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La scelta scellerata dell’amministrazione Pisapia di revocare la delibera di approvazione del PGT comporta, come stabilito dall’art.13 della legge regionale n°12, l’inefficacia dell’intero provvedimento e la necessità di ricominciare da capo avviando un nuovo unico procedimento che passi attraverso la fase dell’adozione e poi a quella dell’approvazione.

Ciò comporta, evidentemente, il blocco per alcuni anni dello sviluppo edilizio, infrastrutturale e dei servizi della città con ricadute devastanti su di un settore economico che è popolato non solo da costruttori, ma anche da operai, manovali, imbianchini, muratori, carpentieri etc. e dalle rispettive famiglie. A ciò si aggiunga il pregiudizio che ne subirebbe l’intera popolazione cittadina a causa dell’inevitabile impossibilità di edificare le case in housing sociale per decine di migliaia di famiglie nonché il totale immobilismo rispetto alla realizzazione di ogni tipo di infrastruttura e di servizi per la città.

Nell’augurarmi che il Consiglio Comunale di Milano, unico organo legittimato a revocare una propria delibera, non si assuma una simile responsabilità, ho ritenuto doveroso, quale cittadino ed ex consigliere comunale, procedere ad invitare formalmente con apposita diffida (notificata per conoscenza anche al Sindaco, all’assessore all’Urbanistica e al presidente del Consiglio Comunale di cui unisco copia) il responsabile del procedimento nella persona del direttore del settore Pianificazione Urbanistica Generale al pieno rispetto della legge provvedendo senza indugio alla pubblicazione del PGT già approvato da 9 mesi, tenuto conto che si tratta di un obbligo d’ufficio con tutte le conseguenze del caso.

L´eguaglianza ha fatto il suo grande rientro nella politica quotidiana. Ed è un ospite non gradito per chi tiene le fila delle transazioni finanziarie e delle politiche monetarie. Lo si vede da come i governi hanno accolto la proposta di istituire una tassa sulle rendite patrimoniali – il nostro è all´avanguardia nell´aver escogitato tutte le misure che possono pesare sui molti senza direttamente toccare i pochi (in extremis e nella disperata ricerca di sopravvivere qualche giorno in più tira fuori la proposta di ‘Tobin tax’ ma senza dimostrare di crederci).

Presumibilmente perché a Roma l´oligarchia governa direttamente, senza intermediari. È fuori di dubbio che Silvio Berlusconi sia il più ricco italiano e quindi tra quell´1% che Occupy Wall Street ha individuato come la minoranza che accumula e concentra potere entrando fatalmente in rotta di collisione con la maggioranza e, quindi con l´eguaglianza. Oligarchia e democrazia sono esplicitamente visibili e in tensione.

In un ottimo libro dal titolo chiaro, Oligarchy, uscito per Cambridge University Press pochi mesi fa, Jeffrey A. Winters ci ricorda che la democrazia non elimina l´oligarchia ma la incorpora. Questo lavoro di inclusione dura e ha successo fino a quando l´economia cresce e produce ricchezza alla quale tutti, chi più e chi meno, possono sperare di accedere e, nei fatti, vi accedono anche. Ma quando questa condizione decade, allora la moltitudine comincia a proporre politiche che intaccano le ricchezze e le proprietà dei pochi, politiche fiscali redistributive. È a questo punto che la differenza tra oligarchia e democrazia si mostra con tutta la sua radicalità.

Occupy Wall Street – il nome di un movimento che è globale nella sua semplicità, come globale è l´1% –– è il segno che la tregua tra oligarchia e democrazia si è interrotta. Le pressioni delle dirigenze finanziarie e bancarie sulla democrazia greca, ce lo ricordava recentemente Gad Lerner su questo giornale, affinché non ricorra al referendum è il segno di un´escalation del potere oligarchico su quello democratico. E che il popolo greco non vada al referendum è un segno del potere che l´oligarchia ha di fare sentire la sua voce. Ma è anche un segno del fatto che le procedure democratiche stesse possono diventare un problema se il loro uso paventa esiti che possono mettere a repentaglio l´interesse materiale dei pochi. In questo frangente si è buttata alle ortiche la logica del proceduralismo democratico, che i manuali scolastici ci insegnavano a non giudicare dal punto di vista degli esiti ma delle possibilità di determinarli con le nostre autonome forze. Ora invece è proprio l´esito che viene invocato per neutralizzare la procedura. Un rovesciamento pericolosissimo poiché chi ci garantirà che le elezioni non verranno giudicate non opportune perché passibili di interrompere la stabilità di governo?

Il linguaggio per dualismi – "i pochi" e "i molti" – ha un sapore quasi antico, arcaico. Chi sono i pochi? E come denotarli? Non essendo più i pochi che producono dirigendo masse di lavoratori, non possono essere qualificati come capitalisti tradizionali. Sono super-ricchi – nuovi e meno nuovi. Individuabili solo per quantità: 1%. E infatti, quando Aristotele doveva definire il governo democratico lo faceva identificandolo con i poveri, che sono i tanti. Non perché una società democratica sia fatta di poveri, ma per una ragione molto più sottile e che si vede oggi molto bene: perché non appena la questione della ricchezza materiale si fa critica in quanto la sua distribuzione prende vie inegualitarie, allora i molti si rappresentano (e spesso sono) come poveri o impoveriti. A questo punto, il dualismo è una realtà che può essere rappresentata solo con la quantità, e ciò è in sintonia con la democrazia, la quale è un governo fondato sulla quantità (dei voti).

Allora 1% contro 99% diventa la raffigurazione aritmetica dell´identità della democrazia quando il patto tra i molti e i pochi si rompe perché la ricchezza si muove in una direzione soltanto.

Sono molti i casi di lotta oligarchica che il libro di Winters ricostruisce, dall´Atene e Roma classiche, all´Indonesia e le Filippine, da Venezia e Siena, dalle commissioni mafiose negli Stati Uniti e in Italia fino alle famiglie degli indiani Apalachi. Insomma non esiste società senza oligarchia. Gli Stati si possono quindi distinguere tra quelli schiettamente oligarchici e quelli che hanno siglato un compromesso con la democrazia. Nell´Atene classica quel compromesso riuscì per alcuni decenni, benché l´alternativa oligarchica restasse sempre una concreta possibilità visto che le grandi famiglie non accettarono mai il governo dei molti. I governi rappresentativi sono riusciti a correggere questa condizione di endogena precarietà della democrazia traducendo in meccanismi costituzionali il rapporto con "i pochi", dalla cui collocazione è sempre dipesa la stabilità dei sistemi politici. Consentire a questi di competere attraverso le elezioni è stato un modo per incorporarli – con il contributo dei molti che li eleggono, giudicano, controllano e limitano nel potere.

Il successo delle democrazie rappresentative costituzionali ha corrisposto a due secoli e mezzo di espansione della società di mercato nelle due forme che conosciamo: il capitalismo industriale e, ora, quello finanziario. È stato un successo reso possibile da una condivisione generale degli oneri che ha consentito che il divario tra arricchimento dei pochi e dei molti non fosse fuori controllo. Oggi questo compromesso è rotto. E per molti ordinari cittadini è cominciato un duro periodo di impoverimento – che non è la stessa cosa della povertà. La durezza di questa crisi consiste nel fatto che per la prima volta cittadini che avevano conosciuto per due o tre generazioni un´espansione dei diritti e delle possibilità, si trovano oggi di fronte alla perdita di status, a non potere aver progetti per il futuro. Con la propaganda mediatica, come ci racconta Paul Krugman, che li vuole convincere ad accettare l´impoverimento senza dare loro in cambio alcuna certezza per il domani. In passato quando si trattava di tirare la cinghia si invocava "l´interesse nazionale", e i super-ricchi erano in molti casi, come gli Stati Uniti, i primi a partecipare. Ma oggi non vogliono condividere gli oneri.

Questa è la gravità dell´attuale tensione tra oligarchia e democrazia: se le due forze si mostrano così bene oggi, se in altre parole l´eguaglianza, anzi la sua violazione, è oggi il tema centrale è perché il patto che mitigava la diseguaglianza e incorporava l´oligarchia dentro la democrazia mostra la corda. Nessuno può allo stato attuale delle cose dire come lo scontro si evolverà. Ma le pressioni dei "mercati" sulla Grecia affinché non convochi i molti a giudizio è un segnale nemmeno troppo velato dei rischi politici che questa crisi contiene. Per la democrazia non si promette nulla di buono.

Dieci anni di federalismo vogliono anche dire quasi mille ricorsi presentati davanti alla Corte costituzionale. A dimostrazione che il nuovo Titolo V non ha avuto vita facile, in particolare nella parte in cui ripartisce le competenze tra lo Stato e le regioni. E continua a generare conflitti, se è vero che negli ultimi due anni i ricorsi di Roma contro i governi locali sono cresciuti del 33% e quelli delle regioni contro lo Stato del 16 per cento. A sollevare il conflitto di poteri è stata soprattutto Roma, che ha ravvisato una lesione delle proprie prerogative in 568 casi, in particolar modo da parte della regione Abruzzo (contro cui ha presentato ricorso 42 volte), della Puglia (41 ricorsi) e della Toscana (38 ricorsi).

Dal proprio canto, la Toscana è la regione che ha chiamato in causa, davanti alla Consulta, lo Stato il maggior numero di volte:73 impugnazioni di provvedimenti in cui, secondo la giunta toscana, il governo centrale si è attribuito competenze non proprie. Un braccio di ferro che non ha uguali nelle altre regioni, tanto che l'Emilia Romagna, che nella classifica dei ricorsi segue la Toscana, in dieci anni ha portato lo Stato davanti ai giudici costituzionali "solo" 39 volte. Complessivamente, le regioni hanno impugnato gli atti centrali 422 volte. A innescare la mina dei ricorsi è stata la formulazione del nuovo articolo 117 della Costituzione, in particolare nella parte delle materie riservate alla legislazione concorrente, ovvero quelle in cui allo Stato spetta fissare i principi generali e ai governi locali legiferare nel dettaglio. Modalità che, insieme alle potestà riservate esclusivamente allo Stato e alle regioni, completa il quadro delle competenze legislative disegnate dal Titolo V riformato.

A dire il vero, anche la potestà legislativa riservata alle regioni è stata fonte di più di un dubbio, perché funziona per sottrazione, nel senso che i governi locali sanno di poter intervenire in via esclusiva in quegli ambiti che non sono espresso appannaggio dello Stato. Di certo, però, la legislazione concorrente è quella che ha generato il maggior numero di questioni e anche le più spinose. E’ di questi giorni, per esempio, la contrapposizione tra ministero dei Beni culturali e regione Lazio sul piano casa, che in alcune parti viola la tutela paesaggistica. Per questo il Governo ha impugnato gli atti regionali davanti alla Consulta.

Il 4 ottobre 2010, il Ponente di Genova fu colpito da una grave alluvione. Da allora, cosa è successo? “Tredici mesi di testate contro il muro”, denuncia il presidente della Regione, Claudio Burlando, commissario. “Se tutto va bene, sta per concludersi il lungo iter per lo stanziamento dei primi 45 milioni di euro previsti per i danni dell’anno scorso” (ben 300 milioni). Il Wwf denuncia un bluff clamoroso: sparito lo stanziamento nazionale di 800 milioni (500 per la prevenzione del dissesto idrogeologico) promesso da Berlusconi e da Tremonti, con l'asta delle frequenze e con una quota dei FAS. V’è di più. Il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ammette: mai decollato il piano straordinario di manutenzione annunciato un anno fa per 2 miliardi.

E torna la minaccia di un condono degli abusi edilizi, il terzo promosso da Berlusconi. Che ha la faccia di bronzo di commentare la sciagura di Genova con un lapidario: “Si è costruito dove non si doveva”.

Dopo le tragiche inondazioni del 1966, i governi, per lo più di centrosinistra, hanno impiegato ventitre anni per approvare una legge, peraltro buona, per la difesa del suolo, la n. 183 del 1989, sul modello della Themes Authority londinese. Pochi anni, in compenso, ha impiegato il centrodestra.-con l’aiuto di Regioni e Comuni, anche di centrosinistra, s’intende - per smontarla, definanziarla, delegittimarla. A partire proprio dal 2001, quando le più importanti Autorità di Bacino avevano adottato i piani di riassetto. Del resto, l’alleato fedele del letale Berlusconi III, la Lega Nord, il Po lo vorrebbe gestito “a spezzatino”, un pezzo ciascuno Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto. E così pure l’Adige. Esiste politica più ridicola e insieme più criminale di questa?

A Genova l’allerta c’era stato, tempestivo. Non si è detto alla gente: restate a casa. Si è peccato di ottimismo in una città che ha subito, dopo quella paurosa del 1970 (mi ci trovai in mezzo) costata 44 vittime, tanti disastri, l’ultimo un anno fa. Fa bene il sindaco di Torino, Piero Fassino, a usare la massima prudenza. Il Po spaventa di nuovo. Le alluvioni cominciano in montagna. Genova è Comune di mare e di montagna, col Monte Reixa di ben 1.183 metri. Dall’alto precipitano a valle, oltre ai torrenti principali, 44 rii, molti dei quali arrivano in città “tombati” nel cemento e, per la pressione di una massa d’acqua sempre più ingente e veloce (grazie alla tante nuove strade asfaltate e ripide), “scoppiano”. In più, gli agricoltori sono spariti dalle alture e nessuno più ripulisce gli alvei da arbusti, ramaglie, tronchi di alberi caduti. Discorso che vale per gran parte della montagna italiana. Dove gli agricoltori superstiti vanno incentivati a rimanere con politiche mirate. Ma quando ci si convincerà che l’agricoltura, in specie quella di montagna, ha una precisa e preziosa funzione di salvaguardia dell’ambiente, dell’assetto idrogeologico montano essenziale per le grandi pianure?

Come ha ben spiegato ieri sul “l’Unità” l’urbanista Vezio De Lucia, bisogna darsi un diverso modello di sviluppo con piani scientificamente fondati: stop al consumo di suoli liberi, al cemento+asfalto, manutenzioni incessanti di boschi, alvei, sponde, affidate all’ “esercito del lavoro” giovanile, immaginato dal grande meridionalista Manlio Rossi Doria e ripreso dall’economista Paolo Sylos Labini. Non per stipendiare, beninteso, degli inoccupati, ma per “rinaturalizzare” fiumi e torrenti, a monte e a valle con piani seri puntualmente eseguiti. Siamo un Paese geologicamente giovane, sismico, con tante frane (e cave, molte abusive). Nel 105 d.C. Traiano nominò Plinio il Giovane “curator alvei Tiberis et riparum et cloacarum Urbis”, cioè soprintendente generale dell’Autorità di bacino del Tevere. Chi promuoverà quest’opera quotidiana e grandiosa, salverà l’Italia da immensi guasti e lutti (migliaia di morti, dal Polesine in qua) e “passerà alla storia”. Altro che Ponte sullo Stretto.

In una nota il premier stigmatizza l'eccessiva cementificazione della Liguria senza ricordare le sanatorie edilizie varate nel 2003 e nel 2009. Immediata la polemica. A livello locale il sindaco Pd Marta Vincenzi rivendica la scelta di non aver chiuso ieri le scuole: "Decisione provvidenziale". La mamma della 19enne morta: "Dovevano chiudere quei maledetti edifici"

“E’ evidente che si è costruito là dove non si doveva costruire”. A mettere nero su bianco queste parole, dopo l’alluvione che ha colpito Genova e ha visto la morte di quattro donne e due bambine, non è un ambientalista della prima ora, ma il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Che per un giorno intero ha deciso di non dire nulla e tantomeno di farsi vedere nelle zone alluvionate. Ma che, 24 ore dopo la tragedia, decide comunque di emettere una nota. A far notare l’incoerenza, per primo, il responsabile Green economy del Pd Ermete Realacci: “Le parole di Berlusconi a commento della tragedia di Genova sono senza vergogna – spiega – Le migliaia di case abusive sono infatti il risultato dei due condoni (edilizi, nel 2003 e nel 2009, ndr) che portano la sua firma, provvedimenti che solo qualche giorno fa pensava di riproporre per l’ennesima volta tra le pieghe delle misure di risanamento finanziario del suo governo”.

E infatti, proprio a inizio ottobre, il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto aveva parlato di una doppia sanatoria – edilizia e fiscale – da inserire nella manovra finanziaria in via di approvazione. Un progetto messo da parte dopo la levata di scudi che aveva coinvolto non solo l’opposizione, ma anche parte della stessa maggioranza (Tremonti in primis), la Chiesa e Confindustria.

La frase di Berlusconi scatena immediatamente la polemica. Di “stupro dell’ambiente” parla il presidente della Camera Gianfranco Fini che, pur senza chiamare in causa il Cavaliere, attacca: “Nessuno può avere la presunzione che si possa stuprare l’ambiente senza che ci sia la vendetta della natura”. Il nome di Berlusconi viene pronunciato esplicitamente dall’Idv: “Quanto accaduto ieri a Genova, e solo dieci giorni fa alle Cinque Terre e in Lunigiana, è figlia degli ingentissimi tagli inferti da questo governo alla difesa del suolo per un miliardo di euro e di quella politica dei condoni edilizi ‘a gogò’ e delle sanatorie degli abusivismi con cui l’ineffabile duo Berlusconi-Tremonti ha caratterizzato la sua azione politica”, ha detto Antonio Borghesi, vicepresidente del gruppo Idv alla Camera. Il presidente della Regione Emilia Romagna e della Conferenza delle Regioni Vasco Errani chiede invece “prevenzione” e “risorse” perché “le scelte del governo, confermate dai tagli per realizzare le opere di conservazione e messa in sicurezza del territorio e dalla rigidità delle nuove norme sulla protezione civile, vanno purtroppo nella direzione opposta”.

Contro l’Italia “del cemento, del fango, senza legge, senza giustizia e senza vergogna” si scaglia il comico genovese Beppe Grillo con un post dal suo blog: “Oggi mi sento impotente. La distruzione di Genova era annunciata. E io non ho potuto fare nulla. Ho visto la mia città trasformata in fanghiglia con le auto che cadevano sul porto insieme alla pioggia e ai morti sapendo che si poteva evitare – scrive Grillo – L’Italia del Fango sta mostrando la sua faccia, il suo ghigno, il suo sberleffo. L’Italia Senza Giustizia che manda in galera chi denuncia”. Perché, spiega l’ideatore del Movimento 5 stelle, “il cittadino è solo, senza rifermenti, senza informazione, senza rappresentanti. L’Italia del Cemento – continua Grillo – lo sta seppellendo vivo”. E chiede: “Chi arresteranno ora per disastro colposo? I meteorologi? Persino di fronte al default dell’Italia non si arresta questa bulimia criminale, questo pasto immondo dei partiti sul corpo della Nazione. L’aria è gonfia di pioggia e di rabbia. Genova è tagliata in due come il Paese”.

E’ bufera sul sindaco di Genova: “Si dovevano chiudere le scuole”. A livello locale le polemiche si concentrano sul sindaco di Genova Marta Vincenzi, colpevole per i cittadini di non aver chiuso le scuole ieri. A chi questa mattina, in via Fereggiano – la strada in cui ieri hanno perso la vita 6 persone – le urlava “dimettiti, vergogna“, il primo cittadino ha ribattuto esattamente quanto dichiarato ai giornali il giorno prima in piena tragedia: “La scelta di mandare i bambini a scuola è stata provvidenziale – ha spiegato la Vincenzi – Immaginate cosa sarebbero stati 40mila bambini portati in macchina dai nonni, dai parenti o dagli amici in giro per la città durante l’alluvione”.

Difficile dimenticare però che le vittime di questa alluvione sono state travolte dalla “bomba d’acqua” proprio mentre andavano a prendere i loro figli o fratelli a scuola. E’ accaduto così per la 19enne Serena Costa inghiottita dall’acqua del torrente Fereggiano mentre tentava di riportare a casa il fratello 13enne. Stessa sorte è toccata ad Angela Chiaramonte, infermiera di 40 anni, morta per raggiungere il figlio Domenico al liceo Cassini, così vicino alla stazione Brignole e al Bisagno. E sempre dopo aver portato via dalla scuola ‘Giovanni XXIII’ la sua bambina Joia, è morta anche Shiprese Djala, donna albanese di 28 anni. Solo Evelina Pietranera, 50 anni, è morta per essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, dopo aver dato il cambio al marito Attilio Toffi all’edicola di via Giacometti. “Le dovevano chiudere quelle maledette scuole, le dovevano chiudere – ha gridato a distanza, piena di dolore, la mamma di Serena, Rosanna Costa – Mi hanno chiamata dalla scuola di mio figlio e mi hanno detto di andarlo a prendere. Io ero al lavoro e non potevo così l’ho detto a mia figlia. Ma non l’ho più vista rientrare”.

Ma Marta Vincenzi non ci sta a dire ‘ho sbagliato’ e rivendica le scelte dell’amministrazione comunale: “Abbiamo avvisato la cittadinanza di non usare i mezzi privati. Ma ricordare i comportamenti da tenere in queste occasioni non è bastato. C’erano, in giro per la città, più auto di quelle che normalmente transitano sulle nostre strade”, dice il sindaco che anzi contrattacca: “Buonsenso, senso civico sono concetti che evidentemente non basta ricordare. Vanno intimati, fatti oggetto di divieti”. E mentre il presidente della Regione Claudio Burlando cerca di smarcarsi dalle polemiche con un pilatesco “è difficile decidere cosa fare”, il capo della Protezione civile Franco Gabrielli evoca il “patto sociale” necessario per “evitare che in certe situazioni i sindaci possano essere poi crocifissi” anche se ”le scuole di Genova ieri potevano essere tranquillamente chiuse per ridurre gli spostamenti”.

Ora la paura è tale che il Comune ha deciso di tenere chiusi gli edifici scolastici di ogni ordine e grado anche lunedì 7 novembre, giorno in cui è stato proclamato il lutto cittadino. Tommaso Pezzano, dirigente scolastico della scuola materna, elementare e media Giovanni XXIII nel quartiere di Marassi (quella frequentata dalla piccola Joia), spiega com’è avvenuto il coordinamento tra scuola e amministrazione: “Ci hanno mandato una nota dal Comune, poche righe: stato di allerta meteo due, ma che cosa significa? Tutto e nulla. E noi cosa avremmo dovuto fare? Nessuno ci dava indicazioni”. Nella comunicazione scritta del Comune di Genova, testualmente si legge: “Si invitano le famiglie a connettersi tempestivamente con i mezzi di comunicazione pubblici (Raitre, Emittenti televisive locali, sito del Comune) per acquisire informazioni su eventuali provvedimenti adottati a tutela della pubblica incolumità”. Peccato però che alle 11 la corrente elettrica fosse saltata in quasi tutta la città impedendo ogni forma di comunicazione. “Neppure i cellulari funzionavano – spiega Pezzano – e anche per questo molti genitori sono corsi a scuola per prendere i loro bambini, per portarli a casa”. Una corsa fatale.

Il caso Laika, chiuso anche se malamente, suggerisce una riflessione su quanto dichiarato dai protagonisti nel dibattito che ha preceduto la decisione finale del presidente Rossi. Tutti, sindacalisti, politici e in particolare la presidente della Confindustria toscana, hanno ribadito la necessità di uno sviluppo industriale sostenibile, rispettoso dell'ambiente; ma né industriali, né sindacati, né politici sono veramente entrati nel merito della questione. Non basta dire sviluppo rispettoso dell'ambiente e del paesaggio, bisogna dire quale sviluppo; né sembra credibile che gli orizzonti dello sviluppo industriale toscano possano essere inquadrati genericamente in un rilancio dell'industria manifatturiera, come più volte è stato ribadito dai presidenti di Regione Toscana e Confindustria (mi chiedo, fra l'altro, se questa categoria ottocentesca significhi ancora qualcosa nel ventunesimo secolo, o se convenga inventare altri termini, che indichino come protagonisti i talenti e i cervelli oltre che le mani). L'impressione è che ancora si proceda a forza di slogan, forse utili nella polemica, ma poco costruttivi in prospettiva. Sarebbe, invece, opportuno esaminare alcuni possibili scenari produttivi e stabilire a quali condizioni possano coniugarsi con ambiente e paesaggio. Ne indico alcuni, come emergono dagli studi dell'Irpet e da vari documenti della Regione.

Il primo è il rilancio dell'industria tradizionale, che si esprime tipicamente nel distretto. Questa potrà sopravvivere solo ricollocandosi in produzioni di alta qualità, incorporando innovazione tecnologica e di mercato e a patto di avere dimensioni e spalle finanziarie; quindi, buona parte dell'industria tradizionale soffrirà di una crisi irreversibile.

Una seconda opzione è costituita da attività produttive che potrebbero insediarsi in Toscana attratte da alcuni vantaggi territoriali, comprese quelle di immagine, di 'brand'. Ben vengano, soprattutto se operano in settori avanzati, ma a condizione che non pretendano varianti ad hoc degli strumenti urbanistici; meglio ancora se utilizzeranno (in qualche caso ciò accade) edifici rurali o dismessi. Fattore di attrattività e allo stesso tempo, difesa rispetto a la scelta casuale dei siti, è la capacità da parte delle amministrazioni locali di offrire aree ben attrezzate, accoglienti ecologicamente ed esteticamente valide; ciò che richiede un coordinamento fra i diversi comuni gravitanti in una stessa zona economica, essendo impossibile che ognuno si costruisca o riconverta la propria area industriale in concorrenza con gli altri.

Una terza opzione, è lo sviluppo di una piattaforma logistica fatta di infrastrutture pesanti. Senza nulla togliere alla necessità di integrare i vari pezzi del sistema logistico toscano con porti e poli produttivi, pensare che questa sia la strada maestra per la modernizzazione dell'apparato produttivo regionale deve fare i conti con la necessità di raggiungere livelli di efficienza e competitività pari a quelli tedeschi, francesi o olandesi; un obiettivo difficile, se non impossibile, sia per mancanza di risorse finanziarie, sia perché la Toscana rimarrebbe comunque un appendice del sistema europeo. Inoltre, questa opzione va contro ai caratteri specifici del nostro paesaggio che ne costituiscono un fondamentale fattore concorrenziale, perché inevitabilmente impatta violentemente sul territorio. In parte collegata alla precedente vi è la questione delle grandi aree industriali localizzate sulla costa, dismesse o in crisi; che, tuttavia non possono essere trasformate, come alcuni vorrebbero, in case, alberghi e centri commerciali; una possibilità sarebbe la loro riconversione in parchi tecnologici (declinazione sostenibile della piattaforma logistica) da supportare con mirati investimenti infrastrutturali; una strada, tuttavia, che anch'essa chiede risorse e tempo. Queste e altre possibilità, compresi punti di forza e di debolezza, dovrebbero essere discusse e in questo contesto si potrebbe parlare concretamente di sviluppo in rapporto ad ambiente e paesaggio e dei limiti di un loro 'rispetto' declinato essenzialmente in termini di mitigazione, al meglio di sostenibilità intesa come 'carrying capacity'.

Per chi ne ha le chances (e la Toscana forse ne ha più che ogni altra regione al mondo) ambiente e paesaggio dovrebbero essere, al contrario, ingredienti costitutivi di uno sviluppo durevole, fattori essenziali di modernizzazione e competitività, non esternalità da mitigare e compensare a posteriori. L'orizzonte industriale da perseguire dovrebbe, perciò, essere basato sulla conoscenza, le tecnologie avanzate, la ricerca, i servizi di information technology, il know-how. Attività 'amenity oriented', che fanno della qualità dell'ambiente e del paesaggio un requisito essenziale di attrattività: per frenare, oltretutto, la fuga dei giovani laureati e dei ricercatori, che, secondo le stime di Confindustria, costa all'Italia più di un miliardo di euro all'anno.

Senza nulla togliere alle giuste rivendicazioni degli operai che, tuttavia, riguardano il 'qui e ora', è quindi il momento di aprire sul tema 'sviluppo, ambiente, paesaggio' un confronto aperto e senza pregiudizi: forse da questo potrebbe nascere una collaborazione per una Toscana più moderna e virtuosa e meno legata a produzioni obsolete, fra cui spicca l'edilizia delle seconde e terze case. Con un'ultima postilla: non si può non essere d'accordo con il presidente della Confindustria toscana, quando dice che le regole, quando ci sono, devono essere rispettate. Ed è vero che un'economia moderna non può crescere nell'anarchia; perciò, si presume, d'ora in poi l'associazione degli industriali stigmatizzerà la diffusa violazione di leggi e piani da parte di molti Comuni toscani, in stretta collaborazione con un mondo imprenditoriale che guarda più alla rendita che al profitto.

In questo impressionante marasma di notizie, affermazioni, smentite, menzogne e contraddizioni, e nella valanga ininterrotta di avvenimenti vecchi e nuovi che ogni giorno si accumulano sulla stampa e nei media, è difficile seguire un ordine logico, è quasi impossibile avere sempre ben presente il quadro storico-politico complessivo.

Per me il punto di partenza di qualsiasi ragionamento resta il voto negativo della Camera dei deputati l'11 ottobre scorso sull'Art.1 del Rendiconto dello Stato presentato dal governo. Ne ho scritto sul manifesto del 23 ottobre e si può non essere d'accordo sulle conseguenze estreme che io avrei tratto sul piano della sopravvivenza del Governo da parte della Presidenza della Repubblica (e infatti non è stato d'accordo con me Gaetano Azzariti, il manifesto, 26 ottobre), ma non si può non convenire che quel voto avesse la perfetta equivalenza di un voto di sfiducia, difficilmente rimediabile sul piano costituzionale (come ha argomentato da par suo Gianni Ferrara, il manifesto, 25 ottobre).

Apprendiamo successivamente da un fondo di Eugenio Scalfari su la Repubblica (30 ottobre) che, dopo il voto di fiducia rimediato con i soliti mezzi da Berlusconi, il 14 ottobre, per porre margine (?) allo sfascio potenziale conseguente al voto contrario sull'Art.1 del Rendiconto dello Stato, in una riunione dei capigruppo alla Camera dei deputati era stato deciso all'unanimità (ripeto: all'unanimità) di calendarizzare per l'8 novembre il ritorno alla Camera del Rendiconto, per l'eventuale approvazione, magari con un altro voto di fiducia.

In questa apparentemente modesta notizia ci sono invece due stranezze, di diseguale rilevanza. La prima è che Eugenio Scalfari è un grande editorialista ma non certo un cronista politico quotidiano. Ebbene, la conoscenza del fatto, - che tutti i gruppi parlamentari, opposizione compresa, avevano accettato il ritorno in aula alla Camera del Rendiconto, nonostante le obiezioni costituzionali di cui sopra - ci è pervenuta da un suo editoriale: la grande stampa d'informazione non lo ha sottolineato come rilevante. La seconda è il fatto in sé: anche i gruppi parlamentari di opposizione hanno rinunciato, nessuno escluso, a esercitare il loro diritto di opposi alla disapplicazione dell'art.72 del Regolamento della Camera, il quale prescrive il divieto a ripresentare la stessa legge già bocciata prima che siano trascorsi sei mesi. Bastava che uno di loro lo facesse per rendere inapplicabile la misura invocata dal Governo, ed evidentemente nessuno lo ha fatto. C'è da chiedersi in che mani siano riposte le nostre speranze di cambiamento. Non sono il solo a chiedermelo: in un articolo conciso ed efficace come una staffilata (La Repubblica, 31 ottobre) Alessandro Pace spiega come «le opposizioni non si siano rese conto di essere andate al di là dei loro poteri, e di avere, con il loro beneplacito, creato un gravissimo precedente incostituzionale che si ritorcerà a loro danno, grazie alla disinvoltura costituzionale del governo in carica». Naturalmente è auspicabile che l'8 novembre la Camera dei deputati ponga fine a questa inverosimile commedia, bocciando per la seconda volta il Rendiconto, ma questo non cancellerebbe le contorsioni politico-istituzionali attraverso le quali si perverrebbe, del tutto gratuitamente, a questa ultima, definitiva (?) scelta.

Veniamo a noi. Tutto quello che è avvenuto successivamente a quell'11 ottobre (la delineazione, farraginosa e inconcludente, di un piano per affrontare la crisi, le trattative, vergognose per noi, con i Grandi d'Europa, la messa sotto tutela della linea di politica economica nazionale, ecc. ecc.), è stato opera di un governo che, costituzionalmente, sarebbe dovuto uscire di scena già da un bel po': il che fra l'altro ne spiega la palese, vergognosa, debolezza. Su tutto questo, lasciato passare di straforo, come ho detto, quasi a nessuno importasse, è precipitata la valanga della crisi economica. Ma anche su questo qualcosa da dire (o da obiettare) c'è.

Si sarebbe potuto pensare che Silvio Berlusconi sarebbe stato sbalzato di sella per i suoi innumerevoli e innominabili vizi privati, o per le infinite inchieste giudiziarie, o per le menzogne pronunciate in pubblico anche nella veste di Presidente del Consiglio, o per la sua alleanza con una forza separatista come la Lega o per la più volte comprovata incapacità a risollevare il paese dalla crisi non meno ideale che economica in cui lui stesso l'ha fatto cadere. No: la sua sopravvivenza come premier è tuttora legata alla sua disponibilità/capacità di garantire in Italia l'applicazione dei diktat europei. E l'alternativa al suo governo, ciò di cui attualmente si discute, è rappresentata da un governo tecnico e/o di transizione che, pescando nei fondi di barile di questo screditatissimo Parlamento, faccia quello che Berlusconi potrebbe non esser più in grado di fare. Ai vari vulnus costituzionali, di cui la nostra storia recente è, come ho cercato di argomentare, costellata, si sovrapporrebbe così il pannicello caldo di un'obbedienza più dignitosa e di conseguenza più certa e sicura al verbo merkel-sarkozyano che attualmente ci governa.

Su quest'ultimo punto ci sarà tempo e modo di tornare. Basti dire per ora sinteticamente (ma non ironicamente) che l'Italia non conosceva uno così straripante predominio dello straniero all'interno dei suoi confini naturali (dello straniero, sì, non dell'Europa, perché l'Europa ha preso per ora, il volto dello straniero) dai tempi delle settecentesche guerre di successione (peggio, ora: almeno allora c'era il modesto bastione sabaudo-piemontese a tenere accesa una fiammella). Cambiano i modi, certo, il capitale finanziario ha sostituito gli eserciti, ma la sostanza è la stessa. Insieme con la crisi costituzionale bisogna dunque far fronte a una crisi identitaria, ancora una volta economica e culturale (e forse fra «crisi economica» e «crisi culturale» bisognerà riconoscere che ci sono più reciproci condizionamenti di quanto non appaia a prima vista).

Sere fa, assistendo (del tutto casualmente, s'intende) a una trasmissione di Porta a Porta, ho ascoltato un nostro rappresentante, Pietro Ichino, dichiarare che ormai non era più questione di destra e di sinistra, ma di sapere e volere applicare, oppure no, le misure richiesteci dall'Europa. Lì per lì ho pensato che Ichino, come gli capita, estremizzasse. Poi sono arrivato alla conclusione che avesse ragione e che in effetti la spaccatura di fondo, indipendentemente dagli schieramenti politici e ideali (o pseudoideali) passi fra chi pensa che governare l'Italia consista nell'applicare sic et simpliciter la ricetta europea (farsi commissariare fino in fondo e bene, non poco e maldestramente come ormai sono solo capaci di fare Berlusconi e il suo governo), oppure riconquistare rapidamente tutti i margini d'iniziativa politica, economica e culturale che ci competono, nel contestuale, rinnovato rispetto del dettato costituzionale.

Non è possibile? Non c'è altra strada che l'obbedienza cieca e assoluta? Non esiste una terza possibilità capace di mediare fra il comando brutalmente economico e le esigenza di sopravvivenza e di democrazia politico-sociale del popolo italiano? Bene, vorremmo che qualcuno responsabilmente ce lo dicesse prima di chiederci fiducia a condividere e sostenere l'ardua impresa. Per questo qualsiasi governo tecnico e/o di transizione, espresso da questo Parlamento, non va bene, è un rimedio peggiore del male, non può che peggiorare le cose. Se è vero quel che Ichino dice, e molti pensano e lavorano per realizzare, bisogna che i partiti, le forze politiche, i movimenti e i tecnici ce lo vengano a dire prima. Prima di che? Prima del voto, ovviamente. Qualsiasi sia la strada da scegliere e da battere, bisogna che gli schieramenti siano visibili prima, che i nostri programmi siano formulati prima, che i politici (i nostri futuri rappresentanti) ci dicano prima i prezzi e i vantaggi. Questo è il nostro referendum, il referendum italiano. Chi preferisce rinunciarvi, lavora perché dalla crisi veramente non si esca, perché l'Italia e gli Italiani non siano i soggetti consapevoli del cambiamento. E noi questo non possiamo più permettercelo.

Nel ‘51 in Polesine, le bestie intrappolate dall´onda scesero a valle solo quando l´acqua cominciò a defluire dalle stalle. Da quel momento il Po se le portò al mare gonfie, con le zampe all´aria. Migliaia, per giorni. A Genova e in Lunigiana, in queste ore, l´acqua marrone è scesa come una trivella a portar via uomini e cose nel giro di pochi minuti. Novembre 1951-novembre 2011: sessant´anni di disastri, e ogni volta l´ultimo evento della serie pare quello definitivo, irripetibile e irreversibile. Ma la fredda statistica dice che è dura chiamare eccezionali eventi che si sono ripetuti quasi duemila volte a partire dal 1900, al ritmo di venti disastri all´anno, con un totale di 2570 morti (senza contare il Vajont), 174 dispersi e un numero incalcolabile di feriti. «È il bilancio di una guerra non dichiarata», scrivono Emanuela Guidoboni, Antonio Navarra ed Enzo Boschino nel libro La spirale del clima sulla storia dei disastri nel Bel Paese.

Togli la frana del Vajont nel 1963 e quella di Stava nell´85 (oltre 2200 morti in totale), dove la manomissione dell´ambiente da parte dell´uomo fu agente unico e devastante, non c´è quasi alluvione che non sia ripetuta nello stesso luogo. Genova e i paesi a monte sono andati sott´acqua già nel 1970, quando 900 millimetri di pioggia andarono a imbottigliarsi tra il passo del Turchino e quello dei Giovi, e 44 persone furono portate via dal fango sul lato padano e su quello tirrenico. Il disastro di Firenze del 1966 è stato preceduto da qualcosa di altrettanto tremendo nel novembre del 1844, quando piovve due settimane di fila e assieme all´Arno collassarono in simultanea il Bisenzio, il Serchio, il Chiana, il Sieve e l´Ombrone pistoiese, con danni spaventosi, anche allora, nelle cantine degli Uffizi. La città di Palermo, prima di essere inondata nel 1931, era finita sott´acqua nel 1851, 1861, 1907 e 1925, quando le vie della Vucciria furono percorribili in barca.

E che dire di Sarno: il mare di fango che si portò via 160 persone nel maggio del 1998 aveva avuto decine di precedenti di maggiore o minore intensità, nei cent´anni prima della tragedia. I punti vulnerabili del territorio sono stati colpiti così tante volte da lasciare il segno nei nomi dei paesi o delle alture. «Quando dovevo intervenire su zone colpite da frane o alluvioni - ricorda l´ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso - finivo sempre davanti a cartelli stradali ammonitori. Posti come Pozzallo, Acquamarcia, Fossa, Pietratagliata, Pozzonero, Acquapendente. Non mi vengano a dire che era un caso». Ripetitive fino alla monotonia anche le cause: piogge eccezionali che fanno detonare un innesco già preparato, l´incuria e la cementificazione del territorio. «Per favore non chiamatele catastrofi» taglia corto la Guidoboni, storica dei terremoti. «È un termine che deresponsabilizza gli uomini e scarica tutto sul destino».

Ricordare cosa è avvenuto dal 1900 a oggi non è solo curiosità storica: è un modo per tenere desta l´attenzione sul paesaggio e favorire la prevenzione. Ma la prevenzione è scomoda, perché non fa voti. Così si autorizza l´amnesia. Ed ecco che salvo casi eccezionali, l´alluvione non diventa memoria condivisa, come accade invece con la guerra. Alcune sono già scomparse dalla memoria. Quella del Polesine, per esempio, con i suoi 100 morti, i 160mila sfollati, i 113mila ettari di terreni allagati e i 52 ponti crollati, ha finito per cancellare il disastro calabrese avvenuto poche settimane prima. Eppure era stato un inferno: in soli quattro giorni erano piovuti 1770 millimetri d´acqua, più che nel resto dell´anno. Sessantasette comuni erano stati investiti da frane tra le Serre e l´Aspromonte, e il nubifragio s´era portato via 70 persone e 1700 abitazioni. Due anni dopo, più o meno nella stessa zona, l´evento si ripeté, con un centinaio di morti, di cui oggi più nessuno parla. Stessa rimozione per l´alluvione del Veneto del 1966, messa in secondo piano da quella, concomitante, di Firenze.

Trentasei morti a Messina nel 2009; sedici in Versilia nel ‘96; 53 in Valtellina nell´87: il bollettino del dopo-Polesine non salta quasi nessun anno del calendario e non risparmia nessuna zona d´Italia. Sul piano dei disastri siamo una nazione unita. «Il mutamento del clima ha un suo ruolo» spiega Elpidio Caroni, genovese, docente di sistemazione dei bacini idrici a Trieste, «ma mentre la mappa della pioggia è a pelle di leopardo, quella del consumo di territorio ha lo stesso colore dalle Alpi alla Sicilia. Il settanta per cento dei Comuni italiani sono a rischio. Nord, Centro, Sud, fa poca differenza. È questo il vero problema». Altro elemento ripetitivo in questo bollettino è la mancata lezione che se ne trae. «Ogni volta salta fuori la stessa parola magica: mettere in sicurezza i corsi d´acqua» ghigna Andrea Goltara, direttore del Centro italiano di riqualificazione fluviale, a Venezia. «Risultato: invece di dare aria al fiume, si fanno argini più alti, e così, con la nuova e illusoria sicurezza acquisita, si autorizzano peggiori devastazioni cementizie, che rendono il territorio ancora più a rischio. In sessant´anni abbiamo imparato poco o niente».

«Un consumo bulimico del territorio». Quello che è successo a Genova e alle Cinque Terre non è soltanto l’effetto della natura che cambia. Mario Tozzi, impegnato su Radio 2 per la trasmissione “Tellus”, studia da anni questi fenomeni.

Tozzi, in poche ore è piovuto quanto piove in un anno. Quali sono le ragioni?

Sono ormai 20 anni che assistiamo a piogge sovrabbondanti. Ci sono state anche discussioni in Senato, non siamo solo noi geologi a dirlo. Poi il territorio italiano è giovane, attivo. Questo è un paese dove ci sono vulcani, terremoti, fenomeni di assestamento. Un terzo motivo è che abbiamo avuto un consumo bulimico del territorio. Cemento e infrastrutture hanno consumato la terra. Abbiamo mangiato il suolo rendendo il terreno impermeabile. L’acqua non penetra più, scivola e va via. Si è costruito troppo dove non si doveva. Le case sono state costruite anche sugli argini dei fiumi. A ogni disastro tutti pongono il problema dei detriti che ostruiscono il corso dei fiumi. Il problema non sono tanto i detriti, ma il fatto che l’uomo ha ridotto gli alvei dei corsi d’acqua.

I morti della Liguria sono come quelli di Giampilieri, a Messina. Colpa della natura o dell’uomo?

La colpa è dell’uomo, le catastrofi naturali non esistono. Abitiamo in posti dove non dovremmo stare. I genovesi d’altri tempi stavano nelle alture.

Si parla di cambiamenti climatici e surriscaldamento del pianeta. È un fenomeno irreversibile o si può intervenire?

È un fenomeno parzialmente naturale, ma l’uomo ha accelerato il processo di surriscaldamento. Il carattere violento di queste perturbazioni ne è una conseguenza. Si devono ridurre le emissioni inquinanti. È un processo che deve riguardare tutti i paesi del mondo.

L’Italia è un paese a forte rischio idrogeologico. Quali sono le regioni più a rischio?

La Liguria e la Toscana, ma anche l’alto Lazio, la Campania e la Sicilia. Io considero a rischio frane anche il Trentino. Lì però non si sono mai registrate vittime perchè c’è stato un uso più attento del territorio.

Quali scelte deve fare la politica nei territori a rischio?

I sindaci devono fare un passo indietro rispetto all’uso del territorio. Purtroppo si pensa che si guadagni consenso solo con l’edilizia e il cemento.

L’associazione dei Comuni virtuosi lancia una proposta: moratoria sulle grandi opere e i soldi da destinare contro il dissesto idrogeologico. Che ne pensa?

Sono d’accordo. Li conosco e sarò con loro lunedì prossimo. Cosa si deve insegnare ai nostri figli? Bisogna che capiamo prima noi che è necessario fare un passo indietro rispetto a scelte non rispettose della natura e del territorio. Riprendere ritmi naturali, rinaturalizzare i corsi d’acqua, ritornare a vivere dove e come si viveva un tempo. Il cemento non serve, bisogna recuperare la terra.

ROMA - Non di solo Pil vive un Paese. Per capire se la sua gente sta bene o male, se le prospettive e la qualità della vita sono buone il prodotto interno lordo non basta. Ormai se ne parla da anni - già nel ‘68 Bob Kennedy scrisse che il Pil «misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta» - ora è tempo di trovare un’alternativa e di affiancare all’indice sulla ricchezza e la produzione altre percentuali, altri numeri.

Per l’Italia ci stanno pensando il Cnel e l’Istat che hanno appena individuato dodici nuovi «canali» da percorrere per stabilire come stiamo e verso che tipo di società andiamo. Le prime sette voci sono mutuate da quelle fissate, un paio d’anni fa, dalla Commissione Stiglitz, voluta dal premier Sarkozy per calcolare nel nuovo modo le performance della Francia e il suo progresso sociale. Si parla di ambiente, salute, benessere economico, istruzione e formazione, lavoro e tempi della vita, relazioni sociali e sicurezza. A questi sette capitoli Cnel e Istat, dopo consultazioni con le parti sociali, hanno aggiunto altri cinque caratteri: benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ricerca e innovazione, qualità dei servizi, politica e istituzioni.

L’obiettivo è chiaro: inserire il «giudizio» sul Paese in un quadro più complesso, tanto più in una fase in cui il Pil è destinato, nel migliore dei casi, a non crescere più come una volta e a rivelare tutte le lacune di una valutazione unica. La griglia è pronta, ma non è definitiva: i due istituti invitano infatti esperti, rappresentanti della società civile e singoli cittadini a esprimere valutazioni e consigli rispondendo ad un questionario ad hoc e partecipando ad un blog cui si accede dal sito www. misuredelbenessere. it, già in funzione. Poi, a marzo si trarranno le conseguenze del dibattito on line e degli incontri sul territorio e s’individueranno definitivamente gli elementi adatti a valutare il «benessere equo e solidale» dell’Italia. Quindi si procederà alla costruzione degli indici, che saranno pronti fra un anno, ad ottobre, in tempo per essere inseriti nel quarto rapporto voluto dall’Ocse su questi temi. Allora sapremo come sta l’Italia, al di là del Pil, e potremo confrontare la nostra salute con quella degli altri paesi.

La partita, infatti, non è solo nostra, visto che con questi temi si sono già misurati altri governi, a partire dal premier Cameron e dal «questionario sulla felicità» recentemente inviato agli inglesi. «Noi eravamo in ritardo, ma abbiamo ampiamente recuperato dando alla definizione del benessere parametri concreti e strutturati» ha detto il presidente dell’Istat Enrico Giovannini.Di fatto l’importanza attribuita ai dodici tempi individuati è stata confermata anche da uno studio elaborato dall’istituto di statistica su cosa, secondo gli italiani, determina il benessere di una società. Il campione di 45 mila persone ha messo al primo posto la salute, la possibilità di assicurare un futuro ai figli e di avere un lavoro dignitoso. «Risposte sulle quali si è riscontrata una straordinaria omogeneità al di là delle fasce d’età, del sesso o dalla provenienza territoriale» commenta Giovannini «il che vuol dire che c’è nel Paese c’è lo spazio per costruire un futuro partendo dalla definizione del benessere che vogliamo. E’ un messaggio per la politica, deve farla riflettere».

L’indicatore del benessere è tutt’altro che un gioco: in Paesi come l’Australia e la Nuova Zelanda, dove il percorso è più avanzato, le nuove leggi che il governo vuole varare vengono valutate anche in base all’impatto che determineranno sugli indicatori del benessere. E’ una rivoluzione che Cnel e Istat si augurano pure in l’Italia, anche perché ridarebbe penso alla politica in crisi e fornirebbe una possibile via d’uscita al Paese in stallo.

Il 4 novembre 1966 l´Arno invase Firenze. Dopo 45 anni nulla è cambiato. Si resta sgomenti. L´Italia non regge più ore e giorni di pioggia. Muoiono persone, e anche una sarebbe troppo. Muoiono bambini. Non servono più gli allarmi se i sindaci non mettono in atto misure di prevenzione. Se il clima è cambiato, se a Genova in cinque minuti sono caduti 50 millimetri di acqua, dobbiamo cambiare anche noi. Altrimenti si continuerà a morire, nelle grandi città e nelle nostre case che crediamo sicure. A Genova il sindaco ha lasciato scuole e uffici aperti, e solo ieri sera ha proibito, per oggi, il traffico di auto. Troppo tardi.

Oltre alla profonda tristezza, da lacrime agli occhi, si resta increduli nonostante lo si sia detto troppe volte. Si denunciano lo scellerato consumo di suolo libero, la cementificazione selvaggia, l´incuria cui sono sottoposti i terreni demaniali in svendita, i boschi, le coste e i suoli che un´agricoltura in crisi come non mai non riesce più a curare. Lo Stato da anni taglia fondi e personale per la cura del territorio. Pensano alle grandi opere e non si preoccupano più delle piccole. Minime, ma che a volte salvano vite. Ci sono delle colpe. Gravi.

L´altro ieri il ministro dell´Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ammetteva il fallimento dell´impegno principale assunto sull´ambiente. Come ha dichiarato la ministro in commissione al Senato, il miliardo di euro stanziato con la Finanziaria 2010 per la messa in sicurezza del territorio non è mai stato reso disponibile. Con la legge di stabilità è stato anche ufficialmente cancellato e sostituito con un impegno del tutto generico, e non vincolante. Queste sono colpe, per cui un normale cittadino verrebbe condannato. Non c´è crisi che tenga di fronte alla cura del bene comune, il primo impegno che ogni Stato degno di questo nome dovrebbe avere.

Non c´è cura se non si cura la piccola agricoltura di qualità, che in molte zone ritenute "arretrate" ha salvato dal naufragio (umano nonché meteorologico) intere aree del Paese. Non c´è cura se si preferisce l´agricoltura dei grandi numeri, quella industriale che dicono «competitiva», che alla fine desertifica. Non c´è cura se c´è cemento ovunque. Non c´è cura se il soldo arriva a prevalere sul buon senso, quello che potrebbe salvare i nostri territori dalla bruttezza e dall´insicurezza più letale.

Smettiamola di dire che le alluvioni sono eventi eccezionali. Perché le abbiamo rese normali. Di fronte a cittadini ormai disabituati alla cura, lo Stato e la politica su questo fronte hanno colpe enormi. Sono anni che non si vede tra le priorità di un programma elettorale o di governo la difesa del territorio, nemmeno tra i riempitivi. Spero che mentre si contesta questo governo, visti i drammi recenti, i partiti inizino a pensarci seriamente, a programmare, a spendere parole e impegni forti, proprio a partire dalle adunate di piazza. Spero che ascoltino quella buona parte di società civile che lo chiede da tempo e già ci lavora con passione e sacrifici. O quegli agricoltori distrutti dai debiti che nonostante tutto lo fanno ogni giorno, nel proprio podere. Un poeta come Tonino Guerra un anno fa mi ha detto: «L´Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c´era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l´abitavano: i contadini. Dobbiamo riapprendere quella forza d´amore che avevano loro». Qui non è più sufficiente indignarsi, bisogna tornare ad amare per davvero questa terra. Vilipesa non soltanto nei comportamenti inqualificabili di chi governa, ma nell´indifferenza di fronte a scempi che non sono più tollerabili. Anche se non lo erano già ben prima di arrendersi allo sgomento di questi tristi giorni della nostra storia.

Questa Europa che detta legge ai governi mi ricorda tanto la Santa Alleanza del 1815, che interveniva in tutto il continente per sedare le rivolte, anche quelle dei patrioti italiani. Pensavano di avere l’Europa sotto i piedi, un po’ come oggi fanno i vertici della Ue e della Bce...». Luciano Canfora, ordinario di Filologia greca e latina all’Università di Bari, ha in cantiere un pamphlet sull’Europa, di cui anticipa alcuni contenuti, anche provocatori, a l’Unità. Non ha dubbi nel sostenere le ragioni del governo greco, che ha tentato di sottoporre a referendum il piano di austerità voluto dall’Ue. «Al premier Papandreou è stato persino imposto di riformulare il quesito, in modo da estenderlo alla permanenza stessa nell’euro. Un atteggiamento semi-coloniale, e la conclusione, cioè la rinuncia della Grecia alla consultazione, è uno scacco mortale alla democrazia. I capi dell’Europa si sono mossi come il brigante Mackie Messer dell’Opera da tre soldi di Brecht, con il coltello in mano».

Professore, che spazio c’è per la democrazia in questa crisi governata dai mercati?


«Il problema è la cessione di sovranità da parte degli stati nazionali verso delle strutture sovranazionali che non hanno una vera legittimazione democratica, perchè hanno una provenienza di tipo tecnico-burocratico e bancario-speculativo. In questo contesto la cessione di sovranità diventa un fenomeno inquietante».

Persino il Wall Street Journal aveva parlato di una “lezione di democrazia” da parte della Grecia.

«In effetti si può dire che la Grecia, che ha fondato la democrazia, ora ne rappresenta una sorta di ultima trincea».

Lei vede margini di democratizzazione della governance europea?

«Sinceramente no, e ricordo cosa disse il presidente della Banca centrale tedesca nel 1998, quando preconizzava la sostituzione del suffragio elettorale con quello dei mercati. Mi pare che il suo auspicio si sia ampiamente avverato».

Come si esce da questo impasse?

«Dopo oltre 50 anni dai trattati di Roma del 1957, non si è riusciti a costruire un governo, una politica estera e neppure un esercito unico. Mi pare che si possa parlare, storicamente, di un fallimento».

E come ci si salva?

«Oltre un anno fa le grandi banche tedesche si sono riunite a Davos per predisporre un piano di fuoriuscita dall’euro. Anche l’opinione pubblica tedesca ormai per oltre l’80% è contraria all’euro. La verità durissima è che l’Europa è un’invenzione astratta, un continente che contiene elementi distinti: il mondo anglosassone, quello francotedesco e mediterraneo. Va ripensato tutto».

Ritiene davvero possibile che l’Italia esca dall’euro?

«Si deve contrattare. I paesi del Mediterraneo, quelli più colpiti, dovrebbero alzare la voce per rinegoziare i parametri di Maastricht, ventilando anche l’ipotesi di costruire una propria area di scambio commerciale alternativa».

Con Berlusconi a Palazzo Chigi l’Italia è oggettivamente più esposta alla speculazione.


«Certo, ma quando sento dire dalle opposizioni che ci vuole un governo di emergenza per imporre i sacrifici ai cittadini, rabbrividisco. Il problema sono i sacrifici, non quale governo li impone. È un errore dare per scontati i sacrifici imposti dall’Europa, e non capisco perché l’opposizione si offra di partecipare».

Molti analisti sostengono che il “vincolo esterno” di Maastricht ci ha reso più virtuosi.


«Ci ha consentito non di essere meno spreconi, ma di mantenere i privilegi di chi già li aveva e di spremere ancora di più i lavoratori dipendenti, quelli che hanno un reddito visibile».

Credevo che ci fosse un limite a tutto. Quando Papandreou ha proposto di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l'Europa gli impone (tagli a stipendi e salari e servizi pubblici nonché privatizzazione a tutto spiano) si poteva prevedere qualche impazienza da parte di Sarkozy e Merkel, che avevano trattato in camera caritatis il dimezzamento del debito greco con le banche. Essi sapevano bene che le dette banche ci avevano speculato allegramente sopra, gonfiandolo, come sapevano che Papandreou aveva chiesto al Parlamento la facoltà di negoziare, e che una volta dato il suo personale assenso, doveva passare per il suo governo e il parlamento (dove aveva tre voti di maggioranza). Ed era un diritto, moralmente anzi un dovere, chiedere al suo popolo un assenso per il conto immenso che veniva chiamato a pagare. Era un passaggio democratico elementare. No?

No. Francia e Germania sono andate su tutte le furie. Come si permetteva Papandreou di sottoporre il nostro piano ai cittadini che lo hanno eletto? È un tradimento. E non ci aveva detto niente! Papandreou per un po' si è difeso, sì che glielo ho detto, o forse lo considerava ovvio, forse pensava che fare esprimere il paese su un suo proprio pesantissimo impegno fosse perfino rassicurante. Sì o no, i greci avrebbero deciso tra due mesi, nei quali sarebbero stati informati dei costi e delle conseguenze. Ma evidentemente la cancelliera tedesca e il presidente francese, cui l'Europa s'è consegnata, avrebbero preferito che prendesse tutto il potere dichiarando lo stato d'emergenza, invece che far parlare il paese: i popoli sono bestie; non sanno qual è il loro vero bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), non c'è parere da chiedergli, non rompano le palle, paghino. Quanto ai manifestanti, si mandi la polizia.

E per completare il fuoco di sbarramento hanno aggiunto: intanto noi non sganciamo un euro. Erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell'estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil. E non solo, aveva da ben cinque anni una «crescita negativa» (squisito eufemismo). Né i governi, né la commissione, né l'immensa burocrazia di Bruxelles se n'erano accorti, o se sì avevano taciuto; idem le banche, troppo intente a specularci sopra. Perché no? I singoli stati europei hanno dato loro ogni libertà di movimento, le hanno incoraggiate a diventare spregiudicatissime banche d'affari, e quando ne fanno proprio una grossa, invece di mandar loro i carabinieri, corrono a salvarle «per non pregiudicare ulteriormente l'economia».

In breve, la pressione è stata tale che Papandreou ha ritirato il referendum. La democrazia - in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano - non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, e in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional.

Nessun paese d'Europa ha gridato allo scandalo. Né la stampa, gioiello della democrazia. Non ho visto nessuna indignazione. Prendiamone atto.

Di fronte al precipitare della crisi finanziaria e al prepotente riemergere dell’ipotesi di un governo di emergenza, che trova robusti consensi nelle file del Pd e dell’Idv, Nichi Vendola ribadisce il suo no. «L’idea del governo tecnico, di una risposta emergenziale, non risolve il problema: siamo di fronte ad una crisi lunga, strutturale, direi di modello. Quelle che vengono apparecchiate come proposte tecniche sono in assoluta continuità con le politiche economico-sociali che hanno generato la crisi. Il governo di emergenza è una strada strategicamente sbagliata e politicamente poco fondata negli attuali rapporti di forza parlamentari».
Eppure l’Italia è a un passo dal baratro...

«Se per rispondere all’attacco speculativo si chiude a tenaglia la stretta sul welfare, se si prosegue con la retorica dell’austerità la politica della miseria, se non si mette in piedi un’idea di politica industriale e di crescita, noi continueremo a produrre tagli su tagli senza effetti virtuosi sul debito pubblico. Il Paese, nel frattempo, salta. E rischia di saltare la coesione sociale, l’architrave del patto che tiene insieme gli italiani».

Se un governo di emergenza dovesse vedere la luce, quale sarà il vostro atteggiamento?
«Negativo. Non esistono ricette neutre, se le medicine rischiano di uccidere l’ammalato, non è che se le acquisto in una farmacia più grande gli effetti sono meno nefasti. Quello che ci rende così vulnerabili agli speculatori è l’opacità della politica, l’autoreferenzialità di una classe dirigente barricata nei suoi fortini».

Secondo lei, insomma, se Berlusconi cadesse per il Paese non sarebbe comunque un balsamo?
«No. Per me il rischio è che si confondano le responsabilità e si rende ancora più torbida l’acqua in cui nuota l’opinione pubblica. C’è il rischio che si operi una sorta di sterilizzazione della coscienza critica nei confronti del berlusconismo, che la crisi venga addebitata alla politica tout court e non a al governo della destra, con tutte le conseguenze del caso sul piano della tenuta democratica. E poi guardiamo al caso greco: il referendum proposto dal premier Papandreou dimostra che il re è nudo e pone un tema ineludibile: qual è la legittimazione democratica di chi detta legge a parlamenti e governi? La drammaticità della crisi richiede un ingresso potente della politica, questa non è l’ora della “tecnica”».
Di Pietro propone una “controlettera” all’Ue. È praticabile?

«Ci si può ragionare. La nostra lettera, se ci sarà, dovrà contenere il capovolgimento dell’impianto di Berlusconi. Non si può non partire da una geografia sociale così segnata da elementi pesantissimi di iniquità. Nel paese è maturata una questione sociale dirompente, che non si può affrontare con l’artificiosa contrapposizione tra i nonni con 500 euro di pensione e i nipoti precari. Dobbiamo partire da una patrimoniale pesante, e da una significativa redistribuzione della ricchezza».

Negli ultimi giorni sembra allontanarsi l’ipotesi di un’alleanza tra centrosinistra e Udc alle prossime politiche... «Sarebbe la presa d’atto di un’intenzione più volte manifestata dal Terzo polo: correre da solo. Nel Pd qualcuno ha iniziato a riflettere anche sul caso Molise, per quello che ci insegna. Lì abbiamo scelto un candidato che veniva dal blocco avversario, con l’idea che avrebbe attratto voti moderati .È finita che l’Udc ha sostenuto il centrodestra e noi abbiamo perso per pochi voti, regalando molti consensi di sinistra ai grillini. L’”alleanzismo“ disinvolto, senza un’idea comune dell’Italia che vogliamo, rischia di sostituire l‘algebra alla politica. Ma non funziona».

Nel Pd sono stati i giorni di Renzi e della sua convention fiorentina. Lei cosa ne pensa?
«Rispetto Renzi, e spero che il confronto tra noi resti sempre sulla politica, senza degenerare mai. Lui ha fatto da destra un’operazione simile a quella che ho fatto io da sinistra». In che senso? «Propone il tema di un’innovazione radicale, di un’offerta politica che rompe le regole, rimescola le carte, e decostruisce il partito».

Perché gli appiccica l’etichetta di ”destra”?
«Accanto ad alcune idee di buon senso ma non molto nuove, Renzi propone in forme comunicativamente suadenti un rilancio dell’ipotesi neoliberista. Ma quello è il piano su cui ricostruire l’Italia o l’inizio della catastrofe? A questo si aggiunge la rimozione di alcune questioni aperte, a partire dal modello di sviluppo, e l’ambiguità sul peso del lavoro nella scena sociale. Si finge di non vedere quanto tutto il mondo del lavoro sia stato succhiato nel vortice della precarizzazione, e si costruisce una giustapposizione artificiale tra garantiti e non garantiti. Non si capisce come mai gli standard di vita dei garantiti debbano peggiorare per poter garantire gli altri. Insomma, vedo una forte continuità con le culture che da Reagan in poi hanno impregnato il mondo occidentale».

Una bocciatura senza appello? «Renzi ha un merito: disvela qualcosa che esiste nel Pd, un’ipoteca non moderata ma liberista sul futuro. E invece oggi c’è bisogno di un riformismo radicale, che si ponga come obiettivo la “conversione” del modello di sviluppo».

Ritiene che il sindaco di Firenze esprima un pensiero radicato nel Pd? «Sta cercando di rompere il giocattolo, per costruire una nuova alleanza tra poteri forti e comunicazione mediatica, come dimostra la scelta dei suoi testimonial, tutti con una cultura politica di destra».

Come la vedrebbe una sfida tra lei e Renzi alle primarie?
«Intanto il nodo della sua candidatura non è sciolto. Il dibattito fa bene, purché nessuno giochi a nascondino. Le carte vanno messe sul tavolo: per me un modello sociale che usa la crisi per rendere ancora più selvaggia la jungla del mercato del lavoro è il passato. E non si può danzare genericamente su temi come lavoro e pensioni».

Ieri Di Pietro in un’intervista all’Unità ha ipotizzato di non correre alle primarie per sostenere Bersani e rafforzare così la coalizione. «È un bel gesto, che dal suo punto di vista aiuta la semplificazione della contesa. Ciascuno di noi sta pensando insieme alla propria idea di programma e a come irrobustire il centrosinistra. Io lo faccio da tempo, concentrandomi sui ragionamenti politici, senza inseguire nessuno sul terreno delle polemiche. La mia presenza renderà le primarie un fatto vero, e questo è un bene».

Titolo originale: New York’s green new underground – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Sotto Delancey Street nel Lower East Side di Manhattan stanno nascosti nel buio e inutilizzati più di cinquemila metri quadrati di percorsi lastricati e soffitti a volta. Il terminale ferroviario del ponte di Williamsburg è abbandonato dal 1948, ma oggi ha suscitato l’interesse di un gruppo di investitori con un progetto ambizioso: convogliare sottoterra la luce naturale per creare un parco nel sottosuolo. Non si conoscono i particolari della soluzione tecnologica sviluppata dall’architetto James Ramsey, che è anche nel gruppo dei finanziatori, e resterà un mistero fino alla prevista dimostrazione. Ramsey ha comunque fatto cenno all’uso delle fibre ottiche.

La apprezzeranno i newyorkesi questa idea fuori del comune, così come successo per altri parchi urbani? Qui il livello dell’offerta è piuttosto alto dopo la seconda fase della High-Line a luglio, parco lineare ricavato da un tratto ferroviario sopraelevato in disuso che doveva essere demolito. Mentre oggi à una fascia erbosa sopra il livello stradale. La trasformazione ha consentito sia la conservazione di uno straordinario elemento di archeologia industriale, che attirato sei milioni di visitatori, lontano dal traffico. Non sorprende quindi che siano spuntate iniziative simili a Filadelfia, Chicago o Rotterdam.

Il sotterraneo di Delancey Street è sicuramente più audace della High Line, ma soprattutto si può fare? “Un’idea davvero stravagante, bizzarra, ma credo che abbia dei contenuti naturali” ribadisce Ramsay. Però restano parecchie questioni a cui rispondere, replica Nikolaos Karadimitriou, esperto di riqualificazione urbana all’University College di Londra. “É un progetto in grado di innescare qualche flusso economico, delle attività, delle tasse?” Potrebbe rivelarsi essenziale il sostegno degli abitanti. É il fattore che ha determinato il successo del caso della High Line. E stavolta potrebbe trasformare una “idea stravagante e bizzarra” in uno spazio verde per il Lower East Side

Fino a che punto le regole vigenti nell´economia mondiale sono tuttora compatibili con l´esercizio della democrazia? La domanda è più che legittima, vista la reazione di panico con cui i mercati finanziari, e insieme a loro tanti leader politici nonché le principali istituzioni monetarie, hanno condannato la decisione del governo greco di convocare un referendum sulle ricette amare prescritte dall´Unione europea.

Il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ne parla come di un "lancio di dadi". Il governo tedesco lo qualifica come inaccettabile "perdita di tempo". Quanto alle reazioni dell´establishment di casa nostra, basti per tutti l´aggettivo con cui Ferruccio de Bortoli, sul Corriere della Sera, liquida il referendum indetto da Papandreou: "Scellerato".

Scellerato il ricorso a uno strumento di democrazia diretta? E perché mai? La risposta implicita può essere una soltanto, dato che purtroppo non esiste ancora una Confederazione Europea titolare di sovranità democratica condivisa: uno Stato che, come la Grecia, ha accumulato un debito insostenibile, per ciò stesso sarebbe condannato alla perdita della sovranità nazionale; ai suoi cittadini, quindi, può venir confiscato il diritto di assumere decisioni sul proprio futuro.

Per giustificare un tale ricorso allo stato d´eccezione che contemplerebbe la sospensione dell´esercizio della sovranità popolare, qualcuno invoca il paragone storico: quando mai un leader politico come Winston Churchill avrebbe sottoposto all´opinione pubblica impaurita la decisione stoica di resistere all´aggressione nazista? La metafora bellica, però, è un´arma a doppio taglio: possiamo considerare un progresso che, nel mondo contemporaneo, il dominio sia fondato non più sugli eserciti ma sul debito. Purché si riconosca che siamo in presenza di una nuova forma di colonialismo.

Si badi bene. Il governo greco soffre di un deficit di forza e autorevolezza, è vero. Ma non si è sottratto al dovere di rinegoziare con l´Ue e il Fmi le condizioni del suo debito. Ne è conseguito un piano di rientro terribilmente oneroso. I cittadini non vengono chiamati a pronunciarsi su un singolo provvedimento, prerogativa del governo in carica, ma su una scelta per tutti loro vitale. Accettare i sacrifici necessari per continuare a far parte dell´Unione europea, o sobbarcarsi l´incognita del default? Già nella piccola Islanda, con due diversi referendum, gli elettori hanno rifiutato di onorare il piano di rimborsi predisposti dal Fmi, e hanno preferito penalizzare le banche creditrici inglesi e olandesi. È vero che se un´analoga decisione venisse assunta dai greci, le ripercussioni sarebbero molto più gravi per tutta l´eurozona. Ma resta la domanda: a chi spetta decidere? C´è forse qualcuno che può sostituirsi al popolo greco in un tale frangente?

Nel loro recente libro-dialogo Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky ricordano che per millenni la democrazia fu considerata un pessimo sistema di governo perché solo un´élite di avveduti saprebbe decidere per il meglio, non la massa degli ignoranti. Se invece restiamo fermi nella convinzione che "il popolo si può sbagliare ma resta il miglior interprete del proprio interesse", e quindi "ogni altro interprete è peggiore", allora dobbiamo guardarci dai vizi antidemocratici che contraddistinguono l´attuale gestione della crisi del capitalismo finanziario. Possiamo delegarla a autorità monetarie rivelatesi per decenni insensibili a piaghe come la disoccupazione e l´acuirsi delle disuguaglianze, se non addirittura compartecipi nel predominio della finanza speculativa? Non risulta beffardo che l´autonominatosi direttorio franco-tedesco sia oggi costituito da leader di destra che negli anni scorsi hanno boicottato una reale unione politica sovranazionale? Per non dire dei governanti italiani che fino a ieri blateravano di popoli in rivolta contro gli "euroburocrati", salvo sottomettersi ora acriticamente ai diktat di Francoforte e Bruxelles.

Una politica incapace di rimettere in discussione i dogmi di un´economia fondata sulla lucrosa perpetuazione del debito e sull´ideologia della competizione esasperata, subisce passivamente la contrapposizione tra finanza e democrazia; sposa le convenienze della finanza a scapito della democrazia. Del resto, la levata di scudi contro il referendum greco è un atteggiamento già sperimentato in Italia. Come dimenticare che la primavera scorsa il nostro governo sperperò centinaia di milioni nell´inutile tentativo di boicottare i referendum sull´acqua e sul nucleare, rinviandone lo svolgimento? E ora, nella foga di varare un piano di privatizzazione delle aziende pubbliche, il governo si prepara a calpestare quel voto contrario di ventisette milioni di italiani convinti che si debbano preservare dei "beni comuni". Tutti scellerati?

Chi nutrisse ancora dei dubbi dopo la kermesse di Villa Erba può tornare a casa sereno. In fondo i dubbi, salvo che per i seguaci di polverose dottrine filosofiche spazzate via dai signori delle certezze, fanno male, rendono insicuri, deboli e sottomessi. Oggi invece una certezza l’abbiamo:Expo 2015 è una faccenda di Comunione e Liberazione ma soprattutto del suo braccio secolare, la Compagnia delle Opere.

A Cernobbio si è capito chi conta e perché.Che il Celeste sia arrivato in elicottero fa parte della passione per il volo dei potenti: non tutti possono permettersi il jet, come Don Verzè, e poi diciamocelo, l’elicottero è più maneggevole, è una sorta di Smart del cielo, lo parcheggi ovunque. Un elicottero Agusta 109 da 5 Passeggeri + Pilota – costa solo € 38 il minuto e per il volo, compresi gli avvicinamenti immagino un 100 minuti tra andata e ritorno da Cernobbio, insomma solo 3.800 euri. Che sarà mai! Ma non fa sorridere.

Non fa sorridere perché chiarisce una volta per tutte di che pasta son fatti i nostri governanti e in che considerazione tengono la forma che per loro non è mai sostanza.A Cernobbio si parlava, però, di fame nel mondo e forse non era il caso di rintanarsi addirittura nel Monastero di Bose da padre Enzo Bianchi, ma di vie di mezzo ne avrei un pacco da suggerire. Insomma, cominciamo a far festa poi si vedrà. D’altro canto Villa Erba è una sorta di dependance di Fiera Milano Congressi dove Maurizio Lupi è amministratore delegato e vi fa svolgere tutte le manifestazioni che in un modo o nell’altro riesce a dirottare. Va da sé che nel board di Fiera Milano Congressi si entra dalla porta di CL. Se non ci fosse da piangere credo nei prossimi tempi potremo dedicarci a capire chi nell’affair Expo è targato CL e CdO.

Ma detto questo, che non è una novità per la Lombardia, anche se qualche bello spirito nega che vi siano rapporti organici da CdO e CL– “noi siamo un movimento ecclesiale e spirituale”- e tuttavia qualche libro a soggetto c’è nelle librerie. Molti studi di architettura milanesi stanno facendo domanda per diventare anche loro movimento ecclesiale: chi sa mai che basti per essere invitati a progettare qualcosa per Expo, le piccole imprese, quelle non associate alla Compagnia delle Opere, sono ormai centri di meditazione.

L’aspetto che mi preoccupa è anche un altro: ma che diavolo di Expo faranno lorsignori?Per il momento si è capito che ci saranno 400 milioni d’investimenti tecnologici per fare di Expo2015 la prima Ciber-Expo. Per il film Avatar si è speso meno. Avremo robot, realtà virtuali e muri elettronici. Expo potrà essere visitata in remoto da tutte le parti del mondo, sarà un’orgia di cuffiette, visori, tavolette. un gigantesco videogame che altri non ce n’è, una piattaforma informatica innovativa, avveniristica. Insomma un’expo virtuale prima di tutto. Perché allora comprare tanti terreni? Me la vedo da casa.

E la fame nel mondo? Beh agli affamati offriremo del cibo virtuale, un’agricoltura virtuale, potranno nutrirsi via internet senza muoversi dal loro Paese. Così va il mondo.Formigoni si è anche accreditato dei rapporti con i Paesi espositori con i quali, giustamente fedele alle sue abitudini, cercherà di intessere affari, speriamo più decifrabili di quelli petroliferi d’antan. E la fame nel mondo? Beh era la ciliegina sulla torta anche se un po’ piccola per il miliardo di affamati nel mondo. Il Comune che fa? Giuliano Pisapia ci ha ripetuto qualche giorno fa: “Non lasciatemi solo!”. Siamo tutti qui, basta un fischio.

La sentenza n. 951/2011 (depositata il 28 giugno 2011) del T.A.R. Lombardia-sezione di Brescia, delinea uno scenario importante che è bene venga conosciuto in ogni Comune italiano: un nuovo Piano di Gestione del Territorio (o Piano Regolatore) non può basarsi su previsioni di sviluppo demografico non giustificate. In parole povere, non è possibile che la nuova pianificazione si basi su un numero di abitanti potenziali di troppo superiore all'effettivo andamento demografico registrato nel corso degli anni. Nel caso in questione, il PGT di Soncino (Cremona) prevedeva un aumento del 30% della popolazione attuale a fronte di un'evoluzione demografica sostanzialmente stabile registrata nel Comune negli anni.

Limitandosi a sottolineare l'assenza di giustificazioni all'interno dei documenti di piano di tale scelta, i Giudici bresciani hanno quindi annullato il Piano del Comune di Soncino, invitando il Comune a dare successivamente debito conto delle proprie stime in sede di successiva adozione.

Nella sentenza si legge che è presente un “errore nel dimensionamento del piano […] sulla stima del futuro numero di abitanti”, il PGT annullato “prevede un considerevole aumento della popolazione residente, che dovrebbe accrescersi di 2.979 nuovi abitanti […] si tratta di un incremento superiore al 30% e considerevole anche in valore assoluto, previsto secondo logica nell’arco dei cinque anni che […] costituiscono il termine di validità del documento di piano”. 
Basta guardare l’andamento storico per verificare che “l’evoluzione demografica del Comune di Soncino, è caratterizzata da una sostanziale stabilità” citando la crescita di 321 abitanti negli ultimi 36 anni. Questa previsione di crescita spropositata e non dimostrata, a detta del TAR, è “senza dubbio una illogicità manifesta […] e comporta l’annullamento del piano”.

Quante decine (centinaia ? migliaia ? ...) di Comuni italiani conoscete in identica situazione ? Ora c'è una sentenza del T.A.R. a fare da precedente !

Corriere della Sera

Gli ulivi sterminati, la ferita del Salento

di Gian Antonio Stella

«Un bel paesaggio una volta distrutto non torna più e se durante la guerra c'erano i campi di sterminio, adesso siamo arrivati allo sterminio dei campi», scrisse Andrea Zanzotto, scomparso una ventina di giorni fa. Pensava alla sua campagna veneta, ma non solo. Ed è il dolore del grande poeta trevigiano che ti viene in mente guardando l'angosciante servizio che una giornalista di Telerama, un'emittente pugliese, ha dedicato allo stupro del paesaggio nel Comune di Carpignano Salentino, poco a nord di Maglie, nel Salento. Dove le ruspe hanno estirpato centinaia di bellissimi ulivi per fare posto a una centrale fotovoltaica.

L'abbiamo scritto e riscritto: nessuno, a meno che non accetti la rischiosa scommessa nucleare, può essere ostile alle energie alternative e in particolare a quella solare. Ma c'è modo e modo, luogo e luogo. Un conto è sdraiare i pannelli in una valletta di un'area non particolarmente di pregio e da risanare comunque perché c'erano i ruderi di una dozzina di capannoni d'amianto, come è stato fatto in Val Sabbia col consenso di tutti i cittadini, di destra e sinistra, un altro è strappare quelle piante nobilissime che la stessa Minerva avrebbe donato agli uomini e che fanno parte della nostra storia dalla Bibbia all'orto di Getsemani fino alle poesie meravigliose di Garcia Lorca: «Il campo di ulivi / s'apre e si chiude / come un ventaglio...».

C'è una legge in vigore, laggiù nel Salento. La numero 14 del 2007. Il primo articolo dice che «la Regione Puglia tutela e valorizza gli alberi di ulivo monumentali, anche isolati, in virtù della loro funzione produttiva, di difesa ecologica e idrogeologica nonché quali elementi peculiari e caratterizzanti della storia, della cultura e del paesaggio regionale». Né potrebbe essere diversamente: l'ulivo è nello stesso stemma della regione. È l'anima della regione. Eppure, denuncia Telerama, il progetto di quell'impianto «Saittole» da un megawatt della Solar Energy, è stato regolarmente presentato al Comune di Carpignano e da questi approvato nonostante l'area fosse agricola e fertile. Di più, l'autorizzazione finale è stata data dallo stesso assessore regionale all'agricoltura Dario Stefano che oggi dice: «Verificherò».

Certo è, accusano il Coordinamento Civico apartitico per la Tutela del Territorio e il Forum Ambiente e Salute del Grande Salento, che quegli alberi che crescevano solenni su quattro ettari di uliveto secolare, come dimostrano le immagini registrate, «sono stati espiantati e ripiantati accatastati gli uni agli altri come pali di una fitta palizzata, lungo il margine del fondo, senza neppure le dovute prescritte cure d'espianto riportate nella stessa autorizzazione, ad esempio la prescrizione della presenza di una zolla del raggio di almeno un metro». Un delitto. Che fa venire in mente quanto scriveva Indro Montanelli: «Ogni filare di viti o di ulivi è la biografia di un nonno o un bisnonno». Buttare giù quelle piante non è solo una porcheria: è un insulto ai nostri nonni.

la Repubblica Bari

Il Pdl chiede meno vincoli, ma è rivolta: “Vogliono cemento al posto degli alberi”

di Antonio Di Giacomo

Una levata di scudi per difendere gli ulivi. È unanime la bocciatura della proposta di modifica della legge regionale per la "Tutela e valorizzazione degli ulivi monumentali della Puglia", presentata nei giorni scorsi da Massimo Cassano, consigliere regionale del Pdl. "In Puglia ci sono 60 milioni di ulivi e - premette Cassano - di questi, 5 milioni sono delle vere opere d'arte della natura. "Monumenti" che devono sì essere tutelati, ma non necessariamente a esclusivo danno delle esigenze di sviluppo del territorio". Secondo il consigliere, insomma, la salvaguardia degli ulivi rischia di risolversi in un ostacolo all'economia regionale. "Si tratta di agire al più presto - suggerisce - nella duplice ottica della tutela del paesaggio e nel contempo del rispetto dei diritti acquisiti dai privati relativamente, ad esempio, alle aree edificabili, alle lottizzazioni, o al diritto degli imprenditori agricoli di fare reddito e, quindi, di poter riconvertire l'azienda. Tutte esigenze che, in molti casi, vengono al momento frenate o addirittura inibite dalla legge regionale. A questo punto occorre agire, in tempi brevi, per decentrare a livello comunale le competenze per il rilascio di autorizzazioni agli espianti e spostamenti di piante secolari e dei necessari controlli per il rispetto delle norme, prevedendo maggiori deroghe e snellendo assurdi procedimenti burocratici".

Una prospettiva che fa saltare dalla sedia l'urbanista Dino Borri, presidente regionale del Fai: "Mi sembra un'idea folle. E per svariate ragioni. La Puglia è una terra che ha l'ulivo come una specie di bosco coltivato e diffuso, che andrebbe anzi tutelato e vincolato al pari di una foresta. Oltre a essere un elemento costitutivo dell'identità paesaggistica, i milioni di ulivi presenti nella regione rappresentano sia una risorsa produttiva per l'economia territoriale che uno strumento di tutela idrogeologica con uno straordinario valore ecologico. Sicché reputo impensabile l'idea che si possa manipolare questa risorsa per fini di edificabilità". Non solo. A sentire Borri la stessa legge regionale di tutela degli ulivi, pure elevata a modello, non è di per sé sufficiente. "La Regione dovrebbe anzi accrescere i livelli di salvaguardia - osserva - applicando agli ulivi i criteri della foresta naturale. E non riesco a capire, in tal senso, perché si debba operare una distinzione fra gli ulivi monumentali e la stessa diffusa coltivazione degli ulivi dell'età moderna, risalenti al '700 e '800, e altrettanto importanti. Si pensi, dunque, agli ulivi disseminati in Capitanata come in Salento e Valle d'Itria. Da qualsiasi punto di vista si prenda la vicenda mi pare, insomma, che quelle di Cassano siano affermazioni insensate e violente".

Un'analisi condivisa da Gianni Picella che interviene nel dibattito, in nome del Centro studi permanente per la salvaguardia degli olivi monumentali nel Mediterraneo. "La proposta del consigliere del Pdl - accusa - dietro il paravento dello snellimento delle procedure per ottenere le autorizzazioni all'espianto di esemplari di olivi monumentali tende, invece, chiaramente a favorire la speculazione edilizia e le lottizzazioni". Da qui la preoccupazione, poi, rispetto al fatto che "non si può consentire che una domanda anche generica, documentata male, per nulla o addirittura falsamente, consenta per un qualsiasi ritardo o intoppo burocratico che la legge venga aggirata e che alberi monumentali vengano distrutti. È vero, un illecito si può forse perseguire, un palazzo edificato in dispregio alle leggi si può talvolta abbattere, ma un ulivo di 500 anni divelto non ce lo potrà mai restituire nessuno".

CINQUE TERRE (La Spezia) — C'è una frana invisibile. Che non fa morti. Ma annichilisce certezze e annebbia lo sguardo sul futuro. C'è aria di anno zero in questo paradiso violentato dal fango e dal dolore. Assieme alle case, ai ponti e alle strade, è il «modello Cinque Terre», frutto di un fragilissimo mix tra territorio e turismo (la tanto decantata «sostenibilità») a venire giù. Di colpo.

Quei 367 milioni di metri cubi caduti in una manciata di ore su queste terre (tanto per rendere l'idea: due volte il lago del Vajont) non hanno solo ucciso 10 persone (e 3 sono disperse), hanno anche strappato l'ultimo velo su un paradiso che per troppo tempo non ha voluto vedere il virus che lo divorava dentro. «Ci siamo venduti la terra, la casa e l'anima» dice l'ingegnere Franco Siccardi che insegna costruzioni idrauliche all'università di Genova. Il diavolo del business che divora l'angelo dell'ambiente. Il turismo unica religione. Come se Monterosso, Vernazza, Corniglia, Manarola e Riomaggiore potessero essere governati con la logica del divertimentificio romagnolo.

Lo scrittore Maurizio Maggiani, 60 anni, ligure di Castelnuovo Magra, un Campiello e il premio Strega nel carnet, ha mirato al cuore sulSecolo XIX: «Da 30 anni si è smesso di contenere i corsi d'acqua, rinforzare le terrazze e i muretti a secco. La gente si è arricchita in un colpo solo. Oggi chi possiede anche solo una cantina non ha nessuna intenzione di lavorare». E non si è fermato qua. A rischio di tracimare anche lui, si è scagliato contro Monterosso («Non esiste più da 20 anni»), contro la politica del Parco delle Cinque Terre, la cementificazione, gli abusi.

«Maggiani sputa nel piatto dove mangia. Se siamo morti da 20 anni, come mai lui continua ad avere l'ombrellone in prima fila?». È un ringhio quello di Angelo Betta, sindaco alluvionato di Monterosso (giunta civica con simpatie di centrodestra): «Cementificazioni? Quando mai? Ma lo sapete che qui ci sono vincoli ferrei, siamo nel Parco delle Cinque Terre. È dal '77 che non si costruisce niente...». Eppure gli ambientalisti gli fanno le pulci. Un autosilo da 300 posti in cima al paese. La piscina di un hotel a picco sul mare. E poi quella storia di presunti abusi edilizi in cui è finito il senatore Luigi Grillo, potente ras di queste valli e presidente della commissione Lavori pubblici, per alcuni interventi nella sua tenuta di Buranco: che ora è nel mirino della Procura di La Spezia, ma che in passato ha avuto titoloni perché lì si produce il vino sciacchetrà davanti al quale nel 2004 Silvio Berlusconi e l'allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, sancirono la pace.

Betta artiglia ogni accusa: «Il parcheggio? Ne abbiamo bisogno come il pane: questo paese passa da 1.500 abitanti a 20 mila per 8 mesi all'anno. La piscina? Una vasca di 100 metri quadrati, tutto autorizzato. Il senatore Grillo? È solo il crollo di un muro, che la magistratura faccia pure il suo lavoro».Un tempo si arrivava alle Cinque Terre con il trenino o scarpinando per sentieri. Oggi è un brulicare di auto. L'unico modo per centrare l'obiettivo dei 5 milioni di turisti all'anno. Un tempo i muretti a secco, le «miagie», imbrigliavano i versanti e le comunità montane pagavano i contadini che ci lavoravano. Ora le «miagie» scoppiano e finiscono a valle. E i figli dei contadini fanno gli affittacamere o i bagnini. «Qui molti si sono arricchiti e a diventare povero è stato il territorio» dice l'ambientalista Claudio Frigerio, uno dei primi a puntare il dito contro la gestione del Parco da parte di Franco Bonanini, detto il «Faraone», finito in manette un anno fa con alcuni funzionari di Riomaggiore per una storia di licenze e falsi.

Ora il carrozzone è in mano al commissario Aldo Cosentino, eppure qualcosa si è fatto: aumentati gli ettari coltivati (nel 1950 erano 1.350, nel 1999 solo 80, nel 2010 sono tornati a superare i 100); obbligo di coltivare 3 mila metri quadrati per chiunque faccia anche piccoli lavori sulla casa; recuperati terrazzamenti. Una goccia nel mare. «È prevalso un modello di gestione — dice il geologo Alfonso Bellini — che trascura la conservazione dell'ambiente perché non ha un ritorno economico immediato». Il sindaco di Vernazza, Vincenzo Resasco, non nega: «Il turismo è manna, ma sappiamo che senza ambiente non c'è business...». Ecco un buon inizio per l'anno zero.

Ci provano da quasi 40 anni, sempre bloccati dentro una storia che sembrava infinita. Ma ora ce l’hanno fatta: il cemento è arrivato, “Portopiccolo” sta per diventare realtà. Una grande speculazione turistico-immobiliare in uno dei più bei tratti di costa adriatica, nella baia di Sistiana, a 15 chilometri da Trieste.

Il luogo non solo è incantevole, con il suo microclima esclusivo, ma è anche carico di storia e di reminescenze letterarie, a un passo dal castello di Duino dei conti Thurn und Taxis, dove Rainer Maria Rilke scrisse le Elegie duinesi. La baia di Sistiana era l’unico tratto di litorale rimasto verde e inalterato dopo la massiccia cementificazione di tutta la riviera nord adriatica, dalla Laguna di Venezia alla Slovenia. Lì la costa si innalza smangiata da una cava di calcare, abbandonata negli anni Settanta: con la scusa di risanare e rimarginare quella vecchia ferita, in molti hanno provato a progettare interventi. Alla fine degli anni Settanta un ex ufficiale dei corazzieri, Quirino Cardarelli, arriva dall’Aquila con un progetto firmato dall’architetto Renzo Piano: “valorizzare” la costa con un porto turistico scavato nell’anfiteatro formato dalla cava ed edifici per 250 mila metri cubi. Il comune di Duino-Aurisina approva. La Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ratifica.

Insorgono gli ambientalisti, il Wwf, i Verdi, i comitati locali, che denunciano la violazione della legge Galasso. Nel 1991 il ministero dei Beni culturali annulla le autorizzazioni concesse dalla Regione, giudicandole “illegittime per eccesso di potere e violazione di legge”. Subito dopo, la Fintour spa di Cardarelli affonda e nel novembre 1992 l’impresario viene arrestato per bancarotta fraudolenta.

Si fa sotto un altro imprenditore che arriva da fuori regione: questa volta è il mantovano Carlo Dodi, un venditore ambulante che distribuendo prodotti Rimmel e accessori per la Barbie, con la sua Gabbiano spa, è riuscito a diventare un ras nazionale del commercio. Dodi, in trasferta sulla costa triestina, si butta nel business immobiliare per realizzare il colpo grosso della vita. Dopo il crac di Cardarelli, la sua Immobiliare Santi Gervasio e Protasio (Sgp) riesce ad acquistare i terreni della Fintour (900 mila metri quadri) all’asta fallimentare a un terzo del loro valore, sborsando solo una dozzina di miliardi di lire. Ottiene in affitto dalla Regione anche l’area della cava dismessa (80 mila metri quadri), che poi, nel 2003, acquista per 2 milioni e mezzo di euro, conferendo poi i terreni alla sua società Sts, Servizi turistici Sistiana. La vendita è uno degli ultimi atti del presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Renzo Tondo (centrodestra), prima dell’arrivo di Riccardo Illy (centrosinistra).

Dodi riesce perfino a far cambiare una legge regionale, per poter costruire sul luogo anche prime case (fiscalmente più convenienti) e non solo insediamenti turistici. Si assicura anche un finanziamento europeo a fondo perduto di 14 milioni di euro, cui deve però rinunciare, perché i soldi andavano spesi in tempi rapidi, mentre il progetto di “riqualificazione della baia” aveva tempi più lunghi.

Intanto gli ambientalisti – il Wwf, Italia nostra, Greenaction transnational – continuano la loro battaglia contro quella che ritengono una speculazione ai danni della costa. Si unisce agli oppositori anche la forte minoranza slovena locale. Nel 1998, anche il settimanale Il Borghese aveva pubblicato inchieste di fuoco sull’affare e sulle sue coperture politiche: “Un gruppo di persone, sempre le stesse, da anni si passa la baia di Sistiana, di società in società, di fallimento in fallimento. Incassano i finanziamenti delle ipoteche concesse da banche compiacenti e non onorano i debiti”. L’allora presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Roberto Antonione (Forza Italia), aveva querelato per diffamazione, ma i giornalisti erano stati assolti. Alla fine, a opporsi restano poche voci fuori dal coro, gli irriducibili Simone Napolitano del Comitato turistico-economico Rilke, Paolo Parovel del settimanale triestino Il Tuono, Roberto Giurastante di Greenaction transnational. Articoli, inchieste, esposti alla magistratura di Trieste e alla corte di Strasburgo non ottengono, fino a oggi, alcun risultato.

Ora siamo a un passo dal traguardo. A edificare è la Rizzani De Eccher spa, colosso delle costruzioni con sede nei pressi di Udine, che si è aggiudicata un appalto di 110 milioni di euro. Così la vecchia cava sulla costa cara a Rilke viene trasformata in un grande centro immobiliare e del divertimento. Le istituzioni locali, dopo quasi quattro decenni di intrecci tra politica e affari, applaudono contente. Il sindaco di Duino-Aurisina, Giorgio Ret: “Sistiana è un bene ambientale per tutti”. La presidente della Provincia di Trieste, Maria Teresa Bassa Poropat: “Vinta la sfida: riqualificare senza offendere la naturalità del luogo, che potrà anche meglio integrare lingue e persone diverse del territorio”. E Renzo Tondo, tornato a presiedere la Regione dopo la parentesi di Illy: “Le idee camminano sulle gambe dell’uomo, la perseveranza ha vinto. Sistiana proietta il Friuli-Venezia Giulia sullo scenario internazionale”. Dietro i politici, i promotori privati brindano al successo dell’affare. Hanno già venduto in un anno il 70 per cento delle unità abitative (a costi che vanno dai 6.500 ai 7.500 euro al metro quadro) e superato il break-even dell’operazione. Ma intanto, nel luglio 2010, dopo oltre quindici anni di battaglie e proprio a un passo dal traguardo, il vincitore è apparentemente scomparso dall’affare Portopiccolo: Dodi ha passato la mano al Fondo Rilke, un fondo chiuso d’investimento immobiliare. Il project management, il controllo di gestione e di cantiere, è stato affidato alla anglo-australiana Bovis Lend Lease. Della commercializzazione si sta occupando il Gruppo Valdadige di Verona.

Che fine ha fatto Dodi? È davvero uscito dall’affare? No. Si è soltanto reso invisibile. Ha investito nel Fondo Rilke, restando però di fatto l’operatore di riferimento dell’operazione Portopiccolo. Tanto che a metterci la faccia resta sempre il suo braccio destro a Trieste, Cesare Bulfon, che ripete il suo slogan per la baia di Sistiana: “Trasformare qualcosa di devastato dall’uomo in un luogo dove gli uomini possano trovare serenità”.

Che cos’è il Fondo Rilke? Lo ha costituito nel 2010 la Serenissima sgr, controllata dalla Società autostrade di Brescia, Verona, Vicenza e Padova, concessionaria del tratto Brescia-Padova della A4. Serenissima sgr è tra le prime dieci società di gestione del risparmio in Italia attive nel settore dei fondi immobiliari, con asset per circa un miliardo di euro. Nel febbraio 2011 è passata di mano: il 51 per cento di Serenissima sgr è stato acquistato per 14 milioni di euro dalla Centrale Finanziaria di Giancarlo Elia Valori. Vecchia conoscenza dell’Italia dei poteri & dei misteri, Elia Valori è l’unico membro della P2 espulso dalla loggia di Licio Gelli perché faceva ombra al Maestro Venerabile.

Una bella coppia, potente e invisibile, l’ex venditore ambulante Dodi e il supermassone Elia Valori. Alla fine del 2013, Portopiccolo sarà pronta, promette il gentilissimo Bulfon. L’inaugurazione sarà però agli inizi del 2014, “perché le ultime piante di questo paradiso potranno essere messe a dimora soltanto a primavera”.

Qui un'ampia documentazione sulla vicenda di Baia Sistiana

Titolo originale: Detroit: rejuvenation through urban farms, sustainable living and innovation – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ero stato a Detroit l’ultima volta diciassette anni fa, e la mia prima impressione tornandoci è stato quello sconcertante silenzio. Quelle larghe vie verso il centro svuotate dalle macchine. In quelle zone un tempo trafficatissime e piene di enormi edifici, adesso si sentiva solo il suono dei miei passi. L’ex rombante Motor City, mi pareva ridotta a un sussurro. Ma è una prima impressione che nasconde quello che invece a Detroit sta accadendo realmente, coi suoi abitanti che lavorano non solo per sopravvivere, ma per rilanciare, far addirittura diventare ricca, la città. Con ostacoli da superare enormi. A Detroit ci saranno sempre le fabbriche di automobili, ma non più a fare da base economica e motore di occupazione come hanno fatto per un secolo. In una città che ha perso oltre un milione di abitanti dal 1950, si è deciso che la sopravvivenza sta nel demolire, nello smontare. Si prevede di smantellare 10.000 abitazioni nei prossimi anni.

Ma accade molto di più delle sole demolizioni, a Detroit. Famiglie che abitano qui da generazioni, o nuovi arrivati, si riprendono la città nelle proprie mani. Nella parte vecchia resiste una straordinaria serie di architetture art deco, c’è un museo d’arte con collezioni del valore di un miliardo di dollari, una solida rete di industrie. E adesso tutto questo sarà immerso in un ambiente che mescola l’urbano e il rurale. L’aspetto rurale, costruito grazie a quelle determinate braccia, potrebbe ribaltare del tutto la nostra idea di città. Detroit come modello per i centri che invecchiano e cercano una nuova via.

Oggi predominano ampi spazi aperti, che hanno dato agli abitanti l’occasione di recuperare un rapporto diretto con ciò che si mangia. Spariti quasi del tutto i supermercati, e coi drugstore che vendono soprattutto prodotti confezionati (o magari freschi ma importati dal Sudamerica), ci sono associazioni cittadine come Earthworks che insegnano come si fa a coltivare frutta e verdure, come si pianta, si raccoglie, si fertilizza, si conserva. “Non è solo sopravvivenza” spiega Shane Bernardo, coordinatrice del lavoro esterno di Earthworks, all’avanguardia del movimento per l’agricoltura urbana a Detroit dal 1997. “É anche giustizia economica, e sul lungo periodo resilienza economica”.

Contemporaneamente c’è la Hantz Farms di un imprenditore finanziario che mira a offrire prodotti alimentari con tecniche sostenibili e energie da fonti rinnovabili. Che Detroit diventi leader globale dell’agricoltura urbana? Beh, dopo tutto il Michigan è una delle aree a maggior biodiversità del Nord America, come si vede benissimo ogni giorno nel sempre affollato Eastern Market. Una resilienza manifestata da una creative class in crescita. In una città in cui si comprano per 300 dollari grossi lotti residenziali, e ci si accaparra una casa con poche migliaia, stanno arrivando giovani imprenditori, sistemano abitazioni, fanno partire iniziative. Case che non erano più da tempo attaccate alla rete elettrica adesso si alimentano con pannelli solari e turbine eoliche.

In alcuni casi si va anche agli estremi: i giornali parlano di abitanti che vivono senza alcun contatto coi normali circuiti economici, e diventano casi su Youtube. Con tante case disponibili, altre persone hanno fatto di ex quartieri come Bloomtown una specie di tela da ridipingere con arte. Alla Wayne State University sperano che saranno in molti, vecchi e nuovi residenti, a trovare lavoro nella TechTown. Parco scientifico di Detroit e incubatore di oltre 220 imprese alle prime armi, mentre ce ne sono tante altre il lista d’attesa. A regime, la superficie di 12 isolati urbani comprenderà un quartiere a funzioni miste fruibile a piedi da tutti quelli che lavorano nelle vari attività legate a energie rinnovabili, scienze della vita e engineering. Ci sarà da 2016 anche la metropolitana leggera per andare fino al fiume, agli impianti sportivi, alle zone per l’intrattenimento, o verso il suburbio esterno.

La nuova Detroit sarà un solido sistema economico e culturale innestato sulla Woodward Avenue dal centro attraverso Wayne State sino a Ferndale. Attorno ampi tratti di superfici coltivate, sino a Dearborn a ovest, a Grosse Point verso est e il Lago St. Clair. Ma la vera sfida per la cittadinanza e l’amministrazione è quella di convincere anche i più poveri soli e disincantati cittadini, che ci sia un futuro oltre l’incertezza, per Detroit.

Un anno e mezzo dopo lo scoppio della crisi greca, due mesi dopo lo scoppio delle manifestazioni a Wall street e in tutto il mondo - e mentre crollano nuovamente i mercati - la necessità di una svolta nella politica europea arriva sulla prima pagina del Sole 24 Ore, con il "Manifesto per risollevare l'Europa" di Daniele Bellasio e Enrico Brivio. Si propongono cinque cambiamenti di rotta per «permettere all'Europa di fare un vero salto di qualità, disinnescare la crisi del debito sovrano e presentarsi ai partner a testa alta» al G20 di domani: un vero governo economico europeo, una banca centrale che funzioni come la Fed americana, Euro project bond per le infrastrutture, Euro Union bond per ridurre i costi del debito pubblico, un mercato unico per il credito.

Finalmente si apre una discussione all'altezza dei problemi. Non si può non essere d'accordo su una Banca centrale che sia tenuta non solo a combattere l'inflazione, ma a sostenere la crescita: lo si chiede dalla fondazione della Bce. D'accordo in linea di principio sul governo economico europeo, ma qui il Sole lo vorrebbe «guardiano della disciplina fiscale», mentre serve un protagonista della politica economica che possa sostenere la domanda per evitare una grande depressione in Europa.

D'accordo sugli eurobond per finanziare progetti di sviluppo, ma basta, per favore, con le "grandi opere" che non servono e non si fanno: usiamo gli eurobond per finanziare la riconversione ecologica dell'economia, il risparmio energetico, le energie rinnovabili, le "piccole opere" che creano occupazione e qualità della vita. D'accordo pure con la proposta di Prodi e Quadrio Curzio, già apparsa sul Sole, sugli eurobond per ristrutturare - a condizioni migliori - il debito pubblico esistente.

Un po' meno d'accordo sul mercato unico per il credito. È dal 1990 che si liberalizzano i mercati dei capitali e la finanza, e pensare che altre liberalizzazioni portino stabilità sembra quantomeno ingenuo. Stupisce il silenzio del Sole sulla tassa sulle transazioni finanziarie su cui perfino Merkel e Sarkozy hanno concordato, e sulle altre misure che potrebbero limitare la speculazione finanziaria che ha colpito l'Europa. È comunque una buona notizia ritrovare sul Sole alcune delle proposte emerse nella discussione aperta nel luglio scorso dal Manifesto e da Sbilanciamoci sulla "rotta d'Europa". Il problema - anche per il Sole - è capire quali possono essere le "gambe" politiche che a Roma e a Bruxelles potranno sostenere quest'agenda. Confindustria si vuole impegnare su questa strada? Che interlocutori troviamo in parlamento? Come convinciamo la Germania sugli eurobond? Ma forse c'è un'altra buona notizia, Il Manifesto italiano appare nel giorno dell'insediamento di Mario Draghi alla Presidenza della Bce a Francoforte: che sia un segnale di cambiamento possibile nella politica della Banca centrale?

Da quando hanno cominciato a protestare, gli indignati hanno denunciato via via l´ottimismo illusionista dei governi, le istituzioni internazionali spesso indifferenti ai vincoli democratici, infine la Banca centrale europea: nostro salvagente, ma salvagente riluttante a tramutarsi in prestatore di ultima istanza. Le denunce possono convincere o no, ma dietro c´è una domanda cruciale, cui non si sfugge.

La domanda è comune agli indignati e alle forze che in queste ore, più che mai, mostrano di non credere in Stati come Grecia e Italia, non escludendo funeste bancarotte: chi comanda, nell´emergenza che viviamo? E se davvero la crisi prelude a una mutazione radicale delle società, se davvero Roma o Atene s´inabissano: quali poteri decideranno il da farsi, combinando o non combinando i sacrifici con la giustizia sociale che fonda le nostre democrazie? Chi controlla i controllori?

Davanti a questo bivio stiamo, e la domanda è cruciale perché pone al tempo stesso la questione della sovranità e della democrazia. E perché è una domanda che in Italia sale dal Quirinale stesso, che giudica il vuoto politico ormai non più tollerabile. La risposta che dà Berlusconi - colpevole è l´euro, «moneta strana che non ha convinto nessuno» - è non solo becera. È nichilista, perché scaricare le responsabilità su Francoforte significa perpetuare la truffa illusionista e non capire il tracollo del proprio ventennio: ventennio che si chiude con una sorta di sconfitta bellica simile a quella che travolse Mussolini. Quando il Premier gioca allo sfascio attaccando l´euro, e poi fa come se avesse detto il contrario, mostra che la cacofonia affligge non tanto la sua maggioranza quanto la sua testa, e quel che la testa gli fa dire. Con cortesia gelida, Mario Monti gli ha ricordato in una lettera aperta sul Corriere che «anche le parole non sorvegliate hanno un costo», pagato da noi tutti.

Altri giocano allo sfascio, più o meno scompostamente. C´è chi, come il Premier greco, indice un referendum spericolatissimo sull´austerità, presentandolo come democrazia. C´è chi accarezza l´idea di sospenderla, la democrazia, persuaso in segreto che la via sia quella di Donoso Cortés, il politico spagnolo dell´800 che preferiva l´autoritarismo alla sempre titubante clase discutidora. Chi parla di governi italiani di salute nazionale indica la soluzione (il Quirinale stesso fa sapere che «servono larghe intese»), ma esiste il rischio di curare i mali col veleno che li ha creati. Non abbiamo bisogno che al governo vada un outsider infastidito dalla politica, magari con nuovi conflitti d´interesse: l´esperimento è già stato fatto, dopo Mani Pulite, dall´imprenditore di Arcore. Credo che l´Italia abbia sete di veri politici, di servitori dello Stato come Monti che è stato per anni civil servant in Europa, allo stesso modo in cui per liberarsi da Tangentopoli ebbe bisogno di Ciampi, del suo senso della res publica. Il nostro risanamento non può avvenire in due tempi: prima la democrazia sospesa, poi il ritorno al confronto politico normale.

Se ben governata, la catastrofe italiana può infatti riservare sorprese non distruttive, e fornire una risposta alla doppia domanda di indignati (e mercati) su sovranità vera e democrazia. Tutto verte attorno al termine commissariamento, vissuto come un´onta da gran parte della nostra classe dirigente. In un articolo pubblicato il 28 ottobre sul Sole 24 ore, dopo l´accordo di Bruxelles e la lettera d´intenti italiana, Beda Romano ha scritto un importante articolo, che punta il dito sulla frase più rivelatrice del comunicato finale del vertice Ue: «Invitiamo la Commissione a fornire una valutazione dettagliata delle misure e a monitorarne l´attuazione, e le autorità italiane a fornire tempestivamente tutte le informazioni necessarie per tale valutazione».

Il passaggio equivale a un commissariamento solo se restiamo convinti che gli Stati nazione siano ancora capaci di comando, nell´emergenza. Ma il comunicato può esser letto in modo radicalmente diverso: come primo segno di una riduzione delle sovranità nazionali, non negativa anche se vissuta - in Italia - dolorosamente e non democraticamente. «L´Italia è diventata all´improvviso un banco di prova per l´intera unione monetaria», scrive Romano, e, lungi dall´essere commissariata, potrebbe essere «il battistrada di una nuova Europa».

Non per questo però il dramma s´attenua. L´esperimento che trasforma l´Italia in embrione di governo europeo nasce con vizi gravi: affronta la questione della sovranità, non della democrazia. È uno dei punti salienti del discorso, lucido, che Napolitano ha tenuto a Bruges il 26 ottobre: una nuova Europa sta forse nascendo, non solo economica ma politica, dotata di una «sovranità europea condivisa», ma alla metamorfosi dell´Unione potranno contribuire in maniera inventiva solo Stati non disfatti, ridotti a cavie, tentati dall´antipolitica, ma che stiano in piedi agendo da protagonisti su ambedue i piani: apprendendo la cultura della stabilità, e spingendo i partner dell´Unione a fare più Europa, a dotare il bilancio comunitario di più mezzi, a osare la messa in comune dei debiti con gli eurobond, a riprendere il sentiero dell´Europa sociale. Anche nel quadro di un avanzamento dell´Unione, ha detto Napolitano lunedì, «restano affidate inderogabili funzioni agli Stati nazionali, e decisivo resta il loro concorso al perseguimento delle stesse politiche comuni europee». Come concorrere, se lo Stato naufraga?

La cessione di sovranità non può iniziare profittando di un legno marcio, oltre che storto. Altrimenti il battistrada diverrà spauracchio. La Francia farà simili passi? E la Germania, il cui nuovo nazionalismo Habermas giudica severamente, cederà infine sovranità? Si ritorna così alla prima domanda: se l´Italia è apripista, chi comanderà la futura Europa delle sovranità condivise? Che volto avrà il governo sovranazionale: quello del Leviatano di Hobbes (l´autorità fa legge), oppure esisteranno regole cui l´auctoritas dovrà sottostare? Se il referendum greco minaccia l´euro, quale democrazia europea inventare, perché i cittadini non si sentano spodestati?

Disvelare i veri poteri e democratizzarli è il compito dei partiti europei. Un compito arduo in Italia, perché doppio: si tratta di allontanare Berlusconi, che evidentemente crea sfiducia ovunque, e di lavorare, in Europa, per un salto di qualità federale. Nicola Zingaretti, nel manifesto scritto il 27 ottobre sul Foglio, fa proprio questo: è l´unico, a me pare, ad auspicare una battaglia simultanea in Italia e Europa. Quel che propone, in sintonia con Napolitano, è lanciare subito «una campagna per l´elezione diretta del presidente dell´Unione europea», per rispondere alla richiesta di un nuovo spazio politico. I politici italiani di destra e sinistra sono accusati di aver «abdicato alla missione per la quale fu intrapreso il cammino dell´unità (il cui simbolo vincente è stato senz´altro Romano Prodi)» e d´aver rinunciato ad affiancare un´Unione politica democratica a quella economica. Alla domanda di indignati e mercati urge rispondere indicando con chiarezza quali sono i poteri e i contropoteri negli Stati e nell´Unione: «Nell´era della comunicazione globale le persone vogliono giustamente sapere chi decide e controllare direttamente l´iter delle scelte».

Anche la Banca centrale europea deve cambiare, secondo Zingaretti, e darsi nuovi poteri e missioni: «Bisogna dotare l´euro degli stessi strumenti di cui gode oggi il dollaro, ed evitare che l´assenza di strumenti difensivi flessibili nel sistema monetario esponga la nostra moneta alla speculazione». Non lo propone solo Krugman, spesso scettico verso l´euro. Anche europeisti come Paul De Grauwe, Charles Wyplosz, Jacques Delors, chiedono che sia consentito all´istituto di Francoforte di divenire una Banca centrale autentica, prestatrice di ultima istanza. Solo così, secondo Delors, le istituzioni europee saranno «non i pompieri, ma gli architetti dell´Europa» che verrà, se la vorremo.

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