La missione impossibile del salvataggio dell'euro, la frana della de-europeizzazione, il cataclisma geopolitico che ne può derivare. Ma con l'austerità non si esce dalla crisi, si produce recessione e depressione. Intervista a Christian Marazzi sulla penitenza dopo l'abbuffata neoliberale e sull'antidoto del comune
Economista, docente alla Scuola universitaria della Svizzera italiana e, in passato, a Padova, New York e Ginevra, militante e intellettuale di riferimento dei movimenti della sinistra radicale, Christian Marazzi è uno degli analisti più lucidi della crisi economico-finanziaria in corso. Fra i primi a diagnosticarne il carattere storico e l'impatto globale, già nel 2009, quando la crisi impazzava negli Usa, aveva previsto l'inevitabile coinvolgimento dell'eurozona. Fine analista della finanziarizzazione come modus operandi del biocapitalismo postfordista, non crede nella possibilità di uscire dalla crisi o di contenerne le contraddizioni attraverso le politiche del rigore. Partiamo dal salvataggio dell'euro per ragionare di quello che ci attende.
L'andamento della crisi ha dato ragione alle tue analisi. Nel giro di due anni l'epicentro si è spostato dagli Stati uniti all'Europa, e nel giro di poche settimane siamo passati dal rischio di default di alcuni paesi, Italia compresa, al rischio del crollo dell'intera eurozona, che equivale al crollo dell'Unione per come è stata fin qui (malamente) realizzata. Secondo te come può evolvere la situazione?
«Gli indizi della cronaca sono eloquenti. In Europa cresce l'astio nei confronti della Germania e della rigidità di Angela Merkel, che non dà segni di cedimento sulle due proposte che ormai tutti considerano indispensabili per evitare il cataclisma di Eurolandia: la monetizzazione dei debiti sovrani da parte della Bce, e l'emissione di eurobond per ridurre il peso dei tassi d'interesse sui buoni del tesoro dei paesi più esposti alla speculazione dei mercati finanziari».
Anche tu le consideri indispensabili?
«Sono due misure condivisibili, ma purtroppo fuori tempo massimo: la crisi ha subito nelle ultime settimane una tale accelerazione da renderle inapplicabili. La trasformazione della Bce in una vera banca centrale sul tipo della Federal Reserve - che possa fungere da prestatore di ultima istanza per acquistare i buoni del tesoro dei paesi-membri indebitati, strappando ai mercati il potere di decidere come e quando intervenire - è un'idea sacrosanta, ma ormai irrealizzabile a fronte della fuga di capitali dall'eurozona che è già in corso, come dimostrano l'andamento dell'ultima asta di bond tedeschi e le 1500 tonnellate di oro che pare siano entrate in Svizzera ultimamente. Arrivati a questo punto, la monetizzazione dei debiti da parte della Bce non farebbe che alimentare questa fuga e accelerare il collasso dell'euro: non a caso, almeno fino a oggi, anche Draghi si oppone a questa soluzione. Lo stesso vale per l'istituzione degli eurobond, obbligazioni emesse e garantite dall'insieme dei paesi-membri per "mutualizzare" o socializzare i vari debiti sovrani: anche questa è una misura sensata, ma non ha alcuna possibilità di essere attuata, perché i paesi forti, come la Francia, l'Olanda, la Finlandia, l'Austria e la Germania si vedrebbero aumentare i tassi d'interesse in un periodo in cui le imprese stanno già subendo aumenti proibitivi del costo del denaro per il rarefarsi della liquidità in circolazione. In ogni caso, anche se al vertice di giovedì a Bruxelles si trovasse un accordo parziale, i vincoli d'austerità imposti ai paesi indebitati sarebbero tali da vanificare qualsiasi salvataggio dell'euro. E' solo questione di tempo».
Dunque in prospettiva tu vedi un tracollo?
«Il fatto è che la crisi della moneta unica costruita secondo i precetti monetaristi e neo-liberali è arrivata alla stretta finale. E a me pare del tutto verosimile che la rigidità di Merkel sia una mossa tattica per rendere inevitabile l'uscita della Germania dall'euro e il ritorno al marco. Circola già la data, fra Natale e l'Epifania, mentre tutti saremo in altre faccende affaccendati; come l'inconvertibilità del dollaro, che fu decisa a Ferragosto. E circolano già, qua in Svizzera, leggende metropolitane su due stamperie che starebbero sfornando marchi».
Se davvero andasse così, che tipo di scenario si aprirebbe?
«Nascerebbe una zona monetaria forte, con dentro la Germania, l'Olanda, la Finlandia, l'Austria, con agganciati il franco svizzero e la corona svedese. L'euro, fortemente svalutato e con l'effetto inflazionistico conseguente, resterebbe la moneta dei paesi deboli, che in compenso avrebbero la possibilità di ridurre il loro debito. L'incognita di questa ipotesi è la Francia. Per i paesi più tartassati dai mercati, sul piano economico non sarebbe un cataclisma. Ma il vero cataclisma sarebbe geopolitico. Di fatto, questa spaccatura monetaria darebbe il via a un processo di de-europeizzazione, con un asse fra la Germania, la Cina, la Russia e il Brasile, e un altro fra la Francia e gli Stati uniti. Non è uno scenario fantascientifico, le grandi agenzie finanziarie internazionali ci stanno già lavorando. Quello che nessuno dice però è che può essere l'inizio di una nuova guerra fredda, con la Cina, la Russia e la Turchia coordinate per schermare l'Iran dalle minacce israeliane. E' inquietante che di questo non si parli: il rischio Iran è esplosivo. Ed è inquietante pure che ormai si parli solo della crisi europea, rimuovendo la situazione degli Stati uniti, dove nel frattempo la crisi dei subprime continua, i poveri sono diventati 46 milioni, la disoccupazione è al 15%, Obama non riesce a battere chiodo e per la sua rielezione può sperare solo nella litigiosità dei Repubblicani.
Ci sono differenze, e quali, fra l'andamento della crisi negli Usa e in Europa?
Sul piano economico nessuna: l'Europa dei debiti sovrani è l'equivalente del mercato statunitense dei subprime, solo che al posto dei singoli individui indebitati ci sono gli stati indebitati. Ma una differenza c'è, a tutto svantaggio dell'Europa, ed è politica, anzi istituzionale e costituzionale: in Europa non c'è Costituzione, e non c'è una banca centrale. C'è la Bce che delega la monetizzazione dei debiti ai mercati, emettendo liquidità su richiesta di quelle stesse banche che hanno contribuito a creare debito pubblico e ora ci speculano sopra».
In questo quadro macroregionale e globale, che ruolo e che senso hanno le politiche nazionali del rigore? In Italia sono state create molte aspettative sul passaggio del governo da Berlusconi a Monti e alla sua squadra di "tecnici", come se ne dipendesse non solo un recupero di credibilità, ma anche un effettivo potere di intervento sulle dinamiche dei mercati. Ma quanta efficacia possono avere i cosiddetti sacrifici sulla crisi del debito sovrano, e relative speculazioni?
«Non è così che si esce dalla crisi, e infatti non ne usciremo: l'orizzonte dei prossimi anni è la recessione. Le politiche di austerità hanno un effetto deflazionistico di compressione della domanda interna, né a questo si può sperare di supplire con le esportazioni. Ma le politiche di austerità sono le uniche contemplate dalla dottrina neo-liberale, che in Europa e in tutto l'Occidente è tutt'ora imperante ed è dura a morire. Dunque restano e resteranno in piedi all'insegna dell'emergenza, o, per usare il termine di Naomi Klein, della shock economy, perché consentono di fare quello che in una situazione normale non si può fare: compressione dei salari, riduzione dell'impiego pubblico, depotenziamento dei sindacati; la famosa macelleria sociale. E' la logica della governance della crisi: una regolazione tecnica e tecnocratica dei rapporti sociali nello stato d'emergenza. Ha detto bene il vicepremier cinese in un'intervista al Financial Times: quello che ci aspetta è un nuovo Medio Evo finanziario e sociale».
Con quali caratteristiche politiche, e antropologico-politiche?Tu non parli mai solo di economia...
«Alcuni processi sono ormai evidenti. Il primo è la precarizzazione della Costituzione. Il secondo - l'hai scritto pure tu a proposito del ''passaggio Monti'' - è l'azzeramento dell'autonomia del politico sotto lo stato d'eccezione. Il terzo è il passaggio dal Welfare State al Debtfare State: uno Stato in cui il sociale si rappresenta, e viene rappresentato, nella forma del debito, e si disciplina, e viene disciplinato, nel segno del debito. Anzi, del debito e della colpa, secondo il doppio significato della parola tedesca schuld: tema nietzschiano, che oggi torna al centro del bel libro di Maurizio Lazzarato, La fabrique de l'homme endetté. Il debito come dispositivo antropologico di autodisciplinamento dell'uomo neo-liberale».
E' chiarissimo da quello che sta accadendo in Italia, dove in un attimo siamo passati dall'etica del godimento del ventennio berlusconiano all'etica penitenziale del governo Monti. Ma quanto pensi che possa reggere, questo dispositivo? Il soggetto neo-liberale descritto da Foucault, l'imprenditore di se stesso che si nutriva di consumo indebitandosi, ora può nutrirsi del senso di colpa per i debiti contratti? Si tratta di uno sviluppo o di una crisi dell'etica neo-liberale?
«Per ora, io ci vedo un inveramento: il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell'uomo indebitato. L'imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c'è anche un inveramento, o uno svelamento, dell'essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».
Però c'è chi si indigna, non ci sta, si ribella. Per fortuna. Che pensi degli Indignados e di OWS?
«Per restare nella scia di Foucault, lui degli Indignados avrebbe detto che si tratta di un movimento parresiastico: un movimento di persone che dicono la verità. Denunciare l'ipocrisia dei mercati, svelare che i debiti sono tutti "odiosi", illegittimi, frutto di rendita e di espropri, e dichiarare che questa crisi l'hanno prodotta le banche e non possiamo pagarla noi, significa affermare la verità del punto di vista del popolo su quella dei mercati. E poi, il movimento di Madrid ha funzionato come uno spazio di democrazia assoluta, come una grande assemblea costituente del comune basata sullo stare insieme nello spazio pubblico: una sorta di ribaltamento dell'etica della paura hobbesiana, in cui mi pare molto visibile l'impronta femminile delle pratica delle relazioni e di un'economia della cura che diventa ecologia politica. La crescita del movimento su scala europea è l'unico antidoto al processo di de-europeizzazione che dicevamo all'inizio. Ma la spinta costituente deve darsi anche delle forme di autodeterminazione locale concreta. Per spezzare il dispositivo cardinale del post-fordismo, lo sfruttamento di saperi, conoscenza e relazioni, non c'è altro modo che ribaltarlo in produzione del comune, tanto più ora che le politiche di austerità comporteranno la privatizzazione ulteriore, la vendita e la svendita dei beni comuni, dall'acqua al patrimonio culturale; ma produrre il comune significa organizzarsi a livello locale, attrezzarsi a gestire nei quartieri l'acqua, l'elettricità, i mezzi di trasporto, le banche stesse».
Loretta Napoleoni, che incontri oggi alla Libreria delle donne di Milano, in un libro di due anni fa sosteneva che la funzione sociale delle banche vive ormai solo nella finanza islamica, e che è da lì che dovremmo riscoprirla: la finanza islamica non specula.
«E' vero, nel senso che dobbiamo reintrodurre la solidarietà al livello giusto, all'altezza delle contraddizioni prodotte dalla crisi. E la ri-socializzazione del debito e della funzione originaria delle banche è una strada per piegare a nostro vantaggio la finanziarizzazione del capitale, lottando sul suo terreno».
Ma la finanziarizzazione si può interrompere, o invertire? Tu ci hai spiegato molto bene che l'economia finanziaria non è più separabile dall'economia reale e si basa sul coinvolgimento attivo di comportamenti e forme di vita della gente comune: il consumatore che usa la carta di credito per fare la spesa, il salariato alle prese con i fondi pensione, i ceti medi strozzati dai mutui per la casa, i poveri che si indebitano fornendo come unica garanzia la loro 'nuda vita'. Se è così, è possibile de-finanziarizzare, almeno in parte, il sistema, o si tratta solo di bonificarlo dai soprusi delle banche? E se produzione e consumo sono così intrecciati al debito, è possibile evitare un esito recessivo e depressivo della crisi?
«La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito di cui abbiamo parlato poco fa, che deprime la domanda e i consumi, e della disciplina della colpa, che deprime le esistenze. Noi dobbiamo lavorare invece per riconvertire la rendita privata in rendita sociale: per la socializzazione del debito, per il rilancio per questa via della domanda e dei consumi di beni socialmente utili, per la riappropriazione dello spazio pubblico, per la ricostruzione di socialità e di felicità collettiva. Il comune è questo e non c'è altro modo per uscire dalla spirale autolesionista della finanziarizzazione. Alcune parole d'ordine delle lotte di questi anni, dal reddito minimo garantito alla Tobin tax, vanno già in questa direzione».
E della parola d'ordine del diritto all'insolvenza che cosa pensi? Nei movimenti viene presentata come un diritto di resistenza alla finanziarizzazione della vita, molti economisti la ritengono una mossa demagogica, altri ci vedono una possibilità di ripristino della sovranità nazionale cancellata dalla tecnocrazia europea.
«Penso che sia giusta se diventa una pratica soggettiva e contestuale, non se viene lasciata in mano agli Stati. Ti faccio un esempio: negli Stati uniti sta maturando da tempo una bolla delle borse di studio, che equivale più o meno alla metà del volume dei mutui subprime: in quel caso il diritto all'insolvenza va senz'altro esercitato dagli studenti e dalle loro famiglie per distinguere il debito illegittimo da quello legittimo. Ma non lo affiderei agli Stati, né alla loro velleità di ritrovare per questa via la sovranità nazionale perduta».
Il rapporto del Censis è attraversato dall’urgenza di invertire la rotta. Di ritrovare quella responsabilità collettiva che è stata decisiva nei momenti più difficili della nostra storia: unico modo per porre fine al "disastro antropologico" degli ultimi anni, a un deterioramento della nostra immagine internazionale che abbiamo vissuto «con dolore e con vergogna». Occorre insomma, ribadisce il Censis, ritornare a "desiderare”, contrastare al tempo stesso il declino e la cultura del declino. Il rapporto evoca anche l’attacco speculativo di questi mesi, che ha visto in noi l’anello debole. E sottolinea la nostra incapacità di governare i processi reali, accresciuta dalla verticalizzazione e dalla personalizzazione del potere ma anche da una più generale povertà della politica. Una politica in crisi radicale di credibilità: solo un italiano su quattro dichiara di aver fiducia nel parlamento o nel governo, ed è fortissima una disattesa richiesta di onestà. Si è aperto in questo modo – prosegue il Censis – un vuoto enorme: quasi che la società possa sopravvivere e crescere "relegando milioni di persone ad essere una moltitudine (egoista) affidata a un mercato turbolento e sregolato", con la supervisione di vertici finanziari ristretti e non trasparenti.
Su diversi terreni occorre dunque agire per contrastare un diffuso sentimento di stanchezza collettiva. Occorre riconquistare il valore della rappresentanza, la capacità di governo e quei caratteri fondativi – quel nostro "scheletro contadino" – che hanno sin qui resistito, anche se appannati dalle "bolle di vacuità" della nostra modernizzazione: flessibilità e capacità dinamica; l’orizzonte come apertura oltre che come realistico limite; il primato dell’economia reale e della lunga durata contro il prevalere dei poteri finanziari e l’illusione che possano disegnare sviluppo. Quegli elementi, cioè, che ci hanno permesso in passato di diventare protagonisti anche sulla scena europea e mondiale.
Nelle scorse settimane, ricorda il rapporto, altri si sono mossi sul piano politico e istituzionale. Ora spetta a noi "guardarci dentro con severità", prendere atto che la nostra società si è rivelata fragile, indifesa, in parte eterodiretta. E analizzare alcune debolezze di fondo: ad es. le contraddizioni di un processo di ampliamento dei ceti medi che è stato elemento importante di crescita ma non ha creato identità collettiva. Di qui, al suo incepparsi, un impaurito ripiegamento individuale che si intreccia al rancore di strati sociali che si riscoprono marginali. Non vanno sottovalutati, sottolinea il Censis, i segnali positivi che pur vengono da alcuni settori dell’economia o da una attitudine internazionale dei nostri Atenei superiore a quel che si pensi, ma vanno guardati con attenzione gli aspetti più inquietanti.
Ad esempio il disincanto di un mondo giovanile duramente colpito dalla disoccupazione, dall’incertezza, dall’esclusione. Un mondo in cui si consolida l’area – segnalata già l’anno scorso, e molto più ampia che in Europa – di coloro che non studiano, non hanno lavoro e non lo cercano, piegati dalla rassegnazione. E in cui si diffonde molto più che fra gli adulti, innaturale e doloroso rovesciamento, la disponibilità anche ai compromessi pur di affermarsi. Senza ripartire da qui, senza innescare qui nuovi meccanismi di speranza e di fiducia, appare davvero difficile invertire la tendenza del Paese.
Roma- Frane e smottamenti possono dipendere anche dall’assenza di agricoltura. E infatti l’abbandono del territorio da parte di chi lo coltiva, accelera e agevola il degradamento dei versanti e delle reti idriche. Il settore primario ricopre sempre di più il ruolo di tutela del territorio, eppure la superficie agricola diminuisce. Negli ultimi dieci anni la superficie agricola si è ridotta dell’11,7 per cento, quella utilizzata (Sau) è diminuita del 2,3 per cento, le aziende agricole hanno registrato un decremento del 32,2 per cento. Andando indietro nel tempo, si rileva che negli ultimi 50 anni le superfici destinate al settore primario si sono ridotte del 30 per cento e le aziende quasi del 63 per cento. “Dinamiche conseguenti lo sviluppo socio-economico che pongono problemi di gestione territoriale da non sottovalutare”, spiega Simone Vieri, professore della facoltà di economia all’università La Sapienza di Roma nel corso del convegno presso la sede della Commissione europea a Roma “L’agricoltura e la difesa del suolo: una funzione strategica di interesse collettivo”.
La proposta Ue per tutelare il territorio gira intorno a due punti chiave: “l’individuazione delle aree a rischio e l’elaborazione e messa in opera di programmi con una scala temporale e erogazione dei fondi da utilizzare”, spiega Luca Marmo, della Dg Agricoltura della Commissione europea. “Ci vuole il tempo di una generazione per poter arrivare a questo censimento”, precisa. Al momento, prosegue Marmo, “la condizionalità riguarda i pagamenti disaccoppiati e le pratiche di buona gestione agricola”. “Il 12 per cento delle somme disponibili per la bonifica dei terreni di tutta Europa è stato utilizzato, ma c’è ancora spazio per migliorare la situazione”. La tabella di marcia stabilita da Bruxelles per un Europa più efficiente per quanto riguarda le risorse, indica il fatto “che si debbano usare le risorse naturali con maggiore efficienza, e non solo quelle minerali, ma anche la terra e il suolo. Ponendosi l’obiettivo di ridurre a zero le superfici atrofizzate entro il 2050”.“Da considerare anche – prosegue ancora Vieri – che il 44,5 per cento degli agricoltori italiani risulta avere un’età superiore ai 65 anni. Elemento che testimonia il difficile ricambio generazionale e che pone le premesse per ancora più significativi abbandoni nel prossimo futuro”. Una situazione che si presenta particolarmente grave in considerazione delle peculiarità del territorio italiano “che è classificato come rurale per il 92 per cento e ha zone svantaggiate per il 39,5 per cento, aree collinari per il 41,6 per cento e montane per il 76,8 per cento” insiste. Oltre alle zone sottoposte a tutela ambientale. Quindi frane e inondazioni testimoniano “la fragilità” del terreno italiano. “Nel periodo 1960-2010 – spiega Vieri snocciolando dati – questi fenomeni hanno provocato 4.122 morti, 84 dispersi e 2.836 feriti. E secondo il Cnr non sono da porre in relazione ai cambiamenti climatici di cui tanto si parla”. Secondo Vieri infatti “è più probabile che la relazione sia tra gli eventi calamitosi e una decrescente capacità di regimazione delle acque da parte del suolo. Che a sua volta si riconduce alla diminuita presenza delle attività agricole sul territorio”.
Motivo per cui la Commissione europea ha evidenziato – nella Roadmap to a resource efficient Europe – come il tema dell’uso sostenibile del suolo dovrà rappresentare uno degli obiettivi prioritari per le politiche agricole e ambientali del prossimo futuro. Appena pochi giorni fa però Massimo Gargano, il presidente dell’Anbi – l’associazione che riunisce l’intero sistema di rete delle bonifiche italiane a tutela del territorio – faceva notare al VELINO che proprio il Greening della Pac, la misura “verde” con cui Bruxelles mira a tutelare il territorio, “mette a rischio di frane e smottamenti” a causa dell’abbandono della terra da parte degli agricoltori. Abbandono che secondo il ministro delle Politiche agricole Mario Catania è inevitabile se la proposta Ue non dovesse essere cambiata: “Questo Greening incita gli agricoltori ad abbandonare la produzione”, aveva dichiarato.
Secondo Alberto Manelli, direttore dell’Inea, l’Istituto nazionale di economia agraria, la politica agricola può evidentemente rivestire un ruolo significativo nella gestione agronomica dei suoli, nella conservazione e manutenzione degli elementi non coltivati del paesaggio – esattamente ciò che il Greening propone con le aree destinate a utilizzazione ecologica (ndr) – e nella corretta gestione agronomica del reticolo idraulico. “La Pac – spiega – ricopre un ruolo che le politiche ambientali lasciano scoperto. L’applicazione di nuove misure nell’ambito della riforma, come le proposte per la diffusione di pratiche agronomiche più rispettose della risorsa del suolo, con ogni probabilità condizionerà in modo ancora più significativo il sostegno pubblico al rispetto delle norme ambientali”. Secondo il presidente di Copagri Franco Verrascina "il Greening proposto da Ciolos è una misura che guarda solo alla politica del Nord Europa e quella anglosassone senza tenere conto - spiega al VELINO - al greening che invece in tutti questi anni è stato svolto in Italia e nei paesi mediterranei. E che ha tutelato il territorio". Per Verrascina un esempio su tuti: "la misura verde di Bruxelles eslude l'olivo che da migliaia di anni è il garante dell'ambiente e del suolo".
Ma se la superficie agricola diminuisce, quella forestale aumenta. “Dall’ultimo dopoguerra la superficie forestale italiana è andata gradualmente estendendosi grazie alla ricolonizzazione naturale di terre marginali abbandonate dall’agricoltura”, spiega Angelo Mariano del Corpo forestale dello Stato. Negli ultimi 30 anni il patrimonio boschivo è aumentato del 30 per cento con un ritmo medio di 80mila ettari l’anno. E coprono circa il 36 per cento del territorio nazionale. “E il vincolo idrogeologico riguarda il 90 per cento del totale”, insiste Mariano. Che spiega che nonostante “la copertura forestale favorisca la stabilità dei versanti contenendo fenomeni di erosione e di dissesto, il ruolo delle risorse forestali in materia di protezione diretta del territorio e della biosfera non è ancora unanimemente riconosciuta dalla comunità scientifica”. Parla di suolo come “corpo vivente” Fiorenzo Fumanti, dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale: “Il suolo è essenziale per l’esistenza delle specie viventi ed esplica una serie di funzioni che lo pongono al centro degli equilibri ambientali”, spiega. La progressiva marginalizzazione di molte aree collinari e montane e l’abbandono delle opere di regimazione “sono tra i principali fattori che hanno accelerato la trasformazione del suolo da ‘risorsa’ a ‘minaccia’”.
Confesso di essere rimasto piuttosto trasecolato, dazed and confused (Led Zeppelin n. 5? O Yardbyrds ?), di fronte al fragoroso silenzio che ha accompagnato e accompagna il Decreto Monti per Roma Capitale. Gli articoli e le prese di posizione critiche si possono contare sulle dita di una mano e, come diceva un mio professore di ginnasio, mi posso pure amputare qualche dito. Silenzio di molti, di quasi tutti. Associazioni incluse.
Vedremo ora che succederà nelle commissioni deputate. Ma - senza pressioni affinché la sostanza del Decreto cambi - temo che rimarrà quello che è: un primo sostanziale gravissimo rattrappimento del ruolo del Ministero e delle sue Soprintendenze, un abbassamento al livello del nuovo ente Roma Capitale che diventa così controllore e controllato insieme, o meglio assai più controllore senza controlli superiori, tecnici, specifici, controllore "concorrente" (con quel che succede nel superstite Agro Romano e in un centro storico vincolato a macchia di leopardo, stiamo freschi!).
Del resto è già successo quando si è delegata alle Regioni la tutela paesaggistica e queste l'hanno sub-delegata ai Comuni i quali, avendo a disposizione il freno della tutela e l'acceleratore dell'edilizia purchessia, hanno premuto quest'ultimo sperando così di incrementare, nell'immediato, la quota di entrate provenienti dagli oneri di urbanizzazione. Operazione resa possibile dopo la cancellazione, operata dal ministro Franco Bassanini nel 2000, dell'articolo 12 della legge n.10/77 che vietava l'uso degli oneri di urbanizzazione come spesa corrente vincolandoli alle sole spese di investimento.
Perché tanto fragoroso silenzio? Risponderò come faceva un giorno con me al telefono il grande disegnatore e incisore satirico Mino Maccari, cioè con versi tratti da libretti d'opera. "Ardon gl'incensi" (Lucia), "Oh, patria oppressa" (Macbeth), "Zitti zitti, piano piano, senza far tanto baccano, presto andiamo via di qua" (Barbiere), "Questa o quella per me pari sono" (Rigoletto). "All'idea di quel metallo" (Barbiere).
Quanto alla tutela, essa è, come Violetta, "sola, perduta, abbandonata in questo rumoroso deserto che chiamano...Roma".(Traviata).
E per parte nostra, che diremo? "La mente mia non osa pensar ch'io vidi il vero" (Otello di Verdi). A meno di non pensare sconsolati che "la fatal pietra sovra noi si chiuse..." (Aida) rinunciando al "Suoni la tromba e intrepido" (Puritani). Giammai. Ma è sempre più dura fra cecchi e cecchini.
Titolo originale: London: an urban neo-Victorian dystopia – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Londra, famosa un tempo per la sua mescolanza sociale, via via divenne sempre più una città economicamente segregata, dopo il varo delle misure di rigore nel 2011, cominciarono sei anni di disordini che cambiarono per sempre il suo volto. Nel 2015, gli studiosi coniarono le definizione di "utopia negativa urbana neo-vittoriana" a descrivere le traumatiche trasformazioni sociali e urbanistiche della città, che avevano iniziato a paragonare alla Londra descritta da Charles Dickens 160 ani prima. La riforma della casa e dei sussidi nel 2012 e 2013 aveva sospinto decine di migliaia di inquilini a basso reddito fuori dalle zone centrali, verso la periferia più estrema della capitale, e anche oltre fino a Margate, Hastings, Milton Keynes e Luton. Innescando così una inesorabile progressiva separazione fra ricchi e poveri, e una serie di gravi problemi sociali.
Un’era di vero e proprio boom per alcune zone privilegiate, come la fascia dei quartieri agiati lungo la sponda settentrionale del Tamigi, da Westminster a Notting Hill a Hammersmith, soprannominata dagli agenti immobiliari “La Via Dorata”. Chelsea, Kensington e Marylebone, un tempo punteggiati di aree a case economiche o sacche di povertà, erano diventati uniformemente ricchi, sempre più richiesti dai ceti medio-alti in cerca di un rifugio lontano dalla difficile realtà della crisi. E questi abitanti ricchi erano sempre più ossessionati dai prezzi crescenti degli immobili, o dalla opportunità o meno di privatizzare la propria via, dal confronto di professionalità delle agenzia di sicurezza private inglesi e polacche, dalla crescente difficoltà di trovare personale di servizio per cucina e pulizie.
Nel 2017 vennero vendute le ultime case di proprietà pubblica nella circoscrizione di Westminster, ai sensi delle norme 2011 sul diritto di acquisizione. L’amministrazione del municipio si liberava anche della metà delle proprie biblioteche e parchi, centri per bambini e edifici scolastici, per cui non esisteva sufficiente domanda, a causa delle trasformazioni demografiche ed economiche dell’area. Molto meno serena, la situazione fuori da questa zona ricca. Sporadici scoppi di rivolte, e siti di opinione orientati a destra che riferivano di una fascia suburbana minacciosa popolata da giovani disoccupati. I responsabili dei servizi sanitari temevano epidemie di tubercolosi da sovraffollamento a Tower Hamlets. A Barking, il British National Party lanciava la sua campagna contro i "Mangiapane a tradimento" decentrati da Londra nell’esodo successivo al taglio dei finanziamenti per la casa 2012-2013.
Un negozio della Tesco a Hackney inventò nel 2013 l’iniziativa “giornate della crisi”, offerta di alimentari a buon mercato il giorno di versamento dei sussidi. L’Esercito della Salvezza nel 2015 toccava la quota di distribuzione del milionesimo pasto, a una famiglia di Walthamstow. Nel 2014, un consorzio di enti per la casa popolare aveva convertito alcuni edifici vuoti del Villaggio Olimpico in “ostello” per giovani senzatetto. I criminologi rilevavano incrementi di furti e scippi. Gli assistenti sociali sottolineavano elenchi infiniti di casi di bambini bisognosi di sostegno, e gli psichiatri notavano una crescita esponenziale delle ricette mediche per antidepressivi. Gli uffici sanitari calcolavano che i tassi di suicidio, di gravidanza di minori, di ricoveri in ospedale, nelle zone povere erano cinque volte tanto la media cittadina.
Gi statistici discutevano sul raggiungimento o meno della quota simbolo di un milione per le persone apparentemente “scomparse” dalle liste elettorali e da altri elenchi ufficiali. Annnciando nel 2017 la fine della crisi, il governo attaccava le cosiddette cassandre disfattiste nei media. La Gran Bretagna era sopravvissuta alla peggiore crisi dopo la seconda guerra mondiale, restando unita, dichiarava il primo ministro da dietro lo scherma antiproiettile sulla soglia del numero 10 di Downing Street: “Come sempre, ce l’abbiamo fatta, tutti insieme”.
Nota: in particolare per quanto riguarda il rapporto fra soluzioni britanniche di centrodestra alla crisi e trasformazioni del territorio, si veda anche questa breve Rassegna su Mall (f.b.)
Il nuovo vice ministro dello Sviluppo Economico con delega per le Infrastrutture, Mario Ciaccia, si potrebbe definire l'uomo giusto al posto giusto. Dalla poltrona di governo sarà chiamato a gestire operazioni da lui progettate e lanciate come numero uno della Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo (Biis), la controllata di Intesa Sanpaolo che ha guidato fino a due giorni fa. La Biis svolge un ruolo delicatissimo di intermediazione tra aziende private e denaro pubblico. Come spiega il sito internet, “Biis è dedicata al servizio di tutti gli attori, pubblici e privati, che collaborano alla realizzazione di grandi infrastrutture e servizi di pubblica utilità”. La banca, inoltre, propone “una gestione integrata di tutta la filiera dell'interazione fra pubblico e privato, attraverso un'offerta completa di servizi finanziari tradizionali e innovativi che spazia dal commercial all'investment banking”. Dietro il gergo una semplice realtà. La Biis ha in portafoglio finanziamenti per 41 miliardi di euro, 33 dei quali sono prestiti fatti alla pubblica amministrazione e alle cosiddette “public utilities”. Solo la Regione Lazio è stata finanziata per oltre 2,5 miliardi. Idem il Ministero della Difesa, che con i soldi di Biis si è comprato i nuovi caccia e le fregate di Fincantieri. In sostanza, ogni 100 euro di debito pubblico, 2 sono prestiti fatti da Ciaccia, che adesso siede nel governo che quei debiti deve pagare.
Inoltre la Biis sta partecipando con 3 miliardi di euro al finanziamento delle grandi infrastrutture, con prestiti che i realizzatori, attraverso il cosiddetto “project financing”, dovrebbero ripagare allo Stato con i profitti realizzati nella gestione delle opere. Ciaccia è il regista di alcune tra le maggiori operazioni. Come vice ministro potrà garantirne la speditezza. In realtà, se le infrastrutture non si rivelassero redditizie, come accade di regola, sarà lo Stato a pagare. Cioè Ciaccia. L’orizzonte del suo lavoro è sempre stato ampio: “Vie di comunicazione via terra e via acqua, servizi alla sanità, riqualificazione urbana, energia”. Una dichiarazione rilasciata quando ancora lavorava per Biis e che oggi farà scendere un brivido lunga la schiena agli ambientalisti.
Un portafoglio da 41 miliardi
L’elenco è interminabile. Il sito dell’ex banca di Ciaccia (www.biis.it) riporta decine di progetti, ma almeno altrettanti non compaiono nella lista. Prendiamo le autostrade. In Lombardia se ne stanno per costruire 400 chilometri, tra le critiche di chi fa notare come l’area metropolitana di Milano abbia più autostrade (576 chilometri) delle grandi città europee, ma meno metropolitane (75 chilometri) e ferrovie (252 chilometri). Una sfilza di progetti che ha attirato interessi legittimi e altri meno limpidi. Basta ricordare che la Cricca aveva puntato gli occhi sulle autostrade lombarde. Biis è impegnata nei maggiori progetti lombardi: Pedemontana Lombarda (4,2 miliardi di finanziamenti), Bre.be.mi tra Brescia, Bergamo e Milano (1,6 miliardi), Tangenziale Est di Milano (1,5 miliardi), autostrada Cremona-Mantova (430 milioni).
È solo la punta dell’iceberg. In ogni regione Biis ha la sua opera, per esempio la Salerno-Reggio Calabria. Ma la banca finanzia anche il general contractor chiamato a realizzare il Quadrilatero stradale tra Marche e Umbria. Progetto (costo iniziale previsto di oltre 2 miliardi) fortemente voluto, tra gli altri, dal senatore Mario Baldassarri. Ma il vero affare non è l’asfalto: grazie al Piano di Valorizzazione le aree a ridosso del tracciato sono diventate edificabili. Di più: gli oneri di urbanizzazione e le imposte sulle nuove costruzioni andrebbero a finanziare l’opera. Insomma, il Quadrilatero ha molti santi in paradiso. Che dire poi del Terzo Valico ferroviario Genova-Milano? Qui Biis è direttamente nella società. Un’opera indispensabile secondo gli industriali. Un progetto inutile assicurano comitati e ambientalisti. L’ex ministro Altero Matteoli ha annunciato la firma del contratto, speriamo che il neo-ministro non dia seguito alla promessa”, ricorda Stefano Lenzi, responsabile relazioni istituzionali del Wwf. Aggiunge: “Il Terzo Valico costa 6,2 miliardi, cioè 115 milioni a chilometro, dieci volte più che in Spagna. Una spesa lievitata dell’800%”.
Poi ecco la voce porti. Restiamo in Liguria per uno dei casi più delicati di potenziale conflitto di interessi: la nuova piattaforma Maersk di Vado fortemente avversata dalla popolazione che già convive con la centrale a carbone Tirreno Power e che si vedrà costruire sul mare un colosso di 210mila metri quadrati (costo 450 milioni, previsti 700mila container l’anno). In questo caso Biis è finanziatrice con 100 milioni dell’Autorità Portuale di Savona (una garanzia sull’extragettito).
La variabile “crisi”
Ed ecco il punto delicato: i governi di centrosinistra avevano pensato di trovare i soldi grazie proprio al meccanismo dell’extragettito. In pratica “ipotecando” l’Iva futura prodotta dai nuovi traffici della piattaforma di Vado. Un’operazione pensata in tempi di vacche grasse (era favorevole il governo Prodi, mentre Tremonti si era detto contrario), ma adesso siamo in crisi e di nuovi traffici di container non se ne prevedono. Risultato: le agevolazioni rischiano di “rubare” traffico ai porti vicini. Leggi Genova e La Spezia. Insomma, una guerra tra scali italiani. Che cosa deciderà l’ex Ad di Biis? Non c’è solo Vado. La banca è anche impegnata nei progetti per il porto di Trieste. E poi interventi urbanistici: come quelli già realizzati per la Fiera di Milano o l’Eur di Roma. O ancora gli aeroporti di mezza Italia. Poi progetti per eolico e solare. Alcuni molto contestati. In Puglia c’è chi protesta contro l’invasione di specchi che strappano terreno all’agricoltura. In Molise e Sardegna le pale eoliche rischiano di cambiare il paesaggio. Infine acquedotti e termovalorizzatori. Di tutto questo, chissà, si occuperà anche il ministro per lo Sviluppo Economico. Corrado Passera, ex Ad di Banca Intesa.
Titolo originale: Are freeways doomed? Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Aiuto: arriva l’Autocalisse. Sono tantissime le città degli Usa che prevedono di chiudere definitivamente le freeway. E se si parla di riprendersi la città sottratta dalle auto, questo è davvero il guanto della sfida. La spinta a demolire le enormi freeway che secondo molti hanno provocato il degrado delle aree centrali fra gli anni ’60 e ’70 è una delle tendenze più vistose dei nuovi orientamenti urbani. Chi propone queste strategie lo fa sulla base di dati che mostrano quanto non sia affatto stravagante eliminare le superstrade urbane, che è possibile tornare a vie a misura d’uomo senza cadere nell’apocalisse dell’ingorgo. Può essere vero. Ma eliminare queste icone automobilistiche sembra proprio la premessa a ridisegnare radicalmente l’idea di città americana del XX secolo: la Vendetta del Pedone. Strettamente personale.
Che siamo preparati o no, la decisione incombe. Molte di queste strade sono state pensate per durare quaranta-cinquanta anni: dovranno rapidamente essere sistemate o totalmente reinventate. “Cosa succederà da qui a dieci anni, se vogliamo investire e evitare disastri come col ponte di Minneapolis?” si chiede John Renne, professore di studi urbani all’Università di New Orleans. Per alcune città, significa l’occasione unica e irripetibile di recuperare ampie superfici a spazio pubblico come si era da sempre sognato. C’è una associazione a St. Louis che si sta muovendo molto per eliminare una striscia di ottocento metri della Interstate 70, riunendo così il centro città al fiume Mississippi e al Gateway Arch di Eero Saarinen.
Si spera che spalancando questa “porta principale” come la chiamano, per la prima volta dal 1964, si inneschi un vero e proprio rinascimento di St. Louis nella sua zona più spopolata. A Trenton, New Jersey, ci sono obiettivi simili, con l’idea di convertire una strada a quattro corsie ungo il fiume Delaware in una sponda a verde e nuovi edifici. A New Orleans si sta attuando il nuovo piano regolatore dopo l’uragano Katrina, e tutto sembra possibile, come demolire la Claiborne Expressway, la superstrada che quando fu realizzata vari decenni or sono tagliò fuori diversi quartieri neri storici. Dovrebbe essere sostituita da un bel viale a riunire quei quartieri, espressione poetica di giustizia infrastrutturale.
Difficile descrivere la radicalità di proposte del genere. Ci sono pochissimi elementi di trasformazione urbana in grado di cambiare in un istante la città, come una freeway (costruita o demolita). Lo si è sperimentato a San Francisco nel 1991, quando ben prima dell’attuale tendenza demolitrice si è eliminata la Embarcadero Freeway a due livelli, danneggiata da un terremoto. Oggi l’area occupata dalla Embarcadero si è evoluta, da pericolosa terra di nessuno a sponda vivacissima e calamita di turisti. Andandoci oggi non si riesce proprio a immaginare quel posto percorso da un traffico di attraversamento su 16 corsie.
Adesso sono tante le città che vogliono fare un loro miracolo Embarcadero. Tony Ortiz abita a Crotona Park East, quartiere del Bronx reso famoso dalla visita del Presidente Carter alle macerie bruciacchiate negli anni ‘70. Ortiz ha 84 anni, capelli bianchi ma ex pugile incredibilmente arzillo, si è trasferito qui da Puerto Rico nel 1946, e ricorda bene com’era la vita prima della Sheridan Expressway. Marciapiedi “pieni di gente” racconta, davanti al suo edificio da sei piani a un isolato dalla superstrada. Insieme agli amici tirava di boxe nelle vie, e una volta ricorda ancora con orgoglio fece perdere del tutto i sensi a un avversario. Dopo la costruzione della Sheridan però, Ortiz rammenta solo degrado e la puzza degli incendi dolosi.
Oggi l’area, certo ancora molto povera, si è notevolmente ripresa. E l’amministrazione di New York sta studiando un progetto di demolizione della Sheridan, che scorre lungo il fiume Bronx davanti alla finestra di Ortiz, per sostituirla con un parco. Dove potrebbero stare piscine, campi da calcio, un centro ricreativo da 3.000 metri quadrati, e case simili a quelle spazzate via dalle ruspe nel 1958 per farci la freeway. Sarebbe uno straordinario ribaltamento della storia, per un’area quasi dimenticata. Ma basterò davvero levare la freeway per ridare vita alla zona? Probabilmente no. Perché anche se Ortiz accosta la costruzione della Sheridan al momento in cui dalla vivacità si è passati al degrado, la verità è che luoghi come Crotona Park East probabilmente sarebbero entrati comunque in crisi. Quartieri che quasi certamente sarebbero crollati sotto il peso dello spopolamento, della criminalità legata allo spaccio, superstrada o no, semplicemente comunità più deboli nei momenti difficili.
Però togliere le freeway, che non erano l’unico catalizzatore di declino, potrebbe comunque stimolare evoluzioni positive. Le città sono molto più reattive oggi di quanto non fossero negli anni ‘60. Nel 2011 ci sono molte più possibilità di rivitalizzazione: basta porre le premesse. Come potrebbe spiegare John Norquist, che da sindaco di Milwaukee ha gestito la demolizione della superstrada Park East nel 2002. Una struttura sopraelevata che rappresentava “la morte di qualunque immobile lì attorno” ricorda Norquist. Oggi gli sforzi concertati di attirare nuove attività sembrano finalmente dare frutti. Dopo una partenza faticosa, nell’area riqualificata ci sono oltre dieci ettari a parco, affaccio sull’acqua e molta attività commerciale. Il Manpower Group, agenzia per l’impiego, si è trasferito qui dalla sua sede centrale suburbana, e un percorso nel verde lungo il fiume collega la zona alla cosiddetta “Beerline” insediamento lineare residenziale per il ceto medio sull’ex tracciato ferroviario merci.
Ma la proposta di demolizione più audace è sicuramente quella di New Orleans, dove i gruppi e le associazioni lavorano al ripristino di un corridoio un tempo orgoglio commerciale della popolazione afroamericana. Claiborne Avenue, elegante viale famoso per le centinaia di alberi di quercia, una volta era l’arteria di negozi del quartiere Treme e di altre zone nere. Ma a fine anni ‘60, come al passaggio di un aratro invece del viale spuntò la Claiborne Expressway (se ne può ascoltare il suono minaccioso delle macchine da costruzione nelle scene dell’acido al cimitero di Easy Rider).
Il progetto per il corridoio Claiborne potrebbe ripristinare il viale più o meno com’era un tempo (salvo le querce), ricucire il tessuto stradale, e far crescere il commercio sulle fasce. Unificherebbe anche il quartiere che la freeway ha diviso, consentendo agli abitanti della zona nord di approfittare della vicinanza di quella sud al French Quarter. Per i timori di gentrification fears, John Renne non prevede arrivi in massa di persone agiate che posano scacciare gli abitanti attuali. “Se il ciclo di questo tipo di sostituzione sociale funziona come un pendolo, noi ci troviamo sicuramente all’altra estremità dell’oscillazione. Stiamo nella fase di degrado. Ce n’è parecchia di strada da fare prima di arrivare alla gentrification”. Dai sondaggi emerge che la città è molto favorevole al progetto, e gli esponenti delle associazioni devono coinvolgere di più il sindaco Mitch Landrieu. Lui sinora ha definito l’idea un potenziale “cambiamento di carte in tavola” ma non la sostiene ancora ufficialmente.
E che fine fanno con tutti questi grandiosi progetti i poveri pendolari costretti a muoversi in auto? Gli va benissimo, a quanto pare. Nel caso non abbiate frequentato una freeway urbana negli ultimi tempi, lasciate che ve lo spieghi io: non funzionano proprio come dovrebbero. Si deteriorano rapidamente, si intasano nei momenti sbagliati, sono pochissimo versatili quando sorgono dei problemi, basta un tamponamento e arrivano in ritardo in ufficio diecimila persone. In realtà, il segreto irriferibile delle superstrade urbane è che non riducono affatto il traffico, ma lo creano. Basta chiedere a un urbanista qualunque: più strade, più automobilisti. Gli studi mostrano che nella maggior parte dei casi eliminando una freeway si aggiungono al massimo pochi minuti al percorso. E quelle che oggi hanno i giorni contati sono comunque sottoutilizzate (quando sono andato in macchina nel Bronx per intervistare Tony Ortiz, la Sheridan era deserta a sufficienza per poterla attraversare a piedi). E poi lo stereotipo dell’automobilista contro l’utente del mezzo pubblico non esiste: una ricerca degli studenti di Renne ha rilevato come a New Orleans la stragrande maggioranza degli abitanti voglia disfarsi della Claiborne Expressway, compreso il 50% degli automobilisti che la usano regolarmente. “Non c’è nessuno che vorrebbe ricostruirla [la freeway]” a Milwaukee dopo che è stata tolta, racconta Norquist. Sbarazzarsene “ha anche fatto sparire per sempre l’idea di fare una circonvallazione a superstrada attorno al centro”.
Flusso di traffico migliorato, meno strade da mantenere, quartieri migliori, cosa si vuole di più? Ma la cosa divertente della freeway è che la gente ci si affeziona, anche quando fanno più male che bene. Gli studenti di Renne hanno rilevato una piccola quota di abitanti attorno alla Claiborne a cui piaceva, anche a gente che non la usa. Qualcuno teme la gentrification se la si togliesse. Altri hanno qualche tipo di legame emotivo con la sopraelevata: un signore era triste all’idea di dover smettere con la sua tradizione di fare le grigliate sotto i piloni.
Ma si tratta di eccezioni, anomalie. La maggior parte degli abitanti dei quartieri è convinta che demolire la freeway che ha sfondato il loro quartiere mezzo secolo fa raddrizzi un antico torto. Eliminare le freeway può spalancare le porte a nuove attività, offrire spazi per il verde là dove è più necessario, terreni su cui costruire case economiche, a volte recuperare aree di sponda di interesse anche turistico. A Seul, in Corea del Sud demolendo una sopraelevata si è anche recuperate il corso di un fiume tombato che attraversa la città. Sepolto sotto la strada da trent’anni, il Cheonggyecheon si è trasformato in uno degli spazi verdi più frequentati, e il sindaco che ha demolito la freeway riportandolo alla luce è diventato poi presidente con una valanga di consensi. Probabilmente perché anche così glie lettori arrivavano ai seggi senza alcun problema.
Il tempo si è stampato meglio delle parole sugli avvisi di carta. Lungo l’interminabile rete di recinzione, raggrinziti come foglie, si legge appena “non sostare nei giardini durante il trattamento, tenere chiuse le finestre” e ancora: “Togliere i panni stesi, cuscini, giocattoli e cibi per animali dalle aree aperte, ecc.”. La ditta disinfestazioni avverte i “condomini limitrofi”. Non si scherza, succede quando manca la manutenzione ordinaria e allora bisogna andar giù pesante. I “limitrofi” attendono da quaranta anni un parco, un’area di pace o più semplicemente, un orizzonte libero per far riposare lo sguardo. Qualcosa oltre il serraglio inestricabile di vegetazione che per pudore o forse per pietà, nasconde gioielli come Il casino nobile: Preziosa testimonianza del primo “stile Liberty” italiano, oggi cade letteralmente a pezzi.
Villa Blanc, quattro ettari di verde privato sulla Nomentana e quattro vincoli di tutela storica, artistica e paesaggistica non sono l’Area 51. Eppure i misteri, anche qui, non mancano. Voluta alla fine dell’Ottocento dal Barone Alberto Blanc, al pubblico non si è aperta mai. Subito il degrado. Dalla Generale immobiliare negli anni 50, finisce alla Sogene di Michele Sindona. Poi, di proprietà in proprietà, perde per strada il diritto di prelazione all’acquisto da parte dello Stato, e cominciano serie interminabili di trattative tra privati e il Comune di Roma, mai concretamente interessato a far valere le prerogative, sacrosante, dell’interesse pubblico. L’ultimo padrone della Villa, dal 1996 è la LUISS, Libera Università della Confindustria che vorrebbe trasformare la Villa in una Business School per Supermanager d’elezione. Di certo, tra due anni, terminerà il vincolo a verde pubblico e il giardino diverrebbe per pochi e paganti.
Tra le moltissime voci contrarie a un accordo di compromesso tutto favorevole alla proprietà, da venerdì scorso c’è anche quella dell’Italia dei Valori (Roberto Soldà, Segretario romano e Giulia Rodano, Responsabile Nazionale della Cultura), che si aggiunge in Piazza Winckelmann allo “storico” Comitato Villa Blanc. I cittadini del quartiere ricordano una manifestazione ad aprile, stesso sole e stessa piazza. Altri politici e altri toni, forse troppo ottimismo; si chiedeva al presidente Marcucci di impegnare il Sindaco Alemanno all’acquisto della Villa. Il Sindaco non rispose... poi il nulla e il rincorrersi di voci, “stanno per vendere di nuovo”, “E’ tornato il progetto del parcheggio”. Solo alcuni dei timori di chi abita qui da una vita.
Se la “Carta di Firenze”, è il testo sacro internazionale della tutela delle ville e i giardini storici, quel “paradiso come immagine idealizzata del mondo” sembra oggi lontano e perduto. Stato e Comune di Roma, a oggi, han ben evitato di ricordare alle proprietà gli articoli del Codice: ovverosia chi rompe paga ma i privati “cocci”, se vincolati, appartengono secondo la legge, allo Stato. Per ora, a due passi dalla Villa del mistero, quel che è sicuro politicamente o letteralmente interpretabile, è scritto sui volantini del sit-in: Villa Blanc... noi non possiamo entrare.
Ornaghi e Cecchi, la strana coppia. Il neoministro dei Beni culturali che non sa nulla di Beni culturali, si è visto imporre un sottosegretario, Roberto Cecchi, che rischia di saperne anche troppo. Fortemente caldeggiata da Montezemolo e da una parte del PD, la sua nomina appare, già in queste ore, la più sbagliata possibile: nonostante gli inviti di Ornaghi, Cecchi ha rifiutato ieri di dimettersi dalla carica di Segretario generale del Ministero.
Il sistema di potere attentamente costruito da Cecchi è perfettamente bipartisan: prima alleato del sottosegretario PDL Francesco Giro, egli è ora intrinseco del presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, l’ex comunista ma oggi molto morbido Andrea Carandini, suo garante presso il PD.
Ora Cecchi è a un bivio fatale: da una parte, la sua conoscenza della macchina ministeriale potrebbe permettergli di fagocitare l’inconsapevole Ornaghi; dall’altra, la sua incipiente carriera politica potrebbe esser stroncata dagli strascichi di qualcuno dei molti incidenti che hanno funestato la sua resistibile ascesa.
Come commissario straordinario dell’area archeologica di Roma, Cecchi è stato accusato da Italia Nostra di «riprovevole carenza di trasparenza amministrativa»: una carenza che ha raggiunto l’apice nella svendita del Colosseo alla Tod’s di Diego Della Valle, caso macroscopico di ‘privatizzazione’ di un monumento simbolo dell’identità nazionale, per giunta con utile pubblico incomparabilmente inferiore al valore di mercato (e non a caso la gratitudine di Montezemolo è arrivata al momento giusto).
Italia Nostra ha anche fatto notare che l’architetto Cecchi ha concentrato ingenti risorse economiche sulla verifica del (lì modestissimo) rischio sismico (il cui studio gestisce direttamente) a scapito dei problemi (questi invece serissimi) di dissesto idrogeologico che mettono a rischio tutta l’area del Palatino, e per i quali il commissario non ha fatto niente.
Come direttore generale, invece, Cecchi è stato protagonista in due vicende imbarazzanti. Nell’autunno del 2009 egli tolse il vincolo ad un preziosissimo mobile settecentesco, contro il parere dell’Ufficio legislativo del MiBAC, e facendo invece leva sull’unica voce stranamente fuori dal coro, quella del Comitato tecnico scientifico. Grazie alle intercettazioni telefoniche e agli interrogatori disposti dalla Procura di Roma si è poi appreso che proprio Roberto Cecchi aveva condotto alle riunioni di quel comitato l’avvocato dei proprietari del mobile: un comportamento senza precedenti, e assai irrituale da parte di chi doveva agire nell’esclusivo interesse dello Stato. Per questa vicenda Cecchi è stato indagato per abuso d’ufficio e non rinviato a giudizio (a differenza dell’avvocato Giovanni Ciarrocca, curiosamente).
Ancora più concreto è il coinvolgimento di Cecchi nel pasticcio del finto crocifisso di Michelangelo acquistato dal Ministero sotto Sandro Bondi. È stato lui a decidere di comprarlo, a fissare il prezzo, ad andare al TG1 con l’opera sottobraccio e quindi a firmare la risposta all’interrogazione parlamentare. Proprio in queste settimane la Corte dei Conti sta passando dalla fase istruttoria a quella dibattimentale, e tra poco Cecchi potrebbe esser chiamato a spiegare perché un’opera anonima che vale circa 50.000 euro sia stata pagata dai contribuenti italiani 3.250.000 euro.
Per tacere, poi, della brutta storia della truffa ai danni del MiBAC per cui è indagato l’amico ed editore di Cecchi Armando Verdiglione.
Chi ha a cuore la tutela del patrimonio storico-artistico ha considerato la nomina di Ornaghi come un’occasione perduta. Con quella di Cecchi c’è invece da temere che l’occasione non venga persa per nulla. Ma in un senso diametralmente opposto.
Ieri è stato presentato a Parigi l'accordo per Pompei fra l'Unesco e il ministero dei Beni culturali. In cosa consiste? L'Unesco, ha spiegato il suo consigliere speciale, l'ambasciatore Francesco Caruso, darà al ministero un'assistenza scientifica per la tutela di Pompei e faciliterà la ricerca di sponsor internazionali per finanziare i lavori. Si formerà una «cordata» francese di sponsor, coordinata dall'Epadesa, il Consorzio delle grandi imprese con sede nel quartiere della Defense di Parigi. Le aziende vogliono approfittare della legge francese, molto generosa quanto a sgravi fiscali per le sponsorizzazioni culturali. Secondo Philippe Chaix, direttore generale di Epadesa, nel 2012 potrebbero arrivare a Pompei dai 5 ai 10 milioni di euro, con la prospettiva di aumentare il contributo per gli anni successivi.
C'è anche una cordata italiana? Ieri a Parigi una numerosa delegazione napoletana con il presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro, ha annunciato un accordo fra l'Unione industriali e l'Associazione dei costruttori di Napoli per un progetto di sistemazione dell'area archeologica «extra moenia» di Pompei, che comprende anche Ercolano, Oplontis, Torre Annunziata a Stabia, 7500 ettari In tutto. L'idea è quella di sistemare infrastrutture e viabilità per rilanciare il turismo (per esempio, le crociere). «La realtà che circonda Pompei - ha detto Caldoro - è unica al mondo in termini negativi». Come mai è intervenuta l'Unesco? E' normale? Pompei è inserita dal 1997 nell'elenco dei siti Unesco considerati «patrimonio dell'umanità».
Un anno fa, dopo il crollo della Scuola dei gladiatori, l'Unesco ha inviato un'ispezione e quindi approvato un dossier molto severo, manifestando «profondo rammarico e preoccupazione» per la gestione del sito e paventando il declassamento di Pompei a «sito a rischio». Come ha reagito l'Italia? L'Italia ha incassato a malincuore il «cartellino giallo» e per evitare che diventi rosso ha accettato il «tutoraggio» dell'Unesco, peraltro richiesto dagli imprenditori francesi come condizione per investire denaro. Nei mesi scorsi è stato negoziato questo accordo che è inedito, poiché mai prima d'ora l'organizzazione internazionale è intervenuta direttamente su un sito. Un anno dopo il crollo della Scuola dei gladiatori, qual è la situazione a Pompei? I crolli, sia pure di minore entità, sono proseguiti. La nuova soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro ha cercato di tamponare le falle più grandi della disastrosa gestione commissariale, ma i problemi sono strutturali: Pompei ha bisogno di manutenzione come una qualsiasi città, con l'aggravante che è molto più fragile.
Qual è stata la reazione istituzionale ai crolli? Un anno fa, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì il cedimento della Scuola dei gladiatori «una vergogna per l'Italia». Il governo annunciò una mobilitazione straordinaria, un piano di tutela con stanziamenti milionari e assunzioni di personale necessario. Ma finora l'esito è stato deludente: nessun piano straordinario di tutela è stato avviato. In attesa dei fondi europei (105 milioni di euro sbloccati e attesi per il prossimo anno) non un solo euro in più è arrivato e in compenso a Pompei ne sono stati sottratti -5 milioni (20% del bilancio) per ripianare i debiti del Museo di Capodimonte di Napoli. Quanto alle assunzioni, promesse e rinviate più volte, finalmente la legge di stabilità le ha sbloccate. Nel 2012 prenderanno servizio 22 tra archeologi, architetti e amministrativi. Basti pensare che attualmente a Pompei lavora un solo archeologo e l'ultimo mosaicista, mai sostituito, è andato in pensione dieci anni fa.
Nonostante i tempi lunghi, pare che qualcosa si muova. Perché qualcuno storce il naso? L'intervento dell'Unesco, «il podestà straniero», è fondamentale per evitare scempi nella tutela o per garantire l'autorevolezza necessaria ad attirare capitali privati, anche dall'estero. Ora il ministero dovrà presentare un concreto piano di tutela, in modo che si sappia che cosa fare, con che soldi e con quali obiettivi. Pompei ha bisogno di una gestione efficiente e di tutela permanente, non di chiacchiere e interventi-spot. Inoltre la pittoresca delegazione campana arrivata ieri a Parigi, a dispetto dell'assenza della soprintendente e di rappresentanti del ministero, pare più interessata ad altro. In particolare al secondo accordo, presentato chissà perché a Parigi ma che con l'Unesco, gli imprenditori francesi e la tutela archeologica di Pompei non c'entra niente, perché riguarda le aree intorno al sito. Italia Nostra ha più volte denunciato il rischio che si tratta di un cavallo di Troia per speculazioni edilizie.
Caro ministro Ornaghi, per il Colosseo fermiamo tutto. E’ questa la richiesta avanzata dall'Ari, l'associazione dei restauratori italiani che sui lavori per rimettere in sesto l'Anfiteatro Flavio ha sempre sollevato critiche. Ma ora che il progetto finanziato con 25 milioni da Diego Della Valle sta per prendere l'avvio, l'organismo che raduna le principali imprese di restauro ritorna alla carica con una lettera aperta al nuovo titolare dei Beni culturali: fermiamo l'appalto, scrive l'Ari, «al fine di evitare danni irreparabili al monumento più celebre d'Italia e conseguentemente all'immagine del nostro paese». Parole dure, che segnalano uno dei punti più critici della tutela in Italia: la progressiva marginalizzazione di una categoria, quella dei restauratori, per la quale in Italia si è spesso menato vanto, ma che versa in uno stato di gravissima sofferenza. Solo ora il prestigioso Istituto superiore per la conservazione e il restauro, fondato da Cesare Brandi nel 1938, ha ripreso i suoi corsi di formazione, rimasti fermi per quattro anni. I fondi a disposizione per restauri sono pochissimi e, denunciano all'Ari, sono spesso distribuiti senza rispettare criteri di qualità.
Il Colosseo, secondo l'associazione dei restauratori, è un caso emblematico. Stando al bando per la gara d'appalto emesso dal Commissario all'area archeologica romana, Roberto Cecchi (da due giorni sottosegretario ai Beni culturali), risulterebbe «che il restauro dei monumenti archeologici non deve essere più di competenza delle imprese di restauro specialistico». Bensì di imprese edili «chiamate a eseguire lavori che per più del 50 per cento sono di pertinenza specialistica». Prevalentemente a loro, secondo l'Ari, sarebbe stato indirizzato il bando. Muratori dunque al posto di restauratori. A meno che le stesse imprese edili non assumano a loro volta restauratori, che però non avrebbero, dicono all'Ari, l'esperienza e le competenze delle aziende che da anni svolgono lavori apprezzati in Italia e nel mondo. Nel febbraio scorso l'Ari denunciò che dei 7 milioni sui 25 totali messi a disposizione da Diego Della Valle, solo un milione avrebbe coperto lavori di restauro delle parti decorate. Dalla successiva documentazione la quota dovrebbe salire a oltre 4 milioni. Ma questa mole di lavori—la pulitura delle incrostazioni con acqua demineralizzata, l'eliminazione della vegetazione, gli impacchi per togliere il calcare dai marmi — verrebbe svolta da imprese edili.
Il restauro del Colosseo «nasce sotto gli auspici peggiori», insiste l'Ari. «Basti pensare che in questi stessi giorni, il Ministero dei Lavori Pubblici ha appaltato il restauro del Palazzo che ospita il Ministero della Giustizia in Via Arenula costruito nel XIX secolo, a imprese di restauro specialistico. Perché mai l'Anfiteatro Flavio costruito nel I secolo dopo Cristo dovrebbe essere restaurato da imprese edili e ricevere quindi cure meno raffinate?»
Un altro aspetto viene sollevato dall'Ari nella lettera a Ornaghi: il restringimento dei tempi per la presentazione dei progetti. Alle imprese che hanno superato una prima fase di selezione il commissario ha chiesto con una lettera inviata il 21 novembre di presentare progetti esecutivi entro 30 giorni invece dei soliti 60. La legge prevede che in casi particolari i tempi possano essere dimezzati. Ma la giustificazione addotta non convince né l'Ari né alcune delle imprese già selezionate: vi sarebbe assoluta urgenza di cominciare i lavori per evitare interferenze, si legge nella lettera inviata dal Commissario, con il cantiere della linea C della metropolitana. «Questa ci appare una forzatura procedurale», scrivono i restauratori dell'Ari. «Gli uffici del commissario non possono impiegare quattro mesi e mezzo a esaminare la documentazione che noi abbiamo inviato per essere ammessi alla gara», dice uno dei restauratori che ha superato la prima selezione, «e poi inviarci un documento di 486 pagine più 80 tavole da studiare ed eventualmente da migliorare e imporci di presentare un progetto esecutivo in 30 giorni. E tutto questo per un lavoro di restauro che è previsto debba durare più di tre anni: 1.155 giorni è scritto con pignoleria nella lettera. Perché tanta fretta che penalizza soprattutto le piccole aziende di restauratori?».
Sta diventando uno dei luoghi comuni dei nostri tempi: l´idea che l´Europa, costretta a difendere con brutali austerità la sua moneta unica, sia incompatibile con la democrazia fin qui conosciuta. Uno dopo l´altro si consumano governi, partiti, e nuovi leader vanno al comando.
Son detti tecnocrati: più semplicemente, sono uomini spinti ad apprendere presto, a caldo, una nuova arte della politica. La vera questione non è l´assenza di democrazia, non è il famoso deficit democratico. Lo slogan è una magica litania, un mantra escogitato per scompigliare gli animi nascondendo loro la realtà: non la democrazia è minacciata, ma la sovranità che le nazioni europee pretendono di possedere. Tutte le nazioni, compresa quella che più di altre sembra padrona di sé e dell´Europa: la nazione tedesca.
L´esempio più lampante di questa confusione fra crisi della democrazia e crisi della sovranità è infatti la Germania di Angela Merkel, che grazie alla sua potenza sta mettendo a rischio con rigido dogmatismo non solo l´Euro, ma la Comunità nata nel dopoguerra. È in nome della democrazia, della supremazia assoluta del popolo sovrano e dei vincoli impliciti in tale supremazia, che il Cancelliere si adopera perché non nasca una solidarietà attiva tra gli Stati della zona euro. Il dilemma, qui come altrove, non è oggi tra democrazia e tecnocrazia ma tra democrazia nazionale e democrazia europea.
Le iniziative tedesche degli ultimi anni (dalla sentenza della Corte costituzionale del 30 giugno 2009, da quella emessa già nel ´93) mirano a questo: dare preminenza alle istituzioni rappresentative nazionali (in primis il Parlamento) e rifiutare un´Unione più solidale in nome del deficit democratico che essa implicherebbe. I populisti sono i primi a profittare di quest´emiplegico rapporto con la realtà, e ben contenti si appropriano del mantra dimenticando che la democrazia va oggi governata con tutto il corpo della politica: nazionale ed europeo. La professione di fede democratica è divenuta per i populismi di destra e sinistra un sotterfugio per svilire l´Unione europea. Per nobilitare passioni non nobili e occultare, appunto, i fatti che ci stanno davanti. Le chiusure tedesche hanno molto in comune con i populismi, che sequestrano la democrazia rattrappendola come una stoffa mal lavata.
La crisi sta mostrando che ben altro è il dilemma: non lo spegnersi democratico, non l´Europa delle élite. Quel che la crisi sta estraendo dall´ombra in cui è relegata, con la violenza di un forcipe, è l´incapacità degli Stati di capire che le sovranità hanno cessato da tempo di essere assolute, che ogni cittadino e ogni Stato è immerso ormai in una scena cosmopolitica cui Habermas dà il nome di «politica interna mondiale». Henrik Enderlein, un economista socialdemocratico che da tempo critica il nazionalismo del proprio governo, parla di inattitudine a riconoscere la «comunità di destino» europea, e a darle sostanza. Confondere la questione della democrazia con quella della sovranità nazionale significa schivare il compito più urgente: reinventare democrazia e politica nelle nazioni e in Europa, contemporaneamente.
Può stupire che proprio la Germania sia all´avanguardia in questo nascondimento del reale: il paese che con più vigore, dal dopoguerra, non solo consentì a drastiche deleghe di sovranità ma le invocò, sperando nell´Europa politica. Quella passione non è seppellita ma è entrata in un letargo intriso di esitazioni, lentezze, tentazioni populiste. Questa è l´emiplegia inasprita dalla Merkel: solo l´occhio nazionale vede, giudica. Solo le rappresentanze nazionali contano –Corte costituzionale, Parlamento federale, Banca centrale tedesca– a scapito di organi sovranazionali nati dal consenso di popoli e Stati come la Commissione, il Parlamento europeo, la Banca centrale di Francoforte.
Se così stanno le cose vuol dire che anche l´immagine della Germania-condottiera europea è affatto inappropriata: Berlino comanda, sì, ma non dirige. Il ministro degli Esteri Sikorski ha parlato chiaro ai tedeschi, lunedì a Berlino: «Sarò probabilmente il primo ministro polacco a dirlo: temo assai meno la potenza della Germania che la sua inattività. Siete divenuti nazione indispensabile in Europa: non potete fallire nella guida». È il peccato di nolitio, non volontà, che Berlino commette. Due forze la dominano, solo in apparenza dissimili: i sondaggi e la Bundesbank, un´istituzione mitizzata perché tutte le paure tedesche trovano in essa conforto, da oltre mezzo secolo. Anche in patria dunque la Merkel non è leader. Niente a vedere con Kohl, che assieme a Mitterrand creò la moneta unica e non esitò a contrastare l´allora governatore della Bundesbank, Tietmeyer. Niente a vedere con l´ex cancelliere Schmidt, che nel ´96 scrisse una durissima lettera aperta a Tietmeyer, e accusò la Bundesbank di essere «uno Stato nello Stato».
Oggi sta accadendo esattamente quel che Schmidt paventava: se l´Europa vede in Berlino un gendarme arrogante, è a causa delle paure che la Bundesbank attizza in patria e fuori. In Germania mi dicono: è come se la politica tedesca avesse perso la battaglia condotta anni fa con i guardiani del Marco, e quegli stessi guardiani (quello Stato nello Stato) pilotassero la barca. Come se prendessero una rivincita, sfruttando la più profonda delle passioni tedesche: la paura.
Se davvero la Merkel ascoltasse la democrazia, oggi dovrebbe tener conto che la paura di un´Unione europea più stretta non è affatto dominante in Germania. Il Cancelliere è confortato da sondaggi, industriali, esperti. Ma altre forze, in casa ed Europa, gli resistono. In casa, è criticato aspramente da socialdemocratici e Verdi. Secondo Sigmar Gabriel, capo della Spd, solo un governo economico europeo e gli eurobond eviteranno la rovina: la Merkel è paragonata a Brüning, il Cancelliere che aprì la via a Hitler con politiche deflazionistiche. Ma obiettano anche molti democristiani. Kohl per primo: il 24 agosto, ha detto che il Paese «ha perso il compasso, dilapidato il capitale di fiducia» in Europa. Werner Langen, presidente del gruppo Cdu/Csu al Parlamento europeo, dichiara che per fronteggiare l´odierna speculazione «la decisione spetta alla Bce (dunque alle istituzioni europee legittimate a farlo, ndr) che deve custodire la stabilità dei prezzi ma anche la messa in sicuro della liquidità sui mercati». Elmar Brok, esperto Cdu di politica europea, dice: «C´è qualcosa nella discussione tedesca sul ruolo della Bce che mi sfugge completamente».
Ancora più forte l´opposizione europea, e non solo di paesi contagiati come Italia o Grecia. Nei giorni scorsi, hanno preso le distanze da Berlino governi sin qui devoti alla Merkel: il ministro delle finanze olandese e finlandese chiedono ora quel che a Berlino è eresia: un «ruolo più attivo» della Bce. In sostanza, chiedono l´abbandono della dottrina tedesca della «casa in ordine», imperante in Germania da quasi un secolo: la dottrina secondo cui prima va ripulita la propria casa, e solo dopo scatta la solidarietà internazionale o sovranazionale.
In nome del popolo e dei sondaggi, dunque di una visione solo nazionale della democrazia, Angela Merkel sta minando l´Europa, la natura sovranazionale del suo ordine democratico. Il 23 novembre ha aggredito Barroso – definendo «inquietanti e sconvenienti» le sue proposte sugli eurobond–violando il diritto di proposta conferito dai Trattati all´esecutivo europeo. Dicono che il Cancelliere preferisce la tecnocrazia alla democrazia. Non è vero: abusando della democrazia, ne fa un´arma della paura. Schmidt denunciò proprio questo, nella lettera del ´96, quando evocò la «monomaniaca ideologia deflazionistica della Banca centrale che negli anni ´30-32 preparò l´avvento di Hitler». E quando denunciò le «ipocondriache paure tedesche di fronte all´innovazione».
(Domani il secondo articolo: la Germania ricostruirà l´Europa?
Pompei parla in francese. A Parigi sono stati annunciati ieri due accordi, uno fra il Ministero per i Beni culturali e l´Unesco per favorire una serie di interventi di restauro all’interno dell’area archeologica finanziati da un gruppo di imprenditori d’oltralpe, l’altro, molto diverso, fra Regione Campania, industriali e soprattutto costruttori per investimenti fuori dal sito.
Dell’intesa fra il ministero e l’agenzia dell´Onu per la cultura e il patrimonio culturale si parla da alcuni mesi. Fra dicembre e gennaio scorsi, poco dopo il crollo della Schola Armaturarum, sono andati a Pompei tre ispettori dell’Unesco che hanno stilato un rapporto molto accurato su come salvaguardare gli scavi (manutenzione ordinaria e straordinaria, programmazione degli interventi, assunzione di personale alla soprintendenza) e critico nei confronti delle scelte fatte dal ministero, in particolare dei commissariamenti. Pompei non veniva inclusa nella lista dei beni in pericolo, ma tutto era rimandato a una successiva verifica.
Ora, in base all´accordo di ieri, l’Unesco metterà a disposizione di soprintendenza e ministero le proprie competenze per gestire lavori necessari a mettere in sicurezza gli scavi. Per finanziare questi interventi si sono fatti avanti alcuni imprenditori francesi riuniti nell’Epad (Établissement public pour l’aménagement de La Défense), l’ente pubblico che amministra il quartiere della Défense, a Parigi. Coordinatrice di questo gruppo è un’italiana, Patrizia Nitti, direttrice del museo Maillol. Dovrebbe anche essere costituita una fondazione, guidata da Unesco e ministero, che sovrintenderà ai lavori. Non è stata definita una cifra. Si parla di un investimento fra i 5 e i 10 milioni annui per dieci anni. Un’entità simile ai 105 milioni di fondi europei sbloccati qualche settimana fa e che si spera di cominciare a spendere entro i primi mesi del 2012. Sembrano sbloccate anche le assunzioni di 22 fra archeologi (9), architetti (12) e amministrativi (1). Ma restano ancora dubbi sul quando effettivamente questi rinforzi prenderanno servizio.
Sul secondo accordo, per il quale molto si era battuto l’allora sottosegretario Riccardo Villari, non si conoscono molti dettagli. Sembra comunque chiaro che si vorrà approfittare della norma inserita nel decreto "salva Pompei", approvato dal governo nella primavera scorsa, che consente di costruire nell’area esterna al sito in deroga alle norme urbanistiche molto severe che tutelano in particolare la visuale del Vesuvio dagli scavi e degli scavi dal Vesuvio (un rilievo paesaggistico la cui tutela il rapporto degli ispettori Unesco sottolinea con vigore). Non ci sono ancora progetti. Si sente parlare di infrastrutture e di alberghi e ristoranti. Su questi aspetti è molto netta Maria Pia Guermandi, consigliere nazionale di Italia Nostra: «I sospetti che abbiamo avanzato fin da quando è stato varato quel decreto diventano più concreti. L’accordo fra ministero e Unesco è una cosa, altra cosa è un’intesa che rischia di trasformarsi nel via libera per una cementificazione dell’area già molto degradata fuori dagli scavi di Pompei».
Stavolta il santo protettore della storia dell’arte ha fatto un piccolo miracolo. Una funzionaria del Ministero per i Beni culturali ha fatto come lo scrivano Bartleby di Melville: ha detto «preferirei di no». Ed ha così inceppato la gioiosa macchina da guerra che si apprestava a cercare la ‘Battaglia di Anghiari’ di Leonardo conficcando alcune sonde in uno degli affreschi di Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio.
I predatori del Leonardo perduto hanno una lunga storia: sono decenni che l’ingegner Maurizio Seracini cerca di convincere qualcuno a investire tempo e denaro in questa specie di corsa al santo graal. E ora che aveva trovato i soldi (del National Geographic, le cui telecamere sono già nel Salone dei Cinquecento), la copertura politica (quella del sindaco Matteo Renzi, andato appositamente negli Stati Uniti per concludere gli accordi), e l’accordo della Soprintendente Cristina Acidini, ecco che la funzionaria Cecilia Frosinini – responsabile delle pitture murali all’Opificio delle Pietre Dure – fa obiezione di coscienza, sollevando quella che chiama una «questione etica»: «la mia missione – dice – è tutelare le opere d’arte, qui si fa un intervento invasivo sulla pittura». È difficile pensare ad una funzionaria di soprintendenza come ad una piccola eroe borghese. Nell’immaginario collettivo – devastato da vent’anni di politica del «padroni in casa propria» – i soprintendenti sono avvertiti come grigi passacarte che ci impediscono di fare quel che ci pare delle nostre città o delle nostre case. In un caso come questo, però, ci accorgiamo che se il nostro patrimonio resiste – malgrado tutto – lo dobbiamo a quella sorta di ‘chiesa bassa’ dei funzionari di soprintendenza che, operando in modo fedele al dettato costituzionale, cerca di tener testa ai poteri locali in nome della conservazione e della dignità culturale delle opere e del territorio che sono loro affidati. Cristina Acidini – che è la diretta superiore della coraggiosa dottoresa Frosinini – si era invece platealmente genuflessa a Matteo Renzi: la ‘chiesa alta’ dei pochi super-soprintendenti è infatti totalmente succube, e in ultima analisi complice, del potere politico e finisce per tradire sistematicamente la propria missione avallando e cavalcando le più inverosimili iniziative di ‘valorizzazione’ delle opere che dovrebbe salvaguardare.
Ma perché è così sbagliato cercare il Leonardo perduto? Essenzialmente per tre motivi: perché quasi certamente non esiste più; perché per cercarlo si deve danneggiare Vasari; perché ben altre sono le priorità, anche restando in Palazzo Vecchio.
Nel 1503 il Gonfaloniere della Repubblica fiorentina chiese a Leonardo di raffigurare la Battaglia di Anghiari nella Sala del Consiglio Grande di Palazzo Vecchio, sulla parete che sovrastava i seggi del governo. Il Vinci volle sperimentare una nuova tecnica di pittura murale, che si rivelò fallimentare: già durante l’esecuzione il dipinto come scrive Vasari, «cominciò a colare, di maniera che in breve tempo [Leonardo l’] abbandonò». Rimase visibile solo un meraviglioso viluppo di cavalieri che lottavano strenuamente per uno stendardo. Mezzo secolo dopo il duca Cosimo de’ Medici incaricò proprio Giorgio Vasari di trasformare quella grande sala: e il risultato fu il Salone dei Cinquecento. L’idea di ritrovare Leonardo può apparire romantica, ma se la si guarda con un po’ di senso critico appare antistorica, velleitaria, pericolosa e demagogica.
È da escludere che Vasari, che venerava Leonardo, abbia nascosto un simile capolavoro. Egli aveva tutti i mezzi tecnici per tagliare il muro e salvare il dipinto: lo fece con maestri quattrocenteschi che amava assai meno del Vinci. Solo una mentalità da Codice da Vinci e la nostra infantile illusione di essere al centro della storia può indurci a credere che Vasari abbia seppellito un tesoro sotto un muro inamovibile: per quale futuro, e a quale scopo? Molto più semplicemente, l’intervento vasariano dimostra che nel 1560 di quello sventurato, grandissimo Leonardo non doveva restare più nulla. E, come se non bastasse, la storiografia più autorevole e credibile indica che la parete su cui aveva dipinto Leonardo era quella occidentale, e non quella orientale che ora si vorrebbe sforacchiare.
Ora, per cercare qualcosa che assai probabilmente non c’è più, e che quasi sicuramente non è mai stato in quel punto della sala, si mette a rischio un capolavoro vero e concreto come il ciclo vasariano. E ancora: se la sonda scoprisse qualcosa di promettente (il muro di un palazzo con quella lunghissima e complicata vicenda edilizia è ovunque pieno di intercapedini e preesistenze), che succederebbe? Si chiederebbe lo strappo dell’affresco del Vasari a furor di popolo?
Infine, c’è da chiedersi: è questa la priorità? Qualche giorno fa ho rivisto le sale di Palazzo Vecchio, e (da fiorentino) mi sono vergognato per lo stato di abbandono in cui versano. Gli affreschi del Quartiere degli Elementi sono in pessime condizioni, le pitture del Terrazzo di Saturno cadono letteralmente a pezzi, dai soffitti affrescati delle scale pendono i fili elettrici e lo stesso Salone dei Cinquecento è arredato e illuminato come una sala parrocchiale di provincia, e quando viene sera le statue (anche quelle di Michelangelo o Giambologna) sembrano ombre cinesi.
Il punto 63 dei cento punti usciti dal Big Bang di Matteo Renzi è (rivoluzionariamente) intitolato alla «funzione civile del bello», e propone di «restituire ai cittadini di oggi l’arte del passato» perché «il patrimonio artistico diffuso nel Paese è un bene comune che ci unisce».
La funzionaria Cecilia Frosinini, opponendosi alla demagogia e al marketing in nome della scienza e della coscienza, sta attuando esattamente quel punto. Chissà se Matteo Renzi se ne renderà conto, e comprenderà che se vuole restituire ai cittadini Palazzo Vecchio c’è bisogno di manutenzione, restauro e divulgazione: non di demagogia, marketing, politica dell’immagine.
Ecco qualcosa di davvero incomprensibile per gli elettori: la maledizione di Montezuma della sinistra, l´eterna sfida di personalità che avvelena i pozzi della politica e porta lo scontro nella stessa metà campo per la gioia scomposta degli avversari, quelli dell´altro schieramento, che ridono sguaiati e fanno sberleffi. Che smacco, che delusione per le decine di migliaia di cittadini milanesi, cittadini che hanno festeggiato appena pochi mesi fa la nuova primavera arancione. Che delusione questo scontro tra Boeri e Pisapia, gemelli diversi, queste "personalità incompatibili" segnate da storie personali e politiche così simili, un grande avvocato e un grande architetto, buone famiglie buona borghesia buoni studi buone frequentazioni buon cursus honorum, buona gavetta in politica fino al successo elettorale clamoroso e insperato, miracolo a Milano. E che bella fu la scelta di Boeri di sostenere Pisapia in campagna elettorale, dopo aver perso le primarie: che lezione di stile, che esempio di buona politica, che lezione per quei dirigenti del Pd che consideravano – con la vittoria di Pisapia – di aver perso le primarie quando, disse Boeri, «le primarie non si perdono mai: si fanno, e ci si stringe a chi le vince». Dunque cosa impedisce a questi due campioni della sinistra milanese di trasformare la città e la politica, di ridare slancio alle speranze e fiato alle passioni – si chiedono sgomenti a migliaia i militanti, catene di appelli sul web, artisti mobilitati, Celentano che interviene a far da paciere, raccolte di firme e tam tam sulla rete?
Due modi diversi di concepire la politica, dicono sottovoce e con qualche malanimo gli uomini e le donne dei rispettivi staff. Rivalità personale, certo, come è ovvio tra due sfidanti che continuano a darsi di fioretto, come se le primarie non fossero mai finite. Ma soprattutto due modi diversi di pensare la sinistra. Dicono gli uomini di Pisapia che Boeri sia un battitore libero, una personalità solitaria incapace di giocare in squadra, un radicale intemperante, un utopista. Dicono gli uomini di Boeri che Pisapia sia l´incarnazione della realpolitik di sinistra, un mediatore che cerca e trova il compromesso, una figura classica della sinistra milanese cresciuta tra eccellenti salotti e centri sociali, un radicale che piace al centro. E dal rapporto con Formigoni, in effetti, nasce la polemica che sottotraccia è venuta crescendo in questi mesi. Avuta la delega all´Expo, Stefano Boeri non ha mai smesso di ripetere che non si doveva e non si poteva sottoscrivere il progetto Moratti: per quanto non ci fosse tempo, per quanto le ragioni della convenienza dicessero contrario, per quanto potesse essere il prezzo da pagare per ottenere la vittoria elettorale e forse proprio per questo. Lo ha ripetuto fino a che in un´intervista a Radio Popolare lo ha detto chiaro: È stata regalata l´Expo a Formigoni. Cementificazione. Le aree verdi saranno un´elemosina.
Pisapia ha dato segni d´insofferenza pubblici ad ogni esternazione di Boeri: troppo twitter, troppo Facebook, troppe decisioni comunicate in solitudine senza discuterle, troppo fastidio per le liturgie della politica. Il caso dell´Ambrogino a Cattelan è stato il più recente diverbio esemplare. Boeri lo ha proposto, Pisapia ha replicato «mi avvalgo delle facoltà di non rispondere», Cattelan non ha avuto il premio.
Alla differenza di stile personale si aggiunga che non tutto il Pd ha appoggiato Boeri, per quanto possa apparire paradossale. L´uomo delle 13.500 preferenze, secondo a Milano solo a Silvio Berlusconi e oggi capodelegazione Pd in Comune, è vissuto dall´apparato storico del partito come un estraneo. Un outsider che ha scombinato piani e gerarchie, che non deve ringraziare nessuno e si comporta di conseguenza: molto polemico col partito stesso, un battitore libero amato più dagli elettori che dai colleghi in consiglio comunale, più dai giovani che dai dirigenti, più stimato all´estero che in patria. Del resto, che Boeri fosse estraneo alla disciplina di partito lo si sapeva dal principio. Che la sua posizione sull´Expo – di cui lui stesso, da architetto, si è occupato – fosse assai poco conciliante pure. Ora che si è dimesso da assessore alla Cultura, ora che i militanti e gli intellettuali milanesi chiedono a Pisapia di respingere quelle dimissioni siamo in mezzo al guado, alla prova del fuoco. Il sindaco, dicono, è tentato di lasciargli la Cultura riprendendosi la delega all´Expo – e Boeri accetterebbe – ma teme di "fare marcia indietro", di perdere la faccia. Dalla base sale la richiesta unanime: sensatezza, coraggio, rinuncia all´orgoglio personale in nome dell´interesse della città e di una certa idea di sinistra che da Milano si vorrebbe contagiasse il Paese. Sarebbe un piccolo passo per l´uomo un grande passo per l´umanità. Pisapia ha una enorme responsabilità, una grande occasione di mostrare cosa può essere la politica. I milanesi, gli italiani lo guardano.
La «rottura insanabile» si è consumata nel giro di settantadue ore, anche se parte da lontano, dai tempi delle primarie di un anno fa. Tra il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, l´artefice della vittoria del centrosinistra nel capoluogo del berlusconismo, e il suo assessore alla Cultura, l´architetto Stefano Boeri, il divorzio potrebbe essere firmato oggi: «Non c´è più il necessario rapporto di fiducia, che si è andato progressivamente dissolvendo, e da parte tua non c´è mai stato gioco di squadra con il resto delle giunta», avrebbe ribadito ieri Pisapia a Boeri, in un incontro nelle stanze di Palazzo Marino. Mettendogli sul piatto una scelta che sembra obbligata: dimissioni entro oggi, presentate o subite.
È stato un fine settimana di tensione crescente, quello vissuto nella giunta arancione, con una mediazione solo tentata - ma sembra non riuscita - da parte del Pd locale, su richiesta diretta del segretario Bersani. Un crescendo partito venerdì, quando il sindaco ha usato parole durissime e irrituali in un comunicato stampa con oggetto, appunto, l´ultima sortita dell´archistar iscritto al Pd. «Le sue dichiarazioni sul futuro Museo di arte contemporanea rappresentano valutazioni personali mai discusse in giunta e non condivisibili nel merito», scriveva il sindaco. Furibondo perché Boeri, poche ore prima, aveva messo in serio forse la realizzazione di un museo che, invece, è espressamente compreso nel programma elettorale con cui Pisapia è stato eletto. Ma non solo: «Quanto al ruolo di Milano nella preparazione di Expo, la giunta non ha mai evidenziato alcun problema, ragion per cui le affermazioni di Boeri sono da considerarsi evidentemente originate da problematiche personali e non politiche». E qui si arriva ad uno dei nodi cruciali del rapporto tra Pisapia e Boeri. O meglio: tra Boeri e la giunta, che più volte ha manifestato insofferenza per le sue prese di posizione in solitaria sui temi più vari. Ancora negli ultimi giorni, da più parti, è arrivata la lapidaria sentenza: «Boeri non ha mai digerito la sconfitta alle primarie».
Su Expo la tensione è stata alta sin da giugno, perché inizialmente Pisapia aveva affidato all´architetto - uno degli autori del masterplan dell´Esposizione del 2015 - solo la cura degli eventi, e non delle questioni sostanziali (terreni, fondi). Delega ottenuta solo dopo alcuni mesi di lotte neanche tanto sotterranee, ma senza che l´attitudine di Boeri alla dichiarazioni non concordata svanisse: soprattutto, i suoi attacchi si sono concentrati sul presunto eccessivo feeling tra il sindaco e il governatore Roberto Formigoni, con accuse non velate di appiattimento delle scelte sugli appetiti edificatori di quest´ultimo. E ieri Boeri avrebbe provato a superare l´impasse proprio restituendo al sindaco quella delega ad Expo tanto agognata: niente da fare, «se manca la fiducia, manca su tutto». Le cronache del rapporto a corrente alternata si alimentano di episodi minori: Boeri che in pieno agosto e senza parlarne prima con il sindaco afferma di voler portare in Comune il "Quarto Stato" di Pellizza da Volpedo perché «non valorizzato» al Museo del ‘900 o, sempre lui, che entra a piedi uniti nelle difficili trattative in consiglio comunale per far approvare la vendita delle quote della Sea, proponendo un´altra strada.
In questi mesi, in realtà, l´architetto ha deciso di seguire stabilmente una sua linea d´azione, generando più di un malumore: decisioni spesso comunicate su Facebook ancor prima dei passaggi formali in Comune, dibattiti sul futuro della città (vedi cosa fare dell´opera di Cattelan, il cosiddetto "dito medio" in piazza Affari) fatti convocando i cittadini attraverso i social network. Ieri Bersani avrebbe chiesto ai suoi uomini in Lombardia di tentare la trattativa, rimandando qualsiasi decisione per una settimana, in attesa - forse - di una diversa collocazione per Boeri a Roma. Difficile che lo stallo duri tanto: l´assessore avrebbe chiesto tempo fino a stamani solo per comunicare la sua decisione. Su Facebook sono comparsi appelli all´unità, come quello dei consiglieri Pd Civati e Monguzzi: «Pisapia e Boeri difendano il sogno di centinaia di migliaia di elettori milanesi che ci hanno chiesto di cambiare, c´è bisogno di tutti e due». Attacca il leghista Salvini: «Boeri licenziato perché scomodo? Pisapia allora ha fallito, si dimetta anche lui».
La rete Rigas presenta le proposte dei movimenti per il summit. Zanotelli: «Monti ha pronunciato 30 volte la parola crescita e mai ambiente. O si cambia o si muore»
Si è aperta ieri a Durban, in Sudafrica, nel silenzio dei media e nel sostanziale disinteresse della comunità internazionale, la 17° Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Conferenza incaricata di trovare in extremis un accordo sulla prosecuzione del protocollo di Kyoto, in scadenza alla fine del 2012, compito reso arduo dalla contrarietà di Usa e Cina e dall'indisponibilità di diversi paesi tra cui Russia, Canada e Giappone. L'appuntamento di Durban è destinato a concludersi con un nulla di fatto, come già è stato per gli ultimi vertici, in particolare quelli di Cancun 2010 e di Copenaghen 2009 dove pure l'attenzione era maggiore e le aspettative più rosee. Saranno circa 190 le delegazioni di negoziatori in rappresentanza di altrettanti paesi.
Per l'Italia sarà presente il neoministro dell'ambiente Clini, scettico da lungo tempo nei confronti del protocollo di Kyoto, che arriverà in Sudafrica senza una posizione chiara né impegni concreti. Dall'Italia sarà a Durban anche una delegazione di Rigas, la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, che raccoglie oltre 70 organizzazioni tra comitati, associazioni e sindacati, e che ha convocato ieri mattina a Roma una conferenza stampa per lanciare la partecipazione della rete alle giornate sudafricane e presentare le proposte della società civile sul clima. Al tavolo, a dimostrare la necessaria convergenza tra società civile e mondo scientifico, padre Alex Zanotelli, Giuseppe De Marzo dell'associazione A Sud, Valerio Rossi Albertini del Cnr e Livio De Santoli, responsabile energia dell'ateneo La Sapienza.
L'appuntamento sudafricano arriva in un autunno di eventi climatici drammatici anche qui da noi. Le immagini delle ultime settimane con diverse zone d'Italia ricoperte dal fango e il tragico bilancio in termini di vittime ci riportano alle gravi implicazioni locali di una emergenza di dimensioni globali. Secondo Giuseppe De Marzo «quello che stiamo vivendo è prima di tutto un geocidio, un attentato al pianeta». Basta a confermarlo un unico dato: Kyoto indicava come obiettivo la riduzione delle emissioni del 5,2% sui livelli del 1990. I dati odierni parlano invece di un aumento del 30% negli ultimi due decenni, che significherebbe vedere aumentare la temperatura globale di circa 4°. «Di fronte a questa prospettiva ci chiediamo e chiediamo alla politica: come si crea occupazione e benessere? Con produzioni distruttive dal punto di vista sociale e ambientale o attraverso la riconversione del tessuto produttivo in chiave ecosostenibile? Su che infrastrutture è meglio investire? Su quelle che creano dissesto idrogeologico o su quelle che proteggono i territori? Quali notizie è giusto mettere in prima pagina? Le cronache stanche della politica o le reali emergenze cui siamo chiamati a far fronte?».
Il Cnr, per voce di Rossi Albertini, Responsabile Energia e nuove Tecnologie, sottolinea il ruolo della scienza nella sfida climatica. «Oggi più che mai occorre investire nelle nuove tecnologie invece di lasciare che se ne occupi la Cina. Ciò può avvenire creando al contempo occupazione specializzata, prodotti di eccellenza tecnologica e contribuendo a combattere gli stravolgimenti climatici». Per Livio De Santoli, de La Sapienza, «l'impegno delle università deve essere quello di occuparsi di questi temi in maniera proritaria, lavorando assieme alla società civile e elaborando proposte concrete. Una di esse riguarda la creazione di comunità dell'energia che vadano nel senso di un modello energetico distribuito, fondato sull'efficienza, sulle fonti rinnovabili e soprattutto, sulla partecipazione». Il Citera, centro studi de La Sapienza di cui De Santoli è direttore, ha aderito da alcuni mesi a Rigas, assieme alla quale porta avanti un lavoro di formazione e di articolazione sociale sul tema dell'energia. Padre Zanotelli, tra i fondatori di Rigas e promotore dell'appello Salviamoci con la Pachamama, ha richiamato infine l'attenzione sulla necessità di attivarsi su più livelli: «È chiaro a tutti oggi che o si cambia o si muore. Monti ha pronunciato oltre 30 volte nel suo discorso al Senato la parola crescita. Noi rispondiamo che vogliamo che siano invece messe al centro dell'impegno politico la nostra salvezza e quella della Madre Terra». Una impostazione che mira a mettere assieme democrazia, sviluppo, tutela dei beni comuni, occupazione, sostenibilità.
La delegazione sarà a Durban a partire dal primo dicembre per seguire i lavori del vertice e le discussioni e mobilitazioni della società civile, riunita nel People Space montato nel polo universitario della città sudafricana. Cittadina che rappresenta, tragica ironia della sorte, uno dei più grandi poli petrolchimici del continente africano e che proprio in questi giorni sta affrontando i devastanti effetti di una terribile tempesta tropicale destinata a rimanere negli annali per la devastazione e le morti causate.
Non è facile recensire Il libro nero dell’Alta velocità di Ivan Cicconi, pubblicato prima on line dal fattoquotidiano.it e poi in libreria da Koiné. Una critica possibile riguarda il ruolo degli ambientalisti nel progetto, nel complesso micidiale, e che Cicconi sfiora soltanto: sono gli ambientalisti che hanno contribuito, con grande giubilo dei costruttori, a passare da un modello “francese”, cioè di linee per soli passeggeri, a un molto più costoso modello di “alta capacità”, cioè che consentisse anche il passaggio di treni merci, molto più pesanti. In realtà, non solo i treni merci non hanno fretta, ma il fatto che i treni passeggeri di lunga distanza avrebbero viaggiato sulle nuove linee dell’Alta velocità avrebbe liberato le vecchie linee, lasciandovi una capacità che sarebbe bastata per le merci nei secoli futuri.
Cicconi non sembra neppure dar peso al ruolo che gli ambientalisti hanno avuto anche nella costosissima richiesta di stazioni in galleria per l’Av a Bologna prima, e a Firenze poi (“per motivi acustici...”), con quadruplicamento dei costi. Anche qui, certo i costruttori non hanno pianto. Ciò detto come critica, si possono solo aggiungere dei “cammei” che rafforzano ulteriormente la straordinaria analisi di Cicconi.
Per esempio, nel libro, l’autore ricorda il ruolo quasi eroico di oppositore del progetto avuto dall’allora ministro Andreatta: bene, posso aggiungere che Andreatta fu talmente orripilato dalla vicenda Av (e dalle sue connotazioni economiche) da dichiarare in una celebre intervista a Repubblica che “i politici che promuovono questi grandi investimenti sono interessati solo alle loro tangenti”. Chi scrive poi è stato coinvolto come tecnico in molte vicende dell’Av ricordate da Cicconi, e può solo confermarle o rafforzarle. Il primo Piano Generale dei Trasporti, nel quale assieme all’Ing. Beltrami fui responsabile della parte ferroviaria, promuoveva poche linee nuove da 250 km/h e il mantenimento sulla rete della tensione a 3000 volt (quella esistente, sufficiente per quella velocità ma non per i 300 km/h). Se quel piano non fosse finito in un cassetto, avremmo già da 10 anni una rete ferroviaria principale moderna e veloce, con un decimo dei costi dell’Av. L’avvocato Lorenzo Necci, amministratore delegato delle Ferrovie, mi chiese di valutare il complicato sistema di finanziamento. Io riferii che era tutto a carico del pubblico, anche se così non appariva. Necci mi disse che la cosa era nota a tutti i “giocatori”, ma dire che i privati pagavano il 60 per cento dell’opera era l’unico modo per ottenere i soldi pubblici necessari. Io diffusi poi questo risultato, ma senza alcuna conseguenza pratica, come ovvio, se non forse nella prima “esternazione” del ministro Burlando, che dichiarò appunto che in realtà non vi era alcun finanziamento privato.
Un’altra “valutazione”, che lo scrivente richiese a gran voce a Fs, riguardava l’analisi costi-benefici della linea Torino-Venezia: le distanze medie di percorrenza erano molto basse e per il traffico merci esisteva una linea un po’ tortuosa ma deserta, nota come “mediopadana”. Chiesi di confrontare i risultati di una linea nuova Av tra Torino e Venezia con la riqualificazione della mediopadana per le merci. Miracolo! Contro ogni ragionevole aspettativa l’analisi dava vincente la linea nuova Av. La ragione era semplice: non fu confrontata la riqualificazione della linea mediopadana, ma il suo totale rifacimento con standard di Alta velocità, assurdi per le merci. Più recentemente, quella linea ha avuto un’altra vicenda di valutazioni “imbarazzanti”: due anni fa fu presentato a Milano uno studio che dimostrava che la linea avrebbe generato enormi benefici alla collettività. Applausi da politici “bipartisan”, Confindustria e ferrovie. Peccato che lo studio conteneva una moltiplicazione errata, che sovrastimava di 10 volte certi benefici. Correggendo quel banale (ingenuo?) errore, i benefici sociali dell’opera diventavano clamorosamente negativi. La volontà politica di promuovere quell’investimento è passata, e passa, al di là di ogni verifica tecnica non “truccata” da interessi di parte, come documenta Cicconi. I fautori della “finanza creativa” non dormono: falliti i tentativi precedenti, ci provano adesso con una nuova formula, il “canone di disponibilità”. Fs è una Spa, quindi formalmente privata, anche se in realtà al 100 per cento pubblica (e già questa è una pericolosa anomalia).
Si finge che sia disposta a pagare come privato un onerosissimo “canone di disponibilità” annuo per una nuova linea con poco traffico (es. Torino-Lione, Napoli-Bari). Quel canone finanzia l’opera in modo sostanziale, e proviene formalmente da un soggetto privato, anzi, da un “utente”. Fs ci perde un sacco di soldi, che verranno poi ripianati dai contribuenti. Due note ottimistiche finali: non ci sono più soldi per costruire a costi folli opere di dubbia utilità e, sotto la minaccia di non costruire nulla, sembra che anche gli interessi costituiti si siano “rassegnati” a ridimensionare le spese, costruendo le opere per fasi, si spera in funzione della crescita del traffico. Per molte di queste opere verosimilmente ciò significa che sarà realizzata solo la prima fase, visto che le stime ufficiali di crescita del traffico sono assurdamente ottimistiche. Ma farsi illusioni in questo settore rimane pericoloso.
Il Puc presentato dalla Amministrazione Genovese al voto in consiglio è un documento estremamente contraddittorio. A fronte di enunciazioni , premesse, idee di principio ampiamente condivisibili presenta enormi contraddizioni che le negano in gran parte.
La Città che è il bene comune più importante che l'Amministrazione gestisce, viene consegnata nelle mani degli interessi di pochi che vengono tutelati a dispetto dei molti.Il diritto alla città per tutti gli abitanti è sistematicamente negato per i non portatori di interessi economici, politici, finanziari forti.
La teoria della flessibilità propagandata come una modalità al passo coi tempi relega tutte le aree di un qualche interesse economico, culturale, ambientale ai privati assegnando agli uffici la contrattazione sulla base delle proposte dei privati senza alcuna garanzia di limiti, cubature, altezze, oneri urbanistici che, se il Puc sarà approvato con questo impianto, potranno essere contrattati volta per volta dagli interessati senza alcun passaggio in consiglio comunale , regalando agli uffici comunali e ai suoi tecnici un ruolo di tutela che le vicende politiche tecniche e urbanistiche degli ultimi lustri ha mostrato come totalmente fedeli al dio cemento e a quel mix di box-residenze-centri commerciali che hanno impestato la città - e la regione - asservendo il territorio a quella categoria ben rappresentata in un libro di successo di recente pubblicazione e chiamata "il partito del cemento ". Questo Puc in definitiva consegna le chiavi della città a questo partito trasversale di cui gli uffici comunali sono da sempre per cultura e indole un granitico referente.
In questo Puc non ci sono piazze, parchi, aree agricole tutelate , centri storici ( Genova è una città multicentrica) e per converso non ci sono i percorsi della gronda, quelli dell'alta velocità, quegli degli spazi per il ciclo dei rifiuti, non cè alcun interesse vero per il rapporto col porto e i suoi vitali centri logistici, si continuano a programmare interventi collinari anche ad alto impatto come Erzelli senza alcuna previsione di servizi, di accessibilità, di tutela ambientale, si continua a garantire ai grandi imprenditori e alle banche grandi profitti permettendo la trasformazione di aree industriali in residenze. E’ il caso della Verrina a Voltri, delle aree Fincantieri a Sestri, delle aree Esaote ad Erzelli, e cosi' nel levante l'area Aura a Nervi , la Fiscer a Quarto, l'Ospedale Psichiatrico a Quarto, Il San Giorgio ad Albaro.Si vuole facilitare le cose al trio finanza logistica mattone e non si intendono utilizzare le ricchezze della città per far star meglio la gente. La città compatta tra la linea blu e la linea verde è concepita come uno spazio da riempire di cemento dalle nuove torri davanti a Fiumara all'ex Mercato di corso Sardegna e via cementando.
L'idea che l'amministrazione ha dell'urbanistica non è quello della tutela dell'interesse collettivo, ma di facilitatrice della rendita.
Emblematico è la scomparsa progressiva di tutti gli spazi pubblici - non solo i parchi mangiati dalla speculazione in pochi anni per circa il 25% , ma le piazze i luoghi dove incontrarsi, camminare , parlare in favore dei non luoghi, di centri a pagamento in cui non vi è alcuna tutela per i diritti dei cittadini.
Non vi è alcuna presenza significativa di progettazione del territorio, di definizione di destinazione delle aree, di certezze per tutti i cittadini che potranno vedersi da un giorno all'altro costruire davanti a casa un muro, una strada, una linea ferroviaria senza alcuna informazione preventiva, ma con approvazioni singole, puntuali, prive di disegno complessivo e di tutela collettiva.
Anche sulla gravissima situazione idrogeologica genovese le mosse di questo piano sono in senso contrario, non solo non si prevedono demolizioni in aree a rischio, ma al contrario si prevedono nuove tombinature, e strade al servizio della rendita fondiaria. Questo Puc porterà alla affermazione di un habitat precario, costoso per i cittadini, sicuritario.
Claudio Napoleoni affermò che l'utopia porta a un livello superiore il problema e permette di trovare soluzioni, senza quel livello le soluzioni non ci sono e continueremo a nuotare sulla retorica dei soldi che non ci sono, del meno peggio, delle eterne deroghe alla legge e ai diritti di tutti per premiare l'avidità di pochi.
Noi in una soluzione diversa ci crediamo, l'abbiamo detto, l'abbiamo scritto, non ci rassegneremo mai alla sistematica svendita del patrimonio pubblico, alla rinuncia alla bellezza della nostra terra, alla ignavia degli amministratori e alla incompetenza dei tecnici che dovrebbero garantirci e che pagati coi nostri soldi portano avanti con convinzione che sfiora l'impudenza una cultura cementizia ottusa e distruttiva .
Andrea Agostini, che ci ha cortesemnete inviato questo scritto, è Presidente Circolo Nuova Ecologia Legambiente Genova
Un´imposta con un´aliquota dello 0,5% peserebbe su ogni super-contribuente per 22.550 euro - Oltre 1000 miliardi di euro in mano a 240 mila famiglie, con un patrimonio medio di quasi 4,5 milioni di euro – Il 5,7% delle sostanze posseduta nel mondo è in Italia. Nei portafogli ci sono titoli, azioni e depositi, ma la proprietà immobiliare rappresenta ancora più della metà di tutte le disponibilità
Delle possibili riforme nel cantiere del governo Monti è la più elusiva. Anche se richiesta a gran voce dalle forze sociali, Confindustria compresa, l´ipotesi di un imposta patrimoniale è al centro di un durissimo scontro fra i partiti della maggioranza, dove il Pdl ha più volte annunciato il proprio veto ad un intervento diretto sulla ricchezza degli italiani. In Parlamento, il presidente del Consiglio è stato attento ad indicare solo l´opportunità di un monitoraggio della ricchezza (e ha voluto ribadire la parola "monitoraggio"), che potrebbe anche voler dire soltanto l´utilizzo di parametri di ricchezza nello stabilire la congruità dei redditi dichiarati. Il terreno, in altre parole, va ancora esplorato.
Sul terreno della patrimoniale ci sono degli ostacoli tecnici. Al di là delle difficoltà di accertamento, sui patrimoni si è già intervenuti o si sta per intervenire. Per gli immobili, tornerà certamente in vigore l´Ici sulla prima casa. Per quanto riguarda i patrimoni finanziari, negli ultimi mesi è stata pesantemente rincarata l´imposta di bollo. L´ottica in cui si discute della patrimoniale, tuttavia, non è quella di colpire, in generale, la ricchezza, ma i ricchi e, in particolare, gli straricchi. Da questo punto di vista, una patrimoniale non universale, ma limitata a "chi ha di più" (un termine usato dallo stesso Monti) consentirebbe di sciogliere una vistosa contraddizione italiana. L´Italia è, infatti, un paese con redditi stagnanti, ma doviziosamente ricco: il 5,7 per cento della ricchezza netta posseduta nel mondo è in Italia, nonostante che gli italiani non siano più dell´un per cento della popolazione globale e il Prodotto interno lordo della penisola sia pari al 3 per cento del Pil mondiale. Una spiegazione corrente è la diffusione della proprietà immobiliare: l´80 per cento degli italiani vive in una casa di cui è proprietario. Ma è solo in parte vero. Secondo le stime della Banca d´Italia, la ricchezza netta degli italiani è pari a 8.283 miliardi di euro, di cui poco più della metà - 4.667 miliardi - è costituita da abitazioni, mentre le attività finanziarie (titoli, azioni, depositi) erano pari, nel 2008, a 3.374 miliardi di euro.
A spiegare la differenza fra reddito e ricchezza è, piuttosto, l´evasione fiscale, che esaspera l´ineguaglianza crescente della società italiana. Nelle due figure in pagina, si vede come la piramide dei redditi (dichiarati) sia svelta, sottile, quasi egualitaria. Mentre il grafico della ricchezza (stimata dalla Banca d´Italia) appare pesantemente squilibrato, più un paralume che una piramide: quasi il 45 per cento della ricchezza nazionale, equivalente a 3.700 miliardi è nelle mani di 2,4 milioni di famiglie, il 10 per cento più ricco. Se, come è stato ipotizzato, la patrimoniale si dovesse, tuttavia, applicare solo ai patrimoni superiori a 1,5 milioni di euro, il grosso dei ricchi italiani ne sarebbe fuori.
Ma anche una patrimoniale per i soli straricchi darebbe un gettito cospicuo. Il 13 per cento della ricchezza italiana (sempre secondo Via Nazionale) è nelle mani di 240 mila famiglie italiane, l´1 per cento del totale. Si tratta di 1.076 miliardi di euro. Una patrimoniale alla francese, con un´aliquota allo 0,5 per cento della ricchezza, darebbe un gettito di oltre 5 miliardi di euro l´anno. Per ognuna delle 240 mila famiglie significherebbe pagare, su un patrimonio che è in media di quasi 4,5 milioni di euro a famiglia, 22.500 euro l´anno.
Oggi si aprono a Durban, in Sud Africa, i lavori della 17a Conferenza delle parti che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti del clima (Cop 17), che nel 2012 compirà vent’anni, e la 7a Sessione delle parti che hanno sottoscritto il Protocollo di Kyoto. Il clima fisico tenterà così di strappare ai venti della crisi economica che soffiano sull’Occidente e alla tempesta finanziaria che squassa il Nord l’Europa e, in parte, il Nord America, l’attenzione dei media e, soprattutto, dei governi. Non sarà facile.
Così come sarà molto difficile che, alla chiusura dei lavori, prevista con la cosiddetta “sessione ministeriale” venerdì 9 dicembre, i rappresentanti di 190 e passa Paesi troveranno un qualche accordo significativo per contrastare, con politiche comuni di prevenzione (taglio delle emissioni di gas serra) e di adattamento, i cambiamenti del clima del pianeta.
Due i grandi temi sul tappeto, tra loro peraltro interconnessi. Il primo riguarda la definizione di un reale impegno di contrasto dei cambiamenti climatici giuridicamente vincolante per tutti i Paesi – ricchi, emergenti e poveri – che hanno sottoscritto la Convenzione delle Nazioni Unite. Il secondo riguarda il Protocollo di Kyoto, che impegna i soli paesi di antica industrializzazione, ed è in scadenza nel 2012. Adattarsi ai cambiamenti climatici significa mettere ciascun paese nelle condizioni di rispondere al meglio all’aumento, in atto, della temperatura media del pianeta. Il guaio è che la temperatura non aumenterà in maniera omogenea nelle varie regioni del pianeta e, soprattutto, che il cambiamento ha effetti diversificati. L’adattamento impone una doppia sfida: una tecnica - allestire una costellazione efficace di interventi puntuali - l’altra economica: chi paga il conto (che si aggira intorno ad alcune centinaia di miliardi l’anno)? Mitigare i cambiamenti climatici significa prevenire, per quanto possibile ormai, gli aumenti della temperatura media: ovvero tagliare le emissioni antropiche di gas serra. La Convenzione sui cambiamenti climatici a tutt’oggi non prevede impegni vincolanti. Ma ora che tutti riconoscono la realtà e la gravità del fenomeno, occorre rispondere con urgenza a due domande: chi lo dovrà fare? Come?
Il Protocollo di Kyoto impegna in maniera concreta i Paesi di antica industrializzazione che l’hanno ratificata (anche se non sono previste sanzioni per gli inadempienti): ridurre le emissioni di gas serra di circa il 5% rispetto all’anno di riferimento 1990. A Durban occorrerà sia verificare chi lo ha rispettato e chi no, sia decidere se e come rinnovarlo per i prossimi anni.
Le due classi di decisioni che dovranno essere prese rispettivamente a Cop 17 - accordo globale su mitigazione e adattamento - e a Cmp 7 - rinnovo del Protocollo di Kyoto - sono fortemente interconnesse. Alcuni Paesi che hanno ratificato Kyoto - Giappone, Canada e Russia - hanno già fatto sapere che senza un accordo globale e senza un impegno concreto e vincolante per tutti, in particolare per Stati Uniti e Cina che sono i due massimi produttori di gas serra, non parteciperanno a nessun processo di rinnovo del Protocollo.
La situazione politica è drammatica, ma chiara: o a Durban si troverà una strategia globale oppure la politica di contrasto ai cambiamenti climatici tornerà indietro di vent’anni, a quando la Convenzione sul clima venne proposta a Rio del 1992.
Il quadro scientifico e politico, rispetto a Rio, è cambiato. Venti anni fa i paesi di antica industrializzazione erano ancora i massimi produttori di gas serra. Oggi il 58% delle emissioni avviene a opera di paesi che a Rio venivano definiti in via di sviluppo. Restano le antiche responsabilità - la gran parte dei gas serra di origine antropica accumulati in atmosfera sono stati emessi da Europa, Stati Uniti e Giappone. Ma occorre prendere atto che senza il contributo attivo di Cina, India, Brasile e di un’intera costellazione di paesi a economia emergente le politiche di mitigazione perdono molto del loro significato.
I nodi politici più importanti, dunque, sono tre. Gli Usa, che non hanno ratificato il Protocollo di Kyoto, si lasceranno coinvolgere in un accordo globale? E cosa farà la Cina, che ormai produce più carbonio di tutti ma continua ad avere un tasso di emissioni procapite inferiore a Usa e Europa? E cosa farà l’Europa? Finora è stata il locomotore del lento convoglio dei Paesi che intendono contrastare i cambiamenti climatici. Ma sopravvivrà la sua politica verde alla tempesta finanziaria ed economica che l’ha investita?
La crisi economica incombe su Durban. Molti ritengono che difficilmente l’Amministrazione Obama potrà assumere impegni stringenti e vincolanti, con uno dei due rami del Parlamento in mano ai repubblicani. Altri ritengono che l’Europa - dopo la figuraccia di Cop 15 a Copenaghen, dove fu esclusa dalle decisioni che contano - con la sua attuale debolezza sia ancora più marginale e comunque meno credibile. Forse le uniche speranze restano proprio i paesi a economia emergente: la Cina, il Brasile, la Corea del Sud. Non sono attraversati dalla crisi economica e stanno puntando molto - molto più di Usa ed Europa - sulla "green economy".
Saranno loro ad assumere la leadership della lotta ai cambiamenti climatici in una città, Durban, di un Paese simbolo degli emergenti, il Sud Africa? Vedremo a Durban quanto matura è la “coscienza ecologica degli emergenti”. E in che direzione andrà.
Le opzioni tecniche sono due. La prima è la politica dei vincoli stringenti, sul modello del Protocollo di Kyoto: precise quote di gas serra da abbattere, differenziate per paese. L’altra opzione è quella della "no-binding policy", degli impegni morali non vincolanti, sostenuti unicamente da meccanismi di mercato. È l’opzione del «liberi tutti di fare quel che si vuole e si può». L’unica oggi realistica, sostengono i suoi fautori. A causa della crisi, ma anche della storica ritrosia di Usa e Cina ad accettare vincoli alla propria sovranità e alla propria economia.
L’opzione no-binding, senza vincoli, sarà pure realistica. Ma ha un grande difetto: non offre alcuna certezza che gli obiettivi saranno raggiunti. La storia degli ultimi 20 anni dimostra che in un regime no-binding le emissioni di gas non diminuiscono. Ma crescono allegramente. Senza vincoli, appunto.
Il governo Monti non è atteso soltanto alla prova difficile dell´economia. Lo hanno sottolineato ieri a Roma i movimenti per l´acqua come bene comune che non si sono dissolti dopo il successo referendario. Ma hanno voluto opportunamente ricordare che nessuna emergenza può giustificare l´allontanarsi dalla retta via costituzionale. Sappiamo che sono all´opera gruppi e interessi che spingono nella direzione opposta, invocando il mercato come unica regola, alla quale le istituzioni dovrebbero, una volta di più, piegarsi. Guai se queste suggestioni trovassero eco nel governo. La paventata sospensione della democrazia troverebbe un´inquietante conferma. La volontà espressa con il referendum, infatti, non è disponibile per nessun governo, politico o tecnico che sia, e per qualsivoglia maggioranza parlamentare, ristretta o allargata che sia.
Torniamo alle radiose giornate di giugno, quando 27 milioni di cittadini (ricordiamo sempre questa cifra) dissero no al nucleare, alla generalizzata privatizzazione di servizi pubblici, alle leggi ad personam. Proprio il risultato di quest´ultimo referendum dovrebbe esser preso terribilmente sul serio da un governo che non può affidare soltanto allo "stile" l´impresa ardua di ricostruire un tessuto civile profondamente lacerato. Con il loro voto i cittadini non hanno semplicemente abrogato una legge. Hanno voluto manifestare in modo netto la loro volontà di un ritorno pieno alla legalità, senza privilegi per i potenti: ieri Berlusconi e la sua cerchia, oggi gli interessati all´industria nucleare e alla lucrosa gestione privata dell´acqua.
Il rispetto assoluto della legalità non dovrebbe avere bisogno del severo e corale richiamo venuto dalla maggioranza degli italiani. Ma questo vi è stato.
Ve ne era bisogno, e oggi la legittimazione del governo passa anche attraverso questa ineludibile prova di "serietà" (altra parola inflazionata in questi giorni) che consiste in primo luogo nel rispetto delle istituzioni. Così come dev´essere rispettato il Parlamento, vi è un pari dovere di fedeltà verso l´istituto del referendum, con il quale si esercita direttamente la sovranità popolare.
Archiviamo pure come un incidente di percorso di un ministro frettoloso la dichiarazione secondo la quale potrebbe essere ripreso il tema dell´energia nucleare, che pure è servita a ridare fiato a chi non vuole prendere atto del risultato referendario. Ma è quanto continua ad avvenire, o a non avvenire, intorno alla questione dell´acqua ad inquietare seriamente. Soltanto occasionali e sporadiche sono state le iniziative volte a dare seguito alla chiarissima volontà popolare. Molteplici, invece, sono state quelle volte ad aggirare o vanificare le indicazioni dei referendum, la cui portata, peraltro, era stata ben chiarita dalla Corte costituzionale. E questo spirito non è scomparso, viste le proposte, talora sgangherate, con le quali si indica la via della privatizzazione dei servizi pubblici, delle dismissioni in blocco di beni pubblici.
Il governo, allora, dovrebbe rivolgere la sua attenzione all´articolo 4 della manovra economica che, come da più parti è stato messo in evidenza, non appare in linea con l´esito referendario; e, comunque, non dovrebbe secondare alcuna mossa che possa essere intesa come sostegno per chi, a livello locale, vuole cancellare o rinviare all´infinito gli effetti del referendum. Proprio qui, infatti, nei Comuni e nei cosiddetti Ato (Ambito territoriale ottimale), devono essere avviate le iniziative per la ripubblicizzazione dell´acqua secondo le indicazioni referendarie. Il punto di partenza può essere individuato nei Comuni dove già la gestione dell´acqua è affidata a società per azioni interamente in mano pubblica, che possono essere trasformate in aziende speciali: è già avvenuto a Napoli, e lo stesso può essere fatto a Torino, Milano, Venezia, Palermo.
Ma i movimenti riuniti ieri a Roma hanno indicato anche una strada che affida alla vitalità stessa delle iniziative dei cittadini l´attuazione di quanto è stato stabilito con il voto sul secondo quesito referendario che, per quanto riguarda la gestione del servizio idrico, ha abrogato la norma relativa alla remunerazione del capitale nella misura del 7 per cento. Di fronte all´inadempimento dell´obbligo referendario, sarà lanciata una campagna di "obbedienza civile" per il ricalcolo delle bollette, da pagare senza la remunerazione del capitale. E vi saranno specifiche iniziative giudiziarie.
Questo non è solo un segno della vitalità del movimento dell´acqua, che si conferma come soggetto politico capace di custodire e attuare la volontà dei cittadini. Rappresenta un momento importante della battaglia complessiva per il rispetto della legalità costituzionale.
Si delinea così con nettezza una strategia politica e istituzionale con la quale il governo deve fare i conti.
Può darsi che trovi sostegno debole nella propria maggioranza, dove sono molti quelli che anelano ad una rivincita sul risultato referendario. Ma, legalità costituzionale a parte, questo sarebbe da parte di tutti un segno di incomprensibile miopia politica, un´occasione ulteriore e grave di separazione tra ceto politico e opinione pubblica. Non si può costruire un continuum governoParlamento che contrapponga una propria maggioranza a quella referendaria. Se ci si vuole liberare dalle tossine e dai ricatti dell´antipolitica, bisogna guardare alla buona politica che in Italia si è manifestata con continuità fin dai primi mesi del 2010 e che ha prodotto la partecipazione attiva di 7 milioni di persone alle campagne per le elezioni amministrative e referendaria della passata primavera. Il governo non segua i cattivi consigli di chi incita a liberarsi dalla presa del "movimentismo".
Senza un confronto vitale con la società, il suo respiro sarebbe corto.
Il Parlamento, dal quale si levano voci da vergini violate da parte di chi ne ha segnato l´estrema mortificazione con il voto su Ruby come nipote di Mubarak, vuole ritrovare un suo ruolo? Ha davanti a sé una proposta d´iniziativa popolare per una nuova disciplina dell´acqua firmata da 400mila cittadini. Vi sono due disegni di legge per una nuova classificazione dei beni, con l´introduzione della categoria dei beni comuni, presentati dalla regione Piemonte e dai senatori del Pd. Metta questi testi all´ordine del giorno, ne discuta e il governo, per la parte che gli compete, secondi queste iniziative. E, comunque sia, misuri le sue decisioni con il metro di un´intelligenza politica lungimirante, che non guardi a beni e servizi come ad un´occasione disperata per fare cassa, ma ne consideri il nesso con i diritti fondamentali delle persone, il loro valore "comune" e così consenta pure una loro utilizzazione economica non prigioniera della logica distruttiva del brevissimo periodo.
Una volta di più, i cittadini stanno mostrando intelligenza politica, respiro culturale. Che le istituzioni siano alla loro altezza.
Le alluvioni di Genova, della Liguria e di Messina. L´Aquila ancora città fantasma dopo l´ultimo terremoto. E prima ancora, Vesuvio, Irpinia, Vajont, fino al Medioevo. Ecco come il nostro Paese è stato devastato dai disastri naturali. E ogni volta ha dimenticato la lezione
Nel 1859 un tuono nel fondo dell´Appennino fa a pezzi Norcia, squarcia le antiche mura e inghiotte centinaia di vite. Manca un anno all´annessione dell´Umbria da parte dei Savoia, la città medievale fa ancora parte dello Stato della Chiesa e tocca al Papa intervenire. Ebbene, alla notizia del terremoto, Pio IX, l´uomo teoricamente più reazionario dell´epoca, impone un´illuminata normativa antisismica. Queste regole indispensabili, ma impopolari per via degli aggravi alla spesa edilizia, non saranno mai applicate. Motivo: con l´arrivo dei piemontesi l´ordine antico decade. Siamo in Italia, le norme danno fastidio. E poi il Paese ha altre gatte da pelare, a partire dalle rivolte del Sud. Per i norcini, neanche dire, è una festa. Il plebiscito del 1861 è per loro un´occasione unica per accantonare l´impopolare antisismica papalina, azzerare la memoria e gettare le premesse di un secolo e mezzo di malaedilizia e conseguenti disastri. Ce le siamo sempre cercate, le sciagure, ignorando scientemente la storia, e la rimozione continua anche oggi, con le celebrazioni del centocinquantenario dell´Unità che rimbombano di fanfare ma evitano accuratamente i disastri. Messina diventa un fiume di fango, la Liguria si squarcia sotto le grandi piogge, l´Aquila è ancora una città fantasma dopo l´ultimo sisma, ma nel grande compleanno dell´Italia i terremoti, le eruzioni, le frane e le alluvioni non hanno cittadinanza. Eppure se c´è una cosa che ci fa nazione è proprio il disastro, la sua anormale frequenza, il modo con cui la catastrofe naturale si riverbera su un territorio notoriamente mal costruito. È la nostra reazione alle avversità, la lezione che ne traiamo, e soprattutto il modo in cui esse vengono (raramente) elaborate o (più spesso) dimenticate.
Quando il Tevere invade Roma nel dicembre 1870, sotto l´onda emozionale si decide di dare alla città una migliore difesa dall´acqua, ma ecco che la solita commissione parlamentare insabbia tutto, al punto che cinque anni dopo, non essendoci ancora nulla di deciso, Giuseppe Garibaldi in persona rompe gli indugi, abbandona inferocito la sua Caprera e torna nella Capitale per inchiodare i politici alle loro responsabilità. Accolto da una folla immensa, tiene un memorabile discorso ai romani «con la voce dei bei giorni» e li esorta a essere «seri, seri, seri e fermi». Solo allora il Parlamento si muove e dà via libera ai lavori per i muraglioni di rinforzo alle rive del Tevere. Se oggi Roma è al sicuro è solo grazie a quell´urlo del Generale.
È un fatto che l´Italia non può più permettersi di subire terremoti e alluvioni senza trarre lezioni dal passato. E forse ora qualcosa timidamente si muove, anche su spinta della presidenza della Repubblica. A Spoleto è nato un Centro euromediterraneo che raccoglie la documentazione sugli eventi estremi e i disastri. Il 12 dicembre il tema dell´Unità d´Italia riletta attraverso i disastri sarà affrontato a Roma all´Accademia di San Luca in un convegno con i massimi esperti italiani del settore. «È incredibile quanto si debba insistere per far capire cose di un´ovvietà assoluta», dice il professor Domenico Giardini, nuovo presidente dell´Istituto nazionale di geofisica. «Le cose giuste le aveva già dette Rousseau dopo il terremoto di Lisbona del 1755. Disse che l´ecatombe è fatale se l´uomo si ostina a costruire case di sei piani in zone sismiche. Ma noi ormai siamo così freneticamente proiettati sul futuro che non abbiamo più tempo di riflettere sul passato e ogni catastrofe ci sembra un evento eccezionale. È un´amnesia fatale per un Paese che ha una media di mille morti l´anno per terremoti». In confronto alla cecità dell´oggi era quasi meglio la vecchia superstizione, quando alluvioni e terremoti erano punizioni divine. C´erano almeno i preti a tenerci in allerta con le "rogazioni", processioni che evocavano il male con scongiuri, simbologie, rituali e precisi anniversari liturgici.
Il Vesuvio, per esempio, chi ci pensa più. Poi guardi la storia dei 150 anni e vedi che non dorme affatto. Comincia proprio nel 1861, salutando con una botta memorabile l´annessione al Piemonte. Poi brontola, in sequenza ininterrotta, nel 1867, 1872, 1891. Quattro anni dopo un nuovo rigurgito di lava crea il Colle Margherita e a seguire, nel 1899, una Piedigrotta di lapilli genera Colle Umberto. Nel 1906 un´eruzione violenta distrugge Borgo Tre Case, poi c´è quella del ´29 e ancora quella del ´44, descritta dallo scrittore Norman Lewis, che è a Napoli con l´esercito americano. San Sebastiano è minacciato e il paese esce in processione verso la lava con la statua del protettore. Ma la gente non si fida troppo e chiama in rinforzo San Gennaro, il cui tabernacolo viene però tenuto nascosto fino all´ultimo in un vicolo, perché Sebastiano non abbia a offendersi. Da allora il pentolone tace, la memoria del pericolo corso si attenua ed ecco, puntuali, i palazzinari all´assalto della scarpata di lava. Idem per frane e alluvioni. Palermo pare estranea a catastrofi di tipo messinese, ma basta un´occhiata al passato per cambiare idea. Andrea Goltara, direttore del Centro italiano di riqualificazione fluviale, ricorda l´esondazione del 1862, quella del 1925 e soprattutto quella, eccezionale, del 1931. Da allora si è talmente costruito in zone allagabili che, se oggi si ripetesse la grande pioggia di quell´anno, i danni sarebbero infinitamente più gravi. I disastri sono spesso recidivi, e quello di quest´anno a Genova è stato preceduto da eventi analoghi nel 1945, 1951, 1953 e 1970. E che dire dell´esondazione dell´Arno nel ´66: una fotocopia di quella già accaduta nel 1844.
Dal Dodicesimo secolo a oggi, Marco Amanti dell´Ispra ha registrato 480mila frane sul territorio nazionale, estese sul settanta per cento dei Comuni. La mappa dei terremoti dal 1861 registra non solo una sequenza ininterrotta di sismi e quindi la necessità di un´allerta costante, ma mostra con evidenza che negli ultimi vent´anni le scosse forti sono semmai diminuite per cui - statisticamente - c´è da aspettarsi un bel tuono a tempi ravvicinati. Più che l´Aquila, preoccupa il silenzio sismico che le sta attorno. L´amnesia è funzionale al cemento. Lo si è visto nel 2009 all´Aquila, dove molti ignoravano di trovarsi in area sismica e dove, in quel vuoto di memoria, i pirati dell´edilizia avevano fatto carne di porco del territorio. È una tendenza vecchia come l´Italia. Dopo il terremoto di Rimini del 1916, i parlamentari romagnoli fecero di tutto per far revocare le norme antisismiche e quando ci riuscirono, negli anni Venti, furono accolti come eroi alla stazione e portati in trionfo dalla popolazione. Stessa cosa in Friuli, dopo il terremoto del 1928. I paesi più "ammanigliati" scansarono le norme di sicurezza che avrebbero comportato spese edilizie maggiorate del 15 per cento, mentre i periferici subirono. Risultato: nel maggio del 1976 i centri esentati come Gemona videro un´ecatombe. Gli altri, come Pioverno, non ebbero neanche un morto.
«Solo chi ricorda sa il pericolo che corre, e quindi accetta di sottoporsi a regole che gli salveranno la vita», sbotta Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti e ideatrice del centro di Spoleto. «Per salvarci dai disastri, una forte memoria condivisa è più importante di un sofisticato tecnicismo che porta fatalmente a delegare le soluzioni a pochi, a scelte emergenziali, verticistiche, e allo scavalcamento delle regole. Ricordare ci aiuta invece a fare scelte democratiche e condivise, e a mobilitare la parte migliore di noi». L´Unità d´Italia azzerò anche la toponomastica "ammonitrice". Nello zelo cartografico dei sabaudi, piccoli nomi di luogo come Pozzallo, Pietratagliata, Trematerra, Acquapendente, persero il loro senso o furono fraintesi. La costa sarda di "Maluventu" fu registrata come "Maldiventre" dai piemontesi che non capivano il sardo e per parecchie navi quel pezzo di mare divenne infido perché il nuovo nome non conteneva più l´avvertimento. Gli esempi dello stesso tipo non si contano. La frana più estesa d´Italia, quella di Ancona del 1982, avvenne su un pendio detto "Ruina", dove dall´epoca dei Romani non s´era mai costruito proprio perché si credeva al senso dei nomi.
E che dire del Vajont, 1963, dove nel lago artificiale di una diga appena costruita cadde un monte intero detto "Toc", che significa più o meno "qualcosa in bilico". L´arroganza dei signori dell´energia nell´uso del territorio e la supponenza degli ingegneri di fronte alla memoria dei montanari fece, in un botto solo, duemila morti. Per un nome ignorato vennero giù trecento milioni di metri cubi di roccia e terra, e fu la più grande frana di sempre. Non fu la natura a essere matrigna, ma gli uomini a essere pessimi figli.
LA DEMOCRAZIA VIOLATA
Il doppio raggiro sul voto di giugno
di Gaetano Azzariti
«Si può continuare ad applicare una norma abrogata per via referendaria?». Hans Kelsen avrebbe giudicato priva di senso una simile domanda, bollandola come contradictio in adiecto. E poi, basta aprire un qualunque manuale di diritto costituzionale per leggere che l'unico effetto giuridico certo prodotto dal voto è appunto quello di rendere non più applicabile la norma oggetto del referendum. A dispetto di ciò, sebbene il 12 e 13 giugno del 2011 la maggioranza del corpo elettorale abbia eliminato la disposizione che stabiliva una «adeguata remunerazione del capitale investito» da garantire ai gestori dei sistemi idrici, questa norma è ancora applicata. L'elusione dell'esito referendario appare evidente. Secondo alcuni l'ultrattività della norma abrogata sarebbe giustificata dal permanere della necessità di garantire la copertura dei costi e le correlate ragioni di profitto per le aziende che gestiscono il servizio. Quest'argomentazione non ha fondamento alcuno. A dirlo è stata la Corte costituzionale, quando ha ammesso il referendum escludendo che ciò potesse incidere sulla nozione di "rilevanza" economica del servizio idrico integrato. L'eliminazione della voce «remunerazione del capitale» - ha scritto a chiare lettere la Corte - non presenta elementi di contraddittorietà, poiché se da un lato persegue chiaramente la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell'acqua, dall'altro non incide sulla nozione di tariffa come corrispettivo, la quale assicura «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio».
Si può evidentemente non essere d'accordo nel merito della questione: per questo s'è svolta la consultazione referendaria e tutti coloro che hanno votato no al referendum evidentemente non erano concordi. Ma il referendum ha avuto un esito inequivocabile, e ora non rimane che dare seguito alla volontà del corpo elettorale. L'inerzia e la conservazione dei vecchi contratti di gestione per il servizio idrico si configurano come un grave vulnus al dettato costituzionale, che non dovrebbe essere accettato da nessuno, neppure da coloro che si sono democraticamente opposti, con il voto contrario, all'abrogazione della norma sulla remunerazione del capitale. È alla base del vivere democratico accettare le scelte della maggioranza (del corpo elettorale nel caso dei referendum, dei membri del Parlamento nel caso delle leggi). Tutti i soggetti politicamente responsabili dovrebbero, dopo il referendum, imporre alle aziende regole di gestione estranee alle logiche del profitto.
V'è poi un secondo raggiro compiuto ai danni del referendum. Uno dei due quesiti aveva a oggetto una norma (l'art. 23 bis del decreto Ronchi) relativa alle modalità di affidamento di tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica. Come ha chiarito anche in questo caso la Corte costituzionale, l'abrogazione richiesta ha riguardato una disciplina generale, relativa dunque non solo al servizio idrico. Eppure nella manovra di agosto il governo allora in carica ha reintrodotto la medesima normativa, fatta salva l'acqua; in tal modo violando il divieto di reintroduzione della normativa abrogata. Alcune regioni (la Puglia), e lo stesso comitato promotore dei referendum vogliono proporre la questione dinanzi alla Consulta, sollevando un conflitto tra poteri dello Stato. Ma, al di là delle ragioni giuridiche e costituzionali che sostengono i ricorsi, c'è da chiedersi se non vi sia anche una questione politica e di democrazia.
Al governo Monti tutti riconoscono una profonda diversità di stile: non più le sguaiatezze del populismo berlusconiano, ma un atteggiamento rigoroso che legittima - anche politicamente - la "tecnica" di governo. Questo stile - se non vuole essere solo una forma apparente - dovrebbe anzitutto esprimersi nel rispetto della lealtà costituzionale e delle leggi. Ed è proprio il problema di lealtà costituzionale e di rispetto delle leggi che oggi pongono i promotori del referendum sull'acqua pubblica. Il passato governo ha adottato comportamenti e compiuto atti tendenti a invalidare l'esito referendario. Si tratta ora di rimediare.
LA PIAZZA
Una frazione del 99 per cento
di Pierluigi Sullo
Pochi avrebbero scommesso un soldo bucato sulla manifestazione nazionale per l'acqua convocata ieri a Roma. Invece per strada si è vista, come dicono gli organizzatori, la «persistenza» del movimento per l'acqua. CONTINUA|PAGINA3 Come dire: c'è stata la grande ondata, abbiamo vinto il referendum, la scelta di 26 milioni di cittadini è stata sostanzialmente ignorata da chi aveva il dovere di rispettarla, eppure non siamo tornati a casa.
È già un gran risultato, che in piazza si sia mostrata una frazione per niente secondaria del 99 per cento, come dicono gli occupy statunitensi: perché a soffiare contro non era solo la disperante sensazione che affliggeva anche quel tale della mitologia greca, che faceva quel che subito dopo veniva disfatto e così via all'infinito. C'è stata la disgraziata manifestazione del 15 ottobre, che ha lasciato scorie nell'animo della moltissima gente senza targa che l'aveva affollata all'inverosimile. Ma, ben più in profondo, nell'animo delle moltissime persone che si industriano a tutelare ciò che è "comune" - dall'acqua al paesaggio, dal lavoro alla democrazia - si è insediato un sentimento negativo, una sospensione depressiva, qualcosa che assomiglia alla paura. Beninteso, potrei sbagliare completamente e al contrario potremmo essere in una situazione di enorme effervescenza e voglia di inventare - facendola in pratica - una società del tutto differente da questa.
Perché è a questa soglia che siamo arrivati. E però, mi pare, la scomparsa del nemico domestico e la crisi di quello globale hanno spiazzato ogni genere di movimento sociale. Come se - ed è naturale che sia così - sia più facile riconoscersi nello specchio rovesciato di ciò che si vorrebbe cancellare.
Il nemico domestico, l'apparentemente immortale Berlusconi, è stato di colpo sostituito da qualcosa che è, se possibile, ancora più inflessibile, come avversario della società. Si ha un bel dire che le buone maniere e l'etica privata dei "tecnici" ora al governo sono un sollievo. È vero. Ma con il governo Monti si è affermata una post-democrazia che non finge più neppure di ricavare la sua legittimità dal "popolo". E il mantra, il rumore di fondo ossessivo che accompagna il professor Monti, scava nell'animo pubblico, vi deposita uova di terrore. Spread, bund, Mib, Bce, rating e le molte altre parole contudenti che vengono ripetute ogni giorno, per tutto il giorno, a noi che precipitiamo verso la Grecia, a noi che perdereno la nostra moneta, l'euro, senza saper immaginare quel che verrà dopo, mentre la crisi mastica posti di lavoro e redditi, scuole e università, spesa pubblica e servizi sociali.
Perfino i riflessi condizionati di ogni persona assennata di sinistra, quanto meno democratica, vengono contraddetti: se viene un governo di centrosinistra andrà meglio? E cosa potrà fare la sinistra dentro il centrosinistra? La "maggioranza" che sostiene Monti, e che comprende il Pd e il partito di Berlusconi, e i furbissimi democristiani di Casini, è la rappresentazione plastica di quel che i movimenti sociali degli Stati uniti sanno da sempre, salvo sperare per quale mese in un candidato presidenziale giovane e nero: che la politica è andata altrove, ostaggio dei consigli di amministrazione delle banche e dei fondi pensione che speculano sui titoli di borsa. Che, appunto, la democrazia che abbiamo conosciuto, con tutti i suoi pregi e difetti, ha cessato di esistere.
Se le cose stessero così, la domanda più importante sarebbe questa: come mai in Italia la frazione importante del 99 per cento che era in strada per l'acqua non riesce a mescolarsi davvero con le altre frazioni: che so, studenti e ricercatori, comunità che difendono il territorio dalla "crescita" Passera-style, sindacati che resistono alla tempesta della produzione finanziarizzata e globalizzata, reticoli di altra economia e di welfare autoprodotto, ecc. Una miscela da cui, come negli Stati uniti o in Spagna o adesso in Gran Bretagna, potrebbe nascere l'aspirazione concreta, e ottimista e sicura di sé e vaccinata dalle illusioni elettorali, a una democrazia dei beni comuni. Dicono gli occupy di San Francisco: «Questa rivoluzione non sarà privatizzata».
BENI COMUNI
«Obbedienti civili» per l'acqua pubblica
di Silvio Messinetti
Lucarelli presenta la rete europea delle città per i beni comuni. Napoli è la capofila I comitati chiedono di togliere il 7% dalle bollette e minacciano il boicottaggio
Centocinquanta giorni dopo, il popolo dell'acqua si ritrova ancora alla Bocca della Verità. Il 13 giugno festeggiava lo straordinario successo referendario. Oggi è di nuovo qui per non farsi scippare il voto popolare. «Quella che lanciamo da questo palco è una lettera di risposta alla Bce, ai poteri forti, alle multinazionali, alle banche, che vorrebbero privatizzare e liberalizzare servizi pubblici e beni comuni - urla dal palco Simona Santini del Coordinamento romano dell'acqua - perché non si svendono beni primari, e in quanto tali inalienabili, per far cassa». Che l'acqua non sia una merce lo hanno ben chiaro le decine di migliaia di persone che nel primo pomeriggio partono dall'Esedra. Il percorso lambisce in parte quello del 15 ottobre. Ma è una giornata di festa e non di scontri. E te ne accorgi dalle bandiere dell'acqua che sventolano da un palazzo di via Labicana dirimpetto a quella caserma dismessa del ministero della Difesa andata a fuoco 40 giorni fa. Lungo le vie dell'Esquilino e del Celio scivola il fiume di attivisti e militanti. Eterogeneo, multicolore, trasversale. Dalle parrocchie ai centri sociali, dai sindacati(Cgil, Cobas, Cub, Usb) ai partiti(Prc, Pdci, Sinistra Critica, Pcl, poche le bandiere di Verdi e Sel),dalle associazioni (Arci, Wwf, Legambiente) ai tanti senza bandiere : rappresentanti di piazza di quei 27 milioni di persone che chiedono che il voto vada rispettato. Altrimenti sarà "obbedienza civile", dicono all'unisono: una campagna dal basso che il Forum nazionale lancerà dal prossimo giugno.
Oggi gli "obbedienti" sono davvero in tanti. Provenienti da ogni lembo dello Stivale. Dalla Basilicata («280 mila sì in Lucania e guai a chi li tocca») alle valli piemontesi, dall'Abruzzo alla Liguria, dalla Sicilia all'Emilia. Nutrito lo spezzone campano col gonfalone del comune di Napoli e Alberto Lucarelli, assessore ai Beni comuni, bardato di fascia tricolore. «Siamo orgogliosi che il primo caso di ripubblicizzazione dell'acqua e di gestione pubblica e partecipata dei servizi idrici sia proprio quello partenopeo» esclama Concilia Salvo del Forum campano. Il riferimento è ad ABC Napoli, istituita dall'amministrazione De Magistris il 26 ottobre scorso. Ma non son tutte rose e fiori. Perché le multinazionali non mollano l'osso così facilmente. Prendiamo un caso di scuola, quello laziale. «Acqualatina, con l'avallo del presidente della provincia pontina Cusani (Pdl), ha convocato una riunione dei sindaci che hanno deliberato un aumento del 7% delle tariffe in spregio ai referendum - ci spiega Alberto Bianchi del Comitato acqua pubblica Latina - e contro i comuni che non hanno aderito il presidente ha avuto l'ardire di presentare (invano) ricorso al Tar e poi appello al Consiglio di Stato. Se l'aumento tariffario non verrà ritirato, e se si ostineranno a non rispettare il suffragio popolare, lanceremo un boicottaggio di massa, facendo saltare il banco non pagando le bollette».
Ma i "vampiri dell'oro blu" sono tanti. E non solo in Italia. Il Forum Palestina ricorda che «Israele sottrae l'80% dell'acqua proveniente dalle falde sotterranee della Cisgiordania ed il 100% di quella che scorre nel fiume Giordano negandone l'accesso ai palestinesi il cui 84% della popolazione non ha accesso alla quantità minima d'acqua raccomandata dall'Oms». C'è poi Veolia, il colosso francese di acqua e rifiuti, che fa il bello e il cattivo tempo in giro per l'Italia. Come in Calabria dove è socio privato della Sorical, la società idrica che gestisce i servizi idrici, «e dove l'aumento delle bollette ha superato il 20% - affermano Delio Di Blasi e Giuseppe Tiano del Coordinamento acqua pubblica Bruno Arcuri - con un assurdo e antieconomico spezzatino laddove l'adduzione dell'acqua spetta a Sorical, la gestione ai comuni e la depurazione viene data in appalto a ditte su cui stendiamo un velo pietoso considerato i danni che provocano all'ambiente in termini di inquinamento».
Insomma, la speculazione su acqua e beni comuni va avanti. Nonostante il responso del 13 giugno. Anzi, il governo uscente ha inserito in Finanziaria una nuova e più drastica serie di privatizzazioni, «per far pagare a tutti noi un debito odioso e illegittimo - dicono gli universitari di Atenei in rivolta - che noi non abbiamo creato, tutelando invece gli interessi degli artefici di questa crisi ossia banche e grandi imprese». Sia chiaro, dunque, che «l'acqua non è debito», gridano i manifestanti. Anzi «noi siamo in credito di trasporti, beni comuni e servizi pubblici perché li privatizzano».
Il messaggio è diretto anche a Mario Monti e ai suoi progetti di aumentare i tagli ai servizi pubblici, accelerando i processi di privatizzazioni e liberalizzazioni. «Acqua,rifiuti ed energia, i privati devono andare via" denunciano, inoltre, gli attivisti di Rifiuti Zero Lazio, perché il business sui rifiuti è florido quanto quello dell'acqua, e lanciano la manifestazione di sabato prossimo.
Costeggiando il Circo Massimo si nota poi lo spezzone dei migranti della campagna Welcome. «Siamo in piazza perché la partecipazione è un diritto di tutti» hanno pennellato sul loro striscione. E oggi a Roma c'era tanta fame di diritti ma soprattutto tanta sete di democrazia «perché i 27 milioni di sì all'acqua pubblica devono contare». Chi ha orecchie per intendere, intenda.