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È ormai consolidata opinione del sottoscritto, spero condivisa con qualche sparuto e sparso gruppetto, che i grandi principi vivano esclusivamente ad alta quota, dove si respira l’aria e la vita non è vuota. Sotto ci stiamo noi, che però siamo egualmente importanti, diciamo anche qualcosina di più che egualmente: perché senza di noi non ci sarebbe alcun grande principio. Accade anche nel caso di quella complessa affascinante macedonia che gli anglosassoni chiamano communities, e che a suo tempo il nostro Adriano Olivetti tentò di importare, declinare, migliorare. Ovvero l’impasto fra spazio, società, economia, egoismi e solidarietà che la vulgata attuale spesso chiama “territorio”.

Più o meno contemporaneamente all’utopia olivettiana, un altro pioniere dell’innovazione nazionale importava da oltre oceano, con ben diverso successo, un altro modello di vita. Sembrava a prima vista una sciocchezza, mettere gli scaffali del negozio dietro al banco anziché davanti, e applicare quattro rotelle alla borsa della spesa, e invece fu proprio quello a sconvolgere la città, la comunità, con buona pace di chi stava scrutando forse con troppa attenzione l’empireo dei grandi principi. Quel pioniere si chiama Bernardo Caprotti, e un paio di anni fa ci ha raccontato a modo suo in un libro autobiografico, Falce & Carrello, sino a che punto fosse lui, e non certi idealisti pirlacchioni, ad aver interpretato davvero destino e ambizioni dell’umanità terrena. Che voleva posti puliti e illuminati bene, facili da raggiungere, dove si consumava a poca spesa e senza certe fumose ideologie egualitarie, come il quartiere, o la solidarietà, dietro cui stavano sempre nascoste idee autoritarie.

Anche se, come ben sappiamo, le idee dominanti sono sempre quelle dei vincitori, è difficile dargli torto all’alba del terzo millennio. Tanto più difficile perché i nemici ideologici di un tempo si sono messi a scimmiottarlo, prima avvitando sopra l’ingresso delle cooperative di consumo la nota insegna al neon (rigorosamente rossa) e sotto la borsa della spesa le rotelle di ordinanza. Poi in un certo modo scavalcando a destra il pioniere, verso la nuova frontiera dello shopping mall suburbano all’italiana, tempio del consumo e dello spazio pubblico taroccato a pagamento, al centro della desolazione indotta di villette, capannoni e svincoli della superstrada. Lo scavalcamento è arrivato al punto di rottura, appunto denunciato da Caprotti nel libro Falce & Carrello, quando il gigante Coop si è fatto monopolista, grazie alla connivenza di pubbliche amministrazioni partigiane infedeli al mandato democratico, occupando militarmente il territorio con le proprie insegne.

La magistratura, tirata in causa, prima ha deciso di ritirare il libro dal mercato, e poi lo ha provvisoriamente rimesso sugli scaffali (vedi articolo dal Corriere della Sera in calce). E sarà un tribunale a decidere se e in che misura hanno ragione l’uno o l’altro, nell’interpretare in modo legalmente ineccepibile i principi della libera concorrenza sul territorio. Ma siamo in un periodo in cui si discute molto dei privilegi delle corporazioni, e sarebbe forse utile tornare sul tema che già avevo toccato recensendo a suo tempo il libro: Esselunga difende la sua posizione di attore del libero mercato, Coop pure, ma la pubblica amministrazione può fare altrettanto? Non mi riferisco qui alle solite (ahimè, solite) storie di malaffare, tangenti, o anche solo scorrettezza formalmente ineccepibile, ma esattamente all’idea olivettiana di comunità, per quanto edulcorata e adattata, che oggi forse qualche assessore magari chiamerebbe “città a misura d’uomo”. E che è ben diversa dallo strattonarsi di lobbies e corporazioni, tutti inclusi.

Non esprime alcuna idea di città, ovviamente, chi dice di ispirarsi a principi di libera concorrenza quando per abbassare i prezzi si va a mettere con un enorme scatolone a dieci chilometri da dove abitano i suoi clienti, al tempo stesso tagliando fuori chi non ha libera disponibilità dell’auto, e desertificando i quartieri. Per non parlare del fatto che il consumatore poi in benzina e manutenzione spende molto più di quanto ha risparmiato su tonno e zucchine. Ma non esprime alcuna idea di città anche chi, pur appellandosi a parole al proprio storico ruolo sociale e urbanistico, vive di artificiosi sostegni pubblici senza dare di fatto nulla in cambio. Mi riferisco alle posizioni più frequenti delle associazioni di esercizi urbani nei confronti di traffico, ambiente, pedonalizzazioni, o anche scelte di trasformazione più strategiche. E al sostegno spontaneo che spesso trovano tra i cittadini: il negoziante piccolo è buono per definizione, di fronte al grande e spersonalizzato capitale dello scatolone a neon. Leggere Caprotti, e il suo quasi ghost-writer Emanuela Scarpellini (La spesa è uguale per tutti, Marsilio 2007), aiuta a capire che non è proprio così.

Resta il ruolo della pubblica amministrazione: riesce ad esprimere un’idea di città qualsivoglia? L’impressione è che quella misura d’uomo tanto spruzzata dal podio delle campagne elettorali finisca per non misurare alcunché. Negli anni ’60 in cui i luccicanti supermercati di Caprotti, sostenuti in un primo tempo da finanziamenti americani, facevano intravedere potenziali luminosi futuri sociali e urbani, pareva che anche la cultura delle città avesse un proprio progetto, magari discutibile e discusso, ma di progetto si trattava: la mitica casettina in periferia, con la mogliettina giovane e carina proprio come piace a me … Man mano quella utopia si realizzava, tra appartamenti con acqua calda corrente e garage con tavernetta per le festicciole, emergevano anche le rogne del modello, come ben sanno sia gli addetti ai lavori che i comuni cittadini. E però, nello stesso modo in cui si affrontano tante altre questioni, le risposte paiono più guardare acriticamente al passato che riflettere davvero sul problema.

Che vuol dire, fare i partigiani del supermercato capitalista, della cooperativa finto-solidaristica, o degli esercenti di vicinato buoni in quanto tali? Non vuole dire nulla, salvo comportarsi automaticamente in modo corporativo, come ad esempio è successo negli ultimi giorni con gli edicolanti (difesi da una parte della sinistra) e i farmacisti (sostenuti da sedicenti ondivaghi ex paladini del liberalismo). Un punto di vista diverso potrebbe essere, appunto, quello di chiedersi che ruolo sociale svolgono negli equilibri attuali, nel territorio attuale, nella comunità attuale, e provare a capire come e dove intervenire a eliminare solo gli aspetti corporativi, conservando il bambino nell’acqua sporca, quando il bambino esiste. C’è un punto di equilibrio fra la comodità e modernità della grande distribuzione organizzata, e il ruolo sociale e spaziale del negozio di quartiere? È quello da cercare, non lo schieramento sull’uno o l’altro fronte.

Emanuele Buzzi, Nuova sentenza: «Falce e carrello» torna in libreria, Corriere della Sera 24 dicembre 2011



MILANO — Torna tra gli scaffali il pamphlet Falce e carrello, scritto dal patron di Esselunga Bernardo Caprotti. E si riaccende la polemica per quello che è stato un caso economico-letterario-politico degli ultimi mesi, poi sfociato in una vicenda giudiziaria. Il libro, pubblicato nel 2007, racconta la competizione con la Coop, denunciando un presunto ostruzionismo delle amministrazioni locali e degli operatori economici delle regioni «rosse» rispetto all'espansione della catena Esselunga.

A settembre la prima sezione civile del tribunale di Milano aveva accolto il ricorso presentato da Coop Italia contro Caprotti e il suo saggio, ordinando (oltre a un risarcimento di 300 mila euro) anche la sospensione della distribuzione del pamphlet. Il motivo? La «pubblicazione, diffusione e promozione degli scritti contenuti nel libroFalce e carrellointegrano un'illecita concorrenza per denigrazione ai danni di Coop Italia». Ora, nuovo round, nuovo atto. La prima sezione civile della Corte d'Appello di Milano ha ordinato la sospensione dell'esecutività della sentenza di primo grado. Di conseguenza il libro può tornare liberamente sul mercato in attesa della decisione di secondo grado, prevista in primavera. Nell'ordinanza, firmata dal giudice Giuseppe Patrone, la sospensione della distribuzione viene indicata come «un provvedimento cui non sembra agevole, per l'attualità degli effetti, negare una sostanziale valenza di sequestro e censura».

E proprio sul valore censorio della sentenza di primo grado a settembre si era scatenata la bagarre politica, con il centrodestra pronto a sollevarsi contro quello che veniva bollato come «un autentico scandalo». Una bagarre culminata con l'intervento in prima persona, sulle pagine delCorriere, dello stesso Caprotti, che ironizzava così sulla vicenda: «Io sono soltanto sleale, cioè "unfair", subdolo e tendenzioso. Un niente, di questi tempi! Quasi un gentiluomo. E per i danni subiti da Coop per questa sleale concorrenza ha accordato 300 mila euro invece dei 40 milioni richiesti! Il libro? Non si ordina neppure di bruciarlo sulle pubbliche piazze».

Coop Italia, al tempo stesso, aveva espresso soddisfazione nel vedere condannata «un'aggressione violenta e lesiva che noi non ci saremmo mai sognati di fare nei confronti di un concorrente», prendendo anche le distanze da ogni tipo di polemica: «La suddetta sentenza non ha nulla a che fare con la pretesa di mettere al rogo i libri, anche se falsi e diffamatori, né ci siamo mai espressi in tal senso».

Era solo il primo atto della battaglia legale milanese. Una delle molte che vedono fronteggiarsi Caprotti e le Coop in tutta Italia.

Nell'aprile 2010 il patron di Esselunga ha vinto nei confronti di Coop Liguria, nella primavera del 2011 ha vinto contro Coop Estense, poi c'è stata la decisione del tribunale di Milano. Nel 2012 sarà la volta della sentenza d'appello a Milano e del primo grado della causa con Coop Adriatica.

Misure ingiuste. Serve un progetto per l'occupazione con una nuova idea di sviluppo per Fiat e Fincantieri, «ci batteremo contro gli accordi separati». L'11 febbraio tutti a Roma

Un giovedì nero, «non per la Fiom ma per la democrazia italiana». Ieri è capitato di tutto, a partire dall'approvazione di una manovra che «aumenta le diseguaglianza e non fa nulla per l'occupazione e per un nuovo modello di sviluppo». Contemporaneamente Fim e Uilm, organizzazioni minoritarie nei cantieri navali, firmavano un accordo con Fincantieri che «accetta lo stesso piano di esuberi che a giugno l'azienda era stata costretta a ritirare grazie alle lotte dei lavoratori». Dulcis in fundo, gli stessi sindacati «complici» firmavano un nuovo accordo separato che estende il modello Pomigliano - massimo sfruttamento e diritti al minimo - a tutte le aziende del settore auto: «Ti rendi conto che stiamo parlando di centinaia di migliaia di lavoratori?». Ecco Maurizio Landini, battagliero segretario della Fiom impegnato su tanti fronti, non escluso quello interno con la Cgil. Con lui tentiamo un'analisi delle ultime performances del governo e della Confindustria.



Partiamo dall'accordo firmato da Fim e Uilm con Fincantieri.


Semplice, Fim e Uilm hanno accettato quel che i lavoratori hanno rifiutato e contro cui si sono battuti. Hanno accettato la logica delle chiusure di cantieri e degli esuberi senza alcun mandato, e pretendono di imporne le conseguenze a tutti i dipendenti.



E il governo Monti? Fincantieri è un'azienda pubblica.


Il ministero dell'industria non chiede alla sua azienda un piano e addirittura consente che venga firmato un accordo separato senza il sindacato più rappresentativo. Ma come pensano di uscire dalla crisi? Quale modello di sviluppo compatibile, di occupazione, di mobilità hanno in testa, se lasciano deperire la produzione di navi, di treni, di autobus, di automobili? 



Pomigliano è un caso unico, irripetibile dicevano i vostri critici di maggioranza e opposizione, Cisl, Uil, persino la Cgil. Poi è arrivata Mirafiori seguita dalla Bertone e infine tutti gli stabilimenti Fiat, 86 mila dipendenti a cui è stato cancellato il contratto nazionale e i diritti conquistati nel secolo scorso. Ora Fim, Uilm e Federmeccanica hanno siglato l'ennesimo accordo separato per l'intero settore auto.

Così, rapidamente, si cancella il contratto nazionale per tutti. La Costituzione è espulsa dalla fabbrica con l'esproprio del diritto di voto e di elezione dei rappresentanti. Prima che un'ingiustizia contro la Fiom è la messa in mora della democrazia dei lavoratori. E se la democrazia esce dal lavoro esce dalla società. Capisci perché insistiamo sulla necessità di ridefinire le regole sulla rappresentanza? Prima la politica prende atto di questo vulnus e meglio è. Chiediamo la certificazione della rappresentanza sindacale attraverso il voto di tutti i dipendenti, in ogni posto di lavoro. Dev'essere chiaro chi rappresenta chi, e insieme, ogni accordo dev'essere sottoposto al giudizio degli interessati e approvato, per essere valido. Abbiamo iniziato la raccolta di firme per un referendum abrogativo dell'estensione del contratto Pomigliano a tutta la Fiat. Alla Ferrari e poi alla Cnh di Jesi persino le Rsu l'anno bocciato. Se passa questo accordo separato e se non ci si libera dell'articolo 8 della manovra berlusconiana arriveremo a una balcanizzazione delle relazioni sindacali. La Fiom ha indetto quattro ore di sciopero a gennaio e una grande manifestazione nazionale a Roma l'11 febbraio, non assisteremo passivamente a questo scempio della democrazia.



Intanto Federmeccanica dice ai suoi affiliati che la Fiom non esiste perché non ha firmato il contratto separato del 2009 che cancella quello unitario di un anno prima.


Mi dispiace per loro, ma la Fiom ha 363 mila iscritti, è il sindacato più forte anche tra le Rsu e nel voto dei lavoratori. Gli imprenditori dovranno fare i conti con noi.



La manovra è stata varata ed è diventata legge. Il tuo giudizio?


Invece di ridurre le diseguaglianze le ha accentuate e l'attacco alle pensioni cancella un elemento di solidarietà generale. Neanche per chi ha fatto lavori faticosi fin da ragazzo c'è un minimo di rispetto. Non c'è patrimoniale né lotta a evasione e corruzione, non ci sono investimenti finalizzati a un nuovo modello sviluppo che rispetti i diritti di chi lavora e dell'ambiente. Devo continuare, sui privilegi, sulle spese per gli armamenti? Aggiungo che un paese democratico dovrebbe potersi scegliere il governo esercitando il diritto di voto.



Sull'ennesimo attacco all'art. 18 la ministra Fornero e il governo sono stati costretti a un passo indietro.


Fornero dice di essere stata fraintesa. Bene, non se ne parli più. Il problema non è togliere le sanzioni esistenti ma costruire un sistema universale dei diritti sul lavoro e al tempo stesso ridurre a 4 o 5 le forme atipiche. In testa bisogna avere il binomio occupazione-diritti. A parità di prestazione si devono avere pari retribuzioni e diritti. Il lavoro precario deve costare di più e ancora, va introdotto un reddito di cittadinanza per chi il lavoro non ce l'ha o ce l'ha precario e intermittente. Serve una semplificazione: si deve andare a un contratto unico di tutta l'industria.



La critica comune alla manovra, la difesa dell'art. 18, il giudizio sugli accordi separati, possono avviare una stagione nuova nei rapporti, oggi difficili, tra Fiom e Cgil?


È evididente che siamo entrati in una nuova fase, ed è ormai palese che neanche l'accordo sottoscritto dalla Cgil il 28 giugno ferma la pratica degli accordi separati. Si può ripartire insieme dalla democrazia, dalla certificazione della rappresentanza che presuppone, e mi rivolgo anche alla politica e al governo, un intervento sull'art. 19. Dal diritto di voto dei lavoratori. E da una battaglia per un nuovo modello di sviluppo dove non ci sia più posto per le troppe ingiustizie che affliggono questo paese. A partire dalla vergogna per il trattamento riservato a 4-5 milioni di precari.

Appena l´emergenza più drammatica si è placata, i partiti hanno rimosso un paradosso inquietante: ancora una volta nel giro di pochi anni il nostro Paese sembra capace di esprimere governi di qualità, capaci di operare quando la politica viene travolta dalla crisi. Così fu fra il 1992 e il 1994 quando, in condizioni difficilissime, Amato e Ciampi avviarono il risanamento proseguito poi dal primo governo Prodi: cioè dal governo di centrosinistra della "seconda Repubblica" che è stato meno prigioniero dei partiti. Nel 1992 il sistema politico crollò all´improvviso, oggi è giunta alle estreme conseguenze una corrosione del centrodestra che ha lasciato solo macerie e che si è svolta nella sostanziale assenza di un´opposizione credibile, capace di idee e progetti alternativi. Oggi come allora nel momento della verità i partiti sono stati più un peso che una risorsa, più un intralcio che uno stimolo.

È un nodo centrale del dramma di oggi. Per questa via si è lacerato sempre più, lo ha sottolineato benissimo Gustavo Zagrebelski, quel rapporto essenziale fra società e stato che è compito dei partiti garantire. Siamo giunti cioè al punto estremo di crisi della democrazia: di questo si tratta, ed è inutile nasconderselo. È significativo il ruolo costituzionalmente ineccepibile e al tempo stesso provvidenziale svolto negli ultimi vent´anni da tre capi dello Stato – Scalfaro, Ciampi e Napolitano – che hanno partecipato alla fondazione della Repubblica e sono felicissima espressione di quel clima, di quello spirito. Sono poi dei "non politici" di assoluta qualità a dare prova di uno spirito di servizio che dovrebbe essere il segno distintivo più nobile della politica. Una politica che sta bruciando quel che rimaneva della propria credibilità continuando a ignorare l´urgenza di riformare radicalmente se stessa, il proprio modo di essere e le proprie regole. E difendendo invece nella maniera più assurda i propri privilegi, fino al colpo di mano alla Regione Lazio e a tutte le vicende che variamente ruotano attorno ai vitalizi.

Siamo di fronte alla necessità di ricostruire non solo un sistema politico ma anche un Paese che appare profondamente smarrito e che è chiamato a sacrifici pesantissimi. Anche per proprie colpe: in passato è stato troppo pronto a rimuovere le proprie responsabilità. A dimenticare il contributo direttamente o indirettamente dato all´aprirsi delle voragini, con pesanti spinte corporative e corpose inosservanze degli obblighi civici. Così fu negli anni Ottanta: di queste pessime stoffe era intessuto il sostegno al pentapartito che celebrava allora i suoi trionfi e che ci guidò poi con spensierato ottimismo sin sull´orlo dell´abisso. La barca va, si diceva: fino al naufragio. Così è stato anche nella stagione berlusconiana, e nessuno può rispolverare oggi il mito di una società civile interamente sana contrapposta a un sistema politico corrotto. Sembra semmai più adeguata una vignetta di Altan di qualche tempo fa: "Il Paese avrebbe bisogno di riforme... ma anche le riforme avrebbero bisogno di un Paese".

Oggi siamo costretti di nuovo a "guardarci dentro", ad interrogarci sul nostro passato e sul nostro futuro. Il centrosinistra deve spiegare in primo luogo a se stesso perché nel crollo della "prima repubblica" mancò l´occasione di proporre modelli e pratiche di buona politica. E perché affossò poi rapidamente il primo tentativo di Prodi di andare in quella direzione, lasciando così via libera al consolidarsi del populismo e dell´antipolitica. Perché, anche, è diventato progressivamente preda di una opaca afasia.

È altrettanto importante il ripensamento che può coinvolgere quell´area moderata – spesso al di fuori o ai margini delle organizzazioni politiche – che non ha seguito fino in fondo la deriva berlusconiana: perché è così difficile nel nostro Paese la nascita di una destra normale? Ce ne sono finalmente le condizioni? Questo sarebbe un importantissimo elemento di svolta.

Le riflessioni delle forze politiche di entrambi gli schieramenti possono oggi essere favorite dalla qualità stessa del governo che è stato messo in campo. Essa ha fatto rapidamente impallidire tutte le ipotesi sul "dopo Berlusconi" che erano state avanzate in precedenza: sia quelle che sapevano di "conservazione" sia quelle che si presentavano con il volto dell´innovazione. Oggi ci appaiono tutte obsolete, sanno di antico e di inadeguato. Ed è sempre la qualità di questo governo a rendere ancor più stridenti le insufficienze dei partiti e le loro più estreme manifestazioni di irresponsabilità. Su questo terreno la Lega ha sbaragliato ogni suo precedente record ma la demagogia e l´improntitudine, dopo anni e anni di governo, non sembrano più farle guadagnare consensi. Se così continuerà ad essere, sarà un ottimo segnale. Non andrebbero neppure commentate poi le sortite di Berlusconi, primo responsabile del disastro ma pronto a far cadere il governo appena i sondaggi gli tornassero favorevoli: eloquente conferma di un insanabile conflitto con il bene comune.

La rifondazione di una classe dirigente sulla base della competenza, del rigore e dello spirito di servizio è dunque obbligatoria ed è un processo da avviare subito: altrimenti al voto del 2013 si giungerà con inquietanti incognite. Senza quest´inversione di tendenza, senza il contributo attivo della politica sarà molto difficile ricostruire l´etica collettiva, il senso di una comunità. Sono straordinariamente importanti al tempo stesso i segnali che verranno dal governo: la difesa intransigente di equità sociale e diritti, merito e trasparenza sono il motore indispensabile e insostituibile di una Ricostruzione. In un Paese smarrito ma ancora capace di uscire dalle derive di questi anni le indicazioni di futuro sono essenziali: contribuiscono in modo decisivo alla capacità vitale di una nazione, alla sua possibilità di ritornare protagonista. Questo governo ha tutte le qualità per mandare i segnali giusti, ed è in realtà l´ultima occasione per invertire la rotta. Per questo è giusto chiederglielo con forza.

Nei trasporti ci sono tante cose utili da fare. Oggi, però, le scelte in questo campo devono guardare anche ai contenuti occupazionali e al contenimento del deficit. Per le ferrovie, servirebbero piccoli interventi, rapidamente cantierabili, che mirino a risolvere i problemi locali. Invece, si continuano a preferire opere ad alta intensità di capitale, con periodi di completamento molto lunghi e incerti. E allora è urgente una spending review del settore, che segni discontinuità con il passato.

È certo presto per valutare la politica infrastrutturale del governo Monti. Dunque è presto anche per giudicare di quanto si discosta dall’approccio del governo passato, caratterizzato da elenchi di “grandi opere” mediaticamente visibili, ma in generale scarsamente meditate e soprattutto mai seriamente valutate.



NON È UNA SPESA ANTICICLICA



I primi segnali di politica infrastrutturale sembrano per ora confermare il passato, il che nel brevissimo periodo è probabilmente inevitabile. Ma in genere le “grandi opere” sono state caratterizzate da costi stratosferici per l’erario, di cui nessuno in questi anni ha dato conto, con poche scelte funzionalmente felici (la linea alta velocità Milano-Roma), altre di dubbia utilità (la linea alta velocità Roma-Napoli) e altre ancora catastrofiche (la linea Milano-Torino sopra tutte).
Ma erano comunque altri tempi. Ora, gli aspetti finanziari e quelli anticiclici incombono. E le grandi opere finanziate dall’ultimo Cipe sembrano davvero molto discutibili da entrambi questi punti di vista. Si tratta principalmente di nuove tratte ferroviarie di alta velocità (la Milano-Genova e la Napoli-Bari), molto costose e con ritorni finanziari probabilmente nulli. (1)
Anche gli aspetti anticiclici lasciano perplessi: si tratta di opere ad alta intensità di capitale, con periodi di completamento molto lunghi e incerti. Esattamente il contrario di quello che serve oggi per la crescita a breve dell’occupazione e della domanda interna.
Cosa si potrebbe fare per accentuare il carattere anticiclico della spesa? Ovviamente, opere rapidamente cantierabili, piccole e che mirano a risolvere i problemi locali. Tra l’altro, la letteratura internazionale mostra che anche dal punto di vista funzionale le manutenzioni e le piccole opere “mirate” tendono ad avere redditività economica più elevata, contenuti anticiclici a parte. (2)



GRANDI OPERE E AMBIENTE



Anche la decisione di investire in opere che gli utenti non sono disposti a pagare, come quelle ferroviarie per le relazioni di lunga distanza, dovrebbe far riflettere sulla loro priorità. Vengono spesso addotte motivazioni ambientali per giustificare tali scelte, nell’assenza di altre argomentazioni. Ma studi recenti hanno evidenziato che le emissioni di gas serra nella fase di costruzione di grandi opere ferroviarie ne vanificano gran parte dei possibili benefici ambientali netti. Diverso sarebbe il risultato spendendo le stesse risorse per il potenziamento tecnologico delle infrastrutture esistenti, stradali e ferroviarie. Rimanendo per esempio in campo ferroviario, le cose più utili (lo ha dichiarato più volte lo stesso amministratore delegato di Ferrovie) sono le opere che riguardano la capacità dei grandi nodi (Torino, Milano, Genova, Roma e Napoli), assai più critica anche per i servizi locali che non le tratte esterne, spesso sottoutilizzate. Tra l’altro, spesso si dimentica che anche l’ad ha sollevato in pubblico forti perplessità sulla logica di alcune “grandi opere” ferroviarie oggi sul tavolo.
Alla luce della nuova situazione finanziaria, appare davvero urgentissima una spending review che segnali una forte discontinuità con le logiche dal governo precedente.



E MANCA LA VALUTAZIONE



Le considerazioni finali del governatore Mario Draghi a maggio 2011 e una corposa ricerca della Banca d’Italia dell’aprile 2011 hanno messo in luce come la totale assenza di una prassi di valutazione economica, trasparente, comparativa e “terza”, sia uno dei fattori della scarsa funzionalità della politica infrastrutturale dell’Italia. D’altronde, le politiche anticicliche richiedono necessariamente tempi brevi di attuazione, mentre le “grandi opere” hanno tempi molto lunghi di avvio, di realizzazione e di messa in servizio. E l’apertura immediata e “incauta” di molti cantieri per opere su cui sussistono dubbi funzionali, e anche incertezze sui fondi per portarle a termine, può dar luogo a notevoli sprechi di risorse scarse.
Il caso del tormentato (e assai dubbio) progetto della linea Torino-Lione è emblematico: in seguito a una serie di perplessità sulla sensatezza di questa spesa, espresse anche su lavoce.info, il progetto è stato trasformato radicalmente e ora si parla di una realizzazione “per fasi”, in funzione della crescita reale della domanda. Non sarebbe forse una logica da estendere a tutte le “grandi opere”? Non è una “buona pratica” da generalizzare con un approccio molto più attento agli aspetti funzionali e finanziari degli interventi, invece che a quelli mediatici?
Le cose utili da fare nei trasporti sono moltissime, ma oggi devono essere direttamente connesse anche ai contenuti occupazionali e al contenimento del deficit, altrimenti ci troveremo presto, anzi ad alta velocità, in Grecia.



NOTE

(1) Diciamo costi finanziari “probabilmente” nulli perché non è dato conoscere i piani finanziari delle opere, cioè il rapporto costi-ricavi. Di analisi costi-benefici nemmeno parliamo, per carità di patria.


(2) Vedi l’inglese “Piano Addington” e gli studi della Banca Mondiale.

«La Provincia ammetta i suoi errori o si prepari ad una denuncia alla Procura della Repubblica». Come promesso non è esente da strascichi il “pasticcio” sul Piano di Assetto Territoriale che ha mandato in escandescenza le quaranta associazioni che si stanno battendo contro la “cementificazione” prevista dal Pat e dal Quadrante di Tessera. Nei giorni scorsi la Giunta ha approvato una modifica che stralcia le prescrizioni relative al rischio idraulico contenute nella relazione tecnica che a novembre ha dato via libera allo strumento urbanistico. Prescrizioni che, di fatto, bloccavano il Quadrante di Tessera.

In quelle righe, importantissime per i comitati capitanati da Michele Boato, si diceva: «A Est della bretella di collegamento autostradale venga interdetta ogni nuova edificazione o urbanizzazione» e ancora «venga posta una norma di salvaguardia temporanea in base alla quale si stabilisca che tali aree non possono essere assoggettate ad interventi di nuova urbanizzazione del suolo». Poi la modifica che resetta tutto e parla di “errore materiale”. Ieri Michele Boato, assieme ad altri rappresentanti delle associazioni, ha convocato una conferenza stampa nella quale va all’attacco.

Le associazioni hanno avanzato una richiesta di «annullamento in autotutela» che sarà depositata in Provincia e che sta girando in queste ore tra consiglieri provinciali e comitati. «Un avvertimento alla presidente Zaccariotto – spiega Boato – prima della denuncia in Procura, visto che in quel documento votato il 14 dicembre ci sono diversi falsi, anzitutto non si tratta di “errore materiale”». I comitati contestano la procedura, sostenuti anche dai grillini, che in merito hanno presentato un’interrogazione urgente all’assessore all’Urbanistica Ezio Micelli e al sindaco chiedendo spiegazioni.

Troppe le cose che non coincidono, secondo Boato, in quelle frasi che stralciano la precedente deliberazione. «La delibera del 14 dicembre – spiega Davide Scano – non dev’essere stata accolta con grande entusiasmo visto che tre assessori e la presidente della Provincia erano assenti e un assessore ha votato contro, proprio Paolo Dalla Vecchia, l’assessore all’Ambiente, cosa che non accade spesso». Le associazioni ambientaliste pongono anche domande di carattere politico: «Chiediamo alla Lega – attacca Boato – di domandare le dimissioni della presidente Zaccariotto innazitutto, in secondo luogo vorremmo sapere perché il sindaco Orsoni, contrario a Veneto City, è a favore di Tessera City».

Boato annuncia battaglia legale e con lui le numerose associazioni che hanno sfilato sia a Venezia che a Tessera, ma anche una consistente parte politica che si sta mettendo in moto se non altro per ottenere spiegazioni chiare su quanto avvenuto con le prescrizioni prima apparse e poi stralciate. A gennaio ci sarà una serie di appuntamenti tra cui un convegno a Mestre per presentare il Pat “pensato” delle associazioni ambientaliste e una nuova manifestazione a Venezia. Marta Artico

Pompei, l’anno orribile

Vittorio Emiliani – l’Unità

Un anno orribile per l’antica Pompei, che si chiude con un nuovo crollo: nella domus di Loreio Tiburtino, una delle più visitate perché posta all’ingresso delle scolaresche. Un dramma della manutenzione ordinaria e straordinaria, che non sembra finire mai. E qui, caso raro, non sono stati i fondi a mancare quanto le competenze dopo il pensionamento dell’ottimo soprintendente Piero Guzzo, anni or sono. Pompei è una delle Soprintendenze “speciali” (accorpata, assurdamente, con quella, importantissima, di Napoli). Non le mancano i fondi, visto che incassa circa 20 milioni l’anno (per un 30% dirottati altrove). Ma, dopo Guzzo, si sono succeduti, a velocità grottesca, ben tre soprintendenti (ad interim) e due commissari: un prefetto in pensione e un funzionario della Protezione Civile. Che hanno delegittimato nei fatti il soprintendente, cioè l’esperto vero. Dei 79 milioni disponibili, il commissario Fiori ne ha investiti pochi, un po’ più della metà, nella indilazionabile messa in sicurezza di una città esposta al consumo di massa, alle intemperie, al dissesto idrogeologico. Il resto? Finito in “valorizzazioni” discutibili, a partire dal Teatro Grande, rifatto in tufo contemporaneo.

Mi par di sentirli i lai di chi invoca la creazione di una Fondazione Pompei e l’intervento salvifico, soprattutto gestionale, dei privati. Sciocchezze. Ignoranti o maliziose. Bisogna invece rafforzare i poteri, anche gestionali, certo, dei soprintendenti, formarli meglio a tali compiti, dotarli di uffici amministrativi e tecnici efficienti, ricostituire la rete, lasciata sfibrare, dei presidii della tutela. A Pompei i soldi non mancano. Altrove ci vogliono anche quelli. Disperatamente.

Pompei. Crollo nella Domus da restaurare

Alessandra Arachi - Corriere della Sera

Questa volta è toccato alla Domus di Loreio Tiburtino. Ad un pilastro del pergolato esterno, per la precisione, quello che si affaccia sul giardino maestoso e imperiale, nel pieno centro della città antica di Pompei, ad un passo dall'Anfiteatro. E venuto giù ieri, il pilastro, ed era mattina, e non è un dettaglio per una Domus che, tra le altre, è aperta alle visite del pubblico. La Domus di Octavius Quartio, detta di Loreio Tiburtino, è tra le più belle e importanti degli scavi di Pompei. Conserva un impianto originario e anche quello splendido giardino immerso tra verde e specchi d'acqua. L'area del crollo ieri è stata sequestrata, i carabinieri stanno indagando le cause. Ma questa volta sarà difficile trovare spiegazioni a quello che appare come un crollo annunciato. Sono anni, infatti, che la Domus di Loreio Tiburtino è stata inserita nella lista delle case che avevano bisogno di restauri e di supporti. Da quando è cominciata la gestione commissariale negli scavi, perlomeno. Era il 2008 quando l'allora commissario Renato Profili stanziò quasi 460 mila euro per il restauro degli apparati decorativi. Non ci fu mai il bando per quella gara. Nel luglio 2010, però, la soprintendenza si lanciò in un annuncio ben più decisivo: 3 milioni e mezzo di euro per il restauro di sette Domus importanti, quella di Loreio Tiburtino in prima linea, deciso dall'altro commissario, Marcello Fiori. A fine luglio sarebbero dovute partire le gare. A settembre i lavori.

Ieri mattina il crollo. E la soprintendente Teresa Elena Cinquantaquattro che si affannava a dire che «il pilastro non era portante né decorativo», che «l'area è stata scavata negli anni Cinquanta da Amedeo Maiuri, poi ha avuto restauri negli anni Ottanta e da allora più nulla, i lavori del commissariamento non hanno interessato questa parte». Non l'hanno interessata, ma era stato deciso di sì. E anche con urgenza. Ma nulla di fatto. E Pompei continua a sbriciolarsi. E il terzo crollo di quest'anno. E il più importante dopo quello della Schola Armaturarum, del 6 novembre 2010.

«Un crollo che non stupisce, anzi. Mi stupisco che non sia successo di peggio», commenta Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore Beni culturali. E annuncia: «L'allarme non è affatto concluso, ci saranno altri crolli». Il neoministro dei Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi, ha fatto sapere che per attivare i 105 milioni di euro stanziati per i restauri degli scavi di Pompei dall'Unione Europea bisognerà aspettare l'autunno prossimo. Ci sono gare d'appalto da fare, di tipo europeo, appunto. E nel frattempo? «Il degrado va fermato subito impegnando squadre per la manutenzione ordinaria», implora Antonio Irlando, responsabile dell'Osservatorio patrimonio culturale. E aggiunge: «Gli interventi straordinari sono molto spesso tardivi. E la domanda che in tanti si fanno è: di chi è la responsabilità del vergognoso stato di conservazione di Pompei?». Anche l'Associazione nazionale archeologi lancia un grido di allarme per gli scavi che tutto il mondo ci invidia e che sono patrimonio dell'Umanità per l'Unesco: «Continueremo ancora per molto a pagare gli errori prodotti dal lungo commissariamento degli scavi. L'unica possibile cura per salvare la città romana sono assunzioni subito».

I precedenti

1 La Schola

Il 6 novembre 2010 nella città antica di Pompei, sulla via dell'Abbondanza, crolla la Schola Armaturarum, la scuola dei gladiatori, restaurata nel 1947

2 Il Moralista

Il 30 novembre del 2010 cede il muro perimetrale che circonda la Casa del Moralista, situata a una ventina di metri dalla Casa dei gladiatori.

Il lupanare

Il primo dicembre 2010, in via Stabiana, crolla una parete di accesso a un ambiente della vicina casa del «lupanare piccolo», chiusa al pubblico.

SOMMARIO:

1. Governo del territorio, autonomia regionale e paesaggio nella sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 2011. – 2. I rapporti tra urbanistica e tutela del paesaggio e l’attuazione dell’ordinamento regionale. La ripartizione delle funzioni amministrative. – 3. Tutela del paesaggio e ripartizione di potestà legislativa tra Stato e Regioni speciali. – 4. La riforma costituzionale del 2001 e la giurisprudenza costituzionale. – 5. Conclusioni.

1. Governo del territorio, autonomia regionale e paesaggio nella sentenza della Corte costituzionale n. 309 del 2011.

La Corte costituzionale ha giudicato di recente le questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge regionale con le quali la Regione Lombardia aveva dato proprie definizioni degli interventi edilizi, discostandosi parzialmente dalle definizioni poste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. In particolare normativa lombarda aveva compreso tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, senza riprodurre il limite, previsto invece dal testo unico, del rispetto della sagoma dell’edificio preesistente. La normativa lombarda si fondava dunque sul presupposto che le disposizioni del testo unico sulle definizioni degli interventi edilizi avessero il carattere di disposizioni di dettaglio, suscettibili di essere sostituite da disposizioni regionali

La Corte costituzionale ha accolto le questioni di legittimità costituzionale ricordando la sua recente giurisprudenza, successiva alla riforma costituzionale del 2001. La Corte aveva già chiarito che la materia dei titoli abilitativi all’edificazione appartiene storicamente all’urbanistica, che a sua volta fa parte del governo del territorio e aveva ricondotto nell’ambito della normativa di principio in materia di governo del territorio le disposizioni legislative riguardanti i titoli abilitativi per gli interventi edilizi. A fortiori, adesso, la Corte ha riconosciuto il carattere di princìpi fondamentali della materia alle disposizioni che definiscono le categorie di interventi, perché è in conformità a queste ultime che è disciplinato il regime dei titoli abilitativi, con riguardo al procedimento e agli oneri, nonché agli abusi e alle relative sanzioni, anche penali. L’intero corpus normativo statale in ambito edilizio è costruito sulla definizione degli interventi, con particolare riferimento alla distinzione tra le ipotesi di ristrutturazione urbanistica, di nuova costruzione e di ristrutturazione edilizia cosiddetta pesante, da un lato, e le ipotesi di ristrutturazione edilizia cosiddetta leggera e degli altri interventi (restauro e risanamento conservativo, manutenzione straordinaria e manutenzione ordinaria), dall’altro. La definizione delle diverse categorie di interventi edilizi spetta, dunque, allo Stato.

La sentenza ha trovato conferma di questa sua interpretazione anche nella più recente legislazione statale in materia edilizia, ma è interessante notare che essa ha invocato anche ragioni attinenti alla tutela del paesaggio. Secondo la sentenza, la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi non può non essere dettata in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio: e a questo riguardo essa ha citato la relazione illustrativa al disegno di legge presentato al Senato il 25 settembre 1920 dal Ministro della pubblica istruzione Benedetto Croce, disegno di legge che divenne poi la l. 11 giugno 1922, n. 778, Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico. Il paesaggio veniva ivi considerato come «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli».

Dopo questa citazione, la sentenza ha ricordato la recente e pertinente giurisprudenza della Corte costituzionale. Sul territorio «vengono a trovarsi di fronte» – tra gli altri – «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni». Fermo restando che la tutela del paesaggio e quella del territorio sono necessariamente distinte, rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi. Se il legislatore regionale potesse definire a propria discrezione tale linea, la conseguente difformità normativa che si avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute sul paesaggio della Nazione, inteso come «aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale» e sulla sua tutela.

La decisione della Corte, ampiamente condivisibile, si presta a più di un commento, ciascuno dei quali meriterebbe di essere approfondito e motivato. Ma l’aspetto più interessante della sentenza della Corte costituzionale in rapporto al tema di questa relazione è costituito dal richiamo alla protezione del paesaggio, dalla tutela costituzionale di questo valore e dalla sua incidenza sul governo del territorio, ed è questo aspetto quindi che qui si riprende e sviluppa, con riferimento soprattutto alle Regioni a statuto speciale.

2. I rapporti tra urbanistica e tutela del paesaggio e l’attuazione dell’ordinamento regionale. La ripartizione delle funzioni amministrative.

La distinzione tra urbanistica e tutela del paesaggio riposa innanzi tutto sulla diversa e separata tradizione normativa di disciplina delle due materie: la tutela del paesaggio ha preceduto storicamente la disciplina urbanistica. La giurisprudenza della Corte costituzionale ha poi contribuito a distinguere le due materie: due notissime sentenze del 1968 hanno risolto in modo diverso il problema della indennizzabilità dei vincoli urbanistici e di quelli paesaggistici, e quella impostazione è rimasta ferma in tutta la giurisprudenza costituzionale successiva.

La distinzione tra le due materie dell’urbanistica e della tutela del paesaggio emerse inoltre chiaramente in sede di prima attuazione delle Regioni ordinarie alle quali l’art. 117 Cost. attribuiva potestà legislativa in materia di urbanistica, senza menzionare il paesaggio. La legislazione statale allora vigente prevedeva una connessione tra la due materie. La c.d. legge ponte, la l. 6 agosto 1967, n. 765, aveva modificato la legge urbanistica stabilendo che in sede di approvazione del piano regolatore generale il Ministro dei lavori pubblici potesse introdurre d’ufficio le modifiche riconosciute indispensabili per assicurare la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali e ambientali ed archeologici; e altrettanto la stessa legge aveva disposto anche per l’approvazione dei piani particolareggiati di esecuzione del piano regolatore generale. La tutela del paesaggio si attuava dunque in parte attraverso la pianificazione urbanistica comunale, con una limitazione molto significativa dell’autonomia del comune nella pianificazione del proprio territorio: le modifiche d’ufficio per la tutela del paesaggio, infatti, potevano avere anche carattere sostanziale. Ma per altra parte la tutela del paesaggio si realizzava, indipendentemente dalla disciplina urbanistica, a cura esclusiva dello Sato attraverso gli specifici provvedimenti previsti dalla l. 29 giugno 1939, n. 1497.

L’attuazione dell’ordinamento regionale tenne conto di questo doppio e parallelo regime di tutela. Furono allora trasferite alla Regioni ordinarie le sole funzioni in materia urbanistica compresa l’approvazione dei piani regolatori generali e dei piani particolareggiati, ma non anche le funzioni di tutela paesaggistica disciplinate dalla l. 1497/1939, con la sola eccezione della redazione e dell’approvazione dei piani territoriali paesistici, implicitamente considerati come piani essenzialmente urbanistici. D’altra parte la Corte costituzionale respinse le censure di illegittimità costituzionale avanzate dalla Regione Liguria nei confronti del decreto di trasferimento delle funzioni per l’omissione del trasferimento delle funzioni di tutela paesaggistica proprio sul presupposto della delimitazione della materia dell’urbanistica, di competenza regionale, alla stregua della definizione datane dall’art. 1 della l. 1150/1942, secondo cui l’oggetto della legge urbanistica era l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati. La giurisprudenza, sia amministrativa che ordinaria, continuò inoltre ad affermare, come già in precedenza, l’autonomia dell’autorizzazione paesaggistica dalla licenza edilizia, poi dalla concessione edilizia.

La connessione, ma anche la distinzione, tra urbanistica e tutela del paesaggio venne inoltre riconosciuta, cinque anni dopo, anche in sede di completamento dell’ordinamento regionale. La materia dell’urbanistica fu definita allora in modo molto più ampio rispetto all’art. 1 della legge urbanistica, la l. 1150/1942, facendo riferimento alla «disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente». Ciò nonostante le funzioni di tutela del paesaggio non vennero trasferite alle Regioni ma soltanto delegate loro, conservando all’amministrazione statale significativi poteri integrativi e di controllo. Si riconosceva così la connessione della tutela del paesaggio con la materia urbanistica e tuttavia si confermava che la tutela del paesaggio non rientrava nelle competenze proprie delle Regioni ordinarie: non si poteva applicare il primo comma, dell’art. 118 Cost., sulle funzioni amministrative regionali proprie, ma si poteva applicare soltanto il secondo comma dello stesso art. 118 Cost., sulla delega di funzioni statali.

La distinzione tra urbanistica e tutela del paesaggio era confermata, del resto, anche dall’ordinamento delle Regioni speciali, la cui autonomia legislativa è differenziata sia rispetto a quella delle Regioni ordinarie, sia tra le stesse Regioni speciali. La tutela del paesaggio compare infatti come materia autonoma, distinta dall’urbanistica, ma sempre rimessa alla potestà legislativa regionale esclusiva, negli statuti della Valle d’Aosta, della Sicilia e del Trentino-Alto Adige, ove la materia è di competenza delle due Province di Trento e Bolzano. Il Friuli-Venezia Giulia, invece, esercita in materia di paesaggio una diversa e minore potestà legislativa, di integrazione e attuazione della legislazione statale. Infine il paesaggio non figura nello statuto della Regione Sardegna come materia di potestà legislativa regionale.

Oltre all’autonomia legislativa delle Regioni speciali, bisogna considerare anche la loro autonomia amministrativa, realizzata per la tutela del paesaggio in modo distinto dall’urbanistica.

Per la Valle d’Aosta il trasferimento alla Regione delle funzioni amministrative in materia di tutela del paesaggio è avvenuto in due fasi distinte, di cui la prima è addirittura antecedente all’autonomia legislativa della Regione. Nel 1946 fu infatti stabilito che le attribuzioni spettanti alle Sovrintendenze alle antichità e belle arti fossero esercitate dalla Valle d’Aosta con uffici e personale propri. La Regione Valle d’Aosta pretese di disciplinare con propria legge anche le funzioni in materia di tutela del paesaggio spettanti a organi diversi dalla Soprintendenza, ma la legge regionale fu dichiarata costituzionalmente illegittima. Le altre funzioni dell’amministrazione dello Stato in materia di tutela del paesaggio sono state trasferite alla Regione Valle d’Aosta, senza eccezione alcuna, soltanto con le norme di attuazione dello statuto emanate nel 1978.

Per la Sicilia fino al 1975 sono mancate specifiche norme di attuazione dello statuto in materia di tutela del paesaggio. Tuttavia già nel 1962 la Corte costituzionale aveva chiarito che le attribuzioni nella materia, già di competenza dell’Alto commissario, dovevano intendersi trasferite al Presidente della Regione in veste di organo decentrato dello Stato, a sensi del d.lgs.C.p.S. 30 giugno 1947, n. 567. Nel 1975, poi, le norme di attuazione dello statuto hanno devoluto alla competenza propria della Regione siciliana tutte le attribuzioni degli organi centrali e periferici dell’amministrazione statale in materia di tutela del paesaggio (nonché di antichità, opere artistiche e musei). Conseguentemente sono passati alle dipendenze della Regione, entrando a far parete integrante della sua organizzazione amministrativa, gli uffici periferici del Ministero per i beni culturali esistenti nella territorio della regione aventi competenza nelle materie trasferite.

In Trentino-Alto Adige per tutti gli anni ’60 si ebbe di fatto un ordinamento differenziato tra le due province di Trento e Bolzano. In provincia di Trento, infatti, la tutela paesaggistica continuò a essere esercitata dalla Soprintendenza ai monumenti e gallerie di Trento. Per contro la Provincia autonoma di Bolzano, pur in mancanza di specifiche norme di attuazione dello statuto, emanò una propria disciplina normativa della materia e, sulla base di questa, si sostituì allo Stato nell’esercizio delle funzioni amministrative di tutela. Le censure di illegittimità costituzionale mosse nei confronti della legge provinciale di Bolzano, e motivate proprio dalla mancanza di norme di attuazione, furono rigettate dalla Corte costituzionale; anche la Provincia di Trento disciplinò quindi la tutela del paesaggio, subentrando allo Stato nell’esercizio delle relative funzioni amministrative. A seguito del nuovo statuto della Regione Trentino-Alto Adige del 1972 sono mancate specifiche norme di attuazione in materia di tutela del paesaggio. Le norme di attuazione relative alla tutela e alla conservazione del patrimonio storico, artistico e popolare hanno tuttavia adeguato l’organizzazione amministrativa dello Stato al riparto delle funzioni anche per quanto riguarda la tutela del paesaggio, disponendo la soppressione della Soprintendenza ai monumenti e gallerie di Trento.

Lo statuto della Sardegna attribuisce alla Regione potestà legislativa esclusiva in materia di edilizia e urbanistica, ma non in materia di tutela del paesaggio. Tuttavia, analogamente a quanto già disposto nel 1972 per le Regioni ordinarie, nel 1975 con norme di attuazione dello statuto sono state trasferite alla Regione la redazione e l’approvazione dei piani territoriali paesistici. In seguito, nuove norme di attuazione dello statuto, emanate nel 1979, hanno esteso alla Sardegna la soluzione già adottata dal d.P.R. 616/1977 per le Regioni ordinarie, disponendo in favore della Regione Sardegna la delega delle funzioni amministrative in materia di bellezze naturali e il trasferimento delle sezioni delle bellezze naturali delle Soprintendenze per i beni ambientali e architettonici, nonché delle commissioni provinciali per la tutela del paesaggio. L’efficacia della delega, tuttavia, è stata subordinata all’entrata in vigore di una legge ordinaria per il finanziamento degli oneri derivanti dall’esercizio delle funzioni, legge che è stata emanata solo quattro anni più tardi: l’adeguamento della Sardegna al regime delle Regioni ordinarie è avvenuto quindi con una consistente dilazione temporale.

Per il Friuli-Venezia Giulia le prime norme di attuazione dello statuto, nel 1965, hanno trasferito alla Regione le funzioni amministrative in materia di urbanistica, lasciando invariate le competenze statali in tema di tutela del paesaggio. Dieci anni dopo, in sede di adeguamento e integrazione di tali norme di attuazione, sono state trasferite alla Regione le funzioni amministrative previste, per le Regioni ordinarie, dall’art. 1 del d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, per la parte che già non le spettava in forza delle norme di attuazione precedenti: la Regione ha quindi acquisito la competenza alla redazione e approvazione dei piani paesistici, competenza che alle Regioni ordinarie era stata riconosciuta già nel 1972. Altrettanto è avvenuto, ma con dieci anni di ritardo, per le funzioni di tutela paesaggistica delegate alle Regioni ordinarie dal d.P.R. 616/1977: nel 1987 la delega è stata estesa anche al Friuli-Venezia Giulia che dunque ha dovuto ancora attendere per ottenere il proprio adeguamento a quanto già stabilito per le Regioni ordinarie.

3. Tutela del paesaggio e ripartizione di potestà legislativa tra Stato e Regioni speciali.

Nel primo periodo di attuazione dell’ordinamento regionale la Corte costituzionale fu chiamata a decidere la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni di legge regionale con le quali la Valle d’Aosta aveva dichiarato bellezza naturale e zona di particolare importanza turistica tutto il territorio regionale, senza alcuna discriminazione. La Corte costituzionale accolse la questione, ritenendo che le disposizioni impugnate violassero il principio del giusto procedimento, un principio dell’ordinamento giuridico dello Stato che costituiva un limite anche per la potestà legislativa esclusiva della Regione in materia di paesaggio.

Il principio del giusto procedimento, peraltro, costituisce un limite solo per la potestà legislativa regionale, non per la potestà legislativa dello Stato. La dichiarazione ex lege di interesse paesaggistico, preclusa alla legge regionale della Valle d’Aosta, è stata quindi possibile, oltre vent’anni dopo, per intere categorie di beni per un provvedimento normativo statale, il c.d. decreto Galasso, emanato nella forma di decreto-legge, dopo che un provvedimento amministrativo tendente allo stesso risultato (e ugualmente denominato decreto Galasso) era stato parzialmente annullato dal tribunale amministrativo regionale del Lazio.

Il decreto Galasso ha confermato la connessione tra urbanistica e tutela del paesaggio, pur nella distinzione tra le due materie, ammettendo l’equivalenza tra piani paesistici e piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali, e ha assunto grande rilevanza anche nei rapporti fra Stato e Regioni speciali. La legge di conversione ha infatti stabilito che le disposizioni dell’art. 1 del decreto-legge costituiscono norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, idonee dunque a limitare anche la potestà legislativa esclusiva in materia di paesaggio delle Regioni Valle d’Aosta e Sicilia e delle Province autonome di Trento e Bolzano.

La Corte costituzionale, chiamata a giudicare varie questioni relative al decreto Galasso, ha confermato ancora che la tutela del paesaggio non è assorbita nella materia dell’urbanistica, di competenza regionale, ha attribuito alla tutela del paesaggio il carattere di valore primario, insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi altro, ha dato rilievo al principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni per il perseguimento della tutela paesaggistica, ha riconosciuto il carattere di grande riforma economico-sociale della Repubblica nella nuova disciplina e ha quindi dichiarato infondate le censure mosse al decreto dalla Regione Valle d’Aosta e dalle Province di Trento e Bolzano, le quali avevano lamentato la lesione della loro potestà legislativa primaria.

Ma, per quanto concerne specificamente la Sardegna, bisogna ricordare anche un conflitto di attribuzioni sorto a seguito di un ordine del giorno approvato dal Consiglio regionale della Regione Sardegna il 27 luglio 1995, con il quale si era deciso di considerare definitivi i provvedimenti emanati nell’esercizio delle funzioni amministrative delegate in materia paesistica e di impegnare la Giunta regionale a adottare comportamenti conseguenti con il Ministero per i beni culturali e ambientali, mutando la prassi seguita in precedenza. La Corte ha accolto il ricorso confermando che il paesaggio costituisce, nel nostro sistema costituzionale, un valore etico-culturale che trascende la competenza della Regione in materia urbanistica e nella cui realizzazione sono impegnate tutte le pubbliche amministrazioni e, in primo luogo, lo Stato e le Regioni, ordinarie o speciali, in un vincolo reciproco di cooperazione leale. La sentenza ha respinto la tesi che, vertendosi in materia di funzioni amministrative delegate, i provvedimenti regionali sarebbero stati da considerare definitivi e, in quanto tali, non soggetti a riesame, rilevando per contro che il regime giuridico dei provvedimenti regionali in materia paesaggistica era definito esaustivamente dall’art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431 (di conversione in legge del decreto Galasso), il quale poneva l’obbligo di comunicazione di tali provvedimenti al Ministero per i beni culturali e ambientali, proprio ai fini dell’esercizio dei poteri di controllo. La sentenza ha ricordato la giurisprudenza costituzionale secondo cui i poteri ministeriali previsti dalla l. 431 del 1985 sono posti a estrema difesa dei vincoli paesaggistici e, come tali, costituiscono parte di una disciplina qualificabile, per la diretta connessione con il valore costituzionale primario della tutela del paesaggio (art. 9 Cost.), come norme fondamentali di riforma economico-sociale, in conformità, del resto, alla esplicita e, in questo caso, pertinente autoqualificazione contenuta nell’art. 2 della stessa legge. E come le disposizioni legislative statali che prevedono doveri di comunicazione e poteri ministeriali di controllo non possono essere derogate, modificate o sostituite da leggi regionali, così, a maggior ragione, non possono essere violate dalla Regione nell’esercizio di potestà amministrative delegate. Tanto meno ne può essere resa dubbia l’effettività dal Consiglio regionale che, insieme agli altri organi direttivi della Regione, è destinatario di un dovere costituzionale di lealtà verso lo Stato. A tutela della Regione, la sentenza ha soltanto riconosciuto che il principio di leale cooperazione non opera in modo unidirezionale: al dovere della Regione di comunicare immediatamente i provvedimenti adottati e la documentazione sulla quale essi si fondano, corrisponde il dovere dello Stato di non determinare ingiustificati aggravamenti del procedimento con richieste di documentazione pretestuose, dilatorie o tardive, suscettibili di menomare l’esercizio delle attribuzioni regionali interferenti con la tutela del paesaggio. (SEGUE)

La soprintendente Cristina Acidini non ha ancora risposto all’appello sottoscritto ormai da cinquecento persone, tra cui i più autorevoli esperti internazionali di Leonardo e Vasari. In compenso Maurizio Seracini comunica che il sindaco Renzi autorizza a far ripartire la ricerca, e sostiene che «chi ha firmato la lettera non è stato informato bene del nostro lavoro».

L’esposto di Italia Nostra alla Procura della Repubblica di Firenze e l’appello degli studiosi si fondano invece su un documento di prima mano: la lettera di rimostranza inviata all’Acidini da Cecilia Frosinini il 23 novembre scorso. La responsabile della pittura murale presso l’Opificio delle Pietre Dure ritiene che: «l’Istituto non sia stato messo in condizione di esprimere la propria valutazione tecnico-scientifica …; l’Istituto non sia stato messo in condizione di esplicare il proprio ruolo tecnico nel valutare la percorribilità delle operazioni richieste; all’Istituto non sia stato concesso di decidere in piena autonomia ... All’istituto quindi è stato negato il suo ruolo di organo della conservazione, imponendogli di operare danneggiamenti alla superficie pittorica attraverso strappi non motivati da considerazioni conservative». La dottoressa Frosinini paventava infine che «le scelte di Ente Locale e sponsor» potessero essere lesive del suo «ruolo professionale e scientifico e contrarie alle funzioni che lo Stato mi chiede di svolgere nell’ambito della ricerca e della conservazione».

Riassumiamo. Il sindaco di Firenze desidera portare avanti una ricerca che agli occhi dei massimi esperti internazionali di Leonardo (tranne che a quelli di Carlo Pedretti, maestro di Seracini) sembra completamente infondata sul piano scientifico. Egli non pensa di dover nominare un comitato scientifico indipendente (come si sarebbe fatto in qualunque paese civile), ma per bucare Vasari ha bisogno dell’assenso della soprintendente di Firenze Acidini, la quale a sua volta ottiene il via libera dalla soprintendente pro-tempore dell’Opificio, che è sempre l’Acidini (una situazione evidentemente infelice, e foriera di più di un conflitto d’interesse). Ma la lettera della Frosinini mostra che l’assenso dell’Opificio non è fondato né sulla scienza né sulla coscienza. Mancando quindi ogni forma di garanzia e di terzietà, la comunità scientifica internazionale (inclusi altri tecnici dell’Opificio e storici dell’arte della stessa soprintendenza di Firenze) invoca una sospensione e un controllo indipendente e autorevole, e Italia Nostra chiede doverosamente la verifica della magistratura.

A questo punto ci si deve chiedere: perché i fori sul Vasari sono stati autorizzati dall’Acidini, se erano in contrasto con l’etica della conservazione o addirittura violavano la legge? E se invece erano perfettamente in regola, perché si è smesso di farli, visto che la Procura non ha disposto nessuna sospensiva?

Da troppo tempo, e su troppe gravi questioni, Cristina Acidini ritiene di non dover rendere conto né alla città, né all’opinione pubblica, né alla comunità scientifica. Ebbene, è venuto il momento di farlo.

Egregio Direttore, senza entrare nel merito alle valutazioni ambientalistiche dell’articolo “Grande Nonna Quercia, una favola per salvare l’ambiente”, pubblicato il 18 dicembre 2011 a firma di Nando Dalla Chiesa, desidero evidenziare che il raccordo autostradale tra il nuovo casello di Castelvetro Piacentino e la strada statale 10 “Padana Inferiore” e il completamento della bretella autostradale tra la stessa statale 10 e la strada statale 234, con un nuovo ponte sul fiume Po, sono affidati in concessione alla Società Centropadane dal 1999. Il progetto definitivo ha ottenuto il parere di compatibilità ambientale nel 2009 ed è stato approvato in sede di Conferenza di Servizi nel 2010. Per questo motivo, non si comprende lo “scrupolo” posto dall’autore dell’articolo in merito alla realizzazione di questa infrastruttura. Inoltre, per quanto riguarda la posizione dell’Anas accusata di far pagare un “prezzo” alla società Centropadane, si precisa che la concessione è scaduta il 30 settembre 2010 e non è previsto alcun rinnovo. La Concessionaria sta proseguendo nella gestione della concessionesecondo quanto previsto nell’atto convenzionale in attesa che venga individuato il nuovo concessionario.

Giuseppe Scanni, Direttorerelazioni esterne Anas

In riferimento alla nota inoltrata dall’Anas al Fatto Quotidiano, relativa all’articolo di Nando Dalla Chiesa pubblicato domenica, si precisa che, in relazione all’infrastruttura denominata “Terzo ponte”, pendono ancora tre ricorsi al Tar, un’interrogazione di due europarlamentari e una richiesta di approfondimento alle autorità italiane da parte Ue sull’incidenza negativa su tre aree protette Sic e Zps sul fiume Po. Quanto agli interessi che guidano la realizzazione del Terzo ponte, si cita la dichiarazione del presidente di Centropadane spa, Augusto Galli, a una testata cremonese: “Il terzo ponte è un'opera prevista fra Anas e Autostrade Centro Padane. La nostra concessione scade il 30 settembre del 2011. Quindi, se non si realizzasse quest'opera, perderemmo la concessione dell'Anas. E si pagherebbe una penale". (Il Piccolo Giornale, 12/04/04). Questa ammissione manifesta, ci pare, le reali motivazioni alla base di questa infrastruttura.

Il comitato “Gli amici della grande nonna quercia”

postilla

Giusto ribadire alcuni aspetti tecnico-amministrativi e riguardanti gli investimenti e l’impatto ambientale locale dell’opera. E implicitamente ricordare quanto all’approccio poetico-giornalistico dell’articolo di Nando Dalla Chiesa, si debbano sommare altri punti di vista, perché come al solito i paladini della “banda di strada” suonano le proprie trombe nella stessa tonalità che si ascolta da una cinquantina d’anni e più. Uno spartito scritto sulla tabula rasa di un territorio che pare star lì solo ad aspettare passivo la trasformazione, una specie di materia prima amorfa, che dà segni di vita solo là dove spunta la quercia antica, l’edificio monumentale, il proprietario cocciuto ecc.

Succede invece che nel caso specifico, come in tanti altri, si è sostituito il progetto ingegneristico al piano, secondo lo schema vetusto dell’anello di tangenziale con innestati i poli di espansione urbana, rispondendo con automatismo e proponendo un modello che quasi ovunque ha prodotto nei decenni molti più problemi di quanti ne abbia mai risolti. Ci sono studi - vedi ad esempio l'allegato - che spiegano come, per garantire la medesima accessibilità ai medesimi poli produttivi (è questa la giustificazione principale della bretella-ponte) si possa agire su un’altra fascia urbana, già ampiamente trasformata, lasciando perdere nuovi ponti e compromissione di aree di grandissimo pregio. Ma probabilmente così ci si allontana dai sacri precetti degli anelli concentrici della crescita infinita cari alla religione detta “sviluppo del territorio”. Amen (f.b.)

Come si studia anche a scuola, o almeno si dovrebbe studiare quando ci si prepara in discipline del territorio, una delle particolarità dell’urbanistica americana è quella di avere profonde radici naturali. A differenza della tradizione europea di intervento socio-sanitario per migliorare le condizioni abitative delle masse inurbate, o di quella specificamente italiana di dialettica fra città antiche e vita moderna, oltre oceano esiste il contributo fondante e fondamentale della landscape architecture, da Andrew Jackson Downing attraverso Frederick Law Olmsted Sr. fino a John Nolen e all’interdisciplinarità di Clarence Stein, Lewis Mumford, Benton MacKaye.

Ce lo ribadiscono spesso mostrandoci i percorsi sinuosi delle stradine a cul-de-sac che si inoltrano fra dune erbose, siepi, alberature, dove le case unifamiliari paiono solo un comodo guscio per proteggere la famiglia dalle intemperie, in un ambiente che pur fortemente artificioso tenta il più possibile di rispettare o riprodurre uno spazio naturale. E non si capisce poi benissimo come mai il famoso progetto di Seaside in Florida, quello che ha lanciato nel firmamento archistar lo studio DPZ di Andrés Duany dopo essere stato usato come sfondo del film The Truman Show, si distingua da tutti gli altri. In fondo il modello sembrerebbe identico, salvo qualche dettaglio.

E invece no: a Seaside c’è qualcosa che è silenziosamente ma quasi totalmente sparito dalla produzione corrente di planned communities, ovvero i quartieri suburbani chiavi in mano dove abita una quota maggioritaria dei cittadini Usa, cioè un certo rapporto con la natura. Altrove, questo rapporto è del tutto finto e anzi di pura aggressione, dagli scarichi delle auto indispensabili per fare qualunque cosa, alla materia prima stessa di cui quei simil-villaggi sono fatti, inclusa terra e piante. Per capirlo con un impressionante colpo d’occhio, basta guardare questa serie di immagini su AtlanticCities. (f.b.)

Come si faccia a riformare il ciclo di vita pensavamo lo sapesse solo Dio, invece lo sa anche la ministra Elsa Fornero che non cessa di spiegarci come si fa: aumentando il tempo di lavoro, innalzando l'età pensionabile, legando le pensioni ai contributi e i salari alla produttività perché bisogna lavorare fino a 70 anni ma sapendo che si vale meno che a 30, liberando i nonni dal mantenimento dei nipoti e remunerando i nipoti con una mancia chiamata salario d'ingresso, parificando il ciclo lavorativo delle donne a quello degli uomini e compensandole con la speranza che i mariti laveranno i piatti tre volte alla settimana.

Lasciamo perdere argomenti già spesi sull'iniquità della riforma, e tralasciamo pure il fatto che la stessa ministra dichiara candidamente che tutto questo per funzionare avrebbe bisogno di una fase di crescita, mentre noi siamo in recessione, lo saremo di più dopo riforme di tal fatta e dunque quello che ci aspetta sono i cinquantenni a spasso senza lavoro e senza pensione a braccetto con i trentenni senza arte né parte. Ma perché Fornero chiama "riforma del ciclo di vita" quella che più umilmente potrebbe chiamare riforma del mercato del lavoro e del sistema previdenziale? Qual è la pretesa che si esprime con queste parole?

Il linguaggio, com'è noto, non mente. Non mentiva sotto il cielo di Berlusconi, e non mente sotto il cielo di Monti. Eppure, con quanta minore acribia ci si esercita ad analizzare questo rispetto a quello. Sarà solo perché la lingua pop del Cavaliere si esponeva a una dissacrazione altrettanto pop, mentre il lessico tecnico e glaciale dei Prof, nonché la spocchia di classe che non lesinano, comanda, e ottiene, deferenza e obbedienza, e quando non la ottiene, vedi il caso di Susanna Camusso, si scatena l'ira di dio?

"Riforma del ciclo di vita" è un'espressione che richiama con chiarezza adamantina quella pretesa di governo delle vite che è il cuore del biopotere contemporaneo. Come quest'ultimo si eserciti, con quali mezzi e quali astuzie, l'abbiamo imparato per l'appunto da Berlusconi, il quale di questa pretesa non faceva mistero: puntava alle nostre menti con le sue tv, ai nostri sensi con le sue esternazioni sui deputati "maleodoranti" dell'opposizione, alle nostre fattezze con la sua estetica di regime, al nostro immaginario con le sue esibizioni sessuali, ai nostri desideri con il suo consumismo dissipatorio. Però quella pretesa biopolitica non è affatto sparita con lui, anzi. E il sollievo, del tutto comprensibile e condivisibile, con cui, all'atto del giuramento al Quirinale del governo Monti, è stato salutato il cambiamento estetico che si annunciava sotto gli abiti discreti e i volti non plastificati dei nuovi ministri non può esimerci dall'interrogarci sul risvolto etico si sta consumando all'ombra della loro rispettabilità. Dal Carnevale alla Quaresima, si disse allora con una battuta. Ma è bastato un mese per capire che non c'è niente da ridere. Dall'etica del godimento all'etica della penitenza: dalla padella nella brace?

Adesso non si tratta più di esibire i corpi, ma di disciplinarli: di riportarli a una disciplina del lavoro priva, però, delle compensazioni espansive - diritti, garanzie, sicurezza - dei decenni d'oro del fordismo, e corredata dalla precarietà disperata del postfordismo. Non si tratta più di titillare i desideri, ma di reprimerli. Non si tratta più di nascondere l'invecchiamento col botox, ma di usarlo per fare cassa. Non si tratta più di prolungare l'adolescenza, ma di allarmarla per il suo futuro. E non si tratta più di deresponsabilizzare l'età adulta, ma di colpevolizzarla.

Come? Con il recitativo del debito: tutti indebitati, tutti colpevoli. E tutti disposti a espiare. Un libro di Maurizio Lazzaratto anticipato sull'ultimo Alfabeta spiega egregiamente questa svolta dell'etica neoliberale che si compie all'ombra della crisi del debito sovrano, e che come al solito nel "laboratorio italiano" si vede meglio che altrove. Eravamo tutti imprenditori di noi stessi ricchi di chance al tempo del Cavaliere, siamo diventati tutti debitori carichi di colpe al tempo di Monti. Il debito funziona così, sparge (to spread in inglese, sarà un caso?) su tutti la responsabilità di alcuni.

Dei quali "alcuni" non si parla: se siamo nei guai fino al collo è di certo per via degli oneri del lavoro dipendente e del welfare, forse per i privilegi di qualche «casta» data in pasto al populismo, ma i profitti sono senza macchia e la finanza senza peccato. E comunque, i nostri ministri ce lo dicono ogni giorno, per questi dossier c'è tempo; per le pensioni no. Aspettiamo fiduciosi. Ma allontanando da noi la penitenza che non ci spetta per un godimento che non è stato il nostro. Di tutto c'è bisogno, fuori che di un senso di colpa che si solidifichi in consenso.

A forza di parlare di governo tecnico, e di un premier che non ha ambizioni politiche, e di ministri che mettono al servizio dell´Italia le proprie conoscenze scientifiche per tornare presto agli studi o alle attività di ieri, ci stiamo abituando a tenere la mente in naftalina, come se il nostro pensare fosse il giunco che astutamente si piega, in attesa di rialzarsi tale e quale appena passata la piena.

Il proverbio del giunco è famoso nel vocabolario della mafia: sembra impregnare anche i partiti e le corporazioni, alle prese con la crisi e il dopo-berlusconismo. Quel che sta tentando il governo non sarebbe politica autentica, nella casa italiana ed europea che abitiamo. Finito l´intervento degli idraulici, rincaseranno i ben più legittimi architetti, decoratori, proprietari.

Questa è la trappola, anche linguistica, che incatena le menti. In realtà, lo sforzo di sanare l´Italia e per questa via l´Europa è politica nel senso pieno e alto, e non solo perché l´esecutivo dipende dal Parlamento. Quel che fa può essere condiviso o no, ma politica resta. Se non è vista come tale, è perché ci siamo disabituati a immaginare altre maniere di farla, e spiegarla. A distinguere fra ambizione e carriera politica. A ridefinire il compito dei partiti nella res publica.

Pensare non solo alle incombenti scadenze elettorali ma ai prossimi dieci, vent´anni; armonizzare le scelte italiane con quelle europee; battersi infine perché l´Unione si trasformi in una comunità più stretta, solidale: dire che tutto questo non è politica ma tecnica equivale a confessare una radicale impreparazione al mondo mutante che abbiamo davanti. Se tutto sta a esser preparati, ecco, non lo siamo: è a costumi obsoleti che stiamo appesi, api ronzanti che vedono un punto e non il tutto. Persistiamo in questa postura anche se la vecchia politica manifestamente è fallita: non solo economicamente ma civilmente, moralmente.

Così come stanno le cose, è probabilmente opportuno che i leader dei partiti non partecipino al governo chiamato a raddrizzare le storture. Lenti a rinnovarsi – Monti l´ha confessato – sarebbero un «motivo d´imbarazzo». Ma se li vediamo da vicino, simili giudizi sono umilianti: certificano che i partiti sono incapaci di politica alta, di misurare e dire all´elettore le prove che ci toccano. Di vedere nella politica non una carriera ma una chiamata, appunto, cui si risponde con l´Eccomi del servizio. Gustavo Zagrebelsky ha scritto su Repubblica, il 12 dicembre, che i partiti hanno alzato bandiera bianca, dicendo a se stessi e ancor più ai cittadini: Dobbiamo esserci, ma vorremmo non esserci. Votiamo a favore ma ci riserviamo di dire, se serve: «Non è questo che volevamo».

Certo è possibile la strategia delle doppiezze. Può esser perfino remunerativa. Se per quasi vent´anni gli italiani hanno votato con cocciutaggine un venditore d´illusioni, proprio questo desideravano: una non-politica, un farsi giunco nella speranza che il fuoco bruci tutti tranne noi, un fantasticare che il divenire non divenga (disincarnata, la fantasia diventa, secondo Hobbes, Regno dell´Oscuro). Ma è una strategia perdente. Di qui l´urgenza di qualcosa che somigli a una rivoluzione mentale. Rivoluzione è sostituire un regime bacato con uno nuovo: per noi vuol dire non svilire i partiti ma riscoprirli, interpreti e pedagoghi della società. Vuol dire aggiustare l´Italia pensandola come Alce Nero pensava il pianeta terra: «Non l´ereditiamo dai nostri padri, ma l´abbiamo in prestito dai nostri figli». La rivoluzione è questa. L´Eccomi è quest´idea di temporanea custodia di un bene che oltrepassa una generazione.

È una rivoluzione insieme italiana ed europea, ed è significativo che in ambedue gli spazi la questione morale sia al centro. Nella nazione, spetta ai partiti tornare a essere quei mediatori descritti nell´articolo 49 della Costituzione: non gruppi d´interessi in complice difesa di una classe, una cerchia, ma libere associazioni di cittadini che concorrono «con metodo democratico a determinare la politica nazionale», dedite al bene comune e non ai propri affari. La questione morale consiste nell´evitare che la Cosa pubblica sia confiscata dall´anti-Stato: evasione fiscale, malavita, esattori del pizzo che usurpano l´esattore statale.

Ma esiste una questione morale anche in Europa, e perfino nelle vicende tecniche dei debiti sovrani, delle bancarotte statali, dei salvataggi europei. Non a caso c´è una parola che riaffiora cronicamente, ogni volta che Banche centrali o organi europei discutono le misure contro i default. Se l´Unione fatica a farsi Stato che protegge tutti i cittadini dalla paura e dagli infortuni, se Germania e Bce tergiversano, è a causa di un rischio specifico, che si chiama moral hazard.

Il rischio morale è un concetto nato nelle mutue. Mettiamo l´assicurazione contro gli incendi: se come assicurato mi sento sicuro a tal punto da non fare più attenzione ai fornelli accesi o ai fiammiferi, se la responsabilità personale cede il passo allo sfruttamento della buona fede altrui, c´è azzardo morale. Certo condivido il rischio pagando la polizza, ma la sicurezza che sarò comunque risarcito può incitare alla lassitudine. Lo stesso può succedere nei rapporti fra Stati europei.

Il dilemma dell´azzardo morale è l´assillo che avvelena l´Europa, tramutandola in un intrico di passioni distruttive: diffidenza verso i partner, paura che gli aiuti saranno sperperati, tracollo della fiducia da cui nacque l´avventura comunitaria. Anche un´essenziale conquista postbellica, il welfare europeo, può svanire a causa dell´azzardo morale. L´Unione e il welfare sono qualcosa di più di una compagnia assicurativa: non tutti i sinistri (diseguaglianze, precariato, la stessa flessibilità che secondo Draghi «crea incertezza») incentivano la lassitudine. Resta che il moral hazard aiuta a capire la centralità dell´informazione, della verità nei contratti. Sempre, infatti, esso insorge da un´informazione asimmetrica: l´assicuratore possiede meno informazioni dell´assicurato, sulle circostanze scatenanti l´infortunio.

Affrontare le due questioni morali (la rivoluzione dell´onestà e della legalità in Italia, della fiducia e dell´unione politica in Europa) significa fare politica in modo diverso, prevenendo in tempo utile sciagure e ingiustizie con una più leale informazione reciproca. Dicendo ai popoli la verità sulle mutazioni mondiali. Imparando – partiti, sindacati, governi – ad agire nel duplice spazio nazionale ed europeo.

La dimensione nazionale della morale pubblica si è andata affievolendo, nella prima e seconda repubblica. Ma anche la dimensione europea è precipitata, per colpa di classi dirigenti incapaci (accade spesso) di pensare due cose al tempo stesso. Perché è urgente la seconda dimensione? Perché nella crisi odierna, agli stati dell´Unione tocca innanzitutto ridurre le spese, disciplinare i conti. Perché le liberalizzazioni son lente a fruttare. Perché l´equità è ostacolata a tanti livelli: lobby, sindacati, partiti, burocrazie statali. Inoltre non promette automatico sviluppo. La crescita, solo l´Europa potrebbe avviarla: con piani unificati di ricerca, di investimenti in energie alternative, in trasporti, in conoscenze, infinitamente meno costosi se fatti in comune.

È la risposta al moral hazard, alle paure, al clima di sospetto che regnano negli stati più forti e nella Bce. Ma per questo bisogna dare più soldi al bilancio europeo, più poteri alla Commissione, al Parlamento europeo. E bisogna che i cittadini possano contribuire a tale politica, attraverso i partiti, eleggendo direttamente i presidenti della Commissione, deliberando assieme gli investimenti europei e il loro finanziamento. Vale la pena questa rivoluzione, perché è lì che riapprenderemo e la politica, e la democrazia, e la sovranità che nazionalmente

PROGRAMMA

Venerdì 2 dicembre

h. 15,30 saluti

h. 15.45: “Il significato di patrimonio culturale e paesaggio, fino alle recenti modifiche normative del Codice dei Beni Culturali”
Prof. Edoardo SALZANO, già Ordinario di urbanistica del Dipartimento di pianificazione dell’Università Iuav di Venezia

h. 16,30: “La pianificazione paesaggistica e urbanistica del territorio tra normativa statale e legislazione delle Regioni a statuto speciale: quadro costituzionale”.
Prof. Alberto ROCCELLA, docente di diritto urbanistico Università di Milano

h. 17.10: “La giurisprudenza amministrativa in materia paesaggistica tra potestà normativa e regolamentare delle Regioni a Statuto Speciale”, 
Dott. Luca MONTEFERRANTE, magistrato addetto al Massimario e Ufficio Studi del Consiglio di Stato

h. 17.50: Interventi

- on. Ugo CAPPELLACCI, Presidente della Regione Autonoma della Sardegna

- on. Claudia LOMBARDO, Presidente del Consiglio Regionale della 
Sardegna

- dott.ssa Maria Assunta LORRAI, Direttore Regionale Ministero Beni 
Culturali

- Prof. Avv. Benedetto BALLERO, Docente di diritto costituzionale e 
regionale

- dott. Stefano DELIPERI, presidente Associazione ambientalista Gruppo

Intervento Giuridico

DIBATTITO

Sabato 3 dicembre 2011

h. 9,15 “Potestà normativa e regolamentare delle Regioni (a Statuto Speciale) e possibili interferenze sull’ambito applicativo della norma penale”
Dott. Aldo FIALE, consigliere della Suprema Corte di cassazione.

h. 10,15: “La pianificazione del territorio tra tutela e valorizzazione del paesaggio e sviluppo sostenibile della Regione”
On. Avv. Giulio STERI, avvocato dello Stato e consigliere regionale

h. 11,00: “Orientamenti giurisprudenziali in materia di violazioni paesaggistiche”. Dott. Luca RAMACCI, consigliere della Suprema Corte di cassazione.

h. 12,00: interventi

- Dott.ssa Maria Paola MORITTU, Pres. reg. Associazione Italia Nostra

- Dott. Alberto SCANU, Presidente Associazione Industriali Sardegna Sud

- Ing. Gianluca COCCO, segretario Ordine Ingegneri Cagliari

- Arch. Tullio ANGIUS, Presidente Ordine Architetti Cagliari 


DIBATTITO

1. L’esperienza della pianificazione territoriale paesistica in Sardegna.

La “storia” della pianificazione territoriale paesistica in Sardegna è stata, come in altre regioni d’Italia, particolarmente travagliata1. Di piani paesistici o piani territoriali paesistici, previsti come facoltativi per le aree tutelate con il vincolo paesaggistico (art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497) ne venne definitivamente approvato soltanto uno, quello del Molentargius e del Monte Urpinu2, già redatto dalla locale Soprintendenza per i beni ambientali, architettonici, artistici e storici e successivamente revisionato da specifica commissione regionale nominata in conseguenza del trasferimento della competenza in materia di redazione ed approvazione dei piani paesistici e piani territoriali paesistici dallo Stato alla Regione autonoma della Sardegna in forza dell’art. 6 del D.P.R. 22 maggio 1975, n. 4803.

Nessun esito, purtroppo, avevano avuto studi e lavori propositivi per piani paesistici svolti da alcuni fra i più importanti urbanisti italiano nel corso degli anni ‘604. L’obbligo posto in capo alle regioni “di redazione di piani paesistici o piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” con cui tutelare e valorizzare il proprio territorio (in primo luogo le aree tutelate con specifico vincolo paesaggistico) dall’art. 1 bis della legge 8 agosto 1985, n. 431 (la c.d. legge Galasso) ha, senza dubbio, dato impulso all’Amministrazione regionale. Dopo un primo periodo durante il quale aveva addirittura negato l’applicabilità di buona parte delle disposizioni della legge n. 431/1985 (nota Presidente Giunta regionale n. 11563 del 20 ottobre 1985), la Regione autonoma della Sardegna provvide ad individuare sedici zone di varia ampiezza sottoposte al vincolo temporaneo di non trasformabilità ai sensi dell’art. 1 ter della legge n. 431/1985 fino all’approvazione dei previsti strumenti di pianificazione territoriale.

Con la legge regionale 22 dicembre 1989, n. 45 veniva ampliato l’ambito vincolante della pianificazione territoriale paesistica, giungendo a prevederla, oltre che per le aree tutelate con vincolo paesaggistico, perlomeno per la fascia costiera dei due km. dalla battigia marina: con gli artt. 12 e 13 venivano, nel contempo, posti vincoli temporanei (più volte reiterati) e graduali finalizzati all’approvazione definitiva dei piani territoriali paesistici.

Dopo l’adozione da parte della Giunta regionale ex art. 11 della legge regionale n. 45/1989 ed il prescritto periodo di pubblicazione negli albi pretori per le “osservazioni” da parte di chiunque vi avesse interesse, venne emanata la legge regionale 7 maggio 1993, n. 23 che, principalmente, conferì all’Esecutivo regionale la competenza già del Consiglio sull’approvazione definitiva dei piani territoriali paesistici ed individuò una serie di beni territoriali (in primo luogo la fascia dei 300 metri dalla battigia marina) tutelati con vincolo di integrale conservazione delle caratteristiche naturali e, conseguentemente, inedificabili. Per dare organicità all’operazione pianificatoria vennero approvate il 13 maggio 1993 ulteriori disposizioni di omogeneizzazione e coordinamento dei piani territoriali paesistici mentre nella seduta del 16 giugno 1993 la Commissione consiliare competente in materia urbanistica espresse il proprio parere ai sensi dell’art. 7 della legge regionale n. 23/1993. Nelle sedute del 3 e del 6 agosto 1993 la Giunta regionale deliberò l’approvazione dei quattordici piani territoriali paesistici, i quali vennero resi esecutivi con altrettanti decreti del Presidente della Giunta, dal n. 266 al n. 279 del 6 agosto 1993 e successivamente pubblicati sul supplemento ordinario n. 1 al B.U.R.A.S. n. 44 del 19 novembre 19937.

2. I provvedimenti di annullamento dei piani territoriali paesistici.

La concreta possibilità di forte “trasformabilità” senza particolari motivazioni di vaste aree di elevato valore ambientale (soprattutto lungo le coste) spinse l’associazione ecologista Friends of the Earth International - Amici della Terra ad impugnare tutti i decreti di esecutività dei piani territoriali paesistici chiedendone l’annullamento: sette davanti al T.A.R. Sardegna, i rimanenti con ricorso straordinario al Capo dello Stato. A conclusione del prescritto iter procedimentale (relazioni del Ministero per i beni culturali ed ambientali e delle locali Soprintendenze ai beni ambientali ed ai beni archeologici, controdeduzioni degli Assessorati regionali competenti in materia di beni culturali e di difesa dell’ambiente) sette decreti del Presidente della Repubblica, quattro adottati in data 29 luglio 1998 e tre in data 20 ottobre 1998, hanno annullato altrettanti decreti di esecutività di piani territoriali paesistici su conformi pareri del Consiglio di Stato (sezione II), resi in sede consultiva rispettivamente nelle adunanze del 13 e del 20 maggio 1998.

I pareri del Consiglio di Stato, accogliendo pressochè in toto le motivazioni addotte nei ricorsi ecologisti, hanno “demolito” l’operazione pianificatoria regionale. Nella prima serie di pareri (adunanza del 13 maggio 1998) il Collegio ha ritenuto, accogliendo un motivo di ricorso, che nell’individuazione degli ambiti territoriali qualificati da graduali interventi di trasformazione (“2 a”, “2 b”, “2 c”, “2 d” e “2 e”), indicati dall’art. 17 della normativa di attuazione dei piani territoriali paesistici, venissero previsti interventi ammissibili (artt. 18 e 22 della normativa di attuazione) “per tabulas ... in assoluto contrasto con la primaria esigenza di tutela del paesaggio. ... Sul piano pratico, risultano ammissibili una serie d’interventi in antinomia giuridica con la ratio di tutela del paesaggio”. La Sezione aveva puntualmente osservato che “risultano autorizzabili interventi per la realizzazione di opere pubbliche o d’interesse pubblico: opere stradali, aereoportuali, ferroviarie, idriche, “B a” (parco giochi acquatici), “D b” (discariche ed impianti di depurazione), “D d” (dighe ed acquedotti), “F f” (insediamenti di tipo industriale), “G” (interventi di carattere estrattivo), “H” (interventi di carattere turistico: alberghi, residence) ed “I” (attività a carattere produttivo)”, mentre il successivo art. 21 della normativa di attuazione disponeva, in relazione alle aree classificate “2 d” una “gamma illimitata di usi consentiti in palese contrasto con l’interesse generale della salvaguardia del paesaggio”. Conseguentemente, “l’eccesso di potere ha determinato l’adozione di un atto in contrasto con la funzione primaria del piano territoriale paesistico”, la quale “è l’attuazione specifica della valorizzazione ambientale a livello di pianificazione urbanistico-territoriale”, come affermato dalla costante giurisprudenza costituzionale ed amministrativa9: i piani territoriali paesistici della Sardegna avevano invece “adottato una disciplina in contrasto con la tutela del paesaggio ... consentendo interventi di trasformazione non in linea con la natura paesaggistica delle aree”. Sembra opportuno evidenziare che non risultavano in alcun modo motivazioni di sostegno alle previsioni di modificabilità di aree tutelate con vincoli ambientali, neppure individuate le zone soggette ad uso civico (legge n. 1766/1927, regio decreto n. 332/1928, legge regionale n. 12/1994 e successive modifiche ed integrazioni)10, nè le volumetrie massime ammissibili, in violazione dell’art. 23, comma 1°, nn. 1 e 5, del regio decreto 3 giugno 1940, n. 1357, nè le qualità architettoniche dei nuovi edifici, con riguardo alla distribuzione e localizzazione del territorio. Infatti, la natura e le scelte operate dallo strumento di

pianificazione imponevano “l’assoluto rispetto del principio della congrua motivazione, in relazione ai dati di fatto emersi nell’iter istruttorio ed alle ragioni di diritto a fondamento delle scelte programmatorie“, mentre si è riscontrata “assoluta carenza di motivazione in ordine alla classificazione come trasformabili di zone oggetto di tutela paesaggistica, dotate di destinazione ad area protetta, gravate da usi civici, con presenza di vincoli idrogeologici, archeologici e come zone umide”.

La seconda serie di pareri, resi dalla seconda Sezione del Consiglio di Stato nell’adunanza del 20 maggio 1998, aveva, viceversa, ritenuto assorbente per il suo carattere fondamentale la censura concernente la previsione nell’atto impugnato della “trasformabilità” senza adeguata motivazione di aree di elevato valore ambientale tutelate con il vincolo paesaggistico o altri vincoli di natura ambientale.

Preventivamente la Sezione considerava che la normativa di attuazione dei piani territoriali paesistici prevede (art. 12) tre ambiti di tutela: gli ambiti di “conservazione integrale” (art. 13 della normativa di attuazione, contraddistinti con il numero “1”, dove, per l’eccezionale valore dei caratteri naturalistici, storici e morfologici non risultavano ammesse alterazioni dello stato dei luoghi, ma soltanto interventi di ripristino e fruizione ambientale), gli ambiti di “trasformazione” (art. 17 della normativa di attuazione, contraddistinti con il numero “2”, dove la “trasformabilità” del territorio veniva modulata in progressive cinque fasce in relazione ai valori ambientali presenti) e gli ambiti di “restauro e recupero ambientale” (art. 23 della normativa di attuazione, contraddistinti con il numero “3”, dove, graduatamente, venivano consentiti interventi di risanamento ambientale). In primo luogo, il massimo Organo di giustizia amministrativa osservava che, nella “tabella degli usi compatibili” allegata ad ogni piano territoriale paesistico, soltanto per gli interventi di cui alla lettera A (uso di area protetta) risultava esplicitamente previsto il preventivo conseguimento dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge n. 1497/1939 (oggi artt. 146 e 159 del decreto legislativo n. 42/2004 e già art. 151 del decreto legislativo n. 490/1999), mentre per tutte le altre tipologie di intervento nulla era detto. Non si riteneva sufficiente “il procedimento di studio e accertamento di compatibilità paesistico-ambientale” di cui agli artt. 9 - 11 della normativa di attuazione “perchè, a tacer d’altro (ad es. sulla natura non di discrezionalità tecnica dell’atto conclusivo), si tratta di procedimento ed atto non sottoposto alle regole e ai controlli propri del procedimento di autorizzazione paesistica (ivi incluso il potere ministeriale di annullamento ex art. 82, nono comma, d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, come introdotto dall’art. 1, quinto comma, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito dalla legge 8 agosto 1985, n. 431, che vale anche per la Regione Sardegna: Corte Cost., 18 ottobre 1996, n. 431)”.

Opportunamente è stato delineato il quadro normativo e giurisprudenziale del piano territoriale paesistico e dei suoi rapporti con il vincolo paesaggistico di cui alle leggi n. 1497/1939 e 431/1985 (ed oggi il decreto legislativo n. 42/2004, in precedenza il n. 490/1999). Il piano paesistico “è un mezzo di tutela del paesaggio che, sia nel suo momento genetico, che in quello funzionale, è connesso da un lato con i vincoli paesistici, da un altro con l’autorizzazione puntuale agli interventi, di cui all’art. 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497”: pertanto la relazione giuridica, secondo il sistema delineato dalla legge n. 431 del 1985, tra il vincolo paesaggistico/ambientale e il piano paesistico è, in senso temporale e procedimentale, di presupposizione, mentre in senso gerarchico e sostanziale, di sottordinazione del piano al vincolo e, conseguentemente, di sottordinazione del nullaosta al piano stesso.

La giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ha, infatti, visto “nel piano paesistico uno strumento di attuazione del vincolo, in quanto atto inteso a disciplinarne l’operatività (Corte costit., 13 luglio 1990, n. 327) e a determinarne la portata, i contenuti, i limiti e gli effetti ... concretando un momento logicamente successivo della sua regolazione (Corte costit., 28 luglio 1995, n. 417), volto ad ulteriormente disciplinare ... l’operatività del vincolo paesistico, che in ogni caso permane e non viene meno (Cons. Stato, VI, 14 gennaio 1993, n. 29; Cons. Stato, VI, 20 gennaio 1998, n. 106)”. Il piano paesistico è, quindi, il peculiare “strumento” di attuazione “dinamica” del vincolo paesaggistico, lo presuppone e, naturalmente, non vi può derogare: deve mantenerne il contenuto precettivo e porsi, in sostanza, come ulteriore precisazione della caratteristica coercitiva del vincolo stesso mediante la preventiva valutazione di compatibilità paesistico-ambientale degli interventi proposti.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto, quindi, necessario ricordare che il contenuto precettivo fondamentale del vincolo paesaggistico consiste “nella imposizione del previo giudizio di compatibilità dell’opera che si intende realizzare con le esigenze dell’àmbito protetto e dunque con i valori ambientali e paesaggistici specifici della zona (Cons. Stato, VI, 11 giugno 1990, n. 600), giudizio che si estrinseca nella concessione o nel diniego dell’autorizzazione dell’art. 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497”

Per quanto riguarda il contenuto concreto del piano, esso deve individuare, zona per zona, gli interventi preclusi per la loro inconciliabilità con i contenuti del vincolo paesaggistico concernenti l’area determinata: il piano introdurrà, pertanto, un regime di non modificabilità assoluta di certe zone o di non compatibilità assoluta di determinate opere. “Per queste zone o opere, il giudizio di incompatibilità viene effettuato una volta per tutte, sì che non può esservi più nemmeno luogo alla autorizzazione. E’ questa la prima valutazione da compiere nell’estrinsecazione della discrezionalità tecnica che presiede alla funzione conservativa del vincolo”. Per le altre zone si dovrà continuare a procedere con la valutazione in concreto dell’eventuale compatibilità (magari con modifiche e/o prescrizioni) dell’intervento proposto mediante giudizio tecnico-discrezionale: qui il piano detterà criteri e parametri generali di giudizio, imporrà o vieterà tipologie di materiali o di tecniche costruttive, anche per il recupero ambientale, ma sempre “allo scopo conservativo di impedire che le aree di quelle località siano utilizzate in modo pregiudizievole alla bellezza panoramica (art. 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497)”.

Questa funzione del piano paesistico disposta dall’art. 1 bis della legge n. 431/1985 (successivamente dagli artt. 149 e 150 del decreto legislativo n. 490/1999 ed oggi dagli artt. 135, 143-145 del decreto legislativo n. 42/2004) si aggiunge e si integra con quanto indicato dall’art. 23 del regio decreto n. 1357/194014, con l’eventuale (v. Cons. Stato, Sez. VI, 12 novembre 1990, n. 951) ricognizione di beni individuati in via generale dalla legge (es. i boschi, v. Cons. Stato, Sez. VI, 19 maggio 1994, n. 794). Visto che il piano paesistico è sovraordinato alla pianificazione urbanistica (oggi ex art. 145, comma 3°, del decreto legislativo n. 42/2 004, già art. 150, comma 2°, del decreto legislativo n. 490/1999), ulteriore funzione assegnatagli è quella di condizionare la successiva attività pianificatoria, finendo per assolvere al compito di essere strumento di base della regolamentazione complessiva dell’uso del territorio tutelato con vincoli ambientali e di contenimento dello sviluppo urbanistico entro limiti e condizioni che assicurano inderogabilmente la conservazione dei valori ambientali tutelati.

La Sezione ha, poi, accortamente osservato che, in base all’equivalenza degli strumenti pianificatori stabilita dalla legge (ora art. 135 del decreto legislativo n. 42/2004, già art. 149, comma 1°, del decreto legislativo n. 490/1999 e art . 1 bis, comma 1°, ultima parte, della legge n. 431/1985), il piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali (strumento che, in sostanza, è stato previsto in Sardegna), che può riguardare anche aree prive di vincolo paesaggistico, non può che avere stessi contenuti e tipologia di “gestione” del vincolo in relazione alle aree tutelate, come interpretato dalla più autorevole giurisprudenza. I contenuti prescrittivi del piano hanno, inoltre, una funzione garantista, offrendo ai cittadini indirizzi e prevedibilità delle scelte della pubblica amministrazione in modo da poter svolgere le proprie valutazioni su progetti ed investimenti.

Il Collegio ha afferma, quindi, che il piano che difetti delle caratteristiche enunciate viene meno alla sua funzione “ed è quantomeno illegittimo per difformità rispetto al modello legislativo, quando non addirittura inesistente in quanto tale ... per assenza di realizzazione dalla funzione prescrittiva assegnatagli dalla legge come necessaria”: nel caso specifico i piani territoriali paesistici impugnati appaiono “realizzare non già uno strumento di attuazione e di specificazione del contenuto precettivo del vincolo, bensì una deroga ad esso” sia in relazione all’eliminazione della previsione della necessità del nullaosta paesaggistico per gli “usi compatibili” diversi da quelli sub “A - uso di area protetta”, sia in riferimento “alla funzione di progressione nella definizione del contenuto precettivo del Piano”.

Ma il Consiglio di Stato è andato ben oltre, censurando pesantemente l’operato della Regione autonoma della Sardegna. I piani territoriali paesistici annullati prevedevano, illegittimamente, “ampie categorie e tipologie di usi reputati come compatibili con un contesto le cui caratteristiche di bellezza naturale debbono essere salvaguardate”. Esse “sono in realtà di mole, impatto e rilevanza tale da comportare, sia nel loro insieme che ad una ad una, con gli elevati livelli di trasformabilità del territorio che consentono, il denunciato snaturamento delle caratteristiche naturali, ambientali e paesaggistiche che, invece, si afferma di voler tutelare e conservare”. Alcuni degli “usi compatibili” (infrastrutture stradali e ferroviarie, dighe ed altre opere idriche, aziende di trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, strutture per l’allevamento, cave, strutture ricettive, strutture residenziali stagionali) sono apparsi “assolutamente incompatibili” per le aree di conservazione integrale, “inadeguati ed incongrui” per le aree di interesse archeologico e “di compatibilità certamente da condizionare e limitare incisivamente” per le restanti zone dei piani al fine di preservare efficacemente i valori ambientali/paesaggistici che si intendono tutelare. Nel caso dell’attività pianificatoria svolta in Sardegna, affermava il Consiglio di Stato, “a ben vedere, appare che la preoccupazione reale sia stata quella di contrastare, usando in modo improprio dell’occasione offerta dalla pianificazione paesistica, gli effetti limitativi propri del vincolo, garantendo comunque l’effettuazione di ponderosi interventi, piuttosto che, al contrario, di definire i ristretti parametri di compatibilità che consentano di mantenere ... inalterato il quadro complessivo dei valori paesistico-ambientali protetti. Il che è, dal punto di vista del contenuto, l’esatto rovesciamento della funzione propria del piano paesistico”, realizzando un evidente vizio

E’ stato, conseguentemente, censurato il metodo stesso di individuazione delle tipologie di interventi definiti aprioristicamente “compatibili” (dei quali soltanto quelli di tipologia “A” previo specifico nullaosta): sembra voler precostituire, dal punto di vista paesaggistico, “le condizioni per l’affermazione della libertà dell’intervento (salva, nei limitati casi per cui è fatta restare, l’autorizzazione)”. Si è trattato, pertanto, dell’esatto contrario dell’operazione prima delineata di individuazione delle incompatibilità assolute e dei criteri di valutazione delle incompatibilità relative: “in realtà, ci si trova di fronte proprio al descritto illegittimo scopo di deroga al vincolo e dunque alla negazione della funzione essenziale e tipica del Piano paesistico”.

3. I successivi sviluppi.

La Giunta regionale, in seguito alla notifica dei provvedimenti di annullamento dei piani territoriali paesistici, adottò due provvedimenti cautelari ex art. 14 della legge regionale n. 45/1989 (deliberazioni G.R. n. 50/40 del 17 novembre 1998 e n. 54/10 del 9 dicembre 1998) che inibivano, rispettivamente nelle aree rientranti nei primi quattro e nei successivi tre piani territoriali paesistici annullati, gran parte degli interventi di modifica del territorio per un periodo di tre mesi decorrenti dalla pubblicazione sul B.U.R.A.S.

Successivamente, terminata l’efficacia dei detti provvedimenti, non è intervenuto alcun atto concreto finalizzato alla redazione dei nuovi atti (o al nuovo unico atto) di pianificazione territoriale paesistica. A livello normativo vi è stato il deposito presso il Consiglio regionale di una nutrita serie di disegni di legge di iniziativa della Giunta e di gruppi di consiglieri19, in ogni caso mai discussi dall’Assemblea elettiva. Sul piano amministrativo non risulta alcuna attività in merito.

In ogni caso hanno ripreso efficacia, ai sensi dell’art. 162 del decreto legislativo n. 490/1999, i decreti assessoriali di individuazione di aree soggette a vincolo temporaneo di non trasformabilità ex art. 1 ter della legge n. 431/1985 e relativi a zone interessate dai piani territoriali paesistici annullati (Giara di Gesturi, Argentiera e Porto Conte, Stagni di Casaraccio e delle Saline, Capo Marrargiu, Stagno di San Teodoro, Litorale tra Badesi e Valledoria), come segnalato anche dall’Assessorato pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport con note n. 1035 TP/SS del 3 febbraio 2000 agli Enti locali interessati, alle Soprintendenze aventi sede nel territorio regionale, agli ordini e collegi professionali ed alle restanti strutture dell’Amministrazione regionale.

4. Le sentenze del T.A.R. Sardegna.

A distanza di quasi dieci anni dall’inoltro dei relativi ricorsi il T.A.R. Sardegna ha depositato sei sentenze (le nn. 1203, 1204, 1206, 1207 e 1208 del 6 ottobre 2003) di annullamento di altrettanti piani territoriali paesistici in seguito ai ricorsi inoltrati da Friends of the Earth International - Amici della Terra e da Legambiente limitatamente ai piani n. 1 “Gallura”, n. 7 “Sinis” e n. 11 “Marganai”. Le motivazioni di annullamento del T.A.R. Sardegna hanno fatto esplicito riferimento alle argomentazioni autorevolmente addotte dal Consiglio di Stato. Anzi, il Giudice amministrativo sardo ha iniziato il suo percorso logico di giudizio proprio dai pareri espressi dal Consiglio di Stato (“le ... osservazioni sono condivise dal Collegio”). In particolare il T.A.R. ha fatto propria “l’impostazione che la Seconda Sezione ha dato alla problematica, individuando nella tabella degli usi compatibili il punto nodale della disciplina”. Tale tabella, come ormai noto, impone l’acquisizione del parere di compatibilità paesistica soltanto per gli usi previsti alla lettera “A”, “mentre tale prescrizione non è ripetuta per gli usi elencati alle lettere successive”. Questa disposizione, ritenuta illegittima, comporta da sola, secondo il Giudice amministrativo sardo, l’illegittimità del “piano nel suo complesso”. Il T.A.R. cagliaritano ha accolto, inoltre, i criteri di definizione e di operatività elaborati dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato riguardo gli atti di pianificazione territoriale paesistica: “il piano territoriale paesistico si colloca fra il provvedimento d’apposizione del vincolo, che presuppone, ed il provvedimento con il quale vengono consentiti usi della zona vincolata, disciplinando l’esercizio del potere autorizzatorio, in modo da fornire parametri certi agli interessati”. Costituisce, pertanto, strumento di programmazione dell’attività gestionale tecnico-amministrativa del vincolo ambientale “anche nell’interesse dei proprietari immobiliari”, essendo conoscibili parametri ed indirizzi certi riguardo l’esercizio dei poteri discrezionali inerenti la gestione del medesimo vincolo.

Il T.A.R. ha ripreso esplicitamente il percorso logico-giuridico del Consiglio di Stato anche per quanto concerne l’individuazione del piano territoriale paesistico quale strumento di definizione del contenuto precettivo del vincolo ambientale e di autoregolamentazione preventiva di taluni aspetti della discrezionalità tecnica che presiede al procedimento di esame delle istanze di modifica delle aree vincolate. Puntualmente, “il piano paesistico, essendo in posizione inferiore, ha nel vincolo il suo titolo ed il suo limite e non può modificarlo o derogare ad esso, ma può (anzi ... deve, per ciò che attiene alla normativa d’uso e di valorizzazione ambientale del territorio) solo specificare i contenuti precettivi, ed il contrasto tra i due va risolto in favore del vincolo”.

Il piano deve, anche per il Giudice sardo, provvedere ad individuare – “per un’evidente ragione di economia dell’azione pubblica successiva” – gli interventi, le tipologie, le aree di elevato valore naturalistico-ambientale dove è esclusa qualsiasi attività di modifica territoriale a causa dell’incompatibilità con i valori tutelati. La conclusione non ha potuto essere che la medesima: “le ampie categorie e tipologie di usi reputati come compatibili con un contesto le cui caratteristiche di bellezza naturale devono essere salvaguardate sono in realtà di mole, impatto e rilevanza tale da comportare, sia nel loro insieme che ad una ad una, con gli elevati livelli di trasformabilità del territorio che consentono il denunciato snaturamento delle caratteristiche naturali, ambientali e paesaggistiche che, invece, si afferma di voler tutelare e conservare”.

In sostanza, anche in considerazione del lungo tempo trascorso dal deposito dei ricorsi avverso i provvedimenti portanti i suddetti atti di pianificazione (1994) e dalle decisioni relative ai ricorsi straordinari al Capo dello Stato (1998), non sembra proprio seguita una via logico-giuridica originale21.

In attesa dei nuovi piani e di un’eventuale normativa regionale transitoria, hanno ripreso efficacia, ai sensi dell’art. 162 del decreto legislativo n. 490/1999, gli ulteriori decreti assessoriali di individuazione di aree soggette a vincolo temporaneo di non trasformabilità ex art. 1 ter della legge n. 431/1985 e relativi a zone interessate dai piani territoriali paesistici ora annullati (Castello di Quirra, Porto sa Ruxi, Monti dei Sette Fratelli, Rio Piscinas di Arbus, Costa di Siniscola e Orosei, Costa ed entroterra di Baunei e Dorgali, Castelsardo, Arcipelago della Maddalena). Successivamente si sono susseguite iniziative politiche ed amministrative finalizzate ad una nuova attività di pianificazione, anche se poco produttive sul piano concreto.

5. Un problema trascurato: la vigenza dell’art. 1 ter della legge n. 431/1985.

Soltanto con la nuova Amministrazione regionale conseguita alle elezioni del giugno 2004 si è avuto un deciso impulso finalizzato ad una nuova attività di pianificazione territoriale paesistica. Il primo provvedimento amministrativo di rilevante importanza è stato proprio in tema di salvaguardia costiera ed in vista della nuova pianificazione. Un aspetto problematico decisamente importante ha riguardato la tipologia di provvedimento da adottare e, purtroppo, non ha soccorso la palese difficoltà di coordinamento e raccordo normativo fra disposizioni di tutela paesaggistica succedutisi nel tempo. In particolare per quanto concerne l’applicabilità dell’art. 1 ter della legge n. 431/1985 per l’adozione di provvedimenti di vincolo di non trasformabilità temporanea di aree costiere (ed aree interne) già tutelate con il vincolo paesaggistico fino all’adozione del nuovo piano territoriale paesistico.

In primo luogo, si deve evidenziare che l’art. 1 ter della legge n. 431/1985 appare tuttora vigente, al pari dell’art. 1 quinques che consente l’adozione di provvedimenti con simile finalità: infatti non risulta stato abrogato dall’art. 166 del decreto legislativo n. 490/1999 (T esto unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali ed ambientali) nè dal recente art. 184 del decreto legislativo n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). L’art. 166 del decreto legislativo n. 490/1999 testualmente dispone: “... sono abrogate le seguenti disposizioni: ... decreto legge 27 giugno 1985, n. 312, convertito con modificazioni nella legge 8 agosto 1985, n. 431, ad eccezione dell’articolo 1 ter e dell’articolo 1 quinques”. L’art. 184 del decreto legislativo n. 41/2004 fra le disposizioni abrogate non cita gli articoli 1 ter ed 1 quinques della legge n. 431/1985. Si ricorda che l’abrogazione di disposizioni di legge, per principio generale del nostro ordinamento, deve essere esplicita (“ubi lex voluit, dixit”). Ulteriore elemento che depone per la loro vigenza è costituito dall’art. 159, comma 5°, del decreto legislativo n. 42/2004, il quale dispone che le autorizzazioni paesaggistiche nelle aree tutelate con il citato art. 1 quinques (zone non tutelate dal vincolo paesaggistico ed individuate dalle regioni, in base al D.M. 21 settembre 1984, antecedente alla legge n. 431/1985, come “non trasformabili” fino all’adozione del piano territoriale paesistico) non possano essere emanate fino all’approvazione del relativo piano territoriale paesistico: se la norma fosse stata abrogata, la disposizione sarebbe priva di senso e di contenuto.
 Appare opportuno evidenziare che la competenza dell’Esecutivo regionale all’adozione di provvedimenti di tutela cautelare in materia paesaggistica risulta rafforzata dall’art. 57, comma 2°, lettera e, del D.P.R. n. 348/1979 (normativa di attuazione dello statuto speciale per la Sardegna): infatti l’Amministrazione regionale beneficia di competenza delegata per “la adozione di provvedimenti cautelari anche indipendentemente dalla inclusione dei beni nei relativi elenchi”. Ai sensi di tale disposizione sarebbe possibile includere fra quelle tutelate con vincolo di non modificabilità temporanea anche le aree costiere non tutelate da precedente vincolo paesaggistico. Altro problema che può presentarsi è quello relativo alla scadenza del termine del 31 dicembre 1986 entro il quale, ai sensi dell’art. 1 bis della legge n. 431/1985, le regioni dovevano approvare definitivamente i propri piani territoriali paesistici e del termine di “centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della legge ...” n. 431 del 1985 per l’adozione da parte delle regioni di provvedimenti di vincolo temporaneo ai sensi del citato art. 1 ter. In questo caso la giurisprudenza costituzionale e amministrativa è costante e netta: si tratta di termini di natura ordinatoria e non perentoria, il cui effetto fondamentale è quello di far sorgere il potere-dovere statale di esercizio sostitutivo delle competenze in materia di pianificazione territoriale paesistica (vds. sentenza Corte cost. n. 36 del 1995 ed ordinanza Corte cost. n. 53 del 2003). La giurisprudenza costituzionale ed amministrativa ha assunto tale posizione in una casistica non indifferente, confermando che tali vincoli di temporanea non trasformabilità venivano meno soltanto con l’approvazione definitiva del piano territoriale paesistico (vds. Cons. Stato, sez. VI, 9 aprile 2001, n. 2131; Cons. Stato, sez. VI, 13 ottobre 1993, n. 713). Chiarissima, a titolo di esempio, è la sentenza Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 1988, n. 1179: “il termine di centoventi giorni, previsto dalla legge n. 431/1985 per individuare le aree in cui proibire eventuali modifiche, preordinate a non pregiudicare le decisioni relative ai piani paesistici, ha certamente funzione sollecitatoria e non carattere perentorio, mancando una precisa necessaria indicazione in tal senso; è infatti contro gli scopi e lo spirito della legge stessa ritenere che l’inerzia delle regioni privi automaticamente di difesa cautelare, per un lungo periodo di tempo, vasta porzione del territorio”. Sulla medesima linea interpretativa è anche la giurisprudenza penale.

Appare sgombrare il campo ad ogni evanescente dubbio il medesimo T.A.R. Sardegna: con le note sentenze nn. 1203 – 1208 del 6 ottobre 2003 di annullamento di sei decreti presidenziali di esecutività di altrettanti piani territoriali paesistici, ha esplicitamente affermato che “resta fermo l’obbligo per l’Amministrazione di provvedere all’approvazione di un nuovo piano ... con esercizio della facoltà di cui all’art. 3 ter (rectius 1 ter)”.
Di tale facoltà è stata pienamente consapevole anche la precedente Giunta regionale che, con la deliberazione n. 38/2 del 24 ottobre 2003, ha riconosciuto come pienamente vigenti gli ulteriori decreti assessoriali di individuazione di aree soggette a vincolo temporaneo di non trasformabilità ex art. 1 ter della legge n. 431/1985 e relativi a zone interessate dai piani territoriali paesistici ora annullati (Castello di Quirra, Porto sa Ruxi, Monti dei Sette Fratelli, Rio Piscinas di Arbus, Costa di Siniscola e Orosei, Costa ed entroterra di Baunei e Dorgali, Castelsardo, Arcipelago della Maddalena). Si ricorda che in precedenza, nel 1998 con l’annullamento di sette decreti di esecutività di altrettanti piani territoriali paesistici, avevano ripreso vigore (art. 162 del decreto legislativo n. 490/1999) altri provvedimenti assessoriali analoghi. Con la successiva deliberazione n. 1/4 del 13 gennaio 2004 la Giunta regionale invitava i Comuni a proporre eventuali “rivisitazioni” dei citati decreti assessoriali, intendendo perfettamente vigente la possibilità di intervenire in materia: infatti, con decreto assessoriale 16 giugno 2004, n. 15/ASS è stata effettuata la ridelimitazione dell’area tutelata con vincolo di non trasformabilità temporanea ex art. 1 ter della legge n. 431/1985 nel territorio comunale di La Maddalena (SS) su istanza dell’Amministrazione comunale, anche se, sotto il profilo giuridico, l’atto è apparso inefficace per mancata pubblicazione della nuova perimetrazione, qualificata parte integrante ad ogni effetto dell’atto medesimo. L’atto di ridelimitazione è stato successivamente annullato con decreto assessoriale n. 18 del 9 agosto 2004 sul presupposto dell’avvenuta abrogazione dell’art. 1 ter della legge n. 431 erroneamente per effetto del combinato normativo di cui agli artt. 166 del decreto legislativo n. 490/1999 e 184 del decreto legislativo n. 42/2004. Per quanto sopra argomentato, invece, non solo appare tuttora giuridicamente possibile adottare provvedimenti di vincolo di non trasformabilità temporanea di aree costiere (ed aree interne) già tutelate con il vincolo paesaggistico fino all’adozione del nuovo piano territoriale paesistico, ma, per quanto concerne la Sardegna, per le rimanenti zone non tutelate con il vincolo paesaggistico vi può essere la possibilità offerta dall’estensione del provvedimento di tutela attraverso il disposto dell’art. 57, comma 2°, lettera e, del D.P.R. n. 348/1979.

6. La nuova pianificazione paesistica, fra il Codice dei beni culturali e del paesaggio e la legge regionale Sardegna n. 8/2004.

Gli aspetti fondamentali della nuova fase di pianificazione paesistica sono stati profondamente innovati in questi ultimi anni, dopo la prima fase, quasi “volontaristica”, della pianificazione ai sensi della legge n. 1497/1939 ed il secondo periodo, dato dalla pianificazione su scala vasta ai sensi della legge n. 431/1985. Attualmente l’attività di pianificazione paesistica trova il proprio quadro di riferimento normativo generale delineato dall’obbligo di tutela e valorizzazione del territorio derivante dalla Carta costituzionale (art. 9), dalla Convenzione europea del paesaggio del Consiglio d’Europa sottoscritta a Firenze il 20 ottobre 2000, dal decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. (artt. 135, 143-145), dalla legge regionale n. 45/1989 e successive modifiche ed integrazioni, dalla legge regionale n. 8/2004 e dall’accordo tra il Ministero per i beni e le attività culturali e le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio adottato con la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (atto n. 1239 del 19 aprile 2001).

E’ fondamentale quanto riportato dal recente Codice dei beni culturali e del paesaggio (c. d. Codice Urbani), il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e s.m.i.
La Parte terza del codice raccoglie le disposizioni inerenti la tutela e la valorizzazione dei beni paesaggistici.

Un elemento di innovazione che orienta la nuova disciplina è costituito dalla definizione di paesaggio, quale “parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni” (art. 131 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). E’ stato, poi, introdotto il principio della cooperazione tra le amministrazioni pubbliche nel definire gli indirizzi e i criteri che attengono alle attività fondamentali rivolte al paesaggio ed è stata anche indicata la prospettiva dello sviluppo sostenibile, quale elemento che, ferma restando la priorità dell'obbligo della salvaguardia e della reintegrazione del paesaggio, può concorrere con essi al raggiungimento degli obiettivi di tutela del territorio (art. 132 del decreto legislativo n. 42/2004 s.m.i.). Anche sotto questo profilo il codice innova la precedente legislazione, dando riconoscimento normativo al concetto dello sviluppo sostenibile e attraverso di esso alla possibilità di assicurare la localizzazione, minimizzare gli impatti ed assicurare la qualità progettuale delle opere e degli interventi che sia necessario realizzare in aree di particolare valore. In precedenza, si ricorda che l’art. 150 del decreto legislativo n. 490/1999 prevedeva l’obbligo statale di individuazione delle “linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda i valori ambientali, con finalità di orientamento della pianificazione territoriale paesistica” secondo le modalità di cui all’art. 52 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, obbligo confermato ora dall’art. 145, comma 1°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.: si tratta, di fatto, della previsione di un atto di indirizzo e coordinamento in materia di pianificazione territoriale. L’art. 150, comma 3°, del decreto legislativo n. 49 0/1999 introduceva, invece, la possibilità, sotto il profilo giuridico (sotto il profilo sostanziale non sussisteva alcun ostacolo neppure in precedenza), di “speciali forme di collaborazione delle competenti soprintendenze alla formazione dei piani” con regioni e comuni grazie ad accordi con il Ministero per i beni e le attività culturali. Si trattava della previsione formale di intese Stato – Regione (o Stato – Comune) per attività di co- pianificazione (principalmente piani territoriali paesistici e piani urbanistici comunali). Ora tale facoltà è stata specificata dall’art. 143, commi 10°-12°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. a tutte le ipotesi di pianificazione paesaggistica (estendendo la possibilità di collaborazione al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio) con una importantissima disposizione: qualora non siano state raggiunte intese sull’elaborazione dei piani (che devono contenere anche la tempistica per l’approvazione definitiva) e non segue l’elaborazione congiunta dei medesimi, non potrà venir meno la fase di esame delle autorizzazioni rilasciate dalla Regione o dagli Enti locali sub-delegati da parte delle competenti Soprintendenze con il potere di annullamento per motivi di legittimità (artt. 143, comma 12°, 156, comma 5°, e 159 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). In caso di inerzia regionale, ai fini dell’approvazione definitiva del piano elaborato d’intesa con le amministrazioni statali, esso è approvato in via definitiva con provvedimento ministeriale (art. 143, comma 10°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m .i.). La centralità attribuita allo strumento degli accordi, ai fini dell’adeguamento dei piani esistenti e comunque dell’elaborazione dei nuovi, mira a superare i conflitti spesso verificatisi fra amministrazioni regionali ed organi ministeriali ed a rendere finalmente possibile l’attuazione di quella leale e proficua cooperazione fra Stato e Regioni nella tutela del paesaggio, costantemente richiamata dalla Corte costituzionale. Si tratta di forme collaborative Stato – Regione che andrebbero incentivate ai massimi livelli e che possono prevenire lungaggini, dilazioni, contrasti istituzionali e, particolarmente, gli interventi sostitutivi statali in caso di inadempienza regionale conclamata ai sensi dell’art. 156, comma 1°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. (già artt. 149, comma 3°, del decreto legislativo n. 490/1999 e 1 bis, comma 2°, della legge n. 431/1985).. Tali forme collaborative hanno trovato, infine, piena dignità giuridica con l’accordo tra il Ministero per i beni e le attività culturali, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano sull’esercizio dei poteri in materia di paesaggio, stipulato in sede di Conferenza Stato – Regioni nella seduta del 19 aprile 200127 sulla scorta dei lavori dell’allora Commissione di riforma della normativa in materia di tutela paesaggistico-ambientale costituita in seguito alle risultanze della I Conferenza nazionale sul paesaggio e degli indirizzi scaturiti dalla Convenzione europea del paesaggio sottoscritta dai Paesi membri del Consiglio d’Europa a Firenze il 20 ottobre 2000. In tale accordo vengono per la prima volta indicati criteri ed indirizzi di carattere generale della “gestione” del paesaggio e della pianificazione paesistica, obiettivi di qualità e meccanismi procedurali di controllo e vigilanza, ma – soprattutto – viene individuata la necessità di attivazione di “processi di collaborazione costruttiva fra le pubbliche amministrazioni di ogni livello aventi competenza istituzionale in materia di tutela e valorizzazione paesistica” con particolare riferimento proprio all’attività di pianificazione.

La protezione e valorizzazione del paesaggio viene, quindi, ora assicurata in primo luogo mediante un’adeguata pianificazione paesaggistica (art. 135 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) estesa a tutto il territorio, sempre mediante “piani paesaggistici ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici” che, “con particolare riferimento ai beni” tutelati con vincolo paesaggistico (art. 134 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), definiscono “le trasformazioni compatibili con i valori paesaggistici, le azioni di recupero e riqualificazione degli immobili e delle aree sottoposti a tutela, nonché gli interventi di valorizzazione del paesaggio, anche in relazione alle prospettive di sviluppo sostenibile”. Estremamente rilevante è la previsione dell’individuazione congiunta Stato – Regione, in sede di co-pianificazione, dei beni paesaggistici (aree con vincolo paesaggistico, ulteriori aree meritevoli di tutela, ecc.) prevista dall’art. 135, comma 1°, secondo periodo, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i. e fondamentale per la predisposizione dei piani paesistici.

Il Codice mantiene, comunque, la potestà di imporre vincoli provvedimentali, attribuita alle Regioni, sulla base delle valutazioni delle commissioni miste regionali o, in caso di inerzia, al Ministro (artt. 136-142 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). Rispetto alla pianificazione, i vincoli assumono il ruolo di anticipare le opportune forme di tutela per singole aree o complessi immobiliari, e comunque costituiscono il presupposto imprescindibile di cui la disciplina territoriale dovrà tener conto. L’attività pianificatoria viene, quindi, estesa a tutto il territorio regionale. E’ questo il primo aspetto innovativo rispetto alla normativa previgente, che sanciva l’obbligo di pianificare le aree tutelate ope legis e la facoltà di pianificare le località dichiarate di notevole interesse pubblico. Il secondo elemento di novità è costituito dall’individuazione delle fasi costitutive, dei contenuti e delle finalità del piano paesaggistico. L’elaborazione dei piani territoriali paesistici e dei piani urbanistico-territoriali aventi comunque valore di piano paesaggistico è quindi, per la prima volta, ricondotta a principi ed a modalità comuni per tutte le regioni e tali da assicurare una pianificazione adeguata (artt. 143-145 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.). Viene previsto che il piano ripartisca il territorio regionale per ambiti omogenei (art. 143, commi 2°-5 °, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.): da quelli che possiedono un pregio paesistico di notevole rilievo fino a quelli, invece, degradati che quindi necessitano di interventi di riqualificazione, così da individuare i differenti livelli di integrità dei valori paesistici, la loro diversa rilevanza e di scegliere per ogni ambito le forme più idonee di tutela e di valorizzazione. Alle caratteristiche di ogni ambito debbono corrispondere obiettivi di qualità paesistica da preservare o conseguire. La prioritaria attività conservativa dei valori e delle morfologie tipiche del territorio è stata affiancata dall’elaborazione delle linee di uno sviluppo che sia compatibile rispetto ai diversi livelli dei valori già accertati. Lo sviluppo non deve comunque diminuire le valenze del paesaggio e deve, in particolare, salvaguardare le aree agricole che ricevono particolare attenzione nella disposizione. Tra gli obiettivi viene anche contemplata la riqualificazione delle aree compromesse o degradate e, di conseguenza, il recupero dei valori perduti o la creazione di nuovi valori paesistici. Al piano paesaggistico, in considerazione della diversità e dell’efficacia delle previsioni, è stato attribuito un contenuto conoscitivo, prescrittivo e propositivo.

Dopo oltre sessanta anni dalle leggi del 1939 sulle cose d’arte e sulle bellezze naturali, con il Codice, per la prima volta, è stata tentata una risistemazione aggiornata (e non solo compilativa come è invece avvenuto per il Testo unico del 1999) del corpus normativo sui beni culturali ed il paesaggio. Dal lato dei beni paesaggistici è stata operata una vera rivoluzione copernicana nella direzione del superamento della empasse amministrativa dovuta al continuo conflitto con le istanze regionali e locali di pianificazione del territorio, al fine di pervenire a una pianificazione e gestione del paesaggio maturata nell’accordo con le realtà territoriali, ma pur sempre capace di salvaguardare prioritariamente gli straordinari caratteri culturali dei paesaggi italiani come patrimonio identitario dell’intera collettività nazionale.

La Regione autonoma della Sardegna è stata, quindi, chiamata a fare la sua parte.
In concreto la prima iniziativa adottata dalla nuova Amministrazione regionale è stato il nuovo provvedimento cautelare (deliberazione G. R. 10 agosto 2004, n. 33/1) ex art. 14 della legge regionale n. 45/1989 per tutta la fascia costiera dei metri 2.000 dalla battigia marina, seppure con diverse eccezioni (es. i territori comunali dove sono operativi i P.U.C.). La durata del provvedimento cautelare è stata prorogata a mesi sei con la successiva deliberazione G. R. 9 novembre 2004, n. 46/1, previo deliberato del Consiglio regionale del 5 novembre 2004, in attesa della legge regionale 25 novembre 2004, n. 8 (Norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale). Con la legge regionale n. 8/2004 sono state quindi poste misure di salvaguardia provvisorie finalizzate al nuovo piano paesistico. Viene prevista, in luogo dei precedenti 14 piani territoriali paesistici, la redazione di un unico piano paesaggistico regionale (P.P.R.) relativo alle aree costiere ed a quelle interne (art. 1). Il P.P.R. avente i contenuti previsti dall’art. 143 del codice dei beni culturali e del paesaggio, una volta definitivamente approvato, costituirà il fondamentale strumento di riferimento della programmazione territoriale regionale e degli enti locali. A differenza di quanto effettuato con la legge regionale n. 45/1989, ora la Regione autonoma della Sardegna richiama e fa propria a tutti gli effetti la disciplina statale paesistico-ambientale. La procedura per l’approvazione del P.P.R. è disciplinata dall’art. 2: nell’iter sono coinvolti gli enti locali, i soggetti interessati, le associazioni ambientaliste riconosciute mediante un’istruttoria pubblica in cui “chiunque può presentare osservazioni al Presidente della Regione” sulla proposta di P.P.R. E’, inoltre, previsto un passaggio in Consiglio regionale (Commissione consiliare competente in materia urbanistica) per un parere sul P.P.R. adottato, naturalmente dopo l’esame motivato delle osservazioni presentate e dopo un parere del Comitato tecnico regionale per l’urbanistica. Entro i 30 giorni successivi al parere consiliare la Giunta regionale approva definitivamente il P.P.R., al quale i Comuni dovranno adeguarsi con i loro piani urbanistici comunali (P.U.C.) entro dodici mesi dalla pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione. Vengono poste, poi, misure di salvaguardia provvisorie fino all’adozione del P.P.R. (e comunque per non più di 18 mesi), ulteriori rispetto a quelle già previste dall’art. 10 bis della legge regionale n. 45/1989 (come posto dall’art. 2 della legge regionale n. 23/1993). Sono, quindi, tutelati con il “divieto di realizzare nuove opere soggette a concessione ed autorizzazione edilizia, nonché ... di approvare, sottoscrivere e rinnovare convenzioni di lottizzazione” i territori compresi nella fascia dei mt. 2.000 dalla battigia marina, anche se elevati sul mare (500 mt., se nelle Isole minori), nonché i “compendi sabbiosi e dunali”. Tali disposizioni non si applicano nei Comuni dotati di P.U.C. ed in quelli ricadenti nel tuttora vigente piano territoriale paesistico n. 7 del Sinis (art. 3), deroghe che indubbiamente appaiono menomare in modo sensibile la portata delle disposizioni di salvaguardia. Dalle misure di tutela provvisorie sono inoltre esclusi: gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di consolidamento statico, di restauro e di ristrutturazione che non aumentino volumetrie e non alterino lo stato dei luoghi, la destinazione d’uso e il numero delle unità immobiliari, nonché modesti volumi tecnici strettamente funzionali alle opere principali; gli interventi agro-silvo-pastorali con esclusione di costruzioni residenziali; gli interventi di forestazione e di taglio colturale; le opere di risanamento idrogeologico e degli abitati; gli impianti tecnologici, l’eliminazione delle barriere architettoniche, le zone sportive (senza volumetrie), le vasche idriche, le varianti non essenziali alle concessioni già emanate, le opere precarie e stagionali; le opere pubbliche da realizzarsi nell’ambito dei piani di risanamento urbanistico di cui alla legge regionale n. 23/1985; le infrastrutture di servizio nelle aree di sviluppo industriale in conformità ai relativi piani vigenti. Altre deroghe alle misure di salvaguardia di cui all’art. 3 sono relative all’esclusione della loro vigenza per le zone omogenee “A” e “B” dei centri abitati e delle frazioni e per le zone “C” immediatamente contigue alle “B” ed intercluse. Nelle restanti zone omogenee possono essere realizzati i soli interventi previsti negli strumenti urbanistici attuativi già approvati definitivamente e convenzionati alla data dell’11 agosto 2004 (data di pubblicazione della deliberazione G. R. 10 agosto 2004, n. 33/1) e che abbiano legittimamente avviato le opere di urbanizzazione o abbiano realizzato il reticolo stradale e “si sia determinato un mutamento consistente ed irreversibile dello stato dei luoghi” e, per le zone “F”, venga rispettato il dimensionamento massimo del 50 % delle volumetrie ammissibili con il decreto interassessoriale n. 2266/U del 20 dicembre 1983. Nelle aree boscate l’edificazione è consentita soltanto nelle radure naturali e con una distanza minima dal limitare del bosco di mt. 100 (art. 4). I P.U.C. ed i relativi piani attuativi devono essere corredati dallo studio di compatibilità paesistico- ambientale, che, a sua volta, deve essere predisposto con i criteri e le procedure di cui alla direttiva n. 2001/42/CE concernente la valutazione degli effetti dei piani e dei programmi sull’ambiente – V.A.S. (art. 5). Per le zone turistiche “F” deve essere rispettato il dimensionamento massimo del 50 % delle volumetrie ammissibili con il decreto interassessoriale n. 2266/U del 1983 (art. 6). Sulla base di specifici criteri in armonia con le linee guida del P.P.R., la Giunta regionale può approvare in deroga alle disposizioni della legge regionale n. 8/2004 interventi pubblici finanziati dall’Unione europea, dallo Stato, dalla Regione, dagli enti locali o da enti strumentali (art. 7).

Le norme transitorie (art. 8) prevedono la validità dei P.U.C. vigenti purchè non modificati dopo la deliberazione G. R. 10 agosto 2004, n. 33/1 (è consentita l’adozione di varianti per riportarli al legittimo stato previgente), la possibilità di approvare definitivamente P.U.C. in itinere entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge se corredati dallo studio di compatibilità paesistico- ambientale. Analogamente possono essere adottati relativi strumenti attuativi solo se corredati dallo studio di compatibilità paesistico-ambientale. Fino all’approvazione definitiva del P.P.R. è stabilita una moratoria per gli impianti di produzione di energia elettrica da fonte eolica, salvo che siano stati definitivamente autorizzati alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 8/2004 ed i lavori siano stati avviati comportando una modifica irreversibile dello stato dei luoghi. Gli impianti precedentemente autorizzati in assenza di positiva conclusione di procedimento di valutazione di impatto ambientale (V.I.A.) che non abbiano avviato i lavori (con irreversibili modifiche del territorio) possono essere realizzati solo in caso di positiva conclusione del procedimento di V.I.A. Gli ultimi articoli della legge regionale n. 8/2004 riguardano abrogazioni e sostituzioni di termini (art. 9) l’entrata in vigore della legge medesima il giorno successivo alla pubblicazione, il 26 novembre 2004 (art. 10).

L’autore del documento è il fondatore e animatore della battagliera e attrezzatissima associazione ecologista Gruppo d’intervento giuridico onlus (GRIG), il cui blog, sistematicamente aggiornato, è preziosa fonte informativa sulla Sardegna (e non solo)

Da Fai, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e Man appello al governo affinché fermi un'opera ritenuta pericolosa, inutile e dannosa per l'ambiente. I rilievi tecnici al progetto in oltre 200 pagine di osservazioni. "Agire immediatamente per evitare penali"

Se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, la crisi economica e l'arrivo di un governo tecnico in supplenza della politica possono forse essere l'occasione per archiviare una volta per tutte un progetto ritenuto folle come quello sul Ponte sullo Stretto. Questa è almeno la speranza delle associazioni ambientaliste Fai, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e Man (Associazione mediterranea per la natura) che nei nei giorni scorsi hanno scritto proprio con questo obiettivo una lettera al presidente del Consiglio Mario Monti.

L'iniziativa è stata presentata questa mattina a Roma insieme a una dettagliata "contro-relazione" che ha impietosamente ricordato i tanti aspetti critici e spesso persino paradossali del progetto. Ben 245 pagine di osservazioni che le organizzazioni hanno prodotto, come scrivono allo stesso premier, "nell'ambito della procedura speciale di Valutazione di Impatto Ambientale per le infrastrutture strategiche".

Detto fuori dal reverente linguaggio burocratico utilizzato nella lettera, la questione di fondo per le associazioni ecologiste è che il Ponte è pericoloso in quanto sarebbe un azzardo ingegneristico compiuto in una delle zone più sismiche del Mediterraneo; è un'infrastruttura inutile dal punto di vista della mobilità e della promozione dello sviluppo economico; costa uno sproposito, 8,5 miliardi di euro, che potrebbero essere usati in maniera molto più proficua; rappresenta una minaccia paesaggistica e ambientale, sia per l'impatto che avrà l'apertura di decine di cantieri sulle due rive dello Stretto, sia per la migrazione di milioni di uccelli (4,3 sono stati quelli censiti in volo in appena un mese e mezzo di controlli radar).

Obiezioni vecchie, che vengono ripetute ormai da anni, ma che per i loro aspetti paradossali non smettono mai di sorprendere. Vale la pena di ricordarne alcuni: il Ponte sullo Stretto, ricordano Fai, Italia Nostra, Wwf, Legambiente e Man nelle loro osservazioni, avrebbe una campata lunga 3,3 chilometri, mentre la più lunga esistente al mondo (Akashi Kaikyo, in Giappone) è di appena 1,9, km. Il ponte giapponese è però solo stradale, mentre quello tra Reggio e Messina dovrebbe essere sia stradale che ferroviario. Per costruire quest'ultimo, secondo i progettisti, sarebbero sufficienti appena 6 anni, mentre per Akashi Kaikyo ne sono occorsi ben 12. I cantieri per i lavori occuperebbero inoltre sul versante siciliano uno spazio pari a oltre tremila campi da calcio, mentre su quello calabrese ne sarebbero sufficienti "appena" la metà.

Proprio perché si tratta di aspetti che gli ambientalisti denunciano da tempo, più che sulla razionalità di queste osservazioni le speranze di uno stop definitivo all'opera si concentrano ora sul contesto economico generale del paese. "Dobbiamo battere sul tasto dello spreco che rappresenterebbe il Ponte in un momento drammatico come l'attuale", sottolinea il presidente dei Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. Non a caso a dare manforte a questa campagna era presente alla conferenza stampa una piccola pattuglia di parlamentari di diverse forze politiche, dal Pd all'Udc, da Fli ai Radicali.

"Il Ponte è un progetto fallito e incompatibile con l'attuale fase economica che vive il paese - commenta ad esempio il futurista Fabio Granata - da solo rappresenta un costo pari a oltre un terzo dell'ultima manovra Monti". Il democratico Francesco Ferrante sottolinea invece un'altro aspetto della particolare contingenza: "Proprio perché quello in carica è un governo tecnico - dice - mi auguro che non abbia una posizione ideologica e fermi il progetto attraverso lo strumento istituzionale della valutazione di impatto ambientale".

Nella loro lettera a Monti, come ricordato in conferenza stampa, le associazioni denunciano poi l'incompletezza del progetto redatto dalla Stretto di Messina spa (concessionaria interamente pubblica) e da Eurolink (General contractor), un documento costato 66 milioni di euro di fondi pubblici, ma che "non può essere ritenuto definitivo" viste le tante lacune e approssimazioni.

Quest'ultimo è un punto estremamente importante, perché decisivo in caso di battaglia sulle possibili penali. Secondo gli ambientalisti, imponendo ora uno stop all'opera, lo Stato non sarebbe tenuto a nessun esborso non solo perché il progetto non è definitivo, ma anche perché la clausola che fissa la presentazione del progetto come ultimo atto entro il quale è possibile tirarsi indietro rappresenta "un alterazione ex post di requisito di gara".

Ma è fondamentale, ha concluso Stefano Lenzi del Wwf, che "il governo eviti il punto di 'non ritorno' dell'avvio dei cantieri e rigetti il progetto definitivo" evitando di dover pagare 56 milioni per il progetto esecutivo e 425 milioni per "l'avvio anche di un solo cantiere". Per dare ulteriore forza a questa battaglia le associazioni ambientaliste hanno quindi presentato anche una diffida alla Commissione di valutazione di impatto ambientale e avviato una petizione popolare per chiedere lo scioglimento della Stretto di Messina spa, l'unico atto che permetterebbe di scrivere definitivamente la parola fine all'intera vicenda.

Titolo originale: Agenda 21 Should Not Divert Attention from Homegrown Anti-Growth Policies – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ambientalismo radicale, settori economici, e le ubique masse dei soliti nimby, cercano da anni e anni di cambiare la forma della città americana secondo le loro amate politiche di “crescita sostenibile”. Tutti questi militanti operano per imporre norme urbanistiche tali da obbligare tutti ad abitare in modo più denso, eliminando qualunque possibilità di scelta in materia di case, discriminando i cittadini a bassi redditi, spingendo la gente a spendere di più per abitare, a rinunciare all’automobile a favore della metropolitana, del tram, dell’autobus o della bicicletta.

Tutte queste cose — che prendono via via il nome di “New Urbanism” o “trasformazione sostenibile” o “tutela degli spazi aperti”— vedono da molto tempo l’opposizione di alcuni cittadini a causa del loro effetto negativo sulla crescita economica, la concorrenza, il livello di vita de paese. Come rilevato dalla Heritage Foundation, là dove si sono applicate politiche di smart-growth sono notevolmente aumentati i prezzi delle case, escludendo così dalla proprietà dell’abitazione i nuclei familiari a redditi medio-bassi. A sua volta, l’alto prezzo delle case obbliga gli acquirenti a contrarre molti debiti, e questo ha contribuito ai meccanismi che hanno condotto alla attuale recessione. In realtà i peggiori problemi coi pignoramenti esistono in quegli Stati con norme urbanistiche più rigide: Florida, California, Arizona, e Nevada.

Ma negli ultimi anni alcuni oppositori della smart-growth che operano a livello locale hanno imparato a mettere in discussione una iniziativa del 1992 delle Nazioni Unite detta Agenda 21, a sostegno di varie politiche basate sui medesimi principi della smart-growth. Hanno cioè riconosciuto in questa Agenda 21 semplicemente un altro modo per far divergere la loro opposizione ai programmi degli estremisti ambientalisti nazionali.

I principi ispiratori della Agenda 21 altro non sono se non quelli della Smart-Growth

L’Agenda 21 è molto articolata, si tratta di un ambizioso piano di azione presentato alla Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite del 1992 (UNCED) di Rio de Janeiro, in Brasile, e adottata dai paesi partecipanti come “piano integrato delle azioni da intraprendere a livello globale, nazionale e locale da agenzie delle Nazioni Unite, Governi, Associazioni, in ogni area di impatto umano sull’ambiente”. Nelle sue oltre 300 pagine, l’ Agenda 21avanza centinaia di specifici obiettivi e strategie da adottarsi alle varie scale. Proposti in quattro sezioni:

La dimensione economico-sociale (es. cooperazione internazionale per favorire lo sviluppo sostenibile nei paesi in via di sviluppo, combattere la povertà, modificare i consumi, promuovere insediamenti sostenibili);

Conservazione e gestione delle risorse (es. tutela dell’aria, pianificazione nell’uso del territorio, promozione dell’agricoltura sostenibile e dello sviluppo rurale);

Rafforzamento del ruolo di alcuni soggetti (es. donne, bambini, popolazioni indigene, mondo del lavoro e sindacati); infine

Strumenti di attuazione (es. finanziamenti, trasferimento tecnologico, istruzione e consapevolezza pubblica, diritto internazionale).

Insomma la UNCED è esplicitamente orientate a far sì che i governi “ripensino al proprio sviluppo economico individuando modi per fermare la distruzione di risorse naturali insostituibili e l’inquinamento del pianeta… Il messaggio del Vertice è quello di cambiare i nostri atteggiamenti e comportamenti, per arrivare alle trasformazioni necessarie”. L’Agenda 21 chiama esplicitamente i governi a intervenire per regolamentare qualunque potenziale impatto delle attività umane sull’ambiente.

Se messe in pratica, le politiche esposte dall’Agenda 21 ampliano di parecchio l’ambito di intervento dei governi nelle decisioni economiche, ostacolano crescita e sviluppo, limitano le scelte individuali e la flessibilità in quelle locali. Chi vi si oppone dovrebbe temere i tentativi del governo Usa per applicarla, a livello nazionale e locale. L’Agenda 21 però non è vincolante; dipende totalmente dai vari livelli amministrativi per l’attuazione, e quindi in sé e per sé non rappresenta una minaccia. Se certo si tratta di politiche molto preoccupanti, è perché non restano confinate nell’ambito della sola Agenda 21. Esse permeano di sé l’agenda della smart-growth tanto ampiamente condivisa in varie parti degli Stati Uniti, a danno delle economie locali.

I principi del’ambientalismo radicale derivati dall’Agenda 21

Le politiche di smart-growth così come si trovano nell’Agenda 21 traggono la propria origine nel pensiero di sinistra europeo e di alcuni intellettuali americani, che precede di molto l’adozione dell’Agenda. In realtà delle medesime politiche esiste una versione britannica — che ha avuto una forte influenza sul pensiero e l’azione ambientalista della sinistra americana e internazionale che in gran parte ha contribuito a scrivere Agenda 21 — risalente agli anni ‘20. Come ha scritto il Principe Carlo:

«Da più di ottant’anni la Campaign to Protect Rural England lotta per la difesa del delicate intreccio delle aree di campagna che ci restano. La lungimiranza dei suoi padri fondatori fu straordinaria: nel 1926 Clough Williams-Ellis, che ricordo molto bene e ammiro immensamente, pubblicava il suo L‘Inghilterra e la Piovra, una polemica contro la dispersione urbana, e lo stesso anno Sir Patrick Abercrombie scriveva il suo saggio, La conservazione dell’Inghilterra rurale. Da allora prosegue la lotta, e si sono ottenuti grandi risultati ».

Scelte del genere sono alla base della legge urbanistica approvata dal governo socialista nel 1947, che obbligò tutto lo sviluppo urbano successivo entro i confini della città esistente, e sono state un disastro per l’economia. Oggi i cittadini del Regno Unito abitano le case più piccole e costose di tutti i paesi avanzati del mondo.

Il movimento americano per la smart-growth si afferma decisamente nei primi anni ’70, quando le città della California e dell’Oregon iniziano a riprodurre le politiche britanniche anti-sprawl con norme urbanistiche restrittive per contenere la suburbanizzazione. Un po’ per volta, si diffondono poi in tutto il paese, con sempre più città a adottare scelte che scoraggiano l’espansione suburbana, salvo per i più ricchi. Questo impegno contro la crescita non è spinto esclusivamente da una visione distorta dell’ambiente, ma anche dal progetto di già abita questi idilli rurali, di mantenerne fuori altri che potrebbero rovinare la comunità suburbana.

Negli anni ’80 queste scelte conducono il Presidente George H. W. Bush a costituire una commissione, coordinata dal ministro per la Casa e lo Sviluppo Urbano, Jack Kemp, che indaghi sui loro impatti nelle città e per la crescita, esprimendo un giudizio. Il rapporto finale: Not in My Back Yard: Removing Barriers to Affordable Housing, rappresenta una formidabile critica alla serie di scelte che oggi chiamiamo “smart growth”. Ma la smart-growth continua a crescere negli Stati Uniti. Cresce e si irrigidisce, acuisce gli effetti sui prezzi delle casei ovunque. Esplode l’urbanistica delle zone esclusive, e si adottano orientamenti verso un determinato “profilo” demografico. Scelte che limitano le trasformazioni edilizie a tipi costosi, per “escludere economicamente” i ceti a basso reddito, vale a dire soprattutto minoranze razziali.

Commentando lo scoppio della bolla edilizia americana, il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne notava seccamente come la Gran Bretagna avesse scampato questo tipo di crisi che aveva messo in ginocchio l’America, perché invece di espandere la propria dotazione di case, “Noi ci siamo salvati dato che in questo paese non si può costruire nulla”. É vero che la bolla edilizia negli Usa si è dovuta anche a certa avventatezza, ma le scelte smart-growth hanno giocato un ruolo fondamentale nel costruire e esasperare questa bolla, e la successiva recessione. A ben vedere, sono gli Stati e le aree metropolitane con le norme territoriali più rigide ad aver sofferto di più il crollo dei prezzi (ovvero California, Florida, Arizona, e Nevada) nonché dei gravi problemi di pignoramenti poi.

Non mancare il vero obiettivo

Chi si oppone all’Agenda 21 non dovrebbe farsi distrarre dall’osservare le manifestazioni più tangibili dei principi smart-growth delineati dal documento. Se si guarda troppo all’Agenda 21, aumenta la probabilità che vengano messe in pratica politiche locali risalenti ai primi anni ’70 da parte di amministrazioni federale, statali, locali, e in grado di peggiorare la qualità della vita, restringere la libertà di scelta individuale, limitare il diritto di proprietà, a solo vantaggio dei gruppi ambientalisti e di altri interessi consolidati.

A peggiorare il problema, l’Amministrazione Obama ha calorosamente adottato principi smart-growth, e più in generale irrigidito e ampliato la regolamentazione ambientale e sullo sfruttamento delle risorse naturali. É il ministro dei Trasporti, Ray LaHood, l’uomo chiave dell’Amministrazione per imporre agli americani politiche smart-growth. Insieme ad altri esponenti del governo, è alleato a vari rappresentanti di governi statali e amministrazioni locali, o gruppi di interesse quali Urban Land Institute, Agenzie di Pianificazione Regionale, Smart Growth America, la American Public Transportation Association, il Sierra Club, Friends of the Earth, più associazioni economiche locali assai poco lungimiranti.

Chi si oppone a questa politica ha operato molto efficacemente. Un buon esempio arriva dallo Stato della Florida, dove il Governatore Rick Scott (Repubblicano) e la maggioranza del parlamento hanno cancellato pochi mesi fa una legge sulla smart-growth in vigore da venticinque anni. Quando sono messi in pratica, questi orientamenti sollecitati dall’Agenda 21 ostacolano crescita economica e ricchezza. Quindi vale certamente la pena di impedire qualunque attuazioni dell’Agenda 21 in America a livello nazionale, e l’adesione delle amministrazioni locali di contea, città e cittadine all’International Council for Local Environmental Initiatives (ICLEI), oggi Local Governments for Sustainability. Ma ciò si deve considerare solo nel quadro di un più ampio impegno per spingere il governo Usa ad abbandonare i devastanti programmi smart-growth ed evitarne dei nuovi.

Gli effetti del decreto "Salva Italia" dureranno a lungo, perché redistribuiscono poteri e risorse. Per questo non è possibile far tacere lo spirito critico, né pretendere una sorta di acquiescenza sociale, alla quale giustamente i sindacati hanno detto di no. Il decreto, infatti, tocca profondamente vita e diritti delle persone.

I diritti sono diventati un lusso? L´"età dei diritti" è al tramonto? Di questo discutiamo in questi tempi difficili, e non solo in Italia. E´ tornata l´insincera tesi dei due tempi: prima risolviamo i problemi dell´economia, poi torneranno i bei tempi dei diritti. "Prima la pancia, poi vien la morale" – fa dire Bertolt Brecht a Mackie Messer nel finale del primo atto dell´Opera da tre soldi. Ma l´esperienza di questi anni ci dice che di quel film viene sempre proiettato solo il primo tempo.

Vi è una ricerca francese sui diritti sociali intitolata Droits des pauvres, pauvres droits. Dunque, "diritti dei poveri, poveri diritti": diritti sempre più deboli per i più deboli, e che non si sa che fine faranno. Oggi siamo di fronte ad interventi caratterizzati da una forte asimmetria sociale, che fanno crescere ancora di più la diseguaglianza. Ma qual è la soglia di diseguaglianza superata la quale è a rischio la stessa democrazia? Siamo consapevoli che stiamo passando per un numero crescente di persone dall´"esistenza libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, ad una situazione che spinge verso la pura sopravvivenza biologica?

Proprio nei tempi difficili bisogna parlare dei diritti. Senza conservatorismi, si dice. E allora, poiché il Governo annuncia interventi nella materia del lavoro, usciamo da schemi inutili e aggressivi come quelli che mettono al centro la modifica dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Uno sguardo sull´immediato futuro, realistico e lungimirante, esige che si affronti una revisione dei regimi di sicurezza sociale nella prospettiva del riconoscimento di un diritto ad un reddito universale di base. Di questo si discute da tempo, come mostra un libro appena pubblicato da Giuseppe Bronzini. Si potrebbe così cominciare ad invertire la rotta: dalla sopravvivenza di nuovo verso l´esistenza, ricongiungendosi anche ad una precisa indicazione dell´articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: "al fine di lottare contro l´esclusione e la povertà, l´Unione riconosce e rispetta il diritto all´assistenza sociale e all´assistenza abitativa volte a garantire un´esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti".

Si è detto che l´Italia deve riguadagnare la dimensione europea, rifiutata nei tempi del berlusconismo. Ma, se si vuole che i cittadini non guardino all´Europa solo come fonte di imposizioni e di sacrifici, bisogna ricordare quel che disse il Consiglio europeo nel 1999: «"La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell´Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità». L´Europa dei mercati non può essere disgiunta dall´Europa dei diritti, pena una delegittimazione che può contribuire alla sua dissoluzione. I governanti devono rendersi conto che la Carta dei diritti fondamentali non è un documento al quale dedicare qualche distratta citazione, ma uno strumento che, adoperato con continuità e sincerità, può mostrare il «valore aggiunto» dell´Europa, nel quale diventa conveniente riconoscersi per tutti.

Ma l´Europa è anche quella dei trattati, di cui ora si propongono modifiche per rendere possibile un più diretto governo dell´economia. Di nuovo una questione di legittimità democratica. Si può rafforzare il potere europeo in questa materia sottraendolo a controlli che non siano solo quelli esercitati dalla forza degli interessi di governi nazionali? Se si vuol mettere mano al Trattato di Lisbona, allora, è necessario che una riforma includa un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo. Qui l´antica vocazione europeistica dell´Italia potrebbe essere rinverdita. Vorrà farlo l´attuale Governo, guadagnando così meriti presso tutti quelli che credono ancora in una ripresa della costruzione democratica dell´Unione?

Questa linea di riforma istituzionale, attenta a democrazia e diritti, dovrebbe essere seguita anche per le riforme costituzionali di cui si torna a parlare in casa nostra. Queste non possono essere considerate solo dal punto di vista di un nuovo assetto per Parlamento e Governo. E l´insistenza sulla giusta necessità di restituire ai cittadini poteri confiscati dall´indegna attuale legge elettorale non può limitarsi a questa soltanto. Le nuove forme di partecipazione politica, dei cui effetti abbiamo avuto prove concrete in occasione dei referendum e delle elezioni amministrative, esigono forme istituzionali che diano corpo e legittimazione a quella "democrazia continua" che ormai caratterizza la sfera pubblica e che non può essere affidata soltanto alla dimensione mediatica o alla logica dei sondaggi. Ricordate la critica di Rousseau alla democrazia rappresentativa inglese? «Il popolo inglese crede d´essere libero; s´inganna, non lo è che durante l´elezione dei membri del Parlamento; non appena questi sono stati eletti, esso diventa schiavo, non è più nulla». A questa schiavitù politica, al silenzio tra una elezione e l´altra, i cittadini si ribellano sempre di più, grazie soprattutto alle opportunità loro offerte da Internet. Sono lontanissimo dalle semplificazioni di chi continua a pensare ad una democrazia salvata dalla tecnologia, e ritengo che si debba sempre riflettere sui rischi di una "democrazia elettronica" come forma del populismo dei nostri tempi. Ma è suicida continuare a guardare alle istituzioni e alle loro possibili riforme senza prendere seriamente in considerazione la necessità di integrazioni nuove tra democrazia rappresentativa e presenza più diretta dei cittadini.

Nella prospettiva di riforme, volte però alla buona "manutenzione" e non allo stravolgimento della Costituzione, mi limito ad indicare una sola ipotesi, di cui già ho parlato in passato, ma che il successo dei referendum rende attuale. Mi riferisco all´iniziativa legislativa popolare, prevista dall´articolo 71 della Costituzione e che, finora, ha avuto come effetto solo la frustrazione dei proponenti, visto che il Parlamento ignora del tutto le proposte firmate dai cittadini. Credo che sia venuto il momento di rinvigorire questo istituto, prevedendo procedure che riguardino le modalità in base alle quali il Parlamento deve prendere in considerazione quelle proposte e dando al comitato promotore il diritto di seguirne l´iter parlamentare in commissione, secondo il modello che ha già portato a considerare i promotori di un referendum addirittura come «potere dello Stato». Un passo così impegnativo dovrebbe essere accompagnato da un aumento delle firme necessarie, ben oltre le attuali cinquantamila. Ma avrebbe l´effetto positivo di avviare una integrazione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta (che può e deve trovare ulteriori forme), di aprire un canale tra eletti ed elettori, di insidiare l´autoreferenzialità della politica e di avviare così un suo riscatto nel tempo del massimo suo discredito.

Anche così potremo ricongiungerci all´Europa. L´articolo 11 del Trattato di Lisbona affianca alla democrazia rappresentativa uno strumento di democrazia diretta: il nuovo diritto di iniziativa dei cittadini europei che, in numero di almeno un milione, possono chiedere alla Commissione europea di prendere iniziative in determinate materie. Non è un caso che di questo strumento si prepari a servirsi la rete europea dei movimenti per l´acqua bene comune, dunque proprio i soggetti ai quali si deve la più forte iniziativa referendaria.

L´uscita dalla regressione culturale e politica, nella quale siamo piombati, sta proprio nella capacità di ricominciare a frequentare il futuro senza condizionamenti, primo tra tutti quello che vuole ricondurre tutto alla logica del mercato.

Trasformare uno straordinario pezzo di costa adriatica in un cantiere, per la ricerca di idrocarburi? Sforbiciare pesantemente una riserva naturale (il Borsacchio) famosa per le sue bellezze, la sua fauna? Nel 2006 la Medoilgas Italia S.p.A ha chiesto alla Regione Abruzzo di potere scavare in profondità, nei territori della città di Pineto e di Roseto. I cittadini piu sensibili si sono subito mobilizzati. E della ricerca non si è saputo piu nulla. Sembrava morta. Ma non lo era, visto che oggi, alla fine del 20011, la Regione Abruzzo chiede ai suoi cittadini — a dire il vero con molta civiltà — di dare il proprio parere sulle escavazioni. La Regione domanda agli abruzzesi se, a parer loro, il progetto di ricerca sul territorio presentato dalla Medoilgas debba essere sottoposto a VIA (valutazione di impatto ambientale) oppure no. Le osservazioni degli interessati devono pervenire in Regione entro il prossimo 26 dicembre.

Finalmente, si dirà, le amministrazioni consultano chi lavora e cura gli interessi di un territorio, senza imporre le cose dall'alto. Ma c'è un ma. Nella richiesta della Medoilgas è scritto che nella zona da loro presa in esame non ci sono aree protette e che comunque le loro ricerche riguarderanno solo il gas. Ma ciò non corrisponde a verità, come dichiarano i cittadini piu avvertiti. E questo la Regione dovrebbe metterlo in chiaro. La zona dove si vuole scavare comprometterebbe una gran parte della riserva naturale del Borsacchio. Inoltre la ricerca prevede anche le trivellazioni in mare per il petrolio, trivellazioni che sappiamo quanto siano laboriose, costose e devastanti.

Eppure la legge regionale n. 6 del 2005 che ha istituito la Riserva, stabilisce categoricamente dei divieti: «È proibito alterare le caratteristiche naturali del luogo», «Proibita l'apertura di nuove strade, la costruzione di nuovi edifici, la costruzione di nuove cave, di miniere e di discariche», «Proibita l'alterazione con qualsiasi mezzo, diretta o indiretta, dell'ambiente geofisico e delle caratteristiche biochimiche dell'acqua, ed in genere l'immissione di qualsiasi sostanza che possa modificare, anche transitoriamente, le caratteristiche dell'ambiente acquatico» e persino «l'installazione di cartelli pubblicitari». Possibile che a ogni legge che tende a proteggere il territorio, nel nostro Paese, si oppongano immediatamente limiti e deroghe, tanto da renderla nulla?

Incredibile: il rapporto ambientale contenuto nell'istanza di permesso di ricerca non prende minimamente in considerazione la presenza dell'area naturale protetta del Borsacchio, creata nel 2005 proprio per rimediare alla cementificazione delle coste adriatiche, e per preservare uno dei pochi tratti di litorale abruzzese non completamente cementificato.

Possibile non rendersi conto che nuove devastazioni del territorio e delle coste non potranno che portare, per conseguenza, inondazioni periodiche, frane, slavine, smottamenti, come quelli che in questi giorni stanno distruggendo tante parti della nostra costa? Possibile essere così ciechi di fronte agli interessi vitali del territorio e dell'ambiente?

I nostri anticorpi

di Norma Rangeri


Se non ci aiutano loro, gli immigrati, a risalire la china verso una nuova, comune cittadinanza, dopo questi lunghi anni di leghismo xenofobo, di berlusconiana compassione per i poveri, di estremismo proprietario e individualista, per noi sarà più difficile sradicare i semi dell'odio. E sarà faticoso, complicato recuperare il senso di una comunità, ritrovare il piacere della contaminazione e il dovere dell'accoglienza.

L'opera di denigrazione della diversità alimentata dalle istituzioni di governo, la propaganda martellante dei ministri, degli amministratori locali contro i più indifesi hanno lavorato sotto la pelle alimentando una cultura fascistoide che sarà dura bonificare. Ma certo non impossibile. Intanto proprio dalle istituzioni si fanno sentire forti spinte in controtendenza. Dai richiami del presidente della repubblica al diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati, alla nomina di un ministro come Andrea Riccardi alle politiche di cooperazione e integrazione. Ma dalle parole bisognerà passare ai fatti e spetterà a noi tutti rafforzare gli anticorpi dove più si sono indeboliti, specialmente nelle fasce dell'emarginazione culturale e sociale destinate al contagio razzista portato dai venti della grande crisi (lo spettro degli anni '30 si aggira per l'Europa).

Per questo è stato di grande conforto vedere ieri la manifestazione dei senegalesi che hanno raggiunto Firenze un po' da tutta Italia. E il rammarico di non essere lì, nella piazza fiorentina, insieme a Pap Diaw e ai suoi amici colpiti da un lutto così atroce, è stato parzialmente compensato dalle immagini di piazza S.Maria Novella affollata da un popolo fiero e combattivo. Così come va segnalata la presenza in mezzo a loro dei leader della sinistra, finalmente uniti per una giusta causa.

Dai volti e dalle parole, dai canti e dalle preghiere che hanno segnato il timbro della manifestazione, arriva l'orgoglio di una cultura, la rivendicazione di un diritto che è prima di tutto umano poi civile e politico. E che restituisce a noi, per contrasto, tutta la vergogna di un veleno razzista, mostrandoci infine quali sono gli antidoti per guarire la ferita.

«Ora vogliamo un'altra politica»

di Luca Fazio (Milano)

Rivendicano la cittadinanza, il permesso, la chiusura dei Cie e di casa Pound

Insolito ritrovo piazzale Loreto. Non capita spesso che siano gli immigrati, o i loro figli, a trascinare una manifestazione antirazzista, per cui ogni tanto è bene farsi da parte e lasciar fare loro, compresa la manfrina finale del fronteggiamento con la polizia in piazza Duca d'Aosta: alcune decine di giovani senegalesi gridano «assassini», spingono, si spingono, ma non ce l'hanno con la polizia, è solo che tocca a quel cordone rappresentare l'ordine imposto, che in Italia da troppi anni è al servizio di politiche razziste. E fasciste, dice questo corteo inedito. Sembra una banalità ma è un fatto interessante. Solidarizzano con la comunità senegalese di Firenze, parlano di Modou Samb e Mor Diop, e per la prima volta individuano un simbolo tra i tanti che ce l'hanno sempre avuta con loro: casa Pound. I fascisti, si diceva una volta. L'estrema destra, con la strage di Firenze, si rivela per quello che è, solo che adesso lo sanno tutti. Gira un cartello, ne girano tanti - scritti sui cartoni, sui fogli, sulle bandiere... - e il concetto è piuttosto esplicito: «Fascismo e razzismo stessa merda. Chiudere casa Pound».

Ma non è solo per questo che più di un migliaio di persone ha raccolto l'appello a manifestare in occasione della Giornata globale per i diritti dei migranti. Gli africani di Milano, supportati dalle associazioni antirazziste, da qualche centro sociale e da qualche partito di sinistra, hanno delle richieste da fare al nuovo governo. Le stesse che per anni sono rimaste schiacciate tra il razzismo istituzionale del centrodestra e la debolezza, in qualche caso connivente, del centrosinistra.

Rileggiamo i cartelli. Adesso toccherà al governo Monti dare risposte a milioni di migranti che vivono in Italia come cittadini privi di diritti fondamentali (compreso il lavoro, e qui, con la «manovra salva Italia», sembra il gatto che si mangia la coda). I migranti dicono di essere «una sola razza, razza umana universale», e al governo saranno tutti d'accordo. Ma che dire, in tempi di sacrifici per tutti tranne che per ricchi politici e banchieri, davanti al cartello «la legge Bossi-Fini ci incatena al lavoro nero»? Il corteo è pieno di scatoloni con scritto «No sanatoria truffa» e di giganteschi permessi di soggiorno timbrati di rosso: «Espulso» e «Scaduto». Sarà materia di discussione? E poi. Sarà impossibile dare soddisfazione a chi alza il cartello «Chiusura dei Cie», e questo non è un dettaglio, è una vergogna sponsorizzata da tutte le forze politiche che hanno governato dal 1998.

C'è di che essere furibondi, dopo la strage di Firenze e il pogrom di Torino, ma il corteo è pieno di ragazzi e ragazze giovani, e non tira certo aria di rassegnazione. Si sorride. Ci si mescola senza farci caso, perché è la cosa più naturale del mondo. Sfottono, come la ragazza asiatica che ha dipinto di rosa il suo cartello «Tengo o'core italiano». E c'è anche chi avrà tutto il tempo di svegliarsi quando gli pare, come Mariam, sei mesi impastati di sonno sul petto di sua madre. Mariam con la M finale, perché la mamma è italiana e il padre senegalese, «io sono cattolica lui musulmano, ci siamo messi d'accordo così...». Allora viva Mariam.

Firenze, il ruggito antirazzista

di Riccardo Chiari (Firenze)

Più di ventimila persone sfilano nella città a pochi giorni dall'efferato omicidio per mano del militante di casa Pound. Una sola voce per chiedere diritti e democrazia

In una limpida, bellissima giornata di fine autunno, più di ventimila esseri umani di ogni età, genere e colore salutano Samb Modou e Diop Mor. Camminano insieme, per le strade di una Firenze che da anni non vedeva un corteo così consapevole, intenso, autenticamente di popolo. Pap Diaw ci sperava: «Non vogliamo fare un corteo di soli neri, vogliamo mischiarci con tutte le realtà fiorentine». Il portavoce della comunità senegalese vede esaudita anche questa richiesta. I figli della madre Africa, arrivati da mezza Italia per inginocchiarsi lì dove i fiori, le candele e i disegni ricordano la mattanza di martedì, sfilano fianco a fianco con i fiorentini, in lunghi pezzi di corteo dove simboli e appartenenze si annullano in un indistinto, tranquillo fiume di persone diretto in piazza Santa Maria Novella. Per i bambini poi, che sono insieme in piazza come sono insieme ogni giorno in classe, nulla di quanto accaduto può avere senso. Greta, Fatima, Pietro, Francesco e Giulia oggi sono i maestri: «Quali sono le tre cose peggiori al mondo? Guerre, razzismo e fascismo? Hai risposto bene». Come risponde bene il coro, ritmato, che riecheggia lungo tutto il corteo: «Basta, basta, raz-zi-smo».

Già alle due del pomeriggio, un'ora prima della partenza, piazza Dalmazia inizia a riempirsi. C'è chi prega, su un cartello c'è scritto: «In questa piazza il 13 dicembre 2011 sono stati uccisi Samb Modou e Diop Mor, lavoratori senegalesi, per mano razzista e fascista. Perché la memoria non ci inganni». In testa al corteo che si sta formando ci sono i familiari e gli amici delle due vittime. Hanno con sé la foto di una ragazzina: «Ha tredici anni - spiegano - è la figlia di Mor, non l'ha mai conosciuta. Aveva lasciato in Senegal la moglie incinta per venire qua a lavorare. Ora stava aspettando i documenti per tornare e conoscerla». Poco lontano i richiedenti asilo eritrei e somali, insieme al movimento per la casa. Fra loro anche Abdi. Ha un anno e, in carrozzina, è alla sua prima manifestazione. Aspettando, lui che è nato in Italia, di veder riconosciuto il diritto di essere cittadino italiano. Un anno ha Abdi, 87 anni ha Leandro Agresti, il partigiano Marco, che porta al collo il fazzoletto della Brigata Fanciullacci e in mano la bandiera dell'Anpi di Firenze. «Siamo rimasti in pochi. Ma oggi siamo qui. E' doveroso».

Si parte in anticipo perché in piazza non si entra più. E da questo momento sarà ininterrotto il flusso di persone che percorrono la lunga via Corridoni lo svincolo sulla ferrovia lungo la Fortezza da Basso, via Valfonda, piazza Stazione e infine Santa Maria Novella. Più di un'ora e mezzo di corteo, con la coda di migliaia di partecipanti che alla fine non riuscirà a entrare nella pur vasta piazza Santa Maria Novella, dove è stato montato il palco per gli interventi conclusivi. Fra i leader politici, ecco passare negli spezzoni dei loro partiti Pierluigi Bersani, Nichi Vendola, Enrico Rossi, Paolo Ferrero, Riccardo Nencini, Rosy Bindi, il sindaco Matteo Renzi, Marco Ferrando, arriva anche l'ex ministro Rotondi. C'è anche Maurizio Landini. Ci sono i gonfaloni di province (Firenze, Prato, Livorno) e di tanti comuni toscani, peccato per il giglio di Firenze lasciato in Palazzo Vecchio. La strada è stata "pulita" da auto e motorini, i giovani facchini senegalesi del mercato di Novoli fanno da security.

Gli striscioni delle comunità senegalesi, toscane, venete, lombarde, passano senza soluzione di continuità. In fondo al corteo, i senegalesi di Roma cantano nella loro lingua, con una intensità che mette i brividi. Ma ci sono anche i palestinesi, e le mille associazioni e movimenti di base che hanno aderito, compresa la scuola popolare Caracol di Viareggio con i suoi piccoli alunni. Le bandiere giallo-verde-rosso del Senegal si uniscono a quelle rosse del Prc, di Sel, del Pcl, di Sr, bianche dell'Idv e tricolori del Pd. I fiorentini più anziani, molte donne, sono ai lati della strada. Anche loro si sentono, e fanno, parte del corteo. Una volta in Santa Maria Novella, Enrico Rossi ribadisce dal palco: «Sul razzismo le istituzioni non hanno avuto sufficiente rigore». A ruota Paolo Ferrero: «Ci sono leggi che devono essere cancellate, dalla Bossi-Fini al reato di clandestinità». «Noi senegalesi non abbiamo bisogno delle scuse di Casa Pound - chiude Pap Diaw - loro, piuttosto, dovrebbero vergognarsi, e non solo di fronte a noi, ma davanti al mondo intero». TORINO Manifestazioni contro il razzismo in tutta Italia. Sotto la Mole erano tre i cortei per ricordare il massacro di Firenze e l'agguato incendiario contro il campo rom delle Vallette. Ma c'è chi non smette di seminare odio da quelle parti e a mano ha scritto un volantino circolato nel quartiere, in solidarietà ai due arrestati per il raid di sabato scorso NAPOLI La comunità africana e la Campania antirazzista hanno marciato contro il razzismo e per chiedere la chiusura di casa Pound. La manifestazione, cui ha partecipato anche il sindaco De Magistris, ha attraversato piazza Plebiscito per arrivare in prefettura, dove una delegazione di senegalesi è stata ricevuta dal ministro dell'interno Cancellieri.

«Adesso cancellare le leggi razziste»

di Ornella De Zordo

«È stata una prima, bella, risposta, ma ora devono intervenire le istituzioni»

«Una manifestazione bella e piena di una pluralità incredibile, gente normale, non solo realtà organizzate. Tutto questo è molto positivo, è la risposta che bisognava dare a quanto è accaduto a Firenze, ma non basta». Sono le sei del pomeriggio e Ornella De Zordo, consigliera d'opposizione della lista di cittadinanza «Per un'altra città» ha appena finito di sentire parlare dal palco il governatore della Toscana Enrico Rossi, mentre tutto intorno almeno ventimila persone continuano a sfilare per le vie del centro. «Questa manifestazione è una delle risposte che bisognava dare, ma non basta - ripete - perché quello che è avvenuto è sicuramente da collegare alla subculturra razzista che si è affermata negli ultimi venti anni, entrando in vari ambiti e anche nell'immaginario collettivo. Una cultura molto pericolosa. Non dobbiamo dimenticare che abbiamo avuto al governo un partito che sul razzismo ha costruito molto. Per questo la manifestazione di oggi è un bene, perché è stata una risposta immediata e di testa, ma adesso occorre che le istituzioni siano conseguenti. Bisogna cambiare delle leggi, prima fra tutte ovviamente la Bossi-Fini , e dare la cittadinanza ai bambini figli di stranieri che nascono in Italia. Due punti che demoliscono la costruzione fatta contro lo straniero in questi ultimi venti anni».

Anche lei giudica sbagliato considerare quanto accaduto solo come il gesto isolato di un folle?

«Assolutamente si. A insistere su questa lettura è l'estrema destra. Credo invece che l'omicidio dei due ragazzi senagalesi rappresenti l'escalation della subcultura razzista. Certamente non tutti per fortuna arrivano a questi estremi, ma quanto accaduto a Firenze mi sembra il punto limite di una cultura che considera lo straniero come una persona infetta, come qualcuno che determina il degrado della città in cui vive. E a dimostrazione di questo c'è quanto è successo sul web poche ore dopo il duplice omicidio, con i messaggi di esaltazione della figura di Casseri».

Non più Grandi Opere, progetti faraonici come il mitico Ponte sullo Stretto, ma piuttosto opere buone e giuste. Cioè necessarie, utili per i cittadini, sostenibili sul piano ambientale e finanziario. A dieci anni dalla Legge Obiettivo, introdotta dal secondo governo Berlusconi a partire dal 2001, il bilancio è decisamente fallimentare. E perciò ora, mentre il governo Monti annuncia lo sblocco di 12,5 miliardi di euro (disponibili solo sulla carta) per le infrastrutture strategiche, il Wwf presenta un dettagliato dossier sullo stato dei lavori pubblici in Italia, compilando anche un decalogo e indicando le priorità: dalla difesa del suolo ai servizi ferroviari, in particolare nelle aree metropolitane e negli scali portuali.

È una "rivoluzione mancata" quella che emerge dalla controstoria della Legge Obiettivo. Dai 115 progetti originari siamo passati a 390, con un costo complessivo triplicato (da 125,8 miliardi di euro a 367,4). Ma solo 30 opere sono state effettivamente realizzate, per 4 miliardi e 467 milioni, pari appena all´1%: insomma, un grande bluff. Il peggio, però, è che l´estrema semplificazione delle procedure amministrative ha già prodotto effetti devastanti sul territorio: distruzione degli habitat naturali, impatto diretto sulla fauna, frammentazione della continuità ambientale. Il rapporto del Wwf rivela poi un dato sorprendente sul contenzioso che avrebbe ostacolato la realizzazione delle Grandi Opere. Secondo i dati forniti dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), risultano soltanto 21 i ricorsi presentati delle associazioni – comprese quelle dei consumatori - su un totale di 259. Non è stata insomma l´opposizione degli ambientalisti a bloccare il "Cantiere Italia", quanto l´inconsistenza e l´approssimazione dei progetti, insieme alla sproporzione tra i costi preventivati e le risorse disponibili.

Per superare adesso i limiti della Legge Obiettivo, e soprattutto le normative speciali che consentono di intervenire in deroga a quella ordinaria, il Wwf propone un decalogo che qui riassumiamo:

1) Tornare allo spirito della legge Merloni, cioè a un mercato dei lavori pubblici ispirato a criteri di trasparenza e pubblicità.

2) Riformare la procedura di VIA, per migliorare la qualità dei progetti.

3) Rivedere la figura del "general contractor", come soggetto in grado di realizzare effettivamente l´opera, limitando a una quota massima del 40% l´affidamento dei lavori a terzi e comunque con procedure pubbliche.

4) Ridurre i poteri dei concessionari, ripristinando i limiti di tempo già previsti dalla legge Merloni.

5) Superare il programma delle infrastrutture strategiche, con l´elaborazione di un nuovo piano per la mobilità nazionale.

6) Puntare in via prioritaria sul potenziamento delle strutture esistenti, privilegiando le piccole e medie opere effettivamente necessarie.

7) Finanziare le nuove opere solo se rappresentano un investimento sicuro e hanno costi certi.

8) Ricapitalizzare Anas e Ferrovie dello Stato, garantendo investimento sulla sicurezza, manutenzione, adeguamento tecnologico e potenziamento della rete stradale, autostradale e ferroviaria.

9) Cancellare la figura dei commissari per opere in deroga alle normative esistenti.

10) Eliminare l´abuso delle norme di protezione civile, estese impropriamente anche i cosiddetti "grandi eventi" in deroga alla disciplina urbanistica, ambientale e paesaggistica.

Non è, come si vede, né un libro dei sogni né una "lista proibita". Al primo posto, c´è la prevenzione del rischio idrogeologico, evidenziato dalle recenti e disastrose alluvioni. Segue la proposta di investire nelle aree urbane per contrastare il dominio dell´automobile e quindi l´inquinamento, favorendo invece i servizi ferroviari in alternativa all´Alta Velocità. Quindi la richiesta di attuare il piano delle piccole e medie opere che langue ormai da due anni, stimato in 825 milioni di euro e sollecitato dalla stessa Associazione nazionale dei costruttori edili in funzione anticongiunturale. Quanto all´adeguamento e al potenziamento delle strutture esistenti, il dossier del Wwf indica una serie di progetti concreti da realizzare al Nord, al Centro e al Sud, dirottando su questi obiettivi i fondi - circa 1-1,5 miliardi di euro all´anno - che vengono destinati effettivamente alle infrastrutture strategiche. Dalle linee ferroviarie Milano-Domodossola e Milano-Chiasso, ai collegamenti stradali della E45 Orte-Ravenna, dell´Aurelia e della Pontina; dalle linee ferroviarie tra Palermo e gli altri capoluoghi siciliani fino al completamento della famigerata Salerno-Reggio Calabria. Più in generale, si sottolinea la necessità di intervenire sulle linee ferroviarie a servizio degli scali portuali.

Da una "rivoluzione mancata", dunque, si può passare ora a una "rivoluzione possibile". Un programma di opere pubbliche ragionevole e soprattutto praticabile, in tempi di austerità e sacrifici per tutti. Più che oneri, sono investimenti per modernizzare il Paese e favorire la ripresa economica.

La pianura padana, con le sue fertili terre, rappresentava il luogo dove si produceva gran parte del nostro cibo. Ora invece il cibo lo importiamo e le terre agricole le stiamo abbandonando. Ogni giorno che passa in Veneto e in Lombardia perdiamo terreno coltivabile equivalente a 7 volte piazza del Duomo. Per farne cosa? Cementarlo o asfaltarlo. Ormai coltivare non conviene più. E i nostri agricoltori vanno a produrre all’estero, dove costa meno.

Ma la concorrenza per accaparrarsi la terra è spietata. Perché? Che c'entra per esempio il fallimento di Lehman Brothers con la sorte di qualche centinaio di contadini di un villaggio sperduto del Mali? O ancora, cosa lega la direttiva europea sui biocarburanti con la morte di tre pastori nel nord del Senegal? In un viaggio che va dagli uffici di Washington della Banca Mondiale fino a una rivolta contadina nel cuore dell'Africa Occidentale, la puntata di domenica 18 dicembre cerca di percorrere i fili intrecciati di finanza, politica e modelli di sviluppo economico che stanno muovendo una corsa globale all'accaparramento di terra.

Il termine inglese è land grabbing e i principali “accaparratori” sono europei, cinesi, indiani, americani. Il terreno di conquista più propizio è l'Africa dove governi compiacenti aprono le porte a investitori intenzionati a fare profitto nel più breve tempo possibile. Poco importa se milioni di contadini verranno espropriati delle loro terre come lo furono gli indiani d'America ai tempi del conquista del West. Per la Banca Mondiale, così come per molti investitori, si tratta del prezzo da pagare per ottenere il tanto agognato sviluppo. Ma per altri autorevoli osservatori questo è soltanto il preludio di una nuova strategia di conquista della risorsa più preziosa: l'acqua.

Qui il testo integrale del servizio. E qui .

A vedere quello che succede a Catania, viene il dubbio se “bene pubblico” significhi bene di tutti o bene di nessuno. È il caso dell’ex-Collegio dei Gesuiti, magnifico edificio settecentesco, in cui il “modo nostro” gesuitico trova una declinazione eccezionale, un unicum che insieme ai centri storici barocchi della Val di Noto è stato dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’U.N.E.S.C.O.

L’edificio in questione per oltre quarant’anni, fino al 2009, è stato sede dell’Istituto Statale d’Arte; ed oggi, a due anni dalla piena presa di possesso da parte della Regione Sicilia, versa nel più totale stato di abbandono, come testimoniato dai numerosi video e articoli presenti in rete: v. soprattutto i link al materiale di redazionesottosfratto.it , tra i primi ad aver denunciato oggi la questione.

Ma per avere chiara l’attuale situazione è necessario conoscere gli antefatti.

Nell’aprile del 1999 infatti ha inizio il lungo contenzioso che vede contrapposte due Istituzioni “pubbliche”: da una parte la Provincia Regionale di Catania, ente a cui afferisce l’Istituto d’Arte, dall’altra la Regione Sicilia, proprietaria dell’immobile, che ha destinato a nuova sede della biblioteca regionale universitaria.

Il contenzioso si risolve nel 2006 con sentenza del C.G.A. R.S. a favore della Regione e ai danni di una terza Istituzione che è appunto l’Istituto d’Arte. Si tratta di una sentenza di sfratto che difficilmente poteva diventare esecutiva, dato che implicava l’interruzione di pubblico servizio in mancanza di una sede alternativa, problema non da poco per una scuola i cui strumenti e arredi, indispensabili alla didattica son del tutto eccezionali.

A ciò si aggiunge un altro antefatto di sicuro interesse!

Nel dicembre 2008 la preside dell’Istituto, comunica alla Provincia Regionale di Catania, ente locatario dell’immobile in uso alla scuola la necessità di interventi di manutenzione, segnalando in particolare il cedimento della copertura del vano destinato ad attività motorie e comunicando altresì il provvedimento di interdizione del vano preso in via precauzionale e ricordando che alcun intervento di manutenzione è stato mai fatto rispetto all’intero edificio.

Detta Provincia Regionale, nel gennaio del 2009, ne dà comunicazione alla Regione Sicilia, ente proprietario dell’edificio da circa un decennio; ma passano i mesi e alla tempestività del provvedimento di interdizione, fa da contro il silenzio e l’inattività dei preposti all’intervento; e ciò basterebbe a fare chiarezza sul senso di responsabilità di chi di competenza.

Il 26 maggio del 2009 si verifica il crollo della porzione di copertura per la quale era stato chiesto l’intervento.

È sotto gli occhi di tutti peraltro che il cedimento non è di natura strutturale, trattasi infatti di alcuni assi della copertura in legno a fronte di un edificio storico che copre un area di circa 7500 mq.; ciò è avvalorato dalla perizia tecnica che ne seguì, grazie alla quale fu possibile tenere gli esami di stato nel Luglio del 2009.

Ma a questo punto la vicenda ha una svolta.

Ciononostante e incurante delle proteste e degli appelli di genitori, alunni e personale della scuola, il Comune risponde con un provvedimento che è sentito dai diretti interessati come un atto di forza: un ordinanza di sgombero, in cui viene definito addirittura “illecito” l’uso scolastico dell’immobile, che ricordiamo è da oltre quarant’anni sede dell’Istituto e in precedenza, a partire dall’espulsione dell’Ordine dei Gesuiti nel 1775, è destinato alla didattica e alla formazione nel campo delle Arti e dei Mestieri.

Recidere una tale tradizione, quindi si rivela più difficile del previsto, e così la vicenda si trasforma in emergenza, ed ecco che il cedimento prima descritto diventa pretesto per dichiarare l’inagibilità dell’intero edificio l’11 settembre 2009, e lo sfratto si trasforma in sgombero coatto.

Un distacco doloroso, e con gravi conseguenze; per oltre un mese infatti l’Istituto d’Arte rimane senza una sede a svolgere le lezioni per strada, e quando la sede viene trovata si tratta di un edificio privato per l’uso del quale è stato stipulato un contratto di sei anni, per cui la Provincia Regionale di Catania ovvero la collettività ha sborsato 60000 euro al mese, per i primi due anni, senza contare i costi per smantellamento, trasferimento e ricollocazione di attrezzature speciali e macchinari dei laboratori. Ora è già deciso un nuovo esodo con notevole esborso economico per l’adattamento dei locali, nonché per smantellamento, trasferimento e ricollocazione di attrezzature speciali e macchinari dei laboratori.

Ma i cittadini più accorti si chiedono, a due anni dalla presa di possesso da parte della Regione che ne è del Collegio dei Gesuiti.

Ci si aspetta che siano stati effettuati i “non più procrastinabili lavori di messa in sicurezza”.

E invece il cedimento della copertura del vano, già destinato ad attività motorie, si è trasformato in squarcio con conseguente allagamento permanente. Ciò che rimane di quello che è un gioiello del barocco è ora irriconoscibile, esposto alle intemperie e all’azione dei vandali; le corti vissute fino a due fa da aspiranti artisti sono ridotte a stagni; le piante ruderali sconnettono i “ciacati” e si insinuano nella muratura.

E il senso di responsabilità di noi cittadini si scontra con lo scaricabarile tra gli enti coinvolti, a cui assistiamo sulle pagine della stampa locale.

Dall’articolo de La Sicilia del 19.11.2011 a firma di Pinella Leocata, si riporta la dichiarazione della sovrintendente Vera Greco: «Tutta colpa della Provincia che non ci ha mai consegnato i locali, nonostante la nostra diffida di un anno fa».

L’indomani la replica del Presidente della Provincia Castiglione: «La Provincia ha fatto la sua parte in condizioni di emergenza e di estrema difficoltà: siamo andati via subito, abbiamo trovato un’altra sede, a caro prezzo e abbiamo fatto un trasloco difficile. Cosa vengono a dirci, adesso, di arredi o altri oggetti all’interno? Cosa ci vengono a dire di chiavi da restituire? Siamo entrati per il trasloco dietro autorizzazione della sovrintendenza che poi, quando siamo andati via, ha cambiato le chiavi».

Nel frattempo una cosa non è cambiata: il forte senso di identità e di appartenenza di chi l’edificio l’ha vissuto per decenni, e ritiene inaccettabile un approccio tanto leggero e noncurante alla tutela di un bene così prezioso. Ne è testimonianza la creazione della pagina facebook “Salviamo il Collegio dei Gesuiti-EX ISTITUTO D’ARTE che è diventato un tavolo permanente di denuncia, discussione, e proposte sul destino del Collegio. Essa raccoglie più di 1600 persone, tra cittadini, ex allievi e personale dell’Istituto d’Arte, i quali stanno per dar vita a un Comitato Civico in difesa di questo patrimonio, con l’obiettivo di risvegliare il buonsenso e la responsabilità delle Istituzioni Pubbliche affinché si ponga fine allo scempio del nostro patrimonio culturale e allo spreco di denaro pubblico.

Sarebbe necessario, da parte del mondo della Cultura tutto, ad ogni livello, un intervento in merito a questa vicenda, emblematica di un modo di gestire la Tutela, affinché le Amministrazioni sentano il peso e la responsabilità delle proprie azioni e non-azioni nei confronti dei cittadini e del mondo intero, secondo i principi di trasparenza e partecipazione di cui spesso si parla ma che pochi riscontri hanno nella realtà.

Per maggiori dettagli e approfondimenti questo è il link al blog del Comitato nato nel 2009 in difesa dell’Istituto Statale d’Arte: http://istitutoartecatania.myblog.it/

E’ passato solo un mese dalla pubblicazione dello studio dell’Osservatorio sulle Politiche Abitative della Provincia di Pordenone che ha pubblicato senz’ombra di dubbio uno studio di grande valore oggettivo sul problema abitativo del territorio. E oggi, 10 dicembre, ci troviamo di fronte alla notizia che anche nel nostro Ambito si deve registrare un aumento degli sfratti. Un grave e amaro paradosso: da un lato 1650 abitazioni libere a Sacile e dall’altro, famiglie che l’abitazione la devono abbandonare. SPS intende facilitare ai cittadini la lettura dello studio (il link alla fine) e ha estrapolato in questo articolo le parti riguardanti nello specifico il nostro Comune.

Ad oggi comunque non è apparso nessun commento da parte della nostra Amministrazione. In quale misura intendono tenere conto di questo studio? Nessun apprezzamento per un lavoro finalmente di rigore scientifico che dovrebbe, in quanto tale, essere alla base delle future scelte urbanistiche in provincia? Eppure proprio la nostra città, proprio Sacile, emerge nello studio in modo significativo per svariati aspetti – purtroppo tutti negativi – cosa che dunque a maggior ragione dovrebbe essere oggetto di attenta analisi da parte di chi questo territorio lo deve amministrare nell’ottica del bene comune.

Il documento pubblicato nell’ottobre 2011 dall’Osservatorio sulle Politiche Abitative della Provincia di Pordenone ha preso in considerazione il periodo intercorso tra il 2001 e il 2009.

Si parte dal dato inequivocabile che il patrimonio abitativo in questi 8 anni è considerevolmente cresciuto: a livello provinciale si registra un +18,4% delle abitazioni, equivalenti a 25.400 abitazioni e 8,4 milioni di metri cubi. Gli ambiti socio – economici che presentano livelli di crescita più accentuata, maggiore della stessa Pordenone, sono quelli del Sacilese e del Sanvitese: infatti, se PN registra un tasso di crescita del 10,14%, proprio il Sacilese si piazza al primo posto con un aumento di volumetria del +25,0% ed un aumento di abitazioni di +24,8% (che ha portato alle attuali 44.485 abitazioni – delle quali 1650 non utilizzate).

Nel suo complesso in provincia la quota maggioritaria di abitazioni, cioè il 65%, ha un patrimonio edilizio superiore a 30 anni.

Anche questo deve farci riflettere: se la nostra città possiede un patrimonio edilizio già superiore in media a 30 anni e una considerevole parte di questo patrimonio attualmente è, e probabilmente continuerà ad esserlo, non utilizzato, sarà un patrimonio in decadimento perché inutilizzato. E più passerà il tempo, più aumenteranno i danni e i costi per riqualificarlo. Andremo verso una città Dr. Jekill e Mr. Hyde, da un lato nuove edificazioni (non dimentichiamo che si vuol cambiare la visuale panoramica di Sacile con le prime due torri a dieci piani), dall’altro condomini datati mezzi vuoti e casette unifamiliari abbandonate – una visione che già oggi si coglie.

Lo studio sentenzia poi molto chiaramente che l’intensa attività edilizia tuttavia non ha prodotto alla fine alcuna facilitazione in termini di buona politica abitativa: ad oggi nell’intera provincia esiste un eccesso di offerta pari a 7.300 nuove abitazioni che, non avendo trovato riscontro nella domanda abitativa, ha aggravato il patrimonio sfitto/sottoutilizzato.

In tutta la provincia si sono costruite in media negli ultimi dieci anni 1,4 abitazioni per ogni nuova famiglia, nel Comune di Sacile per ogni nuova famiglia ci sarebbero teoricamente a disposizione 1,34 abitazioni.

Questo fervore nel costruire può aver fatto la felicità della speculazione edilizia anni fa, ma ora torna indietro come un boomerang. Nemmeno al mercato immobiliare questo surplus di cementificazione sta portando bene: l’ambito che attesta il maggior calo di intensità del mercato immobiliare, oltre alla Montagna, e alla pedemontana Maniaghese, è ancora una volta il Sacilese, nonostante il suo record di aumento del cemento. Le tre realtà complessivamente attestano un calo immobiliare notevole, del 23% - 30%.

Il dato più eclatante dello studio è la conclusione che il patrimonio esistente sul territorio e non occupato nel 2009, pari a 30.000 abitazioni, sarebbe in grado di coprire l’intera domanda aggiuntiva espressa dalle famiglie fino al 2020!!!

In questo ritaglio di grafico vedete in blu la quota di case sfitte al 2009 e in azzurro il previsto incremento delle famiglie al 2020. Si vede chiaramente che nemmeno per quella data Sacile avrebbe ancora occupato tutto l’attuale patrimonio già oggi esistente! Figurarsi aggiungendo le nuove previsioni! Fino al 2020 dunque, l’intera domanda delle nuove famiglie (incremento previsto dall’ISTAT) sarebbe soddisfatta semplicemente attraverso il riutilizzo dell’attuale eccesso di patrimonio.

Ma le speranze che i nostri politici e amministratori riescano a cambiare prospettiva e trovare una nuova modalità di governare in modo virtuoso, lungimirante ed efficace questo fenomeno ci paiono deboli. Sul fronte della capacità di gestire il fabbisogno abitativo, sempre secondo lo studio, si evince che:

- le politiche pubbliche sono residuali ed in costante diminuzione sia per quanto concerne l’offerta di alloggi che sotto il profilo dei finanziamenti erogati;

- il contesto sociale è in progressiva precarietà economica, tanto che le richieste di sfratti, soprattutto quelle per morosità, sono aumentate in provincia di +99%.

Ovvio che il diritto alla casa è ancor più in pericolo dove i prezzi al metro quadro sono maggiori.

In riferimento al valore sul mercato la provincia di Pordenone presenta una netta prevalenza di comuni i cui immobili hanno un valore di mercato medio compreso tra 600 e 900 €/mq.

Oltre al capoluogo, dove i valori superano i 2.600 euro/mq, tra le città di maggiori dimensioni si individuano due livelli di mercato:

1) livello medio caratterizzato da valori tra 1.300 – 1.500 (Casarsa e Spilimbergo)

2) livello alto con valori oltre 2.000 (Porcia e, guarda caso, Sacile).

Ma lo studio adotta anche un descrittore ancor più avanzato: incrociando i valori del reddito con quelli degli alloggi, lo studio rivela che il Comune di Sacile vanta il triste primato del tempo più lungo (10 anni) per l’acquisto di una casa. E con le attuali condizioni economiche questo lasso di tempo aumenterà. Calma piatta dunque sul mercato immobiliare a Sacile e, per le stesse ragioni contenute in questo studio, nel resto del territorio.

Ora, la speculazione edilizia è stata per decenni impietosa con i cittadini, in particolare con i giovani, quindi non proviamo certo compassione per questa stasi, ma l’aspetto che emerge in tutta la sua gravità è il fallimento della politica che, legata a doppio filo con gli interessi della cementificazione, non ha voluto arginare questo fenomeno che adesso travolge tutti.

Qui è possibile scaricare il documento Le dinamiche insediative del comparto residenziale

Il commento è pubblicato sul sito Sacile partecipata e sostenibile curato da Rossana Casadio che ha fatto proprie le parole dell'antropologa Margaret Mead: "Mai dubitare che un gruppo seppur piccolo di cittadini attenti e risoluti possa cambiare il mondo. Anzi, è la sola cosa che avviene sempre."

Ma quale ampolla. È una quercia, una grande quercia oggi il simbolo del Po che si ribella, che chiede rispetto per le tradizioni e la storia delle terre padane. Un immenso albero secolare che sorge a pochi chilometri da Cremona, vicino a Castelvetro piacentino. Destinato a essere cancellato o violentato dall’ennesima bretella autostradale inventata dalla inesausta fantasia dei costruttori. Dodici chilometri per congiungere Porto Canale Cremona con Castelvetro.

E per travolgere d’un colpo tre aree protette dall’Unione europea; tra cui, grazie a un bel ponte, l’Isola del deserto, tempio fluviale di magico silenzio tra boschi e spiagge in cui vanno a nidificare rare specie rare di uccelli, dall’airone rosso al picchio verde. Un progetto nato negli anni novanta per disintasare il traffico pesante del porto di Cremona sulla A21. E giunto alla sua terza versione nel 2010. Costo 216 milioni. Soldi di tutti, visto che “la società che dovrebbe realizzarlo è la Centropadane, e che i suoi azionisti sono praticamente gli enti pubblici di Piacenza, Brescia e Cremona”. Altro che tagli.

foto di f. bottini - estate 2011

Chi parla è un pubblicista bresciano, Simone Mazzata. Proprio quando il progetto macinava autorizzazioni ministeriali, è arrivato lui, il guastafeste. Cercava casa in campagna, con un’idea su tutte: realizzarci una scuola per bambini fondata sul pensiero ecologico. La cascina che gli avevano fatto vedere vicino Castelvetro ne aveva i numeri. Spazi e pertinenze, tra cui una ex stalla, per farci delle belle aule. Ma a convincerlo era stata proprio la vicinanza di quella quercia. Grandiosa, possente, quasi divina. Simone è giunto tre anni fa con la moglie Daniela, una ex insegnante esperta di handicap, e con la figlia. E ha subito raccolto intorno al loro nucleo un folto gruppo di ambientalisti.

La storia della pianta che deve sparire o finire sotto i gas dei tir è diventata presto una favola. “Io so chi l’ha scritta quella favola”, ammicca, “ma non lo dirò mai. Noi raccontiamo che è stata la quercia stessa, la Grande Nonna Quercia. Per chiederci aiuto”. Una favola dolce, datata 23 gennaio 2010. Che circola in versione patinata, impreziosita da foto e da splendidi disegni infantili. Ma gira anche in versione internet. La Nonna vi parla dell’uomo buono che l’ha fatta nascere, delle stelle, del silenzio, della solitudine e della morte. Viaggia, la favola. È giunta anche a Walter, “un ragazzo siciliano che nessuno di noi conosceva”, che ha aperto un gruppo su facebook che ora conta undicimila contatti. “Ma lo sa che vengono scolaresche anche da Milano o da Brescia a vederla? Sta diventando un simbolo per chi vuole fermare questa follia devastatrice , per chi sa farsi incantare dalla bellezza superiore della natura”.

Ma non è che di questa bretella c’è bisogno sul serio? viene da chiedersi per scrupolo. Altrimenti perché degli enti pubblici sosterrebbero con tanta determinazione un progetto che violenta le bellezze delle loro terre? “Dicono che è l’Anas a volerlo, come prezzo per rinnovare la concessione della Brescia-Piacenza alla Centropadane. Intanto però gli industriali di Cremona non l’hanno inserita tra le cose necessarie in vista dell’Expo. E fior di studiosi dicono che si potrebbero comunque trovare soluzioni molto più leggere. I flussi di traffico attuali non giustificano l’impellenza. E infatti non ce ne vengono date stime aggiornate.

Pare siano un terzo di quelle indicate. E poi è possibile che le tre versioni del progetto che si sono succedute costino sempre la stessa cifra? Che si calpestino così gli indirizzi dell’Unione europea in materia di ambiente? Che non si facciano incontri con le comunità interessate? Per questo con un nostro gruppo di esperti abbiamo steso un dossier e fatto ricorso al Tar e poi all’Unione. C’è qualcosa di poco convincente. Diversi amministratori ce l’hanno confessato: è una porcata ma bisogna farla perché abbiamo le mani legate. Poi parliamoci chiaro. Questi sono lavori che chiederanno estrazione di materiale, ci sono di mezzo le cave, e le cave sono appena state il cuore di uno scandalo regionale sulla gestione dei rifiuti. E gli interessi che premono sul movimento terra e sui rifiuti lei li conosce meglio di me”.

Simone e il gruppo di ambientalisti raccolti attorno alla sua idea di una scuola del pensiero ecologico non si daranno vinti. “Mica siamo di quelli che che ormai non c’è più niente da fare, sapesse quanti ne ho incontrati quando sono arrivato”. Intorno alla Grande Quercia si riunisce il popolo delle favole. Sembrano pellerossa che difendono le loro riserve dalle ferrovie dei visi pallidi. Solo che stavolta il progresso sta dalla loro parte. All’ombra della Nonna tengono riunioni e assemblee. Anche concerti. Musica classica e gospel. I Modena City Ramblers e Omar Pedrini. Perfino gli Intillimani, ma sì, “ed eravamo millecinquecento, e pensi: stavamo tutti sotto la chioma della Quercia”.

Chissà come finirà questa partita. Certo sta facendo fiorire una nuova favolistica. Ha scritto Federica, 11 anni: “Allora Giulietta tornò dal suo amico albero prese un bel po’ di polvere magica e la buttò negli occhi del ‘signore dei supermercati’ che non vedendo più niente non poté tagliare l’albero e se ne andò via adirato. Giulietta fece i salti di gioia e decise di sposare quel mago che tanto amava. Così si sposarono sotto l’albero. E vissero per sempre felici e contenti”. Ammettiamolo: ma chi avrebbe mai detto che si potessero combattere i costruttori e i signori dei subappalti a colpi di favole?

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