La crisi e la manovra del governo impongono scelte radicali. Ma le élites, per essere credibili, non possono aumentare le disuguaglianze - Le situazioni di pericolo eccezionale dovrebbero produrre leadership che sanno condurre la lotta all´esterno e imporre la pace all´interno - Chi è veramente il nemico? Il nostro debito o chi ci specula sopra? La Bce o la politica che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi?
Il 13 maggio 1940, alla Camera dei Comuni, il nuovo premier e ministro della Difesa, Winston Churchill, presentando il suo governo e accingendosi a «guidare gli affari di Sua Maestà Britannica» nel momento più duro della storia inglese, disse: «non ho da offrirvi che sangue, sudore, fatica e lacrime. La nostra politica è fare la guerra: nostra mèta, la vittoria». La Camera gli diede unanimemente la fiducia, e anche tutta «la nazione fu unita e piena d´entusiasmo come non mai».
Dopo la battaglia di Canne (216 a. C.) anche un altro impero, quello romano, era stato in pericolo mortale; perduti almeno sessantamila soldati, un console morto in battaglia, il nemico più formidabile di Roma, Annibale, libero di agire nel cuore dell´Italia meridionale. Tuttavia, la città non si perse d´animo. Effettuò gli ultimi sacrifici umani della sua storia per placare gli dei, e il popolo si affidò alla dittatura informale del ceto senatorio. La Roma repubblicana non ebbe allora un leader capace di alta retorica come Churchill, ma un abile attico della guerra di logoramento, Quinto Fabio Massimo. Alla fine, però, Cartagine fu vinta, come Berlino.
Lacrime e sangue, dunque – il dolore per la sconfitta, che però non annienta; la ferita aperta, che però non abbatte –, dicono di un caso d´emergenza, di una necessità che rafforza l´animo di chi la deve fronteggiare. E dicono anche che questa condizione eccezionale di pericolo produce l´emergere di una leadership, individuale o collettiva, per condurre la lotta all´esterno, e per imporre, al tempo stesso, la pace sociale e politica all´interno. Come dopo Canne s´interruppe il confronto fra patrizi e plebei, così nell´imminenza della battaglia di Francia Churchill formò un governo di unità nazionale e non accontentò coloro che chiedevano la testa dei politici conservatori che avevano voluto Monaco, nel settembre del 1938: «se il presente cercasse di erigersi a giudice del passato, perderebbe il futuro», rispose il premier.
Non sempre è andata così: la Francia rivoluzionaria, minacciata nel 1792 dal prussiano Brunswick, risponde con la guerra – la battaglia di Valmy –, ma al tempo stesso con le stragi di settembre, cioè con l´uccisione di qualche migliaio di aristocratici prigionieri. In questo caso, la logica amico-nemico che scatta nelle emergenze – serrare i ranghi per resistere all´ora difficile, e per passare al contrattacco – si manifesta anche all´interno, e non solo verso l´esterno. Una rivoluzione, infatti, contro il nemico che sta davanti alle porte trae forza dalla guerra civile contro il nemico che sta dentro le mura; i sacrifici umani con cui Roma aveva cercato di propiziarsi gli dei diventano atti sacrificali della nuova religione rivoluzionaria. Il sangue e le lacrime non sono solo quelle dei cittadini; anche i nemici del popolo piangono e muoiono, mentre l´esercito sanculotto – formato dalla leva in massa – corre alle frontiere.
Ma quando non si va alla ricerca di un capro espiatorio, "lacrime e sangue" indica una situazione di necessità davanti alla quale tutti sono uniti e tutti sono uguali; senza che le differenze sociali e politiche vengano cancellate, sono tuttavia momentaneamente neutralizzate da una mobilitazione corale dei cittadini, chiamati alle armi per salvare la patria. Se è vero che le categorie di giusto e ingiusto spariscono davanti allo stato d´eccezione, in cui vale solo la logica dell´efficacia e dell´inefficacia, è anche vero che senza l´attenuazione dei privilegi, senza la consapevolezza che tutti sopportano gli stessi rischi e sacrifici, anche la risposta all´emergenza viene indebolita. Nei momenti di crisi, l´equità – il far sì che i piatti della bilancia siano pari, livellati, senza che uno penda a terra, gravato da oneri vessatori e l´altro salga al cielo, libero e leggero da ogni gravame – è una delle condizioni dell´efficacia. Si possono richiamare tutti al coraggio e al sacrificio solo se nessuno fa affari con l´emergenza.
Tutto ciò vale anche ai tempi nostri, anche se la guerra è solo economica e se non è neppure ben chiaro chi sia il nemico: esterno o interno? il nostro debito o chi ci specula sopra? Le logiche severissime su cui si fonda l´euro o quelle speculative dei mercati? La Bce con le sue lettere o la Germania con la sua riluttanza a una politica economica europea centralizzata? La crisi finanziaria nata a Wall Street nel 2008 o, in ultima analisi, noi stessi e la politica, da noi voluta, che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi?
E vale ancor più nel momento in cui a gestire la cosa pubblica sono chiamati gli esponenti delle ultime élites che il Paese ha a disposizione, le ultime riserve della Repubblica: professori universitari e manager cattolici. Che devono trovare la forza di dare segnali chiari e forti di equità e di lotta ai privilegi; sia perché solo così la manovra può essere condivisa, e quindi sostenibile, sia perché la qualità e la legittimità delle élites – di quelle politiche e di quelle sociali – si rivela proprio quando a esse un Paese si affida, aspettandosi che diano l´esempio. Dopo tutto, non si chiedono sacrifici umani, né guerre civili ideologiche; ma ragionevole uguaglianza nel portare il peso dell´emergenza. Forse le rispettabili lacrime di un ministro equivalgono simbolicamente al gesto d´espiazione delle matrone romane che, dopo Canne, spazzavano i pavimenti dei templi con le loro lunghe chiome sciolte. Ma oggi alle élites si chiedono altri segni, più tangibili, di partecipazione alle lacrime e al sangue di tutti.
Un'intervista con Andrew Ross. Dopo il lungo inverno neoliberale, Occupy Wall Street è solo uno degli episodi di una realtà, quella statunitense, dove la crisi evidenzia l'eclissi del sogno di riscatto incarnato da Barack Obama e le possibilità di una critica al capitalismo contemporaneo
Can't Pay, Won't Pay, Don't Pay. Già in questo slogan - lanciato dalla campagna «Occupy Student Debt» - c'è la potenza di Occupy Wall Street: individua le radici materiali, lo situa dentro la crisi globale, traccia la composizione, fatta di studenti, precari e lavoratori impoveriti che non ne vogliono pagare i costi, indica obiettivi e forme di lotta. È un grido di battaglia contro la finanziarizzazione della vita lanciato da quello che, almeno simbolicamente, è il ventre della bestia. L'equazione politica - la lotta sul salario sta al capitalismo industriale come la lotta sul debito sta al capitalismo cognitivo - che fino a poco tempo fa appariva come un azzardo teorico di una minoranza radicale si sta semplicemente imponendo con la forza di un pregiudizio popolare. Soprattutto, è incarnata in diffuse pratiche di resistenza che della crisi costituiscono la radice soggettiva. Allora, se in soli pochi mesi tanto si è detto e scritto su Occupy Wall Street, è anche per queste ragioni, oltre che per la sua nota lucidità interpretativa ed efficacia di analisi, che rivestono una particolare importanza le valutazioni di Andrew Ross.
Docente della New York University, noto per il suo impegno militante, autore di numerosi saggi che spaziano dai cosiddetti cultural studies- No Respect: Intellectuals and Popular Culture; Strange Weather: Culture, Science, and Technology in the Age of Limits; The Chicago Gangster Theory of Life: Nature's Debt to Society - alle trasformazioni del lavoro nel capitalismo contemporaneo - No-Collar: The Humane Workplace and Its Hidden Costs; Fast Boat to China: Corporate Flight and the Consequences of Free Trade; Nice Work if You Can Get it: Life and Labor in Precarious Times - Ross è infatti tra i promotori della campagna «Occupy Student Debt».
Come è nata Occupy Wall Street, o per meglio dire quali ne sono state le condizioni di possibilità e come sta cambiando il contesto americano?
«Gli eventi politici spontanei sono sempre “possibili”, non è facile prevedere quando e dove avranno presa. Penso che se Occupy fosse stato un anno o sei mesi prima, non sarebbe decollato nello stesso modo. Un fattore da considerare è la tardività degli Stati Uniti: quando, ci siamo chiesti tutti, le mobilitazioni globali si sarebbero diffuse nelle città americane? Un altro fattore è che, con l'occupazione di Wall Street, il disgusto popolare per il processo politico negli Stati Uniti ha raggiunto una massa critica. Ricordo che solo qualche settimana prima che l'occupazione cominciasse, Doug Henwood e Liza Featherstone hanno fatto circolare un invito tra le persone di sinistra di New York per contribuire a un convegno dal titolo «Why Fucking Bother?» («chi cazzo se ne frega?»). Si proponeva di incanalare o mitigare un condiviso senso di disperazione sulla possibilità che qui accadesse qualcosa. Nondimeno, c'è stato un cambiamento a 180 gradi del morale negli ultimi mesi. Io vivo negli Stati Uniti da trent'anni e non ho mai visto qualcosa comparabile alla forza o al senso del destino di cui questo movimento è portatore. Quei trent'anni sono appartenuti a Wall Street, i prossimi trenta possono e devono appartenere a noi se Occupy mantiene la sua energia e creatività. Il mio coinvolgimento nel movimento non è atipico. È cominciato come residente (vivo non distante da Zuccotti Park), poi c'è stata una rapida transizione all'esserne partecipante, nelle prime manifestazioni di massa e nei gruppi di lavoro su «Empowerment and Education», e infine a diventare organizzatore nella nostra campagna «Occupy Student Debt». Come molti altri che conosco, è stato estremamente facile essere attratti nel movimento, che è come ci si dovrebbe sentire in un movimento.»
Occupy Wall Street è stato spesso presentato come evento imprevedibile. Tuttavia, ci sono molte lotte che hanno preceduto e preparato il terreno di questo movimento: per citare solo un paio di esempi, a New York ci sono stati negli ultimi anni gli importanti scioperi dei graduate students e dei lavoratori dei trasporti. Pensi che ci sia un processo di sedimentazione di soggettività e pratiche politiche nella genealogia di questo movimento, oppure prevalgono gli elementi di cesura e completa novità?
«Ci sono molti affluenti che sono sgorgati nel fiume di Occupy. Il movimento per la giustizia globale è il più importante. Sul lato del lavoro, penso che la capacità dei sindacati metropolitani di abbracciare il movimento del lavoro universitario costituisca uno sfondo importante. Per quanto riguarda gli elementi nuovi, certamente la crescente consapevolezza rispetto al sistema del debito è un fattore centrale. Resistere alla servitù del debito ha costituito una forma di vita nei paesi del Sud globale negli ultimi trent'anni. Ora le conseguenze del vivere nella trappola del debito hanno colpito i paesi del Nord».
Qual è la composizione del movimento, e quali sono le sue forme di organizzazione e comunicazione?
«All'inizio la composizione degli occupanti era piuttosto circoscritta: la maggior parte istruiti, bianchi, giovani, molti di loro si sono fatti le ossa nel movimento per la giustizia globale, per altri questa è la prima esperienza politica. Ora, tuttavia, la composizione è molto differente: i sindacati del settore pubblico sono sempre più coinvolti, c'è un insieme pienamente intergenerazionale di soggetti, il gruppo di lavoro su «People of Color» è una presenza importante. Il processo di consenso dell'assemblea generale è il dna organizzativo del movimento, e sta cominciando a penetrare in parti della società civile tradizionale. Per esempio, alcune delle scuole superiori della città hanno rimpiazzato le loro forme di rappresentanza studentesca con le modalità orizzontali dell'assemblea generale. Si è dimostrata essere un modello virale di norme culturali. Poiché ogni gruppo può creare la propria assemblea generale (ce ne sono molte in giro per New York), è una struttura organizzativa che incoraggia e genera autonomia. Così, la natura «faccia a faccia» di questa forma decisionale completa il diffuso utilizzo dei social media volto a disseminare l'informazione. In realtà, direi che il bilanciamento tra gli incontri fisici e l'uso dei social media è un elemento chiave».
Puoi spiegare come è nata la campagna «Occupy Student Debt»?
«Fin dall'inizio il tormento del debito studentesco è stata una costante di Occupy Wall Street e delle occupazioni di altre città. George Caffentzis, Silvia Federici e io abbiamo fatto degli incontri sul debito durante l'occupazione di Zuccotti Park. Abbiamo invitato i partecipanti a formare un gruppo per costruire un'iniziativa di azione che legasse la questione del debito studentesco al sistema dell'istruzione superiore nel suo complesso. L'assunto centrale è che i college e le università americane dipendono in misura crescente dalla schiavitù del debito a cui sono costrette le persone che invece dovrebbero servire. Così abbiamo creato una campagna che richiama i nostri principi politici (l'atto di rifiuto, la minaccia di uno sciopero del debito, la rivendicazione di un giubileo del debito). È progettata per dare ai debitori la possibilità di agire collettivamente piuttosto che soffrire il tormento e l'umiliazione del debito e del default privato. Fondamentalmente la campagna chiede a coloro ai rifiutanti di bloccare il pagamento del prestito quando si sarà raggiunta la quota di un milione di sottoscrizioni, ed è legato a quattro principi: tutte le università private devono essere gratuite, i prestiti studenteschi devono essere sganciati dalle tasse che vanno abolite, le università private devono aprire i loro libri contabili, il debito esistente deve essere cancellato. Si può vedere il sito: www.occupystudentdebtcampaign.org»
La lotta contro il debito è presentata come una pratica di riappropriazione della ricchezza sociale. Da questo punto di vista, potremmo dire che è un movimento costituente. Cosa ne pensi?
«Concordo. La nostra campagna è un'iniziativa di azione e non una lista di domande, poiché condividiamo l'ethos di Occupy Wall Street per cui le domande non possono essere rappresentate dal sistema politico attuale, sotto la funesta influenza dei dollari delle aziende. Le azioni che puntano a riappropriarsi della ricchezza e del potere non sono solo in sé potenzianti, ma anche - come dite - costituenti di un nuovo modello di cultura politica. La maggior parte dei partecipanti si stanno rendendo conto di una trasformazione soggettiva: il linguaggio è spesso di innocenza radicale, un sintomo manifesto del sorgere di una nuova «struttura del sentire», per dirla con le parole del teorico inglese Raymond Williams. Certamente la classe politica tenterà di cooptarne alcuni, e non la vedo come una risposta inattesa: non si può erigere un confine non poroso tra un movimento e l'establishment».
Quali sono i rapporti tra le union sindacali e il movimento?
»I sindacati degli impiegati pubblici non ha solo sostenuto, ma ha anche pienamente partecipato al movimento. La solidarietà mostrata per gli occupanti di Zuccotti Park da parte dei lavoratori del vicino cantiere del World Trade Center è stato particolarmente importante. I dirigenti sindacali e ancor di più i militanti della base hanno espresso in modo molto esplicito il loro rispetto per i successi di Occupy Wall Street nell'accumulare attenzione e generare impatto politico. Si è così creato un gruppo sul lavoro proprio attorno alle questioni del lavoro».
E quali sono i rapporti tra Occupy Wall Street e l'università come luogo di produzione e di conflitto?
«La fase di «Occupy Colleges» del movimento è appena iniziata, ma è il suo naturale prossimo passo. Gli sgomberi di Zuccotti Park coincidono con questi movimenti dentro le università, a New York, in California e altrove. A New York c'è ogni settimana un'assemblea generale degli studenti dell'intera metropoli, continui appuntamenti della People's University alla NYU e alla New School, una serie di iniziative e manifestazione studentesche di massa, incluso anche un giorno di sciopero. Recentemente molta attenzione si è concentrata sulle lotte contro l'aumento delle tasse alla City University of New York (Cuny). Un tempo gratuita (è stata una delle università della classe operaia più grandi del mondo), le tasse sono state per la prima volta imposte agli studenti del Cuny all'alba della crisi fiscale del 1976. Ciò è generalmente visto come il primo colpo che in questo paese il neoliberalismo ha inferto alla formazione pubblica. È un motivo in più per guardare al Cuny, in questo momento altamente simbolico, come spazio per rovesciare la situazione.
«Ora il movimento Occupy Colleges sta costruendo una rete nazionale. Alcuni presidenti di università, in particolare alla New School, si sono mostrati disponibili, altri sono stati gravemente danneggiati dal loro ricorso alla repressione poliziesca contro la libertà di parola. Come per Occupy in generale, ogni volta che la polizia agita i manganelli o sgombera violentemente manifestanti pacifici, ciò rovina il supporto pubblico per le autorità e fa crescere la simpatia per il movimento. Forse è questa, più di ogni altra cosa, la prova dell'impatto di successo del movimento».
“Penso che il Ponte sullo Stretto di Messina possa essere un ulteriore incubatore di sviluppo e di crescita per un’area di importanza strategica per tutto il paese”. A pronunciare queste parole, il 20 ottobre 2009, era Mario Ciaccia, amministratore delegato e direttore generale di BIIS - Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo (gruppo Intesa Sanpaolo), neo-vicesuperministro dell’Economia, delle infrastrutture e dei trasporti, accanto al collega Corrado Passera, “ex” consigliere delegato di Intesa Sanpaolo.
L’occasione era di quelle che contano, un convegno promosso a Roma dalla banca di appartenenza su “Federalismo, infrastrutture e turismo per il rilancio del sistema Italia”, relatori - tra gli altri - il presidente del Senato, Renato Schifani, l’allora ministra Michela Brambilla e il presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini. Felici tutti di poter annunciare la costituzione del fondo d’investimento Marguerite, destinato alle “infrastrutture strategiche europee”, come l’immancabile Ponte che proprio l’Europa sembra non aver mai voluto digerire.
Amore di lunga data quello per il padre di tutte le grandi opere nazionali. Da anni ormai, il viceministro-Ad (Grande ufficiale dell’Ordine al merito della repubblica italiana, presidente di sezione onorario della Corte dei Conti, nonché membro dei comitati direttivi dell’Istituto Affari Internazionali, dell’Associazione Civita e degli Amici dell’Accademia dei Lincei) celebra in ogni sede la sostenibilità del progetto di collegamento stabile nel mitico scenario di Scilla e Cariddi. Da presidente di ARCUS (la società a capitale pubblico che avrebbe dovuto investire il 3% delle risorse della famigerata legge Obiettivo in iniziative culturali e artistiche nei territori investiti dai lavori per le megainfrastrutture), Mario Ciaccia aveva programmato con l’Associazione Civita lo studio di “possibili connessioni e collegamenti per far divenire il Ponte di Messina un’opportunità di sviluppo per il turismo e per i beni culturali della Sicilia e della Calabria”. Furono i ministri Pietro Lunardi (Infrastrutture e trasporti) e Giuliano Urbani (Beni culturali) a presentare pubblicamente, il 4 novembre 2004, gli interventi da finanziare con ARCUS tra Messina e Villa San Giovanni. Un’inesauribile lista dei sogni fatta di musei, parchi archeologici e “percorsi culturali e paesaggistici”, affiancati a centri di accoglienza turisti, parchi commerciali e alberghi, ristoranti e negozi, alcuni dei quali “issati sulle due torri alte 382 metri ai lati della campata” del Ponte. Anfitrione dell’inedito evento pro cultura e pro cemento il presidente Ciaccia. “Il Ponte sullo Stretto costituirà occasione preziosa per un progetto-pilota di bacino culturale che nel tempo avrà effetti durevoli sul contesto sociale, economico e culturale del territorio, una nuova realtà per catturare quel turismo culturale che gli esperti segnalano in grande sviluppo”, proclamò Ciaccia. Poi un avvertimento: “Il Ponte è una grande opera che però comporterà lo sconvolgimento del territorio e bisognerà attutirne l’impatto. Ma con i lavori potranno venire alla luce nuove realtà e sarà un’occasione irripetibile per fare riscoprire quel territorio. Con la possibilità di mettere a sistema una serie di beni culturali tra Calabria e Sicilia…”.
Chiamato da Corrado Passera a dirigere la banca del gruppo Intesa che punta a “favorire il credito destinato alle infrastrutture e alle grandi opere” e a “partecipare a progetti urbanistici di sviluppo e di riqualificazione”, Mario Ciaccia ha promosso l’immagine di BIIS quale insostituibile polmone finanziario dei Signori del Ponte. Divenuta capofila del pool di banche che ha rilasciato la garanzia fideiussoria per la partecipazione alla gara ad Eurolink, il consorzio d’imprese aggiudicatario dell’appalto del Ponte (linee di credito per 350 milioni di euro), il 21 luglio 2009, Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo faceva sapere per bocca del suo amministratore delegato di essere pronta a intervenire direttamente nel finanziamento dei lavori. “Sono stati stanziati 1,3 miliardi e noi siamo pronti a mettere quello che serve e poi eventualmente a sindacarlo”, dichiarava Ciaccia.
“I soldi ci sono e da molto tempo. Il mondo bancario ha bisogno solo di certezze operative che solo la politica può dare”, spiegava Ciaccia, meno di un anno dopo, al convegno pro-Ponte organizzato dall’Ordine degli Ingegneri della provincia di Catania (co-relatori i rettori delle università di Enna, Salvo Andò, e Reggio Calabria, Massimo Giovannini; il direttore generale della Società Stretto di Messina, Giuseppe Fiammenghi; il presidente di Eurolink, Mario Lampiano). Poi in un’intervista a Specchio Economico, l’amministratore di BIIS interveniva a difesa delle grande opera messa in discussione da economisti, politici e organizzazioni sociali: “Al di là delle valutazioni di parte, al Ponte sullo Stretto partecipano grandi costruttori italiani e noi abbiamo il dovere di essere presenti perché le nostre imprese non si sentano sole. Se poi il nuovo Governo bloccasse l’opera, probabilmente vi sarebbero penali da pagare a chi si è aggiudicato l’appalto. Per ora abbiamo rilasciato fidejussioni e linee di credito che, ovviamente, hanno un costo. Come ha un costo il fatto che un’impresa si sia dedicata anche finanziariamente e tecnicamente a un’opera invece che a un’altra”.
Ponte sì dunque e ad ogni costo, ma non solo Ponte. Sotto la direzione del neo-viceministro dell’Economia, delle infrastrutture e dei trasporti, la banca ha finanziato grandi progetti in Italia ed all’estero dal valore complessivo di oltre 30 miliardi di euro. “Abbiamo erogato finanziamenti all’Anas per la realizzazione della terza corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma, per un importo di 390 milioni di euro; e del secondo lotto della Salerno-Reggio Calabria, per oltre 430 milioni di euro”, ha aggiunto Ciaccia su Specchio Economico. “Siamo presenti nel Passante di Mestre con un investimento di 800 milioni di euro e abbiamo favorito la realizzazione di parcheggi in varie città per un importo di 130 milioni. Abbiamo attuato il collocamento e la sottoscrizione di parte dell’emissione obbligazionaria della ex società Infrastrutture Spa per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Milano-Napoli, per un importo di 320 milioni di euro. Siamo i consulenti per la realizzazione e gestione delle autostrade Brescia-Bergamo-Milano e delle Tangenziali esterne di Milano, rispettivamente per 1,6 e 1,4 miliardi di euro”. Mario Ciaccia non lo dice, ma Intesa Sanpaolo è azionista per il 39% di Autostrade lombarde, soggetto promotore della BreBeMi; inoltre controlla il 5% del capitale di Tem, a cui si aggiunge uno 0,25% di azioni in mano direttamente a BIIS. Inutile tentare di comprendere dove passi la demarcazione tra controllori e controllati specie adesso che in Italia governano i conflitti d’interesse.
Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo è inoltre advisor dell’autostrada regionale Cremona-Mantova (project financing da 430 milioni) e della Pedemontana Veneta, l’autostrada che collegherà le province di Bergamo, Monza, Milano, Como e Varese. BIIS controlla il 6,03% della società di gestione della Pedemontana e contestualmente si occupa dell’arranging del debito, stimato in circa 3 miliardi di euro su un costo complessivo dell’opera di 4,7 miliardi. Nell’agosto 2010, la banca di Ciaccia ha poi concesso un credito di 15,7 milioni ad Invester, la finanziaria dell’imprenditore lombardo Rino Gambari, primo socio privato della Brescia-Padova, ricevendo in pegno le quote di proprietà della società autostradale. Della “Serenissima”, Intesa Sanpaolo detiene già il 6% del capitale attraverso la controllata Equiter.
BIIS è attiva nel settore ferroviario attraverso il controllo diretto di Cofergemi, la società che si occupa della linea ad alta velocità Genova-Milano. Inoltre controlla il 12% di Portocittà, la Spa che intende ristrutturare il porto di Trieste. In Liguria ha intrapreso una partnership con Regione e amministrazione comunale di Genova per lo sviluppo di grandi progetti come il Terzo Valico, la Gronda di Ponente ed il rafforzamento delle infrastrutture portuali locali (oltre 7 miliardi di investimenti). BIIS ha pure sottoscritto crediti per un miliardo di euro a favore delle imprese impegnate nei lavori della nuova Fiera di Milano ed è arranger di alcuni dei più discutibili programmi destinati alla Sicilia, come il “miglioramento dell’adozione idrica” di Siciliacque Spa (investimenti per 564 milioni) e la realizzazione dei termovalorizzatori da parte di un pool d’imprese a guida Falck (1,2 miliardi) e Sicil Power (450 milioni).
Altro importante settore d’intervento della banca di Ciaccia è la cosiddetta “cartolarizzazione dei crediti sanitari”, attraverso l’emissione di obbligazioni costruite sui crediti vantati da aziende del settore nei confronti delle Regioni (in prima fila Abruzzo, Molise, Lazio, Campania e Sicilia). “Sempre nel campo delle cartolarizzazioni, la BIIS ha lanciato il 23 dicembre 2009 una maxi da 1,33 miliardi legata ad un portafoglio costituito da titoli obbligazionari emessi da enti locali italiani, mentre il 24 luglio 2009 ha realizzato l’attesa emissione da 3 miliardi di euro di obbligazioni bancarie garantite da crediti al settore pubblico”, ricorda Gino Sturniolo della Rete No Ponte, autore di un saggio sulle speculazioni del capitale finanziario nostrano. “A ben vedere – aggiunge Sturniolo - si tratta di operazioni che approfittano della carenza di liquidità dell’ente pubblico per sostituirsi ad esso ipotecando il futuro. Cosa accadrà quando i pedaggi autostradali non saranno sufficienti a coprire l’investimento iniziale, i comuni non saranno in grado di far fronte ai debiti, le Regioni a pagare le spese sanitarie?”.
Mario Ciaccia non nutre comunque alcun dubbio sul potere taumaturgico del dirottamento di massicce risorse pubbliche, specie se a favore delle grandi opere consacrate dalla legge Obiettivo. Il 3 febbraio 2010, intervenendo al convegno dell’Istituto latino-americano su “La cooperazione economica pubblico-privato”, l’odierno viceministro l’ha sparata più grossa del Berlusca: “Investendo 50 miliardi di euro l’anno così da coprire un fabbisogno infrastrutturale di 250 miliardi, il minimo per far fronte alla crisi economica ed energetica e riprendere lo sviluppo, si potrebbero ipotizzare nell’arco di un quinquennio circa 3,5 milioni di nuovi posti di lavoro”. Tre volte e mezzo in più degli occupati promessi dal leader massimo del Pdl, ma con dosi massicce di denaro pubblico che richiederebbero in un lustro chissà quante manovre finanziarie lacrime e sangue. La prima dell’era Monti-Passera-Ciaccia è già arrivata. Per le altre si dovrà attendere che passino le feste di Natale.
È una grande opera sui generis la galleria Val di Sambro della Variante di Valico sul tratto appenninico dell’Autostrada del Sole tra Firenze e Bologna. A differenza delle altre infrastrutture rimaste quasi tutte al palo, questa sta andando avanti e secondo i piani ufficiali dovrebbe essere pronta nel 2013. Sono già stati bucati 3 chilometri su un tracciato complessivo di 3 chilometri e 800 metri, ma per una volta tanto e paradossalmente, forse sarebbe meglio che i lavori si fermassero. Per un motivo semplice: secondo molti esperti, tecnici e geologi, il tracciato scelto è sbagliato e quel tunnel potrebbe diventare più dannoso che utile, probabilmente inutilizzabile nel giro di pochi anni. E non tanto perché lo scavo sta trasformando le frazioni di Ripoli di Sotto e Santa Maria Maddalena nel comune di San Benedetto Val di Sambro in paesi fantasma, da cui gli abitanti devono fuggire perché le case in cui hanno vissuto per decenni, minacciate dalle crepe, stanno diventando pericolose.
C’è un problema più grosso e più serio che riguarda tutti. C’è il rischio molto concreto che quella galleria che costa circa 200 milioni di euro diventi inutile. Chiariamo subito: a differenza di tante altre grandi opere, la Variante di valico è necessaria perché il tracciato attuale dell’Autosole è insufficiente, spesso intasato e siccome si inerpica a quote notevoli, quando nevica i camion e le auto spesso scivolano e si piantano di traverso e l’Italia viene spaccata in due. La galleria Val di Sambro corre a una quota più bassa, 300 metri circa. Su di essa di lato e dall’alto stanno premendo milioni e milioni di metri cubi di terra, una serie di frane gigantesche che già un tempo si erano mosse e che di nuovo si sono messe in movimento probabilmente proprio a causa dei lavori di scavo.
Gli esperti dicono che non ci sono ripari di fronte a fenomeni del genere, pensare di arrestare artificialmente tutta quella terra sarebbe come voler svuotare il mare col secchiello. Nonostante le sue misure notevoli, 16 metri di larghezza e 14 di altezza, la galleria al cospetto delle frane è come una canna al vento, non può fare a meno di muoversi. Secondo alcuni esperti se si andasse avanti con l’attuale tracciato c’è il rischio che il tunnel si sposti e nel giro di pochi anni non combaci più con il tracciato autostradale all’aperto. Cioè, c’è la possibilità che autostrada e galleria non siano più una il prolungamento dell’altra. A quel punto la galleria Val di Sambro sarebbe inutilizzabile, quel tratto autostradale diventerebbe impraticabile e l’Italia resterebbe spaccata in due non per qualche ora, ma in via definitiva e si dovrebbe rifare tutto.
Sono arrivati a questa conclusione, per esempio, tre professori dell’Università Federico II di Napoli, Luciano Picarelli, Antonio Santo e Carlo Viggiani, che hanno effettuato uno studio per conto della società di costruzioni di Carlo Toto che assieme a Vianini, Profacta e alla cooperativa Cmb ha preso in appalto i lavori del tunnel da Autostrade della famiglia Benetton. Secondo i tre esperti c’è “l’elevata probabilità, anzi, a nostro parere la certezza, che entro pochi anni il tronco autostradale subirà danni non irrilevanti e incontrerà problemi di esercizio”. E non ci sono rimedi perché “qualunque soluzione non porterebbe comunque all’arresto immediato dei movimenti” e quindi gli eventuali interventi “non porterebbero a una soluzione radicale del problema”.
La società Autostrade, però, è di avviso completamente opposto, non prende neanche in considerazione il rischio. In una nota al Fatto i tecnici della società dei Benetton ammettono che “quando si scava una galleria in terreni come quelli sull’Appennino tosco-emiliano si mettono in moto movimenti molto lenti al contorno delle gallerie”. Ma aggiungono con sicurezza che “quando finisce lo scavo quei movimenti rallentano immediatamente e poi si fermano. Sono pertanto prive di fondamento le tesi che sostengono a breve l’inutilizzo delle gallerie, così come sono prive di fondamento le notizie che sostengono che il paese di Ripoli è in pericolo”.
Una posizione netta, sicuramente frutto di valutazioni ponderate, ma su cui autorevoli ambienti estranei alla società fanno gravare un sospetto: che Autostrade, il gruppo che finanzia l’opera, voglia assumersi a tutti i costi il rischio elevato della costruzione della galleria così da poter conteggiare gli investimenti effettuati nella partita degli aumenti delle tariffe autostradali in base alla convenzione ministeriale .
I dati forniti dagli inclinometri e dai monitoraggi consegnati al pubblico ministero Morena Plazzi, che ha avviato un’inchiesta sui lavori della galleria in cui ipotizza il reato di disastro colposo per il momento a carico di ignoti, e che Il Fatto ha potuto leggere, attestano uno spostamento eccezionale di quei terreni intorno allo scavo, in media un centimetro al mese negli ultimi tempi, secondo le rilevazioni del 7 settembre. C’è un precedente simile su quel tratto di autostrada e risale al 1969, appena 9 anni dopo l’inaugurazione dell’Autosole. La stessa frana che oggi si è rimessa in moto costrinse allora i tecnici ad abbandonare un pezzo del vecchio tracciato dopo aver costruito in fretta un bypass di 2 chilometri e mezzo, l’attuale variante Banzole-Ca’ Camillini. Italstrade, società dell’Iri allora proprietaria dell’autostrada inviò sul posto uno dei suoi dirigenti migliori, il condirettore centrale Dino Ricci. Il quale oggi abita proprio da quelle parti e ricorda: “Non avemmo un attimo di esitazione di fronte a una frana di quelle dimensioni e quindi avviammo subito i lavori del bypass. Oggi la situazione è esattamente come allora”.
I Beni culturali sono in fermento. Oggetto di contesa è la poltrona di Segretario generale, il vertice del ministero, fino a qualche giorno fa occupata da Roberto Cecchi, appena nominato sottosegretario. Sul sito web del ministero quel posto risulta vuoto. E a molti è apparso naturale che, ottenuto un ruolo politico, Cecchi presentasse le sue dimissioni. Un candidato alla successione sarebbe anche pronto: Antonia Pasqua Recchia, attuale direttore generale dei beni artistici e storici, paesaggistici e architettonici.
Ma a tutt´oggi le dimissioni, sollecitate anche all´interno del governo, non sono state presentate. Contro il doppio incarico si è espressa la Uil. Affinché Cecchi resti su entrambe le poltrone è intervenuto invece un altro sindacato, la Confsal-Unsa. Ieri ha scritto una lettera a Lorenzo Ornaghi e al premier Mario Monti la presidente di Italia Nostra, Alessandra Mottola Molfino, che dà per acquisite le dimissioni e che chiede al governo «una nuova fase»: sarebbe assolutamente urgente, si legge nella lettera, «che nel massimo ruolo tecnico del ministero, il segretariato generale, sia chiamato chi abbia le capacità per imprimere un decisivo cambio di passo, quando non un´inversione di rotta».
Cecchi non è mai citato, ma è evidente che la più antica delle associazioni di tutela del patrimonio in Italia si riferisce a lui quando chiede di voltar pagina. A Cecchi Italia Nostra imputa di essersi appiattito sul vertice politico del ministero, in particolare quando ministro era Sandro Bondi. Sul versante della tutela paesaggistica, per esempio, si è in una condizione di inerzia. Inoltre l´azione dei commissari, da Pompei a Roma (dove commissario è lo stesso Cecchi), «oltre ad altri gravi effetti negativi e sprechi di risorse, ha di fatto prodotto una smagliatura nella struttura ministeriale». Nell´area archeologica romana molti fondi sono stati destinati a indagare un presunto rischio sismico mentre, come ha mostrato il nubifragio di ottobre, c´è un serio problema idrogeologico. E altre risorse, tante, sono andate per la pubblicazione dell´ultimo rapporto che squaderna i meriti del commissario: 68 mila euro che, calcola Italia Nostra, sono molto di più dei 48 mila che in un intero anno si spendono per le missioni dei funzionari di soprintendenza. «Nei rapporti per Roma e anche nel piano di Cecchi per Pompei», dice Maria Pia Guermandi, archeologa, consigliere nazionale di Italia Nostra, «il ricorso acritico a strumentazioni tecnologiche copre la mancanza di reale innovazione scientifica».
E poi c´è l´appalto per il restauro del Colosseo, duramente contestato dall´Associazione restauratori. E ancora: la vicenda del Crocifisso attribuito a Michelangelo e acquistato alla cifra di 3 milioni 250 mila euro, un´opera, con ogni probabilità, "seriale" e di autore minore (su tutto questo sta indagando la Corte dei Conti). O la storia della commode, il prezioso mobile settecentesco di cui Cecchi ha autorizzato l´espatrio. E poi i conflitti con alcuni dei migliori soprintendenti (Elio Garzillo e Francesco Scoppola, per esempio), spesso sfociati in trasferimenti. Per Italia Nostra è indispensabile che il nuovo segretario generale «sia finalmente in possesso di un curriculum, oltre che di comprovate competenze, di specchiata trasparenza e quindi al di sopra di ogni sospetto».
Due a zero. Sconfitta doppia per il fronte che si oppone a Veneto City: la mozione contraria al megainsediamento sulla Riviera del Brenta tra Dolo e Pianiga è stata bocciata in aula, al termine di un consiglio straordinario che doveva fare chiarezza e invece ha alimentato la confusione. Fuori dall’aula neanche l’ombra di quei comitati che raccolgono firme e si sono mobilitati contro la colata di cemento. Il cui impatto, si dice, sarà attenuato dallo sviluppo in altezza: ma sempre di 2 milioni di metri cubi si tratta, che se volessimo mettere distesi sarebbero un capannone largo 12 metri, alto 7 e lungo 23 chilometri, come la carreggiata dell’autostrada da Padova Est a Mestre Villabona.
L’assenza del sostegno popolare, che pure esiste nel territorio, è un autogol per l’opposizione che aveva chiesto la seduta straordinaria e la dice lunga sul livello di compromessi e di ipocrisia tenuto da tutti i partiti in questa vicenda. La risoluzione che chiedeva alla giunta di «sospendere la procedura autorizzativa per Veneto City» è stata bocciata con 23 voti (Pdl e Lega), favorevoli in 18(Pd, Udc, Idv e Sinistra), astenuti 3. Questi ultimi sono Nereo Laroni, Carlo Alberto Tesserin e Diego Bottacin. Impossibile riportare il dibattito.
A rischio di inimicarci l’intero Consiglio citiamo per esteso solo gli interventi di Laroni e di Tesserin, per la forza d’urto che hanno avuto. Laroni parte dal dissenso originario di Veneto City tarsformatosi lentamente in consenso attraverso «fluidificazioni successive». E la parola «fluidificazioni», che dice e ripete per indicare il cambiamento d’opinione dei sindaci della Riviera che diventano favorevoli a Veneto City per motivi di cassa, coincide sempre di più con la parola euro. E’ il business che guida Veneto City, la Torre di Jesolo, il Quadrante di Tessera, l’autodromo Motor City di Verona: «Ma noi qui che ci stiamo a fare?», la pianta dura il vecchio Nereo. «La programmazione è compito nostro o di Enrico Marchi, di Giuseppe Stefanel o del giulivo Luigi Brugnaro, persone che legittimamente perseguono i loro interessi, mentre noi ci occupiamo di griglie roventi? Io non approverò nessun documento favorevole a Veneto City se il governo regionale non lo inserisce nella programmazione». Gran soprassalto di orgoglio politico, peccato che il legislatore l’abbia già fatto: Veneto City è stata inserita nel Ptrc dall’assessore all’urbanistica Renzo Marangon nel 2008, naturalmente molto dopo che l’operazione era stata avviata dagli amici del presidente Galan. Il quale il 28 novembre 2005 a domanda rispondeva di non sapere nulla.
Lo smentisce l’appassionato intervento di Tesserin, che da consigliere provinciale di Venezia ricorda all’aula come sia stato nel 2004 il presidente Davide Zoggia, Pd, a spiegare che Veneto City si sarebbe fatta perché c’era l’accordo con la Regione di Giancarlo Galan. E’ un velo di ipocrisia che cade, lasciando nudi i partiti, sia centrodestra che centrosinistra. Chissà perché Giovanni Furlanetto, leghista, pensa di essere fuori dal mucchio nobilitando il voltafaccia della Lega, che ieri si opponeva a Veneto City e oggi la sostiene, con le modifiche che il comune di Dolo ha imposto ai progettisti. Luca Zaia, che non ha partecipato al dibattito, fa sapere che non metterà «mai la firma» su un progetto che arrivi sul suo tavolo senza l’ok di Comuni e Province. Significa che la conferenza dei servizi, appena chiusa per Veneto City, non ha esaurito l’iter.
Postilla
Singolare, per un giornalista veneziano, considerare strano che a una riunione del Consigio regionale, che si tiene nella città storica di Venezia, alle 10,30 di una giornata lavorativa, non partecipassero le mase di cittadini della Riviera del Brenta che da anni si battono in massa contro il turpe episodio di speculazione, promosso da potenti gruppi finanziari cn collegamenti su tutti i versanti dello schieramento politico di destra e di centrosinistra, accettato dai sindaci dell’uno e dell'altro versante per un po’ di euri. Ma i combattivi comitati della riviera del Brenta dicono che la storia non è finita.
A Roma l'intellighenzia discute. Tronti: «Se non proviamo a fare qualcosa abbiamo già perso». Bertinotti: «Ormai capitalismo e democrazia sono incompatibili»
La reazione non è stata fulminea, ma ora le opposizioni da sinistra al governo Monti preparano le loro contromanovre. Dentro e fuori il parlamento, fin qui in ordine sparso. Ieri l'Idv alla Camera ha presentato la sua: Massimo Donadi, Augusto Di Stanislao e il senatore Pancho Pardi hanno annunciato il combattimento «fino all'ultimo emendamento perché la manovra cambi». Altrimenti il partito di Di Pietro voterà no. Lotta all'evasione, risparmiare 50 miliardi sulle spese per gli armamenti («a partire dai 18 miliardi che la Difesa ha messo in bilancio per 131 cacciabombardieri F35, che non servono a missioni di pace») e una gara per l'assegnazione delle frequenze tv «anziché darle a Rai e Mediaset gratuitamente». Gli stessi capitoli, più la patrimoniale e lo stop alla falcidia delle pensioni basse, sono alcune delle proposte che il Prc ha presentato al congresso di Napoli, lo scorso week end. Anche i verdi i preparano la mobilitazione contro le spese militari: «Pronti alla disobbedienza civile», dice Angelo Bonelli: «Perché l'Italia non fa come la Germania che ha tagliato la spesa militare di 10 miliardi?». Sulla gara per le frequenze si muove invece la sinistra Pd.
Oggi tocca a Sel. A Roma Nichi Vendola presenta la sua contromanovra: «O si dice patrimoniale e si interviene sui grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, oppure è difficile credere che un pensionato a 900 euro al mese debba anche sobbarcarsi il costo della manovra. Per me è inaccettabile». La critica è a Monti, ma perché anche il Pd intenda. Ieri sono già volati stracci fra Bersani e Di Pietro. Il leader Idv ha alzato il tono contro chi voterà la manovra e quello del Pd lo ha invitato a non «scantonare» altrimenti «ci saranno problemi ad andare d'accordo». Tradotto: giù i decibel altrimenti saltano le future alleanze. Ma la rottura dei patti «prematrimoniali» del Nuovo Ulivo è ormai a un passo. E anche Massimiliano Smeriglio, responsabile economico di Sel, molto duro sulla manovra, dice: «Chi siede in parlamento trovi la determinazione per cambiare una manovra sbagliata, ingiusta e recessiva. Chi voterà la manovra Monti oggi difficilmente potrà costruire l'alternativa domani».
Parole impegnative, sintomo di un possibile rimescolamento di carte nella sinistra. Una sinistra che, nel frattempo, discute sulle proprie prospettive. E infatti ieri a Roma si è ritrovata in un dibattito sull'Europa che aveva un'intera sessione intitolata «Governi di sinistra o sinistre al governo». Padroni di casa tre pensatoi dell'alternativa, Altramente, Cercare ancora e Fondazione Rosa Luxemburg. Parterre ad alta densità di economisti, intellettuali e attivisti di movimenti. Il dibattito dura tutto il giorno, vola alto, ma per forza di cose precipita su cosa deve inventarsi la sinistra (questa) per fermare il governo dei tecnocrati Bce. «Monti è espressione di un golpe bianco iniziato nelle manovre estive di Berlusconi fino al compimento di questi giorni», attacca l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti. Il cuore del ragionamento riprende le tesi del suo ultimo saggio sull'«opportunità della rivolta»: «Il capitalismo finanziario europeizzato è tendenzialmente incompatibile con le forme della democrazia, che anzi vuole demolire». In estrema sintesi, la sinistra non è se non combatte il capitalismo. Quindi quella che abbiamo conosciuto fin qui sinistra non è più, «è morta». L'unica possibilità di resuscitarla sta nell'apertura di una «fase costituente dei movimenti».
«Prima di dichiarare morta una politica ho bisogno di averne un'altra», replica il professor Mario Tronti, filosofo e presidente del Centro riforma dello Stato. «Oggi si aprono grandi giochi della politica. Bisogna giocarli, non starne fuori è essenziale per non dare per scontata l'uscita a destra dalla crisi». «Fuori dal campo non si portano a casa risultati», insiste Pierre Carniti, segretario della Cisl fra gli anni 70 e 80. «La differenza tra stare dentro o fuori al recinto è la lotta contro la politica del debito», dice Roberto Musacchio ex europarlamentare Prc e oggi di Altramente, che propone un «audit popolare sul debito» per ricostruire la cronistoria e le responsabilità dell'indebitamento italiano. In effetti «è una strana opposizione quella che abbiamo oggi, un'opposizione che collabora con i governi che hanno portato l'Italia nel baratro», conclude Alfonso Gianni di Sel, «e invece serve un'opposizione di qualità che si ponga il tema del governo, non in termini di potere ma come poter cambiare la società. Ma per farlo da sinistra, piuttosto che allontanare le forze politiche dai movimenti, serve movimentare le forze politiche e politicizzare i movimenti».
Quattro o cinque caffè a testa per mantenere il grande "tesoro" dei nostri 24 Parchi nazionali e (in totale) delle nostre 871 Aree protette. Attraverso il ministero dell’Ambiente, lo Stato italiano spende la miseria di circa 70 milioni di euro all’anno, per finanziare questo straordinario deposito di biodiversità: cioè di boschi, fauna e paesaggio. A cui si aggiungono altri 180 milioni delle Regioni per i parchi e le aree regionali. Un giacimento naturale che, in termini di benefici economici e sociali, arriva a rendere fino a 6-7 volte un investimento così modesto.
A vent’anni dall’approvazione della legge-quadro sui Parchi, la n. 394 del 6 dicembre 1991, l’occasione è stata propizia per fare un consuntivo e un bilancio di previsione per il futuro prossimo venturo. In un convegno organizzato a Roma dalla Federparchi, si sono confrontati parlamentari, ambientalisti, dirigenti locali. E se il giudizio sulla "394" è risultato generalmente positivo, come hanno riconosciuto gli ex ministri dell’Ambiente Edo Ronchi e Valdo Spini, non sono mancati però motivi di riflessione e di ripensamento per adeguare la legge alle nuove esigenze imposte dalla crisi economica e da quella climatica.
In bilico tra conservazione e sviluppo, il complesso dei Parchi e delle Aree protette copre il 10% del territorio nazionale: complessivamente una superficie di oltre tre milioni di ettari a terra e di 2,8 milioni a mare, comprendendo 658 chilometri di costa protetta. A dispetto dello "spread" che incombe sui nostri titoli pubblici, questo sistema è riconosciuto come uno dei più organizzati e strutturati d’Europa. Assicura l’occupazione diretta a poco più di diecimila dipendenti e alimenta altri novantamila posti nell’indotto (turismo, agricoltura e commercio), attirando circa 37 milioni di visitatori ogni anno con un numero di presenze alberghiere che sfiora i cento milioni e un giro d’affari complessivo che supera un miliardo di euro.
Dalle montagne al mare, dunque, un’imponente "infrastruttura naturale" che custodisce la biodiversità, salvaguarda l’assetto del territorio, preserva il paesaggio. Ma che oggi è chiamata anche a contrastare il cambiamento climatico e le sue disastrose conseguenze, come un polmone verde nel corpo vitale del Paese. E perciò, a vent’anni di distanza, si ritrova a fare i conti con le incognite e le incertezze di uno scenario in rapida evoluzione.
È confortante che dal dibattito sulla "394" sia emersa la conferma di una "trasversalità politica" - sottolineata dallo stesso presidente della Commissione Territorio e Ambiente del Senato, Antonio D’Alì (Pdl) - che ha preceduto la fase di tregua istituzionale introdotta dal governo Monti. C’è al fondo la consapevolezza comune che - come ha detto Giampiero Sammuri, presidente della Federparchi - "questo patrimonio naturale non è né di destra né di sinistra". Si può ben sperare, perciò, che il confronto parlamentare in corso possa migliorare ulteriormente la legge nella prospettiva di un "federalismo ambientale" che dev’essere necessariamente declinato regione per regione, in modo da promuovere il territorio nell’ottica di una strategia nazionale.
Sono soprattutto due le questioni all’ordine del giorno, richiamate da Francesco Ferrante, senatore del Pd: la "governance" e le risorse. Da una parte, si tratta di allargare sempre più il governo dei Parchi agli enti e alle associazioni locali, per coinvolgerli più direttamente nella gestione. Dall’altra, ferma restando la necessità del finanziamento statale per garantire la funzione istituzionale di questo sistema, si discute su nuove forme di contribuzione privata in rapporto alle opportunità di valorizzazione economica: dalla bioagricoltura alla "green economy".
Con un recente sondaggio Ispo alla mano, il presidente del Wwf Italia, Stefano Leoni, ha avvertito che il 60% degli intervistati attribuisce ai Parchi la funzione fondamentale di "conservazione della natura", contro un 20% che parla invece di "educazione ambientale" e un altro 20% che si disperde in risposte diverse. Ma prima il presidente della Lipu (Lega protezione degli uccelli), Fulvio Mamone Capria, ha respinto l’ipotesi dell’area protetta come "riserva indiana". Poi è stato Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, a ricordare realisticamente che - a differenza della scuola - "i Parchi producono anche beni e merci, contribuendo ad alimentare l’identità territoriale".
Non c’è dubbio, comunque, che - di fronte alla crisi globale e in funzione della crescita - anche il "tesoro verde" d’Italia può svolgere un ruolo di volano economico, senza venir meno alla sua missione a tutela della biodiversità. La conservazione ambientale non deve corrispondere, però, a un atteggiamento di conservazione culturale né tantomeno politica.
Se ci atteniamo alle parole del ministro dell’ambiente italiano Corrado Clini, c’è da essere davvero molto preoccupati. «Durban sarà una missione esplorativa sulle modalità per trovare più avanti un accordo»: questa la dichiarazione del ministro rilasciata in un convegno prima del suo arrivo qui a Durban. Signor Ministro, noi non ci possiamo permettere di rimandare, non abbiamo tempo. Il nostro pianeta ed il nostro clima rispondono alle leggi della fisica e non a quelle dell’economia stabilite dalle banche e dalle multinazionali. Sono il sistema economico ed il modello di sviluppo che devono velocemente adattarsi e non viceversa. Se non lo capiamo, non ne usciamo. Il caos climatico non aspetta e se ne frega dei giudizi delle agenzie di rating.
Le irresponsabili parole del ministro sono l’esempio lampante dello scontro in atto qui al Summit mondiale sul clima. Sono passati venti anni da quando i governi e le istituzioni sovranazionali si sono assunti il dovere di tirare fuori l’umanità dal rischio catastrofe a cui il sistema economico estrattivista e produttivista ci esponeva. Dopo venti anni siamo immersi nel caos climatico ed economico e c’è ancora chi pensa come il nostro governo di rimandare, privilegiando gli interessi economici di pochi.
Questo il «clima» qui a Durban, dove continua a mancare la volontà concreta di salvare il patto di Kyoto, unico strumento per imporre misure vincolanti ad i grandi inquinatori. E questo nonostante le aperture della delegazione cinese, disponibile a patto che i paesi industrializzati si assumano maggiori tagli in virtù delle responsabilità storiche per i 200 anni di precedente industrializzazione che ha garantito sviluppo ed egemonia economica ai grandi inquinatori del nord del mondo, Usa su tutti. Del resto, come dargli torto?
Ma in questo clima di sfiducia e tatticismo sono diversi i governi pronti a rassicurare corporation e banchieri sul fatto che nulla cambierà nel breve e medio periodo, domani chissà. Il presidente sudafricano Zuma, ad esempio, ha incontrato ieri 500 uomini d’affari del settore del carbone. Le multinazionali sudafricane producono il 90% dell’energia elettrica di tutta l’Africa sub sahariana attraverso il carbone ed ovviamente di riconversione e di riduzione delle emissioni non vogliono sentire parlare. Troppo alti i profitti ed il controllo sul mercato. Ed anche la barzelletta della difesa dei posti di lavoro non regge più. È ormai diffusa la consapevolezza che con la riconversione energetica si creerebbero almeno 14 volte più posti di lavoro che con il sistema centralizzato energetico basato sui fossili.
“Volevo aggiungere il mio nome alla lista di quelli che chiedono una riconsiderazione da parte della soprintendenza per il lavoro progettato in Palazzo Vecchio. Questa idea di sacrificare Vasari per un’avventura donchisciottesca in cerca di una rovina leonardesca mi sembra fondamentalmente sbagliata. Spero che il buon senso fiorentino prevarrà”. Questa email di Keith Christiansen, stimatissimo conservatore della pittura europea del Metropolitan di New York, ha inaugurato l’incredibile pioggia di adesioni (oltre 400, molte qualificatissime) all’appello che appoggia l’esposto presentato da Italia Nostra alla Procura di Firenze per fermare la caccia al Leonardo fantasma. A sua volta, quell’esposto dichiara di partire da un mio articolo, pubblicato dal Fatto mercoledì scorso, che raccontava l’opposizione di una singola funzionaria coraggiosa. Un circolo virtuoso a cui è sempre più affidata la salvezza del nostro patrimonio storico artistico: la resistenza delle parti sane dell’amministrazione, una denuncia sulla stampa, l’attivazione delle insostituibili associazioni per la tutela, il risveglio di un’opinione pubblica qualificata capace di esercitare una pressione internazionale. E, alla fine, il buon senso ha prevalso davvero, anche se più quello romano che quello fiorentino: il MiBAC è intervenuto sulla soprintendente Acidini, e la caccia è stata sospesa.
Se Renzi, come minaccia di fare, si ostinerà nella ricerca, a questo punto dovrà farlo con mezzi non invasivi, cioè senza distruggere nemmeno un millimetro quadrato di un’opera d’arte certa, al fine di cercare un’improbabile rovina. Ma, oltre all’ottenuta sospensione, l’appello chiedeva la costituzione di un comitato scientifico autorevole e terzo rispetto ai promotori di una ‘ricerca’ dichiaratamente ispirata da ragioni di marketing. Infatti Renzi, pur agitando anche la bandiera della ricerca, si è ben guardato da rivolgersi a chi la ricerca della storia dell’arte la fa professionalmente tutti i giorni: la responsabilità scientifica dell’operazione è stata affidata a un ingegnere, peraltro oggi contestato dai suoi stessi colleghi, alcuni dei quali hanno firmato l’appello. Ma per decidere quale fosse la parete giusta su cui cercare, se e come farlo, quando fermarsi e cosa fare dopo, ci sarebbe invece voluto un comitato formato da storici dell’arte, storici delle istituzioni politiche rinascimentali, storia dell’architettura, storici del restauro e così via. A vegliare sull’aspetto conservativo c’era, è vero, l’Opificio delle Pietre Dure: ma dopo che la responsabile delle pitture murali, Cecilia Frosinini, si è sfilata dichiarando che si stava danneggiando Vasari, anche quella tutela non è sembrata affatto sufficiente. D’altra parte, l’Opificio è attualmente guidato dalla stessa Cristina Acidini che dirige la soprintendenza di Firenze. E, come ha ricordato in un’intervista Franca Falletti (direttrice della fiorentina Galleria dell’Accademia), i super-soprintendenti delle grandi città d’arte sono ormai nominati dalla politica con contratti che fanno molto dubitare della loro capacità di resistere alle pressioni politiche. D’altra parte, Matteo Renzi e il suo staff hanno proposto a più riprese di sopprimere del tutto le soprintendenze, passandone le competenze agli enti locali. Ora l’opinione pubblica sa quel che una simile catastrofe comporterebbe: senza l’opposizione di una funzionaria indipendente, il Salone dei Cinquecento si sarebbe presto trasformato in un groviera.
Infine, seguendo un copione alla Sandro Bondi, Renzi ha accusato i firmatari dell’appello di “élitarismo”, mentre lui sarebbe il democratizzatore.
«Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale, l'Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni ‘60, questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come di recente affermato da Wolfang Streeck, amministratore delegato dell'Istituto Max Planck per gli studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione».
Esplicitato dal finalista Pulitzer Adam Haslett sulle pagine del Corriere della Sera, il tarlo di questo pensiero inizia a diffondersi. Poggia i suoi passi sul terreno culturale offerto da economisti eterodossi, da storici e pensatori di ogni estrazione, senza però ancora riuscire ad approdare nelle sale dove si muovono le leve politiche del comando (o quel che di loro è rimasto).
Immersi nell'emergenza del momento, è così difficile anche solo riemergere per un attimo dal mare in tempesta della crisi, per prendere una boccata d'ossigeno e guadagnarsi una prospettiva che indichi dove si trova la linea della costa. L'unica strada percorribile sembra dunque quella di lasciare che il tessuto della democrazia venga strappato dal potere della finanza e dall'ossessione egoista della crescita, rimpiazzando la dignità dei cittadini con il marchio di consumatore/debitore affidabile o meno.
Il potere politico e, di riflesso, quello dei cittadini di disporre della propria sorte, si trova piegato nella condizione di una nuova servitù della gleba, velata dal miraggio della libertà. Non ci troviamo (ancora, e per fortuna) in una condizione di schiavitù, ma anche il rango di libero cittadino, a ben pensarci, è fuori dalla nostra portata.
Come i servi della gleba, per nascita ci troviamo a vivere nella condizione di consumatore/debitore; come tali, costretti a determinate corvées verso un complesso di comportamenti sociali uniformanti, pena l'essere etichettati come "consumatori difettosi" e quindi esclusi. Come servi della gleba, non siamo in grado di lasciare questo terreno culturale al quale siamo legati, costretti a lavorare, produrre e consumare per un sistema capitalistico ormai incentrato sul dominio della finanza e sull'allargarsi continuo delle disuguaglianze (come ci ricorda l'appena pubblicato rapporto Ocse).
Se il merito iniziale ed indiscutibile del sistema produttivo capitalista è stato - pur sempre al prezzo della disuguaglianza economica e sociale - quello di tirar fuori dall'indigenza miliardi di persone, verso un livello di benessere prima sognato da re e regine, la sua parabola è ora segnata solamente dalla permanenza e dall'ampliamento delle disuguaglianze preesistenti, verso l'implosione del sistema: torna alla mente il mito di Erisittone, punito dagli dei con una fame inestinguibile che lo porta a divorare se stesso.
La fine del mercato è comunque ben lontana. Di sistemi concretamente praticabili, l'orizzonte della storia non offre esempi da seguire (almeno, non all'interno di quei valori che l'Occidente si vanta di voler esportare nel resto del mondo). Piuttosto, sembra auspicabile fermarne la deriva, riprendendo e migliorando la strada socialdemocratica che l'Europa aveva iniziato a tracciare, ma della quale cerca di cancellarne le impronte, sopraffatta dall'ebrezza dell'unica, grande crisi del capitalismo che ci segue da anni.
Seguendo il volo d'uccello illustrato da Adam Haslett, vediamo la recessione dei primi anni '70, seguita da inflazione e disoccupazione. Proseguendo sulla linea temporale, gli anni '80 presentano l'ascesa incontrollata del debito pubblico, seguita dalla svolta tatcheriana, dal retrocedere dello stato sociale, dalle privatizzazioni dogmatiche e dalla deregolamentazione del settore finanziario che, impennandosi negli anni '90, ha raggiunto il suo acme con lo scoppio delle cosiddette bolle che, a partire dal 2008, ci hanno precipitato prima nella crisi bancaria e finanziaria - tamponata con risorse pubbliche che hanno fatto nuovamente esplodere i deficit statali, ora sotto accusa dallo stesso sistema finanziario.
Questa guerra di grafici e numeri, come piovuta dal cielo su cittadini ignari (che di spread, Pil, bond, per ignoranza o disinteresse, neanche avevano mai sentito parlare), trascina con se economia reale e legittimità democratica. Il momento richiede forse sacrifici per non innestare direttamente la marcia indietro sulle conquiste politiche del dopoguerra, come l'integrazione europea. Al prezzo, però, di perdere quelle economiche e sociali conquistate nello stesso arco di tempo? Camminiamo sul filo del paradosso.
Concessioni, per rimanere a galla in un momento di imbarazzo e cecità di governace come quello che stiamo vivendo, sono momentaneamente pensabili, e stanno soffertamente avvenendo. Il livello di guardia e di elaborazione culturale, come corrispettivo, deve alzarsi ancora di più: quel che più manca è un'elaborazione condivisa di un nuovo percorso da seguire, un percorso di sviluppo che non sia solo crescita.
Mentre l'agenzia di rating S&P decide di mettere nuovamente sotto la propria lente l'Europa, con 15 stati che rischiano un declassamento del proprio rating (stavolta non solo l'Italia, ma anche la Francia e la Germania), il presidente della Repubblica Napolitano ha emanato il decreto legge recante "disposizioni urgenti per la crescita, l'equità ed il consolidamento dei conti pubblici", primo parto del governo Monti: è chiaro che tale decreto rientri esclusivamente, ed amaramente, nell'ambito delle "concessioni momentanee" sopra ricordate. Niente ha da spartire con la definizione di una nuova linea di sviluppo sostenibile.
La strada da immaginare e percorrere è dunque ancora lunga. Passa per la partitura di un percorso sostenibile nel senso più pieno ed ampio del termine (economico, sociale ed ecologico), nel pieno rispetto dell'ecosistema che ci nutre, e che abbiamo il dovere morale di curare per le nuove generazioni. Altrimenti, i servi della gleba del XXI secolo saranno gli schiavi del secolo successivo.
Postilla
Riesce davvero difficile immaginare che possa portare lontano una strada che non superi tre caratteristiche del sistema capitalistico: 1) la riduzione d’ogni bene a merce, ivi compreso il lavoro dell’uomo; 2) la finalizzazione del processo economico .(produzione+consumo) al massimo guadagno dei possessori dei mezzi di produzione; 3) la riduzione d’ogni dimensione dell’uomo e della sua attività a strumento questa economia. Il percorso può anche essere (ahimè, sarà) lungo, ma bisogna aver chiaro quali ne sono l’obiettivo e la direzione.
Nel prepararci ad affrontare il quarto anno di crisi finanziaria globale, appare sempre più chiaro che il patto economico e politico che sta alla base della nostra società postbellica è ormai in pieno disfacimento. Non è più il caso di interrogarsi su quando le nostre società torneranno alla normalità, perché ciò non avverrà. Né dovremmo chiederci quando finirà la crisi, perché è destinata a prolungarsi forse per decenni. Ed è una crisi che cambierà la vita della stragrande maggioranza della popolazione più radicalmente di quanto non abbia fatto la fine della Guerra fredda o l'11 settembre.
Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale, l'Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni 60, questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come ha di recente affermato Wolfgang Streeck, amministratore delegato dell'Istituto Max Planck per gli studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione. Prima fra tutte, l'inflazione. Dovendo fronteggiare la recessione dei primi anni 70, i governi hanno preferito stampare denaro per stimolare i consumi e tenere a bada la disoccupazione. Ma entro la fine del decennio l'inflazione aveva strangolato i nuovi investimenti, facendo aumentare la disoccupazione.
Nei primi anni 80, ancora una volta davanti allo spettro della recessione, i governi hanno fatto ricorso alla spesa pubblica, gonfiando il deficit dello Stato per rilanciare i consumi, Usa e Gran Bretagna in particolare hanno ingaggiato un braccio di ferro con i sindacati nel tentativo di ostacolare le loro richieste di aumenti salariali.
Però, già nei primi anni 90, debito pubblico e difficoltà di bilancio avevano cominciato a innervosire i mercati finanziari. Nel tentativo di sostenere la crescita e al contempo ridurre il deficit, sia Washington che Londra hanno liberalizzato in maniera decisiva il settore finanziario. Lasciando carta bianca ai finanzieri di inventarsi e immettere sul mercato un'infinità di nuovi strumenti di gestione del debito privato, i governi hanno distolto lo sguardo dagli Stati sovrani, preferendo chiedere prestiti da aziende e individui in grado di finanziare i loro consumi (e speculazioni), finendo per indebitare le future generazioni.
Ne sono venute fuori due bolle degli asset, la prima nel settore informatico e la seconda nel mercato immobiliare americano, provocando il crollo di Lehman Brothers nel 2008 e dando avvio all'attuale crisi. Pertanto, se consideriamo il contesto storico, è lecito affermare che ciò che è in fase di sviluppo non può definirsi semplicemente una contrazione particolarmente grave del ciclo economico ordinario, destinata a esaurirsi. No, oggi assistiamo all'accelerazione di una crisi endemica delle economie occidentali che va aggravandosi da un quarantennio, man mano che si è tentato di ripetere i successi economici, considerati «normali», di quello che era in realtà un periodo storico anomalo, ovvero gli anni del dopoguerra. Inoltre, nel corso degli ultimi due decenni, l'industria finanziaria, sgravata da ogni vincolo, si è conquistata un potere politico talmente grande da bloccare qualsiasi riforma delle sue operazioni, in particolare su scala globale, dove sono indispensabili, imponendo la pratica della distribuzione verso l'alto dei profitti raccolti.
Negli Usa, stagnazione economica e ripartizione sempre più oligarchica della ricchezza hanno innescato proteste popolari su una scala che non si vedeva dagli anni 60. Nel frattempo in Europa l'euro rischia di sparire e l'intero progetto postbellico di integrazione potrebbe da un momento all'altro inserire la marcia indietro, molto più in fretta di quanto si possa immaginare. I governi tecnici insediati in Grecia e Italia sono probabilmente condannati al fallimento perché le misure varate non sono legittimate dal suffragio popolare. Negli Usa, l'egemonia del mercato si fa sentire attraverso i contributi illimitati che il mondo finanziario e industriale può offrire alla campagna elettorale, e tramite le pressioni esercitate sul Congresso si rivela capace di aggirare e vanificare le scelte popolari a favore di una più equa ridistribuzione della ricchezza.
Sia al di qua che al di là dell'Atlantico, le esigenze delle élite finanziarie si scontrano con la volontà popolare, apertamente ignorata. Se dovessero radicarsi, tali tendenze potrebbero sfociare in un assetto politico non più riconoscibile come democrazia, dando vita a un sistema capitalistico, sì, ma non democratico. È assai poco rincuorante constatare che l'attuale crisi non rappresenta che un semplice ingranaggio nell'evoluzione storica complessiva del capitalismo occidentale, che continua a ridistribuire la ricchezza verso l'alto, a indebolire le istituzioni democratiche e a concentrare il potere nelle mani di pochi individui. È questa forza trascinante che continuerà a influenzare la nostra vita nei prossimi decenni, non le vicende altalenanti delle odierne difficoltà economiche. E se per il momento non è possibile imbrigliare questa forza, non ci resta che sforzarci di comprenderla con maggior chiarezza.
(traduzione di Rita Baldassarre)
Tendiamo a dimenticare che in tutti i monoteismi, il cuore non è la sede di passioni o sentimenti sconnessi dalla ragione. Nelle tre Scritture, compresa la musulmana, il cuore è l´organo dove alloggiano la mente, la conoscenza, il distinguo. Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c´è un sapere tecnico del mondo. Per questo il pianto del ministro Fornero, domenica quando Monti ha presentato alla stampa la manovra, ha qualcosa che scuote nel profondo. Perché dietro le lacrime e il non riuscire più a sillabare, c´è una persona che sa quello di cui parla: in pochi attimi, abbiamo visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici che oggi faticano a rinnovarsi. Pascal avrebbe detto probabilmente: il ministro non ha solo lo spirito geometrico, che analizza scientificamente, ma anche lo spirito di finezza, che valuta le conseguenze esistenziali di calcoli razionalmente esatti. Balbettavano anche i profeti, per esprit de finesse.
È significativo che il ministro si sia bloccato, domenica, su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l´atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s´incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi. Non saper proferire il verbo senza che il cuore ti si spacchi è come una rinascita, dopo un persistente disordine dei vocabolari. È come se il verbo si riprendesse lo spazio che era suo. Nella quarta sura del Corano è un peccato, «alterare le parole dai loro luoghi». Credo che l´incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro – un segno dei tempi, quasi – di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d´un colpo pietra incandescente. Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre. Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover – per salvare la pòlis – sgozzare il capro espiatorio, l´innocente.
Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, e anche questo sembra la missione che Monti dà a sé e ai partiti. Riportare nel loro luogo le parole significa molto più che usare correttamente i dizionari: significa rimettere al centro concetti come il tempo lungo, il bene comune, il patto fra generazioni. Significa, non per ultimo: rendere evidente il doppio spazio – nazionale, europeo – che è oggi nostra cosmo-poli e più vasta res publica. Il presidente del Consiglio lo sa e con cura schiva il lessico localistico, pigro, in cui la politica s´è accomodata come in poltrona. Stupefacente è stato quando ha detto, il 17 novembre al Senato: «Se dovete fare una scelta – mi permetto di rivolgermi a tutti – ascoltate! non applaudite!».
L´applauso, il peana ipnotico (meno male che Silvio c´è), le grida da linciaggio: da decenni ci inondavano. Era la lingua delle tv commerciali, del mondo liscio che esse pubblicizzavano, confondendo réclame e realtà: illudendo la povera gente, rassicurando la fortunata o ricca. Erano grida di linciaggio perché anch´esse hanno come dispositivo centrale il sacrificio: ma sacrificio tribale, che esige il capro espiatorio su cui vien trasferita la colpa della collettività. Erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi. E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose. La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l´idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze. Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto.
Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più. Anche il ministro Giarda si è presentato domenica come medico delle parole: «Son qui solo per correggere errori». Non ha esitato a correggere i colleghi, e ha avuto l´umiltà di dire: «Se avessimo più tempo, certo la nostra manovra sarebbe migliore». Monti ha fatto capire che questa, «anche se siamo tecnici», è però politica piena: «L´esperienza è nuova per il sistema politico italiano. A noi piace esser cavie da questo punto di vista». Singolare frase, in un Paese dove a far da cavie sono di solito i cittadini. Ma frase coerente alla politica alta: dotata di una veduta lunga, indifferente alla popolarità breve.
Pensare i sacrifici non è semplice, perché gli italiani e gli europei da tempo si sacrificano, e tuttavia constatano disuguaglianze scandalose. Perché sacrificandosi deprimono oltre l´economia. Lo stesso Sarkozy, che campeggiò come Presidente che poteva abbassare le tasse ai ricchi visto che le cose andavano così bene, è oggi costretto ad ammettere che i francesi «stringono la cinghia da trent´anni». Quel che è mancato, nel sacrificio cui i popoli hanno già consentito, è l´equità, l´abolizione della miseria, delle disuguaglianze. Forse – l´emozione dei potenti resta misteriosa – Elsa Fornero ha pianto perché le misure sono dure per chi ha pensioni grame. Se solo le pensioni sotto 936 euro saranno indicizzate all´inflazione, tante pensioni basse rattrappiranno come pelle di zigrino.
Si poteva fare diversamente forse, e non tutte le misure sono ardite. La lotta all´evasione fiscale iniziata dall´ultimo governo Prodi ricomincia, ma più blanda. La cruciale tracciabilità introdotta da Vincenzo Visco (1000 euro come soglia, da far scendere in due anni a 100) è fissata durevolmente a 1000. Oltre tale cifra è vietato accettare pagamenti in contanti, che sfuggono al fisco: una draconiana stretta anti-evasione è evitata. Né si può dire che tutto sia equo, e la crescita veramente garantita.
Il fatto è che si parla di decreto salva-Italia, ma si manca di chiarire come il decreto sia anche salva-Europa. Non è un´omissione irrilevante, perché il doppio compito spiega certe durezze del piano. Speriamo sia superata. Ogni azione italiana, infatti, è urgentissimo accompagnarla simultaneamente ad azioni in Europa: per smuovere anche lì incrostazioni, privilegi, dogmi. Per dire che non si fa prima «ordine in casa» e poi l´Europa, come nella dottrina tedesca, ma che le due cose o le fai insieme, con un nuovo Trattato europeo più solidale e democratico, o ambedue naufragheranno.
Erano esattamente le 22,48 quando Roberto Benigni ha fatto irruzione cantando, un po’ stonato, «La porti un bacione a Firenze», nell’ultima puntata di «Il più grande spettacolo dopo il weekend», Raiuno: era attesissimo, ma Fiorello tergiversava. Anche troppo. Alla fine, non è stato uno dei migliori interventi del comico toscano. La stessa gag «parlo di Berlusconi o no, Mazza vuole che ne parli, mi ha detto “daje”» sembrava una reale incertezza. Forse davvero Benigni era tentato, saggiamente, di non parlare più dell’ex premier, ma poi, trascinato da una sorta di «voluptas», lo ha fatto. Alternando sfottò a Berlusconi, e complimenti al conduttore. Ammiccando al pubblico: «Non c’è più». E, rivolgendosi a Rosario: «Sei il più grande show man d’Italia. Sei rimasto l’unico. A meno che non voglia dare le dimissioni anche tu…». «Da quando è cominciato questo programma, non mi sono mai perso il Grande Fratello. Mi è piaciuta l’idea di quando parli con i capi di Stato stranieri. L’ho già sentita, un comico che parla con i capi di Stato…». «Le più belle dimissioni degli ultimi 150 anni». «I tagli? Alla Roma l’altro giorno giocavano tre in meno. Questa crisi è terrificante. Ci sono i momenti belli e i momenti brutti. Anche in televisione. Ora c’è Fiorello, dopo c’è Vespa. Che ieri ha parlato di te, e stasera c’è Monti. Monti, è il suo destino, viene sempre dopo un comico. Non siamo mica nel Medioevo, non c’è gente, nei parlamenti, con avvisi di garanzia, un sacco di privilegi, scorte, cavalli blu, che fanno le orge. Un mese fa, prima che Berlusconi si dimettesse, l’Italia aveva due grandissimi problemi: ora è rimasto solo il debito pubblico. Si può dire quello che si vuole, ma quanto ci siamo divertiti noi con Berlusconi! Quando Monti dice: ce la faremo, sappiamo che si riferisce alla situazione dell’Italia. Di questi, nessuno ruba. Monti non ruba, è già ricco di suo. Anche Berlusconi era ricco di nostro. Bossi e la secessione, l’idea fissa di tutta la vita, ci è affezionato. Ho sentito un leghista dire che la Padania esiste perché esiste il grana padano. Quando Berlusconi ha dato le dimissioni, mi sono chiesto: perché? Lui fa rimettere a posto tutto, poi nel 2013 si ripresenta. Adesso non ne parla più nessuno, di lui, ma io ti sarò sempre fedele, come l’Arma dei Carabinieri, ti saremo sempre al fianco, uno a destra, uno a sinistra. Lui ha lasciato l’Italia mezza morta: ritorna, vedrete che ritorna, non gli piace fare le cose a metà. Tutta la storia si potrebbe raccontare come una favola. Lui aveva tante principesse, tutte sul pisello. C’erano anche tante nipoti, ma una era nipote del gatto con gli stivali, e c’era un’orca tedesca, culona, culetta».
Poi fanno, i due, l’Inno del corpo sciolto (anche Fiorello dice le parolacce, Checco insegna). Benigni ricorda Pertini, la pace, la guerra, la solidarietà e l’onestà, grazie, prego, sipario. Dopo Benigni c’è stato Pippo Baudo, e prima c’erano già stati Jovanotti e Roberto Bolle, che aveva sollevato il Rosario come un fuscello. Già era stato lodato il profilattico, il «salvalavitapischelli», alla faccia di Raiuno e del Vaticano, Monti già gratificato della canzoncina «alla fiera del premier per due soldi un pochettino le tasse aumentò». Già era stato, il presidente del Consiglio, criticato alla fiorelliana maniera per la scelta di andare da Vespa: «Non ci doveva andare, l’ha già fatto qualcun altro e fece il contratto agli italiani. Ora lei che farà? Il testamento?». Prima di Benigni, già era stata presa in giro Elsa Fornero per le sue lacrime: «Mi ha commosso il ministro Fornero. Mi ha fatto pensare al coccodrillo, ma la nobiltà d’animo della signora rimane». E ancora: «Ci hanno sempre aspettato. Quando lui si dimise, il giorno dopo arrivai io. E adesso, qual è la frase che di più si dice? Lacrime e sangue, allegria!». Arrivederci, Fiorello.
Scatta l´inchiesta della procura sui fori praticati sull´affresco del Vasari a Palazzo Vecchio per cercare una eventuale sottostante opera di Leonardo. Salgono intanto a 300 le adesioni all´appello per lo stop, che è stato deciso per quanto riguarda i fori (non se ne fanno più), mentre continuano i rilievi. «E´ una pazzia» secondo Salvatore Settis. E Christiansen: «Momento sbagliato». Vertice di due ore con il professor Seracini. Acidini tace, il sindaco Renzi tira dritto: «Vicinissimi alla soluzione del mistero».
Vasari, inchiesta della procura
300 adesioni all´appello per lo stop Settis: "Una pazzia". Christiansen: "Momento sbagliato" L´arte nel mirino "È un´operazione spericolata e poi stanno cercando nella parete sbagliata"
E´ stata avviata un´indagine sulle ricerche della Battaglia di Anghiari nel Salone dei Cinquecento. Ieri mattina, ricevuto l´annunciato esposto di Italia Nostra, il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi ha aperto un fascicolo. Il presidente nazionale dell´associazione, Alessandra Mottola Molfino, chiede alla procura di verificare se la ricerca con sonde endoscopiche che passano da fori praticati nell´opera del Vasari non integri il reato di danneggiamento di cose di interesse storico e artistico. «Bisognerà vedere se quel tipo di indagini possa aver procurato delle lesioni importanti all´affresco», ha spiegato Quattrocchi, ricordando che «è l´autorità giudiziaria a rilevare i reati. Sentiremo i carabinieri del nucleo tutela patrimonio culturale e le specificità culturali e professionali e ci regoleremo».
Mentre la procura inizia a lavorare, cresce il numero delle firme sotto l´appello per fermare l´intervento sponsorizzato dal National Geographic (250mila euro al Comune di Firenze) scritto dallo storico dell´arte Tomaso Montanari e diffuso dalla stessa Italia Nostra. Ieri sera erano quasi trecento, mentre domenica erano ferme a trentacinque. Un mondo solitamente diviso e poco disponibile ad esporsi come quello dei critici e degli storici dell´arte si è schierato in modo compatto contro l´operazione in corso a Palazzo Vecchio.
Tra i primi a dare l´adesione al documento c´è l´ex direttore della Scuola Normale di Pisa e accademico dei Lincei, Salvatore Settis: «E´ un progetto imprudente - spiega - Sono convinto che questa ricerca sia quasi certamente destinata al fallimento e che rischi di compromettere un affresco del Vasari importantissimo e conservato molto bene. Si celebra così l´anno vasariano in arrivo, bucherellando. E´ una pazzia, un modo sbagliato di spendere soldi pubblici o privati. Bisognerebbe pensare di usare denaro per risolvere la questione dell´archivio del Vasari, da riportare in mani pubbliche». Per Settis, come per gli altri che hanno firmato la lettera, l´affresco di Leonardo non è lì. «Ci sono documenti dello studioso Francesco Caglioti che sembrano indicare con grado di probabilità che la parete dell´affresco di Leonardo sarebbe l´altra, quella di fronte».
Keith Christiansen è il curatore della sezione pittura italiana del Metropolitan di New York, anche lui è tra i firmatari. «C´è solo una piccolissima probabilità che una porzione significativa della battaglia di Leonardo sia sopravvissuta. Se ci fosse stata l´avrebbero rimossa ai tempi di Vasari - dice - Ma a parte questo, va contro l´etica che un´opera d´arte sia compromessa per recuperare qualcos´altro a meno che l´opera in questione sia di importanza marginale. E non è il caso del lavoro di Vasari. Poi c´è il tema dei soldi spesi. Ci sono incalcolabili tesori artistici a Firenze che richiedono attenzione. Lavori per cui mancano fondi. Ora si investe una cifra considerevole nella speranza di trovare qualcosa che nel sedicesimo secolo fu descritta come in rovina? Si tratta di una cattiva idea nel momento sbagliato e non sarebbe stata proposta se Leonardo non fosse diventato una super-celebrità».
Antonio Pinelli, storico dell´arte dell´ateneo fiorentino, è uno dei più esperti conoscitori del Vasari. La sua firma figura fra quelle dell´appello a fermare i lavori. Dice: «E´ un´operazione spericolata e sbagliata alla radice intanto perché cercano nella parete opposta a quella in cui la maggior parte dei critici ipotizza il lavoro su Anghiari. Poi il Vasari aveva una grandissima stima di Leonardo: perché avrebbe dovuto coprire o cancellare la sua opera?». Quindi riprende: «Ma la questione di fondo è: vale la pena di intervenire in quel delicato ecosistema che sono i dipinti vasariani di Palazzo Vecchio? Per cosa?».
Beatrice Paolozzi Strozzi, direttrice del Museo Nazionale del Bargello aggiunge: «In casi come questi la cautela si impone, per questo ho firmato l´appello. Ho messo la mia firma come cittadina, storico dell´arte ed esperta di tutela, al di là del mio ruolo istituzionale, convinta che invece di compromettere l´integrità di un´opera d´arte, occorra attendere che le tecnologie permettano un´indagine assolutamente non invasiva. Non dico, quindi, che le indagini non debbano essere fatte, ma che impongano una valutazione attenta e ponderata, e una interrogazione molto approfondita sul da farsi».
Parla Cecilia Frosinini, la funzionaria dell´Opificio che ha aperto il caso chiedendo di essere sollevata dall´incarico
«Rifarei tutto quello che ho fatto ma ora basta riflettori su di me - La mia missione è quella di tutelare le opere d´arte, qui si fa un intervento invasivo»
Tutto è cominciato dalla sua lettera e da un passo indietro. Il sindaco Matteo Renzi l´ha chiamata «un´obiezione di coscienza» quella di Cecilia Frosinini. Lei, direttrice della sezione restauro pitture murali dell´Opificio delle Pietre Dure, ha preferito parlare di una «questione etica» e adesso dice: «ma basta riflettori su di me». Fino a qualche giorno fa, la sua è stata una voce solitaria, adesso è diventato quasi un coro. «Rifarei esattamente quello che ho fatto. Ho molta stima nei confronti di Marco Ciatti che mi ha sostituito nel controllo tecnico delle operazioni sull´affresco del Vasari e non è certo questo che è in discussione, né la competenza dei restauratori che lavorano sui ponteggi al Salone dei Cinquecento». Il tema che solleva Cecilia Frosinini si fonda su altri punti, uno etico: «La mia missione è quella di tutelare le opere d´arte, qui invece si fa un intervento invasivo sulla pittura» (del Vasari, in particolare della Battaglia di Scannagallo) aveva detto e anche scritto nella lettera inviata fra gli altri alla soprintendente Cristina Acidini. E qualche riga sotto chiedeva di essere sollevata dall´incarico di seguire il lavoro del gruppo di Seracini esprimendo un «dissenso fermo nei confronti delle operazioni e delle attività che mi possano venire imposte secondo scelte di ente locale e sponsor e che ritengo lesive del mio ruolo professionale e scientifico e contrarie alle funzioni che lo Stato mi chiede di svolgere nell´ambito della ricerca e della conservazione».
L´altro punto sollevato dalla responsabile delle pitture murali dell´Opificio riguarda il fondamento scientifico dell´operazione: «comunicazioni sommarie esclusivamente in fase di proiezione di slides» ha scritto, aggiungendo che non c´è stata «alcuna disponibilità da parte dell´ingegner Seracini ad un sia pur minimo contraddittorio o integrazione delle informazioni fornite». Alle Pietre Dure all´inizio «non è stato concesso di decidere in piena autonomia se partecipare a una attività che prevede anche la possibilità di giungere alle ricerche endoscopiche pure attraverso accesso dal fronte, praticando strappi di superficie pittorica e fori nell´intonaco vasariano». E´ quella lettera che accende piano piano il dibattito sull´opportunità o meno di avviare in quel modo la ricerca sul capolavoro perduto di Leonardo, la Battaglia di Anghiari. Cecilia Frosinini è una storica dell´arte che lavora all´Opificio dal 1990. In questi giorni, assieme ad altri studiosi e restauratori sta esaminando nel laboratorio fiorentino un´opera di Leonardo, «l´Adorazione dei Magi», per scriverne l´analisi scientifica. Fa parte del comitato scientifico per il restauro della Sant´Anna e la Vergine, capolavori sempre di Leonardo che sono al Louvre. Alla fine della mostra dedicata a Leonardo in corso a Londra, è stata chiamata a intervenire al convegno di chiusura sul tema: «La tecnica artistica di Leonardo e le indagini scientifiche».
Acidini tace, il sindaco tira dritto
«Vicinissimi alla soluzione del mistero» Prevede di staccare due centimetri quadrati di dipinto, ma non vogliamo decidere da soli «Mi sembra un tentativo pretestuoso degli esclusi di bloccare una ricerca straordinaria. E´ un attacco demagogico»
Il sindaco tira dritto: «E´ difficile negare che lì sotto ci sia qualcosa, la soluzione al mistero è vicinissima». Dopo aver letto l´attacco degli studiosi di mezzo mondo all´operazione Battaglia di Anghiari e l´esposto di Italia Nostra in base al quale la procura ha aperto un´inchiesta, Matteo Renzi rilancia, facendo capire che questi giorni di studio nel Salone dei Cinquecento hanno dato buoni risultati. In effetti una sonda è andata molto in profondità in uno dei fori, come se avesse incontrato una cavità o semplicemente una crepa. Sapremo nei prossimi giorni qualcosa di più.
Ma intanto stop ai fori. Per il momento la prima fase della ricerca si conclude qui, in attesa di conoscere i risultati dei sondaggi. E´ un effetto delle polemiche? Di certo queste hanno messo a dura prova i nervi di alcuni dei protagonisti. L´ingegner Maurizio Seracini dell´Università di San Diego che guida la spedizione ieri si è detto amareggiato, «mi sembra solo un tentativo pretestuoso degli esclusi di bloccare una ricerca straordinaria. Un attacco demagogico che rischia di farci deridere dal mondo». La soprintendente Cristina Acidini contattata più volte non ha voluto spiegare nulla.
Ieri alle 13.30 summit fra il sindaco, la soprintendente (destinataria con lui della richiesta degli studiosi di fermare i lavori), Marco Ciatti dell´Opificio, Seracini e i tecnici impegnati nella ricerca. Bisognava fare il punto sui lavori e discutere delle lettere che mettono gli esperti d´arte di mezzo mondo contro l´operazione in corso a Firenze. Si è deciso di non fare più fori sull´opera del Vasari, almeno fino a mercoledì, quando ci sarà una nuova riunione. Sarebbe stata la stessa Acidini a chiedere tempo con l´obiettivo di riflettere sui dati acquisiti. I lavori però proseguiranno sui sei buchi già realizzati, l´endoscopio passerà da quelle piccole fessure per fare altri campionamenti. Il ponteggio resterà nel Salone dei Cinquecento almeno fino a fine dicembre nel Salone e si pensa anche di dare la possibilità gruppi guidati di visitatori di salirci.
«Finora abbiamo fatto sette buchi (in realtà sei ndr) e le indagini non sono andate bene, sono andate benissimo - ha detto il sindaco davanti al consiglio comunale - Il quadro che avevamo è stato confermato e anche rafforzato. Credo sia difficile negare che lì sotto ci sia qualcosa». Cosa c´è sotto? Renzi non scende nei particolari, ricorda che c´è un contratto con il National Geographic. Ma si intuisce che parla dell´intercapedine esistente dietro l´affresco del Vasari e anche di tracce di sostanze organiche, riferibili a possibili pigmenti utilizzati per la pittura a olio. C´è qualcosa ma non è chiaro cosa: «Oggi è impossibile dire che lì sotto c´è Leonardo». Per questo occorrerebbe una seconda fase di indagine, dopo una prima conclusa con i buchi praticati in fessure già esistenti o in stucchi ottocenteschi. «L´affresco non è stato toccato» sottolinea il sindaco. Per la seconda fase si richiederebbe invece un´indagine più invasiva (si dovrebbero staccare almeno 2 centimetri quadrati di affresco) oppure il passaggio da dietro il muro dove ci sarebbe Leonardo. «Potremmo deciderlo noi, ma voglio che ogni passo sia fatto di comune accordo con l´Opificio delle Pietre Dure», dice Renzi. Nel frattempo restano da analizzare bene i dati raccolti con le microsonde: «I ponteggi resteranno lì un altro mese e su richiesta si potranno visitare». Anche da chi ha promosso l´appello salva-Vasari: «Salvatore Settis se vuole può venire a vedere quello che abbiamo fatto, è il benvenuto», garantisce il sindaco a proposito dell´accademico dei Lincei primo firmatario dell´appello. Per il resto però, chiunque parli di «vandalizzare» verrà querelato: «Stiamo risolvendo il più grande enigma della storia dell´arte. Di fronte ad un mistero che può fare una persona normale? Verificare se esiste». Quanto all´esposto di Italia Nostra alla procura di Firenze, dice il sindaco, «siamo a completa disposizione della magistratura».
Non c´è più tempo per piantare e far crescere le specie da tutto il mondo Si cerca un progetto bis che punti sulla tecnologia. Pesano i dubbi sul futuro dell´area dopo l´Esposizione e i costi di gestione Oggi il via alla gara da 300 milioni per le altre opere 2015. La ricerca è partita. Obiettivo: trovare il prima possibile un nuovo "padre" per le serre di Expo, una grande firma che possa inventarsi un´idea capace di salvare quello che è stato il simbolo del progetto del 2015. Magari usando la tecnologia, quella che ha già trasformato l´orto planetario in una smart city. E che, adesso, potrebbe aiutare a riprodurre, in modo virtuale, i climi e le colture di tutto il mondo. Accanto alle specie che metteranno fisicamente radici a Rho-Pero. Perché, ormai, per realizzare il progetto originario e ricostruire realmente tutti gli habitat e tutte le piante e colture, non c´è più tempo.
Quei complessi marchingegni pensati inizialmente, hanno calcolato i tecnici della società di gestione, avrebbero bisogno di almeno cinque anni di preparazione. Troppo. Così come troppo costoso - 90 milioni di euro il primo budget - sarebbe realizzare strutture senza la certezza, poi, di mantenerle in vita dopo il 2015. Perché è questo il rischio maggiore: doverle smantellate alla fine. E, così, si cambia ancora. Sperando, anche, che insieme al grande nome possa arrivare un privato disposto a gestirle in futuro sobbarcandosi dei costi che il pubblico non potrebbe mantenere.
È questo l´ultimo rebus del progetto che l´amministratore delegato della spa Giuseppe Sala dovrà risolvere, l´ultimo tassello da completare sulle mappe di Rho-Pero. Al più presto, visto che la macchina operativa è partita: oggi il consiglio di amministrazione darà il via libera alla gara della "piastra", il bando da 250-300 milioni per realizzare non solo le "fondamenta" del futuro sito espositivo, ma anche alcuni padiglioni.
Gli spazi immaginati dalla Consulta architettonica non sono in discussione: strutture di vetro alte fino a 45 metri dove riprodurre, accanto ad aree all´aperto, tutti i climi del mondo. Lì avrebbero dovuto attecchire vegetazioni di tutte le latitudini. Un sistema complesso, che avrebbe bisogno di terra particolare, tempo, cure scientifiche complesse. Non a caso, gli esperti - capitanati dalla docente di Agraria Claudia Sorlini - che hanno seguito il progetto avevano lanciato l´allarme: «Siamo preoccupati che i ritardi possano compromettere il lavoro». I primi test per valutare la bontà dei terreni sarebbero dovuti partire lo scorso gennaio, per poi iniziare a far arrivare le prime specie rare entro l´estate. Una tabella di marcia che è saltata.
Sala vuole mantenere le strutture previste, così come l´idea di far sorgere le piante. La vera domanda, però, è: cosa diventeranno? E soprattutto: rimarranno in vita dopo l´evento? È per questo che la società sta cercando un nome capace di creare comunque di creare qualcosa di originale e affascinante. La prima idea sarebbe stata quella di affidare gli spazi a Jacques Herzog, l´architetto che ha già seguito il masterplan. Ma per accettare l´incarico, Herzog avrebbe voluto i consigli di Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food che ha ispirato l´orto globale. L´accordo, finora, non è andato in porto e difficilmente si riuscirà a convincere il guru dell´alimentazione.
Il destino delle serre, però, è legato anche a quello del milione di metri quadrati di Rho-Pero che le istituzioni non hanno ancora deciso. La società ha fatto i conti. Le strutture avrebbero dovuto vivere anche dopo il 2015 come eredità di Expo, un grande parco ludico-scientifico. Questa impostazione, però, prevederebbe un ingente investimento (prima) per realizzarlo e (poi) per gestirlo. Sarebbero gli enti pubblici a sostenerlo e i dubbi economici, in tempi di crisi, sono tanti. Per questo l´obiettivo di Sala è anche di trovare un privato che, poi, possa seguire il parco. Anche se, a quel punto, perderebbe l´aspetto prettamente scientifico per quello di spazio del divertimento.
Su 11 settori già «liberati» con norme apposite, soltanto due (farmaci e telefonia) offrono servizi più a buon mercato. Tutti gli altri hanno registrato aumenti importanti, a volte vertiginosi La Cgia di Mestre ha messo a confronto tariffe ed inflazione; l'ideologia «liberale» ne esce a pezzi.
Saremo anche governati da «tecnici», ora, ma quanto a ideologia - sia loro che i supporters - non sembrano secondi a nessuno. Prendiamo un punto fermo di questa ideologia della governance: le «liberalizzazioni» sbloccano un mercato ingessato, migliorano la qualità dei servizi, abbattono i prezzi perché la concorrenza ha proprio questo effetti «livellanti» come sottoprodotto della «competizione». Senza tanti «lacci e lacciuoli» - recita l'antico mantra - il capitalismo dà il meglio di se stesso, con benefici per tutti.
Ma è vero? A naso, da malfidati di professione, crediamo di no. Ma noi - si sa - siamo «ideologici» per convenzione culturale diffusa. Perciò preferiamo oggi dar conto dei dati pubblicati ieri dalla Cgia di Mestre (confederazione generale degli artigiani veneti, insomma; niente a che fare col marxismo-leninismo). E non è una bella musica per i liberalizzatori a oltranza. Il Centro studi ha preso di petto ben 11 settori già «liberalizzati» in epoche diverse (se qualcuno ricorda le «lenzuolate» del Bersani ministro dell'industria), mettendo a confronto le tariffe attuali con quelle d'allora; e ovviamente con la corsa dell'inflazione.
Ne viene fuori che soltanto per i prodotti farmaceutici (-10,9%) e i servizi telefonici (-15,7) c'è stato il sospirato effetto «competitivo», ovvero la compressione dei costi per l'utente finale. Tanto più significativo se messo a confronto con l'inflazione nel frattempo maturata: +43,3% nel primo caso, +32.5 nel secondo. Un bel guadagno, non c'è che dire; quasi uno spot gratuito per l'ideologia liberalizzatrice. Peccato che occorra ricordare come sia stata l'Europa, a più riprese, a «mazzolare» i gestori di telefonia che facevano i furbi, fino a costringerli ad abbassare le tariffe. volenti o no.
Ma gli altri 9 settori? Esattamente l'opposto (a parte l'energia elettrica, in cui aumento tariffario risulta minore della dinamica inflattiva, grazie anche al pesante crollo del presso del petrolio dopo la «grande crisi finanziaria» innescata dal fallimento dio Lehmann Brothers).
Passi per i servizi postali, rimasti al palo, ovvero sostanzialmente pari all'inflazione (+30%, grosso modo). Ma già i trasporti urbani - là dove questa «modernizzazione» è stata già introdotta, nel 2009 - fanno registrare un aumento quasi doppio rispetto all'inflazione in soli due anni. Idem per il gas (dal 2003), che ha visto i costi doppiare l'inflazione pur potendo contare su prezzi energetici del tutto identici a quella della - calante - energia elettrica.
Siamo però buoni fino in fondo. Possiamo perfino capire che i trasporti aerei - liberalizzati da scervellati, al punto di facilitare il fallimento di Alitalia - siano aumentati di 1,4 volte, per cause tra il noto (il prezzo dei carburanti) e il misterioso (a quanto ammonta il contributo dei consorzi pubblico-privato che sostengono la presenza delle compagnie low cost?). Ma come hanno fatto i costi dei trasporti ferroviari a crescere del 53% (inflazione a + 27), se non imputandoli a una precisa scelta commerciale di quello che - ancora per qualche giorno, ma limitatamente all'alta velocità tra Roma e Milano - è di fatto un monopolista pubblico che si atteggia a privato di lusso?
E ancora: anche i pedaggi autostradali sono aumentati del 50%» dal '99, a fronte di un'inflazione del 30%. Anche qui l'ideologo confindustriale o il «tecnico europeo» potrebbero obiettare che - in effetti - è impossibile fare concorrenza su un tratto autostradale. Vero. Perché sono state «liberalizzate», allora? Solo per fare un regalo a Benetton, Toto e Gavio? Probabile...
Ma certamente era possibile farsi una concorrenza spietata nei servizi finanziari o bancari (aperti anche a società straniere, ormai) e per quanto riguarda la Rc Auto. Ognuno di noi puà cambiare banca o assicurazione in qualsiasi momento. Eppure proprio qui di registrano gli aumenti più vertiginosi. In banca (o per i fondi comuni) paghiamo oggi 2,5 volte più dell'inflazione (ovvero il 50% in più). Per l'assicurazione auto è quasi inutile che vi riveliamo noi i dati: sapete già da soli che sono quasi raddoppiate dal 1994, crescendo 4,2 volte più dell'inflazione.
Detto fra noi: probabile che le «regole» scritte sui manuali di macroeconomia abbiano un rapporto assai labile con la realtà empirica. In altre parole: che siano solo ideologia. Utile per fare profitti, ma fuffa.
L´euro può essere salvato? Non molto tempo fa si diceva che la crisi poteva portare, nel peggiore dei casi, al default della Grecia. Ora si profila l´evenienza di un disastro di proporzioni assai maggiori. È vero che la pressione sui mercati si è un po´ allentata mercoledì. si è allentata dopo il sensazionale annuncio dell´estensione delle linee di credito da parte delle banche centrali. Ma persino gli ottimisti ormai considerano l´Europa avviata alla recessione, mentre i pessimisti lanciano l´allarme sull´eventualità che l´euro diventi l´epicentro di una nuova crisi globale. Come mai siamo arrivati fin qui? La risposta più comune è che l´origine della crisi dell´euro va individuata nell´irresponsabilità fiscale. In tv è un gran vociare di esperti: in assenza di tagli alla spesa pubblica l´America finirà come la Grecia. Ma è vero quasi l´opposto. Benché i leader europei identifichino il problema nella spesa pubblica troppo alta dei Paesi debitori, la realtà è che in Europa la spesa è troppo bassa. E imporre una maggiore austerità è stata una mossa negativa, che ha peggiorato la situazione.
Riassumendo. Negli anni precedenti alla crisi del 2008 in Europa, come in America, il sistema bancario era fuori controllo e il debito galoppava. In Europa però, gran parte dei prestiti erano transfrontalieri, i fondi tedeschi finivano al sud. L´operazione veniva considerata a basso rischio. I destinatari in fondo facevano tutti parte dell´area dell´euro, che cosa mai poteva succedere? In massima parte, detto per inciso, i prestiti non erano diretti ai governi, ma al settore privato. Solo la Grecia ai tempi d´oro presentava gravi deficit di bilancio statale. La Spagna, alla vigilia della crisi, vantava addirittura un surplus.
Poi la bolla scoppiò. La spesa privata nei Paesi debitori crollò. I leader europei avrebbero dovuto riflettere su come impedire che questi tagli alla spesa provocassero una recessione in tutta Europa. Invece risposero all´inevitabile conseguente crescita del deficit imponendo a tutti i governi – non solo a quelli dei Paesi debitori – di tagliare la spesa pubblica e aumentare l´imposizione fiscale. Non tennero conto dei moniti di chi pronosticava un aggravarsi della depressione. «La tesi secondo cui le misure di austerità potrebbero innescare un processo di stagnazione non è corretta», dichiarò Jean-Claude Trichet, all´epoca presidente della Bce. Il motivo? Perché «da politiche che stimolano la fiducia verrà un impulso, non un ostacolo alla ripresa economica».
Ma questa magica fiducia non si è materializzata. E c´è di più. Negli anni del denaro facile, i salari e i prezzi in Europa meridionale sono cresciuti assai più velocemente rispetto al nord Europa. Ora bisogna ridurre il divario calando i prezzi al sud o, in alternativa, alzandoli al nord. E la scelta è importante: se l´Europa meridionale è costretta a ridurre la propria competitività pagherà un caro prezzo in termini di occupazione, e vedrà aumentare il debito. Si avrebbero possibilità di successo maggiori se il divario venisse ridotto aumentando i prezzi a nord.
Ma per far questo i policymaker dovrebbero accettare temporaneamente un aumento dell´inflazione nell´intera eurozona, mentre hanno già ribadito di non averne alcuna intenzione. Ad aprile, la Bce ha iniziato ad aumentare i tassi di interesse, pur essendo palese a gran parte degli osservatori che l´inflazione, semmai, era troppo bassa. Non è stata una coincidenza che proprio ad aprile la crisi dell´euro sia entrata in una nuova, terribile fase. Lasciamo stare la Grecia. Come economia, confronto all´Europa, è paragonabile all´area di Miami rispetto agli Stati Uniti. A questo punto i mercati hanno perso la fiducia nell´euro in generale, portando i tassi di interesse a salire anche in Paesi come l´Austria e la Finlandia, non certo noti per la loro sregolatezza. L´appello all´austerità generale associato al morboso terrore dell´inflazione da parte della banca centrale fanno sì che ai Paesi indebitati sia impossibile sfuggire alla trappola del debito. Questa accoppiata è quindi garanzia di default sul debito, corsa al ritiro dei depositi bancari e crollo finanziario generale. Mi auguro, sia per il bene dell´America che dell´Europa, che gli europei invertano la rotta prima che sia troppo tardi. Ma, in tutta sincerità, non credo che lo faranno. È molto più probabile che noi li seguiamo sulla strada della rovina.
Perché negli Usa , come in Europa, l´economia è trascinata nel baratro dai debitori morosi, nel caso americano soprattutto proprietari di casa. E anche in questo caso c´è assoluto bisogno di politiche fiscali e monetarie espansionistiche a sostegno dell´economia, mentre i debitori lottano per rimettersi finanziariamente in salute. Ma, da noi come in Europa, il dibattito pubblico è dominato dalle ramanzine sul deficit e dall´ossessione dell´inflazione. La prossima volta che vi diranno e che in assenza di tagli alla spesa l´America farà la fine della Grecia, rispondete pure che tagliando la spesa in corso di depressione economica faremo la fine dell´Europa.
Traduzione di Emilia Benghi
«Sono misure recessive che favoriranno la caduta della domanda e non affrontano, invece, la questione centrale della crescita e dell’occupazione». Luciano Gallino, sociologo del lavoro e autore di numerosi saggi sull’economia italiana e l’apparato industriale (ultimo libro profetico Finanzcapitalismo per Einaudi) critica come poco equa la manovra che il governo sta per varare. Anzi, su una questione centrale come quella previdenziale, si chiede perché si «intervenga con questa fretta e in questo modo». La riforma delle pensioni è comunque il capitolo più ambizioso. «Per come è stata presentata sembra esclusivamente un modo per recuperare soldi». Cominciamo dal limite dei quarant’anni di contributi. «Non è una parola magica, ma per molte categorie quel limite non può essere superato. Tra l’altro l’uscita dal lavoro in Italia è già in linea con i Paesi europei più avanzati. Il problema è un altro. E riguarda il bilancio dell’Inps». A cosa si riferisce? «Non si vede la ragione per intervenire con tanta fretta se si guarda all’ultimo bilancio dell’Istituto che vanta un attivo di 10 miliardi nella previdenza. Il passivo pesante è quello determinato dalle varie casse autonome che sono, quelle sì, un pesante onere per lo Stato. Inoltre l’Inps è gravato da numerosi interventi assistenziali non previdenziali. Senza quelli sarebbe in pareggio».
Come giudica l’ipotizzato aumento dell’Irpef sui redditi più alti? «I cittadini di Paesi come Usa, Francia o Germania, quando sono chiamati a fare sacrifici per sanare crisi, pur non create da loro, non si sottraggono. Ma, in Italia, questo ha il sapore amaro della beffa. Siamo infatti il Paese dove il 18% del Pil sfugge al fisco, in pratica si tratta di 120 miliardi evasi. E’ dunque vagamente offensivo chiedere sempre a coloro che hanno sempre dato. Molti di costoro, è vero, non soffriranno troppo dall’aumento dell’Irpef ma si tratta sempre di un accanirsi su chi paga regolarmente». Non c’è la Patrimoniale ma la tassa sul lusso per bilanciare l’Irpef. «Un contentino per dire che anche i ricchi sono colpiti. Per carità, va bene, ma sarebbe servita una patrimoniale sulle grandi fortune». Monti ha subito il veto di Berlusconi? «Berlusconi ha ancora un potere di veto alla Camera. E’ paradossale che uno dei più ricchi in Europa metta il veto sulla Patrimoniale»
In Italia ritornerà l’Ici: una tassa odiosa? «Fu un errore sopprimere quella imposta, un errore pagato dai cittadini che hanno avuto un netto peggioramento dei servizi pubblici comunali. Una sorta di Ici esiste in tutti i Paesi sviluppati, come imposta locale sulle case e anche imposta federale. Ripristinarla è per certi aspetti utile e aiuta i Comuni che sono ora costretti a tagli gravosi».
Complessivamente come giudica la manovra da 25 miliardi? «Priva di equità con molti dubbi sulla sua efficacia reale. Si tratta di un insieme di misure depressive che favoriranno la caduta dei consumi. Così non può affrontare il vero problema che è il lavoro. Anche alle aziende non credo basterà un’Irap più leggera».
Doveva essere un’operazione immobiliare favolosa, un terreno acquistato come agricolo che diventava edificabile grazie a una variante urbanistica disegnata dall’ex ministro Paolo Romani mandato come assessore in quel della Brianza dallo stesso ex presidente del Consiglio.
Ma in realtà l’affare Cascinazza, l’area di Monza dove Paolo Berlusconi, fratello di Silvio, sognava di costruire Milano 4, rischia di diventare solo un grosso grattacapo. Il terreno, che era passato dalla Istedin di Paolo Berlusconi ad altre società in qualche modo collegate, è sempre stato in una zona a rischio esondazione del fiume Lambro. E adesso un comitato spontaneo di cittadini si è formato proprio per fare leva su questo aspetto e chiedere che la previsione sia annullata e che l’area torni ad essere considerata un parco agricolo. Si è presentato ufficialmente oggi l’agguerrito gruppo capitanato da Pietro Marino, ricercatore di agronomia dell’Università di Milano Bicocca deciso ad avanzare una specifica osservazione al Piano urbanistico di Monza che chieda l’eliminazione della previsione edificatoria di 420mila metri cubi di cemento su quell’area.
Il che non preoccuperebbe la maggioranza di Centrodestra monzese che ha adottato il piano, se non avesse appena perso il consigliere decisivo con cui aveva fatto passare un mese e mezzo fa la variante. L’uomo chiave di quella votazione era stato infatti un consigliere entrato nell’Assise del capoluogo di Provincia lombardo sui banchi dell’opposizione che poi era passato in maggioranza. E che da questa settimana è stato interdetto dai pubblici uffici perché condannato a due anni per concorso in corruzione. Tale Franco Boscarino è stato infatti giudicato colpevole in primo grado dal Tribunale di Monza di aver fatto da tramite per favorire un immobiliarista attivo in Brianza nella corruzione di un funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Milano (anch’esso condannato) per avere trattamenti di favore.
Un’indagine che, ironia della sorte, era scaturita da un altro filone che vede ancora sul banco degli imputati per reati di natura fiscale tre imprenditori, tra cui Gabriele Sabatini, che sono legati niente meno che alle società proprietarie proprio della Cascinazza. Senza il voto di Boscarino e con una maggioranza ormai traballante, sarà difficile per il centrodestra riuscire ad approvare il piano e a respingere l’osservazione del ricercatore universitario. Non ce ne fosse abbastanza per imbrigliare un’operazione ormai sfortunata, l’opposizione si è anche recata in Procura a denunciare alcuni strani legami tra i proprietari delle aree che venivano favoriti nella Variante al Pgt monzese e che risultavano collegati in qualche modo tutti al terreno della Cascinazza. Dopo trent’anni di tentativi di far diventare edificabile il terreno in questione, la conclusione dell’operazione, insomma, è ancora un lungo percorso ad ostacoli e l’area per il momento è ancora un prato.
Sono ormai mesi che impietriti, giorno dopo giorno, osserviamo il cielo della crisi finanziaria che fa dell'euro e purtroppo anche dell'Europa, uno straccio che vola. In attesa dei provvedimenti del Governo Monti, se ce la faremo è all'Italia delle città che dovremo guardare. Qui si trova il 61,3 % dei residenti, il 63 % delle imprese industriali e il 71 % del terziario avanzato.
Numeri e dinamiche che si concentrano soprattutto sull'asse Torino-Milano-Trieste e in basso a Genova e Bologna. Numeri che mutano quella che negli anni del capitalismo molecolare è stata la questione settentrionale. Questione che tornano a osservare e praticare la Cisl dei contratti territoriali e la Lega delle identità territoriali. Il sindacato convocando a Milano un seminario delle Cisl del Piemonte, della Lombardia, del Veneto e dell'Emilia Romagna, discutendo con i presidenti delle regioni di coesione sociale e di impatto della crisi sul tessuto manifatturiero. La Lega con i suoi bellicosi propositi di giocarsi l'opportunità di essere l'unica opposizione.
Un crinale delicato fatto di "nordismo dolce" e "secessione dolce" ai tempi dell'euro a velocità variabile. In Italia la metropolizzazione incardinata sul policentrismo delle "cento città" ha prodotto un modello urbano a nuvola cresciuto lungo i grandi assi infrastrutturali. Attorno a grandi città che, prese nella morsa della rendita immobiliare, sono "de-cresciute" al centro per disperdersi sul territorio. Dando forma a "città infinite" o alla "megalopoli padana" dove l'Alta Velocità fa da metropolitana leggera collegando Torino a Milano e Bologna. Reti di città che durante il ciclo ventennale del capitalismo molecolare hanno avuto il merito di mixare funzioni terziarie urbane e capitalismo manifatturiero dei territori. Un modello fatto di policies e classi dirigenti locali che tra anni '90 e nuovo millennio hanno accompagnato lo sviluppo dei territori, hanno costruito immagini e nuove rappresentazioni collettive dentro la transizione al postfordismo (basti pensare al caso torinese), ma che sono entrate in crisi sulla governance dei flussi: mobilità, immigrazione, finanza, logistica.
Con una divisione crescente tra città medie campioni di benessere e qualità della vita e grandi aree urbane sempre più in crisi di bilancio e in affanno sui temi della sicurezza, del costo della vita e della qualità ambientale. Difficoltà che pesano dentro la crisi nella misura in cui la capacità della metropoli di produrre servizi e saperi pregiati nonché reti di mobilità e comunicazione è il principale canale attraverso cui i sistemi produttivi territoriali possono riconquistare competitività sui mercati internazionali. Oggi la costruzione di un nuovo patto tra città e contado, tra capitalismo delle reti e manifatturiero, tra élite urbane e territoriali costituisce il nuovo nucleo di quella che ancora chiamiamo questione settentrionale.
Scomparsa la grande impresa fordista concentrata a Nord Ovest, con i distretti del Nord Est in via di verticalizzazione attorno a una media impresa diffusa da Torino a Treviso e lungo l'asse della via Emilia, oggi il tratto caratterizzante del Nord è il processo di metropolizzazione diseguale e confuso che a partire dalle città collega centri medio-piccoli e grandi. Una urbanizzazione che non solo drena risorse e abitanti dalle aree più periferiche dello stesso nord, ma diffonde stili di vita, bisogni, consumi e tematiche post-materialiste tipicamente urbane. Ribaltando la direzione di marcia dal contado alla città. Da rappresentazione del sogno egemonico di un contado manifatturiero che tra anni '80 e 2000 ha fatto da locomotiva economica del Paese, oggi la questione settentrionale vista dalle città mette al centro la capacità delle classi dirigenti.
Vi si confrontano il centro sinistra che governa le capitali regionali e il centro destra che esclusa l'Emilia Romagna e la Liguria egemonizza le città medie e le tre regioni, Piemonte, Lombardia e Veneto. Fotografia politica che rompe il tentativo del mondo del capitalismo molecolare di farsi classe dirigente nazionale. Berlusconismo e leghismo si sono imposti coalizzando il milieau terziario milanese con le periferie territoriali contro un mondo fatto di élite urbane e ceti medi riflessivi incardinati al welfare.La crisi ha incrinato l'unità di questo blocco politico-sociale fino ad arrivare allo "strappo" di questi giorni tra Confindustria Veneto e la Lega tornata all'opposizione. Un cambio di equilibri che a mio parere riporta la questione settentrionale alla sua originaria natura di questione sociale.
Sono proprio le nebulose urbane del centro-nord i contesti in cui il mix tra impatto della crisi, impianto manifatturiero, alti consumi, forte mobilità, flussi di immigrazione, crisi del welfare e crescente polarizzazione delle condizioni di vita, ne fanno un aggregato di quel 99 % direbbero gli indignati di Wall Street che subisce la crisi: dagli operai agli impiegati al pubblico impiego fino ai ceti medi e ai capitalisti molecolari. Molto dipenderà dalla volontà della città terziaria, della sua composizione sociale di ritrovare una capacità di fare società, di produrre una cultura civica nuova che metta al centro la difesa della qualità della vita, fuori dalle contrapposizioni tra questione ambientale e sviluppo economico, sicurezza e welfare, ecc.
Mentre la città terziaria degli anni '90 trasformava le classi sociali producendo frammenti senza coesione, oggi emergono almeno tre reti sociali che tentano di produrre tracce di nuova coesione: il magma del terziario professionale che con la sua trasversalità, pur nella crisi, tenta di connettere imprese, creatività, dimensione della cura; il crescere di nuovi filamenti di rappresentanza urbana come il comitatismo civico che uniscono il tema della qualità della vita con la volontà di riprendere controllo sulle grandi trasformazioni della città; e che fa il paio con l'affermarsi del modello della smart city, della città riflessiva che intende riprendere il controllo sulle condizioni della vita urbana. Infine, come a Milano, esempi di welfare community non più statale con cui la società civile inizia a fare i conti con la crisi dello stato sociale.
Questione settentrionale, dunque, come tema della coesione interna alla polis. Una tendenza positiva, che dall'idea di de-regolazione rifà i conti su come cercare di tenere assieme crescita economica e coesione sociale. Una tendenza che può rappresentare una possibilità di uscita dal tunnel di una crisi che è epocale e quindi culturale e politica. Dovendo scegliere, a fronte del ritorno sul territorio della lega, sono più d'accordo con gli industriali del Veneto e con le Cisl del Nord che pongono attuale la questione sociale ed economica del grande Nord dentro la crisi. Da come ne uscirà mutato dipenderà molto il destino del Paese, di tutto il Paese..
La missione impossibile del salvataggio dell'euro, la frana della de-europeizzazione, il cataclisma geopolitico che ne può derivare. Ma con l'austerità non si esce dalla crisi, si produce recessione e depressione. Intervista a Christian Marazzi sulla penitenza dopo l'abbuffata neoliberale e sull'antidoto del comune
Economista, docente alla Scuola universitaria della Svizzera italiana e, in passato, a Padova, New York e Ginevra, militante e intellettuale di riferimento dei movimenti della sinistra radicale, Christian Marazzi è uno degli analisti più lucidi della crisi economico-finanziaria in corso. Fra i primi a diagnosticarne il carattere storico e l'impatto globale, già nel 2009, quando la crisi impazzava negli Usa, aveva previsto l'inevitabile coinvolgimento dell'eurozona. Fine analista della finanziarizzazione come modus operandi del biocapitalismo postfordista, non crede nella possibilità di uscire dalla crisi o di contenerne le contraddizioni attraverso le politiche del rigore. Partiamo dal salvataggio dell'euro per ragionare di quello che ci attende.
L'andamento della crisi ha dato ragione alle tue analisi. Nel giro di due anni l'epicentro si è spostato dagli Stati uniti all'Europa, e nel giro di poche settimane siamo passati dal rischio di default di alcuni paesi, Italia compresa, al rischio del crollo dell'intera eurozona, che equivale al crollo dell'Unione per come è stata fin qui (malamente) realizzata. Secondo te come può evolvere la situazione?
«Gli indizi della cronaca sono eloquenti. In Europa cresce l'astio nei confronti della Germania e della rigidità di Angela Merkel, che non dà segni di cedimento sulle due proposte che ormai tutti considerano indispensabili per evitare il cataclisma di Eurolandia: la monetizzazione dei debiti sovrani da parte della Bce, e l'emissione di eurobond per ridurre il peso dei tassi d'interesse sui buoni del tesoro dei paesi più esposti alla speculazione dei mercati finanziari».
Anche tu le consideri indispensabili?
«Sono due misure condivisibili, ma purtroppo fuori tempo massimo: la crisi ha subito nelle ultime settimane una tale accelerazione da renderle inapplicabili. La trasformazione della Bce in una vera banca centrale sul tipo della Federal Reserve - che possa fungere da prestatore di ultima istanza per acquistare i buoni del tesoro dei paesi-membri indebitati, strappando ai mercati il potere di decidere come e quando intervenire - è un'idea sacrosanta, ma ormai irrealizzabile a fronte della fuga di capitali dall'eurozona che è già in corso, come dimostrano l'andamento dell'ultima asta di bond tedeschi e le 1500 tonnellate di oro che pare siano entrate in Svizzera ultimamente. Arrivati a questo punto, la monetizzazione dei debiti da parte della Bce non farebbe che alimentare questa fuga e accelerare il collasso dell'euro: non a caso, almeno fino a oggi, anche Draghi si oppone a questa soluzione. Lo stesso vale per l'istituzione degli eurobond, obbligazioni emesse e garantite dall'insieme dei paesi-membri per "mutualizzare" o socializzare i vari debiti sovrani: anche questa è una misura sensata, ma non ha alcuna possibilità di essere attuata, perché i paesi forti, come la Francia, l'Olanda, la Finlandia, l'Austria e la Germania si vedrebbero aumentare i tassi d'interesse in un periodo in cui le imprese stanno già subendo aumenti proibitivi del costo del denaro per il rarefarsi della liquidità in circolazione. In ogni caso, anche se al vertice di giovedì a Bruxelles si trovasse un accordo parziale, i vincoli d'austerità imposti ai paesi indebitati sarebbero tali da vanificare qualsiasi salvataggio dell'euro. E' solo questione di tempo».
Dunque in prospettiva tu vedi un tracollo?
«Il fatto è che la crisi della moneta unica costruita secondo i precetti monetaristi e neo-liberali è arrivata alla stretta finale. E a me pare del tutto verosimile che la rigidità di Merkel sia una mossa tattica per rendere inevitabile l'uscita della Germania dall'euro e il ritorno al marco. Circola già la data, fra Natale e l'Epifania, mentre tutti saremo in altre faccende affaccendati; come l'inconvertibilità del dollaro, che fu decisa a Ferragosto. E circolano già, qua in Svizzera, leggende metropolitane su due stamperie che starebbero sfornando marchi».
Se davvero andasse così, che tipo di scenario si aprirebbe?
«Nascerebbe una zona monetaria forte, con dentro la Germania, l'Olanda, la Finlandia, l'Austria, con agganciati il franco svizzero e la corona svedese. L'euro, fortemente svalutato e con l'effetto inflazionistico conseguente, resterebbe la moneta dei paesi deboli, che in compenso avrebbero la possibilità di ridurre il loro debito. L'incognita di questa ipotesi è la Francia. Per i paesi più tartassati dai mercati, sul piano economico non sarebbe un cataclisma. Ma il vero cataclisma sarebbe geopolitico. Di fatto, questa spaccatura monetaria darebbe il via a un processo di de-europeizzazione, con un asse fra la Germania, la Cina, la Russia e il Brasile, e un altro fra la Francia e gli Stati uniti. Non è uno scenario fantascientifico, le grandi agenzie finanziarie internazionali ci stanno già lavorando. Quello che nessuno dice però è che può essere l'inizio di una nuova guerra fredda, con la Cina, la Russia e la Turchia coordinate per schermare l'Iran dalle minacce israeliane. E' inquietante che di questo non si parli: il rischio Iran è esplosivo. Ed è inquietante pure che ormai si parli solo della crisi europea, rimuovendo la situazione degli Stati uniti, dove nel frattempo la crisi dei subprime continua, i poveri sono diventati 46 milioni, la disoccupazione è al 15%, Obama non riesce a battere chiodo e per la sua rielezione può sperare solo nella litigiosità dei Repubblicani.
Ci sono differenze, e quali, fra l'andamento della crisi negli Usa e in Europa?
Sul piano economico nessuna: l'Europa dei debiti sovrani è l'equivalente del mercato statunitense dei subprime, solo che al posto dei singoli individui indebitati ci sono gli stati indebitati. Ma una differenza c'è, a tutto svantaggio dell'Europa, ed è politica, anzi istituzionale e costituzionale: in Europa non c'è Costituzione, e non c'è una banca centrale. C'è la Bce che delega la monetizzazione dei debiti ai mercati, emettendo liquidità su richiesta di quelle stesse banche che hanno contribuito a creare debito pubblico e ora ci speculano sopra».
In questo quadro macroregionale e globale, che ruolo e che senso hanno le politiche nazionali del rigore? In Italia sono state create molte aspettative sul passaggio del governo da Berlusconi a Monti e alla sua squadra di "tecnici", come se ne dipendesse non solo un recupero di credibilità, ma anche un effettivo potere di intervento sulle dinamiche dei mercati. Ma quanta efficacia possono avere i cosiddetti sacrifici sulla crisi del debito sovrano, e relative speculazioni?
«Non è così che si esce dalla crisi, e infatti non ne usciremo: l'orizzonte dei prossimi anni è la recessione. Le politiche di austerità hanno un effetto deflazionistico di compressione della domanda interna, né a questo si può sperare di supplire con le esportazioni. Ma le politiche di austerità sono le uniche contemplate dalla dottrina neo-liberale, che in Europa e in tutto l'Occidente è tutt'ora imperante ed è dura a morire. Dunque restano e resteranno in piedi all'insegna dell'emergenza, o, per usare il termine di Naomi Klein, della shock economy, perché consentono di fare quello che in una situazione normale non si può fare: compressione dei salari, riduzione dell'impiego pubblico, depotenziamento dei sindacati; la famosa macelleria sociale. E' la logica della governance della crisi: una regolazione tecnica e tecnocratica dei rapporti sociali nello stato d'emergenza. Ha detto bene il vicepremier cinese in un'intervista al Financial Times: quello che ci aspetta è un nuovo Medio Evo finanziario e sociale».
Con quali caratteristiche politiche, e antropologico-politiche?Tu non parli mai solo di economia...
«Alcuni processi sono ormai evidenti. Il primo è la precarizzazione della Costituzione. Il secondo - l'hai scritto pure tu a proposito del ''passaggio Monti'' - è l'azzeramento dell'autonomia del politico sotto lo stato d'eccezione. Il terzo è il passaggio dal Welfare State al Debtfare State: uno Stato in cui il sociale si rappresenta, e viene rappresentato, nella forma del debito, e si disciplina, e viene disciplinato, nel segno del debito. Anzi, del debito e della colpa, secondo il doppio significato della parola tedesca schuld: tema nietzschiano, che oggi torna al centro del bel libro di Maurizio Lazzarato, La fabrique de l'homme endetté. Il debito come dispositivo antropologico di autodisciplinamento dell'uomo neo-liberale».
E' chiarissimo da quello che sta accadendo in Italia, dove in un attimo siamo passati dall'etica del godimento del ventennio berlusconiano all'etica penitenziale del governo Monti. Ma quanto pensi che possa reggere, questo dispositivo? Il soggetto neo-liberale descritto da Foucault, l'imprenditore di se stesso che si nutriva di consumo indebitandosi, ora può nutrirsi del senso di colpa per i debiti contratti? Si tratta di uno sviluppo o di una crisi dell'etica neo-liberale?
«Per ora, io ci vedo un inveramento: il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell'uomo indebitato. L'imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c'è anche un inveramento, o uno svelamento, dell'essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».
Però c'è chi si indigna, non ci sta, si ribella. Per fortuna. Che pensi degli Indignados e di OWS?
«Per restare nella scia di Foucault, lui degli Indignados avrebbe detto che si tratta di un movimento parresiastico: un movimento di persone che dicono la verità. Denunciare l'ipocrisia dei mercati, svelare che i debiti sono tutti "odiosi", illegittimi, frutto di rendita e di espropri, e dichiarare che questa crisi l'hanno prodotta le banche e non possiamo pagarla noi, significa affermare la verità del punto di vista del popolo su quella dei mercati. E poi, il movimento di Madrid ha funzionato come uno spazio di democrazia assoluta, come una grande assemblea costituente del comune basata sullo stare insieme nello spazio pubblico: una sorta di ribaltamento dell'etica della paura hobbesiana, in cui mi pare molto visibile l'impronta femminile delle pratica delle relazioni e di un'economia della cura che diventa ecologia politica. La crescita del movimento su scala europea è l'unico antidoto al processo di de-europeizzazione che dicevamo all'inizio. Ma la spinta costituente deve darsi anche delle forme di autodeterminazione locale concreta. Per spezzare il dispositivo cardinale del post-fordismo, lo sfruttamento di saperi, conoscenza e relazioni, non c'è altro modo che ribaltarlo in produzione del comune, tanto più ora che le politiche di austerità comporteranno la privatizzazione ulteriore, la vendita e la svendita dei beni comuni, dall'acqua al patrimonio culturale; ma produrre il comune significa organizzarsi a livello locale, attrezzarsi a gestire nei quartieri l'acqua, l'elettricità, i mezzi di trasporto, le banche stesse».
Loretta Napoleoni, che incontri oggi alla Libreria delle donne di Milano, in un libro di due anni fa sosteneva che la funzione sociale delle banche vive ormai solo nella finanza islamica, e che è da lì che dovremmo riscoprirla: la finanza islamica non specula.
«E' vero, nel senso che dobbiamo reintrodurre la solidarietà al livello giusto, all'altezza delle contraddizioni prodotte dalla crisi. E la ri-socializzazione del debito e della funzione originaria delle banche è una strada per piegare a nostro vantaggio la finanziarizzazione del capitale, lottando sul suo terreno».
Ma la finanziarizzazione si può interrompere, o invertire? Tu ci hai spiegato molto bene che l'economia finanziaria non è più separabile dall'economia reale e si basa sul coinvolgimento attivo di comportamenti e forme di vita della gente comune: il consumatore che usa la carta di credito per fare la spesa, il salariato alle prese con i fondi pensione, i ceti medi strozzati dai mutui per la casa, i poveri che si indebitano fornendo come unica garanzia la loro 'nuda vita'. Se è così, è possibile de-finanziarizzare, almeno in parte, il sistema, o si tratta solo di bonificarlo dai soprusi delle banche? E se produzione e consumo sono così intrecciati al debito, è possibile evitare un esito recessivo e depressivo della crisi?
«La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito di cui abbiamo parlato poco fa, che deprime la domanda e i consumi, e della disciplina della colpa, che deprime le esistenze. Noi dobbiamo lavorare invece per riconvertire la rendita privata in rendita sociale: per la socializzazione del debito, per il rilancio per questa via della domanda e dei consumi di beni socialmente utili, per la riappropriazione dello spazio pubblico, per la ricostruzione di socialità e di felicità collettiva. Il comune è questo e non c'è altro modo per uscire dalla spirale autolesionista della finanziarizzazione. Alcune parole d'ordine delle lotte di questi anni, dal reddito minimo garantito alla Tobin tax, vanno già in questa direzione».
E della parola d'ordine del diritto all'insolvenza che cosa pensi? Nei movimenti viene presentata come un diritto di resistenza alla finanziarizzazione della vita, molti economisti la ritengono una mossa demagogica, altri ci vedono una possibilità di ripristino della sovranità nazionale cancellata dalla tecnocrazia europea.
«Penso che sia giusta se diventa una pratica soggettiva e contestuale, non se viene lasciata in mano agli Stati. Ti faccio un esempio: negli Stati uniti sta maturando da tempo una bolla delle borse di studio, che equivale più o meno alla metà del volume dei mutui subprime: in quel caso il diritto all'insolvenza va senz'altro esercitato dagli studenti e dalle loro famiglie per distinguere il debito illegittimo da quello legittimo. Ma non lo affiderei agli Stati, né alla loro velleità di ritrovare per questa via la sovranità nazionale perduta».
Il rapporto del Censis è attraversato dall’urgenza di invertire la rotta. Di ritrovare quella responsabilità collettiva che è stata decisiva nei momenti più difficili della nostra storia: unico modo per porre fine al "disastro antropologico" degli ultimi anni, a un deterioramento della nostra immagine internazionale che abbiamo vissuto «con dolore e con vergogna». Occorre insomma, ribadisce il Censis, ritornare a "desiderare”, contrastare al tempo stesso il declino e la cultura del declino. Il rapporto evoca anche l’attacco speculativo di questi mesi, che ha visto in noi l’anello debole. E sottolinea la nostra incapacità di governare i processi reali, accresciuta dalla verticalizzazione e dalla personalizzazione del potere ma anche da una più generale povertà della politica. Una politica in crisi radicale di credibilità: solo un italiano su quattro dichiara di aver fiducia nel parlamento o nel governo, ed è fortissima una disattesa richiesta di onestà. Si è aperto in questo modo – prosegue il Censis – un vuoto enorme: quasi che la società possa sopravvivere e crescere "relegando milioni di persone ad essere una moltitudine (egoista) affidata a un mercato turbolento e sregolato", con la supervisione di vertici finanziari ristretti e non trasparenti.
Su diversi terreni occorre dunque agire per contrastare un diffuso sentimento di stanchezza collettiva. Occorre riconquistare il valore della rappresentanza, la capacità di governo e quei caratteri fondativi – quel nostro "scheletro contadino" – che hanno sin qui resistito, anche se appannati dalle "bolle di vacuità" della nostra modernizzazione: flessibilità e capacità dinamica; l’orizzonte come apertura oltre che come realistico limite; il primato dell’economia reale e della lunga durata contro il prevalere dei poteri finanziari e l’illusione che possano disegnare sviluppo. Quegli elementi, cioè, che ci hanno permesso in passato di diventare protagonisti anche sulla scena europea e mondiale.
Nelle scorse settimane, ricorda il rapporto, altri si sono mossi sul piano politico e istituzionale. Ora spetta a noi "guardarci dentro con severità", prendere atto che la nostra società si è rivelata fragile, indifesa, in parte eterodiretta. E analizzare alcune debolezze di fondo: ad es. le contraddizioni di un processo di ampliamento dei ceti medi che è stato elemento importante di crescita ma non ha creato identità collettiva. Di qui, al suo incepparsi, un impaurito ripiegamento individuale che si intreccia al rancore di strati sociali che si riscoprono marginali. Non vanno sottovalutati, sottolinea il Censis, i segnali positivi che pur vengono da alcuni settori dell’economia o da una attitudine internazionale dei nostri Atenei superiore a quel che si pensi, ma vanno guardati con attenzione gli aspetti più inquietanti.
Ad esempio il disincanto di un mondo giovanile duramente colpito dalla disoccupazione, dall’incertezza, dall’esclusione. Un mondo in cui si consolida l’area – segnalata già l’anno scorso, e molto più ampia che in Europa – di coloro che non studiano, non hanno lavoro e non lo cercano, piegati dalla rassegnazione. E in cui si diffonde molto più che fra gli adulti, innaturale e doloroso rovesciamento, la disponibilità anche ai compromessi pur di affermarsi. Senza ripartire da qui, senza innescare qui nuovi meccanismi di speranza e di fiducia, appare davvero difficile invertire la tendenza del Paese.
Le grandi opere hanno tempi di realizzazione molto lunghi e vita tecnica lunghissima. Poi, per definizione, costano ciascuna botte di molti miliardi di euro (quando non decine di miliardi, soprattutto a consuntivo…). Lo Stato non ha certo più i soldi per finanziarle “pronta cassa”. Qui interviene allora il soccorso delle grandi banche, che, bontà loro, si precipitano a finanziarle. Ora, le banche sono intermediari, e guadagnano giustamente in percentuale di quanti soldi girano, e per quanto tempo girano. Poi, ancora giustamente, non vogliono correre rischi di perdere i soldi dei loro clienti, grandi e piccoli. Quindi se i ricavi da parte degli utenti sono pochi o rischiosi o nulli, lo Stato deve garantirli. Quale affare migliore, soprattutto quando sono in grandi difficoltà, di operazioni finanziarie di questo tipo? Da qui una pressione politica fortissima e un totale disinteresse sull’utilità, o anche solo la priorità di queste opere: più sono e più costano meglio è. Se si ripagheranno in tutto o in parte, come le autostrade o gli aeroporti, bene, ma se alla fine pagherà tutto lo Stato, come le opere ferroviarie, bene lo stesso. Meglio per l’immagine dell’opera se vi saranno meccanismi di “finanza creativa” che le metteranno formalmente a carico di imprese pubbliche, come Anas o Fs, con operazioni note come project financing, spesso di sola facciata.
Da qui il fortissimo conflitto di interessi “culturale”, se non necessariamente individuale, tra banchieri e scelte di investimento pubblico (ma come distinguere i due tipi di conflitto? La materia è appiccicosa, anche le banche sono grandi imprese nazionali che vanno aiutate, ecc.). Ai banchieri nelle nomine recenti di Monti andavano almeno affiancati tecnici di provata competenza e indipendenza.
Perché non bisogna dimenticare che un’opera inutile fa contenti quasi tutti: imprese di costruzione, banche, politici che le promuovono e regioni che la chiedono a gran voce (un patetico coro di polemiche è sorto recentemente tra Campania, Veneto, Liguria e Piemonte, al grido di “la mia opera è meno inutile della tua”, con annesse fumosità sui mirabolanti e irrinunciabili effetti di sviluppo di lungo termine, fantomatiche priorità e soldi europei, ecc.). L’opera inutile, o atrocemente sottoutilizzata come la Av Milano-Torino, non fa crescere l’economia come altri tipi di spesa, come le piccole opere e le manutenzioni, ma qui le banche non avrebbero alcun ruolo. Le grandi opere sono infatti “ad alta intensità di capitale” e proprio per questo le banche hanno un grande ruolo, mica come sistemare le strade rotte e pericolose, o migliorare i servizi per i pendolari (su ferro, bus e strada)...
Il fatto poi che gli utenti siano disposti a pagare l’infrastruttura per le strade e non per le ferrovie di lunga distanza dovrebbe far riflettere qualcuno sugli effetti di sviluppo dei due tipi di trasporto. Questo, si badi, non è un capriccio degli utenti, famiglie e industrie, ha solide ragioni funzionali e territoriali, su cui ora qui non possiamo dilungarci.
E la questione adesso è diventata gravissima, perché oggi buttare soldi pubblici sarebbe immensamente più colpevole che dieci anni fa, quando questi erano meno scarsi. Ma il Cipe si accinge serenamente a finanziare un’altra tranche del terzo valico ferroviario tra Milano e Genova, senza che neppure sia noto il piano finanziario dell’opera (cioè non è noto neppure il banalissimo rapporto costi-ricavi, per non parlare del rapporto costi-benefici sociali). Tra l’altro non è certo nemmeno che con i chiari di luna che ci sono, l’opera sarà mai finita (non c’è un meccanismo finanziario “blindato”, anzi, c’è la concreta possibilità che si aprano molti altri cantieri con la stessa logica, aumentando così il rischio di opere che non finiranno mai).
Questo “terzo valico ferroviario” costerà almeno 6 miliardi, e l’ing. Moretti, Ad di Fs, ha dichiarato più volte che è inutile, con qualche coraggio civile, essendo lui il recettore diretto di quei soldi. Una seria “spending review” delle grandi opere berlusconiane sembra davvero urgentissima.
L’economista Keynes diceva che in tempi di recessione sarebbe andato bene anche “scavar buche e riempirle”, perché gli operai avrebbero speso rapidamente i loro stipendi, rimettendo in moto l’economia. Ma certo a vedere questo, e altri, inutili buchi fatti quasi interamente a macchina sotto le montagne sarebbe certamente inorridito. Agli operai, che sono per nostra fortuna spendaccioni, infatti andranno solo le briciole, e in tempi lunghi.