Il rapporto tra pubblico e privato conosce da qualche tempo una profonda fase di riassestamento sia a livello giuridico che politico-sociale. Effetto del ciclo neoliberista che ha dominato l'economia mondiale fino alla recente fase recessiva, l'accentazione posta sul primato del privato ha vissuto una fase espansiva in tutti i settori fino all'ultimo biennio, durante il quale, al contrario, si è sviluppata una reazione fondata, dal punto di vista ideologico, sulla difesa e riconquista dei "beni comuni", fra i quali rientrano i beni culturali e il paesaggio.
In questo ambito, alcuni recenti episodi hanno riproposto la complessità ancora irrisolta del rapporto fra pubblico e privato, a partire dalla sponsorizzazione dei restauri del Colosseo a opera dell'imprenditore Della Valle, che ha fatto riesplodere polemicamente, e talvolta in maniera alquanto provinciale, la discussione in Italia. Se da un lato, infatti, tale operazione è stata accreditata come un episodio di neomecenatismo, dall'altro, al contrario, l'imprenditore in questione è stato accusato di avere lucrato su uno dei monumenti-icona, forse il più internazionalmente celebrato, ottenendo, in cambio di una cifra tutto sommato non elevatissima, un ritorno di immagine che in termini economici, come è stato calcolato, sarebbe almeno dieci volte superiore all'investimento di partenza. Insomma, un ottimo affare.
Ma mentre l'anfiteatro flavio continua a essere al centro dell'attenzione di sponsor più o meno interessati, a pochi passi di distanza la famosa residenza dell'imperatore Nerone, la Domus Aurea, giace da anni in stato di semiabbandono, esposta a crolli, l'ultimo dei quali, del marzo 2010, disastroso. Questo perché, se trovare sponsor per il Colosseo è assai semplice, la Domus Aurea - seppur monumento di fondamentale importanza, addirittura cruciale nel fenomeno di riscoperta dell'antico che ha dato vita al Rinascimento - non è altrettanto appetibile per neomecenati alla ricerca di un'immediata visibilità.
Eppure, esempi virtuosi di mecenatismo vero e proprio sono possibili, anche in un Paese, come il nostro, che nonostante le reiterate promesse di defiscalizzazione in ambito culturale, non ha mai intrapreso alcuna seria iniziativa normativa in tal senso. A Ercolano, l'imprenditore americano David Packard, da oltre un decennio, finanzia le attività di manutenzione del sito campano, in piena collaborazione con gli organi tecnici della Soprintendenza, a cui è affidata la direzione scientifica e il coordinamento dei progetti. Si tratta di un esempio poco conosciuto, anche per volontà dello stesso Packard, la cui iniziativa si colloca in quel filone di filantropismo anglosassone che pare del tutto alieno al culto della personalità assai frequente, invece, nell'italica antropologia. Una vicenda, se non opposta a quella romana, senz'altro ispirata da differenti impostazioni culturali.
In ogni caso, se, come appare dall'attuale, difficilissima situazione economica, le risorse pubbliche per la gestione del patrimonio culturale saranno destinate a rimanere limitatissime, coinvolgere altri attori - dagli enti locali ai privati, sponsor o mecenati che siano - diviene una necessità ineludibile. Ma questa evoluzione di sistema, che impone un ripensamento della tradizionale struttura istituzionale attualmente in grande affanno, richiederebbe una regia centrale ispirata a una strategia trasparente e innovativa sul piano amministrativo e culturale.
Anche se fino a questo momento l'azione del Ministero per i beni e le attività culturali è apparsa, al contrario, estemporanea e priva di una strategia complessiva, se si vogliono coinvolgere risorse di ambito privato - senza provocare danni al tessuto delle attività di tutela, nucleo fondativo di tutta la gestione del nostro patrimonio culturale - occorrerà elaborare un sistema di regole chiare e culturalmente aggiornate (che non significa piegate ai mantra pubblicitari del momento), uno strumento imprescindibile per attivare le risorse, non solo finanziarie, di parte privata, coinvolgendole in progetti convincenti e di ampio respiro.
In ambito italiano, poi, come accennavamo per il caso Packard, è necessario anche stimolare una cultura del mecenatismo, ancora pressoché assente: una carenza che ben si coniuga con un tipo di capitalismo, quale è quello prevalente in Italia, familistico e attardato su pratiche clientelari e lobbistiche nel senso deteriore del termine. Segno inequivoco di un atteggiamento di puro sfruttamento personale del patrimonio culturale sono, per esempio, gli abusi ancora troppo frequenti sul nostro territorio, a partire da quelli edilizi che ne intaccano aree preziose. I reati edilizi - non più riconducibili, da molti decenni, a necessità abitative, ma degenerazione estrema di un'economia parassitaria e arcaica fondata sulla rendita immobiliare - continuano purtroppo a devastare il nostro paesaggio.
La tendenza a favorire, sul piano dei provvedimenti normativi, il godimento personale ed esclusivo ha portato a un laissez faire generalizzato sul territorio e ha provocato la privatizzazione di porzioni che, anche se singolarmente non elevate, nel loro insieme hanno gravemente limitato l'uso collettivo di ampie aree del paesaggio. Le villettopoli venete e lombarde, lo sprawl urbano che caratterizza tutta la pianura padana e dilaga lungo le nostre coste, la "città stravaccata", oggetto dei sarcasmi anticipatori di Antonio Cederna, sono oggi il risultato di un processo degenerativo che continua, senza sosta, da alcuni decenni.
All'effetto di degrado e di disarmonia che caratterizza ormai, oltre a moltissime periferie urbane, tante aree un tempo destinate a uso agricolo, si aggiunge, nelle zone di maggior pregio paesaggistico, il danno derivante dall'esclusione di tali spazi dal pubblico godimento, in quanto in anni passati, grazie a normative permissive e ad abusi mai sanati e purtroppo mai cessati, molte (troppe) di queste aree sono state accaparrate da privati. Fenomeno che si è ripetuto, per esempio, sui punti più suggestivi dei nostri litorali, come anche all'interno di aree formalmente protette da vincoli.
Esemplare come poche altre, a tale proposito, è la vicenda del parco dell'Appia Antica, straordinario spazio in cui natura e cultura, perfettamente integrate, hanno creato, nei secoli, un ambiente dalle caratteristiche uniche per fascino e importanza archeologica e paesaggistica. Nonostante questo, l'Appia rappresenta una sorta di bignami dei danni inferti da speculazione edilizia di alto livello, abusivismo e successivi condoni, spregio della legislazione di tutela, vandalismi e degrado in senso lato da parte dei privati.
È il settembre 1953 quando sul "Mondo" esce I gangster dell'Appia, l'articolo con cui Antonio Cederna comincia quella che sarà per lui la battaglia di una vita: soprattutto alla sua penna di "appiomane" dobbiamo infatti se questo luogo riesce a entrare stabilmente nell'agenda delle discussioni sul nostro patrimonio culturale. In oltre 140 interventi a stampa in difesa della regina viarum, Cederna evidenzia, con efficacia rimasta ineguagliata, l'antitesi fra l'enormità del valore culturale ed estetico dell'Appia nel suo complesso e il livello di degrado a cui l'insipienza e l'arroganza del potere e del denaro la vorrebbero ridurre. Prima degli altri, egli comprende la necessità di una tutela integrale di quegli spazi: a lui soprattutto si deve se la regina viarum comincia a essere non solo considerata come un'area di residenze esclusive, ma anche vissuta come spazio di loisir destinato ai cittadini romani.
Alla sua morte, nel 1996, il destino - non il caso - fa sì che sia assegnata a Rita Paris la responsabilità della tutela dell'Appia per conto della Soprintendenza archeologica di Roma. In questo passaggio risiede la sostanziale continuità che la storia moderna dell'Appia Antica riesce a mantenere. La battaglia a difesa di questi luoghi prosegue sia sul piano dell'attività di tutela, sia, con uguale attenzione, seppure con altre modalità, sul versante comunicativo.
L'azione della Soprintendenza si è organizzata e, pur nella costante esiguità delle risorse a disposizione, è riuscita a esprimere una visione della tutela non esclusivamente difensiva, ma vocata a un'espansione degli spazi in termini di qualità della fruizione e di ampliamento complessivo del bene pubblico. È una visione di medio-lungo termine, che si scontra, pressoché quotidianamente, con le pulsioni deregolative di un'interpretazione distorsiva e pre (o post) moderna della proprietà privata, troppo spesso aiutata dalle lentezze e incertezze dell'azione del Ministero a livello centrale. Una visione che tuttavia riesce a reggere le maglie di un sistema, garantendo la piena salvaguardia dei monumenti vincolati e la loro riqualificazione sotto il profilo comunicativo, e conseguendo addirittura alcuni risultati straordinari, primi fra tutti le aree della Villa dei Quintili e di Capo di Bove, restituite, nel loro pur diverso fascino, al "godimento di tutti".
Fra i tanti meriti della Soprintendenza archeologica vi è anche quello di aver garantito, attraverso la massima trasparenza della propria azione, anche un'informazione puntuale e costante sulle vicende dell'Appia, richiamando opportunamente l'attenzione su un bene comune di tanta importanza attraverso periodiche iniziative di illustrazione della propria attività, ma anche di discussione delle molte criticità aperte.
A questo fine mira la mostra fotografica "La via/mia Appia. Laboratorio di mondi possibili tra ferite ancora aperte", visitabile fino all'11 dicembre 2011 nella villa di Capo di Bove, in via Appia Antica 222. Attraverso 70 foto, storiche e recenti, viene ricostruita la storia della tutela della regina viarum, da Luigi Canina (metà Ottocento) a oggi. Una grande parete ricuce le tappe principali: iniziative, proposte di legge, piante storiche, documenti; così come il catalogo, La via Appia, il bianco e il nero di un patrimonio italiano, racconta alcuni dei passaggi fondamentali della storia moderna dell'Appia Antica e ne sottolinea l'esemplarità.
Sono circa 2.500 gli abusi, di varia entità, censiti nel tempo, contro i quali poco o nulla si riesce a fare: lo stesso Cederna, d'altronde, si era dovuto scontrare, ripetutamente, con l'inerzia di un'amministrazione incapace di eseguire le sentenze di abbattimento decretate dalla magistratura. Causa del degrado non è solo l'abusivismo, ma il mancato rispetto delle regole a ogni livello, a partire dalle prescrizioni d'uso, che troppo spesso i privati sentono come un vincolo intollerabile al loro diritto di proprietà, dimentichi del fatto che tale proprietà deve il suo valore a chi nei secoli ha trasformato questo territorio in un luogo di meraviglia, e che il privilegio di risiedervi non può non comportare, in qualsiasi comunità civile, qualche piccolo sacrificio. La norma, invece, sono i ricorsi continui nei confronti dei provvedimenti di vincolo, ricorsi che obbligano la Soprintendenza a un'estenuante guerriglia giudiziaria, spesso perduta per mancanza di adeguata tutela giuridica.
Eppure, nonostante tutto, si succedono anche le scoperte straordinarie e le iniziative di restauro e riqualificazione degli spazi. Nel 2002 la Soprintendenza acquista la Villa di Capo di Bove, riaperta al pubblico, dopo scavi e restauri, nel 2006. E il 12 novembre 2008, nella Villa, è stato inaugurato l'Archivio Cederna: l'insieme dei documenti e degli scritti del principale difensore dell'Appia trova una sede adeguata lungo la "sua" via. L'Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna, attraverso una convenzione con la Soprintendenza, partecipa all'iniziativa, curando il riordino informatico e collaborando alle iniziative di valorizzazione dell'Archivio.
Intanto l'Appia continua a rappresentare un'esemplificazione completa, nel bene e nel male, della situazione del nostro patrimonio culturale: dalla coesistenza tra necessità della tutela ed esigenze della modernità, tra fruizione pubblica e limiti della proprietà privata, fino alla piaga dell'abusivismo, che qui come altrove pare inestirpabile. Ma, come ci ricordava Cederna nel 1963: "Anche nelle situazioni più compromesse le battaglie condotte per anni dalle forze della cultura, dai tecnici coscienti e dalla stampa libera, non restano mai senza qualche risultato."
Titolo originale: House builders lobbied cabinet privately to get planning relaxed – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
I maggiori costruttori del paese hanno esercitato privatamente pressioni sui ministri per far sì che le regole di pianificazione diventassero molto più elastiche, come rivelano alcuni documenti in possesso del nostro giornale. I responsabili delle principali imprese come Barratt, Bovis e Redrow hanno chiesto che fosse introdotto il principio della “riposta positiva pregiudiziale” alle domande di trasformazione, i che significa una enorme spinta per la loro attività. E questo principio è diventato uno dei pilastri del national planning policy framework (NPPF) oggi in corso di discussione, e che dovrebbe entrare in vigore la prossima primavera.
Nel giugno 2010, mentre ne era in corso la scrittura, la Home Builders Federation (HBF) aveva chiesto la pregiudiziale, tramite lettera molto esplicita che è circolata fra il Cancelliere George Osborne, il ministro per le aree urbane Eric Pickles, quello per le attività economiche Vince Cable, i responsabili per la casa e l’urbanistica Grant Shapps e Greg Clark. I responsabili della federazione affermavano che questo criterio doveva “essere assolutamente introdotto”, e che si trattava di uno di quelli “essenziali” del nuovo indirizzo in urbanistica. I costruttori sottolineavano anche come quel messaggio fosse una “lettera privata rivolta a lei e ai suoi colleghi ministri e altri rappresentanti del governo, che non intendiamo rendere pubblica”.
Per i costruttori si tratta di costruire migliaia di abitazioni su aree greenfield grazie a questo orientamento. Il governo sostiene che con la riforma si darà un impulso alla crescita economica aumentando l’offerta di case, che l’anno scorso è crollata a un minimo di 102.720 mentre gli obiettivi erano più del doppio. I conservazionisti sostengono invece che quella clausola rappresenta un semaforo verde per costruire comunque e dappertutto. Si teme che possa condurre a una cementificazione delle campagne, visto che il concetto di “sostenibile” tocca gli aspetti economici e sociali oltre che ambientali.
Quella richiesta si inserisce in un quadro di continue pressioni fra lettere, rapporti, incontri coi ministri, gruppi di lavoro di alti responsabili del settore privato e del governo. Uno scambio documentato grazie alla legge sulla pubblicità degli atti. Secondo una delle lettere, è il sottosegretario alla casa ad aver esplicitamente chiesto ai rappresentanti del settore si esplicitare cosa “avrebbero voluto leggere nel progetto di legge sul decentramento e il localismo, e quali contributi e idee su altri aspetti della riforma urbanistica ". La Federazione risponde di essere certamente “favorevole a quel tipo di orientamento preventivo, ma di sicuro di non averlo concepito”. Inoltre: “Nella lettera chiediamo di introdurre assolutamente un orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili. Non si tratta di una indicazione nostra, ma di quanto è promesso in un documento del partito Conservatore del febbraio 2010”.
Il governo è già stato criticato per ché si riteneva che la sua politica urbanistica fosse troppo pesantemente influenzata dai costruttori. Sono tre o quattro i componenti della commissione consultiva per la riforma ad avere legami diretti col settore. Ma il Mnistero delle Aree Urbane nega qualunque influenza. “’idea di introdurre un orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili è una politica consolidata del partito Conservatore sin dalla pubblicazione delle nostre linee urbanistiche nel febbraio 2010. Compare nel nostro manifesto, ed è esplicitamente nominata nel programma della coalizione di governo”.
La commissione ambiente della camera dei Comuni lo scorso mese ha chiesto ai rappresentanti dei costruttori di queste pressioni ministeriali. John Slaughter, responsabile delle relazioni esterne della Federazione, insieme a Liz Peace, che rappresenta i maggiori operatori riniti nella British Property Federation, ha risposto. La presidente della commissione Joan Walley, ha domandato se il documento bozza delle linee guida fosse “allineato alle proposte che voi avevate presentato ai ministri”. La Peace ha risposto che “nessuno del mondo delle costruzioni ha parlato degli orientamenti favorevoli alle trasformazioni sostenibili. Quello viene dal governo e dai ministri. Non samo stati assolutamente coinvolti nelle stesura delle linee guida, né discusso i principi generali. É stata una sorpresa interessante al momento di pubblicazione della prima bozza”. Slaughter concorda, aggiungendo che “naturalmente ci siamo incontrati, coi ministri, è del tutto normale che avvenga da parte delle persone del settore”.
Le lettere al governo in possesso del Guardian mostrano come, dopo un incontro dello scorso luglio con Steve Morgan, presidente della Redrow, nel quale il costruttore lamenta quello che considera un “abuso” delle norme sulle osservazioni da parte di chi si oppone ai progetti, Eric Pickles scrive: “Sono lieto che possiate collaborare strettamente coi nostri funzionari per sviluppare le questioni che abbiamo discusso”. Neil Sinden, responsabile per la Campaign to Protect Rural England, che chiede al governo di rivedere la riforma urbanistica, commenta: “Da questi documenti pare proprio che qualcuno nel governo si sia avvicinato un po’ troppo alla lobby dei costruttori, consentendo [al settore] un’influenza esagerata. Non sorprende che il mondo delle costruzioni abbia tanto spinto per l’orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili. Così si consente loro di minacciare le amministrazioni locali con costosissimi ricorsi, nel caso in cui i progetti non siano approvati”.
Naomi Luhde-Thompson, responsabile per l’urbanistica dei Friends of the Earth, aggiunge: “I costruttori hanno avuto rapporti privati di discussione col governo e lo riteniamo scorretto. La bozza di NPPF trabocca di cose che derivano da queste pressioni, nulla che sia mai stato discusso in pubblico”. Con l’orientamento favorevole ai progetti sostenibili si mette nelle mani dei costruttori uno strumento in grado di scavalcare qualunque tentativo di strategia territoriale delle amministrazioni locali, visto che "dentro il documento delle linee guida non c’è alcuna indicazione sulla insostenibilità di costruire su aree greenfield”.
Ci sono già superfici sufficienti per 620.000 abitazioni
I costruttori lamentano da tempo che la costruzione di case è bloccata dalla scarsa disponibilità di superfici e dalle norme urbanistiche troppo rigide. Ma una recente ricerca (vedi commento e rapporto scaricabile su Mall) mostra come a livello nazionale ci sia una scorta sufficiente già a disposizione del settore per costruire 620.000 case, di cui quasi il 50% con qualche tipo di autorizzazione già rilasciata. Un gruppo di pressione legato al settore delle case economiche ha dichiarato al parlamento che i costruttori “sostanzialmente stanno limitando l’offerta attraverso il controllo che esercitano su queste superfici che già possiedono”. E aggiunge che i ministri sbagliano ritenendo che il settore inizierà a trasformarle una volta rese più elastiche le norme, dato che ci sono più profitti sulle aree greenfield.
Le pressioni dei costruttori riguardano soprattutto le zone del sud-est e i centri meglio collegati a Londra da linee ferroviarie. La fascia occidentale londinese e il corridoio autostradale M4-M3 sono un obiettivo particolare, con molte delle amministrazioni sottoposte a pressione dal settore, mentre gli abitanti temono l’invasione degli spazi di green belt con case di lusso. L’associazione per le case economiche sostiene che gli operatori inizieranno a costruire sui terreni già controllati solo se ci sarà una pressione fiscale contro questo accaparramento. “Fin quando non avranno alcun rischio di perdere soldi tenendosi queste scorte, non saranno mai sfruttate”.
È tipico delle fasi d'emergenza non andarci tanto per il sottile con le distinzioni. Ed è tipico delle fasi d'emergenza all'italiana, tutte all'insegna dell'unità nazionale, fare ricorso alla tesi sempreverde degli opposti estremismi, che provvede a procurare due ali di nemici alle convergenze centripete. Vorrei dunque rassicurare alcuni lettori perplessi, e con loro le cattedre mediatiche che equiparano gli argomenti del manifesto a quelli delle vedove di Berlusconi, o le ragioni dei movimenti anti-Bce alle urla di destra contro il complotto plutocratico-massonico-finanziario: non è affatto vero che diciamo tutti la stessa cosa.
È vero invece che sotto il cielo della fine del ventennio berlusconiano il disordine è grande, e la situazione non propriamente eccellente. Qualche precisazione, allora, sullo stato della democrazia, il tramonto della politica e il feticismo dei mercati che fanno da sfondo al «passaggio Monti».
È del tutto improprio o strumentale, intanto, gridare alla sospensione della democrazia o al golpe antidemocratico per fotografare la situazione. Non stupisce che queste grida provengano da una destra populista come quella berlusconiana, che ha sempre identificato l'esercizio della democrazia unicamente con l'appello al popolo, attribuendo alla conta elettorale il potere di decidere il governo. Questa investitura popolare diretta del governo, per quanto avallata dalle ultime leggi elettorali (e con l'aiuto dei settori più “bipolaristi” della sinistra), notoriamente non esiste nella nostra Costituzione: a norma di Costituzione, il governo non lo decide il popolo ma le maggioranze parlamentari. Dal punto di vista formale dunque non c'è nessun golpe e nessuna sospensione della democrazia nella soluzione della crisi perseguita da Napolitano: il presidente della Repubblica non aveva l'obbligo di indire le elezioni, l'incarico a Monti rientrava nelle sue prerogative, il nuovo governo ha ottenuto il consenso necessario in parlamento.
Tolto di mezzo il golpe formale, però, il problema resta. E a segnalarlo basta il fatto che sono proprio i più convinti sostenitori dell'operato del Presidente della Repubblica a difenderlo non in nome della norma e della normalità democratica, bensì dell'eccezione: mai Carl Schmitt, autore a lungo maledetto se non tabuizzato, è stato così gradito a sinistra. Ora non c'è nessun problema a riconoscere a Napolitano tempismo e abilità decisionista, e perfino (Carlo Galli, su Repubblica di qualche giorno fa) una sorta di “buon uso” dell'eccezione, di un'eccezione volta al ripristino della normalità costituzionale, contro l'eccezionalismo perpetuo e a vocazione eversiva di Berlusconi. Ma il punto, per stare al tema, è anche un altro, evocato ma a mio avviso non risolto nell'intervento di Marco Revelli sul manifesto dell'altro ieri: se, stando ai testi, sovrano è chi decide sullo, non nello stato d'eccezione, chi ha deciso sullo stato d'eccezione in cui ci troviamo? Qui la risposta non è: Napolitano, bensì: i mercati. Napolitano ha deciso nello stato d'eccezione, in uno stato d'eccezione decretato a sua volta dai mercati, dallo spread, dalla Bce e quant'altri. E ha deciso nel solo modo in cui a quel punto poteva decidere, cioè certificando, col ricorso al governo tecnico, l'impotenza della politica di fronte ai mercati, o in altri termini la fine dell'autonomia del politico dall'economico (alla faccia, per inciso, di Carl Schmitt). Altra questione sulla quale nulla ha da rivendicare il fronte berlusconiano in disfatta, che di questa resa della politica dell'economia è stato fino a ieri il principale e nefasto fautore: cos'altro era se non in primo luogo questo, e non solo una rottura di legalità, il famoso conflitto di interessi?
Non sono glosse a margine, perché ne va di una valutazione realistica dello stato delle cose. Senza nulla togliere all'operato del Presidente della Repubblica, né alla sua efficacia nella liquidazione dell'anomalia del Cavaliere, quello che esso ci consegna non è una riaffermazione di sovranità nazionale sui giochi sovranazionali, né un colpo d'ala della buona politica sulla cattiva politica del ventennio berlusconiano: è una democrazia dimezzata, come tutte le democrazie occidentali, di fronte ai poteri sovranazionali che contano davvero, e una politica impotente di fronte al primato dell'economia. Conviene mantenere, rispetto a questi processi, lo sguardo lungo di quella che un tempo si chiamava analisi di fase, e non quello corto della nota politica quotidiana o settimanale: qui infatti non è in questione il sollievo che tutti proviamo per l'archiviazione di Berlusconi, né tantomeno l'illusione che la rinascita della politica potesse venire da un lavacro elettorale dello stesso ceto politico, di destra e anche di sinistra, che ne ha accompagnato e interpretato lo spegnimento. È in questione, al contrario, il fondato timore che dietro la discontinuità di stile rispetto al ventennio berlusconiano si faccia strada una continuità dei processi di fondo: dei quali l'asservimento della politica all'economia non è certo l'ultimo.
C'erano altre strade? Probabilmente no, a quel punto. A quel punto, con lo spread impazzito e i risparmi delle famiglie a rischio, pure le elezioni erano irrealistiche. Però nessuno, ma proprio nessuno, ci esenta dal chiederci come e perché ci si sia arrivati, a quel punto. Come e perché, ad esempio, un'intera estate sia passata senza che da sinistra si smettesse di attribuire solo alla mancanza di credibilità di Berlusconi, e non anche alla mano invisibile del mercato, il precipitare della situazione. O che è lo stesso, come e perché il metro dei mercati sia diventato, per la sinistra istituzionale, il criterio di misura del vero e del falso. Senza mettere in discussione il quale, va detto e ripetuto, non ci sarà nessuna possibilità né di egemonizzare né di condizionare il governo dei professori con i buoni propositi sull'equità e la crescita.
Come pure non sarà possibile uscire dallo spegnimento della politica senza volgere decisamente lo sguardo dalla politica ufficiale alla politica sorgiva. Gian Carlo Marchesini (vedi lettera a fianco) e altri lettori come lui hanno ragione a esprimere le loro riserve su un ricorso alle urne con questo ceto politico e questa legge elettorale, ma hanno torto a dimenticare il cambiamento che si è espresso nelle urne amministrative e referendarie solo pochi mesi fa, o che si esprime oggi nei movimenti contro l'uso politico del debito.
Quel cambiamento è già in atto, e aveva già archiviato Berlusconi e la sua corte dei miracoli prima dell'intervento dello spread e ha bisogno di essere ratificato prima o poi, e più prima che poi, da un voto che sancisca l'uscita dal ventennio. Seppellirlo sotto la coltre e lo stile del governo Monti sarebbe un grave difetto di miopia, lo stesso che da sempre «calmiera» il cambiamento in Italia, spuntandolo di qualunque carica creativa e riportandolo alla sensatezza di un'etica moderata, conservatrice e perbenista. Eppure, se un futuro c'è per la politica, oggi è da lì che passa, ed è lì che trova ricette sensate, parole innovative, pratiche di ricostruzione e di reinvenzione sovranazionali
Il problema non è certo la persona di Lorenzo Ornaghi.
Il problema è che il patrimonio storico-artistico gode di una considerazione prossima allo zero presso la maggior parte della classe dirigente del Paese, ed evidentemente Mario Monti non fa eccezione. Se le cose non stessero così, non si spiegherebbe perché quello per i Beni e le attività culturali è il solo ministero su dodici che non verrà retto da un tecnico, ma da un rispettabilissimo signore che è competente di tutt’altro: uno scienziato della politica, rettore dell’Università Cattolica e vicepresidente del quotidiano dei vescovi «Avvenire».
Come ai tempi della Prima Repubblica, i Beni Culturali tornano ad essere una cassa di espansione in cui far defluire le tensioni collegate alla formazione dei governi. Ornaghi – scrive il «Giornale» – era voluto al governo «personalmente dal cardinal Bagnasco», e quando lo si è dovuto spostare dalla Pubblica Istruzione cui era destinato, si è trovato naturale dargli i Beni Culturali. E questo sia perché si tratta di un ministero-cenerentola, sia perché è tremendamente radicata l’idea che non esista un tecnico della tutela: che non occorra, cioè, essere storici dell’arte per occuparsi delle opere d’arte. Tanto, come diceva amaramente Benedetto Croce, «l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia». Ed è anche per questo che il patrimonio storico e artistico della nazione cade a pezzi, nonostante la tutela costituzionale.
Sia chiaro, Monti non ha inventato nulla, si è limitato ad aderire all’infausta interpretazione veltroniana di un ministero in cui le «attività culturali» contano quanto (o più) dei «beni culturali»: un vago ‘Ministero della cultura’ votato ad intrattenere gli italiani organizzandone il tempo libero.
Come tutti gli italiani hanno appreso dalle indiscrezioni sui nomi considerati da Monti, non mancava un tecnico perfetto: Salvatore Settis. Il suo altissimo profilo avrebbe, tra l’altro, permesso di fondere il ministero dell’Ambiente e quello per i Beni culturali: affidando così ad un’unica autorità la tutela e il risanamento di quell’unico organismo vivo che è il territorio, il paesaggio e il patrimonio storico-artistico italiano. Ma Angelino Alfano ha sentenziato che dovevano essere «esclusi coloro che avessero fatto del loro impegno una militanza antigovernativa» (Asca, 13 novembre): e il fatto che Settis avesse denunciato la sottrazione di un miliardo e trecento milioni di euro dal bilancio dei Beni culturali ad opera del duo Tremonti-Bondi deve essere stato considerato un imperdonabile atto di militanza.
Ora non ci si può che augurare che Ornaghi impari presto e bene: che legga e ascolti i tecnici veri; che rinnovi a tamburo battente i ruoli chiave del ministero (capo di gabinetto, segretario generale, comitati tecnici), inquinati o asserviti da anni di berlusconismo; che incrementi il bilancio; che proceda ad assumere i tantissimi giovani storici dell’arte e archeologi già idonei; che rinforzi le soprintendenze; che non ceda alle pretese ecclesiastiche sui beni culturali religiosi appartenenti allo Stato; e che faccia molto altro ancora.
E che Dio (e il Vaticano) ce la mandino buona.
Sempre caro mi fu questo parcheggio da 50 posti auto più servizi igienici per le comitive in transito e – forse – pure l’allegra fila dei pullman in attesa coi motori accesi per mantenere il fresco d’estate e il tiepido d’inverno. Il Comune di Recanati non molla. Da anni vuole piazzare una struttura per accogliere altre automobili proprio su quel Colle dell’Infinito dove il poeta si sperdeva. Ma, al giorno d’oggi, c’è poco da indugiare, le casse piangono e bisogna trovare nuove iniziative per rilanciare le attività urbane. Ergo, nonostante il cambio di governo dal centro-destra a centrosinistra – con relativo passaggio dell’ex sindaco Pdl alla presidenza del Centro Nazionale di Studi Leopardiani –, l’idea avanza, procede, resiste. E si scontra con le romantiche aspirazioni di chi, in città, vorrebbe solo quiete e bellezza ad attrarre i turisti, non parchimetri e wc sanitarizzati.
Roberto Verdenelli, del Movimento Cinque Stelle, è furibondo: “Nel 2009, quando ha vinto la coalizione guidata dal Pd, speravamo venisse accantonata questa idea di spargere ancora cemento in un paese di ventimila abitanti che ha bisogno di intelligenza e di investimenti davvero culturali per sviluppare la sua vocazione turistica. Invece qua sono convinti che basti aggiungere 50 posti auto giusto sotto Casa Leopardi per far arrivare più gente. La verità è che vengono le gite scolastiche, un po’ di turismo stagionale, e per il resto zero. Il Cnsl non ha mai richiamato un granché, ed è pure un edificio bruttino, del periodo fascista: adesso che gli vogliono togliere gli alberi intorno non ci guadagnerà di sicuro”.
L’opera burocraticamente avviata dall’ex sindaco Fabio Corvatta e sostenuta ora dal successore Francesco Fiordomo dovrebbe cadere proprio su un versante del celebre colle al momento ricoperto da piante e alberi ad alto fusto, un’area che apparteneva al Cnsl ma che il Comune ha espropriato. “Non sarebbe più economico, più giusto, più naturale lasciare l’area così com’è? Come la vedeva il nostro famoso concittadino, un angolo di quel “natio borgo selvaggio” che tanto ci inorgoglisce e rende la nostra cittadina unica al mondo?” si sono chiesti quelli di Cinque Stelle in un comunicato che riprende il ping pong tra il settimanale “l’Espresso”, autore di un appello contro nuove costruzioni in loco, e il sindaco che ha risposto prontamente. “Nessuna nuova palazzina sotto l’Infinito” garantisce Fiordomo omettendo la notiziola sul parking e citando i consueti concetti di sviluppo, turismo et similia.
“Il problema è che questi politici fanno una gran confusione quando parlano di cultura ” sostiene Andrea Lodovichini, regista marchigiano, già aiuto di Paolo Sorrentino e vincitore di premi internazionali ma diventato famoso via Youtube per la protesta sullo spot della Regione Marche con Dustin Hoffman. Spiega: “Contestai alla Giunta la scelta di investire milioni di euro in quel progetto con modalità poco trasparenti, un bando lanciato in fretta e furia che ha scatenato la polemica nella polemica di far recitare a una star mondiale i versi del Leopardi. Risposta delle istituzioni: minacce di querela per i miei video in cui, mettendo in rete documenti pubblici, chiedevo conto di quelle scelte”. Secondo Lodovichini, i politici mescolano marketing e testi sacri, pubblicità e storia, piccoli interessi di parte e una gran paura di cambiare. “Sono tentativi puerili, con risultati spesso sterili. Io avevo riunito un gruppo di 110 artisti, Marche Autori, per sviluppare le arti audiovisive in una Regione capace di grande talento: dopo la storia degli spot non se n’è fatto più nulla, nessun finanziamento ci è arrivato, e si è sciolto tutto. Invece pare che Hoffman farà anche la terza edizione della pubblicità: spero funzioni per gli alberghi e i ristoranti, ma se si voleva spingere la cultura dei giovani e delle arti più contemporanee si poteva investire anche su altro”. Marche regione verde, con borghi e città, collina e spiagge, arte e cucina: un vero man-tra negli ultimi anni. “Però poi le scelte concrete vanno in un’altra direzione – sottolinea Anna Maria Ragaini del comitato No rigassificatore di Porto Recanati.
La Regione aveva dato parere favorevole all’installazione di due rigassificatori da piazzare a pochi chilometri dalle coste. Per quello più a Sud, praticamente davanti Loreto, ha fatto marcia indietro nonostante l’ok del Ministero dell’Ambiente. Per quella più a nord, davanti ad Ancona, il progetto è invece molto avanti grazie all’erroneo presupposto che, con questa concessione, il Gruppo Api manterrà il tenore dell’occupazione attualmente impegnata nel settore petrolifero. Ma nell’accordo siglato tra Api e Regione non si fa riferimento ai 380 operai e all’indotto, nessuno sa se questo rischio e questa bruttura serviranno all’economia o esporranno a danni incalcolabili le spiagge, il mare, l’intero ecosistema”.
Anche lo scrittore fermano Angelo Ferracuti è poco soddisfatto dalle logiche di investimento operate negli ultimi anni: “Marche o Italia cambia poco, l’idea è sempre quella dei ‘poteri fermi’, come li chiamava Paolo Volponi. Apriamo oggi un Premio in suo onore, a Fermo. Si parla di impegno civile, di argomenti poco attraenti e per nulla sponsorizzati. Rieditiamo alcuni scritti fondamentali in cui lui, scrittore e politico, criticava scelte scellerate come l’abbandono della linea ferroviaria Roma-Urbino o il taglio della scala mobile. Era un pensatore che, dal cuore di una piccola ma sapiente regione italiana, pensava con preoccupazione a una società superficiale, ingorda, atavicamente legata alle sue mafie e massonerie. Volponi oggi è di un’attualità imbarazzante, e certo non approverebbe nessuna di queste scelte, dal rigassificatore al gorgheggio di Dustin Hoffman sull’Infinito”. Con annesso parcheggio.
Nel caffé affacciato sulla bocca del métro Sèvres-Babylone, entrano i coniugi Kundera, Eva e Milan. Lei ha in mano una copia di Le Monde appena acquistato nella vicina edicola. Lo stende sul tavolino e gettata un’occhiata ai titoli di prima pagina non trattiene un’esclamazione di sdegno.
Gira il giornale affinché il marito possa leggere il motivo della sua indignazione; e infatti lo scrittore ha la stessa reazione, seguita da un gesto desolato della mano. Non conosco la lingua ceca e quindi non riesco a capire le parole che si scambiano, ma incuriosito dalla breve, agitata mimica dei coniugi Kundera, corro a comperare il quotidiano, e mi salta subito agli occhi quel che ha provocato il loro lampo di collera. È un titolo, nel quale ci si chiede se la Grecia sia un paese europeo. «La Grèce est-elle un pays européen?» Anch’io vengo colto da un risentimento improvviso nei confronti di chi ha preparato il terreno a quella bestemmia di dimensione storica. Bestemmia che mette in dubbio con tracotanza, con smisurato, indecente orgoglio (l’aristotelica hybris) l’essenza dell’Europa. Vale a dire dell’Occidente, che non a caso è la traduzione greca di Europa; e il cui pensiero originale, non solo il nome, viene da quella terra della quale si mette in discussione il carattere europeo.
È facile scorgere in questa reazione un’eccessiva dose di retorica. Infatti c’è. È un po’ come scandire: siamo tutti greci europei. Perché no? Affidarsi ai tradizionali punti di orientamento offertici dalla storia per muoversi nel presente conduce in una sfera metafisica. La Grecia non produce più gli eterni modelli della bellezza. È chiaro. Così come Roma non è più la patria del diritto, né del medioevo ascetico e trascendente, né del Rinascimento che ha elevato il significato della vita terrena. È chiarissimo. Lo stesso vale per tanti altri centri della civiltà europea. Tutti quei passati non appartengono tuttavia al dominio delle nazioni o degli Stati di oggi, ma al (crociano) "regno della verità". Costituiscono nel loro insieme, con le loro differenze e contraddizioni, il comun denominatore culturale dell’Europa odierna, multilingue ma con idee affini che si sono influenzate a vicenda, formando attraverso i secoli una forte corrente di pensiero. Affidarsi unicamente al livello dei redditi, alle peripezie finanziarie e alle oscillazioni della moneta unica per determinare l’appartenenza all’Europa e di conseguenza alla sua civiltà, è semplicemente un delitto. È uno dei punti più alti toccati dalla nostra ignoranza di europei del XXI secolo. Pensare che la Grecia del presente non possa coabitare, per la sua struttura economica e sociale, alla zona dell’euro è un conto. Ma nessuno ha il diritto di pensare che essa non sia più europea. Il suo passato, quel che della sua civiltà è vivo nel nostro pensiero, nella nostra cultura, appartiene appunto al "regno della verità", di cui noi tutti europei facciamo parte. La Grecia più di qualsiasi altro paese poiché è stata l’origine di tutto. Si può amputare l’Europa?
Milan Kundera è un europeo che può capire più di altri cosa significa essere escluso dall’Europa. Come cecoslovacco ha vissuto il tradimento dell’Europa che nel 1938, con l’accordo di Monaco, abbandonò il suo paese alla Germania di Hitler. E dieci anni dopo ha vissuto la separazione della "cortina di ferro", tra l’Europa dell’Est e quella dell’Ovest. La tragedia cecoslovacca si è ripetuta nel ‘68, quando i comunisti hanno cercato di dare "un volto umano" (ossia "europeo", così dicevano) al regime imposto da Mosca. La quale, puntuale, mandò i carri armati, senza che nessuno si muovesse in Occidente. Era dunque facile da interpretare la stizza di Milan Kundera nel caffè di Sèvres-Babylone, davanti al titolo provocatorio sulla Grecia. Gli veniva spontaneo identificarsi con quel paese. Non poteva non indignarsi e non spazzar via con un gesto della mano l’interrogativo che metteva in dubbio il carattere europeo della Grecia, madre culturale d’Europa. Nessun carro armato minaccia Atene. Le calamità che possono abbattersi, e che già si abbattono, sulla Grecia sono di un’altra natura. Quelle visibili, concrete, sono economiche. Ma c’è l’umiliazione che è altrettanto pesante.
E i greci sono orgogliosi. Dopo secoli di occupazione ottomana sono ritornati in Europa, pagando un altissimo prezzo di sangue. Byron e Chateaubriand si sono associati alla loro lotta. Delacroix gli ha dedicato quadri che all’epoca equivalevano a romanzi. E Mussolini la pagò cara, e con lui gli italiani, quando pensò di poter "rompere la schiena" alla Grecia. La resistenza al regime dei colonnelli, impossessatisi del potere nel 1967, fu aspra e coraggiosa. L’ho seguita per anni con passione e rispetto. Quando negli ultimi Settanta la fragile, disordinata democrazia greca chiese di entrare nella Comunità europea, Valéry Giscard d’Estaing, allora presidente della repubblica in Francia, replicò agli oppositori che non si poteva «chiudere la porta in faccia a Platone». La logica di quella decisione era essenzialmente politica, poiché la Grecia non aveva tutti i requisiti. Ma c’era l’aspetto simbolico. Ad Atene era nata la democrazia, la politica, il teatro, la poesia, la filosofia, la bellezza. Il paese rurale e depresso, dove gli armatori miliardari non pagavano le tasse, restava sinonimo di cultura. Non lo si poteva certo lasciare fuori dalla porta. I suoi abitanti rappresentano poco più di un millesimo della popolazione mondiale. I suoi monumenti e le sue opere letterarie e filosofiche costituiscono una porzione assai più grande come vestigia della civiltà occidentale. Di cui sono le fondamenta. Senza le quali il denominatore comune culturale alla base dell’Europa non esisterebbe.
C'era un'alternativa al governo Monti? E' questa la domanda a cui vorremmo, o meglio avremmo voluto, dare una risposta. Ma se il centrosinistra ha preferito non andare alle elezioni subito e la sinistra di Vendola si è limitata a dire di non condividere il discorso del neo premier, abbiamo la netta impressione che la risposta sia no. Dunque che fare? Dalle parole di Monti si possono certo capire diverse cose, ma saranno i fatti a dimostrare in che modo vorrà portare il Paese fuori dalla crisi.
Difficile non essere d'accordo quando afferma che «Bisogna superare il principio dell'Italia 'anello debole' e riprendere a "pieno titolo" l'elaborazione del progetto europeo». Oppure che «La distribuzione dei "sacrifici sarà equa. E tanto maggiore sarà l'equità della loro distribuzione tanto maggiore sarà la loro condivisione». Come del resto la lotta all'evasione e pure l'Ici, se reintrodotta sul modello di Prodi del 2006 potrebbe avere anche una ragione d'essere.
Impossibile non condividere poi frasi e concetti del tipo: «L'Italia ha bisogno di investire nei suoi talenti, nei giovani. Essere orgogliosa e non trasformarsi in una entità di cui i suoi talenti non sono orgogliosi». Le chiacchiere tuttavia ora stanno a zero, bisogna vedere i fatti e lo stesso Monti oggi alla Camera ha detto: «Noi siamo qui con un atteggiamento di umiltà, di servizio e di sollecitazione al contributo attivo e anche critico di tutti. Qui oggi non vi chiedo una fiducia cieca, ma una fiducia non cieca: vigilante».
Metter mano alle pensioni è questione che ci lascia perplessi. Ci lasciano perplessi anche i legami evidenti con la gerarchia vaticana e con certe lobby e logge. E continuiamo, saremmo certamente limitati noi, a non capire che cosa significhi che «Il mercato del lavoro dove alcuni fin troppo tutelati, mentre altri sono privi di tutele» deve essere riformato per avere un «sistema più equo».
Ci hanno sempre detto che il sistema pensionistico è quello che sostiene le famiglie in questa fase di enorme difficoltà che vede i giovani non trovare posti di lavoro e i 40-50enni perderlo. Certo i conti dello stato devono essere rimessi in ordine, ma la cura non può essere peggiore della malattia, come sta drammaticamente dimostrando il caso greco.
Anche le nostre però, sono chiacchiere, inoltre è chiaro che Monti esegue sic et simpliciter quello che la Bce ci chiede. La speranza è che cerchi di farlo nel modo più "equo e sostenibile" possibile, ma questo è. E soprattutto non dimentichiamoci che l'alternativa era il prolungamento dell'oscena agonia del governo Berlusconi . Complotti internazionali o no, commissariamenti economico-politico-finanziari o meno, la realtà ribadiamo è questa.
Quanto durerà? Se l'asso nella manica lo ha ancora il centrodestra, avrà vita dura, difficile pensare però che con il fiato corto che l'Italia ha sui mercati - deus ex machina di tutto lo sconvolgimento - possano giochicchiare al gatto col topo. Il berlusconismo ha dimostrato fiato corto davanti ad una crisi che ha spazzato via l'ottimismo da bar ed il "miracolo italiano " promesso e mai avvenuto, una deriva avventuristica del Pdl porterebbe probabilmente ad una sua anticipata frammentazione ed implosione. Berlusconi avrebbe voluto essere il salvatore della Patria, difficilmente gli verrebbe perdonata la trasformazione di becchino di un governo sicuramente liberista.
La paura è che questioni per noi fondamentali come il metter mano al dissesto idrogeologico; il piano energetico; gli incentivi per le energie rinnovabili e la materia rinnovabile sottoforma di un rilancio in pompa magna del riciclo possano trovare un posto d'onore nell'agenda di super Mario. Lo speriamo, ma siamo francamente pessimisti, soprattutto dopo le strampalate uscite del neo-ministro dell'ambiente Clini, un superburocrate andato ad "Un giorno da pecora" a fare la figura di uno Scilipoti qualsiasi.
Se dunque dobbiamo bere l'amaro calice per ripulirci l'intestino ed il cervello dalle malefatte del precedente governo, bisogna che l'opposizione sfrutti questo tempo (quello che ci divide dalle prossime elezioni) per uscire da queste logiche. Non diciamo neppure più di uscire dalle logiche del capitalismo, perché ci pare troppo in questa fase, ma almeno per contrastare le sue storture iperliberiste che ormai sono più delle ragionevolezze.
E per far questo ci vuole -non è un paradosso - credere di più nell'Ue. In un'Unione Europea che sposi quella virtuosa linea della commissione (l'unica in campo ancorché assai migliorabile) che perlomeno individua lo sviluppo economico nell'economia ecologica. Un programma elettorale quindi come minimo di respiro europeo e con ovviamente specificità italiane. Che proponga ad esempio la "no fly zone" dell'economia finanziaria sulle commodities, specialmente quelle alimentari.
E contemporaneamente rilanci l'industria e la manifattura made in italy e soprattutto sostenibile capace di dare risposte innovative alle emergenze ambientali dei Paesi asiatici. Esempi di sviluppo economico vero che necessitano di maggior investimenti nella scuola e nella cultura in generale. Un Paese davvero moderno che abbia chiaro che questa crisi è sistemica e che bisogna cambiare modello, altrimenti arriveremo esattamente dove siamo diretti...
La realtà dell´eurodisastro offre supporti insperati a chi voglia riconoscervi il sopravvenuto dominio dell´oligarchia finanziaria sulla democrazia: basti pensare alla simultanea rimozione per impotenza manifesta dei primi ministri in Italia e in Grecia. I due premier sono stati sostituiti da personalità organiche all´establishment sovranazionale, molto simili per fisionomia al "podestà forestiero" evocato l´agosto scorso da Mario Monti. Tale "stato d´eccezione" si rivela humus ideale per la germinazione delle più fantasiose teorie cospirative. Chi si nasconde dietro all´uso intimidatorio della parola "mercati"? È impressionante la disinvoltura con cui il populismo di destra, non appena disarcionato il suo governo che pure s´era ridotto a comitato d´affari privati, rispolvera la propaganda in auge nei periodi più bui del secolo scorso: i banchieri venduti alle centrali straniere, i circoli anglofoni, la patria in ostaggio di agenti infiltrati, l´internazionale massonica…
I giovani senza futuro che nel corso del 2011 hanno dato vita a una rivolta mondiale contro l´ingiustizia di questo disordine economico, all'improvviso si ritrovano così di fianco imitatori spregiudicati d´opposta sponda. Per quanto ciò risulti paradossale, berlusconiani e leghisti indossano la maschera dell´anticapitalismo indignado. E loro, gli studenti in lotta? A quanto pare non sembrano preoccuparsene.
"Né Monti, né Tremonti", giocano con la rima. Dirigono il corteo contro l´università Bocconi da cui proviene il nuovo presidente del Consiglio e, se interviene la polizia a fermarli, lo dirottano sulla Cattolica, il cui rettore è divenuto ministro della Cultura. Quanto al nuovo responsabile dell´Istruzione, Francesco Profumo, la sua autorevolezza lo rende ai loro occhi addirittura peggiore della Gelmini. Poco gli importa se il giorno prima a picchettare la sede della Goldman Sachs ci sono andati niente meno che i giovani del Pdl (ignari degli affari intrattenuti dall´azienda del loro leader con tale istituzione finanziaria). Le dimostrazioni scaricano a casaccio la protesta contro "il governo dei banchieri" imbrattando filiali di Unicredit e Intesa Sanpaolo a Palermo, circondando l´Abi a Milano o la sede della Banca d´Italia a Firenze.
C´è qualcosa di funesto nel manifestare contro luoghi del sapere come le università "colpevoli" solo di essere private, contrapponendo studenti a studenti. Così come è sintomo di disperazione prendere di mira gli sportelli Bancomat, simbolo di un reddito da cui si sentono preclusi.
Ma una volta condannati con nettezza gli episodi di violenza e le caricature insulse del "nemico", sarà bene che il nuovo governo, e prima ancora la sinistra democratica che lo sostiene, evitino di prendere sottogamba le ragioni di tanta furia indistinta. Un conto sono le strumentalizzazioni della destra oligarchica e populista, ben altra le motivazioni imprescindibili della rabbia giovanile.
Appare evidente che nell´Italia del 2011 non è più replicabile la stagione dei governi tecnici che realizzarono vent´anni fa il risanamento finanziario e l´ingresso dell´Italia nell´euro con il decisivo sostegno dei sindacati e dei partiti di sinistra. Nonostante il prestigio degli artefici di quella stagione, troppo diffusa rimane la consapevolezza del prezzo pagato all´epoca dai ceti popolari, in termini di decurtazioni nel reddito e perdita di posti di lavoro, senza che ne derivassero le promesse contropartite di investimenti da parte della classe imprenditoriale.
Il collasso del capitalismo finanziario e l´attacco speculativo ai debiti sovrani mutano completamente lo scenario. Chi ha patito la crisi, mentre vedeva gonfiarsi a dismisura i guadagni di una ristretta minoranza, invano ha atteso una correzione di tale stortura. E ora manifesta la sua ostilità non solo contro la classe politica, ma più ancora contro i potenti dell´economia.
La nomina di un "banchiere di sistema", Corrado Passera, a responsabile delle politiche industriali del governo Monti, a prescindere dalle capacità personali dell´interessato, non favorisce certo la necessaria sintonia fra nuova classe dirigente e sentimenti popolari. Qualcuno dovrà pur dare rappresentanza politica alla diffusa richiesta di giustizia sociale se non si vuole che essa cada preda della demagogia scatenata a destra e delle suggestioni cospirative trasversali. Rifiutare l´ineluttabilità dei diktat che piovono sull´Italia da un altrove lontano, e fare i conti con lo strapotere della finanza, diventano per la sinistra priorità non rinviabili a una "seconda fase" del risanamento. Pena il ripudio della sua missione storica, già incrinatasi allorquando - nelle emergenze del passato - prevalse la teoria dei nobili sacrifici intesi come un "farsi carico" da parte della classe operaia dei destini della nazione. Col risultato che sappiamo.
Ormai è chiaro a tutti che la depressione in cui precipita l´Occidente non è frutto degli "eccessi" del capitalismo finanziario fondato sul debito, ma della sua stessa natura strutturale. Per questo i tecnici chiamati oggi a cimentarsi con un difficilissimo tentativo di salvataggio, non hanno altra scelta che trasformarsi in politici coraggiosi, tutt´altro che neutrali. Tocca loro delineare un´incisiva riforma del sistema di cui essi stessi hanno in taluni casi personalmente beneficiato; se non vogliono entrare in una disastrosa rotta di collisione con la gioventù precaria che oggi, a torto o a ragione, non li beneficia di alcuna distinzione rispetto a chi li ha preceduti.
Signor ministro, il governo Monti ha una legittimità piena, ma indiretta. Riscuote la fiducia del Parlamento, ma i ministri, non essendo parlamentari, sono privi del viatico elettorale. Questa condizione, inevitabile nell'emergenza, accentua il dovere di essere trasparenti. Un titolare dello Sviluppo e delle Infrastrutture, che prima faceva il banchiere, può dover prendere decisioni che coinvolgono le sue passate scelte professionali.
Lei non è azionista di rilievo di Intesa Sanpaolo. Ha ragione di negarsi al paragone con l'ex premier, azionista di riferimento di una grande impresa, Mediaset, regolata dalla legge. Non di meno l'opinione pubblica vuole essere tranquilla sul fatto che le decisioni del governo servano sempre l'interesse generale. Il suo non è dunque un conflitto d'interessi pesante, a radice patrimoniale, ma un conflitto più leggero, di tipo manageriale. E tuttavia chi si è scottato teme anche l'acqua tiepida. Lei e i suoi colleghi abbandonerete i consigli di amministrazione, è ovvio. Ma il Corriere guarderà anche ad altro. Senza pregiudizi né sconti.
Nell'agosto 2006, Giovanni Bazoli disse che Intesa Sanpaolo sarebbe stata la Banca del Paese, non certo una Goldman Sachs. Poi, con Generali e Mediobanca, entrò in Telecom Italia per evitare che Telefonica ne diventasse padrona. Mario Monti paventò un «governo occulto» delle banche, contigue alla politica. «Parole infelici», commentò lei. Ora Monti l'ha chiamata al governo, archiviando quel dissenso. E le deleghe che le ha assegnato fanno supporre che, dopo il salvataggio della finanza occidentale a spese dei contribuenti, si sia un po' ricreduto. Del resto, quando una banca riunisce attivi pari al 40% del Pil, si lega al progresso generale del Paese e deve avere il senso della misura. Resta che le singole scelte dell'ex banchiere andranno giudicate una per una, in special modo se rimontano alla vita precedente.
Alitalia, per esempio. Intesa ha lavorato per il governo Berlusconi che aveva azzerato la cessione ad Air France preparata dal governo Prodi. Tre anni dopo, la ristrutturazione aziendale è fatta. E tuttavia la società non è in grado di remunerare il capitale investito. L'operazione tripartita su Telecom, pur criticabile sul piano finanziario, ha evitato al Paese di perdere la presa su una grande impresa strategica, che può crescere. Alitalia ha conti diversi. Logica vorrebbe che Air France l'assorbisse, e amen. Il governo Monti considererà Alitalia un campione nazionale su cui intervenire?
Ntv-Nuovo trasporto viaggiatori. Alta velocità. Intesa è azionista e finanziatrice dello sfidante delle Fs-Ferrovie italiane dello Stato. In ritardo sulle tabelle di marcia, e dunque a rischio di sforare i covenant, ovvero le clausole contrattuali di garanzia, che tutelano la banca creditrice, Montezemolo e Della Valle accusano Moretti di infilare i bastoni del monopolio tra le ruote di Italo, il loro treno. Il signor Frecciarossa sostiene che i due, spalleggiati dal monopolio ferroviario francese, hanno commesso errori operativi. Aggiunge che mollerà l'infrastruttura quando anche Parigi lo farà e darà le stesse aperture dell'Italia. Ecco un bel tema per il ministro delle Infrastrutture e anche per il premier, che con l'interim dell'Economia è l'azionista unico di Fs.
Parentesi sindacale: Alitalia e Fs chiedono l'adozione di contratti di lavoro nazionali. Ammettono intese migliorative aziendali, ma non la giungla e il dumpingsociale di oggi. Linee aeree low cost e Ntv si oppongono. Marchionneggiando. Da che parte starà il ministro del Welfare, Elsa Fornero, già vicepresidente di Intesa? Qui, e sul fronte Fiat di cui la banca è storica creditrice?
Per finire, il rapporto con Banca d'Italia. Negli anni berlusconiani, tra governo e Banca centrale c'è stata una profonda e pericolosa diffidenza. Con il doppio cambio della guardia si potrebbe ritrovare la fiducia e voltare pagina. Due emergenze impellenti lo richiedono. La prima è la revisione delle disposizioni dell'Eba (European Banking Authority) su come le banche devono contabilizzare i titoli di Stato. Ne vengono penalizzate sia le banche sia il Tesoro. La seconda emergenza sono gli aumenti di capitale delle banche, ormai inevitabili.
Da sempre le banche vorrebbero vendere alla Banca d'Italia le quote di capitale della medesima, che detengono senza guadagnare come del resto è giusto che sia. Governatore Mario Draghi, si era arrivati vicini a un accordo che avrebbe procurato al sistema bancario 8-10 miliardi creando, al tempo stesso, un mercato delle quote sotto la ferrea supervisione di via Nazionale. Enrico Salza, ai tempi banchiere in Intesa, aveva proposto un modo per girare anche alle altre banche parte del beneficio, concentrato al 42% su Intesa Sanpaolo e al 22% su Unicredit. Un'idea lungimirante e generosa. Che oggi, dati i tempi, potrebbe piacere meno a Ca' de Sass. L'ombra di Tremonti, che si temeva potesse approfittarne per ledere l'indipendenza della Banca centrale e, magari, sottrarle patrimonio, fermò tutto. Ma nell'autunno 2011?
Di questo passo, mentre si riparla di privatizzazioni, si corre il rischio di sacrificare senza un disegno gran parte delle fondazioni bancarie, alleate del governo nella Cassa depositi e prestiti, e poi, ove non bastasse, di dover nazionalizzare le banche. A parlare con la Banca d'Italia sono di solito il premier e il ministro dell'Economia, ma nel Comitato interministeriale per il credito e il risparmio siede anche il ministro dello Sviluppo. Che viene dall'unica banca non obbligata ad aumentare il capitale.
Salvare beni culturali e paesaggio
“Ricostruire” Ministero e rete di tutela
Signor Ministro,
il compito che l’aspetta è dei più complessi e insidiosi: così come in altri settori della vita pubblica si tratta di una vera e propria opera di rifondazione politica, o meglio di fondazione, in quanto da anni il Ministero che lei è chiamato a guidare è totalmente privo di una visione culturale organica e degna di questo nome.
Come abbiamo sottolineato nel precedente appello al Presidente della Repubblica, la prima urgenza risiede a nostro avviso in un chiaro segnale di discontinuità rispetto all’immediato passato, caratterizzato da una gestione appiattita sull’emergenza, la casualità, il culto dell’evento, la subordinazione ossessiva della competenza ai desiderata di parte politica.
In attesa di rappresentarle personalmente le nostre considerazioni ci permettiamo di sottolinearle pochi – fra i tanti – temi che a nostro avviso richiedono un intervento immediato.
Occorre procedere, rapidamente, alla pianificazione paesaggistica, così come previsto dal Codice, operazione abbandonata da anni, con colpevole elusione di Ministero e Regioni, ma unico strumento in grado di garantire un governo del territorio adeguato alle finalità che l’articolo 9 della nostra Costituzione ci addita.
Occorre rilanciare l’attività delle Soprintendenze riformandone l’apparato amministrativo e potenziandone le risorse a partire da una radicale redistribuzione fra un corpo centrale ipertrofico e gli uffici periferici, unico presidio territoriale in grado di garantire un monitoraggio costante e una rete di tutela di un paese tanto complesso e stratificato quanto reso fragile dall’abbandono della montagna e da un consumo di suolo dissennato, il più alto d’Europa.
Occorre dare subito alcuni segnali forti dicendo, ad esempio, basta ai commissariamenti che hanno prodotto - da Pompei a L’Aquila - danni e sprechi diffusi, ripristinando quei criteri di competenza e di merito ampiamente ignorati e mortificati anche in ruoli-chiave.
Conosciamo i gravissimi problemi finanziari che gravano sul nostro paese: siamo consapevoli che le risorse, davvero risibili dopo un triennio di tagli draconiani (dallo 0,39 % del bilancio dello Stato del 2000 allo 0,19 di questo esercizio), non sono destinate ad aumentare significativamente nel prossimo futuro. Si tratta allora di pensare, assieme, anche a modalità innovative – ma trasparenti e regolate – di acquisizione di risorse (dagli enti locali ai privati), purché sia sempre garantita la qualità scientifica degli interventi conservativi e di valorizzazione e insieme la tutela dei diritti di chi, esterno alle istituzioni, opera per il patrimonio pubblico.
E si tratta, soprattutto, di fare un’operazione di verità laddove fino a questo momento il nostro immenso patrimonio culturale e paesaggistico è stato vittima dell’ipocrisia reiterata che lo dipingeva come fondamentale “volano” di sviluppo solo a parole, e dell’ignoranza culturale che ha preteso di trasformarlo in una merce pronta per l’uso e l’abuso turistico o, in caso contrario, fastidioso ostacolo allo “sviluppo” drogato del mattone e del cemento. Coi migliori auguri di buon lavoro
Giulia Maria Mozzoni Crespi, fondatrice e presidente onorario del FAI
Desideria Pasolini dall’Onda, fondatrice di Italia Nostra e presidente onorario del Comitato per la Bellezza
Fulco Pratesi, fondatore e presidente onorario del Wwf-Italia
Associazione “R.Bianchi Bandinelli”, Marisa Dalai, presidente
Comitato per la Bellezza, Vittorio Emiliani, presidente, Vezio De Lucia, Luigi Manconi
Eddyburg, Edoardo Salzano
Italia Nostra, Maria Pia Guermandi ed Elio Garzillo, consiglieri nazionali
Rete Comitati Toscani, Alberto Asor Rosa, presidente
Sabato scorso l'archeologo Stefano De Caro (già soprintendente archeologico di Napoli, direttore regionale della Campania e direttore generale per i beni archeologici del MiBac) è stato eletto alla direzione generale dell'Iccrom, che è il Centro internazionale di studi per la conservazione ed il restauro dei beni culturali: un'agenzia intergovernativa con sede a Roma, che presta consulenza all'Unesco ed opera in tutto il mondo. Il fatto che uno studioso e un funzionario italiano prenda il posto dell'egiziano Mounir Bouchenaki rappresenta un successo per il Paese, e in un campo in cui abbiamo un peso strategico. Sembra un'affermazione ovvia, ma non lo è per nulla. L'opposizione più dura e tenace all'elezione di De Caro è infatti venuta dal delegato del governo italiano, che su indicazione del capo di gabinetto dell'allora ministro Galan, Salvo Nastasi, ha invano provato a far eleggere a quel posto non un archeologo, ma un chimico. Ed è solo l'ultima figuraccia dello staff installato da Bondi, e confermato da Galan. Del segretario generale Roberto Cecchi si ricorda, per esempio, il ruolo decisivo nell'irrituale e gravemente inopportuno acquisto del Cristo cosiddetto di Michelangelo (sul quale la Corte dei Conti sta aprendo la fase dibattimentale di un'inchiesta); o, ancora, la parte avuta nello svincolamento di una preziosa commode settecentesca al centro di un'inchiesta penale. Dello stesso Nastasi si possono citare, per esempio, l'improvvido scempio dei giardini di Palazzo Reale a Napoli, o il recente e fallito tentativo di nominare il capo dell'Auditel alla guida della Biennale di Venezia. Ebbene, la sensazione è che se il nuovo ministro Lorenzo Ornaghi vuol provare a riavviare l'ingolfatissima macchina dei Beni Culturali dovrà proprio cominciare dal fare una pulizia radicale nella cabina di guida.
Certe volte davanti a certi studi scientifici viene proprio da chiedersi se non sono quelle, le cose che poi provocano l’aggressività dei politici in malafede nel tagliare i fondi alla ricerca. Torme di qualificatissimi nerds coordinati da pimpanti professori si aggirano nei posti più impensati coi loro vari strumenti di rilevazione, a volte costosi a volte no, e poi sembrano ogni volta annunciare la scoperta dell’acqua calda. Magari poi contraddetti la settimana dopo al convegno concorrente, dove si spacca in quattro invece l’acqua tiepida … Mah!
E sarebbe istintivamente questa la reazione immediata, scorrendo il sommario della ricerca A Difference-in-Differences Analysis of Health, Safety, and Greening Vacant Urban Space, proposta dal numero di novembre dell’American Journal of Epidemiology. La tesi è proprio del tipo descritto, più o meno: dove la città è migliore si sta meglio in generale, e in particolare ne guadagnano sia alcune patologie che il livello dei reati contro la persona. Più in dettaglio, se gli spazi di risulta e gli altri ambienti aperti pubblici vengono sistemati a verde, mantenuti, con una buona accessibilità e qualità, si verifica rispetto a spazi identici di bassa qualità (ovvero privi di intervento e/o non mantenuti) un rilevabile e netto calo di aggressioni, scippi, stress, e benessere urbano generale.
Però non c’è niente da ridere, naturalmente. Se è vero che pare scontata da un certo punto di vista intuitivo l’equazione quartiere migliore = qualità della vita migliore, il fatto di applicare a un elemento così puntuale come il verde ben tenuto nei lotti in edificati, un metodo altrettanto se non ancor più puntuale, è un bel passo in avanti, di sicuro. In termini di merito, perché così sarà possibile ad esempio a qualunque amministrazione sostenere economicamente le spese necessarie a quegli spazi verdi, sulla base di specifici riscontri di bilancio: quanto costano i servizi sanitari relativi alle patologie che così si riducono? Quanto costa la repressione dei reati che evaporano davanti alle aiuole? Tutti quei soldi si possono semplicemente spostare da una voce all’altra, e la scelta così potrà anche distinguere una amministrazione di destra tutta legge e ordine, da una progressista che ricorre alla forza pubblica, o agli assistenti sociali, solo quando ce n’è davvero bisogno.
Un’altra utilità immediata di questa ricerca è quella di metodo: se si può applicare, magari perfezionandolo e standardizzandolo, al verde, per estensione è possibile sommare e comparare, magari in modo interdisciplinare, i risultati di indagini sistematiche simili su altri elementi che possono aumentare o diminuire la qualità urbana: dagli arredi, alle sezioni stradali, alle densità (edilizie, di utenza ecc.). Spesso davanti ai successi di certe politiche di successo qualcuno osserva con sorrisimi di compatimento che “quello è un contesto diverso”. La rilevazione scientifica consente facilmente di capire se è così, oppure no: basta elaborare i dati. Certo prima bisogna averli, quei dati, e qui torniamo all’inizio: la ricerca serve, serve sempre, e chi sostiene che è uno spreco racconta sempre frottole. Questo è scientificamente provato.
(per chi volesse pascersi di tabelle e dotte analisi, A Difference-in-Differences èscaricabile direttamente da qui)
Trentadue pagine con le indicazioni per disegnare il nuovo Piano di governo del territorio. Dove c'è scritto, per esempio, che l'indice edificatorio verrà ridotto a 0,35, che difficilmente si realizzerà la metropolitana leggera denominata «circle line», che scomparirà il tunnel sotto la città. Si racconta che all'origine il titolo del documento fosse la «Milano arancione», poco apprezzato dalla fetta più rossa della città che pure ha contribuito a far vincere il centrosinistra. Sarà per questo che oggi, in cima alla relazione elaborata dalla Consulta del Centro studi per la programmazione intercomunale dell'area metropolitana (Pim) si legge un più neutro «Linee guida per l'esame delle osservazioni al Pgt di Milano».
Il plico è arrivato in questi giorni negli uffici comunali e nelle mani di qualche politico della maggioranza. Ci hanno lavorato i 10 esperti, tra docenti universitari e architetti (alcuni dei quali tra gli estensori delle osservazioni) nominati il 28 settembre e incaricati dall'assessore all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, di «supportare» l'amministrazione e in concreto di trovare un bandolo alla matassa delle 4765 osservazioni da riesaminare senza perdere troppo tempo.
Il primo punto sta proprio qui: l'attenzione si potrà rivolgere solo su «un campo ristretto di questioni». Pena la paralisi della città. Si procederà a una «riaggregazione tematica», con prevedibile battaglia in aula da parte del centrodestra.
Nella passata legislatura le osservazioni erano state controdedotte dagli uffici seguendo la stella polare del piano adottato in consiglio comunale. Ora sembra di capire che gli uffici si dovranno attenere alle indicazioni degli architetti scelti dall'assessore, che vanno nella direzione di una diminuzione delle potenzialità edificatorie ma che dicono tante altre cose.
Per cominciare, come annunciato, il Parco Sud non genererà più volumetrie da spalmare in città e saranno i piani di cintura e l'ente parco a dire l'ultima parola sul futuro dell'area. Cambia inoltre l'indice di densificazione attorno alle stazioni del trasporto pubblico: non sarà più 1 come previsto dalla precedente impostazione. Un'altra novità rispetto al piano adottato dall'assessore Carlo Masseroli riguarda la riduzione dell'indice unico anche per gli ambiti del tessuto urbano consolidato (Tuc): era dello 0,50. Rispetto al vecchio documento di inquadramento, le aree oggi vengono in sostanza «svalutate», con una potenzialità edificatoria dello 0,35 mq/mq.
«È sempre ammesso — si legge nel documento a proposito di nuove edificazioni o ristrutturazioni — il recupero della Slp esistente con cambio d'uso nel rispetto comunque dell'indice massimo di 1. In tal caso una quota pari a 0,35 dell'edificabilità massima realizzata dovrà comunque essere determinata da finalità sociali e di interesse pubblico». L'impianto del cambio di destinazione d'uso, libero nella testa di Masseroli, è nella bozza attuale assai diverso. Si tornerà all'antico e alla valutazione delle singole proposte. Con i tempi che ci vorranno.
Capitolo scali ferroviari, anch'essi interessati all'abbassamento dei volumi (0,35 per diritti edificatori liberi, idem per le finalità sociali). «Vi sono problemi — sottolinea il documento — di tipo programmatico/progettuale, emersi dall'accoglimento delle osservazioni in fase di adozione e poi approvazione. Le 2 grandi complicanze sono: quota di verde e housing inserite in adozione, stralcio dell'obbligo di accordo di programma in approvazione del Pgt». Troppo verde e housing sociale diventano «complicanze». E ancora: «Altro nodo è la previsione della circle line, che secondo Rfi andrebbe in conflitto con l'attuale servizio». Sul fronte della mobilità, «lo scenario di medio periodo» conferma oltre alla realizzazione della MM5 fino a San Siro anche la MM4.Il tunnel Expo-Forlanini appare «non coerente con il Pgt». Da «approfondire» la strada interquartiere Nord.
La nascita del governo Monti ci impone, io credo, di mettere tutte le nostre carte in tavola, compresa la nostra soggettività e le nostre contraddizioni, nel pieno di uno sconvolgimento storico, sociale, mentale che sfida tutti i nostri schemi. E ci immerge in uno scenario inedito. Incomincerò dunque io a fare outing, con un paio di confessioni, sperando di essere seguito da molti.
Confesso innanzitutto che se fossi stato a Roma, sabato scorso, avrei probabilmente preso una bandierina (tricolore) e sarei sceso in strada a festeggiare. Perché quella sera, alle 21 e 42, è davvero finito "ufficialmente" il berlusconismo. So benissimo che la sconfitta di Berlusconi viene da lontano, da Milano, con la vittoria di Pisapia, dal referendum con i 27 milioni di persone che gli hanno disubbidito, e prima ancora dal 14 febbraio con quel popolo rosa che ha detto «se non ora quando». Ma sabato è successa una cosa in più. Per la prima volta nella sua vita politica Berlusconi ha dovuto arrendersi alla realtà.
E l'essenza del suo stile politico - l'anima del berlusconismo - sta esattamente nell'opposto: nella negazione sistematica del mondo qual è. Nella costruzione per via narrativa - appunto, da grande illusionista - di una realtà immaginaria, parallela, fantasmagorica e totalizzante, rispetto alla quale la capacità di farla credere e di farci accomodare dentro il "suo popolo" era la misura e la sostanza del suo potere. Con quell'uscita vergognosa, dalla porta secondaria del Quirinale, in una Roma festante, quella bolla è scoppiata. Di fronte all'evidenza che intorno c'era un mondo coriaceo e ostile, che gli resisteva e lo cacciava, è finita irrimediabilmente la leggenda del Grande Narratore.
Confesso anche - e la cosa mi costa un po' di più - che ho fatto il tifo per Mario Monti. Forse per una questione di pelle. Più estetica (ed etica) che politica. Perché dopo tanto strepitare sopra le righe, dopo la volgarità al potere, il disgusto quotidiano e lo strepito da caravanserraglio, i troppi nani e ballerine e paillettes e cotillon nel cuore dello Stato, la sua normalità sembra un miracolo. La sua sobrietà di abito e di parola una rivoluzione. Ma anche perché, politicamente, mi rendo conto che al suo governo non ci sono alternative. Che il suo ingresso a Palazzo Chigi ha il senso di un'ultima chiamata, oltre la quale non c'è un'altra soluzione politica possibile, ma solo il vuoto in cui tutti, nessuno escluso, finirebbero per schiantarsi (l'insolvenza dello Stato, la sospensione del pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici, il blocco del credito bancario, la paralisi del sistema produttivo, da cui una astrattamente desiderabile campagna elettorale non ci avrebbe messo al sicuro, anzi...). Non so se la nascita del suo governo sarà sufficiente a metterci al riparo, almeno temporaneamente, dalla tempesta che ci infuria intorno. Ma so che ne è - anche sul piano dello stile - la condizione necessaria.
Detto questo, testimoniato il nostro "senso della realtà", non possiamo tuttavia nasconderci il significato profondo - la gravità - degli avvenimenti di questi giorni. Il carattere di discontinuità che essi introducono nella vicenda della nostra Repubblica. Nessuna delle prescrizioni formali della nostra Costituzione è stata violata nei convulsi passaggi di questa crisi di governo, sia ben chiaro. Ma la nostra Costituzione materiale è mutata. E in alcuni suoi aspetti di fondo, a cominciare da quel tratto costitutivo di ogni forma di governo che è il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo. Costituzionalmente noi nasciamo e siamo una Repubblica Parlamentare. Anzi: un parlamentarismo di partito. Il luogo naturale e genetico dell'indirizzo politico - la sede in cui nascono e muoiono i governi - è il Parlamento. E qui il Parlamento (come d'altra parte il Governo) è stato, nei passaggi cruciali, fuori gioco. Nella migliore delle ipotesi una controfigura, mentre il baricentro dell'iniziativa politica è passato - in un'evidente situazione di emergenza - alla Presidenza della Repubblica, per una semplice ragione. Perché la politica nella sua sede naturale aveva fallito. Perché la sede parlamentare, come luogo della decisione politica, era implosa. I suoi soggetti primi, i Partiti, si erano estenuati e neutralizzati, fino all'assoluta impotenza. In un Parlamento bloccato da una maggioranza tecnica ma non più politica, costruita a colpi di compravendita (in un Parlamento che aveva tragicamente assunto il volto farsesco dell'on. Scilipoti), nel vuoto, dunque, del "potere primo", l'iniziativa è passata a un potere "secondo" (anzi, al "potere terzo", perché così lo configura la Costituzione), che ha deciso.
Non può non venire in mente - absit iniuria verbis - la vicenda costituzionale della Repubblica di Weimar, e il famigerato art. 48 che assegnava al Presidente la facoltà di proclamare, in caso di emergenza, l' Ausnahmezustand, lo «stato d'eccezione», assumendovi poteri straordinari. Riflettendo proprio su quell'istituto un grande giurista del tempo, Carl Schmitt, elaborò la propria teoria della sovranità che definiva appunto il Sovrano come «colui che decide sullo stato d'eccezione» (e, occorre aggiungere, nello stato d'eccezione). Ora, Schmitt appartiene a quella schiera di "pensatori maledetti" che hanno dato voce e forma ai demoni del Novecento. Ma il suo modello d'interpretazione appare ancora assai utile per tracciare una mappa del potere contemporaneo. Se ad esempio ci chiediamo, in quell'ottica, chi sia stato in questi giorni il Sovrano in Italia, la risposta non può essere che una: Giorgio Napolitano. Non il Parlamento, non il Governo, ma il Presidente della Repubblica, il secondo corno del potere esecutivo, quello meno rilevante in condizioni di normalità.
Se poi allarghiamo il raggio dello sguardo a livello europeo, dobbiamo concludere che qui Sovrana è la Bce, la Banca centrale, un organo amministrativo dunque, e tuttavia dotato della medesima discrezionalità, dello stesso decisionismo, e anche della stessa furia ideologica della politica. E se dalla dimensione continentale passiamo a quella globale la risposta alla domanda "chi è il Sovrano" non può essere che una: i Mercati. Il loro potere arbitrario e definitivo, giudice della vita e della morte dei popoli e dei Paesi (Grecia docet). Ma i mercati - mai come oggi lo si può vedere ad occhio nudo - sono un Sovrano distruttivo. Un Crono che divora i suoi figli. Un Leviatano non vincolato da nessun patto, impegnato in uno shopping feroce che passa da uno stato all'altro, da una Borsa all'altra, con una logica che comporta nei propri codici l'auto-distruzione, lasciandosi alle spalle macerie e rovine. Da essi non ci si può aspettare non dico una società giusta, ma neppure un qualche tipo di società.
Ora, che ci si può aspettare - in questo quadro - dal governo che nasce? Mario Monti, lo sappiamo (e non dobbiamo nascondercelo) è impastato, almeno in parte, di quella stessa logica. Ne condivide alcuni punti fondamentali. Non ci potrà dare, quali che siano le sue intenzioni, "libertà e giustizia". Ed è persino difficile immaginare che chi sta dentro la cultura che ha prodotto la crisi possa, con quella stessa cultura, mettere in campo la cura definitiva. Quello che possiamo aspettarci è un riallineamento economico e finanziario - ma soprattutto in termini di credibilità e autorevolezza - all'Europa. Un riavvicinamento alla crisi degli altri. Cioè il ritorno a una qualche temporanea normalità (pur nell'emergenza che segna il nostro tempo) perché, riconquistata cittadinanza nel nostro continente, si possa aprire un contenzioso vero con l'Europa e i suoi dogmi, se qualcuno, nel frattempo, nel disastrato universo politico (o fuori di esso, in un "sociale" finora troppo silenzioso e pigro), avrà saputo elaborare una cultura altra. Un'alternativa "di modello" plausibile.
Non sarà facile, anche questo programma minimo. Bene che vada, la sua squadra di tecnici dovrà, volente o nolente, rassegnarsi a governare sopra e contro una società politica fallita e tuttavia ancora dotata di un forte potere di interdizione, sospendendone alcune prerogative. Avendo il coraggio di praticare l'istituto temporaneo ed eccezionale che nell'antica Roma aveva il nome di "dittatura commissaria". E costruendosi strada facendo la propria legittimazione: un percorso improbo, perché si troverà ad amministrare galleggiando su un Parlamento frammentato nei 34 gruppi che ha consultato (e chissà quanti altri se ne aggiungeranno, nell'anno che viene), rissoso e miope, dimostratosi drammaticamente irresponsabile. In cui i contenitori partitici che avevano strutturato la nostra forma politica rischiano, ad ogni passaggio, di liquefarsi. E in cui, soprattutto, si aggira ancora il fantasma non placato del vecchio premier, vulnerato ma non cancellato.
Ho detto, all'inizio, che il berlusconismo era finito. E lo ripeto. Ma questo non vuol dire che scompaia anche la figura di Berlusconi. Così come nel 1943 finì il fascismo, ma il suo ex capo Benito Mussolini continuò a devastare il paese per altri venti mesi, allo stesso modo l'Italia dovrà continuare a vedersela con un Silvio Berlusconi fattosi cavaliere di ventura, e con le sue scorrerie politiche, finanziarie e giudiziarie... In fondo, occupa ancora quasi la metà del Parlamento: per il gioco allo sfascio i numeri li avrebbe tutti. La Lega questo passaggio l'ha già compiuto, scommettendo sul fallimento dell'Italia, e preparandosi ad accelerarlo pur di sfuggire al nulla in cui si è confinata attraverso l'uscita di sicurezza della secessione. Se la strana coppia che ci ha portato sull'orlo dell'abisso si ricomponesse sulla linea di un nichilismo politico programmatico, allora davvero il nostro 12 novembre più che a un 25 aprile finirebbe per assomigliare, tristemente, a un 25 luglio. E davvero diventerebbe non più rinviabile il tempo delle scelte.
La distinzione fra tecnica e politica si è affievolita in tutta l´età moderna, in un inesauribile scambio di ruolo e di funzioni - Se lo Stato si sforza di pianificare i settori della produzione economica, si penserà che sia giusto affidare il potere ai manager - La nascita del governo Monti mette in primo piano il complesso rapporto tra la democrazia e la necessità di ricorrere ad una élite di specialisti per il governo
Nasce un governo "tecnico", figlio della debolezza (ma anche della residua capacità di condizionamento) della politica di oggi, e della sciagurata insipienza della politica di ieri. È un governo di tecnici che saranno chiamati a realizzare nel modo più efficiente decisioni in parte già prese (anche e soprattutto fuori del nostro Paese) ma che dovranno nondimeno fare anche delle scelte; il che renderà evidente che sono chiamati non solo a supplire da tecnici la politica, ma anche a svolgere un ruolo propriamente politico.
Questo intrecciarsi di tecnica e politica va dipanato, nei limiti del possibile. Ma è una linea davvero sottile quella che separa la tecnica dalla politica. All´apparenza, la prima è un potere che dall´uomo va verso le cose, per produrle e modificarle, mentre l´altra è un potere che dall´uomo va verso gli uomini, perché esprimano un ordine a loro adatto. È questa la tesi di Platone, nella sua polemica contro i sofisti che riducevano la politica a una tecnica, a un´arte di persuasione e di comando, e non coglievano che l´ordine politico ha a che fare con la Giustizia (e questa con le Idee, col Bene, e con l´Essere); e anche Aristotele ha distinto fra poiesis, la produzione strumentale, che ha il proprio fine nelle cose prodotte, e praxis, l´agire che ha come fine la stessa bontà dell´azione.
Ma il progressivo venir meno del riferimento al Bene ha avvicinato le due nozioni ancora di più: un antropologo del XX secolo, Gehlen, ha sostenuto che la tecnica è l´azione dinamica che elabora l´ambiente e lo rende adatto all´uomo, mentre la politica è l´azione stabilizzatrice, che cerca di ordinare e integrare in un ordine i diversi saperi e le diverse azioni della tecnica.
In realtà, la distinzione fra tecnica e politica si è affievolita in tutta l´età moderna, in un inesorabile scambio di ruolo e di funzioni: benché pretenda di essere il custode di un sapere non specialistico ma universale, e di avere, rispetto alla tecnica, obiettivi più alti – non l´efficienza in questo o in quell´ambito ma la gloria, la nazione, l´Idea, la libertà, la democrazia –, lo Stato è intrinsecamente tecnico, poiché ha bisogno delle competenze di tecnici e scienziati, di statistici e di ingegneri, di amministratori e di militari, di giuristi e di professori; la tecnica conferisce allo Stato la potenza, che è ciò per cui lo Stato vive. E, specularmente, è ineluttabile che la tecnica manifesti la tendenza a produrre un proprio ordine, che esibisca una propria intrinseca capacità di generare forme; che sia, oltre che dinamica, anche stabilizzatrice; e che, oltre che servire, oltre che essere utile, pretenda anche di governare; che pretenda che l´intera società sia a disposizione di chi detiene i saperi neutri e oggettivi con i quali ogni problema sarà infallibilmente risolto.
Così, se lo Stato dipende dalla tecnica per la propria potenza (anche lo Stato sociale ha bisogno di efficienza tecnica), se si sforza di pianificare settori della produzione economica (nel XX secolo lo hanno fatto sia le democrazie sia i totalitarismi), allora si penserà che sia giusto e opportuno che il potere sia nelle mani dei competenti, dei tecnici, o di chi ha il know how dell´organizzazione: i manager, i tecnocrati. Come già sosteneva Weber, la tecnica fatalmente si presenterà allora come la "gabbia d´acciaio" che ha imprigionato la politica; oppure si potrà dire, con Heidegger, che la tecnica è l´essenza e il destino della civiltà occidentale, l´espressione adeguata (tanto più potente in quanto precisa, oggettiva, impersonale, neutrale) della volontà di potenza occidentale.
Contro queste prospettive di un mondo amministrato – in cui la tecnica, nata per servire l´uomo e liberarlo, lo comanda e lo piega alle proprie esigenze –, la politica a volte tenta di recuperare il comando nell´orientamento della vita sociale: questa è stata la rivoluzione culturale di Mao, che ha lanciato le Guardie Rosse contro le tecnostrutture della Cina; questo fanno i populismi, contestando le élites tecnocratiche. Ma più in generale, contro la politica asservita alla tecnica si gioca l´autonomia della politica; al prestigio distaccato dei tecnocrati si contrappone la passione e la partecipazione della politica democratica.
Ma, benché seducenti, tecnocrazia e autonomia della politica sono in realtà due ipotesi insoddisfacenti. La verità non sta né nell´identificazione della tecnica con la politica (la tecnocrazia) né nella loro contrapposizione frontale. Non separate né coincidenti, tecnica e politica si coappartengono: hanno entrambe a che fare con l´incompletezza e l´instabilità della vita associata degli uomini, e con il potere come sforzo di ordinare questo mondo. Ma, paradossalmente, è la politica a essere più aderente alla realtà, e quindi più potente: infatti, la tecnica non sa che il suo ordine impersonale e oggettivo, e i suoi fini universali e neutrali, sono anch´essi decisioni, sono il frutto di scelte già fatte, e mai messe in discussione. Mentre invece la politica sa che non c´è una sola soluzione (che appunto sarebbe ‘tecnica´) ai problemi reali di una società, ma sempre più di una (e di solito in conflitto). E nella scelta fra queste consiste appunto la politica. Se i tecnici vogliono fare politica, dovranno perciò rinunciare a credere nell´univocità e nell´assolutezza dei propri saperi, e addestrarsi al confronto dialettico.
Lo sforzo politico e culturale in cui vale la pena di impegnarsi è quindi quello di politicizzare la tecnica, cioè di fare emergere la contingenza dei suoi imperativi categorici; ma, al tempo stesso, di tecnicizzare la politica, ovvero di evitarne le derive illusionistiche e di renderla consapevole che la sua responsabilità è di decidere mezzi e scopi della potenza tecnica, senza sottrarsi alla durezza delle sue sfide. Alla politica spetta insomma il compito di entrare nell´universo della tecnica senza tributare un culto idolatrico alla sua potenza, nella consapevolezza che non è il Bene ma la percezione della complessità e della contraddittorietà della vita umana il vero discrimine fra tecnica e politica.
Il Governo Berlusconi non c’è più. Il caimano si è dimesso, consumato da un inglorioso autunno del patriarca e sempre più isolato. Era nell’aria sin dai tempi della rottura con Fini ed era diventato quasi una certezza con la splendida primavera dei sindaci e dei referendum. Ora finalmente è accaduto e quindi facciamo bene, noi di sinistra, ad esultare e sentirci sollevati.
Eppure, c’è un “ma” che pesa, perché dopo anni di lotte, speranze, delusioni, traversate del deserto ed indignazioni, alla fine non siamo stati noi a dargli la spallata. Nessun 14 dicembre, primavera democratica o 15 ottobre l’hanno mandato a casa. No, l’hanno fatto i “mercati finanziari” o meglio, visto che la mano invisibile esiste solo nelle favole, quei soggetti che dispongono dei mezzi finanziari per agire e per orientare.
E attenzione, non si tratta di una quisquilia, poiché quella dei protagonisti del cambiamento è questione decisiva. Altrimenti, per scomodare altre epoche storiche, perché nell’aprile 1945 il capo delle forze alleate in Italia avrebbe chiesto ai partigiani di stare fermi in attesa che le sue truppe liberassero il nord del paese e perché il CLN avrebbe invece deciso l’esatto contrario, dando l’ordine per l’insurrezione popolare?
In altre parole, il modo in cui si esce dal disastro berlusconiano è dirimente. E da questo punto di vista faremmo molto bene, noi di sinistra, a toglierci dalla testa che la fine di Berlusconi significhi di per sé l’avvento di un’Italia migliore. A maggior ragione nelle condizioni date, cioè nel bel mezzo della più micidiale crisi economica, sociale e politica che l’Europa abbia vissuto dagli anni Trenta del secolo scorso.
Ebbene sì, perché il punto è questo: ci stiamo liberando dall’anomalia italiana, per ritrovarci di colpo nella normalità della crisi europea. C’eravamo anche prima, ovviamente, ma forse il berlusconismo ci aveva un po’ annebbiato la vista. E così, come logica conseguenza dell’incapacità dell’opposizione sociale e politica di buttare giù il sultano e di avanzare una proposta politica alternativa, ci scopriamo ora destinatari di ordini di servizio alla pari di Spagna, Portogallo o Irlanda e commissariati come la Grecia.
In questi giorni Mario Monti gode di grande credito pubblico, un po’ per il legittimo sollievo di non avere più come presidente del consiglioBerlusconi, un po’ perché molti vedono in lui un’ancora di salvezza in mezzo alla tempesta. Tutto questo è comprensibile, ma non ci esime certo dal guardare oltre il momento e l’apparenza.
Mario Monti, come il nuovo primo ministro greco, Lucas Papademos, è espressione diretta dell’establishment finanziario internazionale. Papademos era governatore della banca centrale greca e vicepresidente della Bce fino all’anno scorso. L’ex commissario europeo Monti è advisor della potente banca d’affari “Goldman Sachs” e ricopre ruoli di primo piano nella Commissione Trilaterale e nel Gruppo Bilderberg. Beninteso, qui non è questione di complotti, ma molto più banalmente di prendere atto che oggi i circoli e le istituzioni del finanzcapitalismo (per usare la definizione di Gallino) hanno deciso di intervenire direttamente nella gestione politica degli Stati.
In questa dinamica, ad essere sconfitta e sottomessa non è tanto la politica intesa come ceto o partiti, bensì la democrazia, intesa come possibilità delle classi popolari di poter partecipare alla formazione delle decisioni pubbliche. Infatti, nelle lettere della Bce all’Italia o nello scandalo ufficiale di fronte all’ipotesi di referendum in Grecia ritroviamo la medesima insofferenza nei confronti della democrazia che abbiamo già visto all’opera a Pomigliano, Mirafiori o Grugliasco.
Insomma, delle pessime premesse per il futuro, dove in gioco non è il ricambio dei governanti, bensì la ridefinizione del sistema politico, sociale ed istituzionale. Cioè, la “terza repubblica” e il modello sociale.
Ecco perché non dobbiamo, noi di sinistra, stare nel recinto della Grosse Koalition a sostegno di un governo per nulla tecnico, il cui programma è stato scritto dalle istituzioni finanziarie. Non per ideologia, ma per realismo. E non per sbraitare a bordo campo, bensì per rientrare in gioco e costruire e organizzare un punto di vista alternativo, a partire dal lavoro, possibilmente con spirito unitario e insieme a movimenti e forze degli altri paesi europei. Altrimenti, anche le elezioni, quando finalmente arriveranno, serviranno a ben poco.
«Il trucco del Piano di governo del territorio della precedente giunta sta nell’aver aumentato artificialmente il numero degli abitanti di Milano per aumentare il valore immobiliare dei terreni. Ma torniamo alla realtà: i residenti non cresceranno perché a Milano è troppo difficile vivere». L’architetto Vittorio Gregotti non ha dubbi: il Pgt firmato dalla giunta Moratti - che prevedeva la crescita degli abitanti di 400mila unità per arrivare a 1 milione e 700mila persone - va cambiato e bene fa la nuova amministrazione a riprendere in mano il documento per rivederlo.
I complimenti - «il nuovo documento che racchiude le linee guida, con cui la giunta Pisapia correggerà il Pgt è ottimo» - arrivano dritti a destinazione durante un convegno sul tema organizzato all’Urban center dall’Istituto nazionale di Urbanistica, anche lui critico nei confronti di un Piano che «ricorre a un’ipotesi di dimensionamento non credibile». Al tavolo dei relatori, oltre all’architetto milanese, al direttore dell’Inu Luca Imberti e all’economista Marco Vitale, c’è anche il neo assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris che ringrazia e spiega: «La decisione di mettere in discussione il Piano è una scelta politica e come tutte le scelte può essere criticabile, ma noi siamo convinti che si debba ripartire dall’ascolto della città».
Per questo, appena insediatasi, l’assessore ha annunciato la revoca del provvedimento che doveva mandare in pensione il vecchio piano regolatore per ripartire dalle osservazioni dei cittadini. Oggi la delibera di revoca approda in Consiglio comunale. Un primo passo verso una nuova maratona d’aula quando il Consiglio discuterà nuovamente le richieste di modifica. «Siamo consapevoli che il nostro limite saranno comunque le osservazioni - aggiunge la De Cesaris - . Non sarà mai il Piano che avremmo voluto scrivere noi, ma faremo di tutto per migliorarlo».
I suggerimenti non mancano. Vitale invita la giunta «a non sottostare al ricatto della fretta fatto dagli imprenditori» mentre Imberti ribadisce le critiche che l’Inu aveva già sollevato a suo tempo: la necessità «di dare al piano un respiro metropolitano», sfida sottolineata anche da Gregotti, l’importanza di un controllo dello sviluppo per evitare «il passaggio da una disciplina dirigistica come quella attuale a una completa liberalizzazione» e la diversificazione degli indici volumetrici a seconda del tessuto urbano.
Postilla
«Non sarà mai il Piano che avremmo voluto scrivere noi». Allora, perché non rifarlo d capo?
Di fronte a Palazzo Madama di colpo mi si para davanti Francesco Sisinni, a lungo direttore generale dei Beni Culturali, negli anni 80-90, da noi spesso criticato. “Mi rimpiangete, eh?…”, ghigna beffardo. Esito un attimo e poi, teatralmente, in un soffio: “Sì, Francesco, sì!” In realtà, non rimpiangiamo lui quanto un Ministero dei Beni Culturali e Ambientali che, nonostante difetti di base, assicurava, col sacrificio personale di “fedeli (e competenti) servitori dello Stato”, una rete di tutela invidiata all’estero. Non sarebbe stato possibile all’epoca promuovere d’autorità ai più alti incarichi persone pluribocciate ai concorsi. Né degradarsi a decine di avvilenti gestioni “ad interim” di Soprintendenze, avendo nel contempo una direzione centrale macrocefala, né disattivare i concorsi per anni, né lasciar tagliare il personale con l’accetta: 19.000 unità (presto 16.000) per tutelare un patrimonio tanto sontuoso quanto aggredito.
“Ogni funzionario della Soprintendenza architettonica di Milano, la più esposta ai pericoli, dovrebbe esaminare al giorno 79,24 progetti di ogni tipo”, ha ammesso, come se lui piovesse da Marte, l’8 novembre al bel convegno di Assotecnici il segretario generale del MiBAC, arch. Roberto Cecchi che negli anni decorsi non ha mai aggrottato un sopracciglio. “Ma non le fa male l’osso del collo a forza di dire sempre di sì?”, domandò Antonio Cederna ad un alto burocrate negli anni ’50. La stella di Berlusconi si offusca e subito c’è chi si “riposiziona”. Dei 19.000 ministeriali, appena il 2 % sono architetti, ingegneri, tecnici (circa 350), altrettanti gli archeologi e gli storici dell’arte. Una miseria. Tutto ciò, ha concluso il riposizionato Cecchi, non consente di attuare l’articolo 9 della Costituzione. Una tranquilla confessione di terribile impotenza.
E’ comprensibile che quanti sono stati nel cuore del potere ai Beni e alle Attività Culturali (nel frattempo perenti), attorno a Bondi, come i Cecchi, i Nastasi, i Carandini, confermati da Galan, difendano le postazioni, patiscano candidati “pericolosi” come Settis (che contro Bondi si dimise), e magari indossino nuove casacche affinché nulla cambi. Dove invece molto deve cambiare, altrimenti si va a fondo.
Il buon documento di base presentato da Assotecnici per il suo convegno è un valido pro-memoria per il prossimo (speriamo) titolare del Collegio Romano. Nell’ultimo biennio di crisi nera in Germania, per formazione e ricerca, la quota di PIL è salita dal 2,40 al 2,78 %. Sullo stesso livello gli Usa, poco sotto la Francia. Noi? In coda. Sono, secondo Matteo Orfini, responsabile del Pd per la cultura, tipici “settori anticiclici” nei quali i Paesi avanzati investono proprio per uscire dalla crisi. Facciamolo anche noi, riqualifichiamo il sistema di tutela, eliminiamo “tutti i commissariamenti”. Costosi e spesso disastrosi (vedi Pompei).
Inversione di rotta possibile però se le scelte per la cultura (così Giulia Rodano, responsabile Cultura dell’Idv) non saranno più subalterne ad una valutazione di redditività. Dovremo abituarci a “fare bene con meno”, ha ammonito l’ex ministro Giovanna Melandri, malgrado quello in cultura sia un investimento in civiltà e con una redditività differita certa. Occorre ridiscutere il modello di Ministero (Marisa Dalai presidente della Bianchi Bandinelli): decentrato com’era o duramente accentrato come l’ha voluto Urbani? E poi basta coi compartimenti stagni, con la sconnessione fra Ambiente-Paesaggio-Patrimonio storico/artistico-Turismo.
Connessione reclamata dai continui, angosciosi drammi ambientali. Il nostro è un paesaggio modificato dall’uomo al 90 %, un paesaggio “rifatto a mano”, con un gigantesco sistema di terrazzamenti dalla Valtellina a Pantelleria in molti punti dissestato. L’esodo di 7 milioni di ex contadini delle terre alte ha accelerato lo sfascio di un sistema idraulico-forestale antico, alvei non ripuliti, sottobosco non curato, canali di scolo abbandonati, torrenti (per disperazione e insipienza) cementificati. Così la montagna “si vendica” a valle. In una Italia per due terzi montagna e collina. Nel contempo sono state disattivate o devitalizzate: la legge Galasso sui piani paesaggistici dell’85, la legge n. 183 dell’89 sui bacini fluviali, la legge Bucalossi sui suoli del 1977 che riservava gli oneri di urbanizzazione ai soli investimenti, lo stesso Codice per il paesaggio. “Fare bene con meno”? Si può, ma garantendo la sopravvivenza all’Amministrazione dei Beni Culturali (e Ambientali) e attuando, aggiornate, le leggi solide e civili che ci siamo dati. Su tutto ciò dobbiamo ragionare presto – per “ricostruire l’Italia” della cultura – in forma seminariale (non seminarile). Con cultura di governo, con laico coraggio. Nell’analisi e nella proposta.
Sono 129 gli indagati, tra cui funzionari di Regione Puglia e Comune, responsabili di aver avallato la costruzione del complesso turistico con l'approvazione di una variante urbanistica dichiara illegittima. La struttura nata su una delle area più belle del Salento ha cambiato volto alla zona di Porto Cesareo
Un lussuoso resort da 50 milioni di euro con villette, alberghi, solarium, centri estetici, anfiteatro, discoteca, impianti sportivi e strutture commerciali. Una struttura ricettiva tra le più imponenti del Salento, affacciata - come si legge negli annunci sui siti di promozione turistica - "su un tratto di mare all’interno del Parco nazionale marino e nelle immediate vicinanze del Parco regionale di Porto Cesareo; in una delle più belle aree naturali della costa ionica del Salento, in località Torre Lapillo, a circa 10 km a nord di Porto Cesareo".
Un paradiso per turisti e per chi aveva lì comprato la casa al mare sequestrato dalla guardia di finanza per abusivismo: 129 le persone indagati per reati ambientali, tra cui i responsabili del Comune e della Regione che hanno rilasciato le autorizzazioni e i 120 proprietari di appartamenti. Un pezzettino di Puglia dall'inestimabile valore paesaggistico, che ha cambiato faccia dopo l'immensa colata di cemento arrivata con una variante urbanistica illegittima. Aree che avrebbero dovuto essere protette perché rappresentano la vera ricchezza del Salento e che, invece, sono state “devastate” come ha sottolineato il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta. I 9 pubblici ufficiali coinvolti nello scandalo sono l’ex sindaco di Porto Cesareo Vito Foscarini, i 3 responsabili dell’epoca degli assessorati regionali all’Ambiente e all’Urbanistica (Luigi Ampolo, Giuseppe Lazzazzera e Luca Limongelli), 2 responsabili dell’Ufficio tecnico comunale (Cosimo Coppola e Giovanni Ratta), 2 progettisti (Claudio Conversano e Antonio Nestola) e il legale rappresentante delle società coinvolte (Franco Iaconisi).
La struttura turistica sequestrata oggi è il resort Punta Grossa di Porto Cesareo, di proprietà della società Fgci srl. Le indagini delle fiamme gialle hanno accertato che il villaggio è stato realizzato in seguito a una lottizzazione abusiva a scopo edilizio di terreni in località Serricelle, aree protette che per le loro caratteristiche paesaggistiche sono state dichiarate di notevole interesse pubblico. Tra queste le zone di Palude del conte, Duna di Punta Prosciutto e altre dichiarate riserve marine. La costruzione del complesso immobiliare che sorge su un'area molto vasta ha inoltre causato una rilevante trasformazione urbanistica delle aree interessate, sottoposte a vincoli ambientali e paesaggistici, anche in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti e delle normative edilizia, urbanistica ed ambientale.
In particolare va sottolineato che prima dell'edificazione del complesso turistico, il consiglio comunale di Porto Cesareo aveva approvato una variante urbanistica al piano regolatore generale, attribuendo ai terreni in località "Serricelle", precedentemente tipizzati come agricoli, specifica destinazione turistico-alberghiera. Tuttavia, l'intera procedura che ha portato alla variante urbanistica al piano regolatore è da considerarsi illegittima, in quanto basata su due conferenze di servizi, rispettivamente risalenti agli anni 2002 e 2006, di cui la prima annullata con sentenza del Tar Puglia, confermata dal Consiglio di Stato e la seconda indetta illecitamente. Inoltre, la suddetta variante urbanistica è stata approvata senza tener conto delle prescrizioni di non alterazione del paesaggio regionale esistente, previste dal Piano urbanistico territoriale tematico.
La realizzazione del complesso immobiliare sarebbe stata possibile grazie ad alcuni illeciti commessi dal sindaco pro tempore e dai responsabili pro tempore dell'Ufficio tecnico del Comune di Porto Cesareo nonché dai progettisti e direttori dei lavori per la costruzione del residence, indagati per reati contro la fede pubblica ed abuso d'ufficio, i quali avrebbero falsamente attestato, nei loro pareri e relazioni, che non esistevano altre aree urbanisticamente idonee alla realizzazione di strutture turistico-ricettive, riattivando il procedimento amministrativo che ha portato alla variante urbanistica del piano regolatore. Le fiamme gialle spiegano inoltre, che sono stati denunciati alla procura della repubblica presso il tribunale di Lecce i responsabili pro tempore degli assessorati all'Urbanistica e all'Ambiente della Regione Puglia per aver fornito pareri irregolari ed illegittimi, omettendo i controlli, obbligatori per legge, sulle attestazioni fornite dai funzionari comunali nonché sul rispetto dei vincoli paesaggistici ed ambientali. Tra i 129 indagati - residenti in tutta Italia e responsabili del reato ambientale di lottizzazione abusiva - ci sono I 120 proprietari di appartamenti adibiti a case-vacanza all'interno del villaggio vacanze.
Ma non è tutto, perché se nella realizzazione dell’enorme mostro di cemento, i militari hanno individuato una serie di illegittimità urbanistiche e ambientali, il prosieguo delle indagini ha poi permesso di scrivere un altro capitolo relativo a presunte violazioni relative all’organizzazione societaria delle due srl che hanno costruito e gestito il resort. Alla luce delle evidenti violazioni che avevano caratterizzato la costruzione del villaggio, infatti, risultava impossibile procedere ad una formale compravendita immobiliare, per cui sarebbe stata effettuata un’operazione di riorganizzazione societaria, realizzata attraverso il conferimento di un patrimonio immobiliare di 108 appartamenti, fittiziamente mascherata come cessione di ramo d’azienda, della fgci srl verso una multiproprietà azionaria, cretata ad arte ed avente la stessa compagine sociale, denominata punta grossa srl. Le quote sarebbero quindi state cedute a 120 soggetti che, in teoria acquistavano parte del capitale sociale, in realtà diventavano padroni degli appartamenti. Nel momento in cui i proprietari volevano vendere la casa, la società riscattava la quota di appartenenza e la cedeva ad un nuovo inquilino, che conquistava così il suo spazio vitale nel paradiso salentino. Oltre a configurare illeciti penali, tale operazione di gestione straordinaria ha consentito di evadere l’irap per 6 milioni e mezzo e l’iva per 2 milioni, come evidenziato dalle ispezioni tributarie che si sono concluse con il recupero di elementi positivi di reddito per 7 milioni e 200mila euro.
Il servizio con le foto è raggiungibile qui
Credo sia capitato a chiunque di saltare sulla sedia, e poi probabilmente di incazzarsi di brutto, leggendo o ascoltando da qualche parte il tizio che dava la colpa del terremoto abruzzese ai peccatori locali, che si sarebbero attirati questo brusco ammonimento divino. E poi di incazzarsi ancor di più dopo aver scoperto che non solo il tizio con le sue sparate (questa non era neppure l’unica) aveva trovato posto sui media, ma un posto assai più stabile e prestigioso lo occupava, inopinatamente, presiedendo il principale ente di ricerca italiano. Beh, adesso si scopre anche che siamo fortunati, fortunatissimi, almeno rispetto ad altre sciagurate popolazioni, che certi pericolosi idioti se li devono sorbire molto, ma molto di più.
A certificare l’invasione degli ultracorpi antiscientifici, ci ha pensato abbastanza curiosamente proprio il metodo scientifico, con cui l’Istituto Reuters per gli Studi sul Giornalismo dell’Università di Oxford ha sistematicamente analizzato in modo comparativo, su un arco di diversi anni, un campione significativo della stampa internazionale, alla ricerca dei contributi sul cambiamento climatico. Scoprendo tra l’altro almeno due cose piuttosto significative: la stampa anglosassone è molto più permeabile di quella che parla altre lingue, quando si tratta di ospitare opinioni “scettiche” rispetto ai vari aspetti e manifestazioni del cambiamento climatico, e in generale sono i giornali di orientamento conservatore e di destra i più accoglienti ai tanti “se” e vari “ma” sollevati pur davanti all’evidenza scientifica. Soprattutto, osservano documentatamente i ricercatori, le strampalate opinioni di persone che nulla sanno, ovvero i politici.
Resterebbe da capire perché, succede questo, e vengono in mente due assai poco scientifiche spiegazioni. La prima è che la tradizionale stampa anglosassone, come ci raccontano tutti da secoli, coerente col suo ruolo democratico e aperto, non possa non accogliere quella che in un modo o nell’altro deve essere una vox populi vox dei: anche le sciocchezze più inverosimili (e spesso fuorvianti e pericolose) sparate da un politicante qualunque del tipo tea party o dintorni continuano a ricordarci che scienza e tecnica non sono una specie di religione, si evolvono e a volte ribaltano i propri presupposti. La seconda un pochino più cattivella è che la stampa internazionale letta dalla classe dominante di tutto il pianeta, guarda caso, è proprio quella che parla inglese, chi decide si forma quotidianamente su quelle letture, e proprio per questo motivo si moltiplica la pressione per comparire da parte degli “scettici”, in buona o più probabile mala fede.
Un’altra osservazione, stavolta autarchica, riguarda il nostro paese, che ufficialmente non compare nell’analisi comparata dell’Istituto Reuters. A parte le sciocchezze del pio antiscientifico governatore delle scienze citato in apertura, va detto che uno dei motivi per cui, molto probabilmente, non si verifica una vistosa presenza di “scettici”, è che a seminare sia scetticismo che atteggiamenti fideistici ci pensa il tono generale dei contributi giornalistici ai temi legati alla scienza. In cui si oscilla da certe prediche tracimanti onnipotenza, alla Veronesi per intenderci, a un certo cinismo sospettoso con poco tempo e voglia per dati certi, a un ottimismo della volontà magari in buona fede ma campato per aria a dir poco. E anche gli articoli scientificamente schierati, raramente si meritano poi risposte puntuali, come ad esempio nelle recenti polemiche sulle alluvioni. Insomma, un po’ ce la meritiamo la gentile ironia con cui sul Guardian di venerdì scorso Leo Hickman fa partire proprio dall’Italia, pur esclusa dalla ricerca, il suo articolo di presentazione del rapporto.
(di seguito scaricabile il Sommario della ricerca)
Si racconta che lo stesso Ebenezer Howard avesse immaginato una specie di centro commerciale nel bel mezzo della sua città giardino, ma è una balla colossale. Vero, che Howard in qualche intervento parlava di un palazzo di cristallo in mezzo a un parco, dove si poteva anche comprare qualcosa e bere un caffè, ma ci vuole proprio una mente perversa a confondere un passeggio coperto semirurale con un tempio del tre per due dotato di comodo parcheggio.
Ma a quanto pare il progresso inarrestabile come al solito riguarda soprattutto le sciocchezze, a partire da un’idea di riqualificazione urbana alla milanese, ovvero aspettare come manna dal cielo qualunque progetto di riuso, anche quando c’entra col contesto come i cavoli a merenda. Il contesto è la centralissima via Sormani a Cusano Milanino, antico percorso da Milano verso l’area comasca, da più di un secolo attraversato dal tram extraurbano che fa capolinea a Desio, e su cui da quasi altrettanto tempo si affacciano le ultime propaggini della città giardino, “il Milanino”, voluta contemporaneamente ai primi esperimenti di Howard dalla cooperativa presieduta dal pioniere della casa per tutti Luigi Buffoli.
Giusto lungo il tracciato del tram, dentro a un tessuto urbano a dir poco consolidato e fitto, sta un classico rettangolone di area industriale dismessa ex Pirelli, da anni alla ricerca del ruolo perduto. Tra l’altro, fra le varie cose che hanno perduto un ruolo, c’è pure il tram extraurbano, da qualche mese “temporaneamente sospeso” ma, sospettano in parecchi, destinato a sparire definitivamente, per lasciar posto al solito dilagare di auto in fila. Un risultato visibilissimo dell’accantonamento del trasporto collettivo come struttura che definisce la forma urbana, lo si può vedere proprio a Desio, qualche chilometro più in là, dove affacciato sulla medesima arteria è stato costruito un Superstore Esselunga: massimo arretramento, parcheggi, pedonalità ridotta al minimo, una specie di colonia suburbana drive-in atterrata in area semicentrale. Per non parlar del traffico, delle corsie di accesso ecc. ecc.
Con qualche variante, ovvero pare di capire con parte dei parcheggi a due livelli nel corpo dell’edificio, non ci si può aspettare niente di troppo diverso dal progetto Esselunga presentato per Cusano Milanino, con l’aggravante di trovarsi in una zona molto più densa, con sezioni stradali tutto sommato piuttosto modeste, e con potenzialità che nulla hanno a che spartire con quel modello. Ma l’amministrazione forse ha la medesima sensibilità dell’ex giunta di centrodestra milanese: basta farsi un giretto nei nuovi quartieri “fiore all’occhiello” degli assessori all’urbanistica ciellini, per vederlo all’opera, il modello. Ovvero la scatola del supermercato con parcheggio (più o meno incorporato nel volume, of course, siamo esseri urbani del terzo millennio!) arretrata rispetto al resto del mondo, a fingere di definire una piazza inesistente.
Alcuni abitanti di Cusano però hanno un’idea diversa: attività economiche, residenza anche sociale, commercio, spazi pubblici, servizi. Questo si merita un’area centrale, inserita in un contesto di valore storico, non un capannone con appesi i festoni colorati delle insegne e delle offerte speciali, a orientamento automobilistico, che alla città offre il suo classico standard di ¾ di pareti cieche e aree carico-scarico. Come sempre la questione non è il supermercato, la grande distribuzione cattiva contro il piccolo esercente sincero, il carrello invasore contro la massaia con la sporta … ma quel formato organizzativo indiscutibile che gli operatori buttano sul tavolo di qualunque trattativa come variabile indipendente. E che in questo caso copre, e come li copre, 2.500 metri quadrati.
Insomma un caso interessante, sia dal punto di vista del merito che del metodo, il quale metodo è un referendum consultivo di cui potete leggere tutti i particolari QUI.
Il nuovo Pgt, troppo blando e poco coraggioso
Jacopo Gardella – la Repubblica, ed. Milano, 13 novembre 2011
Caro direttore, il Comune aprirà un dibattito sul nuovo Piano di governo del territorio; un documento che convince poco. Ci si aspettava una svolta radicale rispetto alla passata amministrazione; una franca dimostrazione di discontinuità. E invece dobbiamo constatare soltanto una blanda modifica del vecchio Piano; non la risoluta volontà di rifarlo; non la ferma decisione di abolirne le tante aberranti proposte. Eppure il tempo non sarebbe mancato, tenuto conto dell’ampio lavoro preparatorio - indagini, analisi, raccolta di dati - già pronto ed utilizzabile.
Ci si aspettava la cassazione della folle crescita demografica all’interno dell’area urbana, causa di ulteriore consumo di terreno verde, secondo la esecrabile "espansione a macchia d’olio", ormai universalmente censurata, ma nel Documento del nuovo Piano neppure nominata. Ci si aspettava il ribasso degli abnormi indici di volumetria; e la fine della incontrollata proliferazione di grattacieli, destinati - secondo le irresponsabili affermazioni del sindaco Albertini - a crescere in mezzo al verde, ma in realtà sorti a ridosso di costruzioni esistenti, ora soffocate e prive di aria e di luce.
Ci si aspettava la rinuncia alla dissennata moltiplicazione dei parcheggi interrati a rotazione, colpevoli di attirare traffico. Nel Documento del nuovo Piano non si dice che i parcheggi dovrebbero essere trasformati in parcheggi a posti fissi, riservati ai soli residenti in zona; così da togliere le auto in sosta lungo i marciapiedi e migliorare il traffico nelle strade. L’argomento dei parcheggi sotterranei apre un capitolo doloroso. Il Comune non intende sospendere la costruzione del parcheggio in piazza Sant’Ambrogio e non vuole dare ascolto alla petizione firmata da quasi mille cittadini, decisi a impedire lo scempio di quel luogo monumentale.
Altro capitolo doloroso è il destino dell’antica Darsena. Sventato il pericolo del parcheggio sott’acqua, spunta il pericolo del giardino spontaneo, rapidamente cresciuto dentro al bacino rimasto asciutto e destinato a distruggere il delicato sistema idrico dei Navigli e della Darsena. Di fronte al nuovo pericolo, il Documento del nuovo Piano non prende posizione. Ci si aspettava un esplicito ripudio del deleterio ricorso all’"urbanistica contrattata", per effetto della quale i volumi costruibili vengono definiti al di fuori di regole, indici, verifiche certe ed attendibili. Il nuovo Piano non dice nulla. Leggendo l’incoraggiante proposito di avviare «una partecipazione dei cittadini allo sviluppo della città» ci si aspettava che venisse spiegato come organizzare la partecipazione, con quali nuovi strumenti e con quale nuovo personale; ma la spiegazione non viene data. Se alla vittoria di Pisapia avevamo esultato, ora, passati alcuni mesi, ci sentiamo delusi.
Nel nuovo Pgt indici di edificabilità più bassi
Ada Lucia De Cesaris – la Repubblica, ed. Milano, 14 novembre 2011
Caro direttore, ho letto su Repubblica di ieri la lettera di Jacopo Gardella su quello che lui chiama «il nuovo Pgt». Nella consapevolezza che la decisione della nuova amministrazione di tornare alla fase delle osservazioni permetterà di eliminare le maggiori criticità del Piano elaborato dalla precedente giunta, non vi è dubbio che questa operazione non consentirà la totale riscrittura del Piano. Una scelta che questa amministrazione ha fatto dovendo tener conto delle scadenze normative (approvare il Piano entro il 12 dicembre 2012 e non perdere la possibilità di utilizzare il periodo di salvaguardia) e, quindi, della necessità di agire in tempi rapidi senza fermare il processo di sviluppo della città. Nondimeno ho l´impressione che all´autore della lettera sia sfuggito che nel documento di indirizzo è scritto espressamente che nel lavoro di esame delle osservazioni si terrà conto della necessità di introdurre una riduzione degli indici di edificabilità e delle possibilità di densificazione. Obiettivo confermato durante l´incontro con le associazioni ambientaliste e di tutela del territorio. Peraltro il documento si pone altri importanti obiettivi quali il rafforzamento della città pubblica, il rilancio della qualità urbana e la sostenibilità ambientale.
In verità mi pare che si usi strumentalmente la critica al lavoro sul Pgt al solo fine di ribadire che non si condivide la scelta di questa amministrazione di non bloccare la realizzazione del parcheggio in piazza Sant´Ambrogio. Un´opera, come noto, ereditata dalla precedente amministrazione e che la giunta Pisapia non avrebbe mai realizzato. Ciò non ha però nulla a che fare con i nuovi indirizzi di pianificazione territoriale ma semmai con la necessità di non incorrere nel pagamento di penali estremamente onerose, circa 10 milioni di euro, ponendo in essere un comportamento censurabile anche dalla Corte dei Conti. L´amministrazione comunale ha accolto positivamente l´idea, lanciata con un appello ma non ancora effettivamente avviata, di una sottoscrizione per raccogliere i fondi necessari a coprire le spese per le penali da pagare a chi si è aggiudicato l´appalto per l´opera. Altrettanto privo di fondamento è il riferimento all´intervento sulla Darsena. Anche in questo caso si tratta di una questione che nulla ha a che fare con il documento di indirizzo. È noto che della Darsena ci stiamo occupando nell´ambito del progetto Expo sulle vie d´acqua.
Da ultimo, l´obiettivo di uno sviluppo metropolitano richiede necessariamente l´attivazione di azioni cooperative e negoziali, i soli strumenti in grado di mobilitare e rappresentare soggetti diversi. Questo non significa che l´ente pubblico smetterà di svolgere la sua funzione di regia e controllo a garanzia del rispetto delle regole. Ingiusto, infine, il riferimento alla mancata spiegazione della modalità di partecipazione. Non si tiene conto che proprio questa amministrazione ha già dimostrato ampiamente cosa intende per partecipazione, avendo deciso di esaminare le quasi 5mila osservazioni dei cittadini, nonché di confrontarsi sul lavoro che sta svolgendo con tutti i soggetti (pubblici e privati) coinvolti dall´attività di pianificazione.
Tutti riconoscono che la più grande ricchezza del nostro Paese è quella che si sostanzia in oltre 3.500 musei, in quasi 100.000 fra chiese e cappelle, in 40.000 torri e castelli, in 20.000 centri storici di cui almeno mille strepitosi (italici, etruschi, greci, romani), ecc. e in paesaggi tanto belli e diversi, “fatti a mano” (una “seconda natura”, scrisse Goethe) che, malgrado una demenziale cementificazione, affascinano ancora tanti turisti.
Tutti lo riconoscono, però questo Ministero – che una volta saggiamente ricomprendeva anche i beni ambientali –, già cenerentola dei Ministeri, coi tagli feroci del governo Berlusconi-Tremonti vede ridotte al lumicino le risorse finanziarie e quelle umane e tecniche: gli archeologi di ruolo sono 341, al pari degli storici dell’arte e degli architetti. Perché non arrestare questa suicida spoliazione e il dilagare dell’ignoranza nelle scuole di ogni grado ribadita dal ministro Gelmini (“ex” per sempre speriamo), un gruppo di associazioni e di persone che si battono per la salvezza di tanto patrimonio hanno rivolto un appello al presidente Napolitano sempre tanto sensibile ai problemi della cultura. Si tratta, oltre a chi scrive, di Desideria Pasolini dall’Onda (fondatrice di “Italia Nostra”), dell’urbanista Vezio De Lucia, del sociologo Luigi Manconi per il Comitato per la Bellezza, della presidente della storica “Italia Nostra”, Alessandra Mottola Molfino, di Marisa Dalai, importante storica dell’arte, presidente della Bianchi Bandinelli, di Fulco Pratesi fondatore e presidente onorario del Wwf-Italia, dell’urbanista Edoardo Salzano e dell’archeologa Maria Pia Guermandi che animano Eddyburg, sito battagliero. Chiedono che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (ma il discorso vale pure per l’Ambiente) venga affidato “ad una persona di alto profilo culturale e morale, di sicura competenza politico-amministrativa e di provata autonomia rispetto alle due più recenti, negative gestioni del Ministero stesso”. Cioè rispetto alle gestioni Bondi e Galan.
Il MiBAC - affermano - è al disastro: risorse per la mera sopravvivenza, investimenti ormai inesistenti, tecnici ministeriali, in assenza di concorsi, pochi e anziani, promosse ad alti incarichi persone bocciate nei rari concorsi ledendo ogni meritocrazia, decine di Soprintendenze gestite ad interim, commissariamenti diffusi e dannosi, co-pianificazione Ministero-Regioni per il paesaggio bloccata mentre la speculazione imperversa, educazione all’arte sempre più inadeguata, ecc. Da qui l’indispensabilità che, per risalire da tanto disastro e per sanarlo, al Collegio Romano vada una persona di alta competenza e moralità che nulla abbia a che fare col recente devastante passato che ha pure disattivato alcune buone leggi.
Un nome potrebbe senz’altro essere quello di Salvatore Settis, studioso di fama, già al Getty e alla Normale di Pisa, dimessosi dalla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e subito sostituito da Bondi. In questo mondo non mancano personaggi qualificati. Uno di questi è certamente l’archeologo Stefano De Caro appena nominato, primo italiano, direttore generale dell’ICCROM, istituto internazionale per il restauro, malgrado l’opposizione – udite, udite – del delegato italiano inviato a fare quella figura barbina dal Gabinetto dell’ormai perente ministro Giancarlo Galan. Presumibilmente dallo stesso Salvo Nastasi che a Venezia ha spalleggiato l’improvvida scelta di Galan di non confermare alla Biennale Internazionale di Venezia il presidente in scadenza Paolo Baratta (che ha fatto benissimo) per metterci un amico del Cavaliere. Quel Malgara che, davanti a 4.500 firme contrarie da tutto il mondo e ad un parere negativo della Camera, ha almeno avuto la dignità di farsi da parte. Due episodi fra i tanti che confermano l’indispensabilità di imprimere una svolta che salvi insieme il patrimonio di competenze pubbliche, di tecnici tanto bravi quanto sottopagati (1.700-1.800 euro per dirigenti con trenta’anni di carriera) e una fonte di cultura che è anche economica (se la si tutela): il turismo fornisce una quota di PIL vicina a quella della tanto decantata edilizia e una bella fetta di essa viene dal turismo culturale.
Riportiamo il reportage d’apertura dell’ inchiesta di Francesco Erbani
Ecco i soldi europei e tutti corrono al capezzale della città fantasma Il commissario Hahn ha visitato Pompei la scorsa settimana e ha promesso di vigilare su come verranno spesi i fondi Ue. Ma nella partita, complicata dalle polemiche tra soprintendenza e esponenti del ministero, si agitano interessi politici e affaristici. Perché l'area archeologica è una delle "industrie" più appetite dell'intera provincia napoletana.A Pompei attendono i soldi europei: 105 milioni. Sono tanti, ma non bastano a fugare le ansie che gravano sul sito archeologico più bello, più celebre e più complicato che ci sia al mondo. I lavori di messa in sicurezza - ha garantito il commissario di Bruxelles Johannes Hahn - cominceranno nel primo trimestre del 2012. Il che può voler dire anche a marzo, se tutto va bene. E questo è il primo motivo d'ansia. Si guardano in cielo le nuvole. Potrebbero addensarsi e diventare nere. E le piogge a Pompei recano l'incubo dei crolli. L'acqua stagna fra le bàsole della pavimentazione e imbeve pericolosamente i terrapieni che premono dietro i muri delle domus.
E poi i soldi non sono tutto. Chi e come li spenderà? La Soprintendenza, senza rimpolpare i suoi ranghi, difficilmente può farcela. Ma di nuove assunzioni non c'è traccia. Tante promesse a vuoto. Si affollano invece una quantità di soggetti interessati a mettere in qualche modo le mani su Pompei. Fino a creare una specie di ingorgo che, visto da qui, fa molta confusione e quasi più paura della pioggia. Non è la prima volta che accade, anzi è una costante, raccontano a Pompei, una delle industrie più appetite dell'intera provincia napoletana, al centro di un territorio dalle consolidate ramificazioni affaristiche e clientelari. E persino criminali. E poi c'è la crisi di governo, che potrebbe complicare o, al contrario, snellire tutto.
La regola vorrebbe, dicono a Pompei, che i soldi entrassero nelle casse della Soprintendenza, la quale li spenderebbe sulla base di un piano preparato nel frattempo. Troppo semplice. La partita su Pompei, dopo un anno di completa inazione seguito al crollo della Schola Armaturarum, si è improvvisamente agitata nelle ultime settimane. Annunci, promesse. Lotte fratricide dentro il ministero. Fra i più attivi a immaginare scenari complessi c'è il sottosegretario ai Beni culturali Riccardo Villari, napoletano, una carriera politica movimentata (dalla Dc al Ppi, quindi l'Udc, l'Udeur, la Margherita e il Pd, che lo espelle, dopodiché lui fonda un gruppo di "responsabili" al Senato). Diventato sottosegretario nel maggio 2011 e nonostante senta vacillare la propria poltrona, attacca senza mezzi termini l'attuale soprintendente, Teresa Cinquantaquattro, la stessa che dovrebbe gestire i 105 milioni. La accusa di non saper spendere i soldi che ha in cassa (ventidue milioni l'anno, grosso modo, che per metà se ne vanno in spese correnti), di non averlo avvisato del crollo avvenuto due settimane fa e di altro ancora.
Il sottosegretario, quasi ex, ha mobilitato le università napoletane e altri archeologi, e poi si è fatto paladino di un gruppo di imprenditori, sempre napoletani, interessati più che a salvare Pompei, a costruire fuori degli scavi, forti di un articolo del decreto varato dal governo nella scorsa primavera che prevede si possano realizzare interventi anche in deroga al piano regolatore della città. Alberghi, ristoranti, strade, parcheggi: qualcuno sogna una scorpacciata di cemento. Villari poi si è proposto come l'interlocutore dell'Unesco, che nei mesi scorsi ha redatto un rapporto molto critico su come il ministero è intervenuto a Pompei (ha contestato, per esempio, i commissariamenti stile Protezione civile e ha criticato l'eccesso di attenzione per la valorizzazione a scapito della tutela). E non solo dell'Unesco, con il quale a Parigi il ministero dovrebbe firmare un accordo a fine novembre, ma anche di un'altra cordata di imprenditori, stavolta francesi, disposti a spendere fino a 200 milioni a Pompei. A condizione - ha più volte ribadito Villari, non si sa quanto interpretando i desideri d'oltralpe - che ciò avvenga in sintonia con i loro colleghi napoletani.
Che cosa resti di questa complicata architettura, una volta dimesso il governo Berlusconi, non è chiarissimo. Ma molti temono che non svanisca nel nulla. E non è tutto. Nella partita Pompei entra anche Invitalia, società del ministero dell'Economia, esperta nell'attrarre investimenti. Si dice debba occuparsi di gare d'appalto e di bandi. Invitalia a un certo punto ha sostituito un'altra società che avrebbe dovuto lavorare a Pompei, l'Ales, che almeno era di proprietà del ministero dei Beni culturali.
A Pompei si guarda con preoccupazione a questi scenari. Tornano a profilarsi i fantasmi di una gestione commissariale sotto altre vesti, di soprintendenti molto volatili (ce ne sono stati quattro in due anni) e anche per questo molto deboli. Si agitano personaggi di primo e secondo piano della politica che qui, avvicinandosi elezioni, giocano destini personali. La settimana scorsa è venuto il commissario Hahn. Non aveva mai visitato Pompei. L'ha girata incantato per ore, fino al tramonto, sconvolgendo il protocollo. I soldi arriveranno, ha ripetuto, ma la commissione vigilerà che vengano spesi bene. Un po' come il Fmi per i conti pubblici italiani.
Ma, come se non bastasse la vigilanza europea, ecco che si annuncia la costituzione di una "cabina di regia" formata dagli archeologi del Consiglio superiore dei Beni culturali (Andrea Carandini; Giuseppe Sassatelli; Francesca Ghedini, sorella di Niccolò, l'avvocato di Berlusconi; il direttore generale delle Antichità, Luigi Malnati). "Potremo seguire e controllare tutte le attività che si svolgono a Pompei - ha spiegato Carandini, che del Consiglio superiore è presidente - e tutti gli atti verranno messi a conoscenza della cabina di regia". Ma appena poche ore dopo quell'annuncio, il ministero tira il freno: il Consiglio superiore può esprimere pareri e atti di indirizzo, non sovrapporre nuove strutture. La "cabina di regia" pare abortita prima di nascere.
Sugli scavi di Pompei hanno sempre governato o voluto governare in molti. Dai sindaci della città al vescovo. Senza contare il peso di alcune sigle sindacali che sembrano altrettanti clan familiari. E non dimenticando il ruolo dei potenti bancarellari o dei posteggiatori. L'attuale primo cittadino, Claudio D'Alessio (Udc), per non restare fuori dai giochi, ha chiesto di entrare anche lui nella fantomatica "cabina di regia". Il vescovo Carlo Liberati, che regge il Santuario della Madonna e una vasta rete di proprietà immobiliari, guarda con occhio vigile a ciò che accade dentro gli scavi, pronto a proporre uomini graditi alla curia, come accadde nel 2007 quando festeggiò con un calore che non passò inosservato la nomina a direttore amministrativo di Antonio De Simone, professore di archeologia all'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli.
E proprio De Simone è una di quelle figure che, in questa effervescenza, potrebbe riproporsi. Non si capisce in che ruolo, ma la voce di un suo interesse a tornare a Pompei circola con insistenza. Villari, per esempio, lo ha sponsorizzato apertamente. De Simone ha lavorato molto a Pompei negli anni Ottanta e nel 2007 si è dato terribilmente da fare per diventare direttore amministrativo, una carica che non c'entrava granché con la sua qualifica di archeologo. Per ottenere l'incarico si rivolse a un consigliere regionale del Pd, Roberto Conte, considerato molto vicino all'allora ministro Francesco Rutelli. Le loro telefonate furono intercettate, perché Conte poco dopo fu arrestato per associazione camorrista (poi, espulso dal Pd, è transitato nel centrodestra). Venne fuori uno spaccato di smodate ambizioni personali, ma anche quanto contasse in certi ambienti politici avere un proprio uomo in un posto cruciale alla Soprintendenza di Pompei.