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Ca' Corner della Regina passa a Prada: per il bilancio del Comune di Venezia una boccata d'ossigeno che vale 40 milioni. La delibera sulla Variante urbanistica è stata approvata ieri sera dal Consiglio comunale, dopo una discreta polemica innescata dalle opposizioni e 800 emendamenti, tutti respinti.

Affare da 40 milioni ma Prada avrà l'appartamento Soragni rimuove il vincolo della soprintendenza salvo al fotofinish il bilancio dell'amministrazione comunale di Alberto Vitucci Ca' Corner della Regina passa a Prada. Sarà un museo e sede di mostre d'arte, con la possibilità di realizzare un appartamento all'ultimo piano e nel sottotetto per i nuovi acquirenti. Al Comune arriveranno, oggi stesso, 40 milioni di euro per l'acquisto del prestigioso edificio sul Canal Grande, già sede dell'Asac, l'Archivio storico della Biennale. La delibera sulla Variante urbanistica è stata approvata ieri sera dal Consiglio comunale, dopo una discreta polemica innescata dalle opposizioni e 800 emendamenti, tutti respinti. 25 i voti a favore (la maggioranza con Pd, Italia dei Valori, Psi, In Comune, Rifondazione), otto i contrari (Lega e Pdl), due i non votanti (Nicola Funari e Renzo Scarpa del Gruppo Misto). Dodici gli assenti, tra cui il capogruppo del Pdl Michele Zuin, che in aula solo pochi minuti prima aveva tuonato contro il sindaco Giorgio Orsoni. «Vergogna», aveva urlato con toni polemici, «noi dovrenmmo votare questa delibera e lei non ci mostra nemmeno il parere della Soprintendenza?». Giallo risolto al fotofinish quello che riguardava il vincolo sullo storico immobile. Il direttore regionale Ugo Soragni ha in parte annullato il vincolo posto dagli uffici della Soprintendenza. Sostituendolo all'ultimo minuto con una serie di prescrizioni. Riguardano il diniego a realizzare appartamanti se non a uso del proprietario. Il vincolo di sei anni agli spazi del sottotetto per mantenerli a uso espositivo. E la possibilità per il pubblico di visitare gli spazi restaurati fino a un massimo di 80 giorni l'anno con un calendario preciso per l'apertura al pubblico, come succede per le dimore storiche restaurate e rese visitabili dal Fai. Proprio sulla misteriosa lettera inviata da Soragni in aula è scoppiata una rissa verbale tra Zuin e il sindaco. Alla fine Orsoni ha acconsentito a illustrare ai capigruppo i contenuti della lettera. E la delibera proposta dall'assessore all'Urbanistica Ezio Micelli è stata votata.

Un altro palazzo sul Canal Grande passa così in mani private. Anche se resta per la gran parte destinato a usi culturali ed espositivi. La forzatura per la vendita è arrivata nelle ultime settimane. «Sono soldi essenziali per il nostro bilancio», ha detto il sindaco senza mezzi termini. Così un altro gioiello è stato messo in vendita. In pochi giorni il Comune ha incassato circa 60 milioni di euro. I 16 del secondo acconto per l'Ospedale al Mare, 6 per la concessione della Variante al Fontego dei Tedeschi acquistato da Benetton. 40 infine per la vendita a Prada di Ca' Corner. Proteste dalle opposizioni per la «svendita» della città e del suo patrimonio. Ma il bilancio del Comune anche per il 2011 è salvo. Fino a quando si potrà rimediare vendendo i gioielli di famiglia?

Incurante dei referendum, il governo dei professori avanza nella battaglia contro le «lobby» che frenerebbero il libero mercato. Bisogna rompere l'egemonia di una cultura che fa presa anche a sinistra. E dire che non tutto può essere piegato alle esigenze della crescita e della produzione

Con una mancanza di fantasia e di senso della realtà davvero sconcertante, il governo tecnico dichiara di voler incardinare la fase 2 della sua azione sulle liberalizzazioni. Fra i massimi responsabili della crisi globale e del degrado italiano, ai soliti notai e taxisti romani, si aggiungono così, con Repubblica in prima fila, anche i farmacisti, gli avvocati, gli edicolanti. Incurante del senso politico del voto referendario che chiedeva di "invertire la rotta" proprio rispetto al trend neoliberale di privatizzazioni e liberalizzazioni, il governo dei professori promette di dare battaglia alle lobby che minano la nostra capacità di "crescere e di competere" sui mercati globali. Con toni diversi sono intervenuti in questi giorni Massimo Mucchetti sul Corriere e Luigi Zingales sull'Espresso. Il primo avanza dubbi quantitativi (condivisibili) sull'urgenza e l'importanza delle liberalizzazioni nei detti settori, che riguarderebbero poche centinaia di milioni di euro, rispetto alla vera "ciccia" che sta altrove, in particolare nel mercato dell'energia e in quello dei trasporti pubblici dove "ballano" le decine di miliardi (qui per la verità balla pure l'esito formale del referendum contro il decreto Ronchi che non riguardava affatto solo l'acqua: ma di questo dopo Napolitano anche Monti pare volersene fare un baffo). Il secondo, con il solito tono di gratitudine sconfinata per quel sistema universitario americano che lo ha salvato dal precariato accademico, racconta di un'Italia profonda in cui "i notabili" (farmacisti, avvocati, notai e banchieri provinciali) perdono il loro tempo a prendere l'aperitivo al bar (dove non si rilascia lo scontrino) per piazzare i propri figli, invece di "produrre" facendo crescere il Pil e partecipare davvero alla competizione globale. Purtroppo anche sul nostro giornale Pitagora non era stato troppo distonico (per fortuna ci siamo riscattati con un Robecchi insolitamente amaro): di liberalizzazioni si parla tanto ma poi non si fanno, proprio come se si stesse parlando di roba per sua natura giusta e desiderabile ma che le contingenze del mondo reale (soprattutto del mondo italico) snaturano e corrompono. Mala tempora currunt se questi discorsi si sentono anche a sinistra (e non intendo il Pd che ne è brodo di coltura).

È dunque una vera e propria cultura egemonica, un'ideologia ci dice Mucchetti, quella che va superata. Un'ideologia ben più pervasiva di quella un po' estremista e tutto sommato innocua dei Chicago Boys de' noantri (gli stessi bocconiani al governo sanno che la politica non è una tabula rasa e in qualche modo trattano) che pervade anche chi ben sa (come lo stesso Mucchetti o come Pitagora) che l'economia politica non è un esercizio di astrazione matematica. Per essere intellettualmentre liberi e critici occorre oggi sforzarsi di superare la visione competitiva dell'esistenza, che misura la vita con parametri quantitativi, inducendo senso di colpa in chi non produce o produce meno di quanto potrebbe. Bisognerebbe finalmente rendersi conto che un mondo bello non è una miniera in cui viene premiato il compagno Stakanov ed in cui le menti migliori, come ci dice Zingales, piuttosto che fare i notai fanno gli investment bankers come i più bravi fra i suoi studenti di Chicago. Bisogna che ci si renda finalmente conto che in questo nostro mondo si produce già fin troppo e che il nostro problema non è quello di produrre di più per offrire merci e servizi a costi sempre più bassi, ma di distribuire meglio quanto prodotto, creando tutti insieme un mondo in cui l'esistenza sia per tutti libera, solidale e dignitosa.

Certo che il taxi può costare meno, se i taxisti invece di essere parte di un ceto medio-basso che, lavorando duramente, porta a casa uno stipendio decoroso (certo non altissimo) fossero dei lavoratori a cottimo sfruttati che dormono per strada! Ma io credo sarebbe meglio farlo crescere questo ceto medio, piuttosto che umiliarlo laddove esiste. Certo che un pallone di cuoio, cucito a mano da un bambino a Giacarta, può costare anche molto meno al supermercato... ma che criterio di valutazione sociale è mai quello della soddisfazione del consumatore? E poi, al di là della questione etica, oggi sappiamo bene che i beneficiari storici delle liberalizzazioni sono da sempre i grandi oligopoli. Un oligopolio di grandi compagnie con centinaia di taxisti dipendenti, di grandi studi professionali, di banche e assicurazioni o di grande distribuzione colma gli spazi di mercato che le liberalizzazioni aprono. Sappiamo anche bene che i prezzi diminuiscono (forse) in un primo momento ma poi aumentano a dismisura, così come a dismisura aumentano sfruttamento dei lavoratori, stress e dipendenza degli utenti, proprio come avvenuto con il mercato della telefonia mobile. E allora, investire su una riconversione sociale che mette al centro la qualità e la giusta distribuzione significa apprezzare la pace di spirito che deriva dall'acquistare un immobile sapendo che non verrai truffato dalla banca che ti presta i soldi (a questo serve da noi il controllo notarile ed è una fortuna che giovani e bravi giuristi si avvicinino a quella professione), pagare tasse sufficienti a che un trasporto pubblico a buon prezzo (non liberalizzato) possa raggiungere tutti gli angoli delle città, garantendo mobilità diffusa ecologica e accessibile a tutti; apprezzare il variopinto colore delle edicole nel cuore delle città e la dignità degli edicolanti che vogliamo parte del ceto medio (possibilmente che vendano anche giornali che non resisterebbero alle pressioni del mercato ma che fanno informazione di qualità); godere di dieci minuti di conversazione col farmacista, sapendo che costui ha sufficiente tempo per studiare ed aggiornarsi e non è un povero commesso sfruttato.

Insomma respingere le liberalizzazioni come ideologia significa apprezzare un mondo slow in cui si è contenti che le banche italiane, per incapacità dei loro managers, non si fossero avventurate di più nella competizione globale (anche se non mi piace vedere al governo manager incapaci nel loro campo), o in cui non si è contenti che un governo, fintamente tecnico, sia un migliore esecutore degli ordini odiosi della Bce. Preferisco prendere il taxi sapendo che chi guida ha la pancia piena e non è alla diciottesima ora di lavoro, ma ancora di più preferirei poter prendere un autobus elettrico, guidato da un dipendente pagato il giusto, che mi porta dove devo andare. Quest'ultimo servizio il privato, con la sua logica del profitto, non potrà mai darmelo. Per costruire un mondo migliore non è necessario distruggere quanto funziona di quello che abitiamo. L'ideologia della liberalizzazione non riconosce questa massima di buon senso.

Credo che vada detto una volta per tutte. Non possiamo oggi parlare di liberalizzazioni senza tener conto dell'esito del referendum del giugno scorso in cui gli italiani hanno detto di preferire la logica dei beni comuni rispetto a quella della concorrenza. Inoltre, dobbiamo smettere di ritenere che si possa essere di sinistra auspicando un mondo in cui ogni spazio di vita si piega alle esigenze del mercato, della crescita e della produzione.

Un normale vano di una casa popolare ha meno superficie di un vano di un alloggio di lusso. L’annunciata riforma del catasto basata sulla superficie reale e non sul numero dei vani è dunque un passo in avanti sulla strada dell’efficacia e dell’oggettività dell’azione del controllo pubblico. Tutto bene, dunque? Non è così. E’ infatti da dimostrare che l’aumento della base imponibile che la riforma provocherà non si rifletta in un aumento del prelievo sui piccoli proprietari lasciando prosperare le grandi rendite. I presupposti che questo rischio divenga realtà ci sono purtroppo tutti, perché il governo Monti poteva anche annunciare due altri semplici provvedimenti.

Il primo riguarda la necessità morale di cancellare una micidiale deroga che permette alla proprietà edilizia di non registrare i contratti per affitti “temporanei”. In tutte le città in cui esistono università sono decine di migliaia gli alloggi locati a studenti al prezzo di 350 euro per posto letto ogni mese. In una casa ne infilano anche dieci. Fanno circa 40 mila euro anno che sfuggono al fisco per ogni alloggio. Basta pretendere una dichiarazione di “temporaneità” della permanenza che invece si prolunga per dodici mesi. Analogo ragionamento vale per l’immenso patrimonio affittato per vacanza sia nei centri urbani che nei luoghi di villeggiatura. Monti non ha neppure accennato alla questione che poteva invece essere risolta in pochi minuti.

La seconda questione è ancora più grave. Il catasto possiede infatti i mezzi tecnici e strumentali per compilare il registro delle proprietà che ciascuno di noi possiede, compresi quelli infilati all’interno delle scatole cinesi delle società di supporto, il cui ruolo è di abbattere il pagamento delle imposte. Sarebbe un concreto passo per attuare il dettato costituzionale che afferma la progressività della contribuzione. Ma anche in questo caso Monti non ha dato segnali.

Del resto, non potevamo aspettarci nulla di differente. Egli afferma spesso che la questione dei poteri forti è una favola. Non conosce per sua fortuna Confedilizia o l’Acer che –di regola- conoscono invece molto bene ministri e primi ministri. E sono così bravi da suggerire leggi o scriverle direttamente, come avviene in molti altri campi della vita pubblica.

Con la nuova riforma potrebbe dunque venire un ulteriore colpo alle condizioni di vita delle famiglie più deboli. Sembra confermarsi il percorso ormai aperto con la reintroduzioni dell’Ici-Imu e con la parallela rivalutazione del 60% dei valori catastali. Si colpisce la grande massa dei proprietari di un unico alloggio e si lasciano in pace i grandi percettori di rendita.

Resta un’unica grande possibilità. Che la nuova classificazione catastale avvenga con la piena partecipazione dei comuni che potranno –attraverso adeguate forme di partecipazione- operare per tutelare le piccole proprietà e aumentare il prelievo sull’ormai intollerabile rendita parassitaria. La città è un bene comune. E’ ora di dargli concreta declinazione, togliendola dal dominio della cultura liberista ed operare per una vera equità sociale.

(Ps. Monti forse con conosce i poteri forti, ma abbiamo scoperto ieri che almeno Pasquale De Lise lo conosce bene. Il nostro è stato nominato presidente dell’Agenzia per le infrastrutture statali. Ne saranno sicuramente felici Balducci e gli altri dell’indimenticata cricca).

la Repubblica

Parte il piano wi-fi in tutta la città

di Alessia Gallione



La mappa è pronta: 1.200 punti tra strade, piazze, parchi e luoghi all’aperto. Una rete che arriverà a coprire tutta la città con almeno 2.500 hot spot, fino ai quartieri più periferici. Perché è soprattutto nella cerchia più esterna che il Comune vuole concentrare la propria attenzione, garantendo la gratuità per il nuovo progetto di wi-fi che verrà discusso oggi in giunta. Una rivoluzione da sei milioni di euro, che partirà con l’installazione delle prime antennine dalla primavera del 2012.

Era una delle promesse del programma elettorale di Giuliano Pisapia, un punto a cui il sindaco ha sempre dichiarato di tenere molto. Lanciare una rete capillare di wi-fi pubblico e a banda larga - quindi con la possibilità di navigare molto velocemente - per rendere Milano non soltanto la città più connessa d’Italia e sempre più tecnologica in vista di Expo, ma anche per diminuire le differenze tra quanti utilizzano già oggi la rete e quanti non hanno accesso a internet. È anche per questo, ad esempio, che la gratuità del servizio sarà garantita nei quartieri più lontani dal centro. L’internet free, però, potrà essere previsto anche per fasce di popolazione (gli anziani) o per luoghi e orari particolari. Un esempio: per far vivere il centro come luogo alternativo della movida, perché non dare il wi-fi gratis dopo le 21 ai giovani?

I dettagli, compreso il tempo oltre cui si pagherà o la cifra, verranno definiti strada facendo, ma l’obiettivo del Comune è quello di garantire la massima gratuità. Anche perché quella ragnatela di hot spot servirà per far funzionare una serie di servizi che l’amministrazione vuole far partire grazie all’infrastruttura che verrà creata: dalla mobilità alla sicurezza, dalle informazione alle pratiche. Ma, da oggi, si parte. I sei milioni messi sul piatto, infatti, sono una sorta di anticipo del Comune che potrebbe veder diminuire la quota di contributo pubblico. Questo perché, tra gennaio e febbraio, Palazzo Marino ha intenzione di seguire una doppia strada per lanciare il progetto che è stato seguito dal direttore generale Davide Corritore: partecipare a bandi europei o stringere alleanze con aziende e privati disposti a partecipare al piano e a finanziarlo. Al termine delle gare, a partire dalla prossima primavera quindi, inizieranno a essere creati gli hot spot.

I 1.200 luoghi segnati sulla mappa pubblica sono stati scelti con i consigli di zona e comprendono anche gli spazi all’aperto degli edifici pubblici. È soltanto all’aperto, infatti, e non tra le mura domestiche, che ci si potrà collegare e navigare. Qui verranno montate le antennine per la rete senza fili. Che, però, sono solo una base di partenza. La rete è pensata per essere "federale", ovvero altri privati, ma anche condomini, locali o chiunque ha già una propria rete potranno unirsi a quella del Comune per estendere il raggio di azione. Non solo: Palazzo Marino ha già preso contatti con la Provincia e, in futuro, il wi-fi milanese potrebbe estendersi a tutto l’hinterland, una sorta di antipasto virtuale della città metropolitana.

Corriere della Sera

Milano va in Rete Wi-fi in tutta la città

di Elisabetta Soglio

Wi-fi in tutta la città, aperto a creare connessioni con le reti private, predisposto per una diffusione che coinvolga tutta l'area metropolitana. Il progetto della giunta Pisapia per rendere Milano «più accessibile, efficiente e funzionale» comincia con una delibera che arriva oggi in giunta. Con un finanziamento di sei milioni di euro (che in teoria potrebbe ridursi ai minimi termini se funzioneranno i bandi internazionali e le partnership con i privati) parte l'operazione di «trasformazione tecnologica della città», che ha come punto di forza l'accordo del 22 febbraio scorso con Metroweb per l'utilizzo della fibra.

Entro gennaio verranno individuati fra mille e 1200 punti significativi della città (piazze, strade e altre zone selezionate) sui quali saranno installati impianti wi-fi che consentiranno a chiunque di collegarsi con il proprio computer sfruttando la banda larga e quindi una velocità sostenuta. Verrà indetta una gara per affidare fornitura e servizio e l'aggiudicazione avverrà secondo il criterio dell'offerta più vantaggiosa. Come sottolinea il direttore generale Davide Corritore, che già dai banchi dell'opposizione aveva elaborato un progetto per il wi-fi recepito dalla giunta Moratti ma rimasto quasi totalmente inattuato, «obiettivo è creare una rete pubblica estendendo questo tipo di servizio alla popolazione che ancora non sfrutta le potenzialità di Internet».

I costi? Internet sarà gratuito in alcuni luoghi e per alcune fasce d'età secondo il criterio fissato in delibera: «L'accesso alla tecnologia, da parte dei cittadini, costituisce un'irrinunciabile leva di crescita e di integrazione della città, secondo criteri di maggiore omogeneità, che possano meglio favorire l'occupazione e l'aggregazione. Da qui la necessità di avviare un ciclo di profondo ammodernamento della città secondo principi ispiratori di democrazia ed equità che meglio integrino le periferie». Altro principio potrebbe essere quello di rendere l'uso gratuito nelle ore serali in alcune zone «morte» per renderle appetibili.

Titolo originale: The city of the future begins to rise in Kenya's suburbs – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Suddivisa in aree residenziali miste o commerciali e terziarie, coi suoi complessi ad appartamenti da otto piani che si affacciano su viali alberati a tre corsie, la città di Tatu dà un’impressione di ordine che di solito non evocano le altre città del Kenya. Ma si tratta della “prima città davvero pianificata dell’Africa”, secondo Cameron Rush di Planning, l’impresa promotrice di questo insediamento da mille ettari, mentre ci mostra i progetti di cosa sarà quando nel 2013 arriveranno i primi abitanti. Sicuramente non manca la domanda: ogni anno sono 200.000 i kenyani che si trasferiscono dalle zone rurali in città, e lì si vive già in una situazione congestionata.

L’attuale carenza di abitazioni nella sola Nairobi si calcola in 200.000 alloggi l’anno, dove il 60% della popolazione vive sul 6% della superficie. Tatu è una visione, magari ambiziosa, di come il paese stia cercando di trovare soluzioni al problema. “I confini della città non consentono di operare su grandi superfici per la crescita” spiega Arnold Meyer di Renaissance Capital, branca immobiliare della banca russa di investimenti Renaissance. Che da molto tempo acquista terreni in Africa, convinta delle grandi potenzialità del continente, superiori a quelle dei paesi ricchi.

Quando si è messa in vendita una piantagione di caffè vecchia di 120 anni, a nord di Nairobi, l’hanno comprata e immediatamente iniziato a riflettere su una possibile trasformazione urbana vicino alla capitale. Era l’idea iniziale di Tatu. Le dimensioni sono di due o tre volte il centro di Nairobi, più o meno identiche a quello di Johannesburg, Tatu è pensata per ospitare 62.000 persone. Se il centro terziario di Nairobi vive 12 ore al giorno, con gli impiegati degli uffici bloccati nel traffico delle ore di punta la mattina, e poi la sera per tornare a casa, Tatu dovrebbe vivere su ventiquattro ore.

La Renaissance non costruisce direttamente. Si sono acquistati i terreni, ottenuti i permessi, realizzate le infrastrutture, dalle reti dell’acqua a quelle dell’elettricità. Corsi d’acqua e falde esistenti mettono a disposizione 25 milioni di litri al giorno, e l’ente statale del Kenya per l’energia fornisce 150MW, il 10% del consumo attuale. Così si creano possibilità immobiliari, trasformando ex zone agricole in aree edificabili. L’idea è che a quel punto entrino in campo i costruttori a fare il resto.

La Renaissance sta sviluppando progetti simili di altre città in Zambia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo e Ghana, e vorrebbe che Tatu non apparisse come certi progetti improbabili del passato, partiti e quasi mai portati a termine in Africa. Il contesto di crescita gioca a suo favore. Nel 1980 la popolazione del continente era di 400 milioni. L’anno scorso si era superato il miliardo, entro i prossimi 30 anni si arriverà a due miliardi. Nel giro di meno di dieci anni saranno almeno quindici le città a superare il milione di incremento. Nairobi è una, e poi Cairo, Lubumbashi, Accra, Lusaka e Addis Abeba. Per Lagos in Nigeria si prevede una crescita di due milioni, e la Renaissance immagina di riproporre il concetto di nuova città pianificata in tutta l’Africa.

“Ovunque si guarda, ci sono città capitali e non tanto congestionate e non più in grado di gestire alcuno sviluppo” continua Meyer. “Molti investitori capiscono in fretta quanto le città possano essere il principale fattore di crescita in Africa. Spingono l’innovazione, la creatività. Di solito si pensa all’Africa come un posto senza speranza. Pensiamo invece a come nel 1880 fosse Londra, il peggiore slum del mondo. All’epoca il censimento dava 35 persone per alloggio. Niente gabinetti, e le fogne erano a cielo aperto per strada. Sicuramente un posto poco piacevole. Ma dalla congestione è scaturita l’innovazione, con effetti moltiplicatori. Oggi la stessa cosa sta accadendo in Africa. Le città attirano persone, che nella grande densità trovano soluzioni”.

Una delle critiche al progetto di Tatu, è che possa togliere vitalità al centro di Nairobi, inducendo una migrazione di case e uffici nel suburbio. La Renaissance risponde che invece Tatu avrà un effetto di stimolo sulla capitale, non diverso da quanto accaduto a Johannesburg anni fa. “Sandton era un’area interessante e ci si trasferirono da un momento all’atro molte attività. Si crearono dei vuoti in centro. Arrivarono alcuni imprenditori a convertire quegli spazi a uso residenziale, era una cosa che avrebbe dovuto succedere anni prima. Così cominciarono ad arrivare dei giovani, che apprezzano lo stare vicino alla vita sociale”. Se non ci si può spostare a piedi, allora arriva l’idea della città coordinata come Tatu, che integra servizi e trasporti collettivi.

“Tatu sarà gestita in modo integrato per assicurare una qualità urbana, ambientale, di gestione scarichi e rifiuti senza pari nelle municipalità del Kenya” conclude Rush. “Ciò significa migliore spazio pubblico, qualità della vita e dell’ambiente per tutti”.

Nota: il sito ufficiale con molte informazioni e materiali a disposizione, è http://www.tatucity.com Scaricabile qui di seguito il piano urbanistico generale della nuova città

POSTILLA

In realtà la critica principale che viene sollevata a Tatu City da un certo numero di professionisti, ricercatori e movimenti urbani non è che la nuova città satellite possa sottrarre forza al centro di Nairobi. Piuttosto viene contestata la capacità del progetto di essere una soluzione al vero problema di Nairobi, rappresentato dal degrado degli insediamenti informali, che accolgono due terzi della popolazione urbana.

La nuova Tatu City non sarà in grado di ospitare nessuno dei due milioni di abitanti che vivono oggi a Nairobi e che infittiscono le fila dei poveri urbani. La nuova città è pensata e progettata in funzione di una middle upper class, in ascesa ma che comunque rappresenta una percentuale molto bassa della popolazione attuale, e oggi può già contare su un offerta abitativa di tutto rispetto. Negli ultimi due anni infatti a Nairobi si è costruito moltissimo. Non mancano le case, mancano le case per i poveri, che è tutta un’altra faccenda.

Peraltro l’espansione urbana collegata a Tatu city non consisterà solamente nella costruzione della nuova città. Tutt’intorno sorgeranno automaticamente nuovi quartieri informali, dove la lower class - che sarà impiegata per mantenere puliti e sorvegliati i nuovi quartieri – troverà posto non potendosi di sicuro permettere l'affitto o l'acquisto di uno dei nuovi immobili. La nuova città quindi attirerà una nuova popolazione urbana tendenzialmente abbiente, o sposterà quella esistente, lasciando invariato l’enorme problema dei quartieri informali, e aprendo la strada a nuovi problemi, infrastrutturali, di espansione delle baraccopili e di gestione dell’area metropolitana.

Il processo di acquisizione delle terre a piantagione e la loro parziale rivendita ha già consentito alla multinazionale di intascare un’enorme rendita sulla base della trasformazione del suolo da inedificabile ad edificabile. Il processo che ha reso la trasformazione di queste aree in edificabile è stato poco trasparente e presumibilmente viziato da ‘corruption deals’. Tra l’altro l’amministrazione ha concesso l’autorizzazione senza chiedere in cambio oneri di urbanizzazione adeguati che avrebbero consentito di coprire spese infrastrutturali e alla costruzione della “città pubblica” così carente di servizi e infrastrutture.

Anzi, la rete di trasporto per collegare la nuova città con il centro e l’aeroporto (dall’altra parte della città) è completamente a carico dei contribuenti e assorbe una parte del bilancio che potrebbe essere investito in altre zone della città, più bisognose. Per non parlare della sostenibilità ambientale di occupare terre agricole e aumentare lo sprawl di questa città che già soffre di inquinamento e invivibilità ambientale. Magari è proprio l’insalubrità del centro di Nairobi che crea la spinta e la domanda di nuovi insediamenti ai margini della bella e pulita campagna keniota. Non è comunque un mistero che oggi il settore immobiliare risulti trainante più del caffè e del tè!

Si tratta di una vera e propria città privata: Tatu City è solo l'ennesima ‘gated community’, solo un po’ più grande delle altre! La regia di questo progetto è totalmente privata, il governo nazionale, per parola di alcuni ministri, ha dato il suo beneplacito, mentre la municipalità di Nairobi è rimasta estranea all’intero processo e i cittadini completamente all’oscuro. Certamente non è questo che rappresenterà il progetto giusto per Nairobi, certamente non per la maggior parte dei suoi abitanti che rimarrà estranea al processo di sviluppo e beautification così auspicato dalle forze politiche ed economiche del paese.

Le carceri sono più urgenti. I beni culturali possono aspettare. La boccata d´ossigeno di 57 milioni per tamponare l´emergenza detenuti lascia a mani vuote i monumenti, i palazzi storici, le biblioteche, le chiese, gli affreschi italiani che hanno bisogno di restauri. Nel 2004 era stata la guerra in Iraq a scippare il contributo. Ora è il sistema carcerario ad assorbire i fondi indirizzati verso l´architettura e l´archeologia italiane dall´otto per mille. È una lotta tra poveri che si tirano una coperta sempre più corta. E che lascia praticamente a secco il patrimonio artistico più nascosto e prezioso del Belpaese.

«Dobbiamo completare l´edilizia carceraria per permettere la detenzione salvando i diritti fondamentali dell´uomo e per il nuovo anno abbiamo stanziato 57 milioni di euro» aveva annunciato il ministro della Giustizia, Paola Severino, al termine del Consiglio dei ministri del 16 dicembre. Sei giorni dopo, ecco il decreto legge n. 211 che, "per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri", all´articolo 4 autorizza, "per l´anno 2011", la spesa "di euro 57.277.063 per le esigenze connesse all´adeguamento, potenziamento e alla messa a norma delle infrastrutture penitenziarie". E i finanziamenti come arrivano? "Mediante - recita il comma 2 - corrispondente riduzione dell´autorizzazione di spesa. .. relativamente alla quota destinata dallo Stato all´otto per mille".

Quest´anno erano state ben 1600 le domande di contributo, circa il 30% in più rispetto al 2010, arrivate alla presidenza del Consiglio. Che, coinvolgendo le commissioni di architetti e storici dell´arte del ministero Beni culturali, da aprile a ottobre aveva scremato le richieste di finanziamento per interventi urgenti. I fondi dell´8 per mille destinati allo Stato servono, in realtà, anche alla lotta alla fame nel mondo, all´assistenza ai rifugiati e alle calamità naturali. E anche queste aspettative saranno disattese. Ma negli anni passati circa il 70% dei 140 milioni arrivati dalla denuncia dei redditi erano andati a foraggiare la quarta voce del programma: la conservazione dei beni culturali. Ora invece neanche più quel budget risicato, già ridotto dal Tesoro a 57 milioni.

Non solo le bellezze sotto la protezione statale godono dell´aiuto dell´otto per mille. Ma anche il patrimonio ecclesiastico e comunale. E, visto il taglio draconiano delle ultime manovre economiche ai fondi ordinari del ministero e degli enti locali, quei 57 milioni dirottati verso l´edilizia carceraria erano linfa vitale per un tesoro distribuito lungo tutto il Paese che, secondo i dati del Touring Club, annovera 7282 tra chiese, basiliche, monasteri, pievi sperdute; 4.109 palazzi; 2.054 castelli; 1.034 monumenti antichi.

«Il grosso va all´architettura e ai beni storico-artistici. Dall´otto per mille all´archeologia in realtà arriva poco, diciamo 1-2 milioni» spiega il direttore generale per l´archeologia del ministero Beni culturali, Luigi Malnati. «Ma certo anche per noi - aggiunge - questo è una decurtazione pesante. Il museo delle navi di Grado, ad esempio, stava rinascendo grazie ai soldi delle denunce dei redditi». Il ministero destina 80 milioni del suo bilancio di un miliardo e quattro (nel 2007 era uno e nove) ai lavori ordinari. In più, negli anni passati hanno beneficiato del sostegno aggiuntivo dell´otto per mille la Certosa di Padula e la biblioteca dell´Istituto di studi storici in palazzo Filomarino a Napoli, la Madonna con il Bambino affrescata nel Cinquecento su una casa a Sedegliano, in Friuli, ma anche le antiche mura di Lomello, nel Pavese, o l´organo della parrocchiale di San Biagio in Casanova Lanza, vicino Como. Il Colosseo e Pompei i soldi li trovano al botteghino e dagli sponsor. Le migliaia di realtà minute dello straordinario patrimonio italiano, e le miriadi di aziende di restauro che lo curano, hanno bisogno del "popolo del 730" per continuare a vivere.

C’è un imprenditore agricolo, il più grande d’Italia, che rischia di vedere espropriati oltre 1000 ettari della sua tenuta. A regola dovrebbe incatenarsi al trattore, aggrapparsi agli alberi, scavare simbolicamente una fossa nella terra. Tutto il contrario: è pronto a stappare la migliore delle sue bottiglie di champagne per l’affare che gli risolverà molte rogne. Lui, anzi loro, è Benetton. La tenuta è la “Maccarese spa”. La questione è il raddoppio dell’Aeroporto di Fiumicino, opera madre di tutte le colate di cemento che a breve-lungo termine asfalteranno il nostro Paese. In ballo ci sono affari, affaristi, grandi imprese, costruttori, mezzi di comunicazione, una piccola comunità che protesta e, ovvio, miliardi. Tanti. Come mai se ne sono visti: ben dodici, esattamente il doppio di quanto previsto per l’immaginifico Ponte di Messina.

Fase uno: la storia non parte da molto lontano, dal quel 1998, quando i Benetton acquistano dall’Iri 3.300 ettari di Agro Romano, “l’orto” della Capitale con appena 93 miliardi di lire. Per l’affare il gruppo di Treviso batte colossi nazionali (e romani) come Cragnotti e Caltagirone, senza che nessuno punti il dito su un palese conflitto di interessi: la tenuta è a ridosso del Leonardo Da Vinci, e gli “United colors” sono anche nell’azionariato dell’aeroporto, e in maniera preponderante.

La seconda. Nel 2008 i Benetton entrano a far parte di quel gruppetto di “eroi” pronti a salvare l’Alitalia, subito dopo l’appello di Silvio Berlusconi: entrano con l’8,85 per cento delle quote, in compagnia di partner diversamente interessati. Tra questi Air France (25 per cento), Fire spa (10,62), ma soprattutto Banca Intesa con l’attuale ministro Passera come protagonista (8,86) e Acqua Marcia finanziaria (1,77). Quest’ultima società è tra le big nel settore infrastrutture, è di proprietà di Caltagirone Bellavista, e nella cittadina di Fiumicino è già impegnata nella costruzione del porto, altra opera faraonica bloccata per assenza di fondi.

Terza fase, quando tre punti vari diventano un triangolo equilatero. La società aeroporti di Fiumicino presenta all’Enac un piano per raddoppiare la struttura, da tre a sei piste, con l’obiettivo di passare dagli attuali 30 e rotti milioni di passeggeri l’anno, ai 60 del 2020, fino al massimo di 100 per il 2040. Come? “Il 50 per cento si finanzierà con gli introiti derivanti dalle tariffe aeroportuali – spiega il presidente di Adr, Fabrizio Palenzona – in gran parte pagate da soggetti stranieri”. Insomma, la richiesta rivolta all’Ente di Stato è di aumentare il costo del passaggio per il Leonardo da Vinci di almeno tre euro a persona, meglio se sono cinque. Conti alla mano parliamo di 90-150 milioni l’anno, con una concessione di oltre trent’anni.

Conclusione: per fare tutto questo bisogna allargarsi, crescere. Espropriare. Appunto. E qui rientra in campo Benetton. Nei piani presentati, la zona interessata è quasi tutta la sua (1000 ettari su 1300), e secondo le tabelle, potrebbe incassare almeno duecento milioni di euro (20 euro al metro quadro), ai quali vanno aggiunti i danni riconosciuti in caso di strutture già presenti.

Ecco il triangolo: il Benetton imprenditore sottrae al Benetton agricoltore per avvantaggiare anche il Benetton investitore dei cieli. Roba da far girare la testa. “Sì, la testa e anche qualcos’altro – interviene Andrea Guizzi del Comitato Fuoripista –. Siamo preda di una lobby romana, composta da politici come Alemanno e Polverini, giornali di proprietà di grandi costruttori come Messaggero e Tempo e imprenditori privi di scrupoli pronti a vendere quello che non c’è. Chi ci rimette siamo noi, vada a vedere gli indici tumorali, e poi ne riparliamo”. Eccoli qua: secondo i rapporti della Asl competente c’è un aumento dei ricoveri tra il 18 e il 24 % dei bambini tra i 0 e i 14 anni, un terzo dei ricoveri è per malattie dell’apparato respiratorio, altri per tumori maligni e insufficienza renale cronica. “Tutto questo – continua Guizzi – per fare un favore ad alcuni. Guardi lo scalo di Hethrow, a Londra, ha il doppio dei passeggeri di Fiumicino e le stesse piste. Hanno semplicemente riorganizzato il sistema di atterraggio e decollo”. Troppo semplice, forse. O troppo poco remunerativo, per alcuni.

Il conto alla rovescia, quello vero, è iniziato una mattina di fine ottobre sotto i flash dei fotografi e le telecamere intente a seguire ogni singolo movimento della prima ruspa che è entrata sul milione di metri quadrati della "discordia" di Rho-Pero.

È partito dopo 1.306 giorni dalla festa di Parigi, a 1.208 giorni all’inaugurazione ufficiale. Dagli ultimatum del Bie al primo cantiere. Da Letizia Moratti, ex sindaco plenipotenziaria – sulla carta – a Giuliano Pisapia e Roberto Formigoni, il tandem di commissari costretti ad andare d’accordo per non far fallire l’evento. Dall’interminabile balletto tra Comune e Regione sulla soluzione per acquisire le aree all’accordo di programma urbanistico che le ha rese edificabili, siglato, ironia della sorte, dal "sindaco arancione" con annessi tormenti del centrosinistra che, per tre anni, aveva cannoneggiato contro l’Expo del cemento del centrodestra.

Dall’orto botanico planetario (che avrebbe dovuto rivoluzionare la formula di un’Esposizione fatta di padiglioni tradizionali) alla smart city, il nuovo sogno di una cittadella digitale capace di anticipare il futuro e conquistare sponsor. Perché il 2011 per l’Expo non è stato solo l’anno della partenza operativa dopo tre anni di lotte di potere, ma anche quello del cambio dell’impostazione del progetto, l’anno delle rivoluzioni al vertice e delle nuove alleanze, dei tagli nell’era della crisi economica. Con un dossier uscito ridimensionato (300 milioni e qualche voce, come la via di terra, in meno). E, soprattutto, con molte incognite davanti. Che dovranno essere risolte nel 2012, l’anno della verità.

I prossimi obiettivi li ha fissati l’amministratore delegato Giuseppe Sala: far salire ad almeno 100 le adesioni dei Paesi (già a quota 68, oltre il target); conquistare altri quattro sponsor di peso dopo l’arrivo delle prime aziende; far partire a luglio i lavori della cosiddetta "piastra", l’ossatura del progetto. Ma ci sono altre certezze, quelle economiche del governo, che adesso dovranno arrivare. Eppure, è un’Expo diversa quella che ha iniziato a scaldare i motori. Vista dal cantiere spuntato quella mattina di fine ottobre, sembrava ancora un’opinione. Ci sono voluti i tecnici e una mappa per capire che nel punto in cui gli operai avevano montato le cesate sarebbe nato il viale centrale dove si affacceranno i padiglioni, che a separare i visitatori dal traffico delle due autostrade arriveranno alberi e un canale.

E poi? Dai progetti sono spariti i campi coltivati in cui i Paesi, secondo il primo concept plan firmato dalla Consulta di architetti guidata da Stefano Boeri, avrebbero dovuto mettere in scena le loro filiere alimentari: dalla pianta del caffè alla tazzina. L’orto è stato cancellato. «Troppo verde non sfonda», ha sentenziato Sala. «Milioni di visitatori non arriveranno per vedere distese tutte uguali di melanzane», gli ha fatto eco Vicente Gonzales Loscertales, il segretario generale del Bie. Quel progetto tutto basato sull’agricoltura, è stata la sintesi, non piaceva ai Paesi, al Bie, alle aziende. Meglio puntare sulle buone ragioni commerciali.

La nuova immagine è quella di una cittadella sospesa tra il reale e il virtuale, con avatar e schermi elettronici e la firma del premio Oscar Dante Ferretti sulle scenografie dei viali principali. E la tecnologia, magari, potrà contribuire anche a salvare le grandi serre con tutti i climi e le vegetazioni del mondo: ormai è troppo tardi per seguire il rigore scientifico del primo disegno. Cosa diventeranno? Si cerca un creativo che possa reinventarle e, magari, uno sponsor per mantenerle in vita dopo il 2015. Perché il grande dubbio riguarda il futuro: quando verranno smontati i padiglioni, cosa nascerà su quel milione di metri quadrati?

Sarà Arexpo, la società a maggioranza pubblica creata per acquistare le aree, a deciderlo. A partire dal 2015, per non correre il rischio di passare i prossimi tre anni a litigare sul post-Expo. Sarà inevitabile – e Formigoni non lo nasconde – realizzare una quota di case anche per rientrare degli investimenti fatti. Ma poi? Ci sarà un parco, è la rassicurazione. Ci sono le solite ipotesi, quelle cittadelle che, da anni, spuntano da Nord a Sud come in un grande Monopoli: la cittadella della giustizia, quella della comunicazione con la Rai, l’Ortomercato... La sfida più grande è l’eredità di quell’evento che avrebbe dovuto rilanciare l’immagine internazionale di Milano. Insieme alla capacità di riaccendere l’interesse della gente, dopo che molto si è già perduto per strada, di concretizzare qualche progetto.

Dal 2012 l’Expo dovrà correre per recuperare il tempo perduto e trasformarsi in un cantiere aperto giorno e notte, ma nelle mani di Sala la società sembra avere chiare le tappe. Sono altre le promesse che, adesso, andranno mantenute: c’è la via d’acqua con il recupero della Darsena da far partire e ci sono le infrastrutture legate al 2015 e attese da decenni. Per tutte le vie e i collegamenti, ormai – sia che si tratti di nuovi binari o della grandi autostrade come la Pedemontana o la Tem – la consegna è concentrata in una manciata di mesi, tra la fine del 2014 e i primi mesi del 2015. Ce la faranno a rispettare l’appuntamento? Già ora si sa che non sarà così per la linea 4 della metropolitana: l’obiettivo minimo è realizzare tre fermate, da Linate a Forlanini. Anche questa era una promessa di Expo.

postilla

Ai conformisti, anzi conformistissimi, ragionieri che fanno sorrisi di compatimento davanti al progetto dell’Orto Planetario, presumibilmente sognando l’Expo del Metro Cubo, si potrebbe semplicemente rispondere che il mondo non verrà certo a Milano per vedere un campo di melanzane, ma neppure per salire le scale mobili di un supermarket, o attraversare un baraccone tecnologico. Ma come giustamente sottolinea l’articolo quei sorrisetti di compatimento sono quantomeno mal rivolti, perché la posta in gioco non è solo portare visitatori, ma cosa resterà alle generazioni future. Qui l’Orto Planetario di risposte ne dava, e non pare proprio invece che ne diano né il Metro Cubo né il Telefonino Pervasivo della sedicente Smart City. Non si tratta di allestire un padiglione, ma fissare, secondo alcuni criteri internazionali, espositivi, ma anche ambientali e regionali, il futuro di un’area strategica. La facciamo uguale al baraccone cementizio della Fiera lì accanto? Sigilliamo definitivamente l’ultimo angolino di spazio aperto metropolitano facendo le tabelline di quanto edificato e quanto lasciato a giardinetti, nani e madonnine di gesso esclusi? Non si tratta di difendere a spada tratta quella che magari in sé e per sé era solo la sparata pubblicitaria di Stefano Boeri e dei suoi soci archistar. Però in una prospettiva di uso futuro l'idea alla base dell'Orto poteva diventare una Cittadella della Scienza (ricerca avanzata sulle produzioni agricole sostenibili a chilometro zero?) che se le mangia tutte, quelle sanitarie in versione brick & mortar targate CL, e destinate a tradizionalissimi bisturi e supposte, per quanto futuribili. Quindi bando alle polemiche sugli slogan, ma al solito mettere in prima fila la questione: che serve alla città? E intendere per “città” qualcosa che magari va oltre i confini amministrativi, naturalmente (f.b.)

“Per quelli di sotto ci vorrebbe l’olio di ricino”. Il sindaco leghista di Dolo, Maddalena Gottardo, alla fine è sbottata. Ma la battuta viene dal profondo e rivela l’animo della Lega di oggi: che cerca di reinventarsi come partito di lotta vicino al popolo e al territorio, ma resta salda sulla poltrona e approva a marce forzate contestatissimi progetti.

Un partito che non ama dissensi. Perché i destinatari dell’olio di ricino sono migliaia di veneti che le hanno tentate tutte per bloccare il progetto di Veneto City. Niente anti-politica, anzi, il contrario: un esempio di dissenso acceso, ma democratico e fantasioso. Sempre nelle regole: 11 mila firme raccolte, ricorsi in ogni sede, partecipazione al consiglio comunale, manifestazioni sotto il Comune al suono delle vuvuzelas. Parliamo di un mega centro commerciale-direzionale che occuperà 715 mila metri quadrati – l’equivalente di 105 campi di calcio – con una volumetria di 2 milioni di metri cubi. È dal 2008 che tra Venezia e Padova i comitati si battono contro Veneto City. Ma nelle ultime settimane la battaglia è diventata serrata, perché il destino della campagna veneta si gioca in queste ore. Per cambiare definitivamente il paesaggio di Dolo bastavano tre firme: quelle dei Comuni di Dolo (Lega) e Pianiga (Pdl) e quella del Governatore Luca Zaia (Lega). I comitati non hanno una tessera politica. In tanti contavano sul fatto che Zaia e i leghisti in campagna elettorale avevano professato attaccamento al Veneto, alle sue tradizioni, alla terra.

Ma quando si è arrivati ai fatti, ecco l’amara sorpresa. Raccontano Adone Doni e Mattia Donadel, portavoci del Cat (Comitati Ambiente e Territorio): “La maggioranza del Comune di Dolo ha convocato sedute straordinarie a raffica, perfino la Vigilia e il giorno di Natale, per votare prima del 31”. E i comitati hanno “assediato” il Comune. Hanno cercato di entrare in consiglio. Ma il 20 dicembre il sindaco emette un’ordinanza: “Visto che nelle ultime sedute si è verificata una massiccia affluenza di pubblico e manifestanti presso la sala consiliare si ordina di chiudere al pubblico gli uffici comunali”. Racconta Doni: “Sono rimasti solo 40 posti, ma quando abbiamo provato a entrare li abbiamo trovati già occupati da militanti leghisti”. Così sono partiti esposti al Prefetto e alla Procura. Alla fine il sindaco leghista ha firmato (come quello di Pianiga). Per la gioia dei sostenitori di Veneto City.

Ma di che cosa si tratta esattamente? Nei documenti ufficiali si parla di un polo destinato a riunire “i servizi per l’impresa, l’università e il commercio”. Tutto e niente. Le stime parlano di 30-40 mila visitatori al giorno e 70 mila veicoli. Il progetto prevede torri di 80 metri. E già l’aspetto urbanistico ha attirato critiche, come quelle del prestigioso Giornale dell’Architettura: si parla di “esiti paradossali”, si ricorda “un’affermazione di Zaia alla Ponzio Pilato che «le variazioni urbanistiche passano in Regione a livello notarile se hanno l’ok dei consigli comunali e della Provincia»”, si sottolinea “la necessità di rifondare il rapporto tra uomo e natura nel Veneto”; ma il Giornale rammenta anche che “l’ultimo passo è stato demandato ai sindaci di due comuni che sommano circa 30 mila abitanti, di fronte a un intervento attorno al quale gravita tutto il Veneto. Le 11 mila firme raccolte dai comitati non hanno inciso sull’iter”. La Difesa del Popolo, giornale della diocesi di Padova, ha dedicato al progetto un’allarmata copertina: “In Riviera la città di cemento a(r)mato”, dove si ricorda che anche “le associazioni di commercianti e agricoltori sono contrarie ma tutto procede”.

Per capire davvero il progetto bisogna guardare a quello che ci sta dietro. Veneto City ha tanti santi in paradiso, raccoglie i signori dell’impresa del Nord-Est: da Stefanel (attraverso la Finpiave) a imprenditori che amavano definirsi “progressisti” come Benetton (ma ultimamente si sono lanciati in operazioni contestate come Capo Malfatano in Sardegna). Fino alla Mantovani che ha il monopolio delle grandi opere in Veneto. E la politica? Il centrodestra di Giancarlo Galan, che in questi ambienti ha tanti amici, ha sostenuto l’opera. Il centrosinistra all’inizio sembrava, tanto per cambiare, confuso: “Veneto City deve essere un’opportunità, non un pericolo”, disse Antonio Gaspari, allora sindaco di Dolo (Margherita). Davide Zoggia (Pd), all’epoca presidente della Provincia di Venezia, in pubblico diceva: “Veneto City potrebbe essere costruita altrove”. Ma in una lettera riservata definiva il progetto “di sicuro interesse per l’assetto e lo sviluppo economico di Venezia”. Oggi il Pd, all’opposizione, si dichiara contrario.

Più netta la posizione di Rifondazione e dell’Idv: “Basta con il consumo del territorio, Veneto City è un’idea delirante”, tagliò corto Paolo Cacciari, ex deputato di Rifondazione. Per valutare l’impatto di Veneto City bisogna venire qui. Muoversi tra Fiesso d’Artico, Dolo e Mira: “Mi ci perdo anch’io che ci abito da una vita”, racconta Vittorio Pampagnin (ex sindaco di Fiesso, con un passato nel centrosinistra), mentre con l’auto vaga tra bretelle e tangenziali che hanno strozzato interi paesi. Siamo nella Riviera del Brenta, la terra dove Tiziano attingeva i colori per i suoi quadri. Nella campagna veneta cara ad Andrea Zanzotto. Qui dove una volta il paesaggio era segnato dai campanili e oggi svettano ciminiere e capannoni. L’era Galan ha lasciato un’eredità pesante: dal 2001 al 2006 sono state realizzate case per 788 mila persone (la popolazione è aumentata di 248 mila abitanti). Nel 2002 si sono costruiti 38 milioni di metri cubi di capannoni. In Veneto la superficie urbanizzata è aumentata del 324% rispetto al 1950. Ben oltre le necessità, come dimostrano migliaia di cartelli “vendesi” appesi a case nuove e mai abitate. Adesso arriva Veneto City. L’ultima parola spetta oggi a Zaia (che ha preferito non parlare con il Fatto), il governatore contadino. Che chiarirà definitivamente da che parte sta.

Al mercato dei treni prezzi di favore

per Montezemolo & c.

di Ronny Mazzocchi

La possibilità di comunicare all’interno di un Paese e verso l’esterno nel modo più razionale possibile è sempre di più una delle condizioni essenziali per non essere esclusi dal club delle nazioni che ambiscono a ricoprire un ruolo di primo piano nello scacchiere mondiale.

Che la partita dei trasporti sia centrale per il nostro futuro lo hanno capito in molti. Attorno a questo grande osso si agitano infatti lobbies, imprenditori, banche e società di assicurazioni, tutti interessati a consolidare il loro giro d’affari in una partita assai redditizia. Si tratta di una operazione perfettamente legittima, a patto però che vi sia qualcuno che si preoccupi di discriminare fra guadagni privati e interessi collettivi, dato che i due di rado tendono a coincidere spontaneamente. Purtroppo in questi ultimi vent’anni complice l’invadente retorica sulla necessità di privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni non si può certo dire che il filtro sia stato efficace.

Il caso del trasporto ferroviario e dell’alta velocità è in tal senso emblematico. L’iniziale volontà del legislatore di far partecipare alla partita anche il capitale privato aveva spinto ad affidare la gestione del servizio in regime di monopolio alle Ferrovie dello Stato, in modo da garantire una adeguata remunerazione dell’investimento. In verità di soldi privati, alla fine, se ne videro pochi. Ma, come spesso accade nel nostro Paese, al momento di lucrare i profitti si sono materializzati in molti. Se non ci saranno altri rinvii, a marzo dovrebbe partire l’avventura della Nuovo trasporto viaggiatori (Ntv), società italo-francese costituita da Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle nel dicembre di cinque anni fa con un capitale iniziale di solo 1 milione di euro.
Pur essendo una azienda di nuova costituzione, totalmente priva di esperienza e senza dipendenti, la Ntv è riuscita nel giro di pochi mesi ad ottenere la licenza per l’esercizio dei servizi ferroviari. Questo autentico miracolo è stato possibile grazie all’intervento del governo che, modificando quanto imposto da una vecchia legge (166/2002), ha eliminato l’obbligo di gara per l’assegnazione di un servizio pubblico fornito su infrastruttura pubblica (159/2007). All’azienda di Montezemolo veniva così concesso di poter scegliere fasce orarie e tratte fra le più redditizie, contro il pagamento di un canone annuo di 11 euro a chilomentro la metà di quanto previsto in Francia insufficiente a garantire la manutenzione delle stesse infrastrutture che rimarrà per buona parte a carico dello Stato (una vicenda che, purtroppo, ricorda sinistramente cosa è accaduto con la mancata asta per l’assegnazione delle frequenze televisive).

Ottenute le licenze e firmati i redditizi contratti, la Ntv si è arricchita di nuovi soci, fra cui Intesa San Paolo, le Assicurazioni Generali e la Société Nationale des Chemins de fer Français, posseduta al 100% dallo Stato francese. Con tutti questi innesti il patrimonio netto della società è lievitato così fino a raggiungere i 300 milioni di euro. Non è tutto: in attesa del debutto su rotaia la Ntv ha stipulato pure un accordo con Alstom, società transalpina in stretti rapporti con lo Stato francese, per la costruzione di 25 treni dal costo complessivo di 650 milioni di euro, ottenuti attraverso un prestito di Intesa San Paolo. Dei 25 treni, però, solo 8 sono stati prodotti nello stabilimento italiano di Savigliano, un tempo di proprietà di Fiat Ferroviaria, ex-produttrice dei famosi Pendolini. Una scelta che ha fatto infuriare i sindacati, subito pronti però, nel luglio di quest’anno, a stipulare con la Ntv un assai discutibile contratto di lavoro, al punto che l’amministratore delegato di Fs Mauro Moretti ha minacciato la disdetta del contratto nazionale se non verranno applicate eguali condizioni anche a Trenitalia.

Il rischio, infatti, è che il dumping contrattuale finisca per penalizzare l’azienda di Stato, così come è accaduto in passato al trasporto aereo con Alitalia e a quello marittimo con Tirrenia. Le polemiche, però, non si sono limitate a questo. In questi mesi Montezemolo e Della Valle hanno più volte lamentato boicottaggi da parte delle Fs dai test del materiale rotabile alle attività di marketing volto a ritardare l’inizio dell’attività commerciale. Moretti, dal canto suo, ha ricordato non solo come la sua azienda, a causa di un ricorso al Tar della Alstom, abbia subito il blocco di una ricca commessa da 1,54 miliardi di euro al consorzio italocanadese Ansaldo-Breda-Bombardier per la produzione di nuovi convogli, ma anche la disparità di regole sul mercato ferroviario europeo che penalizza le aree più deregolamentate come l’Italia.

Forse la migliore chiave di lettura di tutta la vicenda l’ha fornita proprio Montezemolo: «Siamo la prima compagnia ferroviaria privata dell’alta velocità in Europa». Se negli altri Paesi difendono il monopolio delle compagnie statali, dall’energia ai trasporti, forse un motivo ci sarà. ❖

Trasporto locale, ultimi in Europa

Colpa dei pochi fondi

di Massimo Franchi

Pochi fondi e pochi treni. Trenitalia si difende: non dipende da noi. Il governo Monti ha rimpinguato gli stanziamenti alle Regioni. Ceccobao (Toscana): noi investiamo. Vetrella: fiscalizzazione ci permetterà di fare gare vere.

Su un dato sono tutti d’accordo: il trasporto locale su ferro in Italia non funziona. Dalle tantissime associazioni che rappresentano i 3 milioni di pendolari, a Legambiente che con il rapporto Pendolaria lo monitora ogni anno, alle Regioni che questo servizio lo gestiscono, a Trenitalia che è il committente quasi monopolistico il coro è unanime: il servizio è scadente, pochi treni, vecchi e sporchi, tanti ritardi e soppressioni.

Su motivi, colpe e responsabilità il quadro è più complicato. Il principale indiziato, Trenitalia, ha gioco

facile a chiamare in correo il governo. Quello Berlusconi in particolare: dei 2 miliardi strombazzati da Matteoli da mettere a bando per i treni locali sono stati stanziati solo 500 milioni, mentre i tagli al finanziamento del Trasporto pubblico locale (Tpl) su ferro per il 2012 sono stati tagliati con la mannaia, passando dai 2.055 milioni del 2010 alla penuria di 400 milioni. Per fortuna il governo Monti ha dimostrato più sensibilità e, grazie alla pressione delle Regioni, in extremis il 21 dicembre ha aumentato lo stanziamento a 1.748 milioni.

«Il 2012 sarà un anno di transizione spiega Sergio Vetrella, coordinatore Trasporti della Conferenza delle Regioni e assessore della Campania ma la vera rivoluzione arriverà nel 2013 quando partirà la fiscalizzazione del servizio: non avremo più soldi a mozziconi ma un finanziamento preciso derivante dall’aumento delle accise sulla benzina. Così continua Vetrella avremo più responsabilità, ma potremo anche chiedere gare europee autentiche per mettere a bando i servizi: basta al monopolio pubblico spinto, ma gare in cui oltre ai binari potranno essere affittati i treni, non dovendo aspettare i 3-4 anni che una nuova azienda deve attendere per essere competitiva. E di certo non penso a Ntv, ma alle tante realtà europee molto più grandi».

ESEMPIO TOSCANO

Il compito più vicino che attende Vetrella è quello di “spartire” entro febbraio i finanziamenti strappati al nuovo governo. «Noi si prenota l’assessore toscano Luca Ceccobao ci aspettiamo almeno 180 milioni». Lui può parlare con cognizione di causa: la Toscana è una delle poche regioni salvate dal rapporto Pendolaria: «La più costante nella politica di sviluppo del trasporto su ferro». I motivi sono presto detti: «Ci eravamo già impegnati a trovare risorse per tagliare di soli 12 milioni, da 216 a 204, il budget regionale, in più abbiamo lanciato con le Province il Bacino unico regionale: progetto innovativo che ci permetterà di evitare sovrapposizioni dei servizi».

Trenitalia da parte sua rispedisce al mittente le critiche ribadendo che i prezzi dei servizi sono un quinto di quelli tedeschi e che basterebbe alzare di un centesimo il costo passeggero/km per avere un miliardo di investimenti in più. Il piccolo sforzo del governo Monti comunque dovrebbe portare qualche frutto. Dal mese di gennaio arriveranno le 350 nuove carrozze a doppio piano e nuovi locomotori “464”, mentre dovrebbero essere riaperte le gare di bando per 40 (più 20) treni diesel e 70 (più 20) treni elettrici sospese da Trenitalia il 28 ottobre a causa dei tagli.

La verità sui colpevoli di questa situazione comunque si evince benissimo dai dati pubblicati dalla Direzione generale trasporti dell’Unione europea sul periodo 2000-2009: siamo il solo paese del continente che ha registrato un calo del traffico passeggeri (meno 3%, contro il +14% tedesco, il +23% francese e il + 37% inglese) dovuto ad un netto taglio dell’offerta di treni (-32% nel triennio 2007-2010 sui servizi con Stato o Regioni). In cima alle colpe c’è quindi il governo Berlusconi che, mentre il resto del mondo investe sul ferro, ha sistematicamente tagliato. E al solito i primi ad essere colpiti sono i più deboli: i 3 milioni di pendolari che ogni giorno sono costretti a viaggiare «da ultimi in Europa», Pendolaria dixit.

Questo il testo della lettera trasmessa oggi al premier Mario Monti da Sandro Plano, presidente della Comunità Montana Valle Susa e Val Sangone, e Girolamo Dell’Olio, presidente dell’Associazione di volontariato Idra.

Signor Presidente, alla vigilia della seduta del Consiglio dei Ministri che ha all’ordine del giorno, riferiscono le cronache, anche il tema delle scelte in materia di grandi infrastrutture, Le rinnoviamo l’appello a considerare con ogni possibile attenzione le circostanze che un mese fa le abbiamo sottoposto – la scrivente Comunità Montana della Val di Susa e Val Sangone, che raccoglie 43 Comuni della provincia di Torino, e la scrivente Associazione di volontariato Idra di Firenze – in relazione al progetto TAV/TAC Torino-Lione e al progetto del Nodo ferroviario TAV di Firenze.

Grande è la Sua responsabilità di fronte alla Nazione in questo momento economico delicatissimo, come Ella ha avuto più volte occasione di ricordare. Le condizioni di emergenza in cui versa il Paese hanno spinto la maggior parte delle forze politiche a superare le divergenze in talune materie, e a sostenere in Parlamento la Sua azione di governo. Sono tuttavia le stesse, o eredi delle stesse, che negli ultimi decenni, in varia misura e con differenti alleanze, hanno contribuito ad accumulare il debito al quale Ella è chiamato oggi a far fronte. Testimonia plasticamente la loro improvvida cultura di governo e di gestione della spesa pubblica la voragine erariale che i precedenti governi hanno contributo a scavare attraverso i cosiddetti project financing e le architetture contrattuali fondate sui cosiddetti general contractor.

Ne abbiamo scritto a Lei nella lettera che qui Le rialleghiamo.

Leggiamo che ancora oggi le forze politiche che sostengono il Suo governo ribadiscono la volontà di imporre al Paese investimenti in grandi infrastrutture segnati dalle pesanti criticità indicate, come fossero fattori di crescita.

Ci permettiamo quindi di ribadire la nostra convinzione, suffragata dall’opinione di esperti di rango, che perseverare nell’adozione di quel modello nefasto di investimenti capital intensive e a sviluppo fuori controllo non soltanto non gioverebbe alla creazione di occupazione quantitativamente significativa, qualitativamente sana e duratura, ma produrrebbe al contrario un’ulteriore crescita del già gigantesco debito pubblico, senza peraltro giovare alla soddisfazione di alcune delle vere esigenze nazionali: il trasporto pubblico di massa su ferro, la manutenzione delle infrastrutture, la difesa idrogeologica del territorio, la miriade di piccole opere ad alta intensità di lavoro necessarissime.

Confidiamo nella Sua attenzione.

Ha evitato anche i vincoli del Piano territoriale di coordinamento. L'area della Cascinazza, da circa 40 anni al centro della vita politica e urbanistica di Monza, è riuscita a passare indenne anche attraverso i lacci del documento approvato in Consiglio provinciale dopo una maratona di tre giorni. Il centrosinistra ha premuto affinché il lotto agricolo, destinato a trasformarsi in zona residenziale, rientrasse fra i 186 kmq di aree verdi tutelate, ma la maggioranza targata Pdl–Lega ha difeso fino in fondo il Piano che il presidente Dario Allevi ha definito «un freno alla progressiva cementificazione della Brianza», nonostante dai banchi dell'opposizione si siano levate critiche feroci.

I dati dicono che la superficie della provincia è di 405 kmq e che la parte non urbanizzata (pari al 46%) è messa sotto tutela per l'86% attraverso le salvaguardie previste dai parchi regionali, dai Plis (parchi locali di interesse sovracomunale), dagli ambiti agricoli strategici, dalla rete verde di ricomposizione e dagli ambiti di interesse provinciale. In definitiva, restano libere aree per poco più di 25 kmq, ovvero il 6% dell'intera superficie. «La priorità assoluta di questo documento è la tutela delle poche zone ancora libere — spiega Antonino Brambilla, vicepresidente e assessore al Territorio —. Ogni giorno vengono consumati 4 mila mq di suolo e serve mettere uno stop al più presto». La Brianza ha l'indice di cementificazione più alto d'Italia subito dopo Napoli e proprio per questo motivo secondo il Pd il Piano è troppo morbido. «Il confronto per la messa a punto del documento è stato buono — dice Domenico Guerriero, capogruppo Pd —, ma alla fine lascia mano libera ai costruttori su troppe aree».

Dei circa novanta, fra emendamenti e ordini del giorni presentati, la maggioranza ne ha bocciati più di 60, compreso quello su Cascinazza, dove il Pgt monzese prevede una lottizzazione da quasi 400 mila metri

E secondo l'Osservatorio Ptcp Brianza non è nemmeno l'unico. «Abbiamo rilevato almeno una quarantina di casi analoghi — spiega Gemma Beretta, una delle responsabili — e il caso più macroscopico è la mancata salvaguardia dell'ampliamento del Bosco delle Querce a Seveso, sorto sui resti delle macerie infettate dalla diossina».

Postilla

Se non ricordate, o non sapete, che cos'è lo scandalo della Cascinazza scrivete questa parola nel piccolo "cerca" di eddyburg.it, e leggete. Magari guardatevi anche il servizio che fece "Report", il programma diretto da Milena Gabanelli, anch'esso raggiungibile da questo sito

Titolo originale: Withering Heights? Green Belt homes set for Brontë country – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le brughiere spazzate dal vento dello Yorkshire occidentale, che ispirarono a suo tempo le opere delle sorelle Brontë, oggi sono a rischio a causa dei progetti di edificazione di alcune zone classificate Green Belt, nuove case che fanno infuriare abitanti e appassionati di letteratura. L’amministrazione di Bradford ha iniziato le consultazioni per il progetto di 48.500 abitazioni previste nell’area a rispondere alla domanda crescente, a cui si aggiungono interventi sulla rete di trasporto, da realizzarsi entro il 2028. Secondo il piano in discussione almeno 600 di queste case andrebbero a collocarsi nel piccolo villaggio di Haworth, e altre 400 in quelli vicini di Oakworth e Oxenhope.

Haworth –2.000 abitanti – è una delle mete turistico-letterarie più famose del mondo. Nella casa parrocchiale (oggi Museo Parrocchiale Brontë) abitava la famiglia Brontë, è lì che sono stati scritti libri come Jane Eyre, di Charlotte, o Cime tempestose di Emily. John Huxley, presidente della circoscrizione amministrativa di Haworth, spiega come gli abitanti intendano contestare il piano e difendere il paesaggio: “Siamo rimasti scioccati dalla quantità di nuovi edifici che ci chiedono di accettare. Quando ci sono ancora tante aree dismesse che si possono recuperare. Certo non siamo chiusi alle trasformazioni, ma 600 alloggi sono decisamente troppi. Quel migliaio di nuove case che dovrebbero arrivare complessivamente nella valle avrebbe effetti devastanti sul paesaggio”.

Secondo il progetto, si dovrebbe allargare la zona classificata urbana, per rispondere agli obiettivi residenziali. Il documento preliminare sottolinea la necessità di tutelare il ruolo turistico della zona della famiglia Brontë, visitata ogni anno da più di un milione di persone. Ma afferma anche che “alcune modifiche sostenibili alla superficie della Green Belt saranno utilizzate per rispondere alla domanda abitativa” e che costruendo “con materiali adeguati e con l’aiuto di una buona progettazione si salvaguardano e migliorano i caratteri locali”. Huxley replica che queste rassicurazioni sono “in netto contrasto con quanto si sta effettivamente facendo. Ho visto un progetto, che di sicuro minacciava gli spazi verdi di questa valle, nessun dubbio. Per noi è una cosa grave. Si tratta di un ambiente insostituibile. Se si costruisce sopra un campo, è perduto per sempre. Non lo riavremo mai più. Se si cancella questo paesaggio, ci saranno effetti enormi anche sul turismo”.

Ora si scopre che anche l’idea di restaurare la Chiesa Parrocchiale di Haworth, dove sono sepolte le sorelle Brontë, potrebbe essere accantonata se non si riusciranno a raccogliere almeno 37.000 euro per assicurarsi il finanziamento English Heritage. Soldi necessari per riparare il tetto, costruito fra il 1879 e il 1881, e rimediare ai danni alle pitture all’interno. La chiesa è stata anche oggetto di furti ben tre volte solo nell’ultimo anno e mezzo. C’è la promessa di quasi centoventimila euro per i lavori, ma a condizione che i comitati riescano a raccoglierne altri 75.000, mentre sinora siamo a meno di quarantamila.

“L’incentivazione agli impianti eolici in Italia è stata fino ad oggi la più alta del mondo. Soltanto per questa ragione è stato conveniente impiantare oltre 5.000 torri per una potenza complessiva di 6.000 MW, non certo per la loro produttività. Infatti la ventosità in Italia si attesta in media sulle 1.500 ore/anno, ben al di sotto delle 2.000 ore/anno ritenute utili per una produzione competitiva”. E’ soltanto un passo della lunga e argomentata lettera indirizzata in questi giorni ai ministri competenti (Clini, Ornaghi, Passera, ecc.) da associazioni come Italia Nostra, Lipu, Mountain Wilderness, VAS, Comitato per la Bellezza. Comitato Nazionale del Paesaggio, Amici della Terra, Altura, Movimento Azzurro, Terra Celeste e da decine e decine di Comitati nati soprattutto nelle zone appenniniche. Iniziativa che si deve soprattutto alla passione di Carlo Alberto Pinelli, regista di storici documentari per la Rai, alpinista e ambientalista.

Il documento, giustamente critico nei confronti della politica di incentivi, insieme caotica e costosa, del governo Berlusconi, cerca di inquadrare il problema delle fonti energetiche rinnovabili, con un approccio “freddo”: per razionalizzare una materia complessa e arginare “il proliferare di giganteschi impianti eolici nei luoghi più belli e integri d’Italia”. In tal senso fanno ben sperare le parole pronunciate dal ministro dell’Ambiente, Corrado Clini sul “rispetto degli usi bilanciati del territorio” e sulla necessità di “paragonare il valore economico e ambientale della generazione dell’elettricità da eolico con quello della protezione del paesaggio, prezioso per la nostra economia”. Rappresenta un delitto anche in termini di turismo culturale scempiare il paesaggio della mirabile città romana di Saepinum (Campobasso) o quello di zone vicine a grandi e affascinanti parchi, quali le Foreste Casentinesi, o ai monti solenni sopra Urbania e Urbino.

Poiché la situazione economico-finanziaria del Paese è drammatica – come più volte sottolineato dal presidente Napolitano – bisogna riflettere tanto più attentamente sull’uso migliore delle risorse. Anche i maxi-impianti fotovoltaici pongono seri problemi se installati in zone coltivate, di elevato pregio agricolo. “Impianti che noi vorremmo vedere collocati – propone il documento - esclusivamente nelle aree industriali e sopra i tetti degli edifici recenti”. Pensate quanto sarebbe oggi più favorevole la situazione nel “Paese del sole”, se si fossero dotati per tempo di impianti fotovoltaici tutti i quartieri costruiti negli ultimi decenni, a cominciare da Roma e dal Sud. E se si fosse utilizzata, in modo accorto, anche la geotermia.

E’ assolutamente indispensabile riportare in onore un’idea di fondo che in questi anni di deregulation berlusconiana (e uso già un termine nobile) è stata invece affossata: l’idea cioè di pianificare attentamente e quindi selezionare tutte le (limitate) risorse sia finanziarie che territoriali e paesaggistiche in un Paese la cui bellezza è stata brutalmente intaccata da sviluppi abusivi o “drogati”, pur rappresentando essa, se tutelata, anche un valore economico in termini di turismo culturale e naturalistico. Il documento propone queste linee di azione: a) andare ad una moratoria degli incentivi; b) ridurre la soglia dei certificati verdi emessi annualmente; c) detrarre le installazioni di fotovoltaico già eccedenti il valore obiettivo proposto dalla UE (8.000 MW, “mentre siamo già a quasi 12.000 MW in esercizio”) dalla quota prevista per l’eolico; d) ridefinire in sede governativa e non regionale, o, peggio, locale le quote dell’eolico per il quale hanno spinto e spingono con forza anche gruppi inquinati dalla criminalità e che ci hanno regalato parchi eolici in zone assai poco ventose. Un grido di dolore serio e motivato, questo delle associazioni e dei comitati, che, in un momento di vera emergenza, economica e paesaggistica, è bene che il governo Monti ascolti con molta attenzione.

Il costo del debito pubblico italiano non è sostenibile: 85 miliardi all'anno di interessi su 1.900 miliardi di debito complessivo, che l'anno prossimo saranno probabilmente di più: 90-100; a cui dal 2015 si aggiungeranno (ma nessuno ne parla) altri 45-50 miliardi all'anno, previsti dal patto di stabilità europeo, per riportare progressivamente i debiti pubblici dell'eurozona al 60 per cento dei Pil. Ma questa è solo la parte nota del nostro debito pubblico; ce n'è un'altra "nascosta", che forse vale quasi altrettanto e che emergerà poco per volta, mano a mano che verranno a scadenza impegni che lo Stato o qualche Ente pubblico hanno assunto per conto di operatori privati sotto le mentite spoglie di una finanza di progetto. Il Tav (treno ad alta velocità) è l'esempio e il modello più clamoroso di questo sistema; comporta per la finanza pubblica - finora, ma non è finita qui, e Passera ci si è messo di impegno - un onere nascosto di circa 100 miliardi di euro. Ma secondo Ivan Cicconi dietro le circa 20 mila Spa messe in piedi dalle diverse amministrazioni locali si nasconde un numero indeterminato di "finanze di progetto", i cui oneri verranno alla luce poco per volta nei prossimi anni. Doppia insostenibilità. Colpa della Politica? Certamente. Ma soprattutto colpa delle privatizzazioni, che non sono un'alternativa agli sperperi della Politica, ma il loro potenziamento a beneficio della finanza privata e di profittatori di ogni risma. La vera alternativa alla cattiva politica è la trasparenza e il controllo dal basso della spesa e dei servizi pubblici: la loro riconquista come beni comuni..

Finora gli interessi sul debito pubblico italiano sono stati pagati ogni anno, in tutto o in parte, con nuovo debito (che infatti è in larga parte il prodotto non di veri investimenti, mai fatti, ma di interessi accumulati nel corso del tempo). Ma con il pareggio di bilancio in Costituzione, quegli 85-100 e poi 130-150 miliardi all'anno, dovranno essere ricavati interamente da un taglio ulteriore della spesa pubblica o da maggiori entrate fiscali.

Finché il sistema finanziario globale è stato stabile, il debito italiano (ora al 120 per cento del Pil) non creava problemi: era una cuccagna sia per coloro che incassavano gli interessi, sia, soprattutto, per l'evasione fiscale (120 miliardi di euro all'anno!) e la corruzione (altri 60 miliardi; altro che le pensioni troppo generose!). Quei costi e quegli ammanchi venivano infatti coperti dallo Stato, indebitandosi. Ma da quando il sistema finanziario è diventato turbolento (e nei prossimi anni lo sarà sempre di più) fare fronte a quel debito è sempre più difficile e costoso; e prima o dopo la corda si spezza. È un po' quello che è successo con i mutui subprime; per anni hanno reso bene a chi li concedeva, a chi li rivendeva impacchettati a milioni nei cosiddetti Cdo, e a chi li ricomprava, ripartendo il rischio - come sostiene la teoria economica - su tutto il pianeta: in particolare, per quello che riguarda l'Europa, tra le banche inglesi, francesi e tedesche, che ne sono ancora oggi piene. Ma un debito non può crescere e accumularsi all'infinito; prima o dopo arriva la resa dei conti. Con i mutui subprime la si è in parte attutita e in parte nascosta finanziando a man bassa, con migliaia di miliardi di denaro pubblico, le banche che li detengono perché non fallissero. Con i debiti pubblici dei paesi dell'Europa mediterranea la Bce di Draghi ha deciso di fare la stessa cosa: finanzia le banche a tassi scontati perché riacquistino i debiti pubblici in scadenza, a tassi cinque-sette volte maggiori. E le banche lucrano la differenza. Ma è un gioco che non può durare in eterno; nemmeno se, per miracolo, la Bce fosse autorizzata a comprare quei titoli direttamente ("stampando" - come si dice, ma le cose non stanno proprio così - moneta). Che cosa c'è, allora, alla stazione di arrivo di questo binario? O la "crescita" o il default.

Ecco perché politici ed economisti (e gli economisti-politici) si sbracciano a snocciolare ricette inconsistenti e persino ridicole per la "crescita". Ma quale crescita? Con il pareggio di bilancio - e in un contesto in cui gli interessi sul debito non vanno a sostenere la domanda, ma volano a gonfiare la bolla finanziaria - per tornare a crescere il Pil italiano dovrebbe aumentare a un tasso superiore all'incidenza del servizio del debito (interessi più ratei di rimborso). Ritmi cinesi (e di una Cina che non c'è più) se lo spread resta ai livelli attuali; ma anche, a partire dal 2015, se tornasse a livelli giudicati "normali". Ma niente di questo è in vista: invece di crescere, l'Italia è già in recessione; l'Europa sta per entrarci; le economie emergenti non "tirano" più e il mondo intero sta correndo incontro a un disastro ambientale irreversibile. Per questo il default non è fantascienza ma, ahimé, una prospettiva sempre più probabile; non ci siamo abituati, ma non sarebbe né il primo né l'ultimo della storia.

Meglio dunque prepararsi. E prepararsi vuol dire negoziare a livello europeo una ristrutturazione del debito (di molti paesi; e di molte banche; anche di quelle dei paesi più forti). E per ristrutturare i debiti bisogna sapere come si sono formati, chi li detiene, e come isolare le conseguenze più negative di un loro congelamento, di una loro riduzione (il cosiddetto haircut: taglio di capelli) o di un loro annullamento selettivo (larga parte del debito italiano è classificabile come "odioso" o "illegittimo") a seconda delle categorie coinvolte. È l'audit del debito: un programma di indagine che dovrebbe vederci impegnati per i prossimi mesi e forse anni; ma con cui è possibile costruire in forme condivise una piattaforma alternativa di governo dell'economia. In altri paesi - in Europa, Grecia, Irlanda, Spagna; e in altri in America Latina - questo lavoro è già in corso. Da noi potrebbe assumere dimensioni più vaste e profonde. Non si tratta infatti soltanto di coinvolgere un gruppo di economisti - il più vasto possibile - disposti a impegnarsi in questo esercizio; di rivendicare l'accesso a documenti mai resi pubblici; e di diffondere i risultati della ricerca con una grande campagna di informazione. Per essere esauriente, l'audit dovrebbe ricostruirne non solo il passato - come si è formato il debito - ma scavare nel presente e, per i motivi spiegati prima, anche nel suo futuro. Cioè, portare alla luce come viene gestita la spesa pubblica nella sua dimensione operativa.

Per condurre un audit in questo modo bisognerebbe costituire in ogni città e in ogni ente un nucleo di persone disposte e interessate a rendere pubblico - senza violare per ora alcun obbligo di riservatezza - il modo in cui concretamente si formano le decisioni relative all'erogazione della spesa in cui il loro ufficio o il loro servizio è coinvolto; e di includere in questa disamina una rappresentanza dei cosiddetti stakeholder: gli utenti, siano essi pazienti, fruitori, soggetti di registrazione o controlli, o contribuenti; le imprese che accedono a qualche servizio o che ne sono fornitori; le altre branche, correlate, della pubblica amministrazione.

Chiunque abbia lavorato in o a contatto con organismi pubblici sa che tra le leggi che disciplinano una materia e la loro applicazione operativa c'è un'infinità di passaggi, alcuni normati in forma di regolamento, altri gestiti in modo discrezionale, alcuni del tutto inutili o facilmente semplificabili, e molti sottoposti ai condizionamenti sia di lobby legali che di attività illecite. In più, chiunque abbia lavorato in questo contesto sa che in certi ambiti una parte del personale è veramente superflua, perché l'organico risponde esclusivamente a una logica di potere della gerarchia; mentre in altri è decisamente insufficiente o insufficientemente qualificata; e che anche la mobilità interna potrebbe essere gestita molto meglio, e in modo non vessatorio, con il coinvolgimento non episodico e non condizionato sia di chi il lavoro lo svolge tutti i giorni che di chi ne fruisce o concorre al suo risultato come fornitore o utente.

Si tratta di portare tutto questo alla luce, connettendolo, mano a mano che l'analisi procede, al contesto della elaborazione macro sul debito sviluppata dagli economisti. Una riforma democratica della spesa pubblica e del debito non può prescindere da un'operazione del genere. Ma non può prescinderne nemmeno una vera riforma della pubblica amministrazione fondata sui principi della partecipazione. Quella spending review che Brunetta ha varato interpretandola come licenza di bastonare sadicamente i lavoratori e Tremonti come programma di "tagli lineari" a cui sottoporre in modo indiscriminato e devastante tanto gli organici della pubblica amministrazione quanto la dotazione di risorse gestita da ogni servizio, i lavoratori del pubblico impiego la potrebbero prendere nelle loro mani. Per farne la base tanto di una piattaforma rivendicativa per una riorganizzazione dal basso del loro lavoro, quanto di una informazione dirompente del modo in cui si forma giorno per giorno la spesa e giorno per giorno si accumula il debito. È una proposta irrealizzabile o è il complemento irrinunciabile di un programma di conversione ecologica?

Certe volte dimentichiamo che il pensiero di unirsi in una Federazione, nato come progetto non utopico ma concreto nell´ultima guerra in Europa, non ha come obiettivo la semplice tregua d´armi fra Stati che per secoli si sono combattuti seminando morte. È un progetto che va alle radici di quei nostri delitti collettivi che sono stati i totalitarismi, le guerre. Che scruta le ragioni per cui gli individui possono immiserirsi al punto di disperare, anelare a uno strabiliante Redentore terreno, immaginare la salvezza schiacciando i propri simili: i deboli, in genere. Dicono che i motivi che spinsero gli europei a unirsi, negli anni ´50, sono svaniti perché il compito è assolto: la guerra è oggi tra loro impensabile. Questo spiegherebbe come mai non esistono più statisti eroici come Monnet, De Gasperi, Adenauer: uomini marchiati dalla guerra di trent´anni della prima metà del ´900.

Chi parla in questo modo trascura quello sguardo scrutante che i fondatori gettarono sulla questione della miseria, e l´estrema sua attualità. Trascura, anche, quel che l‘Europa unita ha tentato di fare, per creare non solo istituzioni politiche ma sociali, economiche. Dai delitti del ‘900 siamo usciti, nel ‘46, con un patto di mutua assistenza fra cittadini.

È detto Welfare perché prese forma in Inghilterra grazie al piano concepito durante la guerra, su mandato del governo, da William Beveridge, uno dei fondatori della Federal Union: lo Stato del Benessere (meglio sarebbe dire Bene-Vivere: il bene dell´Essere è cosa più scabrosa) dà sicurezza non aleatoria all´indigente, l´escluso, l´anziano, il paria.

Per questo è una grave svista pensare che l´Europa abbia concluso la missione, e stia lì solo come arcigna guardiana dei conti in ordine. Esattamente come nel dopoguerra, sono richiesti Fondatori, Inventori: se la crisi odierna è una sorta di guerra, è urgente immaginare istituzioni durature perché i mali che stanno tornando (miseria, diseguaglianza) non trascinino ancora una volta le società in strapiombi di disperazione, risentimento, e quell´odio dell´altro che si disseta bramando capri espiatori (ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e in prospettiva anche i vecchi che "muoiono così tardi").

Abolire la miseria: così s´intitolava lo splendido libro che l´economista Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene, scrisse in carcere nel ‘42 e pubblicò nel ´46: "Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale". La sfida oggi è identica, e sono le pubbliche istituzioni nazionali e europee a doversi assumere il compito. Affidarlo a chiese o filantropi vuol dire regredire a tempi in cui solo la carità era il soccorso.

In molti paesi arabi sono gli estremismi musulmani a occuparsi del Welfare, confessionalizzandolo. Non è davvero il modello da imitare: gli Stati europei si sono sostituiti alle chiese fin dal ‘200, creando istituzioni laiche aperte a tutti. Anche l´Europa unitaria investe su organismi comuni perché – sono parole di Jean Monnet – "gli uomini sono necessari al cambiamento, ma le istituzioni servono a farlo vivere". E aggiunge, citando il filosofo svizzero Amiel: "L´esperienza d´ogni uomo ricomincia sempre; solo le istituzioni diventano più sagge: accumulano l´esperienza collettiva e da quest´esperienza e saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole vedranno cambiare non già la loro natura, ma trasformarsi gradualmente il loro comportamento". È laico anche questo: voler cambiare i comportamenti, non la natura dell´uomo.

È importante ricordare come nacque il Welfare, perché in Europa, Italia compresa, le campagne elettorali si svolgeranno su questi temi, e sul banco degli imputati ci sarà spesso la medicina stessa che dopo il ´45 ci somministrammo sia per abolire le guerre, sia per abolire la miseria. Non è improbabile, ad esempio, che le destre italiane – non ancora emendate – tramutino l´Europa in bersaglio: da essa verrebbero quelle regole che ci impoveriscono e commissariandoci, ci umiliano. L´attacco al governo Monti, quando s´inasprirà, sfocerà in attacco all´Unione. È già chiaro negli slogan leghisti. Lo è nell´offensiva di Berlusconi contro le tasse: cioè contro il tributo che ciascuno (specie i ricchi) deve versare per preservare la pubblica salute.

Rifondare oggi l´Europa concentrandosi sulla lotta alla miseria significa capire perché l´Unione ci chiede certi comportamenti, e al tempo stesso inventare istituzioni aggiuntive che diano sicurezza all´esercito, in aumento, di disoccupati e precari. Significa comprendere che la battaglia al debito pubblico non è una mania né una mannaia: è il patto generazionale che l´Unione ci chiede di stringere, visto che gli Stati da soli non l´hanno fatto per timore delle urne. Il Trattato di Maastricht impone di non caricare le generazioni future di debiti contratti dalla presente generazione per procurarsi dei beni senza pagare le relative imposte, scrive Alfonso Iozzo, economista e federalista europeo, in un saggio sulla re-invenzione del Welfare ("Il Federalista", 1/2010).

Val la pena leggerlo, questo saggio, che poggia sulle solide basi di studi fatti da James Meade, Nobel dell´economia, sui modi di garantire redditi minimi di cittadinanza all´intera società. Il presupposto è estinguere il debito degli Stati, e trasformarlo in credito pubblico: in un patrimonio che lo Stato preveggente tiene per sé, dedicandolo non alle spese correnti ma al finanziamento del Welfare, questo bene non solo sminuito ma spesso inviso. Iozzo è convinto, come il liberal Meade, che la ricchezza delle nazioni o dell´Europa (il Pil) vada calcolata con nuovi metodi (Meade chiamava il suo Stato Agathopia, il Buon posto in cui vivere). Il criterio non è più la differenza fra quel che costano i beni prodotti e il reddito ricavato. È il patrimonio di cui dispone lo Stato, è la sua gestione: l´obiettivo è sapere se alle generazioni future verrà lasciato un capitale maggiore o minore di quello che noi abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti. Le leggi di Maastricht applicano tale metodo, prescrivendo come primo passo l´estinzione del debito pubblico.

Resta da compiere il secondo passo: la trasformazione del debito in un credito che protegga i cittadini in tempi di crisi. Non tutti hanno come patrimonio il petrolio norvegese, ma Oslo è un modello e ogni Stato ha l´acqua, l´aria, possibilmente nuove forme di energia: altrettanti beni pubblici consumati dall´individuo. Poiché petrolio e gas prima o poi finiranno, la Norvegia ha istituito con i ricavi energetici un Fondo pensione sottratto all´azzardo dei mercati. Solo il 4% del Fondo può essere annualmente usato per la spesa pubblica, lasciando ai cittadini un capitale a disposizione per il futuro, quando il patrimonio sarà esaurito (ogni norvegese è proprietario virtuale attraverso il Fondo di circa 100.000 euro, contro una quota del debito pubblico a carico di ogni italiano di 30.000 euro).

Avendo combattuto i debiti pubblici, l´Europa potrebbe escogitare iniziative simili, inducendo gli Stati a garantire nuova sicurezza sociale. Non solo; potrebbe far capire che nei costi vanno ormai incluse l´acqua sperperata, l´aria inquinata: beni non rinnovabili come il petrolio norvegese. Si parla molto di far ripartire la crescita. Ma essa non potrà esser quella di ieri, e questa verità va detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o Sudamerica; e perché la nostra crescita sarà d´avanguardia solo se ecologicamente sostenibile.

Di qui l´importanza delle prossime elezioni: non solo quelle nazionali, ma quelle del Parlamento europeo nel 2014. Chi griderà contro le tasse e contro l´Europa troppo patrigna e severa promette un paese dei balocchi, dove è sempre domenica e sempre truffa. Meglio saperlo prima, che troppo tardi. Meglio ricominciare l´eroismo, di cui non cessa il bisogno.

G8, Italia 150, Mondiali nuoto: i numeri dell'assalto. Un caso emblematico di fondi pubblici deviati in tasche private. Con i soldi sperperati si sarebbe potuto mettere in sicurezza il patrimonio archeologico di Pompei. Nelle inchieste sul sistema Anemone-Balducci-Bertolaso radiografati trentatrè appalti. L'onere per lo Stato aumenta da 574 a 834 milioni: neanche a Tangentopoli "dazio" così pesante

I cantieri per i mondiali di

Capita che di una storia di corruzione diventata insieme metafora e immagine del Paese, si finiscano con il ricordare solo le facce, i nomi, l'avidità dei protagonisti. O, piuttosto, i massaggi in un centro benessere 1, la spregiudicatezza di un frate missionario ridotto a bancomat 2, l'oscena risata di un costruttore sciacallo 3 che si compiace per il terremoto de l'Aquila, il patrimonio immobiliare di una potente congregazione vaticana 4, "Propaganda Fide", usato come leva per comprare la compiacenza di funzionari pubblici.

Capita insomma che si elidano i numeri. E, dunque, si cancelli il danno e la sua macroscopica misura. E' successo con il lavoro delle procure di Firenze, Perugia, Roma, con le indagini del Ros dei carabinieri sul "Sistema gelatinoso" Anemone-Balducci-Bertolaso, sul potere di spesa senza fondo di una Protezione Civile ridotta a spa del consenso, su un ministro "distratto" e il suo mezzanino al Colosseo.

Nelle carte di quelle inchieste - oggi a processo in tre città diverse - è documentato quale "ricarico" le prassi corrotte di quel sistema di relazioni hanno accollato alle nostre tasche. Su 33 Grandi Opere oggetto di indagine nel triennio 2007-2010 (mondiali di nuoto di Roma, G8 alla Maddalena, 150 anni dell'Unità d'Italia), il maggior costo sostenuto dalle casse pubbliche è stato di 259 milioni, 895 mila 849 euro. Oltre il 40 per cento dell'importo iniziale con cui i lavori furono aggiudicati.

Un salasso che ha fatto schizzare il costo complessivo di quelle opere da 574 a 834 milioni di euro. Per avere un'idea, con quel denaro succhiato dal "Sistema gelatinoso" (259 milioni) oggi - come documentano le richieste sin qui ritenute "irricevibili" da un bilancio pubblico allo stremo - sarebbe possibile realizzare la messa in sicurezza di un patrimonio archeologico dell'umanità come Pompei o la costruzione di ospedali nell'Abruzzo del dopo-terremoto.

I numeri che illustrano il dettaglio dei singoli appalti segnalano la scientificità nel calcolo del "ricarico" imposto dal "Sistema", ma anche la crescita esponenziale di quella percentuale. Nell'Italia corrotta scoperchiata da Tangentopoli, il "dazio" sulle grandi opere oscillava tra il 10 e il 20 per cento. In quindici anni, è raddoppiato. Anche perché la "catena alimentare" che deve sfamare si è allungata. Politici, funzionari pubblici, professionisti.

LE PISCINE DI ROMA

Ribasso record per vincere l'asta

il trucco dello "sciacallo" dell'Aquila

Se il G8 della Maddalena è l'applicazione compiuta di uno "schema" corruttivo, i Mondiali di nuoto di Roma del 2009 ne sono la prova generale (è iniziato il processo di primo grado nell'aprile di quest'anno). Il ricorso alla procedure di urgenza non solo consentono di aggirare i vincoli urbanistici, ma trasformano l'Evento in un assalto alla diligenza della spesa pubblica.

Non c'è Comune della provincia di Roma che non reclami un posto al sole che lo trasformi in "Polo natatorio". E non c'è piastrella di piscina o gettata di calcestruzzo che non costi al contribuente almeno un trenta per cento in più del costo di aggiudicazione.

Tra gli imprenditori imbarcati dal "Sistema", c'è Francesco Maria De Vito Piscicelli. Si aggiudica la progettazione e realizzazione della piscina olimpionica di Valco San Paolo. Un appalto da 8 milioni e 800 mila euro che vince con un formidabile ribasso d'asta (16,5 per cento), da cui "rientra" a neppure un anno di distanza dalla gara con un "atto aggiuntivo" che fissa l'importo dell'opera in 12 milioni e 900 mila euro.

La piscina di Valco San Paolo rischierà di crollare per il modo con cui è stata realizzata. Piscicelli resterà saldo nel "Sistema". La notte del terremoto dell'Aquila è lui lo "sciacallo" che ride con il cognato, sognando il banchetto della ricostruzione.

I CANTIERI DEI 150 ANNI

Gare vinte senza progetti esecutivi

dopo le "aggiunte" i prezzi salgono

La regola, da sempre, è una sola. La conosce chi l'appalto lo affida e chi l'appalto lo vince. E non importa dove si costruisce e chi costruisce. La regola vuole che lo scarto tra il valore di affidamento e il costo finale di realizzazione di una grande opera pubblica non scenda mai sotto il 40 per cento. E il trucco perché le carte stiano a posto è semplice, come dimostrano i numeri dei cantieri dei 150 anni dell'Unità d'Italia.

La gara viene affidata senza che dell'opera esista un progetto esecutivo. Un po' come comprare dal concessionario una macchina di cui si conosce il bozzetto, il numero di posti e la cilindrata del motore, ma di cui si ignorano i costi industriali di produzione, destinati a variare. Non c'è appalto pubblico - come è evidente dalla tabella - che, a distanza di pochi mesi della sua aggiudicazione, non conosca un "atto aggiuntivo" in cui il committente (lo Stato) "scopre" che, alla luce del "progetto esecutivo" redatto da chi l'appalto lo ha vinto, il costo si deve "necessariamente" discostare dal valore dell'aggiudicazione.

E' nella differenza di costo - come hanno documentato le indagini - che viene normalmente creata la "provvista" della corruzione. Un segreto di Pulcinella cui, ad oggi, nessun Parlamento ha ritenuto di dover mettere mano con una semplice norma. Aggiudicare le gare con progetto già esecutivo che sottragga al costruttore la libertà di aggiustare il valore della commessa.

IL VILLAGGIO DEL G8

Da 52 a 105 milioni in un anno

per il palazzo rimasto inutilizzato

L'isola della Maddalena e le sue opere per un G8 che non ha mai ospitato, sono e resteranno il monumento alla rapacità di un "Sistema" che si muoveva protetto dalle "procedure semplificate e di urgenza" che la legge riconosce agli interventi della Protezione Civile. Assimilato ad una "calamità naturale", un Grande Evento di cui pure si conosceva la data da nove anni, diventa una corsa contro il tempo che divora oltre 125 milioni di euro in "costi aggiuntivi".

I 284 milioni di opere messi a bilancio al momento dell'affidamento degli appalti si gonfiano fino a superare i 410 milioni. Nessuno, ad esempio, chiede cosa diavolo accada nel quarto lotto del cantiere in cui si lavora alla "realizzazione del palazzo conferenza e dell'area delegati". L'appalto è stato aggiudicato l'11 luglio del 2008 con un ribasso d'asta del 5,9 per cento per 52 milioni di euro.

Una cifra che, a distanza di neppure un anno, tra il giugno e il settembre del 2009, raddoppia, passando a 105 milioni di euro. Tanta distrazione ha una risposta nel nome del costruttore che quell'appalto si è aggiudicato: Diego Anemone, la "tasca" del "Sistema". L'imprenditore da cui prende ordini Angelo Balducci, la più alta autorità amministrativa in materia di appalti pubblici. Quello che compra "a insaputa" di chi lo andrà ad abitare, Claudio Scajola, il mezzanino del Colosseo.

Nel maxiemendamento alla legge di stabilità c'è un cavallo di Troia che rischia di devastare ulteriormente il territorio e il paesaggio italiano. La denuncia arriva dal leader dei Verdi, Angelo Bonelli. L'articolo 4 dà infatti la possibilità di cambiare la destinazione d'uso alle aree agricole di proprietà del demanio che saranno messe in vendita. Spiega Bonelli che, in questo modo, «i terreni agricoli dismessi per ridurre il debito pubblico, potranno essere variati urbanisticamente dopo soli 5 anni diventando, così, facile preda della speculazione edilizia e della cementificazione selvaggia».

Uno schiaffo doppio, secondo Bonelli: «Con la scusa di aggredire il debito pubblico, non solo si dà un colpo mortale a un settore già in crisi come quello agricolo, rendendo i terreni dismessi appetibili più per la speculazione del cemento che non per la coltivazione; e si continua l'assalto selvaggio a un territorio che ha già mille ferite e in cui ogni settimana si muore a causa del dissesto idrogeologico».

Il rischio speculazione viene messo in conto dal governo. Dice infatti la legge che «nell'eventualità di incremento di valore dei terreni alienati derivante da cambi di destinazione urbanistica intervenuti nel corso del quinquiennio successivo all'alienazione medesima, è riconosciuta allo stato una quota pari al 75% del maggior valore acquisito dal terreno rispetto al prezzo di vendita». Secondo la Coldiretti si tratta di 338mila ettari di terreni agricoli per un valore stimato di 6 miliardi di euro.

ROMA - Il presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, dà le pagelle alla lotta alla corruzione. «In Italia è sotto la sufficienza, dobbiamo rafforzare il falso in bilancio». Nell´intervista per la quarta puntata dell´inchiesta sulla corruzione in Italia, Giampaolino dichiara che è stato un grave errore non aver ratificato le convenzioni approvate da Onu e Ue. Il magistrato sostiene inoltre che il disegno di legge anti-corruzione è in ritardo ma soprattutto inadeguato.

ROMA - L´Italia, nella lotta alla corruzione, che «inquina e distrugge il mercato, non arriva alla sufficienza». È drastico il giudizio di Luigi Giampaolino, dal luglio 2010 presidente della Corte dei conti. Che non vede, innanzitutto, «un vero, reale, profondo, sostanziale rivolgimento morale» rispetto alla «mala amministrazione».

La sua esperienza al vertice della Corte, ma prima ancora all´Authority dei Lavori pubblici, la rende un testimone prezioso sul fronte della corruzione. Se oggi dovesse dare un voto all´Italia sulla lotta al fenomeno quanto le darebbe?

«Meno della sufficienza, perché si è proseguito sostanzialmente con un´azione, peraltro episodica, soltanto repressiva. La lotta alla corruzione dev´essere invece di sistema. Essa deve iniziare dalla selezione qualitativa e di merito degli operatori, sia pubblici che privati. Proseguire con il controllo e la vigilanza sul loro operato. Concludersi valutando i risultati. Tutto ciò che fuoriesce da questo schema genera mal´amministrazione e corruzione: anzi, è esso stesso mal´amministrazione e corruzione».

In questi anni cos´è successo? La corruzione è aumentata, è diminuita, è rimasta stabile?

«É una domanda alla quale non si può rispondere, con apprezzabile precisione in via quantitativa. L´impressione è che sia rimasta stabile, soprattutto perché non si avverte un reale, profondo, sostanziale rivolgimento morale; l´onestà, in ogni rapporto anche privato; la valenza del merito; l´etica pubblica; il rispetto del denaro pubblico e di tutte le risorse pubbliche, che sono i beni coattivamente sottratti ai privati e dei quali si deve dar conto».

Ha avvertito nella pubblica amministrazione e nelle imprese da una parte, nei governi dall´altra, un cambio di sensibilità?

«La pubblica amministrazione, anche a seguito della crisi economica, sembra che miri ad avere maggiore consapevolezza della situazione di privilegio in cui talvolta si trova. Quanto alle sue funzioni, ancora non si è realizzata una più rigorosa selezione nella provvista e la garanzia di vagliate e consolidate professionalità, che sono tra i primi antidoti contro la corruzione nei pubblici apparati. Le imprese sembrano avere maggiore consapevolezza della portata disastrosa della corruzione per l´economia in generale, e di conseguenza per esse stesse. Non va dimenticato che la corruzione fa prevalere quelle peggiori, inquina la concorrenza, peggiora, se non distrugge, il mercato».

Gli articoli che puniscono corruzione e concussione, ma anche il falso in bilancio e i reati connessi, sono adeguati o andrebbero rivisitati?

«Andrebbero rivisitati, avendo a parametri non tanto il bene e il prestigio della pubblica amministrazione, ma i valori costituzionali, in particolare gli articoli 97 (buona amministrazione, ndr.) e 41 (libertà d´impresa, ndr.). Indicazioni giunte, per la verità, dalla stessa dottrina penalistica fin dagli anni ‘70, ma rimaste per buona parte inattuate nella riforma dei reati della pubblica amministrazione. In particolare, la fattispecie del falso in bilancio andrebbe ripristinata in tutta la sua portata di tutela di beni fondamentali dell´economia e di sanzioni di comportamenti che ledono».

Dall´Europa viene spesso la raccomandazione a modificare la prescrizione, i cui termini sono troppo stretti per perseguire reati complessi e "nascosti" come la corruzione. Lo trova un allarme necessario?

«É senza dubbio giusto».

La Ue e l´Onu hanno approvato convenzioni internazionali che l´Italia tarda a ratificare. Se ne può fare a meno?

«É un grave errore, soprattutto perché da lì arrivano modelli vincenti di lotta alla corruzione. Non misure solo repressive, ma accorgimenti organizzativi delle strutture pubbliche e delle imprese private, come nel caso del decreto legislativo 231 del 2007 sulla responsabilità amministrativa delle imprese, emanato proprio per attuare una convenzione internazionale. Ma è soprattutto con i rimedi organizzativi interni alla pubblica amministrazione che occorre agire. Ciò che, per la verità, già in parte persegue il disegno di legge sull´anticorruzione, ora in discussione alla Camera».

Non trova anomalo che quel ddl, dopo due anni, non sia stato ancora approvato?

«Senza dubbio è un ritardo da lamentare e in più di un´occasione, nelle mie audizioni in Parlamento, me ne sono lamentato».

Il contenuto della legge è sufficiente?

«Non lo ritengo tale nell´ultima versione frutto dei lavori in commissione. Occorre una rigenerazione fondata sul merito e sulla professionalità delle pubbliche amministrazioni. Serve un´effettiva, indefettibile, concorrenza, nel mercato. Ci vogliono una generale trasparenza, un´estesa dotazione di banche dati, una seria vigilanza ed efficaci controlli».

Il neo ministro della Giustizia Paola Severino propone di introdurre la corruzione tra privati all´interno dell´impresa. Utile o superfluo, visto che le leggi già esistenti vengono aggirate?

«Sono d´accordo col Guardasigilli, dal momento che le imprese devono essere chiamate, con le loro responsabilità, a ovviare ai grandi fenomeni corruttivi».

Che ne pensa dell´Authority anticorruzione proposta da Francesco Greco?

«Dovrebbe essere oggetto di attenta meditazione. Le Autorità, per essere efficaci, hanno bisogno di una riflessione ordinamentale e di efficaci poteri d´intervento e di sanzioni. La corruzione è un male che pervade tutto il sistema e quindi, solo con il concorso di tutte le Istituzioni, può essere combattuta».

Fu negativo abolire l´Alto commissariato? Serviva, o era solo un carrozzone?

«Vorrei astenermi dall´esprimere un giudizio sulla sua utilità. C´è, innanzitutto, la pubblica amministrazione che deve essere richiamata ai suoi alti compiti e alla sua vera essenza. C´è la Corte dei conti, nella sua struttura centrale e in quella ramificata in ogni Regione, che deve essere modernizzata e potenziata. C´è il giudice penale, con le sue estreme sanzioni che avrebbero bisogno, però, di un processo che le rendesse realmente efficaci».

Un ultimo quesito. L´Italia affronta un drastica manovra economica. Era necessario inserirci un duro capitolo sull´evasione fiscale?

«La manovra, in tutte e tre le scansioni succedutesi quest´anno, è molto fondata sulle entrate e su un rilevante aumento della pressione fiscale. La lotta all´evasione rientra in una tale strategia, anche se non va dimenticato che quanto più viene elevata la pressione fiscale, tanto più vi è pericolo d´evasione. É necessario pertanto spostare l´attenzione anche su altri fattori della struttura economica. Il problema strutturale rimane quello della spesa pubblica e di una riduzione qualitativa della stessa. Una "dura" lotta all´evasione fiscale presuppone sempre, come contro partita, una severa attenzione su come si spendono i soldi pubblici e la certezza che vi sia un´eguale osservanza di tutti gli altri obblighi costituzionali che contornano, se non addirittura sono il presupposto, di quello previsto dall´articolo 53 della Costituzione, l´obbligo per tutti di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva».

Cuneese di nascita e montanaro di natura, in montagna era salito subito per dar vita alla Banda Italia Libera, la prima formazione inquadrata nelle file di Giustizia e libertà. Partigiano e giornalista. Negli ultimi tempi, poi, «giornalista partigiano» tout court, in lotta aperta contro un revisionismo storico che marciava di conserva con il degrado morale e politico del Paese. Con Giorgio Bocca se ne va uno degli ultimi testimoni partecipanti di quella stagione alta della nostra vicenda nazionale da cui era uscita, selezionata nel clima rarefatto della montagna, una generazione di italiani diversi, segnati da un marchio indelebile, che avevano trasferito nella propria professione e nel proprio stile di essere cittadini quel loro modo «giusto» di essere stati nella Storia.

Giorgio, cuneese di nascita e montanaro di natura, in montagna c'era salito subito, d'istinto, il 12 settembre del 1943 quando, con un piccolo gruppo di ufficiali degli alpini di fresca nomina aveva raggiunto Frise, una piccola frazione sui contrafforti della Valle Grana, a un'ora di cammino da un'altra borgata abbandonata, Paraloup, dove negli stessi giorni si stava insediando il gruppo guidato da Duccio Galimberti e Livio Bianco. Nacque allora la Banda Italia Libera, la prima formazione partigiana italiana inquadrata nelle file di «Giustizia e Libertà». E da combattente «GL» Bocca si farà tutti i venti mesi di quella guerra spietata, due inverni durissimi e un'estate feroce, di rastrellamenti, di fame e di marce estenuanti: il suo personale e collettivo «romanzo di formazione». Appartiene dunque a quella «classe di leva» - la stessa di mio padre, la cosiddetta «gioventù del littorio» - per la quale la tragedia della guerra segna uno spartiacque radicale, che spezza la biografia, e nella sconvolgente presa di coscienza della vera natura del fascismo ne interrompe irrimediabilmente il filo di continuità - sociale, culturale e famigliare -, dividendo la vita in un «prima» e in un «dopo» inconfrontabili. Producendo in senso proprio un «nuovo inizio», che volenti o nolenti sarà per tutti quelli che erano passati per quell'esperienza un carattere impegnativo anche quando, deposte le armi, dovranno reinventarsi una «vita civile».

Per Bocca quel congedo significherà la diaspora, il passaggio dalla periferia piemontese alla «capitale» Torino, apprendista alla «Stampa», e poi a Milano, al «Giorno» di Italo Pietra. Ma il tono un po' ringhioso del «provinciale» e l'aria ribelle della montagna non l'abbandoneranno mai. Si porterà sempre dietro il tratto rustico, talvolta scostante, l'approccio rude al reale, persino cinico in qualche aspetto, e insieme il senso di appartenere comunque, per vicenda biografica e per etica acquisita, a un'«altra Italia», diversa da quella prevalente, servile, unanimista e conformista. Un «anti-italiano», nell'Italia che dopo la stagione dei fucili si accomodava, compiacente, nei propri antichi vizi.

Non amava i comunisti: li temeva per la brutalità e la spregiudicatezza dell'ideologia, li criticava per l'eccesso di tatticismo e disponibilità al compromesso (il libro su Togliatti è un testo dichiaratamente impietoso). Ma sapeva benissimo, per averli avuto a fianco nel momento del combattimento, che erano abissalmente diversi e infinitamente migliori di qualsiasi fascista (fosse anche uno in «buona fede»), e a quel giudizio si atterrà sempre, anche dopo la «caduta del muro». Conosceva perfettamente la condizione operaia, per aver bivaccato infinite notti a fianco dei giovani lavoratori arrivati in montagna dalla periferia torinese. Ma non nascondeva il fascino esercitato su di lui dalle promesse del neo-capitalismo, oggetto di una sua pionieristica inchiesta sui Giovani leoni della nuova industria italiana negli anni del miracolo economico.

Era un esploratore per vocazione e per naturale inclinazione, ciò che ne faceva, insieme alla scrittura asciutta ed essenziale da vecchio Piemonte, il grande giornalista che è stato, capace di scandagliare i caratteri dei propri interlocutori, ma soprattutto curioso fino all'estremo di tutto ciò che si muove negli interstizi del sociale, siano gli scostamenti nel costume o i segni dell'innovazione, le nuove forme della produzione o i processi sommersi del conflitto. Buona parte dei suoi 61 volumi - dal primo, Partigiani della montagna, pubblicato da un piccolo editore cuneese già nel '45, all'ultimo, Grazie no, d'imminente pubblicazione da Feltrinelli - testimonia di questo furioso bisogno di «vedere», sia che si tratti de La scoperta dell'Italia trasformata dal boom dei primi anni Sessanta (Laterza 1963) o dell'incipiente malessere della seconda metà degli anni Settanta (L'Italia l'è malada, L'Espresso 1977), del primo emergere di un razzismo fino ad allora sconosciuto (Gli italiani sono razzisti? , Garzanti 1986) o dello spaesamento del dopo-Tangentopoli (Il viaggiatore spaesato, Mondadori 1996)... Testi a volte discutibili, e aspramente discussi (penso al reportage dal Sud, visto con l'occhio del Nord), ma tutti frutto di un lavoro diretto di scavo. E di una volontà di capire che faceva in qualche modo da contraltare (e da compensazione) alla coriacea tendenza a non vedere e non capire della stragrande maggioranza della classe politica.

Era anche un giornalista «fedele». Al di sotto della scorza burbera e scostante, nutriva fedeltà profonde, come dimostra il suo rapporto con «Repubblica», iniziato fin dalla fondazione e mai «tradito». O il suo ritornare, ciclico, alla Resistenza, come alla terra delle origini, mai dimenticata. Si spiega così, con questo intreccio tra fedeltà e curiosità, tra continuità e innovazione, il pessimismo - sacrosanto - degli ultimi titoli: Voglio scendere! (1998), Il secolo sbagliato , (1999) Pandemonio. Il miraggio della new economy (2000), Il dio denaro. Ricchezza per pochi, povertà per molti (2001), Piccolo Cesare (2002), Basso impero (2003), Annus Horribilis (2010)...

Il fatto è che per il partigiano Bocca - come per tanta parte dei suoi antichi compagni del Partito d'Azione, come per Bobbio, come per Galante Garrone, come per Leo Valiani - questa Italia, l'Italia della fine del Novecento e del nuovo secolo - era diventata insopportabile.

Dal berlusconismo lo separava un'antitesi di stile, prima che politica. Nutriva per Berlusconi un'avversione di pelle, istintiva. Morale e umorale. In lui, l'antitaliano Bocca vedeva la sintesi dei peggiori vizi degli italiani (la "sintesi di tutte le nostre antitesi", avrebbe detto Piero Gobetti): quelli che ci erano costati la vergogna del fascismo e la tragedia di una guerra perduta. Per questo la sua parola ci mancherà, enormemente, in questa difficile transizione.

Nei giorni scorsi le associazioni Wwf, Legambiente, Italia Nostra, Man e Fai hanno chiesto che «il governo rigetti il progetto definitivo del ponte sullo Stretto di Messina, redatto dalla Stretto di Messina SpA (Concessionaria interamente pubblica) e da Eurolink (General Contractor, con a capofila Impregilo), che costa 66 milioni di euro di fondi pubblici». I costi del progetto definitivo - in ogni caso non esecutivo rispetto ad eventuali lavori - porterebbero le spese fin qui sostenute per l'eterna progettazione del Ponte ad oltre mezzo miliardo di euro (la società ammette 290 milioni già spesi, ma ha dimenticato e cancellato dal bilancio gli oltre 320 miliardi di vecchie lire - circa 170 mln di euro - spesi tra il 1971 e il 1989, prima dal comitato promotore e quindi dalla stessa società, come ammesso da ex dirigenti della stessa).

Gli ambientalisti sottolineano che respingere ora il progetto - come appare doveroso viste le clamorose carenze e inadempienze dello stesso, evidenziate nelle quasi 250 pagine di Osservazioni redatte da una trentina di esperti e studiosi - significherebbe evitare, a termini di contratto, oltre che ulteriori esborsi di fondi pubblici (paradossali in questo momento), anche il pagamento di qualsiasi penale.

Il Ponte - come è noto - è stato escluso lo scorso ottobre dai progetti finanziabili dall'Ue nell'ambito delle costruzioni delle reti infrastrutturali prioritarie ed ha subito la cancellazione delle risorse già programmate per il progetto già con gli ultimi decreti Tremonti. Questo nonostante il governo precedente fosse assolutamente pontista e giustificasse i suoi ultimi provvedimenti con il mantra «il Ponte lo realizzeranno i privati» (laddove un project financing di quasi 9 miliardi di euro è improbabile anche come barzelletta).

Gli ambientalisti chiedono la bocciatura definitiva del progetto e, insieme a tutto il centrosinistra, alla Lega e a molti parlamentari di centro e anche di destra, lo scioglimento della società del Ponte in quanto «negli elaborati prodotti da Sdm SpA ed Eurolink il progetto manca di un quadro di dettaglio di opere connesse essenziali (quali la stazione di Messina e i raccordi ferroviari lato-Calabria), non viene presentato il Piano Economico Finanziario, non viene prodotta un'analisi costi-benefici che giustifichi l'utilità dell'intervento, non è svolta una corretta Valutazione di impatto ambientale e non viene presentata la Valutazione di incidenza richiesta dalla Comunità Europea alla luce delle modifiche compiute, oltre che nelle opere connesse, sulla stessa struttura del ponte tra il progetto preliminare e quello definitivo, non si prendono in considerazione correttamente i vincoli paesaggistici e quelli idrogeologici».

Nella nota diffusa dall'ufficio stampa del Wwf sono contenuti alcuni dettagli delle Osservazioni critiche al progetto. «La procedura di Via speciale per le infrastrutture strategiche, a giudizio degli ambientalisti, non è stata rispettata perché: non viene considerato l'impatto dell'opera ponte che nella progettazione ha subito modifiche sostanziali; alcune delle opere connesse quale l'importantissima nuova stazione di Messina o il collegamento con la prevista linea ferroviaria ad Alta Velocità Salerno-Reggio Calabria sono a malapena alla fase di studio di fattibilità e non di progetto definitivo; non è stata prodotta una Valutazione di incidenza (nel rispetto della Direttiva comunitaria Habitat e delle norme nazionali)... Non è stato prodotto il Piano Economico Finanziario, per stessa ammissione della Sdm SpA che ha inviato una lettera l'8 novembre scorso in risposta ad una richiesta degli ambientalisti per un'opera che costerebbe 8,5 mld, pari a mezzo punto di Pil, a fronte di una progressiva contrazione della mobilità nell'area dello Stretto di Messina, documentata dagli stessi progettisti. Anche la descrizione della cantierizzazione (che costruirebbe un pesantissimo vincolo sul territorio con i suoi 17 cantieri operativi e i 9 siti di deposito dove saranno sistemati in via definitiva i materiali) è estremamente lacunosa e costituisce una vera e propria beffa per il delicatissimo assetto idrogeologico delle due aree costiere e montane dello Stretto di Messina.... come segnalato per la Sicilia nel parere reso dal Genio Civile di Messina».

Infine, le stesse descrizioni delle componenti geo-sismo-tettoniche, in una delle aree a più elevato rischio del Mediterraneo, sono molto carenti, come dimostra il caso della "faglia scomparsa". Le associazioni e il movimento No Ponte chiedono a questo punto l'azzeramento ufficiale del progetto, delle procedure e dei responsabili gestionali. Viceversa, un accantonamento sostanziale ma non istituzionalizzato comporterebbe - come già avvenuto con il governo Prodi - la prosecuzione delle "spese di struttura" (900 mila euro annui solo per la sede, oltre ad una ventina di stipendi per «tecnici e dirigenti esperti») oltre che la prosecuzione dell'attività di lobbying e di clientela, in attesa di esecutivi nuovamente favorevoli. Il timore è che la presenza nel governo del viceministro Ciaccia, noto pontista e sostenitore delle Grandi opere, porti a esiti simili. L'interessato, come lo stesso ministro Passera, sostiene che, dato il suo ruolo governativo, «oggi la situazione è completamente cambiata». Si vedrà dai fatti.

“Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati...” Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l'analisi che si scambiavano come un testimone che l'uno affidava all'altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi.

Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.

Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto. Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.

Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.

E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque.

A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d'eroismo, l'unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d'orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell'incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi".

Pompei, piano piano, scivola via. Ogni crollo fa notizia: ma dov’è la notizia? La fragilissima Pompei è solo la punta dell’iceberg del patrimonio storico e artistico italiano: un iceberg che si scioglie ogni giorno sotto gli occhi di tutti, ma nel disinteresse generale.

Come per tenere aperte le scuole e far funzionare gli ospedali, anche per mantenere il patrimonio ci vogliono soldi. Se lo Stato rinuncia a stanziare quei soldi cessa di essere Stato. Eppure, negli ultimi anni si è fatto esattamente il contrario. «Pompei resta una priorità per il Ministero dei Beni Culturali», ha dichiarato domenica scorsa il ministro, Lorenzo Ornaghi. Ed è la scelta del verbo, che preoccupa: quando lo è stata, signor ministro? Il mitico Sandro Bondi permise a Giulio Tremonti di sottrarre un miliardo e trecento milioni di euro al bilancio del Ministero. E quando Salvatore Settis scrisse che perdere quei fondi significava condannare a morte il patrimonio, per tutta risposta Bondi lo costrinse a dimettersi dalla presidenza del Consiglio superiore dei Beni culturali. E nominò un altro archeologo, ma assai meno spigoloso: Andrea Carandini, tuttora felicemente pontificante.

Per Pompei, in particolare, Bondi ebbe l’idea di esautorare la soprintendenza (cioè la competenza) per nominare un commissario straordinario proveniente dalla Protezione civile di Guido Bertolaso. Col risultato che la tutela e la manutenzione ordinaria sono state completamente trascurate a favore di un rilancio d’immagine attraverso un serrato marketing di ‘eventi’ e campagne mediatiche, culminato nella cementificazione del Teatro Grande. Fu il clamoroso crollo della schola armatorum, avvenuto il 6 novembre 2010, a sancire la fine dell’esperimento, nonché la fine sostanziale dello stesso ministro Bondi.

Del resto, quando si parla di patrimonio culturale, la competenza è notoriamente un optional. E non lo pensava solo Bondi, ne è convinto anche Mario Monti: l’unico ministro non ‘tecnico’ è infatti proprio quello dei Beni Culturali. È stato naturale mettere un prefetto agli Interni, un diplomatico agli Esteri, un avvocato alla Giustizia e un ammiraglio alla Difesa: ma la tutela del patrimonio storico e artistico della nazione non è stata affidata ad uno storico dell’arte, o ad un archeologo, bensì ad uno scienziato della politica. Il quale, peraltro, non pensa neanche a dimettersi dalla carica di rettore dell’Università cattolica: tanto crede nella durata e nell’importanza del suo attuale compito.

E così la salvezza di Pompei non è affidata a un progetto, ad una visione, ad un vero cambio di passo. Si aspetta il deus ex machina di finanziamenti straordinari e colossali che arrivino dall’estero (l’Unione europea, gli imprenditori francesi) come la cavalleria in soccorso degli assediati. Senza troppo parlare degli interessi inevitabilmente collegati a questi fiumi di soldi: da quelli del cemento (che rischia di strangolare definitivamente gli scavi), a quelli della Camorra. Salvare una città antica ritornata alla luce e oggi senza né tetti, né fogne è una sfida tecnica e culturale appassionante. Se avessimo la capacità di fare sistema e avviare una vera ricerca, la messa in sicurezza di Pompei potrebbe essere la nostra ‘corsa alla Luna’. E invece, in Italia, quando si dice ‘economia dei beni culturali’ si intende il merchandising, il marketing delle pubbliche relazioni, il circuito parassitario e clientelare dei ‘servizi aggiuntivi’ dei musei.

E pazienza se, nel frattempo, Pompei scivola via.

I lavoratori di Wagon Lits licenziati accusano le ferrovie: "Per mesi hanno tolto la possibilità di prenotare i posti online per le cuccette, così da poter sbandierare dati sullo scarso utilizzo del servizio". Il responsabile trasporti di Legambiente parla di "strategia che condanna a costi elevati passeggeri e contribuenti, soprattutto i pendolari". Marco Ponti: "Moretti punta a fare profitti con un servizio che rende. Mentre per tutto il resto conta sui contributi statali"

I tre lavoratori della ex Wagon Lits che da due settimane occupano una torre al binario 21 della Stazione Centrale di Milano non demordono. L’impegno di Ferrovie dello Stato al ricollocamento non li convince: “Siamo stati boicottati”. Oltre al lavoro, chiedono il ripristino delle linee notturne sulle quali operavano. Ma nei piani dell’ad di Trenitalia Mauro Moretti le priorità sono altre. L’Alta Velocità drena gran parte delle risorse e i Frecciarossa invadono ogni tratta. Una strategia che frena la concorrenza e condanna a costi elevati passeggeri e contribuenti. E tra i colpevoli, ancora una volta, c’è la politica.

“Ferrovie dello Stato assume fin d’ora l’impegno di garantire, entro i prossimi 24 mesi, la progressiva ricollocazione mediante appalto di attività”. E’ questa l’offerta di Ferrovie ai lavoratori della Servirail Italia ex Wagon Lits, che a Milano come a Roma protestano contro la dismissione del servizio notturno e il licenziamento di 800 lavoratori. Un’offerta che però non convince. “Perché non si dice nulla del ripristino dei treni notte, che il gruppo ha soppresso per intralciare Montezemolo e Della Valle sull’Alta velocità”, accusa Angelo Mazzeo, che a Milano presidia il binario 21 dove tre suoi colleghi occupano la torre faro. Secondo i licenziati della Servirail, molte delle tratte orarie cancellate vengono sostituite dai Frecciarossa, “così la Ntv di Montezemolo e soci non avrà spazi”. Trenitalia parla di razionalizzazione di un servizio dove la domanda era ormai in calo, ma al binario 21 vedono le cose diversamente. Denunciano manipolazioni nei database che gestiscono le prenotazioni, già dal 2008: “Era impossibile prenotare online, i posti risultavano tutti pieni. Ma sul treno il posto c’era eccome, e i controllori non applicavano maggiorazioni a chi voleva fare il biglietto a bordo perché sapevano bene come stavano le cose”. E c’è dell’altro: “La manutenzione era ai minimi, così da degradare la qualità del servizio e allontanare gli utenti”. Una strategia vincente? Pare di no. Gli ex dipendenti mostrano i dati di alcune linee notturne. E i numeri del 2010 sono addirittura in crescita rispetto a quelli del 2009. “Altrimenti i pullman che partono dalla Stazione Centrale per il Sud Italia non sarebbero così pieni”, fanno notare. Per le feste di Natale, infatti, i posti sono esauriti da settimane.

“Le compagnie aeree low cost hanno reso i treni Nord-Sud meno strategici. Ma toglierli tutti è assurdo.” La pensa così Dario Balotta, responsabile trasporti per Legambiente in Lombardia, che ricorda come Ferrovie dello Stato sia responsabile anche del servizio universale, per il quale lo Stato versa ogni anno miliardi di euro a sussidio delle tratte che i ricavi dei biglietti non coprono del tutto. “Moretti non può puntare tutto sull’Alta velocità”, sostiene Balotta, “che copre appena 685 chilometri su una rete nazionale che ne conta più di sedicimila”. A confermare che la direzione intrapresa dall’ad di Trenitalia è sbagliata, ci sono i dati degli ultimi dieci anni. Balotta spiega che a fronte di una crescita del servizio Alta velocità del 111%, e della flessione del 16% nel servizio tradizionale, l’exploit dell’Italia è in rosso del 5% rispetto, ad esempio, a Francia e Spagna, dove la performance è positiva (+23% e +14%). “Dovremmo interessarci alle reti regionali”, avverte Balotta, “dove gli utenti sono cresciuti del 7,8% in soli due anni, rappresentando da soli oltre la metà della domanda nazionale”. I dati sono quelli del rapporto di Legambiente sul servizio ferroviario rivolto ai pendolari, dove per garantire almeno i treni in circolazione mancano ancora 400 milioni sui bilanci regionali del 2011 e 200 milioni per l’anno prossimo.

“Questo in un Paese dove l’83% dei passeggeri compie un percorso sotto i 50 chilometri”, aggiunge Ivan Cicconi, ingegnere esperto di infrastrutture e lavori pubblici e autore de “Il libro nero dell’Alta velocità”. “Sono dieci anni che parte dei fondi destinati al servizio universale passano all’Alta velocità”, sostiene Cicconi. Il fatto è che l’Alta velocità ha costi elevati. La linea dove passano i Frecciarossa ha infatti un costo di manutenzione fino a quindici volte superiore a quello della linea storica. Eppure Trenitalia e Ntv pagano solo 11 euro per la concessione di transito, mentre in Francia il costo è addirittura doppio. “Nel frattempo”, continua Cicconi, “Moretti spende mezzo miliardo per fare il restyling delle carrozze”. L’annuncio è di due settimane fa: “A partire dalla fine dell’anno supereremo le tradizionali prima e seconda classe portando tutto a quattro livelli di servizio”, ha spiegato Moretti, “da quello per il trasporto ferroviario, senza particolari richieste, fino a un treno di lusso”. “Inoltre”, conclude Cicconi, “c’è la pubblicità, i club Frecciarossa, e le nuove stazioni fatte apposta per l’Alta velocità. Dove pensate che prenderanno i soldi?”

“Moretti agisce così perché la politica glielo permette”, attacca Marco Ponti, docente di Economia al Politecnico di Milano, già consulente della Banca Mondiale in materia di trasporti. “Moretti punta su un servizio – l’Alta velocità – che dei ricavi li concede”, premette Ponti, “per tutto il resto conta sullo Stato che spende troppo e male”. E allora? “Bisogna fare i bandi di gara”, risponde, “invece hanno appena prolungato di 12 anni la possibilità per le regioni di evitare le gare. “In Germania”, racconta Ponti, “hanno risparmiato fino al 25%”. In Italia ci sarebbe l’esempio del bando lanciato dall’ex presidente del Piemonte Mercedes Bresso. “Un buon esempio”, commenta Ponti, “peccato che il centrodestra l’abbia immediatamente cancellato, dopo che l’ex ministro Sacconi e lo stesso Moretti avevano fatto il diavolo a quattro”. Insomma, se Moretti e Trenitalia si comportano da monopolisti è grazie ai favori della politica. E i nuovi arrivati? “Il rischio è che Moretti tagli la gola alla società di Montezemolo”, dice Ponti. I licenziati della ex Wagon Lits non sono infatti gli unici a ritenere che la cancellazione di tratte a lunga percorrenza serva a liberare slot in favore dei pendolini, così da non lasciare spazi alla concorrenza di Ntv. Ma se così non fosse, “è facile che si mettano d’accordo”, conclude Ponti: “Se non altro perché Ntv deve pagare il servizio al suo concorrente”.

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