei più bei borghi dell’area milanese c’è stato il primo forum nazionale «Salviamo il paesaggio - Difendiamo i territori», che riunisce i movimenti per la salvaguardia della terra. E non a caso la riunione è avvenuta nel primo comune italiano a crescita zero, già con il piano regolatore del 2007: il suo sindaco, Domenico Finiguerra, è stato tre anni fa il promotore della campagna «Stop al consumo di territorio». Ovvero, basta con il cemento e con il meccanismo perverso per cui i comuni si finanziano con gli oneri di urbanizzazione delle nuove costruzioni e sì, invece, alla riqualificazione del patrimonio edilizio esistente.
Il forum ha un obiettivo molto concreto, fermare il consumo dei suoli fertili e la rovina del paesaggio con l’elaborazione di una proposta di legge di iniziativa popolare da portare in Parlamento. La legge al primo articolo recita: «Nuove occupazioni di suolo sono consentite qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti». Ma si propongono anche un censimento in tutti i comuni degli immobili vuoti e non utilizzati, e una campagna di comunicazione e sensibilizzazione.
Il dibattito è stato in alcuni momenti molto acceso. Applausi hanno accolto l’intervento di Giulia Maria Crespi. Si è appellata alla società civile, «in cui ho molta fiducia», e ha criticato il piano territoriale della Provincia che rinuncia a fissare vincoli su 47 mila ettari di zone agricole nel Parco Sud. «Podestà - ha detto - è venuto meno alle grandi speranze che il Fai aveva in lui. Io continuerò a battermi».
Per l’assessore alla Cultura di Milano Stefano Boeri «quella di Cassinetta è una rivoluzione culturale che dobbiamo introdurre nella politica italiana e del Pd». Per Carlo Petrini «con pazienza questo movimento si può radicare in tutto il territorio nazionale, il referendum sull’acqua è stato la dimostrazione tangibile di quanto si possa diventare incisivi, e la proposta di legge che vogliamo lanciare deve essere formulata in maniera chiara e precisa». Petrini ha poi spiegato che l’Expo «aveva l’obbligo di parlare di alcune cose», del consumo di territorio, dell’agricoltura, dello spreco di cibo, della fame e delle logiche di consumo, della distruzione del paesaggio. «Doveva parlare di queste enormi contraddizioni. E invece tutti si sono concentrati sul terreno strapagato per costruire padiglioni. Manca l’anima, e dovrebbero dire "lasciamo perdere". Capisco le difficoltà del sindaco Pisapia, alle prese con questa patata bollente».
Il sindaco di Cassinetta "Noi pionieri del consumo zero"
Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano, lei è stato portato come esempio da imitare da Maria Giulia Crespi per il suo impegno contro il consumo di suolo. Che effetto le fa?
«Mi fa molto piacere, è il riconoscimento da parte della presidente onoraria del Fai di un lavoro fatto con estrema fatica, nel mio comune e in Italia, con le campagne «Stop al consumo di territorio», partite tre anni fa, nel gennaio 2009».
Come le è venuta l’idea?
«Nel 2007 qui a Cassinetta abbiamo adottato un piano regolatore senza espansione urbanistica. Dal nostro caso è partito un tam tam sulla rete e ho visto che l’idea del fermare il consumo di suolo la condividevano in tanti. Così siamo arrivati alla campagna nazionale».
È difficile non consumare suolo?
«È difficile se non si ha il coraggio di uscire da un modo di pensare dato per scontato dai comuni che utilizzano gli oneri di urbanizzazione delle costruzioni per fare utili e pareggiare i bilanci».
Voi, che non avete voluto costruzioni nuove, che cosa vi siete inventati per pareggiare il bilancio?
«Abbiamo lavorato di fantasia, i matrimoni a mezzanotte, per esempio. Poi usato il buon senso, utilizzando le energie rinnovabili e i pannelli fotovoltaici sui tetti, tagliando le consulenze e alzando un po’ le tasse, dal 6 al 7 per mille, sulle seconde case e le attività produttive».
Siete riusciti a pareggiare?
«Da cinque anni abbiamo il bilancio che sta in piedi senza oneri di urbanizzazione. E vorrei chiarire che noi abbiamo detto stop al consumo di territorio, non all’edilizia. Abbiamo avuto decine di cantieri in questi anni, ma per riqualificare il patrimonio esistente, creando nuove abitazioni in case, comprese ville del ‘700, che già esistevano. E tutelando anche il paesaggio».
Qual è l’obiettivo della vostra proposta di legge?
«La terra come l’acqua è un bene comune e va tutelato. Chi ci sta a tutelarlo attraverso una legge? O si vuole il grana padano o i capannoni, e con questa legge si dice se si sta da una parte o dall’altra. La politica dovrà prendere una posizione e manifestare il suo vero pensiero».
Corriere della Sera
Il patto di 350 gruppi per conservare i paesaggi d'Italia
di Paola D’Amico
MILANO — Alla fine il «Messia», come qualche oppositore politico ha pensato bene di soprannominare il sindaco di Cassinetta di Lugagnano, Domenico Finiguerra, ce l'ha fatta e ha messo d'accordo tutti. Lasciati sfogare in mattinata gli animi degli oppositori più accesi all'Expo, i partecipanti al forum «Salviamo il Paesaggio» arrivati da tutta Italia ieri pomeriggio si sono seduti a scrivere il progetto di legge di iniziativa popolare a tutela del suolo e del paesaggio, che si prefigge di bissare il risultato ottenuto dai comitati referendari per l'acqua pubblica. Un progetto che, innanzi tutto, promuove un censimento a tappeto di ogni edificio e capannone vuoto presente nel Paese e una moratoria dei piani regolatori. La crociata contro la cementificazione selvaggia passa da qui. E la raccolta di firme (50 mila) è già cominciata.
Finiguerra da un palco singolare, ricavato nel parco pubblico, perché i partecipanti alla convention avevano superato ogni aspettativa e lo spazio comunale non era in grado di ospitarli, ha lanciato un messaggio politico: «Chiediamo ai partiti e alla politica di assumersi le loro responsabilità. Bersani si levi dalla testa di arrivare agli ultimi 100 metri per raccogliere i frutti della maratona del lavoro degli altri, come ha fatto per l'acqua. Bisogna scegliere. Non si può andare al mattino al convegno di Slow Food e al pomeriggio a quello di Confindustria a parlare di grandi opere. Questo è il territorio che l'Expo 2015 lo vive sulla propria pelle e sarebbe una vera rivoluzione avere almeno una parte di Expo a cemento zero».
A Cassinetta, ieri, c'erano oltre seicento rappresentanti di 350 associazioni ambientaliste, Italia Nostra, Legambiente, Fai, Europa Nostra, Wwf e Lipu, sindaci di destra e di sinistra. C'erano l'assessore all'Urbanistica di Napoli Luigi De Falco, che ha aderito al Forum invocando l'«obiezione di coscienza al piano casa», e l'assessore alla Cultura e all'Expo del capoluogo lombardo, Stefano Boeri, che ha chiarito cos'è per la giunta di cui fa parte l'Expo, cioè «un modo di trasformare Milano in una grande metropoli agricola». Costruire in città sarà ancora possibile «solo rigenerando gli spazi vuoti». Tra i testimonial della battaglia ambientalista è arrivato anche Roberto Ronco, assessore all'Ambiente della provincia di Torino, che ha vinto la battaglia con la catena Ikea, intenzionata a raddoppiare gli spazi a sud della città del Lingotto.
Un tema, quello della salvaguardia del suolo, che più attuale non si può: è da tempo all'ordine del giorno della Commissione europea, dai cui studi emerge che ogni anno, in Europa, una superficie equivalente a un'area più estesa di Berlino cede il passo all'espansione urbana e a infrastrutture di trasporto. Per chi preferisce raccontarlo con i numeri ciò equivale a 275 ettari di terreno erosi ogni giorno, per mille chilometri quadrati all'anno. La metà di questa superficie è irrimediabilmente impermeabilizzata da edifici, strade e parcheggi.
La parola d'ordine è «usare meno, vivere meglio», ha detto Giulia Maria Crespi, presidente onoraria del Fai, invitando le diverse anime del mondo ambientalista e della società civile a non a farsi la guerra e, invece, a unirsi: «Se c'è una speranza di salvare questo Paese è la società civile. Dall'altra parte c'è moltissima gente che non capisce, che ignora. Quelli che hanno fabbricato le loro case nel greto dei fiumi — ha aggiunto Crespi — secondo me non erano coscienti del pericolo. La gente deve essere informata, deve conoscere». Sacrosanto, ha concluso, chiedere il censimento degli stabili vuoti. «Ma per procedere dobbiamo prendere degli esempi. Uno lo abbiamo in Cassinetta e in questo sindaco che ha dato il là, è riuscito a guadagnare la fiducia dei suoi cittadini e adesso ci proverà ad Abbiategrasso».
Salvare il paesaggio, difendere i territori equivale «a conservare né più né meno una civiltà», aveva scritto nel suo messaggio al Forum il giurista Stefano Rodotà. Mentre Carlo Petrini, presidente di Slow Food, (contestato da una frangia più estremista) ha confessato di «vivere un sentimento di impotenza. La parte più debole del Paese sono i contadini, quelli veri. Non si esce dalla crisi tornando a consumare. Dobbiamo, invece, tornare alla terra».
Le vecchie ricette keynesiane non hanno più margini in una crisi strutturale di queste dimensioni e qualità. Deve decrescere la dipendenza dal mercato e dall'ossessione del Pil
Alzino la mano quanti hanno azioni? Pochissimi, a giudicare dal fatto che non ci dicono mai la loro vera consistenza (numero di persone per il valore delle azioni possedute). Alzino la mano quanti hanno titoli di stato? Non molti e comunque posseggono meno della metà della metà del valore dei titoli emessi (la metà è all'estero, l'altra metà è nelle casse di imprese e investitori istituzionali vari). Alzi la mano chi ha denari in banca? Abbastanza, ma si accontentano di interessi che non proteggono nemmeno dall'inflazione. E allora, chi se ne frega del default ! Falliscano pure banche e stati, non vengano rimborsati i prestiti che hanno avuto, o vengano congelati in attesa di tempi migliori. Le bancarotte (assieme alle guerre) sono il metodo più sbrigativo per la remissione dei debiti e ricominciare da capo. E' successo molte volte nella storia degli stati e, da ultimo, l'Argentina insegna che ci si può risollevare. Chi vive del proprio lavoro, chi non arriva alla quarta settimana, cioè la maggioranza delle famiglie, si libererebbe così finalmente dal peso di dover foraggiare rendite e interessi. Se è vero che su ogni italiano gravano 30.000 euro di debito pubblico, quanti anni ci vorranno per estinguerli, ammesso che i futuri governi riuscissero a non aggiungerne altri? I giovani senza futuro, gli indignados che protestano a Wall Street, i disoccupati nelle piazze spagnole e greche gridano: «Non vogliamo pagare noi i vostri debiti». Ed hanno più che ragione.
Ma c'è un ma che rende ancora più grave la situazione e più profonda la svolta economica e politica necessaria per uscire dalla crisi. Non sono solo gli avidi speculatori, gli approfittatori alla Soros, i manager pagati in opzioni alla Marchionne, i ministri della finanza creativa alla Tremonti che ci hanno portato sull'orlo del baratro. Via loro (e sa iddio quanto sarebbe bello!) non cambierebbe nulla perché anche l'azienda dove andiamo a lavorare, l'amministrazione comunale dove abitiamo, la locale azienda sanitaria, il fondo che gestisce la nostra pensione, la banca del nostro bancomat, l'agenzia di stato che sborsa il sussidio di disoccupazione a nostro figlio... sono da tempo, in un modo o nell'altro,tutti indebitati. Tutti avevano fatto il conto ("aspettativa" si dice in economia) di riuscire in futuro a guadagnare di più (facendo profitti, riscuotendo tasse, realizzando interessi, vendendo immobili e "cartolarizzando" il Colosseo...) di quanto non avessero ricevuto in prestito. Credevano, cioè, nella chimera di una crescita economica esponenziale e senza fine. Un calcolo tragicamente sbagliato. Da tempo (dieci, venti, chi dice trent'anni) le economie occidentali sono in crisi di realizzo, il loro tessuto produttivo non è più in grado di riprodurre guadagni tali da riuscire a mantenere gli standard dei consumi privati e pubblici. Per mascherare questo fallimento e allontanare il declino le hanno tentate tutte: la leva finanziaria, i titoli tossici, il signoraggio del dollaro, oltre, ovviamente, al vecchio trucco di stampare carta moneta. Niente, la "santa crescita", nonostante le continue invocazioni e i lauti sacrifici umani, non arriva. E non arriverà mai più, almeno per chi è da questa parte del mondo.
Doveva essere il secolo americano ed invece è quello del suo declino che si trascina con sé propaggini e imitazioni. Ciò accade un po' perché portare via le materie prime dal terzo mondo è sempre più costoso (militarizzazione crescente, prebende a regimi fantoccio, esaurimento delle risorse naturali), un po' perché i paesi emergenti hanno imparato che "arricchirsi è glorioso" e nemmeno così difficile. In un contesto di economia neoliberista, fondata sulla competizione selvaggia tra aree geografiche vince semplicemente il più forte: chi ha più capacità produttiva, chi riesce più a spremere i fattori e gli strumenti della produzione: a partire dal lavoro e dalle risorse naturali. Questa volta la Cina è davvero vicina.
Oppure si decide di uscire dal gioco per davvero. Si esce dall'economia del debito (cioè da quella economia che pone gli interessi del capitale sopra a quelli del lavoro e della stessa vita delle persone e dell'ecosistema terrestre) con tutto quello che ne deriva. E' questo il vero recinto di pensiero da cui nemmeno la sinistra-sinistra riesce ad uscire. Le vecchie ricette keynesiane non hanno realmente più margini di applicazione dentro una crisi strutturale di queste dimensioni e di questa qualità. Le politiche riformiste, anche quelle più caute sono tagliate fuori sia sul versante del modello economico, sociale ed ecologico, sia su quello della distribuzione della ricchezza. E' ormai chiaro che le risposte possono venire solo uscendo dalle regole e dai dogmi del mercato. Dovremmo pensare ad un altro tipo di ricchezza, ad un altro tipo di benessere, ad un altro modo di lavorare, ad un altro modo di relazionarsi tra le persone che non sia quello che passa attraverso il portafogli. E sarebbe certamente una società più umana, più in armonia con la natura, più capace di futuro, più desiderabile. Se provassimo a mettere la cura e la fruizione dei beni comuni (l'acqua, la terra, le foreste, il patrimonio naturale, ma anche quello culturale: la conoscenza, i saperi) al centro della nostra idea di società, riusciremmo facilmente e con grande soddisfazione individuale e collettiva a fare a meno dell'ossessione dell'aumento del Pil. Anzi, essere costretti a pagare per possedere, invece che condividere per accedere ad una fruizione collettiva, sarebbe un indicatore negativo di benessere. Decrescere la dipendenza dal mercato è l'unico modo per sottrarsi ai suoi diktat. Non c'è modo di liberarsi dalla tirannia della produttività misurata in budget se non ci si libera dal dispositivo dell'incremento del valore di scambio delle merci. Ed è esattamente questo, non altro, quello che chiamano, in modo assolutamente bipartisan (da Napolitano a Berlusconi, dalla Camusso a Marchionne, dagli economisti marxisti a quelli liberisti): crescita.
Il guaio non è la «vera e propria crisi del capitalismo» (sono parole del The Observer), ma la mancanza di una alternativa di sistema. Cioè, la mancanza di una soggettività politica che abbia il coraggio civile e intellettuale di prospettare un sistema di valori etici e di regole sociali all'altezza della odierna crisi di civiltà e capace di evitarci di pagare le conseguenze del collasso. Per esempio: non ci si libera dagli strozzini e dagli usurai se non si stabilisce che la finanza e la moneta devono tornare ad essere strumenti neutri, beni comuni pubblici, di servizio, che nessuno (né grande banchiere, né piccolo azionista) può pensare di usare per arricchirsi. Non ci si evolve dal lavoro schiavo e precario se non si torna a stabilire che anche il lavoro è un bene comune, non una merce, un modo di realizzare sé stessi e, assieme, contemporaneamente, un modo per offrire agli altri cose utili, sane, durevoli. Non ci si libera dal peso delle crescenti spese militari e per la "sicurezza", se non si capisce che la pace e la sicurezza sono beni indivisibili, universali.
Fastidiose utopie, dirà qualcuno, indispensabili modi di essere per chi pensa che sia possibile praticare forme di economia non monetizzata, sociale e solidale. Ernst Friedrich Shumacher diceva che l'economia è una «scienza derivata», che deve cioè «accettare istruzioni». È urgente che qualcuno impartisca nuove istruzioni.
Dopo Tangentopoli la legislazione urbanistica è stata smantellata. Le metropoli sono diventate terreno di conquista degli speculatori. Fiumi di cemento hanno inondato i nostri territori. Ripristinare la legalità, bloccare le espansioni urbane, riqualificare le periferie, recuperare il costruito abbandonato: ecco tutto ciò che andrebbe fatto per fermare il saccheggio del territorio e delle città.
Regole e legalità cancellate
Il 1993 segna lo spartiacque per comprendere cosa è avvenuto nel territorio e nelle città. Tangentopoli aveva mostrato lo stretto intreccio tra l’urbanistica e la corruzione: a Roma e Milano, solo per fermarci alle due maggiori città, le regole venivano sistematicamente cambiate dalla politica collusa con la proprietà fondiaria e con l’affarismo.
Nulla di nuovo. Una storia iniziata nell’immediato dopoguerra: la Roma dominata dalla Società generale immobiliare, la Napoli dei tempi di Lauro, lo scandalo di Agrigento, il sacco di Palermo avevano dimostrato l’arretratezza del sistema economico che dominava le città. È stata la speculazione parassitaria a imporre il proprio dominio: dappertutto erano sorte periferie sfigurate e incivili.
Eppure in quel periodo il legislatore aveva risposto agli scandali con una serie di riforme che avevano collocato l’Italia nel panorama dei paesi virtuosi. Regole e strumenti pubblici chiari e efficaci: la legge sull’edilizia pubblica del 1962, [del 1971 e del 1978 – n.d.r.] la legge ponte del 1967, la Bucalossi del 1977, la Galasso del 1985, la legge sulle aree protette del 1991. Era stato mancato l’obiettivo di scindere in maniera definitiva il diritto di proprietà dal diritto di edificare analogamente agli altri paesi europei poiché il tentativo di riforma di Fiorentino-Sullo fallì nel 1963 per la violentissima reazione del blocco immobiliare. Ciò nonostante, la risposta agli scempi urbanistici portò a una profonda evoluzione della legislazione.
La risposta allo scandalo di Tangentopoli è stata di segno opposto: la legislazione urbanistica è stata infatti smantellata. La cultura delle regole viene sostituita dalla prassi della deroga. I piani regolatori, e cioè il quadro coerente dello sviluppo delle città, vengono sostituiti dall’urbanistica contrattata: volta per volta si decide la dimensione e i caratteri degli interventi urbani, al riparo di qualsiasi trasparenza. Conseguenza inevitabile, se si pensa che le elezioni politiche del 1994 portarono alla vittoria Silvio Berlusconi che all’interno del suo programma aveva promesso «padroni a casa propria» slogan che dà il via alla serie di leggi – mai contrastate negli anni dei governi di centro-sinistra – che avrebbero messo in crisi il governo pubblico del territorio.
Quando scompaiono le regole trionfa l’illegalità. Questo è avvenuto in molti casi, dall’attacco continuo alla magistratura al falso in bilancio alle prescrizioni facili. Ma è nelle città che il malaffare ha trionfato. Quanto emerge dall’inchiesta della magistratura su Sesto San Giovanni ne è la più chiara dimostrazione. I colloqui tra i protagonisti vertono sull’esigenza di variare le volumetrie da realizzare nell’area ex Falk da un milione a un milione e mezzo di metri cubi. Senza alcuna procedura di evidenza pubblica si regalano alla proprietà fondiaria 500 mila metri cubi: un arricchimento in termini economici di oltre 200 milioni di euro. Ammettiamo pure per assurdo che non ci sia stata alcuna tangente: il fatto grave è che attraverso l’urbanistica contrattata si alterano le regole di mercato. Altri operatori che sulla base delle scelte urbanistiche avevano deciso di investire in differenti aree vengono danneggiati e se non vogliono soccombere hanno un’unica strada: venire a patti con la politica e iniziare la contrattazione urbanistica.
Questa patologia spiega il motivo per il quale non c’è nessun operatore edilizio di altri paesi europei che investa sul mercato italiano: chi è abituato al rispetto delle regole non può avventurarsi in un far west dominato da taglieggiatori, speculatori e amministratori pubblici infedeli. Del resto, siamo il paese dei tre condoni edilizi, una vergogna sconosciuta negli altri paesi.
Le periferie più grandi e desolate d’Europa
Dopo circa vent’anni dalla sua affermazione è venuto il momento di tentare un bilancio degli effetti sulle città e sul territorio dell’urbanistica contrattata. Esso deve partire da una constatazione statistica: nel quindicennio che va dalla ripresa del mercato delle costruzioni (1995) ad oggi, un fiume di cemento e asfalto si è riversato sul paese. L’Istat ha certificato (2009) la costruzione di oltre 3 miliardi di metri cubi di cemento, una produzione edilizia imponente, molto simile per dimensioni a quella realizzata negli anni Cinquanta-Settanta quando l’Italia era investita da grandi flussi demografici e da indici di crescita economica a due cifre. La cancellazione delle regole urbane ha dunque giovato al mondo della proprietà fondiaria e delle costruzioni. Ha giovato anche alla qualità delle nostre città?
La risposta è inequivocabile. Le periferie – che rappresentano la parte preponderante delle nostre città – sono in assoluto, con alcune lodevoli eccezioni, le più brutte, disordinate e invivibili dell’intera Europa. Lo sono per le carenze dei sistemi di trasporto, per la qualità dei servizi pubblici e degli stessi edifici. I luoghi scelti per realizzare le nuove periferie hanno anche contraddetto la regola usuale della città liberale, quella cioè di espandersi in adiacenza ai precedenti tessuti, mantenendo la città compatta e minori i costi di funzionamento urbano. In ogni parte del territorio agricolo sono nati centri commerciali, nuclei abitati, residence, cittadelle del consumo: lo sprawl urbano è la caratteristica più evidente del ventennio liberista. Le città italiane nel ventennio dell’urbanistica contrattata sono diventate più estese, più disordinate, socialmente più ingiuste. La speculazione immobiliare ha fatto enormi affari. Gli altri sono stati costretti a spostarsi nelle sempre più lontane e squallide periferie.
Una gigantesca periferia senza struttura e senza relazioni: abbiamo il più basso livello di infrastrutture su ferro, il più alto numero di automobili ad abitante, con il più elevato livello di superficie urbanizzata a parità di popolazione, un consumo di suolo senza uguali nei paesi ad economia forte. Un’immensa «non città», anonima e disordinata. Una frammentazione che genera consumi energetici insostenibili, disfunzioni economiche e scarsa qualità della vita.
Verso il default urbano
Raccogliamo dunque gli effetti di processi giustificati dall’ideologia di uno «sviluppo» che oltre a lasciare macerie urbane ha anche vuotato le casse delle amministrazioni pubbliche. Paradigma di quanto è avvenuto nelle città italiane è il caso di Parma. Una città ricca, con una parte antica meravigliosa e una periferia storica bella, è stata saccheggiata dietro lo schermo dello sviluppo. Oggi Parma ha un deficit di bilancio che pesa sulle spalle delle future generazioni per 600 milioni di euro.
Del resto, la stagione delle «grandi opere» è servita soltanto al saccheggio. Dietro i concetti dell’ammodernamento del paese sono state avviate opere dannose e inutili: dal Mose al ponte di Messina; dal corridoio della Val di Susa alle emergenze della Protezione civile, è stata messa a punto una macchina perfetta che ha favorito soltanto le cricche del malaffare e dilapidato risorse pubbliche. Del resto, per collocare in un panorama più vasto le dinamiche italiane, non si deve dimenticare quanto è avvenuto in Grecia. Anche lì l’ideologia liberista ha imposto a tutti i costi lo svolgimento dei Giochi olimpici nel 2004: il deficit di bilancio accumulato per la folle sfida è stato di 20 miliardi di euro dilapidati in cattedrali nel deserto, poco meno di un decimo del debito che sta collassando quella nazione.
Se si mettono queste caratteristiche del territorio in relazione con la crisi economica e finanziaria che sta colpendo sempre più intensamente il paese e che provocherà un’inevitabile diminuzione delle capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche, gli interrogativi sul futuro delle nostre città si fanno allarmanti. Non avremo risorse per portare i servizi nel territorio diffuso e – ciò che in prospettiva è più importante – non potremo competere con i livelli di efficienza delle città europee, con la qualità dei servizi erogati ai cittadini, con la loro capacità di fare rete – e richiamare investimenti privati – proprio in virtù dell’alto livello di funzionalità.
Viaggiamo verso una prospettiva insostenibile. Nella crisi globale una struttura forte del territorio è un potente fattore di traino di nuove attività: territori a bassa densità non sono invece in grado di competere con i livelli di concentrazione di servizio esistenti nelle città del mondo. La Comunità europea prevede che nel 2020 l’80 per cento della popolazione degli Stati membri vivrà in ambiente urbano. La sfida per la ripresa economica passa dunque per le città e l’Italia è la cenerentola rispetto ai paesi, che anche in questi anni di liberismo non hanno abbandonato la cultura del governo delle città.
Abbiamo minato le stesse basi per una nuova fase di sviluppo e per tentare di colmare la distanza dobbiamo essere in grado di rendere concrete due condizioni: bloccare per sempre le espansioni urbane perché è un costo che non possiamo permetterci più e investire risorse pubbliche per migliorare le città. Assistiamo purtroppo a una rincorsa bipartisan a espandere ancora le città e a impoverirle cancellando il welfare urbano, i trasporti,fino a ipotizzare di svendere i monumenti.
È come se una banda di malfattori si fosse impadronita del paese. Continua infatti l’assalto alle coste marine ancora integre. Dalla Sardegna alla Sicilia l’unico motore di sviluppo è il cemento. Assistiamo poi a un altro assalto all’integrità dei luoghi condotto mediante nuovi mostri giuridici come i «piani casa» (nel Lazio si deroga perfino per le aree ricomprese nei parchi) o le «zone a burocrazia zero» volute dal ministro Tremonti con le quali si possono superare anche i vincoli paesaggistici che hanno rilevanza costituzionale sulla scorta dell’articolo 9. Salvatore Settis ha lanciato l’allarme sul rischio della definitiva cancellazione dei paesaggi storici italiani.
Se a questo si aggiunge ancora che – deroghe a parte – i vigenti piani regolatori prevedono espansioni illimitate (solo i recenti piani di Roma e Milano prevedono un incremento di 120 milioni di metri cubi di cemento, e cioè un milione di nuovi abitanti in due città che perdono popolazione da circa trenta anni!) c’è davvero da preoccuparsi. Occorre interrompere questa folle corsa alla distruzione del paese.
Le città e il territorio sono beni comuni
Solo in base a nuovi princìpi giuridici si potrà fermare il saccheggio del territorio e delle città. È necessario un nuovo paradigma e, se finora lo sviluppo delle città e del territorio ha favorito la speculazione immobiliare e il mondo delle imprese colluse con la politica, è venuto il momento di riportare i destini delle città e del territorio nelle mani delle popolazioni insediate. Occorre affermare che il territorio, le città e le risorse naturali che consentono la vita insediativa sono beni comuni non negoziabili. Le istituzioni pubbliche, attraverso le forme della partecipazione attiva della popolazione, ne sono i custodi e i garanti nel quadro delle specifiche competenze. È questo il pilastro su cui deve essere rifondato il governo del territorio. I beni comuni non possono essere trasformati in funzione dell’esclusivo tornaconto dei proprietari degli immobili ma ogni mutamento deve essere deciso dalle amministrazioni pubbliche attraverso forme di partecipazione delle comunità insediate, specie in questo periodo di scarse risorse economiche.
Il principio generale si completa con due corollari. In primo luogo occorre conoscere quanto è avvenuto. Finora non ci sono dati ufficiali su quante abitazioni sono state costruite e quante sono invendute, quante aree industriali sono dismesse, quante aree urbane sono prive delle più elementari opere di urbanizzazione. Per completare il quadro conoscitivo è necessario applicare un anno di moratoria edilizia in cui sono consentiti soltanto gli interventi in corso, quelli di recupero e ristrutturazione di edifici esistenti ma è preclusa ogni urbanizzazione di terreni agricoli. Una sorta di simmetria con l’anno di sospensione dell’entrata in vigore della «legge ponte» che la proprietà immobiliare impose e che servì per compiere alcuni dei più gravi misfatti che deturpano ancora oggi il territorio.
Il secondo corollario riguarda il fatto che su ogni opera di rilevanza territoriale, da un nuovo centro commerciale a una grande opera, è la popolazione insediata che deve esprimersi attraverso le mature forme di partecipazione, e cioè i referendum confermativi. Visto che le regole sono state infrante, occorre ricostruirle a partire da un nuovo protagonismo: quello dei custodi del bene comune, i cittadini.
Insieme al nuovo principio su cui deve rifondarsi il governo del territorio e delle città, è poi urgente definire le principali linee di azione da intraprendere per una nuova forma di governo. Lo faremo individuando nove fondamentali provvedimenti.
Le politiche individuate hanno bisogno di investimenti pubblici. Una prassi normale nella storia delle città: esse sono infatti luoghi pubblici per eccellenza e la loro evoluzione è stata sempre alimentata dalla lungimiranza di coloro che la governavano. Oggi non si investe più perché «non ci sono più soldi». Una menzogna vergognosa. Non passa giorno in cui non apprendiamo scandali e ruberie compiuti ai danni del territorio e dell’ambiente. È purtroppo vero che le risorse pubbliche vengono spese per opere inutili, per alimentare un sistema di potere che sfugge ormai al controllo democratico. La spesa pubblica per i provvedimenti contenuti in questo elenco serve per favorire la ricerca tecnologica e nuove produzioni, per rendere le città più vivibili. È un investimento per il futuro del paese e delle giovani generazioni.
1. Chiudere la fase dell’espansione urbana. È preminente interesse pubblico bloccare la corsa all’ulteriore espansione delle città e ridurre a zero il consumo di suolo ai fini insediativi e il mantenimento della parte naturale che è il luogo della biodiversità. Alcune normative regionali hanno già stabilito che nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali devono essere consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. La norma di principio valida su tutto il territorio nazionale potrebbe affermare ad esempio che «la realizzazione di nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali può essere definita ammissibile soltanto ove non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti, delle infrastrutture o delle attrezzature esistenti».
L’esperienza ci insegna però che una simile norma non ha da sola la forza per fermare l’espansione urbana. Sono troppe le deroghe che consentono il nascere di nuovi insediamenti. L’efficacia della norma può essere resa stringente recuperando una proposta che da tempo Italia Nostra propugna, quella di inserire le aree agricole all’interno delle categorie dei beni tutelati ai fini paesaggistici dalla legge Galasso. Si dovrà dunque aggiungere al codice dei Beni culturali e paesaggistici (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) un comma che afferma: «Il territorio agricolo è vincolato come bene paesaggistico» in modo che sia conseguentemente sottoposto alla tutela dei piani paesaggistici.
Un piccolo e combattivo nucleo di sindaci ha dato vita al movimento «Stop al consumo di suolo», dimostrando che sono i cittadini a chiedere che le città non crescano più: si tratta di estendere all’intero paese ciò che è già in movimento.
2. Il territorio del lavoro. I suoli agricoli sottratti alla monocultura del mattone e dell’asfalto possono fornire una prospettiva produttiva. Ai fini di una lungimirante gestione del territorio nazionale, infatti, si deve recuperare un uso agricolo consapevole, puntare sulla qualità del prodotto, sulla riconversione biologica, sulla filiera corta. Un tema decisivo per il futuro economico del paese, una prospettiva che comporta la possibilità di integrazioni di reddito, la riscoperta delle radici culturali e della qualità del cibo. L’avvio di nuove politiche sarebbe di grande importanza perché i territori collinari e montani si stanno spopolando sempre più velocemente, con gravi rischi sulla stessa stabilità geologica dei versanti.
Compito delle autorità pubbliche è riattivare il tessuto sociale dell’Italia «marginale». Un solo esempio: i terreni abbandonati costano poco sul mercato immobiliare e le amministrazioni pubbliche potrebbero dunque inserirsi come operatori attivi e acquisire estese porzioni di territori da affidare poi alle comunità locali. Non sarebbe questa una spesa pubblica «classica», improduttiva. È al contrario un modo intelligente di investire sul futuro del paese, utilizzando ad esempio le risorse liberate attraverso la vendita delle proprietà pubbliche non indispensabili.
3. Pareggio di bilancio dei conti pubblici a carico della rendita parassitaria. Il blocco delle espansioni urbane porterebbe un consistente riequilibrio dei bilanci pubblici. Si spendono ingenti risorse per inseguire e raggiungere tutti i frammenti delle espansioni urbane nati recentemente. A carico della collettività resta infatti il pesante compito di realizzare le strade e le infrastrutture energetiche, di garantire i servizi pubblici, i trasporti e la quotidiana gestione dei quartieri. Questi oneri sono ormai insostenibili poiché la crisi economica ha ridotto le capacità di spesa delle amministrazioni. Si deve dunque stabilire il principio che ogni attività di trasformazione urbanistica presuppone l’esistenza o la preliminare realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale, a iniziare dalle reti di trasporto su ferro. A carico del privato vanno anche tutte le spese di mantenimento e di gestione dei nuovi insediamenti: è ora di chiudere il rubinetto che prosciuga le casse dello Stato.
In questo modo si possono cancellare le folli previsioni dei piani regolatori comunali. Se vogliamo davvero cambiare le città non possiamo consentire che si costruisca in luoghi privi di sistemi di trasporto non inquinante. I cittadini hanno il diritto, come in ogni altro paese europeo, di vivere in modo civile e non essere costretti a passare molte ore al giorno in spostamenti in automobile. È ora che gli attori edilizi si facciano carico della realizzazione delle infrastrutture, interrompendo il comodo gioco di scaricarne i costi sulle amministrazioni pubbliche che non sono più in grado di farsene carico.
Stesso ragionamento vale nel campo dell’erogazione dei pubblici servizi dove si sperpera un altro fiume di risorse economiche attraverso un impressionante numero di società di scopo. In nome dell’ideologia della presunta «efficienza», ad esempio, a Parma sono state create 34 società partecipate per gestire compiti ordinari come erogare l’acqua. Anche nell’area bolognese e in molte altre città i servizi pubblici sono gestiti da un numero imponente di società. Presidenze, consigli di amministrazione, consulenti d’oro che riportano docilmente i soldi ai decisori politici.
In questa stessa ottica di recupero di risorse economiche deve essere sottoposto a radicale revisione il paradigma della svendita del patrimonio pubblico così di moda nei circoli della finanza internazionale e dei politicanti nostrani. Nulla in contrario: proprietà pubbliche non utilizzate per il soddisfacimento delle esigenze collettive possano essere poste in vendita. Ma ciò deve in primo luogo escludere i beni culturali poiché un paese che guarda al futuro non vende le sue radici. In secondo luogo deve avvenire soltanto dopo aver coinvolto le popolazioni locali, poiché quel patrimonio appartiene a loro, e dopo aver verificato che quegli immobili da vendere non possano servire per abbattere il flusso delle risorse pubbliche spese per pagare affitti di uffici pubblici alla grande proprietà immobiliare. A Roma, ad esempio, importanti istituzioni – ad iniziare dal parlamento – pagano canoni altissimi a immobiliaristi e faccendieri anche se esistono ancora grandi edifici pubblici localizzati in posizione centrale. Invece di svenderli, potrebbero essere riutilizzati al posto di quelli per i quali si pagano i canoni di affitto.
Un altro eloquente esempio riguarda lo stesso ministero dell’Economia guidato da Giulio Tremonti, e cioè l’istituzione che più di ogni altra dovrebbe perseguire una rigorosa politica di risparmio. La sede del ministero ubicata a ridosso del laghetto dell’Eur è stata di recente dismessa e venduta per consentire l’ennesima speculazione immobiliare. Le strutture lavorative prima concentrate sono state smembrate e ora sono localizzate in due immobili tra loro distanti. Paghiamo i costi del disservizio e lauti canoni di affitto a grandi società immobiliari: lo Stato svende e il privato ci guadagna.
4. Il diritto all’abitare. Occorre pertanto invertire questo meccanismo perverso: la vendita degli immobili pubblici deve essere decisa dalla collettività dopo attenta verifica della loro potenzialità di essere riutilizzati per fini istituzionali o per risolvere i fabbisogni abitativi. La grande produzione edilizia di questi anni non ha infatti risolto il problema delle abitazioni. Sono centinaia di migliaia le famiglie che non hanno casa o vivono in abitazioni improprie. Nelle grandi città italiane esistono oltre 300 mila abitazioni nuove invendute. Ciononostante, i valori economici degli immobili hanno subìto un’impennata provocando l’espulsione dalle zone centrali delle città di un numero enorme di famiglie a medio e basso reddito. Una nuova legge «sull’abitare», e cioè sul diritto di tutti non soltanto ad avere un tetto, ma anche ad avere una città efficiente e accogliente è un altro fondamentale tassello del programma di governo.
Anche in questo settore va affermato un nuovo principio: a tutti i cittadini sono garantiti i diritti fondamentali all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale del patrimonio culturale, alla dignità umana. La legislazione dello Stato determina le quantità minime di dotazioni di opere di urbanizzazione, di spazi per servizi pubblici, e la fruizione collettiva e per l’edilizia sociale, nonché i requisiti inderogabili di tali dotazioni.
5. Le radici culturali da conservare. Nel delirio della cancellazione delle regole, si è tentato perfino di aggredire le radici della nostra storia urbana, i centri antichi. Nel cosiddetto «piano casa» berlusconiano si alludeva infatti anche alla possibilità di trasformare le tipologie presenti nei centri storici e continuamente si tenta di forzare le norme esistenti. Converrà dunque ribadire con una legge ad hoc che gli insediamenti storici non possono essere manomessi, ma conservati gelosamente per le future generazioni.
In forza della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali dovranno essere vincolati ope legis gli insediamenti urbani storici e le strutture insediative storiche non urbane; le unità edilizie e gli spazi scoperti, i siti in qualsiasi altra parte del territorio, aventi riconoscibili e significative caratteristiche strutturali, tipologiche e formali. Le radici culturali delle città e dei territori non possono essere modificate.
6. Periferie da rendere belle. Se da un lato si chiude la fase della crescita urbana, il governo delle città deve essere in grado di dare sbocchi concreti a un comparto produttivo che rappresenta comunque una percentuale importante del sistema produttivo italiano. In tal senso devono essere facilitate e avviate a trasformazione tutte quelle aree urbane che hanno bisogno di riqualificazione urbanistica. Si tratta dei tessuti abusivi ancora oggi privi dei requisiti minimi di civiltà e vivibilità (marciapiedi pedonali, piazze e servizi pubblici) e dei tessuti produttivi dismessi: è questo un patrimonio volumetrico imponente che potrebbe rappresentare – in una chiave sistematica – la chiave di volta di una riqualificazione urbana.
In tal senso va varato un provvedimento legislativo «quadro» (la materia urbanistica è «concorrente» tra Stato e Regioni ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e lo Stato deve limitarsi alla definizione di norme quadro) che incentivi attraverso aiuti economici, fiscali e procedurali il rinnovo urbano e la creazione di periferie belle.
7. La riconversione tecnologica ed ecologica delle città. I provvedimenti fin qui elencati appartengono a un orizzonte che potremmo definire «tradizionale», nel senso che fa i conti con la crisi urbana ma non tiene conto della necessità sempre più impellente della riconversione ecologica delle aree urbane, del risparmio energetico, del cambiamento climatico in atto. Abbiamo edifici e città energivore: puntare al risparmio energetico serve a mettere in moto un gigantesco volano di ricerca, produzione e occupazione superiore a qualsiasi altro investimento nelle cosiddette «grandi opere». Anche qui alcune esperienze già sono in campo. Il progetto «casa clima» delle provincie di Trento e Bolzano ha dimostrato di aver saputo essere volano di interventi di sostituzione edilizia e di risparmio energetico.
Occorre però definire un provvedimento legislativo che aggredisca la questione urbana in maniera complessiva, dalla produzione energetica, ai sistemi di illuminazione fino alla forestazione urbana, definendo politiche efficaci e finanziando, anche attraverso forme di sgravio fiscale, l’evoluzione energetica delle città.
Occorre aprire una fase di profonda e radicale innovazione tecnologica delle città e del territorio in grado di far tesoro del patrimonio di innovazione, di ricerca e di produzione che in altri paesi è ormai una solida realtà produttiva.
Come è noto i nostri sistemi di trasporto urbano sono tra i più antiquati e inquinanti. Esistono invece infiniti esempi di sperimentazioni e attuazione di sistemi a impatto energetico e ambientale ridotto (tramvie, filovie, reti ciclabili integrate con i nodi del trasporto pubblico).
È il caso di sottolineare che si dovrà interrompere il consumo di suolo agricolo che oggi viene alimentato da progetti di fonti energetiche alternative. Troppe aggressioni al paesaggio collinare dell’Italia sono già state compiute: discutibili impianti eolici e pannelli fotovoltaici deturpano paesaggi storici, si pensi soltanto al caso di Sepino. Nel futuro le fonti energetiche di nuova concezione devono trovare spazio nelle aree già compromesse lasciando intatti i territori aperti.
Va infine superata l’arretratezza dei sistemi di smaltimento dei rifiuti urbani. Basta guardare all’Europa dove sono diventati un volano economico. A parte poche aree virtuose, siamo il paese delle discariche in cui viene sepolto tutto, compresi i materiali riciclabili, e di quelle abusive gestite dal circuito della criminalità organizzata. Il ciclo dello smaltimento dei rifiuti urbani deve invece diventare un elemento connotativo di politiche di risanamento ambientale e di innovazione delle filiere produttive.
8. Territori sicuri. Antonio Cederna poneva sullo stesso piano la tutela dell’integrità culturale delle città e la salvaguardia dell’integrità fisica dei territori. Siamo un paese ad alta fragilità geologica e abbiamo ogni anno un numero impressionante di frane. Tragedie che coinvolgono intere comunità locali e distruggono interi territori. Meglio prevenire che intervenire su emergenze senza fine.
Una nuova politica di gestione del territorio passa prioritariamente per la sua messa in sicurezza, per il potenziamento dell’Ufficio geologico centrale (oggi lasciato nell’oblio); nella redazione della carta geologica nazionale che ancora non vede colpevolmente la luce; nell’avvio di politiche di regimazione dei corsi d’acqua. Piccole opere preziose invece di grandi, inutili cattedrali nel deserto.
9. Il ripristino della legalità. È del tutto evidente che per essere efficace, le nuove norme in materia di governo del territorio devono essere perfezionate con l’abrogazione delle normative derogatorie. In ordine di importanza devono essere cancellati l’accordo di programma, e cioè il grimaldello che scardina le procedure urbanistiche ordinarie, e la strumentazione d’emergenza sperimentata in questi anni dai «galantuomini» della Protezione civile, i «piani casa», le zone a burocrazia zero, le compensazioni urbanistiche e quelle ambientali. Scorciatoie che servono soltanto a nascondere il saccheggio.
E in tema di legalità un discorso particolare merita l’esigenza di bonificare i troppi siti inquinati esistenti sul territorio nazionale. È un problema che investe sia il Nord, che riutilizza i suoli precedentemente produttivi senza le necessarie bonifiche (come ad esempio a Santa Giulia a Milano), sia il Meridione, in cui il circuito dei rifiuti gestito dalla malavita organizzata ha riversato sul territorio ogni tipo di veleno. Un paese civile non può continuare ad abbandonare intere popolazioni al rischio di morbilità o di malattie ereditarie. Ripristinare la legalità serve alla salute di un paese smarrito.
Del Ponte si parla dal 1969. Ma fin'ora non è stata messa neanche una pietra. Secondo la Corte dei Conti, tra il 1986 e il 2008, è costato poco più di 200 milioni di euro. Ma tra trivellazioni, progetti e personale la cifra totale dovrebbe arrivare al doppio. Eppure si continua a spendere senza risultati: la Regione Calabria è pronta a finanziare i primi corsi di formazione professionale
É fatto di carta. Non si stufano mai di disegnarlo, di ritoccarlo nel suo slancio a una o due o a tre campate verso l'isola, d'immaginarselo indistruttibile mentre sotto un bombardamento nucleare la Sicilia e la Calabria sprofondano nel mare ma il loro Ponte resta lì intatto e perfetto, sospeso per miracolo nell'aria. Abbiamo pagato anche per questa prova di resistenza: lo studio "su un ipotetico attacco atomico". Paghiamo sempre per il Ponte che non c'è. L'altro giorno ci hanno presentato l'ultimo conto: 454 mila euro.
La regione Calabria è pronta a finanziare i primi corsi di formazione professionale per "preparare" otto tecnici che, a loro volta, dovrebbero "preparare" tutti i dipendenti che saranno assunti per aprire un cantiere o per distribuire gli stipendi alle maestranze. Il Ponte è un abbaglio lontano ma l'agenzia "CalabriaLavoro" ha già pubblicato il suo bando. Vogliono subito un esperto giuridico, tre informatici, due amministrativi, un valutatore e un revisore contabile. Ed è solo il primo, di bando. Quei furbacchioni di Catanzaro e di Reggio hanno annunciato tutti contenti che ne stanno sfornando un altro. Vogliono al più presto pure "gli addetti alla manutenzione dell'opera". Molto previdenti. Già pensano alla salsedine che aggredirà i piloni o i binari dove sfrecceranno i treni. Lo chiamano Ponte ma lo sanno tutti che è un pozzo. Se ci sta costando così tanto e ancora non c'è, quanto ci costerà il giorno quando - chissà quando - vedremo unite Scilla e Cariddi?
Non c'è. Qualcuno però dà a intendere che prima o poi ci sarà. Fino ad ora è servito solo per divorare soldi. I giudici della Corte dei Conti calcolano che siano stati spesi dal 1986 al 2008 poco più di 200 milioni di euro, c'è chi dice invece che i milioni sono quasi 300 e, se si aggiungono i costi delle trivellazioni degli ultimi mesi, la cifra totale dovrebbe sforare i 400. Numeri che ballano ma poi mica tanto. Quasi tutto il denaro è sparito in progetti. E in altri progetti. Sempre nuovi progetti. Ultimi. Finali. Definitivi.
E' una (carissima) visione onirica che ci insegue da quarant'anni - era il 1971 quando la legge numero 1158 prevedeva la costituzione della Società Stretto di Messina "per la realizzazione e la gestione del collegamento stabile fra la Sicilia e la Calabria" - e che ha fatto crescere quest'albero della cuccagna che ha arricchito le solite cricche di ingegneri e architetti, ha ingrassato eserciti di specialisti e consulenti, che ha scatenato gli appetiti di malavitosi perennemente in agguato sulle due sponde per accaparrarsi appalti. Due anni prima di quel 1971 era stato bandito dall'Anas e dalle Ferrovie dello Stato il "concorso di idee", 143 i lavori presentati: 125 firmati da italiani, 8 da americani, 3 da inglesi, 3 da francesi, poi ce n'erano anche uno tedesco, uno svedese, uno argentino e uno somalo. Tunnel a mezz'acqua ancorato al fondo con cavi di acciaio. Ponte sospeso a luce unica. Galleria sotterranea.
Da quel momento è stato un trionfo di carte e di soldi, di soldi e di carte. Si comincia subito a mangiare. Il compenso per il vincitore al "concorso di idee" - come ricorda Daniele Ialacqua di Legambiente in un saggio (C'era una volta il Ponte sullo Stretto, storia vera ma tragicomica) che sarà in libreria il prossimo dicembre - era di 15 milioni ma poi i vincitori risultarono a sorpresa 6 ex aequo. Per il secondo classificato erano previsti 3 milioni, ma anche i secondi furono 6. Se ne andarono così i primi 108 milioni di vecchie lire.
Dei soldi ingoiati vi stiamo già anticipando qualcosa. Delle carte del progetto preliminare vi possiamo rivelare subito quanto pesano: centoventi chili. Più di un quintale di schizzi e mappe chiusi in un baule. E' un'avventura che non finisce mai. Una caccia al tesoro permanente. Dopo i corsi i concorsi, dopo i concorsi le selezioni, dopo le selezioni le convenzioni. Come quella a inizio estate 2011, laureandi e neolaureati delle Università di Messina e di Reggio, dodici studenti scelti a ogni edizione del Programma Atlantis "per raccogliere dati ambientali da sensori fissi e mobili". Tirocinio di formazione e di orientamento, spesa al momento sconosciuta ma molto sbandierata la collaborazione con l'università spagnola di Cordova e con il Centro di Studi Integrati del Mediterraneo. In nome del Ponte è stato ideato pure un nuovo corso triennale in informatica, con rilascio del doppio titolo di laurea in Italia e negli Usa. Sono pronti a venire "aggiornati" al più presto anche notai calabresi e geologi siciliani, avvocati, biologi, studiosi delle correnti marine e dei venti.
E' la frenesia per avere in fondo all'Italia "l'ottava meraviglia del mondo". Quella che porterà lavoro a 40 mila disoccupati per 5 o 6 anni e forse anche di più. Le finanze pubbliche ormai non possono garantire un solo euro per costruirlo ma intanto quelli del Ponte assumono e spendono, studiano, analizzano, controllano, esaminano, ricercano. Soldi pubblici, naturalmente. Chi è che ha favorito e chi ancora favorisce questo scialo infinito?
Alla fine di luglio Bruxelles ha cancellato il Ponte cambiando la geografia europea delle grandi infrastrutture (la commissione Ue ha ridisegnato gli "assi di comunicazione" sostituendo il corridoio Berlino-Palermo con quello Helsinki-La Valletta, quindi eliminando praticamente dai suoi piani strategici l'opera fra la Sicilia e la Calabria) ma la "Stretto di Messina spa" ai primi di settembre ha fatto pubblicare su tutti i quotidiani siciliani e calabresi un avviso: "Dichiarazione di Pubblica Utilità del progetto definitivo del Ponte sullo Stretto". Avverte la popolazione che stanno cominciando le procedure per gli espropri. Non si fermano più. E più si allontana l'ipotesi del Ponte e più loro si accaniscono e mettono mano al (nostro) portafoglio.
Come nel giugno del 2006 quando il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi - premier era Prodi - aveva spiegato che il Ponte "non era nelle priorità del governo" ma in Sicilia e in Calabria aprirono in quegli stessi giorni due Info Point, a Villa in via Garibaldi civico 68 e 70 e a Messina in via San Martino 174, per comunicare a tutti che avrebbero visto alzare i primi piloni del Ponte nel secondo semestre del 2007 e l'isola non sarebbe più stata un'isola all'inizio del 2012. Appartamenti e hostess (e arancine e succhi di frutta per i visitatori più influenti) tutti pagati dalla società pubblica "Stretto di Messina spa" con lo scopo "di favorire i rapporti con le comunità e le istituzioni locali e per offrire informazioni sul progetto e sullo stato di avanzamento dei lavori". Due anni dopo - dicembre 2009 - c'è stata "la posa della prima pietra" nella borgata calabrese di Cannitello, proprio davanti ai laghetti di Ganzirri. Qualche ruspa che ha spianato un terreno, le foto di rito, una cerimonia un po'sotto tono che non ha entusiasmato quelli della "Stretto di Messina spa". Faranno un'altra "posa della prima pietra" fra il 2012 e il 2013. Magari dall'altra parte, in Sicilia.
E questa società pubblica, la "Stretto di Messina spa", che è la fabbrica del Ponte di carta. E da quarant'anni è come un bancomat. Nasce nel 1981 - il governo Cossiga nomina presidente della società l'avvocato onorevole Oscar Andò - con 25 dipendenti e nel 2006 paga già 102 stipendi. Più il Ponte sembra un miraggio e più la "Stretto di Messina spa" spende e spande, s'ingrossa, interpella "esperti", commissiona sondaggi, ingaggia "professori" indigeni e stranieri, noti e meno noti. I consulenti locali, con il Ponte che non c'è, si sono fatti la villa con vista Calabria o con vista Sicilia.
Gli anni "felicissimi" sono stati quelli che vanno dal 2001 al 2006. Le spese totali della società sono state di 88,903 milioni di euro. Dal milione 924 mila euro del 2001 (6 milioni 728 mila nel 2002; 12 milioni 005 mila nel 2003; 18 milioni 844 mila nel 2004; 10 milioni 767 mila nel 2005; 20 milioni 845 mila nel 2006) ai 17 milioni 790 mila nel 2007. Prendiamo un anno a caso, il 2005. Ecco come quell'anno sono stati spesi i fondi.
Sono 5 i milioni e 719 mila euro "per le prestazioni professionali di terzi". Un milione e 479 mila euro sono stati impiegati "per emolumenti e spese amministratori". La propaganda e la pubblicità è costata 1 milione 187 mila euro. Per "viaggi e trasferte del personale" hanno messo in bilancio 280 mila euro. Per i buoni pasto dei dipendenti 172 mila euro. Per la vigilanza degli uffici 215 mila euro. Per fotocopie "e lavori eliografici" 78 mila euro. Per trasporti "e facchinaggi" 59 mila euro. Per acqua, luce e riscaldamento degli uffici 113 mila euro. Per "riproduzione di foto e filmati" 48 mila euro. Per "pulizie e igiene uffici" 64 mila euro. Per spese postali e telefoniche 112 mila euro. Per assicurazioni 184 mila euro. Per manutenzioni non meglio specificate 232 mila euro. Per il personale "distaccato" (non si sa dove) 175 mila euro. Per gli emolumenti e spese del collegio sindacale 212 mila euro. Per i compensi della revisione del bilancio 48 mila euro. Per i corsi di aggiornamento professionale 42 mila euro. Per "il rimessaggio e spese varie veicoli" 103 mila euro. E infine, alla vaghissima voce "altri costi per servizi", 245 mila euro.
Ci sono state impennate impressionanti. Anche del 500 per cento. Come quella della "pubblicità", che è passata dai 110 mila euro del 2002 al 1 milione 480 mila euro nel 2004. Per la sede di Roma la "Stretto di Messina spa" aveva affittato in via Po un appartamento di 3600 metri quadrati su quattro piani: 900 mila euro l'anno. Quando Prodi ha chiuso i rubinetti, hanno cambiato sede per risparmiare: via Marsala, 1200 metri e 600 mila euro l'anno di canone. Tutto per un Ponte di carta.
Nel 2005 i dipendenti della "Stretto di Messina spa" erano 85: tredici dirigenti e settantadue impiegati. Che cosa avranno fatto mai quei tredici dirigenti e quei settantadue impiegati sei anni fa per realizzare il sogno di Giuseppe Zanardelli (1876, "Sopra i flutti o sotto i flutti la Sicilia sia unita al Continente), di Benito Mussolini (1942, "E' tempo che finisca questa storia dell'isola: dopo la guerra farò costruire un ponte"), di Bettino Craxi (1985, "E' un'opera da primato mondiale"), di Silvio Berlusconi (2005, "Così si potrà andare dalla Sicilia anche di notte e se uno ha un grande amore dall'altra parte dello Stretto potrà andarci anche alle 4 del mattino senza aspettare i traghetti") e soprattutto della benemerita società "Stretto di Messina spa"?
Quel 2005 è stato un anno decisivo per il destino del Ponte. Andatevi a rileggere le voci del bilancio e vi accorgerete che quella più consistente - 5 milioni e 719 mila euro - riguardava "prestazioni professionali di terzi". I famigerati consulenti. Volete sapere come quegli scienziati hanno contribuito a portare avanti il grandioso progetto? Uno che era a capo di un istituto di ricerca è stato pagato per scoprire "quale era l'impatto emotivo", sui reggini e sui messinesi, una volta che il ponte li avrebbe uniti per sempre. L'hanno pomposamente catalogata come "Indagine psico-socio-antropologica sulla percezione del Ponte presso le popolazioni residenti nell'area interessata alla costruzione". Al dipartimento di Biologia animale dell'Università di Messina hanno affidato "uno studio e un monitoraggio sulle caratteristiche chimico-fisiche delle acque dello Stretto e sulle possibili relazioni con i flussi migratori dei cetacei". All'Istituto Ornitologico Svizzero hanno dato incarico "per un'investigazione radar delle specie di uccelli migratori notturni e per catalogare con la massima precisione le quote di volo, le loro planate e le loro picchiate". Quanto ci sono costati gli studi sulle evoluzioni del falco cuculo e della poiana codabianca nel cielo fra Reggio e Messina?
In sette anni - dal 2001 al 2007 - hanno speso 21,3 milioni per consulenze e 28,8 milioni per il personale. Nel 2006 ciascun dipendente è costato mediamente 930 mila euro. E' proprio quando il governo Prodi ha sospeso la realizzazione del Ponte. In quei mesi la società "Stretto di Messina" ha allargato il suo organico con 17 nuove assunzioni.
Ieri come oggi. L'Europa dice no all'opera ma la regione Calabria subito apre la cassaforte per mettere sul Ponte otto "professionisti". Niente cambia. Dal vecchio Oscar Andò che ha resistito nove anni alla guida della società alla nomina firmata nel 1990 dal presidente del Consiglio Andreotti di Nino Calarco (ex senatore democristiano e direttore della Gazzetta del Sud), fino al presidente dell'Anas Piero Ciucci messo a capo del consiglio di amministrazione nel 2002 da Berlusconi. La società "Stretto di Messina spa" è sempre lì. La leggenda del Ponte di carta deve continuare.
Il Parlamento parla, come no. O meglio strepita, gesticola, s'azzuffa; ma decisioni nisba. Appena 42 leggi d'iniziativa parlamentare approvate in questa legislatura, però soltanto una negli ultimi 6 mesi. Se aggiungiamo quelle scritte sotto dettatura del governo (i tre quarti del totale), la cifra cresce un po', ma poi neppure tanto. È il capitolo - per esempio - dei decreti legge, sparati a raffica dal IV gabinetto Berlusconi con una media di 2 provvedimenti al mese; ma guardacaso adesso non ce n'è più nemmeno uno da convertire in legge.
Sarà che sono tutti stanchi, deboli, influenzati. O forse dipenderà dal fatto che il Parlamento, per questa maggioranza, è diventato un luogo di tortura. Troppo pericoloso mettergli carne sotto i denti, quando alla Camera ti capita d'andare sotto per 94 volte (l'ultimo episodio mercoledì). E meno male che t'aiuta l'opposizione, le cui assenze - come ha documentato Openpolis - sono risultate determinanti nel 35% delle votazioni. Sicché come ti salvi? Rinviando tutto alle calende greche. Anche i provvedimenti che stanno a cuore al premier, come la legge sulle intercettazioni: sparita dal calendario dei lavori. La Conferenza dei capigruppo ha avuto un soprassalto di prudenza, e ha deciso di non decidere.
Non che le Camere abbiano ormai chiuso i battenti. Nell'arco della XVI legislatura si contano 535 sedute per i deputati, mica poco. Ma a quale scopo? Per ascoltare annunci di riforme che non vedranno mai la luce, come l'obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, cancellato anch'esso dal calendario di novembre. Per votare mozioni (539), risoluzioni (96), atti d'indirizzo: insomma, chiacchiere. O altrimenti per esprimere fiducia nei riguardi del governo, un tormentone che fin qui si è ripetuto in 51 casi. Trasformando l'esecutivo in un fidanzato trepidante: mi ami, ti fidi del mio amore? Dimmelo di nuovo, la volta scorsa non ho sentito bene.
È la parabola finale della legislatura: un governo commissariato dall'Europa, un Parlamento commissariato dal governo. D'altronde è proprio così che è cominciata. Negando alle assemblee legislative il loro mestiere principale, spostando l'officina delle leggi nei sottoscala del governo. Con i decreti legge, ma soprattutto con i decreti legislativi: 143, in media 4 al mese. Oppure sequestrando le due Camere con i maxiemendamenti, che oltretutto rendono le nostre leggi assolutamente incomprensibili. Ora siamo all'ultima stazione: siccome il governo non si fida più della propria maggioranza, ha deciso di mandare il Parlamento in quarantena.
Un bel guaio per la democrazia italiana, non foss'altro perché si spegne l'unica sede istituzionale in cui le opposizioni hanno spazio e voce. Perché inoltre l'eclissi delle Camere sbilancia il sistema dei poteri, togliendo un contrappeso al peso del governo. Perché infine la loro inerzia semina discredito sulla forma di governo, dunque sulla Costituzione che l'ha disegnata. Ma almeno in questo caso la responsabilità è tutta politica, non delle istituzioni. Non è vero che il Parlamento sia sempre un treno a vapore: nel luglio 2008 il lodo Alfano venne licenziato in 4 settimane. È vero tuttavia che questo Parlamento giace su un binario morto. E a questo punto non servono più cure, ci vuole un'autopsia.
Partiamo da un numero: 1000 miliardi di euro, una cifra stratosferica, quasi 4 volte il debito pubblico greco. Mille miliardi è la somma che il Consiglio d'Europa ha deciso di impegnare per la salvezza del sistema finanziario europeo. Non c'è da stupirsi che ieri le borse abbiano fatto baldoria con guadagni clamorosi in una fase della congiuntura mondiale che non spinge di certo all'ottimismo. Il sistema è salvo, scrivono i commentatori. Ma quale sistema? Ieri il manifesto ha pubblicato con grande rilievo una notizia di fonte Credit Suisse, una della banche più accreditate del sistema finanziario: nell'ultimo anno meno dell'1% della popolazione mondiale ha «arraffato» il 39% della ricchezza globale, quasi il 4% in appena dodici mesi. Se non bastasse, l'Ufficio del bilancio del Congresso Usa ci ha fatto sapere che negli ultimi 28 anni il reddito dell'1% della popolazione più ricca è salito, in termini reali, del 275%, mentre quello del 20% della popolazione più povera di appena il 18%. Insomma , la forbice della distribuzione dei redditi si sta allargando.
Questi numeri (uniti ai 1000 miliardi) sono la conferma che il bailout, cioè la ciambella di salvataggio ha funzionato a senso unico salvando (quasi banale ripeterlo) chi la crisi del 2008 aveva provocato. Anzi, rendendolo più ricco. Ma c'è un altro aspetto niente affatto secondario: questi numeri smentiscono la vulgata che indicano nella globalizzazione la soluzione di ogni problema. Al contrario è «questa» globalizzazione che ha portato al trionfo della finanza e allo schiacciamento dei diritti delle persone. Ieri Gianni Rinaldini ha scritto che «in questi anni c'è stato un quotidiano smantellamento di ciò che conferisce al lavoro umano una condizione diversa da una merce». La lettera spedita da Berlusconi al Consiglio d'Europa ne è la conferma.
Con una premessa: in quella lettera poteva esserci scritto qualsiasi cosa: i 27 avrebbero dato in ogni caso la loro benedizione (perché cane non morde cane e quei 27 capi di stato e di governo dovevano salvare se stessi) anche in presenza di impegni evanescenti, coerenti unicamente con la peggiore ideologia liberista. Tipo quella, tanto cara a Sacconi, che solo diminuendo i diritti del lavoro con la libertà di licenziamento, si potrà garantire una maggiore occupazione.
Nella lettera spedita a inizio agosto da Trichet e Draghi a Berlusconi era scritto: «Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento». La replica del governo italiano non si è fatta attendere: «Entro il maggio 2012 l'esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenza di efficienza dell'impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici». Attenzione, per motivi economici anche oggi i licenziamenti, anche di massa, si possono attuare. Basta seguire le regole che prevedono prima la Cig e poi la mobilità. I motivi economici evocati nella lettera sono altri. Significa potersi liberare di un lavorare anziano che guadagna molto di più dei giovani che potrebbero essere assunti al suo posto. Il lavoratore è sempre più «merce» e come tale viene trattato: se viene giudicata troppo cara non lo si compra più e la si allontana dalla produzione e dalla vita.
Nella lettera d'intenti di Berlusconi c'è anche molto altro. A volte grottesco. Tipo: «Il governo trasformerà le aree di crisi in aree di sviluppo». Lo vadano a dire ai lavoratori di Termini Imerese per i quali non è ancora stata trovata una soluzione credibile, non di sviluppo, ma più banalmente di conservazione del lavoro esistente. Una delle promesse che ha raccolto maggiore attenzione è stata quella del pensionamento per tutti a «almeno» 67 anni nel 2026. Ma non si tratta di una novità: con l'anticipo delle norma sulla «speranza di vita» i 67 anni erano già una certezza.
Quello che è certo, invece, è che per i dipendenti pubblici arriveranno tempi «cupi». Su questo punto Brunetta (uno dei «grandi» estensori della lettera) si è scatenato: mobilità obbligatoria; cassa integrazione; superamento delle dotazioni organiche. Tradotto: la Pubblica amministrazione sarà ridotta all'osso per cedere le sue attività (come sta già accadendo con la complicità di direttori generali di nomina governativa) ai privati.
Questa lettera ai potenti piace perché protegge le elite dominanti e disprezza la vita del 99% (o giù di lì) della popolazione. La sola speranza è che rimangano impegni presi sulla carta perché Berlusconi e i suoi ascari non hanno la forza per realizzarli. Speranza è anche che il futuro governo sappia fare di meglio. Ma più di un dubbio è autorizzato considerati i ripetuti applausi ricevuti dalle richieste delle autorità europee all'Italia. Anche dalle forze di opposizione, anche dai richiami rivolti agli opposti schieramenti politici dal presidente della repubblica. Berlusconi potrebbe essere sostituito con un governo tecnico che porti a compimento il massacro.
Il presidente di Confesercenti, Valter Giammaria, riguardo il caos dovuto all’apertura del megastore di via Riano, ha dichiarato: “La Confesercenti provinciale di Roma stigmatizza e si fa interprete del disagio della città e delle imprese per quanto è accaduto nella giornata di ieri a Roma Nord in occasione dell'apertura di una grande struttura di vendita in zona Ponte Milvio. La Confesercenti chiede al sindaco e all'assessore al commercio Davide Bordoni, di conoscere come è stato possibile trasformare una superficie destinata alla riqualificazione del mercato rionale e dove in precedenza operava una struttura commerciale con più attività presenti, in questo tipo di struttura di vendita.
La riqualificazione dei mercati rionali è un argomento che riteniamo importante per l'economia della città e non può divenire occasione per snaturare l'obiettivo principale facendone strumento per ulteriori spazi alla grande distribuzione. Inoltre riteniamo che l'evento di inaugurazione e quanto è accaduto con il blocco dell'intero quadrante della città sia un fatto grave che non può essere risolto con delle semplici scuse. Ciò dimostra quello che da anni Confesercenti ribadisce in seno alle Conferenze di Servizi in cui chiediamo che sia sempre verificata la compatibilità di queste grandi strutture con il contesto di viabilità dell'area urbana in cui queste vengono attivate: accessibilità, parcheggi, fruibilità”.
Confesercerti “ribadisce la necessità di arrivare al più presto alla definizione del Piano Urbanistico Commerciale del Comune di Roma, bloccando, da subito e per almeno due anni il rilascio di nuove autorizzazioni per grandi superfici, anche perché la crescita in maniera selvaggia e senza programmazione di grande distribuzione contribuisce alla chiusura di migliaia di piccole e medie attività con la conseguente perdita di posti di lavoro, cosa a cui stiamo assistendo in questi anni nella nostra città”.
postilla
Non per voler fare a tutti i costi il bastian contrario, ma non pare proprio che alla intuizione di un problema sia seguita in questo caso una risposta adeguata: se programmare meglio il rapporto tra forma urbana e flussi generati dal consumo significa blocco di autorizzazioni, e in sostanza l'ennesima guerriglia tra esercizi locali e grandi catene, non si andrà proprio da nessuna parte, salvo forse sui tempi medi desertificare ulteriormente le zone centrali e favorire la crescita dei complessi ad orientamento automobilistico esterni e il relativo spreco di superfici. Nel caso specifico, ma non solo, il problema è stato creato dal rapporto perverso tra consumi e mobilità: come già Veltroni aveva platealmente dimostrato di non capire (faremo la metropolitana per andare ai centri commerciali) esiste un legame indissolubile tra formati commerciali, tipo di spesa, mobilità privata. Ed è su questo fronte che occorrerebbe intervenire, magari anche attraverso cose che sembrano non avere alcun rapporto diretto col territorio, magari usando intelligentemente le stesse "nuove tecnologie" che applicate al solo svuotamente del portafoglio, o a santificare chissà perché Steve Jobs, sfruttiamo tanto male (f.b.)
la Repubblica Milano
Un tour di venti appuntamenti per spiegare il nuovo Pgt
di Oriana Liso
Venti incontri serrati, a partire da martedì, tra l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris e la città metropolitana: associazioni, categorie produttive, enti amministrativi. Tema: il Piano di governo del territorio, le regole da riscrivere, la Milano del futuro. Una serie di confronti, prendendo a modello quelli per la questione Ecopass, che porteranno al testo definitivo della delibera di revisione, che arriverà in Consiglio comunale non prima di gennaio. Ma già ora il Pgt è terreno di scontro politico, con l’opposizione - cioè l’ex maggioranza che aveva disegnato il piano - che attacca nel merito e nel metodo la giunta Pisapia. Lo scontro, verbale, investe soprattutto i due assessori della partita - la De Cesaris e il suo predecessore Carlo Masseroli, ora capogruppo Pdl - con la prima che respinge al mittente le accuse di decidere tutto «nelle segrete stanze» del secondo.
Per ora quel che c’è - con le 4.765 osservazioni al Piano quasi del tutto riesaminate - sono bozze di documenti di lavoro, «necessari a una istruttoria dell’argomento, in cui registriamo tutti gli elementi che via via emergono: dopo aver deciso la revoca in giunta lavoriamo da tre mesi a una serie di valutazioni», ha spiegato ieri l’assessore ai consiglieri riuniti in commissione Urbanistica. Qualche certezza, pur in un percorso ancora tutto da definire, si sta già facendo largo: il tunnel da Linate a Expo, per esempio, non ci sarà, e sul Parco Sud c’è l’impegno netto a non costruirvi nulla né a utilizzarlo come "terreno di scambio" per volumetrie da trasferire altrove, come invece era previsto dal vecchio piano (uno dei punti più controversi). Ancora tutto aperto, invece, il discorso sugli indici edificatori, che dovrebbero essere differenziati da un minimo di 0,35 a un massimo di 1, mentre la questione delle aree degli scali ferroviari dismessi viene affrontata parallelamente nell’accordo di programma in via di definizione con le Ferrovie dello Stato (e in questo ambito verrebbe anche affrontata la questione "circle line", l’estensione della tramvia leggera su cui i dubbi sono soprattutto di sostenibilità economica).
Sul resto, appunto, il confronto è ancora da fare, per quanto di sicuro gli uffici, assieme alla commissione di esperti del Pim, siano arrivati già a definire una bozza avanzata di linee guida. Il problema vero è capire quanto le osservazioni - di fatto escluse dal Pgt dalla giunta Moratti - possano trasformare il volto del documento programmatico sul destino urbanistico di Milano. Perché se questa trasformazione fosse di sostanza - come tifano associazioni ambientaliste e non solo - i tempi per l’adozione definitiva potrebbero allungarsi parecchio, con la possibilità di una nuova pubblicazione con successiva fase di confronto con la città (tre mesi, come la prima volta), e un nuovo passaggio in Consiglio comunale. Un allungamento che potrebbe ridursi se - come previsto dal documento di lavoro del Pim - le osservazioni venissero fortemente aggregate per temi.
In aula, comunque, approderà il 17 novembre la delibera di revoca del vecchio piano, assieme probabilmente al documento di indirizzo politico sul nuovo Pgt che l’assessore De Cesaris ha presentato due settimane fa ai partiti della maggioranza (con qualche malumore dai partiti stessi per i tempi compressi del dibattito). Un documento su cui ieri il presidente della commissione Urbanistica Roberto Biscardini, del Pd, ha chiesto che ci sia il voto in aula, perché «l’approvazione di quel documento è un fatto politico, perché contiene il profilo strategico per l’esame delle osservazioni e indica con chiarezza la scelta di questa amministrazione di cambiare profondamente il Pgt».
Corriere della Sera Milano
Nuovo Pgt, il Pdl attacca la giunta
di Rossella Verga
Bagarre in commissione Urbanistica sul documento segreto che detta le linee guida per l'esame delle osservazioni al Pgt. Il testo, 32 pagine mai arrivate ai consiglieri, pone le premesse per modificare in maniera sostanziale il Piano di governo del territorio immaginato dall'ex assessore, Carlo Masseroli, e per le opposizioni si tradurrà in una battaglia in aula e in una paralisi per la città. Uno dei nodi principali riguarda l'esame delle 4.765 osservazioni che la giunta Pisapia ha deciso di rivalutare e che verranno affrontate sulla base di una «riaggregazione tematica» contestata dal centrodestra. L'impianto generale del Piano verrà modificato. La bozza elaborata dalla Consulta del Pim, su cui stanno lavorando ora gli uffici, prevede una riduzione delle volumetrie (l'indice edificatorio unico passa a 0,35 di base, con la previsione di alcune premialità che possono far arrivare a 1), la cancellazione del tunnel Expo-Forlanini, la correzione dei passaggi sul Parco Sud che non produrrà più volumetrie da far atterrare altrove. La circle line, definita dagli estensori del documento «altro nodo», è a rischio. «Secondo Rfi — si legge — andrebbe in conflitto con l'attuale servizio». In più mancano le risorse economiche.
L'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, è stata investita ieri dalle polemiche dell'opposizione, ma anche dai malumori nella maggioranza. «Non c'è nessun documento segreto — assicura — ma sono una serie di documenti di lavoro istruttorio in cui registriamo tutti gli elementi emersi. E' stata divulgata illegalmente una copia interna degli uffici». «Dopo aver deciso la revoca in giunta — aggiunge — sono tre mesi che stiamo lavorando a una serie di valutazioni, e si stanno considerando vari scenari». De Cesaris precisa che dal 2 novembre partiranno gli incontri con gli operatori «e solo dopo si arriverà al documento conclusivo che verrà portato in consiglio».
Spiegazioni che però non convincono il centrodestra e che scatenano in commissione Urbanistica una rissa verbale tra maggioranza e opposizione. «Le regole devono essere chiare — attacca Carlo Masseroli del Pdl, il papà del Pgt votato dalla precedente amministrazione — Siamo di fronte a documenti pubblici in cui si scrivono cose generali e a documenti privati nei quali vengono definiti gli aspetti veri. Per di più per modificare il Pgt ci si affida a un gruppo di architetti che recepisce solo le osservazioni di alcuni». Per Masseroli, ci vuole «garanzia della trasparenza dei percorsi per evitare confusioni e allungamenti dei tempi: sarebbe un disastro per l'economia milanese». Il rischio paventato è quello di «ricorsi e controricorsi». «Non può essere una loggia di architetti privati — rincara — a dettare le regole alla pubblica amministrazione. Così si commissariano gli uffici».
Dura anche Mariolina Moioli, di Milano al centro. «Qui si stravolge tutto — sottolinea — L'assessore nega che ci sia un documento segreto, io ho letto 32 pagine che non parlano di feste o di cioccolatini ma che disegnano la città del domani». Manfredi Palmeri, consigliere del Nuovo Polo per Milano, insiste sulla necessità di riesaminare tutte le osservazioni. «L'accorpamento non mi piace — dice — perché non mi piacciono i pasticci. In aula abbiamo ascoltato il parere gli uffici: come potrebbero adesso smentire se stessi sulle medesime osservazioni? Si vuole avere l'autostrada spianata dalla delibera di adozione, ma non è possibile tecnicamente».
CALAMITÀ MORALE
di Franco Arminio
Sospeso sulle argille/ di una vecchia collana,/ il paese perde le sue perle,/frana. Può essere ottobre o maggio, può essere la Liguria o la Calabria, la scena si ripete e la pioggia porta via i muri, le macchine e qualche volta anche le persone. Ogni volta si leva il lamento sull'assenza di prevenzione, poi cala il silenzio, in attesa della prossima sciagura. E invece la sciagura è sempre in corso, la frana non finisce mai, lo smottamento è perenne e quando non porta via le case, comunque apre crepe, distende altri fili nella ragnatela delle faglie. L'Italia è un paese fragilissimo che scompare mano a mano che viene costruito. Ogni volta che vedo una betoniera mi viene un dolore allo stomaco, sento che quel cemento va a coprire un altro poco di terra. Ormai siamo una penisola di cemento in mezzo al mare. La terra in certe zone sembra avere le ore contate. E l'acqua batte ovunque, può essere la capitale o il paese più sperduto dell'Appennino: il risultato è sempre lo stesso: fango nelle cantine, alberi in gita lontano dalle loro radici, un paesaggio rotto, incapace di ricordarci che non è questione di piccole inadempienze, ma di un modo di abitare il mondo che qui da noi ha i tratti conclamati del delirio. Certo, ce la possiamo prendere coi cittadini che si fanno le case in zone pericolose e con chi glielo permette, possiamo immaginare che lo Stato si faccia avaro e non rimborsi i danni, ma comunque non si risolve molto. E piuttosto che dichiarare lo stato di calamità naturale, che va ad alimentare la sempre fertile economia della catastrofe, bisognerebbe dichiarare lo stato di calamità morale. Ed è uno stato ormai perenne, con o senza piogge fa i suoi danni ogni giorno. E li fa nella civilissima Liguria allo stesso modo che nelle terre delle mafie.
L'Italia è divisa su tutto, ma è unita dalla frane. Le frane di cui parliamo fanno scalpore perché ci sono vittime, perché un paese in bilico è a suo modo spettacolare. La frana più grande è stata la fuga degli abitanti dall'Appennino e la discesa a valle dei paesi. Come se chi fosse rimasto avesse bisogno di abitare un luogo che in qualche modo scimmiottasse la città. Praticamente ogni paese alto ha sempre una periferia lungo la strada nazionale. I paesi si sono duplicati. E quello in alto è quasi sempre un museo delle porte chiuse, un gioiello dell'agonia. Oltre alle case, è vuota anche la terra intorno.
Gli italiani hanno fatto di tutto per non essere più contadini e ci sono riusciti. Lo sanno tutti che la terra coltivata attenua l'impatto delle piogge, ma oggi coltivare la terra è un lusso per ricchi. E l'attenzione della politica ai problemi dell'agricoltura è testimoniata dalla nomina del ministro attuale che nella sua vita si è occupato di ben altro. Il panorama è ugualmente desolante se pensiamo alle politiche sui piccoli paesi. Ormai da anni viene approvata una leggina in un ramo del parlamento e poi puntualmente si ferma per strada. L'anno scorso la Camera ne ha approvate due, ma lo stanziamento complessivo è di soli cento milioni di euro. Non mi risulta che il Senato abbia affrontato l'argomento. Nell'italietta televisiva una legge sui paesi non fa gola a nessuno. Sarebbe ora che gli abitanti che sono rimasti sui paesi si sollevassero per reclamare misure a difesa del territorio, ma i paesi sono governati dalle stesse logiche che hanno i dinosauri del parlamento. Una piccola borghesia fangosa che imbratta con furbizie e intrallazzi ogni cosa.
Sarebbe il momento di reclamare alcune semplici norme, prima fra tutte lo stop al consumo di suolo agricolo. Una norma che suona inconcepibile ai tromboni dello sviluppo e della crescita che abitano tutte le contrade politiche. E allora le frane, come gli incidenti stradali e altri disastri ordinari, fanno parte di questa apocalisse diluita che chiamiamo società civile. Nessuno si illuda di essere a riparo, oltre alle frane che muovono la terra, ci sono le frane mediatiche che hanno portato nelle nostre case la poltiglia di un consumismo cieco e avvilente. Non servono solo geologi e opere di ingegneria naturale, serve passione per il bene comune, ardore politico, serve l'ammissione che ogni giornata in un mondo del genere è un fallimento. La pioggia diventa una sorta di marker tumorale, rivela impietosamente che il nostro paesaggio è malato, è malato il nostro modo sempre più autistico di abitarlo. Siccome non possiamo chiedere alle acque di placarsi, siccome non possiamo addomesticarle, allora è il caso di non prendersela coi metereologi che sbagliano le previsioni, dobbiamo prendercela con le leggi che consentono anche a chi non è agricoltore di farsi la casa in campagna. Nei piccoli paesi è rimasta poca gente e se ne vede pochissima in giro perché abitano quasi tutti in campagna, nelle case sparse. Il lavoro nei campi è stato abbandonato, ma la piantagione delle villette non accenna a diminuire.
SOLO PIANI CASA,
ZERO ATTENZIONE PER IL TERRITORIO
di Paolo Berdini
Sono lontane le colline dell'Appennino ligure dai luoghi della politica dove si sta discutendo se approvare il quarto condono edilizio; se estendere ancora i benefici del piano casa; se rendere automatica la possibilità di costruire dovunque.
Lì c'è un territorio tormentato, bello e fragile che dovrebbe essere sottoposto a manutenzione continua. Ci vogliono risorse, ma non sono spese improduttive: sono un investimento per il futuro delle nuove generazioni. Ma, ci dicono, non ci sono soldi e nelle stesse ore in cui è venuto giù un intero territorio, in cui sono interrotte due autostrade, strade e ferrovie, in cui l'Italia si paralizza, la maggioranza di governo ha un'unica idea: spianare la strada a nuovo cemento. Come se quello fin qui realizzato non sia ancora sufficiente. Basta leggere le pagine di Marco Preve e Ferruccio Sansa (Il partito del cemento) e la Colata) dedicate alla Liguria: una serie interminabile di soprusi e speculazioni. Nel capitolo sulle Cinque terre si legge: «Per capire cosa stia succedendo bisogna arrivare a Corniglia. Il muraglione sotto la ferrovia ha una crepa lunga venti metri. E sulle rovine del vecchio Villaggio Europa sta per sorgere un albergo di 140 posti letto».
Sarà venuto giù quel muraglione, come gran parte dei meravigliosi muri a secco da troppo tempo abbandonati da uno sviluppo cieco. Il presidente della regione Liguria Claudio Burlando ha affermato: «Stiamo evacuando il maggior numero di gente possibile e ci stiamo rendendo conto di persona del disastro». Poteva cimentarsi ad evacuare una parte del cemento e dell'asfalto che ha devastato negli ultimi quindici anni la Liguria e l'Italia. L'Istat ha certificato il volume che è stato costruito dal 1995 a oggi: oltre 3 miliardi di metri cubi.
Una quantità mostruosa che grazie all'urbanistica contrattata è stata realizzata dappertutto. Sugli alvei fluviali; sulle zone in frana; sulle aree sismiche. Così, con tragico rituale piangiamo vite spezzate e territori cancellati. Nel 1994 alluvione ad Asti: settanta morti. 1996 straripa il Versilia, tredici vittime; l'Esaro a Crotone, 6 vittime. 1998, Sarno viene sommersa dal fango: 160 vittime. 2000, il torrente Suvereto cancella un campeggio di ragazzi: tredici vittime. Sempre nel 2000 la grande alluvione del Piemonte: oltre 30 morti. Nel 2008 quattro vittime in val Pellice e sei a Capoterra in Sardegna. 2009, a Giampilieri scompare una collina portando con se trentasei vittime. Una settimana fa Roma è rimasta paralizzata. E ogni volta tocca vedere i responsabili dello scempio del territorio che con i volti di circostanza si recano sui luoghi per "rendersi conto". Cos'altro ci vuole per rendersi conto?
Continuano a dirci che questo è lo sviluppo. Questa follia è invece una della maggiori cause della crisi economica, se solo si contassero i miliardi di euro spesi negli anni per risanare i danni. La contraddizione che va sciolta al più presto sta nel fatto che è sempre più diffusa una sensibilità dei cittadini che hanno compreso che questo modello di sviluppo ci sta portando al disastro ambientale ed economico e le centinaia e centinaia di comitati che si battono in ogni città contro le cementificazioni, mentre la classe dirigente pensa solo ad aumentare gli scempi.
Ad ogni sacrosanta protesta dei comitati, il grande circo mediatico diretto spesso da coloro che hanno giganteschi interessi nel cemento e nella speculazione immobiliare accusano quei cittadini di essere affetti della sindrome di Nimby. Mentre seminano distruzione del territorio e dell'ambiente, considerano evidentemente una colpa la ricerca della felicità.
“L’unica grande opera infrastrutturale della quale l’Italia ha bisogno non è il Tav o il ponte sullo Stretto, ma è un piano per la messa in sicurezza del territorio”. I due volti televisivi del pensiero ambientalista italiano, Mario Tozzi e Luca Mercalli parlano a una voce sola per commentare quanto accaduto in Liguria e Toscana, dove il maltempo ha messo in ginocchio le regioni provocando morti, dispersi e interi paesi evacuati.
Secondo i due esperti, sul banco degli imputati ci sono cinquant’anni di edilizia selvaggia, nessun piano serio per prevenire il dissesto idrogeologico né tantomeno uno straccio di programma per informare la popolazione sui rischi connessi a questo tipo di fenomeni. “Sono nato il 4 novembre del 1966, il giorno dell’alluvione di Firenze – dice Mercalli – Anche allora ci si fece trovare impreparati. Quarantacinque anni dopo non è cambiato niente. Si piange e si contano i morti quando piove e si fa finta di niente quando torna il sole”.
Negli ultimi 45 anni non solo non è andati avanti a cementificare il territorio come se niente fosse, ma il clima impazzito ha aggredito quei terreni resi negli anni fragili e impermeabili alle bordate d’acqua sempre più forti che piovono dal cielo. Un fenomeno che in molti paesi rappresenta una realtà con cui fare i conti, mentre in Italia viene derubricato a superstizione di qualche cassandra travestita da scienziato.
“La quantità d’acqua che prima cadeva in un mese, oggi cade in un’ora. E questo è uno dei principali effetti dell’innalzamento della temperatura terrestre, perché l’aria è più calda e l’energia termica che viene sprigionata è maggiore. E questo è un fatto, non un’opinione”, sostiene Tozzi.
Parole che dovrebbero fare fischiare le orecchie ai vari Marcello Dell’Utri, Adriana Poli Bortone, Antonio D’Alì e alla pattuglia di senatori della maggioranza protagonisti, poco più di un anno fa, di una serie di mozioni che negavano l’esistenza del cambiamento climatico come conseguenza dell’azione umana. Secondo loro, il climate change è figlio di non meglio precisati fenomeni astronomici e, nel caso esista realmente, porterà “maggiori benefici” che danni. Come gli scenari apocalittici descritti dagli scienziati dell’Ipcc, l’International panel on climate change delle Nazioni unite. Il loro corposo dossier, considerato dal centrodestra italiano come una iattura anti-sviluppista, valse agli esperti dell’Onu il premio Nobel per la Pace nel 2007.
“Eppure la tropicalizzazione del clima ci sta presentando il conto – sostiene Tozzi – A iniziare dalle flash flood (le bombe d’acqua, alluvioni istantanee, ndr) che sono figlie del clima che si surriscalda e si estremizza. Basti pensare alla Liguria dove nei giorni scorsi sono caduti metà dei centimetri d’acqua che in quel territorio cadono in un anno”.
Una posizione condivisa da Mercalli che ricorda quando durante una recente puntata di Che tempo che fa descriveva in diretta i contenuti del dossier sugli scenari climatici messo a punto dalla Svizzera: “Il governo elvetico ha messo in conto al primo punto gli eventi alluvionali intensi e improvvisi che sono scatenati dall’aumento della temperatura, da noi invece si fanno spallucce e scongiuri per poi dichiarare lo stato di calamità naturale”.
Infatti a differenza di Berna in Italia si preferisce costruire gigantesche opere infrastruturali, giudicate inutili dagli esperti e invise alle popolazioni locali, invece che mettere a punto un piano organico per fronteggiare il dissesto idrogeologico. Un settore che “a partire dal 2006 ha visto i fondi dimezzati, mentre si trovano, o si dice di trovare, i soldi per la Torino-Lione o per il ponte sullo Stretto di Messina”, fa notare Tozzi. “Ma la prevenzione – continua il geologo – non solo salva le vite umane – conviene anche dal punto di vista economico: per un euro speso oggi se ne risparmiano sette in futuro”. Al posto di faraonici ponti e gigantesche gallerie, secondo i due conduttori, bisognerebbe aprire mille piccoli cantieri che mettano in sicurezza colline, paesi e letti di fiumi. “Invece noi siamo il paese delle grandi opere che non vedranno mai la luce del sole, degli sciagurati piani casi, della cementificazione selvaggia e soprattutto dei condoni”, sottolinea amareggiato Tozzi.
A fianco della prevenzione l’altro grande assente dal dibattito è l’informazione, che “è morta” secondo Mercalli per lasciare il campo alla semplice emotività nel commentare emergenze e catastrofi. Il meteorologo cita il caso di New York, quando a fine agosto si è trovata a dover fronteggiare la tempesta Irene. Il piano di evacuazione e le informazioni date alla cittadinanza da parte dell’amministrazione Bloomberg hanno fatto sì che in città non si registrasse nessuna vittima. “Quello che sarebbe successo nel Levante ligure si sapeva con 48 ore di anticipo – attacca Mercalli – Se si fosse messo a punto un serio piano di educazione-informazione per i cittadini, come nella Grande Mela, magari non si sarebbero salvati gli edifici, ma di sicuro le vite umane”.
Tuttavia i due conduttori televisivi guardano al futuro con disillusione e quasi all’unisono dicono: “Dopo la tragedia tornerà il sole e anche questa volta ci si dimenticherà di tutto”. In attesa della prossima alluvione o frana accompagnata dalla solita litania giustificatoria. “Che suonerà ancora più grottesca perché eventi di questa portata non sono più né eccezionali né tantomeno imprevedibili”.
La finanza sta lentamente distruggendo la società, cancellando al tempo stesso il problema più drammatico, quel riscaldamento climatico che potrebbe determinare la cancellazione stessa della civiltà umana. Per questo occorre individuare delle strategie che fermino questa macchina di guerra. Un'intervento della studiosa statunitense, ospite all'incontro annuale dell'editoria sociale, che inizierà domani a Roma i suoi lavori
In Europa la crisi finanziaria è quella che preoccupa la maggioranza della popolazione e gode della copertura più ampia sulla stampa, ma non è l'unica. Uomini e donne fanno bene a preoccuparsi della finanza, visto che nella vita reale l'attuale caos finanziario si traduce in alta disoccupazione giovanile, pesanti tagli ai servizi pubblici e in tutte quelle misure di austerità che sono destinate ad aggravare la crisi. Ci troviamo inoltre in una grave crisi di disuguaglianza. In Europa, ma soprattutto negli Stati Uniti, dagli anni Venti o Trenta del Novecento il benessere non è mai stato così mal distribuito. Gli indignados, gli «indignati» hanno completamente ragione a identificarsi con il «99 per cento»: hanno compreso che l'uno per cento al top ha aumentato enormemente il proprio reddito mentre tutti gli altri lo stanno perdendo. Tuttavia, ritengo che la crisi più drammatica sia quella di cui meno parliamo, il global warming e il cambiamento climatico. La crisi climatica avrà infatti gli effetti più profondi sulla stessa civiltà, e in paragone renderà irrilevanti le nostre preoccupazioni finanziarie. Provo a spiegare con un'immagine ciò che intendo.
Immaginiamo che il mondo sia governato da cerchi concentrici o sfere di potere, in cui il più potente sia collocato nella sezione più esterna. Oggi, il cerchio più potente, quello che più influenza le nostre vite, è la finanza. La finanza globalizzata manda letteralmente avanti il mondo, basta osservare la quantità di soldi che le banche hanno ricevuto dai governi (il che significa dai contribuenti, in altri termini da me e da voi). Un recente rapporto stilato dalla Federal Reserve (Fed) americana stima in sedici trilioni di dollari (16.000.000.000.000) la somma di soldi spesi dalla Fed per salvare le banche. Una cifra che non tiene conto di quel che gli inglesi, i tedeschi, i francesi e via dicendo hanno speso per le loro banche. Una cifra di cui non conosco l'esatto ammontare. Immaginiamo comunque che ogni dollaro speso dalla Fed per salvare le banche corrisponda a un secondo sul nostro orologio. Sedici trilioni di dollari, tradotto in secondi, corrisponde a cinquecentomila (500.000) anni.
La voracità della finanza
Le banche, da parte loro, hanno speso grandi somme di denaro per fare lobbying sui governi, affinché rimuovessero tutte le restrizioni ai loro movimenti. Questo tipo di deregulation ha contribuito in modo significativo alla crisi: le banche hanno assunto grandi rischi con i soldi miei e vostri. Dal loro punto di vista, erano nel giusto, dal momento che erano too big to fail e sapevano che i governi sarebbero dovuti intervenire per salvarle, in caso di crollo. Allo stesso tempo, hanno fatto ampio ricorso ai prestiti, spesso assumendo rischi di 30 o 40 dollari per ogni dollaro proprio. Ma nonostante questo sono state salvate senza alcuna condizione. Non hanno dovuto cambiare alcunché nel loro operato e rimangono too big to fail. In questo senso, la finanza è senz'altro il cerchio più ampio, quello collocato all'esterno.
Il successivo cerchio di potere è l'economia reale, dove la gente investe, produce, distribuisce e consuma. Negli Stati Uniti, quest'economia reale riceve soltanto il 20 per cento dell'investimento disponibile, mentre il resto finisce direttamente al settore finanziario. Marx ha fondato la sua analisi sull'economia reale: gli industriali ottengono profitti producendo beni e servizi reali, sfruttando i lavoratori nel processo di produzione e tenendo per sé stessi il surplus di valore. Oggi, non c'è più bisogno che l'economia reale faccia soldi. Negli ultimi venti anni circa, si è potuto ottenere molto di più scommettendo direttamente sui prodotti finanziari e vendendo sempre di nuovo lo stesso prodotto finanziario.
Il terzo circolo di potere è la società, che include il governo, il quale deve obbedire alle regole della finanza e dell'economia. I governi obbediscono a tali regole, anziché fare in modo che siano la finanza e l'economia ad obbedire loro, cosa che porterebbe benefici alla popolazione. I sistemi di protezione sociale e perfino la salute e l'educazione sono sotto attacco ovunque, anche in quell'Europa che si ritiene sia il continente più ricco. Negli scorsi 3 o 4 anni i governi sono diventati sempre più indebitati, soprattutto a causa delle somme che hanno dovuto impiegare per salvare le banche. E oggi ci si aspetta che la gente paghi di nuovo: dopo aver già pagato il salvataggio delle banche, ora deve pagare nuovamente perché i debiti governativi sono troppo alti. L'ultimo cerchio è quello ambientale, la biosfera, un cerchio molto limitato a paragone degli altri tre.
Per la maggior parte dei governi, prendersene cura rappresenta una sorta di lusso, che oggi non ci si può permettere di affrontare. Si tratta di un atteggiamento miope, e tragico. Ora, non sarete certo sorpresi nel sentire che la soluzione a tutti i problemi è semplice da affermare ma estremamente difficile da realizzare. E' la prima volta nella storia umana che la gente è sollecitata a compiere un simile cambiamento fondamentale: dobbiamo capovolgere l'ordine dei cerchi che ho appena descritto. La biosfera deve venire per prima e divenire il più potente dei cerchi, perché è il più potente. Non possiamo contraddire le leggi della fisica e della chimica, e se lo facciamo siamo sicuri di perdere. Non ho mai parlato di «salvare il pianeta» perché il pianeta si prenderà cura di sé come ha fatto per 4 miliardi e mezzo di anni. La vera questione non è tanto se il pianeta sopravviverà, quanto se gli esseri umani in quanto specie sopravviveranno sul pianeta. La conferenza sul cambiamento climatico che si terrà a Durban alla fine del prossimo mese sembra sia destinata a un altro colossale fallimento, alla stregua delle precedenti conferenze di Copenhagen o Cancun. Presto, sarà troppo tardi, se non lo è già. Scienziati molto rispettabili ci suggeriscono che l'aumento della temperatura potrebbe raggiungere i 4 o 5 gradi Celsius e che ciò decimerebbe letteralmente la popolazione umana. Il secondo cerchio sarebbe la società, una società democraticamente organizzata in cui i governi rispondano al popolo e il popolo sia la base della loro autorità.
Una democrazia reale non è possibile fino a quando i governi governano per conto del sistema finanziario. Il cerchio successivo, il terzo, sarebbe la vera economia, con genuini investimenti nel lavoro, nell'educazione e nella salute, e con un alto livello di spesa pubblica e più equi sistemi di tassazione e distribuzione delle rimesse. Preferisco evitare di parlare di società «socialista» o «comunista», così come di qualsiasi altro tipo di società che si presume perfetta, perché sono estremamente diffidente della gente e dei partiti che già credono di sapere esattamente come dovrebbero essere organizzate le future società libere. Spero ci possa essere una varietà di forme organizzative, adeguate alle diverse culture, storie e preferenze. Desidero conservare la biodiversità, e ritengo la sociodiversità un valore positivo. Per ultimo, ci sarebbe la finanza, il più piccolo e fragile dei quattro cerchi: semplicemente uno strumento, tra molti altri, al servizio dell'economia reale, della società e della biosfera. Questo non è - ripeto non è - un progetto utopico. È del tutto realizzabile se noi, il popolo, riusciamo a strappare il controllo dalle mani del sistema finanziario.
Quando la crisi finanziaria è divenuta più grave, nel 2007-2008, ho cominciato a occuparmi dei modi in cui avremmo dovuto usare la crisi finanziaria per risolvere le altre due gravi crisi della disuguaglianza economica e sociale e del clima. Ciò significherebbe prendere il controllo della finanza e investire immediatamente in una transizione verde, creatrice di posti di lavoro, cercando i soldi là dove ci sono, tra la persone e le corporations che ora si trovano al top. Una transizione sociale e verde significa anche che dobbiamo socializzare le banche, e scrivo socializzare e non nazionalizzare perché, insieme al governo, parte dell'autorità spetterebbe ai cittadini, agli impiegati di banca e ai clienti. A quel punto le banche dovrebbero concedere prestiti alle imprese di piccole e medie dimensioni, in particolare a quelle con un progetto ambientalmente innovativo e alle famiglie che intendano comprare o costruire case a risparmio energetico o energeticamente neutrali. Molti studi hanno dimostrato che un'economia ecologica è anche un'economia che crea posti di lavoro, e a tutti i livelli della società, dai lavoratori edili agli scienziati della classe media.
Il clima al primo posto
Per le banche socializzate, l'altra priorità sarebbe di estendere il credito alle imprese sociali, le compagnie con qualche forma di controllo da parte del lavoratore. Nessuna legge sostiene che la democrazia debba fermarsi là dove comincia l'economia, e l'economia ha bisogno di essere democratizzata. Le banche dovrebbero essere viste come parte del network del servizio pubblico. Le attività economiche di piccole e medie dimensioni hanno un gran bisogno di credito. Piuttosto che salvare le aziende in via di fallimento per fare esattamente ciò che finora hanno fatto - per esempio produrre automobili - si paghi il personale, dai lavoratori agli ingegneri e così via, per inventare nuovi prodotti che siano i più socialmente utili e che possano essere prodotti negli attuali luoghi di lavoro. Abbiamo speso centinaia di anni trascurando la creatività di metà della razza umana - vale a dire le donne - e ancora oggi trascuriamo la creatività, quasi tutta, della gente che lavora. Ci sono molte altre misure da adottare, che richiederebbero una descrizione troppo dettagliata. Mi limito a elencarle: cambiare gli statuti e i mandati della Banca centrale europea, in modo tale che conceda prestiti direttamente ai governi, non alle banche, che a loro volta li concedono ai governi a interessi più alti.
La Banca centrale europea non dovrebbe limitarsi a «controllare l'inflazione» (unico suo compito oggi), ma favorire la creazione di lavoro. Emettere Eurobond e impiegare gli investimenti per network intra-europei di trasporto ed energia puliti. Creare una tassa europea su tutte le transazioni finanziarie, incluse valute, stock, bond e derivati a 1 punto base (1/1000); chiudere i paradisi fiscali; cancellare l'intero debito africano nei confronti dell'Europa, in cambio di progetti di riforestazione localmente orientati e partecipati, che possano essere monitorati (uno «scambio debito per clima»); rivedere tutti gli accordi di libero commercio e scegliere gli elementi che favoriscono i diritti umani, del lavoro e dell'ambiente, scartando gli altri; accordare preferenza ai prodotti del commercio equo (monitorato). Soprattutto, mai dimenticare che le banche sono nostre, in un senso piuttosto letterale.
In quanto contribuenti, infatti, abbiamo pagato per loro con i nostri soldi e se non l'avessimo fatto non esisterebbero più. Dunque, non preoccupiamoci di dirlo! Altrimenti, continueremo a vivere in una crisi morale, in una crisi finanziaria, sociale ed ecologica. Finora, abbiamo ricompensato i colpevoli e punito gli innocenti. E' arrivato il momento di capovolgere le cose.
(Traduzione di Giuliano Battiston)
Difficile capire l’esultanza di un politico abile come Giancarlo Galan di fronte al voto sul suo candidato alla presidenza della Biennale, Giulio Malgara, “bocciato” dal pareggio in commissione Cultura alla Camera. In essa il centrodestra doveva risultare in maggioranza, la presidente, berlusconiana della prima ora, Valentina Aprea, aveva negato la parola al sindaco di Venezia, Orsoni (la consentirà, al contrario, il presidente di commissione al Senato, Guido Possa). Una inutile e arrogante scortesia verso la città dove la Biennale nacque nel 1895 promossa soprattutto dal Comune e dal sindaco, il laico-progressista Riccardo Selvatico. Non a caso è venuta proprio da Venezia la prima, corale reazione negativa alla decisione del ministro Galan di non riproporre il presidente in carica Paolo Baratta e di indicare per la successione il manager pubblicitario Giulio Malgara, il cui rapporto con la cultura risulta oggettivamente molto esile. Mentre appare forte quello personale con Berlusconi. Fra l’altro proprio Galan aveva esultato - da governatore del Veneto - quando Rutelli, all’epoca ministro dei Beni culturali, aveva richiamato Baratta alla guida della Biennale. Ai veneziani, ai veneti, agli italiani e a importanti intellettuali dei più diversi Paesi è apparso evidente lo sfregio inferto alla meritocrazia nella nomina al vertice della sola istituzione culturale del nostro Paese che abbia un sicuro stacco internazionale
Operazione, questa, nella quale le due gestioni di Paolo Baratta e del suo staff hanno meriti incontestabili. Anche sul piano del successo di pubblico (oltre 400.000 visitatori quest’anno) e su quello dell’autofinanziamento delle manifestazioni. Ha contato anzitutto l’orgoglio di Venezia e dei veneziani i quali hanno avvertito una Biennale più radicata nel corpo della loro città che il turismo di massa minaccia sempre più di “occupare” e che hanno così mostrato voglia di reagire. Come le città venete. Il secondo elemento: le adesioni all’appello intelligente della “Nuova Venezia” giunte subito da intellettuali non facili a firmare appelli, come Alberto Arbasino, Andrea Zanzotto (scomparso purtroppo in quelle ore), o Salvatore Settis. Ma anche da studenti, pensionati, operai, liberi professionisti, tecnici e così via. Terzo elemento (non certamente l’ultimo): la crescente partecipazione all’appello del mondo della cultura a livello planetario, a cominciare da sir Nicholas Serota della Modern Tate Gallery dai colleghi del Moma, o della Neue Pinakothek di Monaco e di altri prestigiosi musei. Ne terrà conto Galan? Se non lo facesse, rimedierebbe una pessima figura a tutti questi livelli, dimostrando che l’amicizia del Capo conta più dei meriti, delle competenze, del buongoverno delle istituzioni. E del rispetto del Parlamento.
I lavori tra Bologna e Firenze potrebbero essere fermati dai pm, nonostante Berlusconi prema per tagliare il nastro. "Cinquecento persone rischiano di perdere la loro abitazione". Il dirigente della società autostrade: "Un'opera che l'Italia [sic] aspetta da 30 anni, è una polemica assurda per poche case"
“Fermate oggi, subito, i lavori di quella galleria o il paese rischia di venir giù”. Il grido d’allarme viene da Santa Maria Maddalena, una piccola frazione di San Benedetto Val di Sambro nell’Appennino bolognese. Il rischio, per intenderci, è quello di un altro Vajont: qui non c’è la diga, ma come in quel caso dell’ottobre 1963, la mano dell’uomo rischia di provocare una immane frana che potrebbe tirar giù un intero abitato. Sette case del piccolo borgo di montagna sono state già evacuate, ma a rischio ce ne sono almeno 250 con un coinvolgimento di 500 persone.
Ora a muoversi è finalmente anche la Regione. Giovedì l’assessorato alla Protezione civile ha infatti inviato al sindaco di San Benedetto, Gianluca Stefanini, una lettera firmata da diversi esperti geologi. La missiva mette in guardia sulla stabilità delle abitazioni, stabilità a rischio per i lavori di una galleria della variante di Valico, il nuovo tratto di A1 che collegherà Bologna con Firenze.
Il traforo è stato progettato dalla società Autostrade ai piedi di due gigantesche frane preesistenti, che negli ultimi mesi, con l’avanzamento degli scavi, hanno iniziato a muoversi. Un movimento sospetto che ha accelerato il suo passo sempre più. A dimostrarlo tutti gli ultimi esami condotti, anche se le perizie devono fare i conti con un Silvio Berlusconi che freme per tagliare il nastro: “La revisione dello studio – scrive nella lettera datata 20 ottobre la Regione – prevede spostamenti massimi di entità compresa tra 2 e 9 cm, mentre in precedenza si ammettevano spostamenti assai modesti, inferiori a 2-3 cm. Allo stato attuale i rilievi topografici hanno mostrato che l’edificio più vicino allo scavo della Canna Nord, di proprietà Pellicciari, risulta essersi spostato di circa 8 cm in direzione est”.
Nei palazzi del Consiglio regionale a Bologna, il consigliere del Movimento 5 Stelle, Andrea Defranceschi, oltre a rendere nota questa lettera inviata giovedì, ha presentato altri documenti che confermerebbero i timori del comitato cittadino del piccolo centro appenninico, guidati dal combattivo geometra (in pensione) Dino Ricci. “Non siamo un comitato contro la costruzione della Variante di valico, diciamo solo che costruirla ai piedi di una frana è una follia – spiega Ricci, che fino a qualche anno fa lavorava in una ditta che costruiva proprio autostrade – Si può fare una variazione facendo passare il tunnel un po’ più a est e soprattutto scavando nel cuore della montagna, non ai piedi di una frana. Ma fermiamo subito gli scavi”.
Lo stop ai lavori potrebbe essere infatti un toccasana come confermato dallo stesso assessorato alla Protezione civile: “L’analisi dei monitoraggi evidenzia una stretta dipendenza tra l’avanzamento della galleria e gli spostamenti. Nel periodo di agosto la sospensione dei lavori ha prodotto un rallentamento degli spostamenti significativo misurato in molti punti di monitoraggio. Con la ripresa dei lavori – scrive ancora la nota dei tecnici della Protezione civile regionale – la velocità degli spostamenti è ripresa con entità simile al periodo pre-Agosto”. Il ragionamento poi termina con una frase raggelante: “Le incognite sul comportamento complessivo della massa mobilizzata restano alte”.
A preoccupare è anche l’arrivo della stagione invernale e della pioggia. Sempre secondo la lettera della Protezione civile indirizzata al sindaco Stefanini, le attuali condizioni già critiche “potrebbero modificarsi con l’arrivo della stagione piovosa autunnale-primaverile. È possibile che la velocità del movimento possa essere influenzata da incrementi di circolazione di acque sotterranee”.
Anche i numeri mostrati da Defranceschi lasciano adito a molte preoccupazioni: “Nelle settimane precedenti la frana si muoveva di un centimetro al mese. Ora invece, secondo le rilevazioni degli inclinometri, un centimetro è stato lo spostamento negli ultimi 12 giorni”. La velocità della massa franosa raddoppierebbe quindi giorno per giorno.
La Procura di Bologna, con il pubblico ministero Morena Plazzi, ha aperto una indagine conoscitiva per danneggiamento aggravato e per attentato alla sicurezza dei trasporti. Giovedì, sul dorso locale bolognese del quotidiano “la Repubblica”, Gennarino Tozzi, condirettore generale Sviluppo Rete di Autostrade per l’Italia aveva espresso tranquillità riguardo al proseguimento dei lavori: “Abbiamo fatto eccome tutti i rilievi necessari, vogliamo scherzare? Non c’è nessuno sbaglio. Non c’è nulla di diverso da un normale esproprio e daremo la massima assistenza. Non vorrei che ci fossero interessi a far modificare il tracciato per far guadagnare di più le imprese. E alcune lesioni sono pregresse. So che c’è un’inchiesta. Se la magistratura facesse sospendere i lavori si prenderebbe le sue responsabilità – dice Tozzi – ma io credo che una magistratura equilibrata non lo farà. Questa è un’opera che l’Italia aspetta da 30 anni, è assurda questa polemica per poche case”.
A proposito di queste “poche case”, questo vero e proprio buco scavato ai piedi della frana, lungo 4 chilometri, largo 32 metri e alto 12 metri, sta già causando crepe nelle abitazioni. Non solo, le stradine di montagna lì attorno (secondo le foto mostrate dal comitato) mostrano delle deformazioni e inclinazioni. La stessa galleria in costruzione, secondo il geometra Ricci che è in contatto con molti dei tecnici dei cantieri, si sarebbe spostata di 10 centimetri a causa della spinta laterale proveniente dalla frana.
Ora, dopo aver acquisito, tramite il consigliere Defranceschi, i documenti provanti che qualcosa non va (ai cittadini di Santa Maria Maddalena questa documentazione sarebbe stata negata da Comune e società interessate) il comitato paesano attende che il sindaco faccia qualcosa e fermi i lavori, invece di limitarsi a fare sgomberare le case a rischio crollo. A essere messa a repentaglio è l’incolumità delle persone, dei lavoratori della galleria e della ferrovia Direttissima, quella che ogni giorno porta migliaia di cittadini da una parte all’altra dell’Appennino, da sud a nord Italia. Quella frana di 2 milioni di metri cubi di terra non controlla gli orari dei treni.
Nella giornata di ieri la replica di Autostrade agli allarmi del Comitato: “Escludiamo nel modo più assoluto che Santa Maria Maddalena stia collassando a causa dello scavo della galleria Val di Sambro, come dimostra il piano di monitoraggio in atto”. Poi la nota prosegue: “La progettazione della galleria è il risultato di un lavoro che ha coinvolto professionisti di chiara fama e che ha ottenuto tutte le autorizzazioni previste, comprese quelle del ministero dell’Ambiente, delle Infrastrutture, dell’Anas, della regione Emilia-Romagna, della locale comunità montana e di tutti gli enti territoriali coinvolti“. Infine, sostiene autostrade, “affermare che l’alta velocità ferroviaria Firenze-Bologna e l’autostrada siano coinvolte da movimenti del terreno – conclude una nota della società – è frutto di strumentalizzazioni per chi ha interesse allo stop di lavori speculando sul disagio di alcuni cittadini”.
Titolo originale: The 19 Building Types That Caused the Recession – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Tra i suoi esempi preferiti di complesso edilizio replicato fino alla nausea in tutto il paese nell’ultimo mezzo secolo, Christopher Leinberger sceglie il polo servizi di zona a base alimentare. Si tratta si un intervento su circa 5-7 ettari di superficie, asfaltata all’80%. Si colloca sulla corsia di una grossa superstrada (4-8 corsie) percorsa nel ritorno dopo la giornata di lavoro verso le zone residenziali, pensata per il momento in cui con ogni probabilità si sta pensando a che fare per cena.
C’è un grosso supermercato, 5.000-6.000 metri quadrati a formarne un lato, e un altro grande complesso con servizio drive-in sull’altro, presenti importanti catene di distribuzione nazionali e regionali, magari anche qualche marchio come Hallmark o Starbucks. Nel parcheggio ci stanno quattro o cinque piazzole di sosta ogni cento metri quadri di superficie commerciale. In teoria c’è anche un marciapiede, anche se non si arriva a pensare che ci sia qualcuno che lo usa. Ciascun esercizio è concepito per allettare un potenziale cliente che passa a settanta allora. E – salvo gusti locali particolari di qualcuno di questi centri acquisto dell’ultimo, magari imbiancature art-deco o un tetto di coppi – gli shopping center a forma di “L” sono identici ovunque si vada, da Denver a Orlando.
“Tutto si concentra in quella frazione di secondo in cui si cerca lo sguardo di chi sta guidando” commenta Leinberger, “e che allora potrà pensare: ‘hey, ecco un supermarket! Accostiamo!’”. Leinberger, studioso di strategie insediative e professore all’Università del Michigan, ha inserito questa tipologia del polo servizi di zona a base alimentare in un elenco di 19 prodotti immobiliari standardizzati dominanti nell’America del secondo dopoguerra. Che comprende anche: le villette unifamiliari suburbane per giovani coppie, i grandi complessi di big-box, quelli a magazzini che ospitano molte ditte, quelli di self-storage. Sono tutti concepiti per un ambiente suburbano fruibile solo in auto. E rispecchiano ciò che è stato voluto quasi in esclusiva dagli investitori per oltre 50 anni. Oggi che l’edilizia pare in ripresa dopo la recessione, secondo Leinberger dobbiamo tenerci lontani da ciascuno di loro.
“Chi investe finanzia prodotti consolidati” spiega Leinberger. “Non certo cose uniche, pionieristiche, cose che non si sono mai sperimentate, che si tratti di immobili o di computer Apple”. Tutti quei modelli immobiliari si riassumono nel contesto suburbano, e il polo di zona alimentare ne rispecchia un effetto collaterale, l’accumulo di provviste dagli scaffali dei supermercati ai nostri congelatori e dispense nel sottoscala. “Di sicuro non c’è nessun complotto” continua Leinberger. “Alla gente piace il big box”, nel senso che si apprezza sia il negozio che quanto dal negozio ci si porta a casa. Però di quei 19 tipi di complessi edilizi ne abbiamo costruiti troppi.
“Il prodotto sbagliato nel posto sbagliato, e adesso nessuno lo vuole più. Ecco il motivo della crisi edilizia, poi di quella dei mutui, e infine della Grande Recessione”. La maggior parte delle persone ritiene che la crisi edilizia abbia accelerato la recessione. Ma Leinberger teme però che non si sia discusso a sufficienza di quale tipo di edilizia, di quale tipo di prodotto immobiliare. Oggi però la crisi – e la pausa che ne consegue – può fornire a costruttori e investitori tempo a sufficienza per rifletterci. “Fra le cose positive di una recessione – la cosa vale per qualunque recessione – c’è il fatto che le imprese possono ripensare le proprie strategie, anzi sono obbligate a ripensarle. É un fatto positivo, ma ce la faranno i nostri a imparare nuovi trucchi? Qualcuno l’ha già fatto, altri non ci riusciranno. E questi sono destinati a fallire nel moment in cui si esauriranno I sostegni federali per lo stimolo”.
A Washington, D.C., una delle grandi città americane uscite immuni dalla crisi del settore, si è continuato a costruire, ma Leinberger calcola che un 90% abbondante dei nuovi interventi sia per spazi ad alta densità fruibili a piedi (come la riqualificazione al Tyson’s Corner, o il complesso Navy Yard). É a questo tipo di prodotti immobiliari che, a parere di Leinberger, ci si dovrebbe orientare: piani terreni a negozi, e sopra appartamenti in affitto, magari alberghi o centri congressi con sopra dei condomini, nei pressi di un corridoio di mobilità collettiva. Una serie di modelli che possono diventare il nuovo standard.
“In linea di massima ci sono sempre stati dei prodotti standardizzati” continua Leinberger. “Pensiamo anche a uno spazio urbano di tipo pedonale degli anni ’20, sono tutti molto simili. La cosiddetta Main Street USA non pare tanto diversa se ci si sposta dalla California al New England”. Dobbiamo accettare una certa standardizzazione, perché in questo modo diventa più facile (ed economico) per il settore edilizio e gli investitori realizzare prodotti del genere su una scala adeguata a rispondere alla domanda. “Oggi idealmente” conclude Leinberger riferendosi agli aspetti architettonici particolari “ci si potrebbe orientare verso forme organiche”, ma forse sarebbe un ottimo segnale anche se solo iniziassero a diventare un fenomeno replicato a livello nazionale i “poli ad alta densità e funzioni miste legati al trasporto pubblico”.
Là dove c'era il «cantiere di Mapello», ora c'è il «Continente», un mega centro commerciale che oggi verrà inaugurato ufficialmente e domani aperto al pubblico. Uno dei luoghi simbolo della tragedia di Yara Gambirasio cambia veste in una data che ha scandito le tappe significative della vicenda. Era il 26 novembre quando la tredicenne ginnasta di Brembate Sopra scomparve all'uscita del centro sportivo. Era il 26 febbraio quando fu trovato il suo cadavere in un terreno incolto di Chignolo d'Isola. È il 26 ottobre il giorno in cui si può archiviare definitivamente l'espressione, più volte utilizzata negli articoli di giornale e nelle trasmissioni televisive, «cantiere di Mapello».
Ma quel luogo non sembra comunque destinato ad uscire di scena. Perché qui portarono, nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Yara, i cani molecolari. Qui lavorava Mohamed Fikri, il marocchino fermato al largo di Genova perché sospettato, sulla base di intercettazioni telefoniche controverse o mal tradotte, di essere l'assassino. E a questo luogo sembrano ricondurre tutti gli altri indizi finora emersi: dalla polvere di cantiere trovata nei polmoni della ragazzina al taglierino da piastrellista ipotizzato come arma del delitto. Senza trascurare che anche uno degli ultimi segnali emessi dal telefonino di Yara la sera di undici mesi fa fu registrato dalla cella telefonica di Mapello.
I carabinieri, a differenza del pubblico ministero Letizia Ruggeri, sono convintissimi ancora oggi che molte risposte ai dubbi che tormentano il loro lavoro da un anno si potevano trovare in quel grande cantiere. I cani molecolari, le intercettazioni, la cella telefonica erano elementi che secondo i militari avrebbero dovuto imporre controlli minuziosi sia del luogo che delle decine e decine di persone che lì lavoravano. L'operatore privato, il gruppo Lombardini, si mise a disposizione. Alcune parti del cantiere furono passate al setaccio, a un certo punto i carabinieri impiegarono anche uno speciale georadar per verificare l'eventuale presenza di corpi estranei nelle gettate di cemento. Non emerse nulla: né allora né nei mesi successivi. Intervenne la relazione dell'anatomopatologa Cristina Cattaneo, che parlo per Yara di «concause di morte» ma non tramontò il sospetto che la vittima potesse essere passata di lì.
Da oggi quel luogo associato ad un dramma cambia completamente veste. Si dà un nome, il «Continente», e aspira a diventare il punto di riferimento per lo shopping e lo svago di migliaia di persone ogni giorno. Ma è difficile non pensare che, comunque, nell'immaginario collettivo segnato dalla tragedia di Yara rimarrà indelebile il ricordo del «cantiere di Mapello».
postilla
Alla buon’ora, pare che anche nella cronaca locale, complice lo scatolone al neon che le sta spuntando davanti agli occhi, si stia facendo strada un’intuizione: il tono del racconto assume sfumature alla Dashiell Hammet, e lascia le atmosfere dei Racconti del Maresciallo. Il che avrebbe risvolti esclusivamente letterari se non fosse per l’effetto profondo che quel tipo di immagine del territorio, continuamente ribadita proprio dai mezzi di comunicazione di massa, ha sulla società e sulle istituzioni che la rappresentano. Sin dalle prime battute della vicenda ci siamo sentiti raccontare di una specie di comunità locale semirurale sconvolta dall’irrompere di un disturbo dall’esterno, quando invece quello sconvolgimento (non mi riferisco al delitto in sé, ma alla reazione) era antico, sedimentato, e avrebbe probabilmente potuto metabolizzarsi, se riconosciuto.
Perché quell’area è metropolitana da una generazione, salvo una distorta percezione di sé. Quel centro commerciale non è affatto estraneo al luogo, ma ovvio, banale, indispensabile. E quei “campi abbandonati” in cui è stato ritrovato il corpo della povera Yara, dopo mesi (!) in una logica di gestione del territorio metropolitana coerente non sarebbero stati tali, ma valorizzati, frequentati, lavorati, insomma parte viva dell’area. Ce lo insegnano gli abitanti della Val Susa ogni giorno, cosa significa coscienza collettiva del territorio locale.
E ce lo insegna tutta la vicenda noir dell’Isola Bergamasca, invece, come certe ideologie localiste distorte a puro consumo del potere discrezionale di “decidere lo sviluppo” facciano solo danni gravissimi: all’ambiente in cui viviamo e alla qualità della vita dei superstiti. (f.b.)
Stavolta non si può certo dare torto ai dieci assessori della regione Lazio che si sono dimessi per l'affronto subito con la sonora bocciatura, da parte del governo amico, del cosiddetto piano casa. Affermano infatti che si tratta di una scelta «incomprensibile che mette in discussione uno dei punti qualificanti del programma elettorale del Popolo della libertà sia a livello locale che nazionale». Sono due anni che il centrodestra afferma che la ripresa economica del paese e il suo futuro sono legati al mattone, ad una stanza in più, ad un piano aggiunto. Sono quasi due decenni che vengono approvati condoni edilizi, attenuate le tutele paesaggistiche, umiliate le Soprintendenze, sospese le demolizioni degli abusi in Campania, militarizzate le opere che, come la linea ferroviaria della Val di Susa, non potrebbero essere autorizzate perché violano i vincoli di legge.
È dunque vero che il centrodestra ha fatto della devastazione del territorio e del paesaggio «uno dei punti più qualificanti del programma». E ora che la Polverini aveva battuto tutti i record lanciando il Lazio come capofila dello scempio di qualsiasi regola, ecco che il ministro Galan ha distrutto il prototipo della cancellazione di ogni regola.
Il piano casa della regione Lazio prevedeva infatti la possibilità di costruire nelle aree sottoposte alla tutela della legge sui parchi, metteva cioè a repentaglio uno dei pilastri della cultura giuridica italiana. Prevedeva la realizzazione di porti in ogni parte della coste laziali e in ogni foce di fiume, altro che case.
E se poi la natura si riprende il suo spazio cancellando gli arenili si ricorre alla tanto vituperata spesa pubblica: da Ostia ad Anzio sono in costruzione barriere frangiflutto per tentare di frenare l'erosione. Uno sviluppo dissennato viene dunque sostenuto da un fiume di denaro pubblico: e continuano a cantare la storiella che «non ci sono più soldi».
E poi, diciamola tutta: Galan non è uno studioso dell'opera di Antonio Cederna. È stato presidente della regione Veneto per quindici ininterrotti anni dal 1995 al 2010. Basta andare nelle campagne di quello sventurato territorio per comprenderne gli esiti: quello veneto è forse il territorio più disordinato d'Italia, ad un capannone segue una casa e poi un altro capannone. E non hanno rispettato neppure i fiumi. Il 2 novembre 2010 Vicenza e i territori circostanti sono stati colpiti dall'alluvione provocata dal Bacchiglione, un tempo nobile fiume e ridotto oggi ad un delirio di cemento. E anche in questo caso, l'incuria per le regole l'abbiamo pagata noi. In due mesi sono stati erogati ai privati quasi 20 milioni di euro di risarcimenti, soldi bruciati nella folle ubriacatura della cancellazione delle regole.
La bocciatura della legge è stata provocata da una importante iniziativa dell'opposizione. Il ricorso presentato al governo era impeccabile e ribadiva che la tutela dell'ambiente è un pilastro della nostra Costituzione e non può essere distrutto per avere consensi. Forse è a questo che si riferivano i dieci dimissionari quando hanno affermato che la bocciatura agisce «contro le aspettative legittime dei cittadini laziali rende impossibile trasmettere ai territori quei valori da tutti noi condivisi». I "valori" che hanno in mente sono soltanto cemento e asfalto. E desolazione, perché il loro piano casa permette ad esempio di trasformare anonimi capannoni industriali - anche se localizzato nei luoghi più isolati e privi di servizi civili - in residenze, aumentandone le volumetrie e la rendita immobiliare del 20%. Tanto mica ci vanno ad abitare gli assessori.
Chi frequenta i summit delle istituzioni europee, e ne conosce le deferenze opportuniste, le verità lente a dirsi, le cerimoniose capricciosità, non dimenticherà facilmente quel che è successo domenica, nella conferenza stampa di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel a Bruxelles. Un giornalista li interroga sulla credibilità di Berlusconi, ed ecco che d'improvviso scoppia un'ennesima bolla, fatta sin qui di illusioni e non-detti: una delle tante, nei quattro anni di crisi che abbiamo alle spalle. La bolla di uno Stato-subprime: debitore di seconda categoria, poco affidabile. Alcuni giudicano disdicevole la sbirciata complice che si sono lanciati l'un l'altro Sarkozy e la Merkel, e umiliante quell'attimo muto, terribile, che ha preceduto l'erompere inaudito della risata, subito echeggiata dai giornalisti presenti. È vero, è stata umiliazione e anche qualcosa di più: un atto di sfiducia che non avanza più mascherata, che si esibisce senza pudori sapendo il consenso mondiale di cui gode. Un assassinio politico in diretta.
È difficile ricordare episodi simili, nella storia dell'Unione, e non stupisce che gli autori stessi dell'incredibile gag siano quasi spaventati da quel che hanno fatto. Fonti governative tedesche si sono preoccupate ieri d'attenuare il colpo: "Le allusioni italiane sul sorriso scambiato ieri in conferenza stampa tra Merkel e Sarkozy sono basate su un equivoco". Ma colpo resta, quel che abbiamo visto domenica: e poco importa se sarà stato un attimo, se lo strappo sarà ricucito e - parola di Montale - "come s'uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto". Per un attimo, è come se i dirigenti dei due motori d'Europa - Francia e Germania - avessero smesso di credere nelle virtù della diplomazia, della pazienza, e solennemente avessero bocciato un primo ministro nel più crudele dei modi, perché altra via non c'è. Sembra uno sfogo incontrollato ma c'è del metodo, nello sfogo: non è nelle istituzioni italiane che si cessa di credere, ma in chi governa. Dopo lo scoppio ilare Sarkozy s'è fatto serio, ha evocato il colloquio tra lui, la Merkel e Berlusconi, ed è stato chiarissimo: "La nostra fiducia, la riponiamo nel senso di responsabilità dell'insieme delle autorità italiane: politiche, finanziarie e economiche". Angela Merkel ha aggiunto: "La fiducia non nasce solo dalla costruzione d'un ombrello salva-Stati. È di prospettive chiare che c'è bisogno". Sono giorni che il Cancelliere non interpella Palazzo Grazioli per ottenere assicurazioni (che legittimità può avere, una sede governativa privata?) ma il Quirinale.
Il messaggio non potrebbe essere più netto, e ultimativo ("vi diamo tre giorni"). E c'è in esso del metodo perché ogni parola è pesata: è sulle istituzioni italiane che gli europei fanno affidamento, non sulla persona Berlusconi. Spetta all'insieme delle autorità italiane, politiche, finanziarie ed economiche mostrare il senso di responsabilità che il premier evidentemente non possiede. Può sembrare un insulto - un capo di Stato o di governo non dovrebbe ridacchiare in pubblico di un collega - ma la crisi che traversiamo è talmente vasta, e funesta per tutti i cittadini d'Europa, che il galateo diplomatico per forza si sfalda. Non sono due leader arroganti a sbeffeggiare l'alleato; è il disastro europeo che può nascere dal vuoto politico italiano che secerne l'inaudito incidente. Un disastro che Berlusconi ancor oggi elude, quando dopo il vertice proclama: "Non c'è stato e non c'è rischio Italia". L'occultamento dura dal 2007-2008 ("Non c'è crisi. Siamo i primi in Europa") con effetti catastrofici su quel popolo che il premier s'ostina a chiamare sovrano.
La cosa triste nell'Unione europea è la sua impotenza, quando un paese membro azzoppa la propria democrazia e con false informazioni frena l'insorgere - nei singoli cittadini - della responsabilità. Bisogna essere democratici, per poter entrare nell'Unione. Non bisogna necessariamente esserlo, per restarvi. C'è un articolo del trattato di Lisbona (il numero 7) che prevede sanzioni quando uno Stato si discosta dalla democrazia: ma nessuno, neanche l'opposizione in Italia, ha mai osato fare appello a esso. L'unico espediente dell'Unione, quando vuol render manifesta un'incompatibilità non solo economica e finanziaria con Stati devianti, è di conseguenza la peer pressure, la pressione dei pari grado. E la pressione non sembra in grado di secernere altro che il sogghigno. Solo quando è in gioco l'economia, pare efficace.
Ma è un sogghigno che va analizzato, perché spesso ridendo diciamo cose molto vere. Dichiarandosi fiduciosi nell'insieme delle autorità italiane, i colleghi dell'Unione scommettono proprio su quella pluralità di poteri che Berlusconi continua a contestare, e a questi poteri si rivolgono: spetta a voi risolvere il rebus Berlusconi, e mostrare un senso di responsabilità che metta fine allo sberleffo mondiale scatenato da Palazzo Grazioli. È un appello, non recondito, alle forze responsabili della maggioranza: che sfiducino loro il premier, prima delle elezioni perché non c'è più tempo. Che mandino ai prossimi vertici europei un capo di governo di cui nessuno ridacchi più.
Si ricorda spesso il Gran Consiglio fascista, che il 25 luglio '43 mise in minoranza Mussolini grazie alla mozione di Dino Grandi. Ma non c'è bisogno di risalire tanto indietro. Anche l'Unione delle democrazie postbelliche conobbe casi simili. Il 20 novembre 1990, Margaret Thatcher cadde in seguito a un voto interno del suo partito, prima delle elezioni, e anche lei fu messa da parte per incompatibilità con l'Europa comunitaria. Due giorni dopo il Gran Consiglio conservatore, il premier si dimise e lasciò in lacrime Downing Street. Che l'Europa e i mercati avessero decretato la sua fuoriuscita era stato confermato, il primo novembre, dalle dimissioni di Geoffrey Howe, il vice primo ministro più aperto all'Unione e all'euro. Michael Heseltine, conservatore, fu il Dino Grandi della situazione.
Berlusconi non può più andare a Bruxelles, dopo un episodio del genere. Perché trascina verso il basso non solo l'Italia, ma l'intera zona euro. Un primo monito è venuto da Mario Monti, non un semplice pretendente al trono ma un conoscitore-frequentatore delle istituzioni europee: "Sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno al governo Berlusconi (...) prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l'Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell'Unione europea" (Corriere della Sera, 16 ottobre 2011).
Berlusconi non può presentarsi a Bruxelles, e l'Europa non può concedersi l'anomalia italiana: è la lezione dello sberleffo, che solo in apparenza è irridente ma la cui sostanza è spaventosamente seria. È come quando ride una persona che piange. Nessuna cosa detta da Berlusconi ha più peso né senso, tanto trasuda incultura delle cose europee. Anche la sua insistenza sulle dimissioni di Bini Smaghi, membro della Bce, ha qualcosa di intollerabilmente ottuso, agli occhi non solo del diretto interessato ma di tutta la Bce. Bini Smaghi deve andarsene, "essendo stato nominato dal governo senza passare attraverso alcun tipo d'elezione o concorso". Sono frasi come queste, di una rozzezza e insipienza senza limiti, che rendono velenosa la vicenda. Bini Smaghi non è, a Francoforte, un rappresentante dell'Italia ma di Eurolandia. La sua nomina, come quella di Draghi, prevede ben 3 votazioni (Eurogruppo, Parlamento europeo, Consiglio europeo) e il Trattato contiene regole precise per la rimozione dei membri del Comitato esecutivo Bce, che può avvenire solo per motivi gravi. Comunque non può esser decretata né da Berlusconi né da Sarkozy, in nome dei rispettivi Stati nazione.
La crisi strappa tanti veli, compreso questo. È il suo lato positivo: le regole diventano più importanti, non meno, man mano che lo sconquasso s'estende. Berlusconi le ignora del tutto, ed è un autentico miracolo che abbia alla fine nominato una personalità profondamente indipendente come Ignazio Visco alla testa di Banca d'Italia. Quanto a lui, non farà alcun passo indietro: chiederglielo è nenia un po' beota. Ma la pressione dei pari esercitata a Bruxelles può avvenire anche in Italia. Sempre che esistano uomini della destra davvero responsabili, che non usino questo nobile aggettivo per brigare, alla Scilipoti, prebende e notorietà.
La gente della Val di Susa, domenica, ha fatto davvero un miracolo, nel senso etimologico del termine (dal latino mirari, come si dice di «cosa grande che meraviglia», o anche di «cosa grande e insperata»).
Deludendo l'intero universo politico-mediatico che aveva spasmodicamente atteso l'incidente (e in buona misura l'aveva anche preparato) per mettere, una volta per tutte, una pietra sopra la Valle e la sua resistenza. Hanno costruito un capolavoro: un corteo di migliaia e migliaia di persone di ogni età e condizione, che si snoda per sentieri di montagna (credo che sia l'unica esperienza al mondo), tra castagneti e blocchi di polizia, aggirando barriere e tagliando reticolati in un ordine assoluto, senza un gesto o una parola fuori posto, senza l'aggressività e la volgarità che invadono il mondo politico, senza neanche un petardo acceso o una pietra lanciata. Un'azione di disobbedienza civile in perfetto stile gandhiano, realizzata esattamente come le assemblee partecipatissime di valle avevano deciso nei giorni precedenti, mentre intorno strepitavano i profeti di sventura.
La ragione di questa forza è, tutto sommato, facile da spiegare, per chi abbia anche solo messo il naso in valle: perché quello della Val di Susa non è un semplice movimento, nel senso genericamente politico in cui si è soliti usare questo termine. E' un popolo, una comunità con legami fortissimi con la propria terra e la propria storia, impegnata da almeno un paio di decenni a prendersi cura dei propri beni comuni, del proprio habitat, del proprio sistema di relazioni. Sono persone, individui, ma anche famiglie, catene generazionali, reti sociali di vicinato, culturalmente aperte, disponibili all'accoglienza, alla condivisione e alla contaminazione con gli altri, ma consapevoli della propria identità.
E' tutto questo che non hanno capito i politici di professione e i giornalisti di passo, destinati a rompersi le corna contro questo materiale resistente, duro, coriaceo, su cui chiacchiere e manipolazioni scorrono via come acqua sulle pietre. Con realtà come questa - irriducibile ai flussi e alle retoriche proclamate dall'alto, la politica dovrà imparare a fare i conti sempre più spesso. E' bene che si abitui all'idea.
Meno facile da spiegare è la ragione dell'accanimento con cui si cerca, con ogni mezzo, di piegare quella resistenza. Perché tanto unanimismo tra i mezzi d'informazione mainstream, disposti anche all'abuso di potere, alla violazione di ogni etica professionale, pronti a truccare le carte (e le interviste), a mentire più o meno apertamente, a occultare, a ridicolizzare, a enfatizzare episodi minimi e a tacere fatti clamorosi, perfettamente simmetrico con l'unanimismo bipartisan della politica, in lite anche furibonda su tutto, tranne che sul TAV? Il fatto è che nella questione del TAV in val di Susa, si manifesta, in un microcosmo locale delimitato, un paradigma globale esemplare. Un meccanismo che guida i processi politici ed economici a livello generale, nell'Unione Europea, di certo, e per molti aspetti nell'intero Occidente.
Gli ingredienti ci sono tutti.
In primo luogo l'affermazione, tutta ideologica, di credenze dogmatiche, semplici, banali, ma indiscutibili, tali da resistere a qualsiasi confutazione razionale, a qualsiasi dato empirico, o alla semplice osservazione dei fatti. E' il meccanismo che fa dire, ossessivamente, che il TAV va fatto (anche se ci costerà qualcosa come 20 miliardi di Euro) perché «l'Europa ce lo chiede», o «perché è un'infrastruttura» (sic!), o perché «non possiamo restare isolati dal resto del continente». Anche se basta guardare una carta per capire che una ferrovia c'è già, che da anni è ampiamente sotto-utilizzata, mentre basterebbe una elementare conoscenza dei fatti economici per capire che tra due economie mature come quelle francese e italiana i flussi di merci - tanto più se pesanti - sono destinati a stabilizzarsi o a decrescere, non certo a impennarsi. E' lo stesso meccanismo che ha condotto le istituzioni economiche europee ad ammazzare (fisicamente) la Grecia con ricette mortali. E che, indifferenti a ogni evidenza, le estendono ad altri (in primo luogo a noi), all'insegna del dogma neo-liberista che impone di tagliare reddito, posti di lavoro e diritti, quando è evidente anche a un bambino che la crisi in corso nasce proprio dall'umiliazione del mondo del lavoro, dal crollo del suo reddito e del suo potere d'acquisto sconsideratamente compensato dalla dilatazione della finanza e del denaro virtuale.
In secondo luogo l'esistenza di una cupola degli affari e del potere - di una concentrazione di interessi - assurta a principale se non unica istanza destinata a determinare monopolisticamente le scelte strategiche, a scapito di tutto il resto, orientando le tecnocrazie e gli stessi organi rappresentativi, governando i flussi di risorse finanziarie e di determinazioni politiche, con decisioni irrevocabili, sottratte al controllo dei destinatari di quelle decisioni: di coloro che ne pagheranno il prezzo e ne sosterranno i sacrifici.
Infine la formazione di un fronte politico bipartisan, assolutisticamente bipartisan, tanto bipartisan da sopravvivere agli stessi conflitti interpartitici perché cementato da una commistione e condivisione di interessi materiali, da una rete di affari trasversale e indifferente alle linee di demarcazione politica (nel caso del TAV è significativo che gli appalti abbiano interessato tanto le cooperative emiliane quanto le società di ex ministri berlusconiani). Una rete affaristica che prevale sullo stesso rapporto di rappresentanza, travolgendolo. Rivelando la lacerazione dei rapporti tra rappresentanze istituzionali e territori, la forbice tra sordità dei governanti e solitudine dei governati.
20.000 manifestanti - ma mettiamo che fossero anche meno, 15.000... -, in una valle che conta all'incirca 40.000 abitanti (tanti sono i residenti nella media e bassa Val di Susa coinvolti nella protesta) significano metà della popolazione, almeno uno per famiglia, e anche di più. Sono un "pieno" che fa da contrappunto - e da antidoto - al vuoto delle tante bolle - mediatiche, finanziarie, politiche - che ci minacciano e ci affliggono. Nessuno può pensare di poterci passare sopra con gli scarponi chiodati. E nemmeno con i Lince dei poveri alpini reduci dall'Afghanistan. Il solo pensiero di poter militarizzare il problema della Val di Susa, concepito in modo bipartisan da alcuni parlamentari piemontesi, è sintomo di irresponsabilità. Di un inquietante deficit di razionalità, terribilmente simile a quello che ha portato i razionalissimi mercati nel caos. E che sta conducendo il mondo sull'orlo dell'abisso.