Sono i principi giuridici a doverci guidare. E se gli elettori chiedono di abrogare una nuova legge, è perché preferiscono la vecchia - Un ‘no´ suonerebbe come frustrazione delle energie politiche in cui si è manifestata la voglia di contare dei cittadini-elettori
ROMA - «Una decisione negativa della Corte suonerebbe come frustrazione. E le frustrazioni politiche, in democrazia, sono molto pericolose. Ma la questione è prima di tutto giuridica». Alla vigilia dell´atteso pronunciamento sul referendum, Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Consulta, anticipa il suo punto di vista: consultazione sul Porcellum ammissibile sotto il profilo tecnico-giuridico, necessaria sotto l´aspetto dell´opportunità.
Professore, il tam tam, le indiscrezioni di questi giorni possono turbare il giudizio della Corte?
«Sulla base della mia esperienza, rispondo no. Anche perché la Corte giustamente tende a proteggersi dal clamore della politica. Le sue decisioni sono prese nell´elaborazione della camera di consiglio. Soprattutto su decisioni così complesse, spesso i giudici vi entrano avendo certe idee e ne escono convinti di altre, in base alla discussione. Penso che anche questa volta sia così. Questa è la fisiologia, per un organo come la Consulta. Solo così se ne difende l´autonomia e il prestigio».
Lei cosa si augura?
«È stato detto di tutto. Le opinioni sono nettamente divise tra sì e no. Mi auguro solo che, data la pregnanza politico-costituzionale della domanda alla quale la Corte dovrà dare risposta, gli argomenti siano all´altezza».
Quali sono secondo lei gli argomenti "all´altezza"?
«L´unico è la necessità di una legge pienamente capace di operare. Niente vuoti, quindi. Una democrazia rappresentativa senza legge elettorale sarebbe un azzardo, un fatto di eccezionale gravità».
Appunto, secondo alcuni se il sistema in vigore venisse abrogato, si creerebbe un vuoto. Ed ecco perché il referendum dovrebbe dichiararsi inammissibile. È così?
«Qui, sopravvengono gli argomenti che io considero "non all´altezza"».
Quali sono?
«Entriamo in un territorio che appare pregiudicato da una visione biologica del diritto».
Biologica?
«Sì. Reviviscenza o non reviviscenza di una legge, come se si trattasse di corpi vivi, morti, resuscitabili o non resuscitabili. Si dice: la vecchia legge (il Mattarellum) è stata definitivamente uccisa dalla nuova (il Porcellum). Se viene eliminata questa, non rinasce quella. Ma la vita o la morte di una legge non sono fenomeni biologici. Siamo noi a dover stabilire cosa accade. Nulla ci è imposto biologicamente. Sono i principi giuridici a doverci guidare».
E quindi?
«Davvero l´abrogazione del "Porcellum" creerebbe un vuoto? Davvero non sarebbe a quel punto applicabile il Mattarellum? Questa è la tesi della non "reviviscenza" che porta alla inammissibilità del referendum».
Lei ragiona così?
«No».
Spieghi perché.
«Perché le leggi elettorali sono leggi molto particolari. Non solo devono esserci, ma definiscono, modificandolo, uno status degli elettori acquisito. Sono leggi sugli elettori. Qui si tratterebbe per la Corte di considerare argomenti nuovi, su cui non ha avuto modo di pronunciarsi finora. Questa particolare natura delle leggi elettorali comporta che quando gli elettori chiedono l´abrogazione di una nuova legge, lo fanno perché vogliono rimanere com´erano: preferiscono la vecchia alla nuova».
Sembra ovvio. Ma perché tante discussioni tra costituzionalisti?
«Perché in generale, nella giurisprudenza della Corte Costituzionale è prevalsa l´idea del referendum come legislazione negativa».
Che significa? Non è la stessa cosa?
«No, perché in quanto legislazione negativa il referendum può servire a modificare le leggi in vigore attraverso l´eliminazione di frasi, parole, commi. Non è mai accaduto finora che il referendum sia stato presentato al puro scopo di eliminare una legge elettorale, cioè, dicono i giuristi, come contrarius actus, atto di resistenza. Quindi, siamo di fronte a una novità da valutare come tale, anche alla luce di ciò che volle il Costituente, quando respinse la possibilità di una legislazione tramite referendum».
Quindi lei si augura una decisione a favore del referendum?
«Mi auguro che la Corte sappia decidere considerando la particolarità del caso, traendone le conseguenze. Se così non fosse, i referendum elettorali sarebbero o impossibili o necessariamente quell´insulso ritaglio dalla legge vigente di parole, parolette, frasi, frasette, congiunzioni, avverbi».
Cosa accadrà se la Consulta dovesse bocciare il referendum? Davvero i partiti sarebbero in grado di approvare una nuova legge elettorale?
«Il Parlamento è libero di modificare la legislazione elettorale. Referendum o non referendum. Che sia in grado di farlo politicamente è tutto da vedere. E le ragioni per dubitarne sono molte. In materia elettorale, ogni partito opera in causa propria. Calcoli di utilità particolare rendono molto difficile l´accordo. La mia preoccupazione è su un altro piano».
Quale?
«Il referendum di cui discutiamo viene da una fase di mobilitazione politica di cittadini che chiedono di contare. Una decisione negativa della Corte suonerebbe come frustrazione e le frustrazioni politiche, in democrazia, sono molto pericolose. Pericolose per la fiducia che deve esistere tra cittadini e loro rappresentanti. Non pensa che la prospettiva di essere chiamati a votare nel 2013 con qualcosa che a buon diritto si chiama Porcellum susciti il giustificato e pressoché unanime orrore da parte dei cittadini-elettori?».
Qualcuno sostiene anche che il referendum potrebbe far vacillare il governo Monti.
«La materia elettorale non spetta al governo, ma al Parlamento. Lo stesso presidente Monti lo ha precisato. Che i partiti riescano o no a mettersi d´accordo su questa materia, non dovrebbe influire sull´esecutivo. Se dovesse accadere il contrario, saremmo di fronte a una grave prova di irresponsabilità delle forze politiche. Superata solo se decidessero di farci votare ancora con quella legge, sciogliendo anticipatamente le Camere e mandando a monte il referendum».
Bei tempi cinquant’anni fa, quando i buoni erano proprio buoni, e i cattivi si vendevano già dotati di serie dell'odioso ghigno beffardo tiraschiaffi! I tempi in cui la pimpante casalinga acculturata Jane Jacobs, nel tempo libero che le lasciavano la famiglia e la scrittura del futuro best-seller La Vita e la Morte delle Grandi Città, guidava l’assalto dei comitati di cittadini contro l’autostrada urbana dell’autocrate razionalista Robert Moses, un tipo poco abituato a discutere alcunché. Alte elaborazioni teoriche a parte, quando i buoni e i cattivi indossavano l’apposito contrassegno di riconoscimento c’era lo scontro fra yin e yang, bianco e nero, macchine e pedoni, quartiere contro cementificatori, eccetera, eccetera. E adesso? Adesso si fa tutto più intricato e difficile da capire.
Come si fa a sostenere che una università è il cattivo? Gli atenei sono la quintessenza della città postindustriale, portano posti di lavoro altamente qualificati, sono per tradizione e necessità strettamente legati alle economie locali ai vari livelli, dalla ricerca per le grandi imprese ai piccoli affari del bar d’angolo o delle camere affittate. Gli atenei per loro natura non sono spazi chiusi, astronavi che escludono il tessuto del quartiere, come magari rischiano di fare complessi per uffici, spazi della produzione, ospedali. Una università è anche un posto per passeggiare, attraversabile, non fa rumore, non ha emissioni nocive salvo un po’ di studenti tabagisti che fumano sul ballatoio …. Ma è proprio così?
No che non è così, e lo sa benissimo ad esempio qualunque abitante delle classiche città universitarie europee, magari quelle dove gli atenei sono cresciuti da secoli insieme a tutto il resto, rivelandosi inquilini legittimi e pure protagonisti, ma con una forte tendenza ad essere piuttosto invadenti. Immensi isolati urbani occupati in esclusiva, e gestiti come se fossero una caserma, tempi e ritmi propri, decisioni che possono cambiare il destino di enormi aree, spesso prese senza alcun rapporto con quanto accade o potrebbe accadere attorno. Ora la New York University presenta – data ufficiale di consegna della documentazione 3 gennaio 2012 - il suo progetto NYU Core, e con un colpo d’occhio alla sola planimetria generale viene davvero un pochino di tremarella.
In nude cifre, si tratta di oltre duecentomila metri quadrati di superficie di pavimento complessiva dedicati a funzioni sia didattiche e di ricerca che accessorie e di servizio. Poi c’è una parolina inquietante per chi ha qualche memoria proprio dei tempi dello zar delle grandi opere Robert Moses: superblocco. Il concetto era un tempo molto caro agli architetti razionalisti; c’è una foto storica che ritrae le Corbusier mentre guarda quasi adorante lo stesso Moses, artefice della trasformazione concreta di un suo schizzo nel famosissimo superblocco della sede Onu sull’East River. Peccato che dietro la bella parolona si nasconda la cancellazione brutale del sistema stradale urbano, della permeabilità dei quartieri, e potenzialmente la privatizzazione di ogni spazio, come ci hanno spiegato infinite volte prima William Whyte e poi Anna Minton.
Il tutto senza però mettere sul piatto della bilancia il corrispettivo economico-occupazionale di 18.000 posti di lavoro per le trasformazioni edilizie, o i 2.600 a lungo termine, nel quadro dell’espansione di una istituzione universitaria che dà lavoro a 16.000 newyorkesi per 55.000 studenti. C’è poi l’affermazione ufficiale secondo cui si intende “reinserire nel tessuto cittadino” gli spazi ad esso sottratti nelle operazioni di urban renewal (anche quelle gestite da Moses) negli anni ’50, in particolare nei due quartieri di case economiche a sud di Washington Square, area già ampiamente colonizzata dall’ateneo, secondo un sistema di spazi edificati e aperti con campi da gioco e verde. (qui il comunicato ufficiale della NYU)
Però tocca sempre ricordare anche come già negli anni precedenti delle grandi sostituzioni urbane, fossero le autostrade litoranee, o i complessi popolari razionalisti da migliaia di abitanti per volta, o la vera e propria deportazione di certi quartieri per nulla degradati per far posto a qualcos’altro (vedi Stuyvesant Town o la famigerata Bronx Expressway che innescò la leggenda della metropoli infernale), si prospettavano puntualmente futuri luminosi. Non è un caso se la più netta opposizione arriva da chi di storia se ne dovrebbe intendere, ovvero l’associazione per la tutela del Greenwich Village. Che seguendo il famoso metodo della sua madrina Jane Jacobs ha fatto una cosa: guardare il progetto. E ci ha visto un sovraccarico di metri cubi più o meno monofunzionali, “torri costruite sopra altre torri”, che poco avrebbero a che vedere con le teorie densificazioniste new urbanism, e molto invece con un classico approccio monopolista spaziale, non diverso da quello di qualunque progetto di insediamento di un campus di impresa, magari con le telecamere e le guardia armate su tutto il perimetro.
Sono i soliti nimby? Sono dei borghesi fortunati, che abitano una zona piuttosto esclusiva a bassa densità in centro e non vogliono vedersela rovinare dall’espansione universitaria? Oppure esprimono davvero una preoccupazione che dovrebbe essere di tutta la città, per quel genere di progetti sbandierati come perfettamente postmoderni, “sostenibili” per antonomasia, e invece dietro la retorica delle belle parole nascondono una logica particolare, se non addirittura speculativa? Beh, chi vuole farsi un’idea si può scaricare da qui la scheda di massima del progetto, magari dopo aver scorso le puntuali critiche pubblicate un paio di giorni fa da The Villager. Dati e informazioni più complete e disaggregate sul progetto scaricabili anche dal sito Valutazione di Impatto, dell'Ufficio Urbanistica cittadino.
p.s. per un parziale confronto di metodo coi temi di casa nostra, si vedano gli sviluppi della polemica milanese in corso fra Gianni Biondillo, il sindaco Pisapia, e altri (f.b.)
Come sono cambiati gli atteggiamenti degli italiani verso lo Stato e le istituzioni? Per rispondere possiamo utilizzare i dati dell’indagine di Demos - la Repubblica, giunta alla 14a edizione. Suggeriscono un’immagine nota, quanto consumata: il declino. Oggi è considerato un "fatto" indiscutibile, sotto il profilo economico. Ma lo è anche sul piano del civismo e del rapporto con lo Stato e le istituzioni.
1) La fiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali, infatti, scende in modo generalizzato, nell’ultimo anno, con poche eccezioni (fra cui la "scuola", che però perde credito rispetto a dieci anni fa).
2) In particolare, colpisce il livello - davvero basso - raggiunto dai principali attori su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Per primi, i partiti, a cui crede meno del 4% dei cittadini. Mentre la fiducia nel Parlamento viene espressa da circa il 9% degli intervistati. Oltre quattro punti meno di un anno fa.
3) Si tratta di una tendenza simile a quella che coinvolge - e travolge - gli organismi del sistema economico e finanziario. Per prime le banche, verso cui manifesta "stima" il 15% dei cittadini; 7 punti meno di un anno fa. Ma la metà rispetto al 2001. Non molto più alta - intorno al 20% - risulta la considerazione verso le istituzioni economiche europee e internazionali: la Bce e il Fmi.
Appare basso anche il grado di consenso verso le rappresentanze delle categorie socioeconomiche: associazioni imprenditoriali (24%) e sindacato. Soprattutto la Cisl e la Uil, ben sotto il 20%.
4) Il sistema politico e quello economico appaiono, dunque, privi di riferimenti credibili fra i cittadini. Perfino le istituzioni di garanzia mostrano segni di debolezza. La "Magistratura", soprattutto, perde 8 punti di fiducia, nell’ultimo anno. Un altro segno della fine di un ciclo. Visto che il "consenso" verso i magistrati è sempre stato in stretta relazione con il "dissenso" verso Berlusconi.
5) Fra gli orientamenti che emergono da questa indagine, il più netto e appariscente è, forse, il crollo di fiducia nei confronti della Ue. Verso cui esprime (molta-moltissima) fiducia il 37% dei cittadini: oltre 13 punti meno di un anno fa, ma 16 rispetto al 2001. All’indomani dell’introduzione dell’euro. Quando la maggioranza assoluta degli italiani si diceva euro-convinta.
6) Ciò sottolinea la crisi di governabilità di cui soffre la società italiana. Che - da sempre - non crede nello Stato (di cui si fida meno del 30% dei cittadini), tanto meno nei partiti (quasi metà degli italiani ritiene che non siano necessari alla democrazia) e, quindi, nel Parlamento ("presidiato" dai partiti). Ma oggi diffida - molto - anche dell’Unione Europea. Mentre, in passato, i due orientamenti procedevano in modo simmetrico. Perché gli italiani compensavano la (e reagivano alla) sfiducia nello Stato e nel governo italiano con la fiducia nella Ue. E con una crescente identità locale Ma la speranza nei governi locali e nel federalismo appare, anch’essa, molto raffreddata, rispetto al passato.
7) Alla Bussola pubblica degli italiani restano, così, pochi punti cardinali. Le "forze dell’ordine", che riflettono il senso di insicurezza sociale. Oltre al Presidente della Repubblica, che è divenuto - negli ultimi dieci anni - il principale appiglio della domanda di identità nazionale degli italiani. Un sentimento rafforzato, nel 2011, dalle celebrazioni del 150enario. In questa indagine, il Presidente conferma la credibilità conquistata in questi anni. Ottiene, infatti, (molta-moltissima) fiducia da parte del 65% della popolazione. Eppure anch’egli arretra in misura sensibile rispetto al 2010: quasi 6 punti. Risente, probabilmente, dell’insoddisfazione sollevata presso alcuni settori sociali dalla manovra finanziaria del governo Monti. Un sentimento che si "scarica", in qualche misura, anche sul Presidente. Percepito, a ragione, come il principale sostegno (politico) a favore del governo (tecnico). Tanto più di fronte alla debolezza che affligge i partiti e il Parlamento. Ma anche le organizzazioni di mobilitazione e di integrazione sociale.
8) D’altronde, anche la fiducia verso la più importante istituzione religiosa, la Chiesa, appare in sensibile calo. Oggi si attesta al 45%: 2 punti meno di un anno fa, ma 14 rispetto al 2001.
Tutto ciò ripropone l’immagine del "declino" che ha coinvolto i principali riferimenti istituzionali e dell’identità sociale degli italiani. Non solo lo Stato, ma anche l’Europa, la Chiesa; e ancora, il mercato e le organizzazioni di rappresentanza.
L’indice di fiducia complessivo nelle istituzioni politiche e di governo, dal 2005 ad oggi, è sceso infatti, dal 42% al 33%. Mentre, nello stesso periodo, la fiducia nelle istituzioni sociali ed economiche, nell’insieme, cala dal 35% al 26%.
Più che di declino, forse, converrebbe parlare di "recessione".
9) Ciò marca una differenza profonda rispetto agli anni Novanta, quando la sfiducia nello Stato e nelle forme di partecipazione collettiva si accompagnò all’affermarsi del mito del mercato, del privato, dell’individuo, della concorrenza, dell’imprenditore. Oggi, al contrario, l’insoddisfazione verso i servizi privati è cresciuta molto più di quella verso i servizi pubblici. E la domanda di ridurre la presenza dello Stato nei servizi - scuola e sanità - si è ridotta al punto di apparire ormai residuale. Mentre il grado di partecipazione sociale non è "declinato", ma, negli ultimi anni, si è, anzi, allargato sensibilmente. In particolare, hanno conquistato ampio spazio le nuove forme di partecipazione sociale: il consumo critico, i movimenti di protesta, le mobilitazioni che si sviluppano, sempre più, attraverso la rete.
Comportamenti particolarmente diffusi fra i giovani e fra gli studenti. I più colpiti dalla crisi, ma anche dalla sfiducia.
10) Da ciò l’immagine di una "società senza Stato", (come recita il titolo di un libretto pubblicato di recente dal "Mulino"). Che, però, ha paura di restare senza Stato. E reagisce. Seguendo molte diverse vie. E vie molto diverse. La "sfiducia" - ma anche la "protesta" e la mobilitazione. Emerge, nel complesso, una diffusa resistenza alla "privatizzazione" dei servizi, all’individualizzazione dei riferimenti di valore e degli stili di comportamento, all’affermarsi delle logiche finanziarie e di mercato in ogni sfera della vita: a livello pubblico e privato. Sfiducia politica e partecipazione, dunque, coesistono presso le componenti sociali più vulnerabili. I ceti periferici, ma soprattutto i giovani, che manifestano incertezza e paura verso il presente, oltre che verso il futuro. E reagiscono insieme. Non solo per cercare soluzioni e per cambiare le cose. Ma per superare la solitudine e la frustrazione che li affliggono La partecipazione e la protesta agiscono, quindi, come una sorta di terapia. Contro la sfiducia e contro l’isolamento.
Si delinea, così, una stagione incerta. Un ciclo politico si è chiuso, dopo quasi vent’anni. Lasciandoci spaesati. Privi di riferimenti istituzionali e politici. Insoddisfatti del pubblico e delusi dal privato. Senza fiducia. Ma quel che verrà dopo non è chiaro - e un nuovo ciclo ancora non si vede. Tuttavia, la scelta di Monti di investire nel "civismo" - attraverso la centralità "mediatica" attribuita alla lotta all’evasione fiscale - appare una risposta poco "tecnica" e, invece, molto "politica" al problema sollevato da questa indagine. Restituire i cittadini allo Stato. Per restituire lo Stato ai cittadini.
L’Europa agricola gira pagina. Più soldi andranno a chi proteggerà il paesaggio rurale. A chi curerà i terrazzamenti, le siepi, gli stagni, i fossi, i filari di alberi. A chi, invece delle immense estensioni di solo grano o di solo mais, preferirà differenziare le colture e quindi la biodiversità. A chi farà dell’agricoltura un fronte per frenare i cambiamenti climatici. La svolta era nell’aria. Ora è nero su bianco nella bozza della nuova Pac (la Politica agricola comunitaria) messa a punto dalla Commissione europea e valida dal 2014 al 2020. Adesso comincia un faticoso lavorìo perché i singoli paesi proporranno aggiustamenti. La traccia resta però questa ed è chiara la prescrizione a praticare un’agricoltura che recupera metodi tradizionali a scapito di un’agricoltura industriale.
«Stavolta, invece di una vaga esortazione, l’Europa investe fondi nella tutela del paesaggio, favorendo chi limita le emissioni di carbonio e i concimi chimici e contrastando un’agricoltura divoratrice di energia», spiega Mauro Agnoletti, professore alla Facoltà di Agraria di Firenze, fra i promotori di questa inversione di tendenza.
La Pac destina in sette anni 400 miliardi di euro all’agricoltura comunitaria. 1 miliardo e 200 milioni ogni anno sono indirizzati a interventi agro-ambientali, il cosiddetto greening. Uno dei punti di svolta è l’incentivo a chi diversifica le colture. L’articolo 30 stabilisce che per accedere ai finanziamenti, ogni agricoltore che possiede oltre 3 ettari di superficie deve praticare almeno 3 diverse coltivazioni: chi possiede 100 ettari può seminarne a granturco, per esempio, non più del 70 per cento, il 15 deve destinarlo a pomodori o melanzane, il restante 15 a legumi o ad alberi da frutta. «L’Europa finanzia chi salvaguarda un mosaico paesaggistico complesso, che è una delle caratteristiche più apprezzate del paesaggio rurale italiano e che però nel nostro paese si è andata perdendo, si è semplificata e banalizzata, non solo a causa dell’espansione edilizia, ma anche per l’abbandono dei terreni, circa 130 mila ettari l’anno, e per l’incedere dei boschi, che aumentano di 80 mila ettari l’anno», aggiunge Agnoletti.
L’Europa indica un’altra strada. Almeno il 7 per cento di ogni proprietà (recita l’articolo 32) deve essere costituito da "aree di interesse ecologico", che possono avere al loro interno terreni a riposo, terrazzamenti e altri "elementi caratteristici del paesaggio", che poi andranno definiti territorio per territorio, ma di cui la Commissione stila una prima lista: terrazzamenti, siepi, alberi in filare... «L’Italia dovrebbe includere altri elementi, come colture promiscue, viticoltura, olivicoltura e frutticultura tradizionale», insiste Agnoletti. E poi vanno conservati i prati permanenti e le superfici per il pascolo, che in Italia sono diminuiti da 6 milioni (1861) a 3 milioni di ettari odierni.
«È molto significativa l’attenzione ai terrazzamenti, che hanno caratterizzato per secoli il paesaggio italiano, dalla Valtellina alla Toscana alla costiera amalfitana», spiega Agnoletti. Laddove sono stati conservati, hanno anche impedito le frane, come in Liguria: «Per conto del Fai abbiamo condotto un’indagine nelle zone distrutte dall’alluvione di ottobre. Solo in 5 casi su 88 le frane hanno interessato terrazzamenti. Nel 95 per cento hanno investito terrazzi abbandonati e invasi da vegetazione arborea o arbustiva».
Titolo originale: Shopping centre tracking system condemned by civil rights campaigners – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Le nuove tecnologie che seguono il consumatore mentre si sposta nei centri commerciali, rilevando il segnale dal telefono cellulare, sono entrate nel mirino delle associazioni per i diritti civili.
Con questi sistemi la direzione può acquisire dati su quanto a lungo ci si ferma nel centro, quali sono gli spazi preferiti o i percorsi per spostarsi dall’uno all’altro. Gli operatori rispondono che con queste tecnologie ci guadagnano sia il consumatore che i commercianti, ribadendo che non esiste alcun problema con la privacy dato che i dati sono anonimi.
Le associazioni replicano che però il consumatore non ha altra scelta se non quella di essere seguito continuamente. Nick Pickles, di Big Brother Watch, spiega: “L’unico modo per uscirne è quello di spegnere l’apparecchio. E non viene chiesto nulla sulla eventuale volontà di uscire dal sistema”.
Pickles aggiunge che ovviamente va bene se il singolo consumatore resta anonimo, però “Si ritiene automatico che lo shopping center abbia il diritto di seguire sempre i cellulari: secondo me è sbagliato”.
Con la tecnica FootPath ci sono una serie di apparecchiature di rilevamento sparse nel centro commerciale. Ciascuna raccoglie il segnale dei telefonini abilitati e può stabilire la posizione del cliente in un raggio di due metri. I dati raccolti vengono accumulati, elaborati, continuamente aggiornati.
Secondo la Path Intelligence, compagnia con sede in Hampshire che gestisce FootPath, con queste informazioni la gestione dei centri commerciali riesce a valutare quale composizione di esercizi funziona meglio, se e quanto le promozioni influiscono sul numero dei clienti, e calcolare al meglio gli affitti a metro quadrato delle superfici più redditizie. Può anche approfondire le conoscenze sulle migliori localizzazioni dei servizi di ristorazione, o dei bagni, ed è di aiuto nei casi di emergenza.
I rilevatori non sarebbero in grado di leggere i numeri telefonici, intercettare le chiamate, i messaggi, individuare gli utenti. La Path Intelligence spiega di essersi consultata con le autorità di controllo per verificare che non si violi la privacy. Però rifiuta di rivelare quanti e quali siano i centri commerciali del paese che hanno adottato il sistema. Si limita a specificare che esiste in sette paesi diversi. Ma uno dei centri che lo hanno adottato è Princesshay a Exeter [per inciso un centro a localizzazione in centro storico molto innovativo ideato da Thomas Sharp nel 1946, il nome deriva dalla allora “principessa” Elisabetta, n.d.t.], dove un piccolo cartello recita: “Per migliorare il servizio alla clientela seguiamo l’uso dei telefoni cellulari, che ci aiuta a capire come viene utilizzato il centro. Non si raccolgono dati personali”.
Ma la clientela non si fida. Dave Jones, in giro per saldi, spiega: “Mi pare una invasione della privacy, qualunque cosa dicano sull’anonimato. Non mi piace l’idea di qualcuno che rileva il segnale del mio telefonino mentre me ne vado per i fatti miei. Dà qualche brivido”. Wayne Pearce, direttore del centro, replica: “I dati anonimi che raccogliamo ogni settimana ci aiutano a seguire i flussi delle presenze, i tempi di permanenza, i modi d’uso del centro commerciale. Il che rende poi possibile decidere su eventuali modifiche nella composizione dell’offerta, migliori servizi, uso mirato del personale addetto per rispondere al cliente, a evitare punti di congestione e migliorare la sicurezza per tutti”.
Gus Hosein, direttore responsabile di Privacy International, osserva infine: “Il solo fatto di notificare che il cliente è seguito in ogni suo spostamento non assolve certo la Path Intelligence e le direzioni dei centri commerciali che hanno installato il sistema. Si tratta di un grave attentato alla privacy, almeno finché non sarà introdotta la possibilità di sconnettersi dal sistema”
Una storia di cemento, case e cantieri che si svolge a Modena, centro industriale dell’Emilia Romagna e cuore della Motor Valley, la terra che produce Ferrari, Lamborghini, Maserati e Ducati. E che è anche in forte espansione, perché così vuole la politica e chi opera nel comparto edilizio.
A raccontarlo è Modena al cubo , un documentario inchiesta sulla questione urbanistica modenese che da qualche anno è al centro di accese polemiche. Partendo dal documento Modena Futura, scritto dall'assessore Daniele Sitta, comincia un viaggio tra i cantieri e i palazzi della città, che tocca tutti i nervi scoperti di questa vicenda, andando ad indagare le relazioni tra Pubblica Amministrazione e i cosiddetti "poteri forti".
La video inchiesta
«Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione». Lo scriveva Leo Longanesi nel 1955, e oggi è ancora più sistematicamente vero.
La morbosa politica ‘culturale’ dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindaco trovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città. Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui Pippo Brunelleschi pensò la Cupola: difficile è capire l’Opera del Duomo, che incessantemente cura la Cupola e la Cattedrale ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza l’Opera la Cupola non sarebbe né sorta, né tantomeno arrivata fino a noi.
Da un punto di vista culturale, il punto cruciale è la nostra stessa incapacità di vedere il contesto, il tessuto continuo delle nostre città e del nostro Paese. Avendo interiorizzato il modello ‘americano’ (cioè quello di un paese in cui davvero le opere d’arte stanno solo nei musei) pensiamo per antologie, per picchi di qualità, per capolavori letteralmente «assoluti», e cioè sciolti da ogni legame: mostre-ostensioni di singoli feticci, ricerche ossessive di improbabili capolavori perduti (come la Battaglia di Anghiari) in complessi monumentali che lasciamo invece tranquillamente deperire (come Palazzo Vecchio). Ma anche visite iperselettive, teleguidate: quanti entrano in Santa Maria Novella per vedere Giotto e Masaccio, e vi ignorano quasi qualsiasi altra cosa? Quasi che il tessuto monumentale delle nostre città sia un contenitore neutro che diventa visibile solo quando si sfalda: un corpo considerato solo per gli organi pregiati che contiene, e che è possibile espiantare, prestare, far viaggiare, mettere a reddito. In più, quel corpo esteso ha il gran torto di appartenere a tutti e di non poter produrre reddito per nessuno: quindi, letteralmente, sparisce.
Da tutto questo discende l’automatismo per cui la manutenzione, quando va bene, si identifica con il restauro: meglio se spettacolare, e meglio ancora se di un capolavoro «assoluto». E, invece, il miglior restauro è quello che non si fa: che non si fa grazie ad una conservazione programmata e preventiva.
Ma c’è qualcosa di ancora più profondo.
Il crollo della Colonna della Dovizia è simbolicamente avvenuto nella piazza per cui si è prospettato un intervento violentemente ‘modernizzatore’, una terrazza-astronave che sembra progettata apposta per essere rifiutata, quasi per impedire alla radice ogni possibilità di rinnovamento della città. Tra questi due fatti esiste un nesso, e quel nesso è la perdita del senso della storia. La storia non è il «piacere della scoperta» delle trasmissioni televisive, e non è nemmeno la scienza del passato: come ha scritto Marc Bloch, la storia è la scienza degli uomini nel tempo. Quando il grandissimo storico Henri Pirenne giunse a Stoccolma per la prima volta, disse ai suoi accompagnatori: «Cosa andiamo a visitare come prima cosa? Sembra che vi sia un Municipio nuovissimo: cominciamo da lì?». Di fronte allo stupore dei suoi accompagnatori, egli aggiunse: «Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie. Ma io sono uno storico, è per questo che amo la vita».
Firenze non deve scegliere tra saper costruire il proprio futuro e mantenere vivo il suo corpo antico e meraviglioso: è la stessa sfida.
Quella di un vero, autentico, disinteressato amore per la vita.
Sostiene il filosofo Emanuele Severino che la crisi vera, «la Grande Crisi che incombe e ci sovrasta», è la crisi dell'Occidente, che si manifesta nella progressiva e sistematica auto-distruzione degli stessi valori occidentali. Tra i quali, è facile chiosare, risalta in primo luogo quello della democrazia. Vale la pena di osservare però che se dieci anni fa, dopo l'11 Settembre, era l'America "marziana" di Bush a essere accusata dall'Europa "venusiana" di distruggere la democrazia esportandola con le bombe all'estero e erodendola con l'emergenza antiterrorismo all'interno, oggi l'epicentro della crisi occidentale si è spostato in Europa, dove la democrazia si autodistrugge con minore dispiegamento militare all'esterno (ma la guerra in Libia non è stata un caso, né era stato un caso il precedente dei Balcani) ma con pari foga emergenziale all'interno, contro lo spettro dello spread al posto di quello di bin Laden.
«Democrazia» diventa di giorno in giorno una parola anch'essa spettrale, un'invocazione svuotata di forma e di sostanza sotto l'attacco di fuochi incrociati. Prendiamo il caso dell'Ungheria. Qui il fuoco era partito da dentro, con il varo della riforma costituzionale liberticida del premier nazionalista Viktor Orbán, uno schiaffo ai principi ispiratori della Ue che avrebbe dovuto allarmare la società e la politica continentali ben più di quanto non sia accaduto; debito pubblico e crollo del fiorino stanno facendo il resto. Ma i manifestanti di Budapest sono soli, e a Bruxelles la Commissione europea è più preoccupata dei vincoli che quella riforma pone alla banca centrale ungherese che di quelli con cui soffoca l'informazione, i sindacati e il dissenso; e subordina gli aiuti al paese magiaro più alla rimozione dei primi che dei secondi. Mentre dal parlamento di Strasburgo voci impotenti reclamano l'impugnazione del Trattato di Lisbona contro la Costituzione di Orbán e la sospensione del suo partito dal Ppe.
Ha ragione dunque chi sottolinea la necessità di saldare le politiche di salvataggio dell'euro a quelle di salvaguardia della democrazia costituzionale, l'«anima» della civiltà continentale, nei paesi membri e nell'Unione. Non c'è corpo senz'anima infatti. Però tantomeno c'è anima senza corpo. E come può un'Unione che sta sistematicamente distruggendo con la politica monetaria il proprio corpo sociale farsi garante della propria anima costituzionale?
Il nodo democratico viene al pettine qui con una urgenza e una drammaticità che non consentono ulteriori rinvii, né ulteriori imbrogli. L'imbroglio neoliberale, che per trent'anni ha predicato l'indipendenza della forma liberaldemocratica dalla sostanza delle politiche sociali, ovvero l'assoluta congruità fra libero mercato e liberaldemocrazia, con la crisi dell'euro è arrivato al capolinea: la favola è finita, e senza happy end. Il vecchio continente, che a buon diritto poteva vantare la superiorità di un modello di convivenza basato sull'innesto fra istituzioni politiche, libertà costituzionali e diritti sociali, adesso è in preda a una convulsione in cui la volontà di potenza dei mercati fa tutt'uno con l'impotenza della politica, la crisi finanziaria disfa il legame sociale, nazionalismi di varia risma, da quello impresentabile di Orban alle tentazioni sovraniste dei paesi forti, disfano l'Unione. E il salvataggio sempre più aleatorio dell'euro, malinteso sostituto d'anima di un'Europa che la sta perdendo, comporta la devastazione cinica e deliberata del corpo sociale. A quel punto, le costituzioni saranno carta straccia e la democrazia una scatola vuota, e non soltanto in Ungheria.
postilla
“Occidente”, che significa? Occidente rispetto a che? Bruxelles è “occidente” rispetto a Vladivostock, ma è “oriente” rispetto a Seattle. Quando si parla di Occidente nel senso un cui usa il termine la brava e rigorosa Dominijanni (che prendiamo a pretesto di una precisazione che vorremmo fare da tempo) si intende esprimere quel mondo culturale, caratterizzato da un sistema economico-spciale capitalistico-borghese, che è nato e si è consolidato (trascendendo sue più lontane radici) in quella parte del pianeta che si chiama Europa, e che più tardi si è espansa e sviluppata sull’altra sponda dell’Oceano atlantico, l’America del nord.
E’ un mondo culturale che è stato denominato “Occidente” in una determinata fase della nostra storia recente, in opposizione a quell’altra parte del mondo che aveva deciso di seguire, nel campo dell’organizzazione economica e sociale, una strada opposta a quella che – sul terreno dell’economia e della società – aveva caratterizzato la parte occidentale dell’Europa e la sua espansione americana.
A mio parere è rischioso, e comunque impreciso, definire i grandi orientamenti storico-geografici delle civiltà in termini di opposizioni tra i punti cardinali (Nord e Sud, Est e Ovest, Oriente e Occidente). O meglio, è opportuno tener presente che cosa c’è dietro quella parola: quale storia, quali idee, quali avanzamenti e quai regressi, quali doni e quali saccheggi. Riflettere sule parole e sulla storia è sempre utile per comprendere.
E comunque, come m’insegnò un amico più riflessivo di me, Luigi Scano, cerco di adoperare, invece della locuzione “occidente” quella, altrettanto geografica, di “nord-atlantico”, che rappresenta meno schematicamente il bacino che lega i due subcontinenti nei quali quel sistema economico-sociale dell'"Occidente", e i suoi valori e disvalori, si sono formati e deformati.
L´Europa manca di leadership. Le parole del presidente Napolitano sono state come una sferzata. Parole giuste e sacrosante. Vale la pena di mettere a confronto questa Unione Europea con le ambizioni dei suoi fondatori per comprendere pienamente questa deficienza. Che è nella leadership perché è negli obiettivi che l´attuale Unione ha. L´Europa ridisegnata dalla crisi finanziaria attuale è a metà strada tra un´Unione solo monetaria e un´Unione fiscale; centrata soprattutto sui vincoli. Il mantra è quello noto: per salvare l´Euro, non per dare ossigeno a una politica progettuale. La povertà di leadership viene dal dominio della finanza sulla politica. Non è casuale.
L´Europa che lanciava al mondo la sfida di una democrazia sociale avanzata, improntata sui due pilastri della crescita e dell´equa distribuzione della ricchezza sembra l´utopia di un passato remoto. Eppure era moneta ideologica corrente solo fino a due anni fa. Nessuno sa come sarà l´Europa di domani. Per ora solo questo sembra certo: i Paesi europei vogliono, o non possono non volere, una moneta comune. Ciò li costringe a volere anche vincoli comuni di spesa. Per necessità un passo avanti e due indietro, come si dice delle scelte strategiche in tempi di imponderabile incertezza. Un´altra Europa questa dei vincoli alla progettualità, diversa da quella pensata dai suoi visionari fondatori. Eppure questa Europa di povertà di leadership è una controprova di quel che Altiero Spinelli aveva sostenuto per tutta la sua vita: senza un´Europa politica nessuna Europa può reggere all´urto delle sfide mondiali, sia quando si tratta di militarismo e guerra (come negli anni in cui scriveva Spinelli) sia quando si tratta di impoverimento e arretramento economico, come oggi.
Il confronto tra questi mesi drammatici e l´ottimismo aleggiante solo qualche anno vale a rendere la grande trasformazione dell´idea di Unione europea che è sotto i nostri occhi. Nel 1999, celebrando il decimo anniversario della Banca centrale europea, Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro del Tesoro e del bilancio, ricordò la riunione di Basilea dell´aprile del 1989, che siglò l´avvio dell´Unione monetaria, come «pietra angolare» di un percorso «ambizioso» per il cui successo c´erano "tutte le condizioni". Oggi quell´obiettivo è molto lontano dall´essere percepito come un successo. Per molti osservatori è anzi un penoso fallimento. Alla base della moneta unica c´era la visione lungimirante di Jean Monnet fatta propria dai fondatori politici dell´Unione Europea: Schuman, De Gasperi e Adenauer. All´origine vi era la convizione che, come scrisse Luigi Einaudi, per estirpare alla radice la malapianta del nazionalismo fosse necessaria: «L´abolizione della sovranità dei singoli Stati in materia monetaria» poiché a preparare le condizioni della Seconda guerra mondiale, e prima ancora delle dittature, vi la «svalutazione della lira italiana e del marco tedesco». Ma con una moneta e una politica monetaria capaci di fronteggiare gli shock interni ed esterni, l´Europa sarebbe stata in grado non soltanto di assicurare la pace al mondo e al continente, ma anche di perseguire una politica di prosperità e giustizia sociale che il mondo le avrebbe invidiato.
Quindi, l´Europa nacque con l´ambizione di domare i nazionalismi europei. La sua crisi, oggi, rimette invece in moto quei nazionalismi, anche se non si servono di carri armati ma di denaro. E infatti, perché l´unità monetaria diventasse una storia di successo, europea e non nazionalista, è mancato qualcosa, lo ricordava lo stesso Ciampi nel suo discorso: «La costruzione istituzionale dell´Unione europea deve arrivare a disporre dell´intera panoplia degli strumenti di governo dell´economia: di bilancio, dei redditi, delle strutture materiali e immateriali». La moneta unica doveva poter contare su un governo europeo per incastonare una «banca centrale autonoma». Diversamente sarebbe stata l´espressione di accordi nazionali, una politica continentale tenuta in mano dagli stati più forti. L´autonomia della Banca centrale europea richiedeva un´autonomia politica dell´Unione europea. Quello che oggi manca e che è alla base della carenza di leadership politica. La crisi della moneta unica europea, che è poi crisi delle società nazionali, è come una profezia realizzata dell´intuizione di Spinelli. In questa contingenza, l´utopismo del Manifesto di Ventotene acquista un significato di realismo visionario, di pragmatismo delle grandi idee che sanno vedere meglio perché riescono a guardare lontano.
Spinelli scrisse il Manifesto per un´Europa libera e unita mentre era confinato antifascista a Ventotene. Il documento, una vera e propria costituzione spirituale, metteva in pratica il tema centrale del pensiero illuminista: la correlazione tra costituzione repubblicana degli stati e ordine internazionale pacifico e libero. Nel Manifesto le ragioni della guerra erano identificate con gli arcana imperii e la ragion di stato, ovvero l´uso arbitario delle istituzioni e la segretezza. La conclusione era che la pace sarebbe stata duratura solo allorché tutti gli Stati nazionali si fossero dati costituzioni repubblicane e federali: questa sarebbe stata la condizione per creare una corrente ascendente di sovranità che unificasse il continente.
Un´utopia pragmatica. Un segno di lungimirante realismo che riposava sulla conoscenza della storia del continente, delle guerre mondiali e delle rivoluzioni, delle crisi economiche, delle carestie, delle emigrazioni bibliche. Senza l´Europa politica nessuna Europa sarebbe stata realistica. Questo era lo spirito di Ventotene. E tra i rischi più subdoli che il Manifesto indicava vi era il seguente: nell´evenienza di crisi economiche, sembrerà a qualcuno conveniente cercare di far leva sul sentimento patriottico per attuare la «restaurazione dello Stato nazionale». Avere Stati democratici non avrebbe reso il nazionalismo meno problematico, perché i politici eletti, «desiderosi di rappresentare la volontà popolare, facilmente finirebbero per diventare, nelle loro varie tendenze, strumenti di questo o quel gruppo particolare, mirante a conquistare la direzione dello Stato e ad impiegarne la forza per far valere i propri particolari interessi». Ecco perché tra gli scopi prioritari del Manifesto figurava l´impegno a indirizzare l´Europa del dopo totalitarismo verso obiettivi politici: la costruzione di un´ossatura istituzionale con lo scopo di dare vita a una democrazia sociale. Pace nella libertà perché pace nella giustizia e nell´equità. Non pace soltanto. Perché nessun´alleanza avrebbe potuto funzionare se gli Stati europei non si fossero dati obiettivi ambiziosi come questo.
Ringrazio Gianni Biondillo per la sua lettera, che ho letto con attenzione e interesse, sulla riqualificazione dell'area ex Enel e, più in generale, sulla qualità della progettazione urbana. Per quanto riguarda l'area di via Procaccini non posso non ricordare che il relativo piano di riqualificazione è stato approvato dal consiglio comunale praticamente all'unanimità.
Una condivisione da parte dei consiglieri eletti dai cittadini che certamente non può essere ignorata. Nel corso dell'iter di approvazione non vi è stata alcuna osservazione da parte di cittadini o da parte di associazioni, malgrado l'espressa possibilità prevista dalla legge. L'intervento riguarda un'area di 31 mila metri quadri (dove ci sono molti edifici degradati o in totale abbandono) e prevede non solo la conservazione di tutto ciò che ha valore storico ma anche la sede, nell'edificio liberty, dell'Associazione per il disegno industriale (Adi) e del Museo del Design, dove sarà esposta la collezione del Compasso d'Oro.
È già anche iniziata un'importante opera di bonifica dell'amianto e sono previste due grandi piazze alberate, spazi verdi e parchi giochi per i bambini. È ben difficile, quindi, pensare che quel luogo possa diventare «un luogo di desolazione», tanto è vero che una partecipata assemblea di cittadini ne ha dato una valutazione positiva. Condivisibile è, invece, quello che mi pare il punto centrale della riflessione di Biondillo e cioè la valutazione complessiva della progettazione e degli interventi urbanistici, compresa la necessità di un impegno comune di tutti i soggetti in campo.
Non a caso nella lettera si fa riferimento a molti attori, tra i quali i docenti del Politecnico e le imprese di costruzioni, che possono contribuire a trovare soluzioni, anche innovative, per il domani di Milano. Il tutto, naturalmente, nel rispetto delle norme e delle competenze di ciascuno perché il ruolo di un amministratore pubblico è limitato dalle leggi (basti pensare che in questo momento non è possibile imporre concorsi internazionali su aree private). Anche per questo la giunta ha preso la decisione, difficile ma coraggiosa (prevista dal programma della coalizione oggi al governo della città) di non pubblicare il Piano di governo del Territorio varato dalla precedente Amministrazione, che era stato approvato senza considerare e valutare le migliaia di osservazioni pervenute da cittadini e associazioni.
E, nel contempo, la giunta ha anche rivalutato tutti gli interventi in corso, dopo aver ascoltato le zone, per migliorare sia la qualità che i servizi. Tra i numerosi interventi per rendere più bella e vivibile la città, mi limito a ricordare la decisione di abbattere, dopo vent'anni di inerzia, l'ecomostro di Ponte Lambro.
Quanto fatto in questi mesi dimostra che non subiamo, e non abbiamo alcuna intenzione di subire, scelte altrui, ma che ci stiamo impegnando per realizzare una Milano migliore per noi e per i nostri figli.
Gentilissimo sindaco Pisapia,
esattamente di fronte a uno dei nostri monumenti più insigni, il Cimitero monumentale, ai margini di uno dei quartieri dove il palinsesto urbano ha lasciato più e più segni negli ultimi due secoli, un progetto di riedificazione dell'area, dopo un lungo iter burocratico iniziato sotto l'amministrazione che l'ha preceduta, in questi giorni ha avuto da parte di questa giunta comunale il placet alla sua realizzazione. Quel progetto è semplicemente scandaloso.
Il lotto attualmente occupato dall'edificio storico dell'Enel, che ha una qualità storico-architettonica evidente, verrà raso al suolo per essere sostituito da un volume edilizio che ne rioccupa lo stesso sito, ma che, con la sua sorda volumetria, parodizza la memoria storica, annichilendola. Non è semplicemente un brutto edificio, è la sublimazione della mediocrità. L'esaltazione della rendita fondiaria fatta intonaci, balconi, serramenti.
Avere a disposizione un volume come quello dello storico edificio dell'Enel e non concepirlo come l'occasione per una progettazione ardita, che sappia conservare il patrimonio della memoria e al contempo riconvertirlo alle esigenze della modernità è la dimostrazione di una totale mancanza di coraggio da parte dei proprietari dell'area. Ma molto peggio è aver accettato supini, da parte dell'amministrazione comunale, tale operazione, per poter, probabilmente, battere cassa.
Signor sindaco, lasciar intaccare in modo così radicale il centro abitato, lasciare che il mercato ponga le mani sul tessuto urbano con ludibrio, violentando la città, non è politica, è connivenza. Ciò che si sta perpetrando ai danni del nostro territorio è irreversibile, appena verrà innalzata la staccionata del cantiere la ferita non sarà più rimarginabile. Io, da suo elettore, da cittadino, non voglio, non posso essere connivente di questo scempio.
Affianco accade ancora di peggio. Demolito il recinto murario e i corpi di fabbrica compresi che definiscono il lotto fra via Niccolini e via Bramante, il piano immobiliare prevede l'edificazione di un albergo di nove piani, arretrato rispetto al fronte stradale, lasciando una zona di rispetto che dovrebbe essere trasformata in una piazza.
Non ci vuole un urbanista raffinato per capire che questo segno nel tessuto è di una violenza senza pari. I due elementi, l'albergo e la piazza, sono di una totale piattezza creativa. Se proprio devo incidere il corpo urbano che almeno il risarcimento sia proficuo! Vedere innalzarsi di fronte al Cimitero monumentale un volume che ha la stessa grazia di un oscuro ministero della Corea del Nord, la stessa noiosa monumentalità d'accatto è disarmante. Ciò che lascia attoniti è la limitatezza di un'imprenditorialità che all'alba del 2012 agisce sul territorio senza alcuna lungimiranza: possibile che non ci fosse modo di affidare un segno di tali dimensioni nelle mani di un progettista con uno spessore intellettuale e creativo più solido? Possibile non comprendere che anche sulla qualità dell'edificato si gioca la fortuna economica di una operazione di queste dimensioni? Ma su tutto: cosa ci guadagna la città?
Vuole farmi credere, signor sindaco, che quello spiazzo insulso, quel vuoto che non riuscirà mai a diventare piazza condivisa dalla cittadinanza, sia un risarcimento degno? Già mi figuro lo spaccio di stupefacenti in quel nulla urbano, già mi vedo le lastre della pavimentazione divelte, le panchine scardinate. Quella che vedo sulla carta non sarà mai una piazza, ma solo un luogo di desolazione, di abbrutimento. Ne vale la pena?
Certo, c'è anche il recupero dei capannoni di via Bramante, trasformati nella sede espositiva dell'ADI. Ma mi chiedo: può una carezza risarcire uno stupro? Il progettista di tutto ciò ha un nome: Giancarlo Perotta. È l'autore dei due grattacieli di fronte alla stazione Garibaldi, concettualmente già vecchi quando vennero edificati negli anni rampanti della Milano da bere. Talmente inadeguati che non hanno retto il volgere di neppure due decenni, subendo un inevitabile restyling. È l'autore della Stazione Bovisa, dell'Ospedale San Paolo, del complesso residenziale in via Sesia… una pletora infinita di segni raffazzonati, una male orecchiata idea di progettazione urbana, una concezione stereometrica dell'edificato ai limiti dell'autistico. Un'idea di architettura che è una continua emulazione fallita di modelli incompresi e irraggiungibili.
Sia ben chiaro, signor sindaco, ho la fortuna di poter scrivere queste cose scevro da dietrologie. Non sono un abitante del quartiere, non ho mire di alcuna natura su quell'area. Scrivo queste righe non da architetto, né da intellettuale o scrittore. Le scrivo da cittadino. Abbiamo chiesto durante le elezioni amministrative un segno concreto di discontinuità dal passato. Se lei ora è il nostro sindaco lo è perché abbiamo creduto fosse capace di interpretare questa idea profondamente etica di comunità.
La logica degli oneri di urbanizzazione a scomputo, che ha retto il mercato immobiliare di questi ultimi decenni, è stata una iattura. È ora di cambiare filosofia, di cambiare politica. Mettere l'interesse pubblico di fronte a quello privato, innanzitutto. Stimolare le iniziative di riordino fondiario senza subirle passivamente, prevedere, anche su aree private, l'obbligo di un concorso a inviti per lotti di tali dimensioni, rendere partecipi gli abitanti della zona. Fare politica urbana significa ragionare a lunga gittata, essere consapevoli di ciò che si eredita e di ciò che si vuole lasciare in eredità. Vogliamo farci ricordare dai nostri figli come i costruttori di questa città senza nerbo, signor sindaco?
Lo chiedo a lei e non solo. Lo chiedo ai suoi assessori: non trovate che questa sia una battaglia da combattere nel nome della cultura cittadina? Lo chiedo ai docenti del Politecnico: è questa l'idea di architettura che vogliamo insegnare ai nostri studenti? Lo chiedo ai soci dell'ADI: nel nome di una nuova sede espositiva siete pronti ad accettare un tale scempio urbano? Chiuderete gli occhi, colpevoli, quando passerete in quel vuoto urbano che fronteggia l'albergo? Lo chiedo alle imprese che vogliono costruire nel nostro territorio: non avete ancora capito che è solo con la qualità progettuale che diverrete davvero competitivi?
Siete coscienti di essere destinati a soccombere se non renderete etico il vostro agire? Lo chiedo al FAI, a Italia nostra, alle associazioni locali: non sarebbe davvero rivoluzionario un popolo che si ribella nel nome della bellezza? Lo chiedo ai politici sia di destra sia di sinistra: siete consapevoli del male che avete fatto e continuate a fare al corpo sfinito di una metropoli che da troppo tempo sogna di rialzarsi, ma che subisce di continuo la zavorra del vostro scarso coraggio?
C´è una realtà sotto gli occhi di milioni di italiani, che essi vedono e patiscono ogni giorno. L´industria italiana sta perdendo i pezzi. Lo dicono, più ancora che i media nazionali, che si debbono per forza concentrare sui casi più eclatanti, la miriade di Tg regionali e di giornali locali. Non ce n´è uno, da settimane, che non rechi in prima pagina l´allarme per un´impresa del luogo che sta per chiudere. Da Varese a Palermo, dal Cuneese al Friuli, da Ancona a Cagliari. Per tal via sono già scomparsi centinaia di migliaia di posti di lavoro; altrettanti rischiano di seguirli nel prossimo anno. Nessun settore sembra salvarsi. Sono in crisi l´auto (ovviamente Fiat: 550.000 vetture prodotte in Italia nel 2010, un quarto rispetto a vent´anni fa) e l´aerospazio (vari siti di Alenia); la costruzione di grandi navi, di cui l´Italia fu leader mondiale (almeno sei siti di Fincantieri) e gli elettrodomestici (Merloni di Fabriano e Nocera Umbra); la microelettronica (ST-Microelectronics a Catania) e il trasporto navale di container (Mct di Gioia Tauro); la siderurgia (Ilva a Taranto) e la chimica (Montefibre a Venezia, Petrolchimico e Vinyls a Porto Torres). Si potrebbe continuare per un paio di pagine. Sono anche crisi, tutte, accompagnate da forti perdite di posti di lavoro nell´indotto e nei servizi, poiché è pur sempre l´industria il settore da cui proviene la maggior domanda di essi.
Di fronte a una simile realtà, ed alla inettitudine dimostrata al riguardo dal precedente governo, ci si poteva aspettare che il governo nuovo aprisse una robusta discussione con sindacati, industriali, manager, esperti del settore, per vedere se si trova il modo o di rilanciare rapidamente le industrie in crisi, o di svilupparne di nuove affinché assorbano il maggior numero di disoccupati presenti e futuri. Invece no. Il governo apre un tavolo di discussione per decidere quali riforme introdurre sul mercato del lavoro al fine di renderlo più flessibile. Ed i sindacati, anziché ribattere che il problema primo e vitale è quello di creare lavoro, accettano di discutere sul come riformare le norme d´ingresso e di uscita da un mercato che intanto rischia una contrazione senza precedenti. Il che equivale a chiedere all´orchestra, tutti insieme, di suonare il valzer preferito mentre la nave è in vista dell´iceberg che la porterà a fondo. Fondo che in questo caso si chiama una durissima recessione, con milioni di disoccupati di lunga durata.
Dinanzi a una simile disconnessione dalla realtà di ambedue le controparti non restano che due strade. Una è arcibattuta: se mai c´è stato in passato un frammento di evidenza empirica comprovante che una maggior flessibilità in uscita accresce il numero degli occupati, a causa della crisi economica in atto tale affermazione è ancora più illusoria. Le imprese non assumono perché non ricevono ordinativi. In molti casi è chiaro che è colpa loro. La grande cantieristica, per citare un caso paradigmatico, conta ancora nel mondo numerose società che producono ogni anno decine di navi d´ogni genere, dalle petroliere ecologiche ai trasporti adatti alle autostrade del mare. Non avendo saputo riconvertirsi, i cantieri di Fincantieri si ritrovano ora con zero commesse. Davvero si può pensare che se gli facilitassero i licenziamenti individuali essi assumerebbero folle di lavoratori?
Un altro argomento che occorre pur ripetere è che il proposito di far assumere come lavoratori dipendenti un buon numero di precari è decisamente apprezzabile. Ma se il contratto di breve durata che caratterizza le occupazioni atipiche si riproduce nell´area dei nuovi contratti perché questi implicano la possibilità di licenziare il nuovo assunto, anche senza giusta causa, per un periodo che addirittura supera di molto l´attuale durata media dei contratti atipici, la precarietà cambierà di pelle giuridica, ma resterà tal quale nella realtà. Le imprese che in questi anni sono ricorse a milioni di contratti di breve durata in forza della legge 30/2003, allo scopo precipuo di adattare la forza lavoro in carico all´andamento degli ordinativi, useranno il periodo di prova, di apprendistato o come si voglia chiamarlo, lungo addirittura tre anni e più, per perseguire il medesimo scopo.
Duole dire che anche le proposte di un potenziamento degli ammortizzatori sociali, sponsorizzato in specie dal Pd, appare arretrato di fronte alla realtà della disoccupazione ed alle sue cause. Certo, se si ritiene che non ci siano alternative, come diceva la signora Thatcher, meglio un sussidio che non la miseria. Ma creare nuovi posti di lavoro in realtà non costerebbe molto di più, immaginazione politica ed economica aiutando. E un lavoro stabile e remunerato intorno o poco sotto alla media salariale è una soluzione che molti preferirebbero rispetto a sette od ottocento euro di sussidio percepito magari per anni, ma senza la possibilità di ritrovare un lavoro. Oltre ad essere, in tema di difesa delle competenze professionali e della coesione sociale, assai più efficace.
L'Italia ha imboccato la stessa strada della Grecia. L'unica possibilità che abbiamo per un'alternativa è quella di condizionare il governo con la mobilitazione sociale. L'importante è cominciare. Al più presto
Il decreto "Salvaitalia" non salverà l'Italia e il decreto "Crescitalia" non la farà crescere. Sembra - quest'ultimo - il nome di un formaggio. Il sobrio Monti ha ereditato da Tremonti il gusto di sostituire espressioni consolatorie alla dura osticità delle cose; com'era la famigerata "Robinhood tax", nome che Tremonti aveva dato a due o tre cose diverse e mai realizzate; o «i conti sono stati messi in sicurezza» (e non lo sono): giaculatoria che Monti ha ripreso tal quale dal precedente ministro. È più probabile invece che da quei due decreti l'Italia esca ulteriormente depressa. Il paese non sta andando a nord-ovest (verso Bruxelles) come sostiene Monti; ma, per usare i suoi riferimenti logistici, a sud-est (verso la Grecia). Le misure adottate dal governo greco, prima e dopo il cambio della guardia, non l'hanno salvata da un primo default - anche se nessuno lo ha chiamato con il suo vero nome - e non la salveranno dal prossimo. E nessun economista serio vede come l'economia della Grecia, sottoposta a quella cura da cavallo, possa risollevarsi nel giro dei prossimi dieci e più anni. Ma l'Italia ha imboccato la stessa strada; che è poi quella "suggerita", cioè imposta, dalla Bce. Quanto all'equità, questa sì, verrà realizzata: equiparando al livello più basso lavoro fisso e precario e superando così «l'apartheid» che li divide (bella espressione, «apartheid»: come se i lavoratori a tempo indeterminato - e non i padroni, che in questi mesi li stanno mettendo entrambi sul lastrico a bizzeffe - avessero rinchiuso i precari dietro una cortina di filo spinato).
Anche le "riforme" si faranno, dato che sia questo termine che "modernizzazione" vengono ormai usati solo per indicare la sottomissione totale dei lavoratori alle imprese; e di queste alle banche; e delle banche - con i buoni uffici dei governi e della Bce - alla finanza ombra che domina l'economia globale. Quanto al "rigore" tanto caro al governo, non è che il rigor mortis di una compagine che al carnevale berlusconiano ha sostituito la "sobrietà", per continuare l'aggressione spietata contro chi lavora, chi è disoccupato, e chi lavora senza guadagnare; senza molto discostarsi da chi li ha preceduti. «Non ci occupiamo solo di questo», ha aggiunto Monti durante la conferenza stampa di fine anno, dato che aveva parlato solo di tassi, spread , debito, conti, bilanci, tagli, tasse. E ha precisato: «Sappiamo che gli uomini sono fatti di carne, ossa e...("anima", avrebbe detto qualcuno di voi; "spirito", o "mente", avrebbe pensato qualcun altro. No)... e denaro» ha concluso il premier.
Ecco: per Monti siamo fatti di denaro ("carne e ossa" sono incidenti di percorso); e, ovviamente, ciascuno conta per il denaro che ha; di cui "è fatto". Scava e scava: tutta la filosofia del liberismo, e soprattutto la sua "prassi", finiscono lì. Prendete Draghi, che lavora in tandem con Monti - e con molti altri - alla salvezza dell'Italia e dell'euro; cioè di chi gli euro li detiene. Ne sta distribuendo miliardi alle banche a man bassa (come Ben Bernanke ha distribuito e continua a distribuire alle banche, anche europee, miliardi di dollari; spiegando che se fosse necessario glieli farebbe anche piovere addosso - alle banche; non ai comuni mortali - gettandoli da un elicottero).
E perché? Per «metterle in salvo». E da chi? Da se stesse: dal fatto che hanno assunto, speculando, troppi rischi; sono piene di titoli tossici (in Italia, più provinciali, di immobili: di Ligresti, Zunino, don Verzé e compagnia); sono ingrassate con i titoli di Stato più redditizi, che ora perdono valore, e di cui non riescono a sbarazzarsi in tempo. E poi? Devono ancora decidere se piazzare quei miliardi in titoli di stato (magari al 7 per cento), o in crediti alle imprese (in Italia al 12-15 per cento), o prestandoli a chi specula in azioni, valute, materie prime o derrate alimentari (con guadagni ancora maggiori), avendoli presi in prestito all'1 per cento (con garanzia dei rispettivi Stati, a cui la Bce però non presta un euro perché sono "inaffidabili"). Nel frattempo quei miliardi se li tengono: anzi, li lasciano - in prestito, allo 0,25 per cento - alla Bce che glieli ha dati. Così le imprese soffocano, chiudono e licenziano; i governi annaspano sotto il peso degli spread e non possono spendere per sostenere redditi, servizi, riconversioni, ricerca, istruzione (o anche solo per offrire alle imprese in difficoltà quelle "garanzie" che concedono alle banche, senza averle nemmeno per se stessi); e le banche possono continuare a nascondere il loro stato comatoso; e la "finanza ombra" ingrassa in attesa di sferrare i prossimi colpi.
Queste vicende hanno qualcosa di surreale, ma alla generalità degli economisti sembrano normali, o addirittura sagge. Perché c'è una logica in tutto questo: quella di "non disturbare il manovratore": cioè l'alta finanza; perché si è accettato di essere completamente nelle sue mani: che non sono quelle di un demiurgo, né buono né malvagio; ma quelle di un meccanismo cieco e sordo che produrrà un disastro: che in prospettiva - ma forse anche in tempi brevi - può essere il crollo dell'euro; e con esso dell'intera costruzione europea e forse dell'economia del pianeta.
C'è un'alternativa a tutto questo? Certamente c'è; ma, per ora, non a livello di governo; né dalle elezioni potrebbe sortirne uno molto di diverso. Per ora l'alternativa c'è solo nella capacità di condizionarne le scelte con una piattaforma condivisa e una adeguata mobilitazione sociale. Ma si deve partire da molto lontano. Innanzitutto dalla capacità di mettere al centro le donne e gli uomini in "carne e ossa"; i nostri bisogni e le nostre aspirazioni; e, soprattutto, il rapporto costitutivo con il nostro prossimo - la solidarietà non è un lusso né un optional - e con l'ambiente fisico in cui viviamo. E non, invece, il denaro - e chi lo possiede o lo controlla - come arbitro insindacabile delle nostre vite.
Non è certo un caso che nella presentazione del suo governo Monti non abbia mai nominato l'ambiente; né la comunità (a parte la "comunità atlantica"). Come non è un caso che l'informazione e la discussione sulla crisi finanziaria abbiano completamente oscurato - per non dire azzerato - informazione e consapevolezza della crisi ambientale, ben più grave, e più carica di pericoli per noi e per le generazioni future, di quella finanziaria. Ma anche ciò che fornisce un filo conduttore: per affrontare i problemi economici a partire dai bisogni umani che l'economia non sa soddisfare; e, soprattutto, per non disperdere in produzioni e progetti senza prospettive, in castelli di carte, in "grandi opere" e nuovi disastri ambientali la dotazione e il potenziale di esperienze, di professionalità, di conoscenze, di impianti, di infrastrutture e di relazioni che questo scorcio di secolo ci lascia ancora a disposizione, prima che sopravvenga la grande notte delle tempeste climatiche.
Costruire un'alternativa significa dunque mettere al centro la conversione ecologica dei nostri consumi, dei sistemi produttivi e del modo in cui gestiamo e amministriamo entrambi. Il che significa certamente declinarli entro la gamma di possibilità che di volta in volta si dischiudono, rispettando - non se ne può fare a meno - i rapporti di forza esistenti. Ma senza sottostare aprioristicamente ai vincoli che l'attuale quadro economico e finanziario - che definisce anche il profilo politico e gli assetti sociali - sembra imporre. Guai a pensare che le attuali politiche adottate a livello nazionale ed europeo siano solo il frutto di una concezione errata dell'economia; e che un più corretto impianto teorico permetterebbe di correggerle.
Certamente il liberismo è arrivato a una resa dei conti, a un suo disvelamento come estrema versione della patafisica : quella disciplina che il suo inventore, Alfred Jarry, aveva denominato «scienza delle soluzioni immaginarie». Il liberismo fornisce un quadro falsato e mitologico del mercato, dove quello che nella realtà è l'incontro tra una formica e un elefante che "negoziano" su chi debba schiacciare l'altro sotto le proprie zampe viene spacciato per una libera contrattazione tra eguali. È incapace di auto-correggersi, perché per quanto evidenti siano i disastri provocati dalle privatizzazioni, li imputa sempre al fatto che non ne sono state fatte ancora abbastanza; e che bisogna privatizzare di più; magari vendendo la mamma o i propri organi. Propugna ricette per rimettere in pista la "crescita" che si riducono sempre e solo a tagli di reddito e occupazione per chi lavora; e mai di profitti. Ma dietro il velo di questa dottrina ormai screditata si nasconde la sostanza corposa di una subalternità totale ai poteri della finanza. E non, o non solo, per comunanza di interessi, o per appartenenza sociale, o per connivenza con chi detiene le leve del potere (cose che certo non mancano; e a volte sono vistose). Ma per un vincolo culturale, che è ormai diventato mentale e costitutivo della vita quotidiana di tutti: quello secondo cui all'attuale assetto di potere e alle scadenze e alle soluzioni che esso impone "non c'è alternativa". Questa tesi, di cui Margaret Thatcher è stata l'emblema, oggi si ripresenta come terrore della parola default . Che può voler dire tante cose: da una ristrutturazione del debito, come quello che Angela Merkel ha imposto alla Grecia, senza alcun beneficio, ahimé, per la sua popolazione, al ritorno a valute nazionali, se reso inevitabile dalla scomparsa dell'euro o da una crisi bancaria globale; passando ovviamente per cento soluzioni intermedie.
Eventualità del genere possono farci rabbrividire e paralizzarci. Oppure spingerci a costruire una via di uscita, facendo appello a esperienze e risorse cognitive oggi completamente escluse dal dibattito e dalla possibilità di influire sulle decisioni. Tanto che per discutere proprio di queste cose molti hanno ritenuto necessario occupare le piazze, in Spagna come in America. Come faranno anche in Russia e in Nordafrica, non appena le condizioni lo renderanno possibile (in Italia per ora ci è andata male per via dell'esito funesto del 15 ottobre); o affiancare quel dibattito agli scontri quotidiani con la polizia, come in Grecia; o farne una rivoluzione pacifica, come in Irlanda.. L'importante è cominciare. E se non ora, quando?
Il presidente Giorgio Napolitano conosce bene i problemi del lavoro ed ha un'antica frequentazione con le persone in carne ed ossa che l'hanno trasformato da schiavitù in occasione di socialità, solidarietà ed emancipazione. La sua tradizione, comunista e migliorista, ha saputo individuare nei rapporti di lavoro e nel loro cambiamento attraverso l'azione sindacale e il conflitto, linfa vitale per la battaglia politica democratica. Dunque, quando nel discorso di fine anno oppure ieri a Napoli ne parla, riesce a entrare in medias res .
Le sue parole indicano come riferimenti il Piano del lavoro di «Peppino» Di Vittorio e la svolta dell'Eur di Luciano Lama. Il primo nasceva dall'analisi di una sconfitta alla Fiat negli anni Cinquanta, dentro una prospettiva di straordinario sviluppo, con il boom economico che si profilava all'orizzonte. La seconda, a cavallo tra il '77 e il '78, arrivava verso la conclusione (e finalizzata alla conclusione) di uno straordinario ciclo di lotta segnato da un'inedità autonomia del movimento operaio italiano. I suoi richiami sono interessanti e utili, vanno presi sul serio. Meritano dunque di essere valutati criticamente, proprio per il rispetto dovuto alla storia e alla cultura del presidente. Il riferimento al Piano del lavoro rimanda a una scelta strategica e a un'analisi dei cambiamenti in atto tese a riportare il sindacato - la Fiom e la Cgil - dentro le fabbriche e nei posti di lavoro. I primi anni del Dopoguerra erano stati segnati dalla prevalenza del ruolo politico della Cgil: solo per fare un esempio, ricordiamo gli scioperi contro l'aggressione nordamericana alla Corea. La Fiom era stata sconfitta al rinnovo delle commissioni interne, vittima dell'epurazione dei comunisti ordinata al ragionier Vittorio Valletta dall'ambasciatrice americana Clare Luce, ma anche di una perdita di rapporto con le condizioni materiali dei lavoratori. Oggi al posto di Valletta c'è Sergio Marchionne, anch'egli impegnato nell'epurazione del dissenso dalle fabbriche Fiat, ma la Fiom ora è fortissimamente radicata nelle fabbriche e la sua azione sindacale è incentrata sulla difesa delle condizioni materiali e della dignità dei lavoratori.
Più consono è invece il richiamo di Napolitano alla politica dei sacrifici cara al Lama dell'Eur. Luoghi comuni del tipo «siamo tutti sulla stessa barca», o la riduzione del conflitto da risorsa per la crescita collettiva - anche dell'economia, anche della democrazia - a problema, possono legittimare il richiamo presidenziale. Lama voleva chiudere la stagione di lotta degli anni Settanta, Napolitano («oggettivamente», si sarebbe detto ai tempi della Terza internazionale) entra nel cuore delle differenze interne alla Cgil, proprio alla vigilia di un importante direttivo nazionale: attraverso i suoi appelli alla «coesione» sociale e all'unità sindacale punta i riflettori, per chi voglia intendere, sulle anomalie. La Fiom che non accetta il ricatto «lavoro in cambio dei diritti», non firma il contratto Fiat e si batte contro la cancellazione del contratto nazionale di lavoro, è l'anomalia.
Anche se il discorso potrebbe essere allargato all'intera Cgil che forse merita, nella visione del Colle, un richiamo a una maggiore disponibilità nei confronti degli «sforzi» di un governo che non sarà unto dal Signore, ma certo fortemente voluto e protetto dal Gotha della finanza e dal Quirinale stesso. Vorremmo rispettosamente esprimere alcune perplessità al presidente Giorgio Napolitano.
1) Lei chiede «coesione sociale» e vede nell'accordo tra capitale e lavoro la conditio sine qua non per uscire dalla crisi e far ripartire il Paese. Ma come si può chiedere «coesione» a un operaio della Fiat, che guadagna 500 volte meno del suo amministratore delegato? Ai tempi di Di Vittorio da lei richiamati, il feroce Valletta guadagnava 20 volte di più dei suoi operai. Oltre che alle forze del lavoro e alla loro «etica», forse presidente dovrebbe rivolgere la sua moral suasion all'«etica» dell'impesa.
2) Lei chiede di ripartire dall'accordo confederale del 28 giugno 2011, siglato con la Confindustria oltre che da Cisl e Uil anche dalla Cgil, ma contestato dalla Fiom. Quell'accordo apre la strada delle deroghe al contratto nazionale, poi spianata dall'articolo 8 della manovra ferragostana di Tremonti. Lei sa meglio di chiunque altro il valore generale del contratto nazionale che è lo strumento della solidarietà generale, così come non le sfugge la conquista democratica rappresentata dallo Statuto dei lavoratori, sempre più oggetto di attacchi strumentali.
3) Il richiamo alla «responsabilità» di chi lavora dovrebbe forse essere accompagnato da un richiamo ai diritti e alle pratiche democratiche. È o non è ingiusto che ai lavoratori sia impedito di votare accordi e contratti che riguardino la loro vita e il loro lavoro? È o non è ingiusto che non venga democraticamente certificato il consenso che i singoli sindacati raccolgono nei posti di lavoro? È o non è ingiusto che senza mandati e senza verifiche alcune organizzazioni sindacali possano decidere per tutti, persino quando rappresentano una minoranza di lavoratori? È o non è inaccettabile che un sindacato non firmatario di un accordo o di un contratto venga «espulso», cancellato, impedito di svolgere attività nelle fabbriche e negli uffici? Secondo la magistratura, che a Torino si espressa in modo chiaro, si tratta di un comportamento antisindacale. Secondo lei, e secondo il governo Monti, che per il Quirinale sarebbe meritorio del sostegno di tutti?
4) Gli accordi separati sicuramente non piacciono a Napolitano, che ha buona memoria dei citati anni Cinquanta. Ma è possibile che l'unico modo per evitarli sia l'obbligo a firmare qualsiasi accordo, magari ritenuto lesivo dei principi della Costituzione? Vorremmo capire meglio il pensiero di Giorgio Napolitano, che certo non può essere banalizzato o strumentalizzato, ma che pure ci lascia perplessi.
Dire il vero: sulla gravità della crisi italiana, sulla nostra seconda cosa pubblica che è l´Europa, sui sacrifici, sul guastarsi dei partiti. Sembra essere una delle principali ambizioni di Monti, da quando è Presidente del Consiglio. Basta questo, per smentire chi decreta – con l´aria di saperla lunga – che il Premier non è che un tecnico, ammesso a sostituire fugacemente il politico detronizzato. La deturpazione funesta delle parole, lo stratagemma d´illudere il popolo imbellendo la realtà e inventandosi, per decerebrarci, un´attualità del tutto sfasata rispetto a ciò che davvero è attuale, cioè urgente, emergente: per decenni ci eravamo assuefatti a questo, e abbiamo finito col chiamarlo «politica». È ora di restituire, a quest´ultima, il severo verbo vero che le si addice.
Ogni volta che Monti viene descritto come un tecnico, entrato per effrazione in un teatro non suo, c´è da avere i brividi. Vuol dire che i politici di ieri ritengono il Premier un impolitico, e il suo sapere scientifico qualcosa di superfluo, se non dannoso, nell´arte di governo. Che giudicano impolitica anche la vocazione a non nascondere quel che è doloroso, dunque profondamente attuale, nell´oggi che viviamo. Da poche settimane sentiamo parlare di Italia e Europa con accenti inediti (un primo assaggio, ma breve, si ebbe nell´ultimo governo Prodi). I cittadini per ora approvano, conoscono una sorta di sollievo.
Si sentono anche confortati, nel loro rigetto cupo della politica? Può darsi, ma c´è un che di nefasto in questa visione duale: da una parte i politici, dall´altra un Premier che ha tutte le doti dello statista, che interiorizza al massimo la rappresentanza democratica, e tuttavia è percepito come tecnico, estraneo ai giochi nazionali. Essere impolitici in una democrazia smagliata ha le sue virtù: impolitico è chi non possiede le furbizie del professionista politico. Ma prima o poi le due figure vanno congiunte (già si congiungono nel Premier) per depurare la politica ed evitare che senza soluzione di continuità, senza memoria di quest´intermezzo, ci venga restituita domani la politica di ieri.
Le parole dette con franchezza, che Monti usa con metodo nelle conferenze stampa, hanno una lunga storia nella democrazia. Ne discussero i filosofi dell´antichità greca, e diedero al dire-tutto il nome di parresia: un vocabolo che torna negli Atti degli apostoli (Pietro e Giovanni rischiano la morte, pur di testimoniare il vero e la libera coscienza del cristiano). Chi parlava senza blandire o mimetizzarsi era chiamato parresiasta. Senza parresia, scrive Foucault, «siamo sottomessi alla follia e all´idiozia dei padroni»: la pòlis ha bisogno di verità, per esistere e salvarsi.
Monti è all´altezza di tale compito? Per come tratta i giornalisti, per come li considera messaggeri dei cittadini – quasi il coro di antiche tragedie – si direbbe di sì. Non tutti i suoi ministri sono parresiasti: l´apprendimento del parlare-vero è lento, sempre scabroso. Si perdono privilegi, ci si espone alle critiche dei sofisti (gli economisti). Nella democrazia ateniese, secondo Socrate e Demostene, si rischiava la vita. Ha parlato-vero il ministro Fornero, quando tremò, il 4 dicembre in sala stampa, nell´annunciare i sacrifici: non perché volesse celarli, ma perché tremando li confermava penosamente veri.
Anche in Europa il Premier è parresiasta, come nessun collega dell´Unione: ai suoi pari come alla stampa, fa capire che c´è emergenza per tutti, che questa è l´attualità dentro cui i leader non guardano. In due occasioni ha osato bandire le deferenze – che già condannava da mesi. Prima è accaduto a Strasburgo, nel vertice del 24 novembre con la Merkel e Sarkozy, quando ha ricordato i peccati di chi oggi vitupera i dilapidatori del Sud: «Una buona parte della perduta credibilità del Patto di stabilità è stata dovuta al fatto che, quando Germania e Francia nel 2003 entrarono in conflitto col patto, i due governi dell´epoca, francese e tedesco, con la complicità del governo italiano che presiedeva il consiglio Ecofin (il governo Berlusconi, ndr), sono passati sopra queste deviazioni. Credo sia stato un grosso errore». Non solo: ha ricordato che fu proprio lui, commissario a Bruxelles, a battersi perché la Commissione denunciasse il Consiglio dei ministri di fronte alla Corte di giustizia, e a ottenerlo.
La seconda occasione è stata la conferenza stampa di fine anno. Aprendo un dialogo con Tobias Piller, corrispondente a Roma della Frankfurter allgemeine Zeitung, il Premier ha fatto una piccola lezione sui tempi lunghi e corti in politica, biasimando l´incapacità tedesca di ritrovare la veduta lunga del passato.
Ci vuole coraggio per firmare le proprie parole, parlando-vero. Chi lo possiede non ha la vita facile, deve esser cauto se non vuol ricadere nel parlar-falso. Alcuni barcollano, tra chi sta accanto a Monti. Per esempio il potente ministro Passera (responsabile dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture, dei Trasporti). Nei giorni scorsi è inciampato malamente, su un caso rievocato dalla stampa: segno che la parresia latita nei partiti, ma un po´ anche nel governo.
Il caso è la mancata vendita di Alitalia e il suo presunto salvataggio: è una delle grandi menzogne dell´era Berlusconi, e su questa pietra Passera ha incespicato. Criticato da Milena Gabanelli e Giovanna Boursier (Corriere della Sera, 30-12) ha replicato: «L´operazione Nuova Alitalia fu del tutto trasparente e rispettosa delle regole, comprese quelle della concorrenza. Con capitali privati si sono salvati almeno 15 mila posti di lavoro ed è stato drasticamente ridotto l´onere che lo Stato avrebbe dovuto sostenere se fosse avvenuto l´inevitabile fallimento dell´intera vecchia Alitalia».
Ricordare è forse difficile per Passera, ma Monti certo sa come andarono le cose. È vero che l´operazione Fenice salvò posti di lavoro e ridusse, per lo Stato, i costi di una bancarotta. Ma il fallimento non era affatto inevitabile. Il governo Prodi aveva stretto un accordo con Air France, che fu sabotato – complici i sindacati – dall´alleanza fra Berlusconi e l´odierno ministro dello Sviluppo (allora amministratore delegato di Banca Intesa). Formalmente è vero che furono rispettate le regole della concorrenza. Ma solo perché il governo Berlusconi modificò con un decreto ad hoc le norme antitrust relative alla tratta Milano-Roma, consentendo a Alitalia-Air One di ottenere il monopolio su tale rotta.
Le cifre parlano chiaro, e un governo che dice il vero non può occultarle. Il piano francese prevedeva 2.120 licenziamenti. Nuova Alitalia, assorbendo la fallimentare Air One di cui Banca Intesa era creditrice, ne licenziò 7.000. L´integrazione con Air France sarebbe stata ben più benefica: minori costi per lo Stato (per i contribuenti), minori costi per azionisti e obbligazionisti Alitalia, nessun cambiamento "in corsa" delle regole per favorire cordate italiane, inserimento di Alitalia in una promettente rete internazionale.
In tempi di crisi, la parola del parresiasta si accosta a quella profetica, o del saggio. I tempi s´allungano, il futuro lontano è incorporato come compito nel presente, la scadenza elettorale non è il cannello d´imbuto che inchioda i governanti alla veduta corta ma è un uscire all´aperto di cittadini bene informati.
Milena Gabanelli e Giovanna Boursier hanno chiesto a Passera di liberarsi dei suoi ingombri. Ma alla domanda viene da aggiungere: guardi al Presidente del Consiglio, signor Ministro, al suo linguaggio. Esca non solo dai conflitti d´interesse, ma dalle tante bugie dette ai cittadini: la bugia su Alitalia l´hanno pagata gli italiani, come contribuenti e lavoratori. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. Un ministro del governo Prodi parlò-vero, all´inizio del 2008, quando disse che avevano «ripreso sopravvento gli impulsi di autodistruzione presenti nella società italiana e nella classe politica», e criticò proprio l´offensiva pregiudiziale di Passera contro l´accordo Air France. Passera è un tecnico, non meno di Monti. Non basta esser tecnici per liberarci della malapolitica che ci ha portati nella fossa.
È stato un Capodanno amaro, amarissimo per gli operai della Jabil. I 320 lavoratori (la metà donne) della componentistica elettronica di Cassina de' Pecchi, alle porte di Milano, occupano la fabbrica dal 12 dicembre, quando la multinazionale statunitense Jabil ha lucchettato le entrate e fatto partire le lettere di licenziamento. Un presidio esterno era stato messo in piedi già da luglio scorso, quando si era cominciato a intuire che l'impresa aveva intenzione di smobilitare, ma tre settimane fa la situazione è precipitata e le tute blu hanno deciso di occupare le linee. «Vogliamo presidiare i macchinari, i manager hanno già tentato di portarne via alcuni - spiega il delegato della Fiom Roberto Malanca - Ma noi abbiamo intenzione di salvare la produzione e i nostri posti, da qui non ci muoviamo: in 100-120 facciamo a turno per tenere in piedi il presidio, assicurando 24 ore su 24 la presenza di 20-30 persone».
La storia della Jabil ricorda quella della Innse, la fabbrica (anche quella milanese) salvata dai suoi stessi operai: da un lato il padrone che voleva vendere perché disinteressato a produrre, e piuttosto intenzionato a mettere a valore il terreno su cui insisteva l'impianto; dall'altro, le tute blu coscienti di non lavorare per uno stabilimento decotto, ma al contrario capace di servire più committenti. «Il sito in cui è posta la Jabil - spiega ancora il delegato Fiom - dà lavoro a 1100-1200 persone, inclusi noi. È un'area enorme, di 160 mila metri quadrati, a duecento metri dalla fermata della metro Cassina de' Pecchi: nel 2011 è scaduto il piano regolatore e si può immaginare che, se dovesse scomparire l'industria, nel nuovo piano che il Comune sta mettendo a punto, potrebbe cambiare la sua destinazione da industriale a commerciale/abitativa. Non a caso abbiamo chiesto al sindaco di Cassina di dichiarare pubblicamente che la destinazione d'uso rimarrà quella attuale, ma finora non abbiamo avuto alcuna risposta».
Le linee della Jabil fanno parte di un più ampio sito in comune con la Nokia-Siemens e con altre ditte minori: la proprietà del terreno è della stessa Nokia, e i lavoratori dipendevano fino al 2007 dalla Siemens; poi, entrata la Nokia in joint venture con Siemens, nel 2007 oltre 300 operai sono stati ceduti (con il montaggio e il collaudo) alla multinazionale Jabil, con l'impegno da parte di Nokia a garantire 3 anni di commesse, scadute l'anno scorso e non rinnovate. La Jabil, che ha sempre puntato soprattutto sulla maxi-commessa Nokia, lasciando poco spazio ad altri committenti (che pure, a detta dei sindacati, si sono presentati a più riprese), nel 2010 ha così deciso di cedere tutto al fondo statunitense Mercatech: «Sotto quel fondo si accumularono montagne di debiti, fino a 70 milioni di euro, tanto che decidemmo di chiedere l'amministrazione controllata - dice Malanca - Ma poi la Jabil ritornò improvvisamente sulla scena e riacquisì la fabbrica, impegnandosi a presentare un piano per il rilancio».
Il rilancio, però, non è mai arrivato, come non si è mai visto un piano: a fine settembre scorso la Jabil ha dichiarato di voler chiudere e ha fatto partire le procedure per i 320 licenziamenti. «E dire che i committenti sono stati tutti allontanati - spiegano dal presidio - La Jabil ha 80 mila dipendenti nel mondo, altrove ha commesse da Ericsson, Philips e altri big. Qui da noi in primavera era arrivata la Huaway, multinazionale cinese dell'elettronica, che aveva chiesto dei prototipi, e avrebbe portato lavoro. Ma la dirigenza ha allontanato tutti, e si è intestardita solo sulla commessa Nokia: finita quella, ha potuto presentarsi al tavolo del ministero con la fabbrica ferma, giustificando la crisi».
I dipendenti spiegano che tutto il sito Nokia-Siemens potrebbe presto essere smobilitato, sempre per liberare il terreno per eventuali mire edilizie: la Nokia pare abbia manifestato la volontà di spostarsi a qualche chilometro di distanza, in un impianto in affitto, per poter vendere, magari, Cassina. Ha già ceduto 250 ingegneri e ricercatori alla canadese Dragon Wave.
«Chiediamo di essere convocati dal ministro dello Sviluppo Corrado Passera - dice Giacinto Botti, segretario regionale Cgil - Io stesso ho lavorato negli anni Settanta e Ottanta in quel sito, che nei tempi d'oro dava occupazione a oltre 2400 persone. La vocazione di Cassina è industriale: il paese, le banche, il commercio, la stessa metro, tutto è sorto grazie all'industria e ora è arduo vedere un futuro diverso. I lavoratori hanno tra i 35 e i 50 anni, abbiamo finito i prepensionamenti e non resta ormai che la cassa in deroga. Stanno lanciando lo stesso appello dell'Innse: non vogliamo vivere di ammortizzatori ma di industria; Jabil, Nokia e la politica locale e nazionale intervengano. D'altra parte la Lombardia ha il 30% della manifattura nazionale e la crisi sta cambiando il panorama: cassa integrazione e licenziamenti stanno sostituendo il lavoro, dobbiamo arrestare questa deriva».
Non solo il caso Jabil è analogo a quello Innse, vistosa protesta sui tetti a parte, ma è forse più emblematico dal punto di vista dello sviluppo territoriale, che come si sa è altra cosa rispetto al famigerato “sviluppo del territorio”. Se la dismissione dell’ex area Innocenti a Lambrate, ancora a cavallo della Tangenziale Est, poneva a livello cittadino il tema di una riduzione di Milano a pura funzione residenziale e terziario-speculativa, quella Nokia-Jabil sull’asse di sviluppo insediativo nord-est rilancia esponenzialmente il tema, enfatizzando proprio la componente territoriale. Non si tratta, ancora, semplicemente di speculazione, ma di rinuncia a qualunque strategia di integrazione funzionale, cosa resa più grave dalla latitanza di un efficace organo di coordinamento a scala vasta (e si vogliono pure abolire le Province senza capire bene cosa mettere al loro posto!).
Il Transit Oriented Development citato in occhiello, altro non è che la contemporanea reazione d’oltreoceano ai danni della segregazione funzionale, che ha prodotto sprawl e degrado urbano: in pratica è il vecchio modello del quartiere “neighborhood unit” a cui si aggiungono funzioni produttive e una stazione al posto della scuola dell’obbligo. Tutto l’asse di sviluppo a cui appartiene l’area Jabil oggi, grazie anche alla cultura anni ’60 del Piano Intercomunale Milanese, è ricchissimo di potenzialità del genere. Ci si intrecciano integratissimi i tre assi di trasporto su gomma (Padana Superiore), ferro (MM2 extraurbana), e della mobilità dolce pedonale-ciclabile; convivono centri storici abbastanza ben conservati, cospicui residui di verde agricolo, periferie nuove per nulla degradate, e un ricco tessuto produttivo focalizzato per nodi.
Purtroppo, in assenza di una regia concreta e dotata di autorità, salvo l’acqua fresca di volontaristici Piani d’Area o Schemi Strategici, anche le politiche territoriali dei comuni devono in un modo o nell’altro adattarsi a ciò che passa il convento, e “valorizzare le occasioni” che capitano. In questo senso la lotta di una fabbrica avanzata, in un settore affatto in crisi, pone davvero in primissimo piano sia il rapporto fra assetto territoriale e sviluppo sostenibile, sia l’urgenza di varare al più presto la Città Metropolitana, perché pur nei suoi limiti di programmazione e pianificazione possa svolgere alla scala necessaria un ruolo di regia, a evitare che prosegua - indisturbata e indisturbabile - questa dissipazione di ricchezze, comprese quelle lasciateci in eredità dalla cultura urbanistica-amministrativa del XX secolo (f.b.)
La convenzione stabilisce che il mancato via libera del progetto con terrazza comporti la restituzione dei 6 milioni. Tutti gli investimenti avviati in città dal gruppo di Ponzano Veneto
La ristrutturazione del Fontego dei Tedeschi, con l’inserimento all’interno di esso di un centro commerciale - probabilmente la Rinascente - è un altro “tassello” dello sbarco su Venezia del gruppo Benetton che prosegue già da diversi anni, con diverse iniziative in campo immobiliare, commerciale e della ristorazione.
Un’operazione - quella della ristrutturazione del Fontego acquistato da Poste Italiane qualche anno fa – che segue la grande operazione del Monaco e del Ridotto, con la ristrutturazione di tutto il complesso acquistato a suo tempo dal Comune, con l’imminente riuso degli spazi della ex libreria Mondadori, poi mandata via, che dovrebbero essere affidati a un nuovo negozio di Louis Vuitton.E, ancora prima, il gruppo Benetton si era impegnato nell’acquisizione dell'isola di San Clemente e delle aree del Tronchetto - poi venduti - e nel restyling della stazione di Santa Lucia, ancora in corso attraverso Grandi Stazioni, la società in cui Benetton è uno dei soci privati di maggioranza.
Se Benetton non riuscirà a realizzare con la sua ristrutturazione del Fontego dei Tedeschi la terrazza panoramica sul tetto e le scali mobili interne previste dal progetto dell’architetto olandese Rem Koolhaas, che tanto fanno discutere per il loro impatto, il Comune dovrà restituire a Edizione Property - la società immobiliare del gruppo di Ponzano titolare dell’immobile - i 6 milioni di euro di indennizzo ricevuti per il via libera al cambio di destinazione d’uso. Una condizione-capestro che chiama in causa anche la decisione che sulla ristrutturazione dell’edificio cinquecentesco dovrà prendere la Soprintendenza d’intesa con la Direzione regionale dei Beni Culturali.
E’ scritto con chiarezza al punto 9 della convenzione sottoscritta da Edizione e Comune. «Tutti gli impegni assunti da Edizione - si legge - si intendono risolutivamente condizionati alla circostanza che, per qualsiasi motivo indipendente dalla volontà di Edizione, non sia possibile conseguire l’obiettivo della riqualificazione e rifunzionalizzazione del Fondaco nei termini indicati nelle premesse, in sostanziale conformità al progetto elaborato dall’architetto Rem Koolhaas, entro il termine massimo di 48 mesi dalla sottoscrizione di questa convenzione, o comunque che non sia stato possibile ottenere tutti i provvedimenti amministrativi necessari entro 12 mesi dalla data di sottoscrizione di questa convenzione. Al verificarsi di una delle due ipotesi Edizione avrà diritto di ottenere, a sua semplice richiesta scritta, la restituzione dell’intero importo del contributo previsto a titolo di beneficio pubblico da parte del Comune di Venezia, oltre agli interessi al tasso legale».
Il rischio che ciò accada è concreto, perché non è affatto scontato che da Soprintendenza e Direzionale Regionale dei Beni Culturali arrivi il via libera alla terrazza panoramica di Koolhaas realizzata con la demolizione del tetto attuale. «Data anche la particolare delicatezza dell’intervento sul Fontego dei Tedeschi - dichiara infatti il direttore regionale Ugo Soragni - mi aspetto di concordare con la Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia il parere sull’intervento, e non ho dubbi che così avverrà». La Direzione regionale ha ora anche l’ultima parola sulle demolizioni in edifici vincolati nell’area veneziana e il precedente al no alla trasformazione d’uso di Ca’ Corner della Regina, induce alla prudenza sul giudizio finale. E il no alla terrazza costerebbe caro al Comune.
Appello alla Soprintendente di Firenze Cristina Acidini e al Sindaco di Firenze Matteo Renzi
Desideriamo esprimere la nostra grande preoccupazione per la sorte dell’affresco di Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio a Firenze che in questi giorni viene bucato a più riprese nel tentativo di rintracciare quel che potrebbe rimanere della Battaglia di Anghiari di Leonardo.
La dissociazione della dottoressa Frosinini, responsabile del settore pitture murarie presso l’Opificio delle Pietre Dure, ha mostrato che all’interno dell’Opificio stesso non c’è accordo sulla natura e sui rischi di questi interventi.
Riteniamo del tutto improbabile che Vasari abbia sigillato qualcosa di ancora leggibile sotto un muro, e ci preoccupa che siano stati a dir poco sottovalutati i più attendibili risultati della ricerca storico-artistica, i quali mostrano che la Battaglia era con ogni verosimiglianza sulla parete opposta a quella che ora si sta forando.
Condividiamo dunque le ragioni dell’esposto presentato da Italia Nostra alla Procura della Repubblica di Firenze, e chiediamo alla Soprintendente Cristina Acidini e al Sindaco Matteo Renzi di fermare i lavori, e di non riprenderli senza aver insediato un osservatorio terzo, formato da autorevoli specialisti di storia dell’arte del Rinascimento.
Salvatore Settis, accademico dei Lincei
Francesco Caglioti, ordinario di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’
Tomaso Montanari, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’
Paolo Maddalena, Vice Presidente emerito della Corte costituzionale
Antonio Pinelli, Ordinario di Storia dell'arte moderna, Università degli Studi di Firenze
Alessandro Nova, Direttore del Kunsthistorisches Institut di Firenze
Keith Christiansen, curatore capo della pittura europea, The Metropolitan Museum of Art, New York
Patricia Rubin, Director, Institute of Fine Arts, New York
Elizabeth Cropper, Art Historian
Charles Dempsey, Professor Emeritus, The JohnsHopkinsUniversity
Paola Barocchi, professore emerito di Storia della critica d’arte, Scuola Normale Superiore, Pisa
Desideria Pasolini dall’Onda, Presidente onorario Comitato della Bellezza
Adriano La Regina, Presidente Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte
Mario Torelli, Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana, Università di Perugia
Carlo Gasparri, Ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana, Università “Federico II”, Napoli
Rita Paris, Direttore del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, Roma
Maria Pia Guermandi, archeologa, vicedirettore eddyburg.it
Giovanni Losavio, magistrato, Italia Nostra
Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza
Chiara Silla, Dirigente Settore Biblioteche, Archivi e Istituzioni culturali della Regione Toscana già direttrice dei Musei Comunali di Firenze
Olivier Bonfait, Professore di storia dell'arte moderna, Università di Digione, Presidente dell'APAHAU
Julian Gardner, Samuel H. Kress Professor, Center for the Advanced Study of the Visual Arts, National Gallery of Art, Washington DCCharles Hope, Professor Emeritus, former Director of the Warburg Institute
Carl Brandon Strehlke, Curator, PhiladelphiaMuseum of Art
Marzia Faietti, Vicepresidente Comité International Histoire de l’Art, Sezione Italiana
Adele Campanelli, Soprintendente per i beni archeologici delle provincie di Salerno Benevento Avellino e Caserta
Gino Famiglietti, Direttore generale Beni culturali del Molise
Luke Syson Curator, Italian painting before 1500 National Gallery London
Daniele Ferrara, soprintendente ai beni storici artistici ed etnoantropologici del Molise
Mirella Barracco, presidente Fondazione Napoli Novantanove.
Cesare De Seta, Ordinario di Storia dell’architettura, SUM,
Giovanni Agosti, Università degli Studi di Milano
Caroline Elam, storica dell’arte
Benedetto Marcucci, Consigliere della Presidente della Commissione Cultura della Camera
Margaret Haines, Senior Research Associate, Villa I Tatti
Roberto Bellucci, Restauratore Conservatore Direttore Coordinatore, Opificio delle Pietre Dure
Carmen Bambach, Curator of Drawings and Prints, The MetropolitanMuseum of Art Andrew Mellon Professor National Gallery of Art
Michela Di Macco, Università La Sapienza, Roma
Carlo Ginzburg, storico
Cecilia Frosinini, storica dell'arte, direttore coordinatore Opificio delle Pietre Dure, Firenze
Sally J. Cornelison, Associate Professor of Italian Renaissance Art, University of Kansas
Steven F. Ostrow, Professor of Art History, University of Minnesota, USA
Andreina Ricci, Ordinario di Archeologia Classica, Università di Tor Vergata, Roma
Anne Markham Schulz, Research scholar, BrownUniversity, Providence, RI
Fabrizio Nevola, Senior Lecturer in History of Architecture, Department of Architecture and Civil Engineering, University of Bath, UK
Novella Barbolani di Montauto, ricercatrice di Storia dell’arte moderna, Università di Roma ‘La Sapienza’
Giovanna Gaeta Bertelà, funzionario tecnico scientifico SBAS FI, in pensione
Nicole Dacos, storica dell'arte, Roma - Bruxelles
Aldo Galli, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Trento
Christa Gardner von Teuffel, OxfordGirolamo Zampieri, già direttore dei musei civici e direttore del museo archeologico di Padova
Alessandro Angelini, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Siena
Maria Teresa Filieri, Direttore scientifico, Fondazione Centro Studi Ragghianti
Donata Levi, Ordinario di Storia della critica d’arte Università di Udine e redazione di Patrimonio SOS
Elena Della piana, Professore Associato di Storia dell'Architettura contemporanea e del design, Politecnico di Torino
Laurence Kanter, Chief Curator and Lionel Goldfrank III Curator of European Art, YaleUniversityArtGallery
Alessandro Bagnoli, storico dell'arte, Soprintendenza di Siena
Machtelt Israëls, storica d'arte
Laura Cavazzini, professore associato di Storia dell’arte medievale, Università di Messina
Davide Gasparotto, storico dell'arte, Andrew W. Mellon Fellow, The Metropolitan Museum of Art, New York
Clemente Marconi, James R. McCredie Professor of Greek Art and Archaeology e University Professor, Institute of Fine Arts - New YorkUniversity
Claudio Pizzorusso, professore ordinario di Storia dell’arte moderna, Università per stranieri di Siena
Stefania Tullio Cataldo, chargée de recherche, Museo del Louvre
Maddalena Spagnolo, Research Associate, Columbia University
Michele Dantini, professore di storia dell'arte contemporanea all'università del Piemonte orientale
Mariarita Signorini, restauratrice Polo Museale Fiorentino
Leonardo Rombai, docente di geografia Università di Firenze
Anna Maria Petrioli Tofani, ex Direttrice Galeria degli Uffizi Firenze
Antonella Rubicone, archeologa
Bolko von Schweinichen, architetto
Ornella de Zordo Docente università di Firenze (Consigliere capogruppo comunale di Firenze PerUnaltracittà)
Tommaso Grassi, Consigliere capogruppo comunale di Firenze Sinistra e Cittadinanza
Massimo Ramalli, avvocato amministrativista
Paolo Celebre, Architetto
Gabriella Pizzala, giornalista
Stefano Causa
Liliana Barroero, Ordinario di storia della critica d’arte, Università Roma Tre
Fausto Zevi, Ordinario di Archeologia classica, Università di Roma La Sapienza
Maria Monica Donato, Professore ordinario di Storia dell'arte medievale, Scuola Normale Superiore di Pisa
Gianfranco Fiaccadori, Università degli studi di Milano
Maurizia Migliorini, Professore associato storia della critica d’arte, Università degli Studi di Genova
Alessandra Giannotti, ricercatrice di Storia dell’arte moderna, Università per stranieri di Siena
Barbara Agosti, professore associato di Storia della critica d’arte, Università di Roma ‘Tor Vergata’
Giovanna Perini Folesani, professore ordinario di Storia della critica d’arte, Università di Urbino
Michele Maccherini, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università dell’Aquila
Donatella Pegazzano, ricercatrice universitaria, Firenze, Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo
Lucia Faedo, ordinario di Archeologia, Università di Pisa
Paolo Macry, ordinario di Storia contemporanea, Università di Napoli ‘Federico II’
Maria Luisa Catoni
Angela Pontrandolfo, Ordinaria di Archeologia, Università di Salerno
Daniele Menozzi, prof. ord. di Storia contemporanea, Scuola Normale Superiore
Claudio Zambianchi
Alessandra Malquori, storica dell’arte, docente a contratto, Università degli Studi di Firenze
Bianca De Divitiis, Ricercatrice in Storia dell'Architettura, Università di Napoli ‘Federico II’
Rosanna De Gennaro, professore associato di Storia dell’arte moderna, Università di Napoli ‘Federico II’
Carmela Vargas, storica dell’arte, Università Suor Orsola Benincasa, Napoli
Gioacchino Barbera, dirigente superiore storico dell'arte Regione Sicilia
Fabrizio Federici, storico dell’arte
Bruno Zanardi, professore Associato di Teoria e Tecnica del Restauro, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"
Angela Dressen, Andrew W. Mellon Librarian, Villa I Tatti, Firenze
Francesca Fiorani, Associate Professor of Art History, University of Virginia
Hellmut Wohl, Professore di Storia dell’arte Emeritus, Boston University
Alice Sedgwick Wohl, editor, Bibliography of the History of Art, retired
Silvia Urbini, storica dell’arte
Gemma Cautela, ispettore onorario Mibac
Amedeo Di Maio, Professore ordinario di Scienza delle finanze e di economia dei beni culturali Università di Napoli L'Orientale
Fina Serena Barbagallo, storico dell'arte, Siracusa
Elena Fumagalli, Università di Modena e Reggio Emilia
Sebastiana Scalora, archeologo
Roberto Paolo Novello, storico dell'arte, Carrara
Maria Cristina Ronc, Regione Autonoma Valle D'Aosta, Dipartimento Soprintendenza per i beni e le attività culturali, MAR-Museo Archeologico Regionale
Maria Pia Bianchi, Docente scuola secondaria II grado, fiorentina
Brenda Preyer, Professor Emerita of Art History, University of Texas, Austin
Antonio Milone, storico dell'arte
Ida Mauro, Ricercatrice , Universitat de Barcelona, Departament de Història Moderna
Sara Fuentes Lázaro, PhD Candidate, Universidad Complutense de Madrid - Kunsthistorisches Institut in Florenz
Valeria Manfrè, Dottoranda, Universidad Autónoma de Madrid, Departamento de Historia y Teoría del Arte
Macarena Moralejo Ortega, Profesora asociada, Universidad Autónoma de Madrid, Departamento de Historia y Teoría del Arte
Daniele Benati, Università di Bologna; Presidente - Italia Nostra, sezione di Bologna
Anne Markham Schulz, Research Scholar, BrownUniversity, Providence, R.I.
Jurgen Schulz , Professor of History of Art and Architecture, BrownUniversity
Massimiliano Pieraccini, professore associato di tecnologie per i beni culturali, Università di Firenze
Giorgio Marini, curatore, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi
Stefania Tagliaferri , studente Storia e critica dell'arte all'Università degli Studi di Milano
Margherita d'Ayala Valva, storica dell'arte
Ginevra Facchinetti , Bologna
Laura Lombardi, docente di Fenomenologia delle arti contemporanee, Accademia Belle Arti di Milano
Luisa Ciammitti, storica dell’arte
Jessica Nucci, studentessa di Storia dell'arte, università di Pisa
Luigi Giacobbe, Funzionario storico dell'arte, Soprintendenza BB.CC.AA. - Messina
Stefano Isola, professore di Fisica Matematica, Università di Camerino
Beatrice Nizzetto, operatrice culturale
Sara Tartaglia, Dott. in Scienze dei beni culturali e studentessa di Pratiche Curatoriali
Clara Pogliani
Cinzia Maria Sicca, Presidente del Corso di Dottorato in Storia delle Arti Visive e dello Spettacolo, Dipartimento di Storia delle Arti, Università di Pisa
Maria Beltramini, professore associato di storia dell’architettura, Università di Roma Tor Vergata
Andrea De Marchi, Università di Firenze
Germana Borrelli, musicista
Paola Gioia Valisi, studentessa di Storia dell'Arte dell'Università degli Studi di Milano
Maria Rosa Pizzoni, dottoranda di ricerca in Storia dell'Arte
Vinni Lucherini, Università di Napoli
Donatella Martini, manager, Milano
Enrico Castagnoli, libero professionista, Milano
Ginevra Castagnoli, studentessa Milano
Genoveffa Ciampella, pensionata Milano
Artemisia Diegoli, pensionata Cervia (Ravenna)
Ilenia Bove, dottoranda di ricerca in Storia dell’Arte
Marisa Laurenzi Tabasso, Chimico - Professore a contratto dell'Università La Sapienza (ROMA)
Donatella Spagnolo, funzionario storico dell'arte Museo regionale di Messina
Andrea Zezza, professore associato di Storia dell’arte moderna, Seconda Università di Napoli
Antonella Capitanio, ricercatrice di Storia dell’arte, Università di Pisa
Marco Dorati, Ricercatore, Università Carlo Bo di Urbino
Gabriele Fattorini, professore a contratto, Università di Siena
Massimiliano Rossi, Università del Salento
Sonia Chiodo, Professore Aggregato, Storia dell'Arte Medioevale, Università di Firenze
Cecilia Ghibaudi, Funzionaria storico dell’arte, BSAE , Milano
Alessandra Migliorato, funzionario Museo Regionale di Messina
Fiamma Nicolodi, ordinaria di Musicologia presso l'Università di Firenze
Tommaso Casini, Professore associato di Museologia, storia della critica artistica e del restauro, IULM
Gaetano Bongiovanni, funzionario direttivo storico dell’arte, Soprintendenza di Palermo
Jacopo Stoppa, Università degli Studi di Milano
Guido Dall'Olio, prof. associato di Storia Moderna Università di Urbino "Carlo Bo"
Mario Alai, ricercatore di filosofia del linguaggio Facoltà di lettere e filosofia, Universita' di Urbino "Carlo Bo"
Laura Fenelli, Frances A. Yates postdoctoral fellow, the Warburg Institute, London
Samo Štefanac, professore ordinario al Dipartimento di storia dell'arte all'Universita' di Ljubljana
Paola D’Alconzo, professore associato di Museologia, Università di Napoli “Federico II”
Massimiliano Savorra, Professore associato di Storia dell’architettura, Università degli studi del Molise
Marinella Pigozzi, direttrice del dottorato in Storia dell'arte, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
Stefano Zamponi, Università di Firenze
Virginia Buda, Funzionario Storico dell'arte - Soprintendenza BB.CC.AA. di Messina
Giovanna Ragionieri, docente di Storia dell'arte, Liceo Artistico "Leon Battista Alberti" Firenze
Gabriele Bottino, Professore Associato di Diritto Amministrativo - Università degli Studi di Milano
Paola D’Agostino, Metropolitan Museum, New York
Livia Maggioni, redattrice di storia dell'arte, Dizionario biografico degli Italiani
Riccardo Spinelli, storico dell’arte
Stefania Petrillo, Università degli Studi di Perugia
Lara Conte, Dottore di ricerca in Storia dell'arte
Emanuele Zappasodi, Borsista Fondazione di Studi di Storia dell'Arte Roberto Longhi, Firenze; Dottorando Storia dell'Arte, Università degli Studi di Firenze
Alessandro Brogi, Storico dell'arte
Mattia Patti, Storico dell'arte - Presidente della Fondazione Culturale d'Arte Trossi Uberti, Livorno
Federica De Rosa, storico dell'arte
Silvia Bruno, storica dell'arte, docente scuola secondaria superiore
Federico Fischetti, Storico dell'arte
Irene Sabatini, Storica dell'arte
Simonetta Nicolini, Storica dell'arte
Denise La Monica, storica dell’arte
Debora Minotti, restauratrice dipinti mobili, diplomata Opificio delle Pietre Dure
Serena D’Italia, dottoranda in storia dell’arte
Mauro Campus
Alda (Lara) Fantoni
Matilde Gagliardo, storica dell’arte e regista
Silvia Ottolini, restauratrice Parma
Liletta Fornasari, storica dell’arte, Primo Rettore della Fraternita dei Laici di Arezzo
Clara Rech, Dirigente scolastico liceo Visconti Roma
Fabien Benuzzi, dottorando in Storia dell'Arte, Università Ca' Foscari, Venezia
Patricia Laurati, storica dell’arte
Sergio Momesso, storico dell’arte, insegnante
Chiara Teolato, Storica dell'arte
Erica Bernardi, Scuola di Specializzazione in storia dell'arte presso l'Università degli Studi di Milano
Mario Bencivenni, storico e docente, Liceo Artistico L.B.Alberti Firenze
Enrico Parlato, Università della Tuscia
Lidia Antonini, docente di storia dell’arte, Liceo classico di Spoleto
Anchise Tempestini, storico dell’arte
Marcello Simonetta, storico, New York/Parigi
Noga Arikha, storica, New York/Parigi
Alessandro Savorelli, docente di filosofia, Scuola Normale Superiore di Pisa
Cristiano Giometti, Storico dell'arte, Pisa
Mirco Modolo, dottorando storia dell’arte, Università Roma Tre
Daniele Simonelli, Storico dell'Arte, Cortona (AR)
Giovanna Virde, insegnante di Storia dell'arte
Elena Parenti, insegnante di storia dell'arte
Guido Rebecchini
Barbara Furlotti
Claudio Franzoni, docente di storia dell’arte
Valeria Mirra, dottore di ricerca in storia dell'arte, Roma
Francesco Gatta, storico dell'arte
Federico Micali, regista
Giancarlo Busti
Jan Bigazzi, architetto
Biancamaria Valeri, dirigente scolastico del liceo artistico "Anton Giulio Bragaglia" di Frosinone
Maria Teresa Valeri, dirigente scolastico dell'istituto magistrale "Fratelli Maccari" di Frosinone
Antonio Fazzini, attore
Oreste Pivetta
Donatella Tramontano, Ordinario di Biologia applicata, Università Federico II, Napoli
Irene Recchia, ingegnere
Chiara Cariglia, Università di Perugia
Marta Sironi, collaboratrice alla ricerca, Università di Milano
Luca Del Pia, fotografo
Marco Perrone, informatico
Valentina Incerpi, impiegata
Marina Pugliano, Firenze, traduttrice
Giancarlo Riccio, Giornalista e storico del giornalismo
Andrea Tacchi e Susanna Pasquariello, cittadini di Firenze, musicisti dell’Orchestra della Toscana
Luciano Cateni, Docente di scuola secondaria superiore
Carlotta Baccei, studentessa in Scienze dei BB CC - Storia dell'Arte, Università di Pisa
Daniele Pentassuglio
Francesconi Daniela, studentessa Scienze dei Beni Culturali a Pisa
Letizia Paolettoni, studentessa di storia e tutela di beni artistici, università di Firenze
Anna Maria Pintus, Dirigente scolastico in pensione
Joela Laghi, studentessa di Belle Arti
Agnese Marcheschi, studentessa di Belle Arti
Raffaella Cannizzaro, laureata in scienze dei beni culturali presso l'Università di Pisa
Laura Mariani, storica dell’arte, Archivio fotografico del Castello Sforzesco di Milano
Luca Palozzi, storico dell'arte, borsista Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze
Chiara Piccinini, Université Bordeaux 3
Angela Maria Curreli, collaboratrice Soprintendenza di Pisa
Rita Salis, laureata in Storia dell'arte
Marialucia Menegatti , storica dell'arte
Bruno Bevacqua, storico dell'arte
Oscar Cattaneo, studente
Chiara Battezzati, studentessa
Gabriele Donati, dottorando in Storia dell'Arte, Istituto Nazionale di Studi del Rinascimento, Firenze
Costanza Caraffa
Silvia Somaschini, laureanda in Storia e Critica dell'arte, co-curatrice presso la Collezione Giuseppe Iannaccone di Milano
Ileana Servidio, studentessa di Beni Culturali all'Università di Torino
Roberta Manetti, ricercatore, Università del Piemonte Orientale
Simone Amerigo, storico dell'arte, neo-dottorando di ricerca, Università degli Studi di Torino
Dominique Thiébaut (Mme), Conservateur général au département des Peintures, Musée du Louvre
Evelina Borea, ex direttore Istituto Centrale del Restauro
Louis Frank, Conservateur au Cabinet des dessins, Département des Arts graphiques, Musée du Louvre, Paris
Beatrice Paolozzi Strozzi
Ilaria Ciseri
Serena Padovani, Già direttore della Galleria Palatina
Miklós Boskovits, Professore emerito di Storia dell'Arte, Università di Firenze
Dr. Elisabetta Sambo, Fondazione Federico Zeri
Andrea Bacchi, associato storia arte moderna, Università di Trento
Anna Chiara Tommasi, storica dell’arte
Francesca Bottacin
M. Letizia Gualandi, Università di Pisa, Dpt. di Scienze archeologiche
Francesca Rossi, conservatrice del Gabinetto dei Disegni del Castello Sforzesco, Milano
Anna Provenzali, Conservatore del Civico Museo Archeologico di Milano
Maria Cristina Molinari, Direzione Musei Capitolini – Medagliere
Brigitte Daprà, Ufficio Mostre e prestiti, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Napoli
Maria Rita D'Amato, Civiche Raccolte Grafiche e Fotografiche, Civico Gabinetto dei Disegni, Castello Sforzesco
Marinella Pasquinucci, Prof. ordinario Topografia antica, Università di Pisa
Arnaldo Tranti, designer
Adriana Capriotti, storico dell'arte dir. coord. direttore Servizio Furti, Sequestri, Rapporti con le Forze dell'Ordine, Soprintendenza Speciale P.S.A.E. e Polo Museale della Città di Roma
Fiorella Sricchia, già ordinario storia arte moderna, Federico II, Napoli
Marina Santucci, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico, Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Napoli
Pier Luigi Leone De Castris, ordinario storia arte moderna, Suor Orsola Benincasa, Napoli
Francesco Aceto, ordinario storia dell’arte medioevale, Federico II, Napoli
Francesco Federico Mancini, ordinario storia arte moderna, Perugia
Lucio Galante, Ordinario di Storia dell'arte moderna – Università del Salento.
Vincenzo Palleschi Head of the Applied Laser Spectroscopy Lab. Institute of Chemistry of Organometallic Compounds Research Area of CNR, PISA
Matej Klemenčič, Direttore del Dipartimento di storia dell'arte, Facoltà di lettere, Università di Ljubljana, Presidente della Società di storici dell'arte di Slovenia
Renata Novak Klemenčič, Dipartimento di storia dell'arte, Facoltà di lettere, Università di Ljubljana
Daniel Pocs, Istituto di Storia dell'Arte, Accademia Ungherese delle Scienze
Elena Bianca Di Gioia, storica dell'arte
Elisabetta Giffi, storica dell’arte
Rolando Bussi, Divisione Arte, Franco Cosimo Panini
Graziana Maddalena, studentessa di Scienze dei Beni Culturali all'Università di Pisa, nonchè rappresentante degli studenti in Corso di Laurea per Ateneo Studenti - Lista Aperta.
Elena Lazzarini, ricercatore (a contratto), Università di Pisa, Dipartimento di Storia Delle Arti
Gabriella Mancini, insegnante, Liceo Artistico Virgilio di Empoli.
Ilaria Di Francesco. Dottoranda in Storia dell'Arte Medievale
Prof.ssa Claudia Urbanelli, Liceo Alberti, Firenze
Silvia Porto Direttore Servizi Amministrativi Liceo Michelangiolo Firenze
Luca Tosi, libero professionista settore storico-artistico
Ballarin Giovanni - Laureando in Beni Culturali - Napoli
Manzo Anna - Insegnante di Lettere – Napoli
Silvia Armando, storica dell’arte
Giovanna Tedeschi Grisanti, prof. di Storia dell' architettura antica, Dipartimento di Scienze Archeologiche, Università di Pisa
Isabella Fiorentini, Funzionario responsabile dell'Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana, Milano, Castello Sforzesco
Irene Baldriga, docente di Storia dell’arte, Roma
Giulia Zorzetti, restauratrice, Napoli
Maria Teresa de Falco, restauratrice, Napoli
Paola Foglia, restauratrice, Napoli
Francesco Virnicchi, restauratore, Napoli
Prof. Gino Fornaciari, Ordinario di Storia della Medicina, Direttore, Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica, Univerità di Pisa
Daniele Fusi, docente di Storia della Musica e Bibliotecario presso l'Istituto Superiore di Studi Musicali (ISSM)
Dr. Luca Pezzati, Coordinatore del Gruppo Beni Culturali, Istituto Nazionale di Ottica, INO – CNR
Mariadelaide Cuozzo (Ricercatrice e Prof.ssa Aggregata di Storia dell'arte contemporanea, Università degli Studi della Basilicata)
Daniele Piacenti , Restauratore di Beni Culturali
Iacopo Cassigoli, storico dell'arte, Firenze
Gianni Turchetta, Ordinario di Letteratura italiana contemporanea Università degli Studi di Milano
Alessio Monciatti, professore associato di Storia dell'arte medievale, Università degli Studi del Molise
Barbara Mancuso, ricercatore Storia dell'arte moderna - Università di Catania
Grazia Maria Fachechi, Ricercatrice di Storia dell'arte medievale, Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo"
Alessandra Perriccioli Saggese, Ordinaria storia arte medioevale, Seconda Università di Napoli
Maria Viveros, docente
Matteo Ceriana, direttore delle Gallerie dell’Accademia, Venezia
Marco Collareta, Direttore Dipartimento storia delle arti, Università di Pisa
Diego Arich (Accademia di Belle Arti di Verona)
Giampaolo Ermini, storico dell’arte
Roberto Ciardi, storico dell’arte, Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei
Andrea Paribeni, ricercatore, Dipartimento di Scienze del testo e del patrimonio culturale, Università degli Studi di Urbino 'Carlo Bo'
Giorgia Mancini, Research Fellow, National Gallery, London
Gian Piero Cammarota, storico dell'arte, Soprintendenza BSAE di Bologna
Mattias Quast, storico dell’arte e presidente Associazione culturale amphitheatrum (Spoleto-Heidelberg)
Lucia Fanelli
Charles Davis, studioso (anche) del Vasari
Carlo Bertelli
Anna Lo Bianco, Direttrice della Galleria Nazionale di arte antica, Palazzo Barberini, Roma
Angela Cerasuolo, Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico, Etnoantropologico e per il Polo Museale della citta' di Napoli
Emanuela Daffra, Soprintendenza per i Beni storici artistici ed entonantropologici della lombardia occidentale
Renata Ghiazza, Conservatore Museo del 900, Casa-Museo Boschi Di Stefano, Milano
Orso Maria Piavento, Perfezionando in Storia dell'Arte - Scuola Normale Superiore di Pisa
Rosanna Cioffi, presidente di CUNSTA
Antoni José i Pitarch,Catedràtic d'Història de l'Art (professore ordinario), Universitat de Barcelona.
Cecilia Prete, università degli studi di Urbino Carlo Bo
Roberta Bartoli, Visiting Professor, University of Minnesota
Bruno Ciapponi Landi, Vicepresidente della Società Storica Valtellinese
Monica Grasso, docente a contratto di Iconografia e Iconologia, Università degli studi di Urbino 'Carlo Bo'
Gerardo De Simone, Accademia di Belle Arti di Napoli
Alfredo Bellandi, ricercatore, Università degli Studi di Perugia.
Anna Maria Amonaci, storica dell'arte e della fotografia, docente presso l'Accademia di Belle Arti di Brera.
Serena Simoni, docente di Storia dell'arte, Ravenna
Angela Ghirardi, Storica dell'arte dell'Università di Bologna
Stefania Mason, docente Storia dell’Arte, Università di Udine
Silvia Ginzburg, professore di Storia dell’Arte moderna, Università di Roma tre
Grégoire Extermann, ricercatore, Università di Ginevra
Elide La Rosa, redattore de "L'Indice dei libri del mese"
Annamaria Ducci, PhD Storia dell'arte, Lucca
Giuliana Mazzi, professore ordinario di Storia dell'architettura, Università di Padova
Marco Tanzi, professore ordinario di Storia dell’Arte moderna, Università del Salento
Francesca Fabbri, storica dell'arte
Sara Micheli, restauratrice
Maria Federica Manchia, studentessa di Storia dell'arte, Roma
Mario Cobuzzi
Valentina Reino , studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Pisa
Lucia Maria Bresci, restauratrice, diplomata presso l'Opificio delle Pietre Dure di Firenze
Antonella Casaccia, restauratrice dipinti mobili diplomata Opificio delle Pietre Dure di Firenze
Oriana Sartiani, Funzionario Conservatore Restauratore Opificio delle Pietre Dure, Firenze
Luca Logi, responsabile archivio musicale Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Giovanni Sassu, curatore dei Musei Civici di Arte Antica e del Museo della Cattedrale, Ferrara
Manuela Gasperi, Direttore Museo Civico di Bormio
Valter Pinto, professore associato di Storia dell'arte moderna, Università di Catania
Maria Grazia Basile, Milano
Federico Giannini, web designer
Ilaria Baratta, studentessa
Federico Maria Giani, Laureando magistrale in Storia e Critica dell'Arte
Teodora Cordone, docente di Storia dell'Arte, Liceo Classico, Istituto Centro Educativo Ignaziano, Palermo
Andrea Baggio, musicista, Firenze
Lorena Vallieri, storica dello spettacolo, Scandicci (Fi)
Anna Selleri, studentessa alla Sapienza, laurea specialistica in Storia dell'Arte
Camilla Fidenti, studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa
Catia Chelli, studentessa di Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa
Laura Tesei, dottoressa in Conservazione dei beni culturali
Chiara Bernazzani, perfezionanda, Scuola Normale Superiore di Pisa
Giulia Santoro, studentessa in storia e tutela dei beni artistici, Firenze
Elena Santoro, studentessa di agraria, Firenze
Georg Satzinger, Professor Institut für Kunstgeschichte und Archäologie, Abteilung für Kunstgeschichtem Regina-Pacis, Bonn
Christine Dupont, Collaboratrice scientifica all'Université Libre de Bruxelles, Membro corrispondente dell'Accademia Reale Belga di Archeologia, Storica presso la Casa della Storia Europea (Parlamento Europeo, Bruxelles)
Daniela Ferriani, funzionario storico dell'arte della Soprintendenza B.S.A.E di Modena e Reggio Emilia
Nunzia Lanzetta, Funzionario Storico dell'Arte, Soprintendenza BSAE di Modena e Reggio Emilia
Maria Reginella, funzionario direttivo storico dell'arte, Soprintendenza di Palermo
Silvia Cangioli, Storica dell' Arte, Firenze
Massimo Magnelli, ingegnere
Enrica Magnelli Menozzi
Marina Porri, studentessa di Storia dell'arte, Università di Pisa, Roma
Serenella Romeo
Martin Gaier, storico dell'arte, Kunsthistorisches Seminar, Universität Basel, Svizzera
Leandro Janni, docente di Storia dell’Arte
Maria Teresa Roli, Consigliere Nazionale Italia Nostra
Luciana Boschin, Presidente Italia Nostra Friuli Venezia Giulia
Christina Strunck, storica dell’arte, Philipps-Universität Marburg, Germania
Harald Wolter-von dem Knesebeck, Professor Institut für Kunstgeschichte und Archäologie/ Istituto di Storia dell'Arte e di Archeologia della Università di Bonn
Claudia Steinhardt-Hirsch , Assistant Professor, Institut für Kunstgeschichte Karl-Franzens-Universität Graz
Mina Gregori, storica dell'arte Presidente della Fondazione Longhi Firenze
Amanda Lillie, University of York
Hildegard Sahler, Bayerisches Landesamt für Denkmalpflege, München
Carlo Sisi, storico dell'arte
Cesare Crova, arch. docente di restauro beni culturali
Ebe Giacometti, storica dell'arte
Chiara Moreschi,Arezzo,laureata in Conservazione dei Beni Culturali
Lisa Miele, storica dell'arte, Napoli
Manlio Marchetta, docente di Urbanistica Università di Firenze
Gianfranco Cartei, Ordinario di Diritto amministrativo Università di Firenze (nel gruppo fiorentivo)
Raphael Rosenberg, Professor Institut für Kunstgeschichte der Universität WienSpitalgasse, Wien
Elena Rossoni, storica dell’arte
Pier Luigi Cervellati, urbanista, ordinario IUAV
Claire Farago, professor Department of Art and Art History University of Colorado and Fulbright-York Scholar Visiting Distinguished Professor Department of Art History University of York, UK
Gerd Blum, Lehrstuhl für Kunstgeschichte Kunstakademie und Hochschule für Bildende Künste, Münster
Linda Pellecchia, Associate Professor Department of Art History, University of Delaware, Newark
Elisabetta Scirocco, dottore di ricerca in Storia dell'arte
Stefania Russo, studentessa storia dell’arte, Catanzaro
Chiara Di Stefano, storica dell'arte, Torino
Bruno Ciliento
Alessia Lenzi, docente di Storia dell'Arte, Liceo Artistico di Porta Romana, Firenze
Dörthe Jakobs, storica dell’arte, restauratrice, Stoccarda
Paolo Gravina
Franca Falletti, storico dell’arte
Ezio Buzzegoli, Restauratore direttore conservatore coordinatore, Opificio Delle Pietre Dure
James David Draper, Henry R. Kravis Curator, European Sculpture and Decorative Arts, The MetropolitanMuseum of Art
Michael Hirst, Professor Emeritus, the Courtauld Institute of Art, London
Diane Zervas Hirst, Art Historian and Jungian psychoanalyst, London
PD Dr. Frank Martin, Corpus Vitrearum Medii Aevi Deutschland/Potsdam, Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften
Prof. Dr. Steffi Roettgen,Kunsthistorisches Institut Florenz
Dr. Brigitte Kuhn-Forte, Forschungsprojekt/Progetto di ricerca Ars Roma, Bibliotheca Hertziana - Max Planck, Institut für Kunstgeschichte
Patrizia Piscitello, Soprintendenza Speciale per il PSAE e per il Polo Museale della città di Napoli
Dalma Frascarelli, docente di storia dell'arte moderna, Accademia di Belle Arti di Napoli
Rudolf Hiller von Gaertringen, Kustos der Kunstsammlung und Leiter der Kustodie der Universität Leipzig (Direttore della collezione d'arte dell'Università di Lipsia)
Marco Pierini, Direttore della Galleria civica di Modena
Maria Luisa Frongia, Professore Ordinario di Storia dell'arte contemporanea, Università di Cagliari
Diane Kunzelman, restauratrice di dipinti, già Opificio delle Pietre di Firenze
Rachel McGarry, Ph.D. Associate Curator, Prints and Drawings, Minneapolis Institute of Arts
Sandra Barberi, Storica dell'arte
Augusto Gentili, Professore ordinario di Storia dell'arte moderna, Università Ca' Foscari, Venezia
Annalisa Pezzo, storica dell'arte, Biblioteca comunale degli Intronati di Siena
Marilina Betrò, Ordinario di Egittologia, Dipartimento di Scienze Storiche del Mondo Antico, Pisa
Antonio Micillo, insegnante di storia dell’arte
Maria Teresa Liguori, Consigliere Nazionale Italia Nostra
Vito Zani, storico dell'arte
Beverly Louise Brown
Silvia Lelli, Università di Firenze
Mary Bergstein, Professor, History of Art + Visual Culture, Rhode IslandSchool of Design (Providence, RI02903, USA)
Christina Strunck, storica dell’arte, Philipps-Universität Marburg, Germania
Angela Guidotti, Università di Pisa
Francesca Flores d' Arcais, storico dell' Arte
Enrico Pusceddu, ricercatore, grup de recerca EMAC. Romànic i gòtic, Universitat de Barcelona
Debora Gay, docente di Storia dell'Arte, Liceo Artistico "Pinot Gallizio", Alba
Elisabeth Oy-Marra, professoressa università di Magonza, Germania
Antonio Dalle Mura, Presidente Consiglio Regionale Toscana Italia Nostra
Prof. ssa Giovanna Procacci
Ilenia Pittui, studentessa di storia dell'arte, Università di Udine
Professore Dr. Henk van Os, Ex-direttore Rijksmusem
Roberto Cara, dottorando in storia dell'arte a Padova
Jennifer Montagu, F.B.A
Luca Baranelli, Siena
Caterina Limentani Virdis, storica dell'arte
Maddalena Napolitani, studentessa Scienze dei Beni Culturali, Università di Pisa
Mattia Vinco, dottorando di storia dell'arte, Università degli Studi di Padova
Davide Da Pieve, laureato in Scienze dei beni culturali
Alessandro Ballarin, professore emerito, università di Padova
Marco Ruffini, Associate Professor in Italian Studies and Art History, Northwestern University (Chicago/Evanston)
Regina Poso, professore ordinario Università del Salento
Francesco Senatore, professore associato di Storia medievale, università degli studi di Napoli Federico II
Raffaella Fontana, ricercatrice CNR
Giovanni Valagussa , Conservatore responsabile Accademia Carrara - Pinacoteca
Mariantonietta Picone, Prof. ordinario di Storia dell’arte contemporanea, Università di Napoli Federico II
Victor M. Schmidt, docente di storia dell'arte medievale, Università di Utrecht
Anneke de Vries, docente di storia dell'arte, Università di Groningen
Alberto Ceccarelli, Roma
Grazia Genovini
Mauro Minardi, storico dell’arte
Maria Teresa Ciccone, Roma
Laura Marino, Cuneo
Antonia Mandic, Torino
Cristina Palma, storica dell'arte, Madrid
Gilberto Ragni, Roma
Luca Giacomelli, perfezionando in Storia dell’Arte, Scuola Normale Superiore, Pisa
Michele Capaldo, Avellino
Irene Amadei, storica dell’arte
Stefania Russo, Roma
Cristina Cavicchioli, Torino
Valentina Marino, Napoli
Livia Levi Sandri, Roma
Valentina Fiscarelli, Foggia
Paolo Steffan, Conegliano
Giovanna Capitelli , professore associato di Storia dell’arte moderna, Università della Calabria
Camilla Anselmi, Milano
Francesca Valli, storico dell’arte, coordinatore Raccolte Storiche Accademia di Brera, Milano
Mario Gionfriddo, architetto Siracusa
Chiara Toschi Cavaliere, presidente sezione Italia Nostra di Ferrara
Carolina Italiano, responsabile MAXXI B.A.S.E Arte
Giuseppe Palermo, eddyburg.it
Marguerite Marie-Lys, Conservateur du patrimoine, Avignon, France
Viviana Bevacqua, Catanzaro
Riccardo Belcari, storico dell’arte, Firenze
Cristiana Morigi Govi, ex Direttore del Museo Civico Archeologico di Bologna
Nadia Sabini, Torino
Sabrina Tolve, Roma
Mario Matteo Tola, Dottore in Conservazione dei Beni Culturali, docente di Storia dell’Arte, Sassari
Isabella Tronconi, Storica dell’Arte e Guida Turistica di Firenze
Sabrina Parisi da Ercolano
Alice Turchi, storica dell’arte, Firenze
Luca Lista, Napoli
Michael Miller, Editor, Berkshire Review, an International Journal for the Arts, Williamstown, MA,USA
Francesca Mortelli, Viareggio
Lisa Marziali, studentessa in Storia e Tutela dei Beni Artistici, università di Firenze
Valentina Saba, studentessa di storia dell’arte, università di Firenze
Enrica Fastuca, Verona
Stefania Gabriela, Vallo della Lucania
Roberta Panzanelli, Firenze
Fabio Marcelli, Perugia
Angela Capillo, Milano
Juliusz A. Chrościcki, professeur Universite de Varsovie; membre CIHA ; president de la committee de l’art (Academie Polonais des Sciences)
Paola Porcinai, Firenze
Stefano Fragasso
Claudia Piredda, Dolianova
Claude Mignot, Paris
Philippe Senechal, Paris, France
Domenico Biscardi, Parigi
Dafne Cola, Italia Nostra
Sylvie Deswarte-Rosa, Lyon
Marialuisa Bergamini, Milano
Marta Ragozzino, Soprintendente per i beni storici artistici e etnoantropologici della Basilicata
Andrea Costa, Responsabile Dipartimento “Ville storiche, Parchi e Aree verdi” Italia Dei Valori, Roma
Doretta Davanzo Poli, Venezia
Patrizia Ranieri, Roma
Michele Desiato, Alatri
Maurizio Trotta, Roma
Chiara Piva, ricercatrice e docente di "storia e teoria del restauro", università Ca' Foscari Venezia
Serena Romano, Professore ordinario di storia dell'arte medievale, Università di Losanna (CH)
Maria Grazia Albertini Ottolenghi, docente di Storia delle Tecniche artistiche, Università Cattolica di Milano
Margherita Ghini, Soprintendenza beni architettonici e ambientali, Parma
Sarah Ferrari, dottoranda in Storia e critica dei beni artistici, musicali e dello spettacolo, Università di Padova
I giudici danno ragione a un cittadino della provincia di Treviso che aveva presentato ricorso contro i criteri di "emergenza traffico" addotti dal governo Berlusconi per sbloccare l'iter del contestato progetto. Per il Tar la procedura era illegittima. Ora la Regione si appellerà al Consiglio di Stato, ma intanto i comitati gioiscono contro un'opera "che così com'è non serve"
Neanche due mesi fa dava il via ai cantieri con tanto di caschetto giallo in testa. Ora è costretto a battersi con le unghie e con i denti perché uno dei suoi cavalli di battaglia non naufraghi definitivamente. Per Luca Zaia, presidente leghista della Regione Veneto, quella di pochi giorni fa non è stata una buona notizia: il Tar del Lazio ha infatti accolto il ricorso presentato da un cittadino e ha bloccato i lavori della Pedemontana Veneta, il serpentone di cemento che dovrebbe collegare, a pagamento, Spresiano, in provincia di Treviso, a Montecchio Maggiore, in provincia di Vicenza, unendo due rami delle autostrade A4 e A 27.
Un’opera da oltre due miliardi che ora rischia di sfumare definitivamente. Per la gioia di alcuni, vedi i ricorrenti e le decine di comitati che si battono contro la cementificazione, e l’amarezza di altri, in testa proprio il governatore del Carroccio. “Questo è quel male che io chiamo eccesso di democrazia” è stato lo sfogo di Zaia, che ha presentato in tempi record un immediato controricorso al Consiglio di Stato. Appoggiato da una buona fetta del mondo imprenditoriale veneto, dalla Confindustria regionale e dagli artigiani che temono di perdere un investimento “strategico” per il territorio.
Di ricorsi contro questo progetto di cui si parla da anni ne sono partiti molti. C’è quello di una serie di cittadini interessati dagli espropri e quello di tre Comuni, capofila quello di Villaverla, nel vicentino, che andrà a giudizio a fine gennaio. Ad essere stato accolto ora è quello di un sessantenne di Loria, provincia di Treviso, che contestava lo stato di “emergenza traffico” recepito dal governo Berlusconi nel 2009 su input della Regione Veneto allora amministrata da Galan. Mossa pensata per velocizzare l’iter della Pedemontana, ma che non ha convinto i giudici amministrativi.
L’intera articolazione della sentenza emessa a fine dicembre dalla prima sezione del Tar Lazio ruota proprio attorno ai presupposti della “dichiarazione dello stato di emergenza” con la quale il Presidente del Consiglio Berlusconi, il 31 luglio 2009, decretava che l’iter di approvazione del progetto definitivo dell’arteria viaria non era più di competenza del Cipe (Il Comitato interministeriale di programmazione economica) ma del Commissario Delegato di governo, che sarebbe stato nominato di lì a poco.
«Le condizioni del traffico e della mobilità nel territorio interessato – scrive il Tar – non presentavano gli aspetti necessari e sufficienti per legittimare la dichiarazione dello “stato di emergenza”». Da qui l’auspicio che «la competente Pubblica Autorità promani un forte segnale di discontinuità quanto all’uso intensivo, e frequentemente inappropriato, della decretazione d’urgenza». Come dire, speriamo che con il nuovo Governo, la musica cominci a cambiare almeno in queste cose.
Il dispositivo della sentenza è lungo e articolato ma la bocciatura è inequivocabile. Immediata la soddisfazione dei comitati che da anni portano avanti la battaglia e che poche settimane fa, a metà dicembre hanno deciso di unirsi in un soggetto unitario, il “Coordinamento Veneto Pedemontana Alternativa”.
«La cosa che a noi dà enorme fastidio – spiega al Fatto quotidiano.it Giordano Lain del Movimento 5 Stelle di Vicenza – è l’arroganza con cui questi amministratori assumono atti illegittimi nella speranza, poi, di spuntarla in qualche modo. La cosa che balzava all’occhio qui era che l’applicazione della legge quadro era palesemente illegittima. Se ce ne eravamo accorti noi cittadini avrebbero dovuto forse rendersene conto anche i politici che hanno più strumenti noi. Qui bisognerebbe istituire commissioni di consultazioni del territorio, perché sono in ballo più di due miliardi di euro, e hanno un bel dire che si tratta di project financing, perché alla fine è il pubblico che rischia di metterci una fetta più grossa».
Parliamo di finanza di progetto, quella procedura che prevede che i costi dell’opera siano in buona parte a carico dei privati, in cambio dello sfruttamento dei benefici a lavori ultimati. In questo caso i pedaggi. I 5 stelle, che hanno fatto loro la battaglia cominciata dai comitati territoriali contestano il fatto che al pubblico qui in verità toccherebbe sborsare la fetta più consistente. «Oltre al fatto che quest’opera così com’è non serve – dice Francesco Celotto del Coordinamento Veneto Pedemontana Alternativa – il nostro timore è che al pubblico, al contribuente, possa spettare un onere da pagare al costruttore qualora non venga raggiunto un certo volume di traffico, così come era scritto in una bozza di convenzione del 2004».
E per questo, assieme ad altri, i membri del comitato da un anno chiedono la consultazione della attuale convenzione economica stipulata dalla Regione con l’impresa che dovrebbe realizzare i lavori (la italo spagnola Sis). Il Commissario straordinario però, hanno denunciato, nega loro le carte.
Ora però le cose potrebbero cambiare anche su questo punto. Pochi giorni fa l’Eurodeputato dell’Idv Andrea Zanoni, dopo una interrogazione al Commissario UE per i Trasporti ha annunciato che «la Commissione europea contatterà le autorità italiane per ottenere maggiori informazioni sul presunto rifiuto». Nell’attesa che il Consiglio di Stato sbrogli la matassa.
Titolo originale: The Irish squatters taking on empty homes and a bankrupt system – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
L’Irlanda esce da un altro anno di bilanci austeri e sofferenza economica, e un gruppo di giovani militanti ha iniziato a entrare negli immobili vuoti realizzati nel periodo del boom, e poi abbandonati da banche e immobiliaristi in tutto il paese. Il gruppo, che è legato al movimento irlandese Occupy, dice di volere una azione di massa verso case e appartamenti di proprietà della “cattiva banca” National Asset Management Agency (Nama), che li ha rilevati dagli speculatori dopo il crollo. Guidati da un ventisettenne che parla in gaelico, laureate a Galway, hanno occupato un edificio nella zona nord di Dublino che valeva 550.000 euro nel periodo del boom ma che ora è valutato 200.000. É vuoto da anni, così Liam Mac an Bháird e i suoi amici l’hanno occupato questo autunno per denunciare il problema della casa, oltre che il modo in cui costruttori e banche sono stati salvati coi soldi dei contribuenti.
Sono circa 400.000 gli immobili vuoti nel paese, e il National Institute of Regional and Spatial Analysis (NIRSA) avverte che così si potrebbero tener bassi i prezzi delle case per anni. Mac an Bháird ammette che il suo gruppo stia violando la legge, però aggiunge che così si evidenzia una importante questione politica. “Ci sono migliaia di senzatetto nel paese, 2.000 solo per le strade di Dublino stasera. E in tutta la città migliaia di alloggi, case e appartamenti vuoti: se ne potrebbe anche usare qualcuno come abitazione. Occupiamo anche mostrare in quale sistema ci tocca vivere. Le case potrebbero restar vuote anche dieci anni o più: e allora perche non dare un tetto a chi non ce l’ha?”
Il nascente movimento ha preso di mira una serie di immobili, tra cui una fabbrica di apparecchiature elettroniche nella zona Smithfield di Dublino. “Ho iniziato a discutere dentro al movimento Occupy sulla necessità di prendere possesso dagli immobili Nama a Dublino, per gettar luce sull’ingiustizia di un sistema che dà miliardi alle banche che hanno prestato soldi agli speculatori. Bisognerebbe trovar posto per tante persone dentro a quei quartieri fantasma che altrimenti andrebbero a pezzi vuoti. I circa 600 “quartieri fantasma” costruiti negli anni della Tigre Celtica sono diventati il simbolo della recessione irlandese. I costi di salvataggio delle banche che avevano prestato soldi a costruttori e speculatori negli anni di boom sono stati enormi. Gli economisti valutano le perdite delle banche a 106 miliardi di euro.
Cresce la rabbia verso coloro che la maggioranza degli irlandesi accusa del collasso: banche salvate e speculatori immobiliari. Una rabbia che si mescola alla povertà diffusa con la recessione che continua. I dati più recenti dell’Ufficio Statistica nazionale pubblicati prima di Natale rilevavano una contrazione del Pil dell’1,9% nell’ultimo trimestre 2011. Nello spazio gestito da Occupy davanti alla Banca Centrale Irlandese, punto di riferimento per l’opposizione ai salvataggi indiscriminati, Mac an Bháird ha sottolineato che il movimento imporrà alcune regole per l’occupazione di immobili.
“Niente droghe e niente alcolici nelle nostre occupazioni, perché si tratta di un’azione politica. É anche un’azione rigorosamente non-violenta, coerente con il movimento Occupy. E non ci approprieremo di qualcosa non nostro, nelle occupazioni”. Spiega che per sopravvivere praticheranno lo “skip diving”, raccogliendo ogni giorno gli scarti alimentari delle grandi di supermarket. Il governo irlandese ha imposto a dicembre ulteriori tagli di 2,2 miliardi di euro a dicembre, per ridurre il debito, e Mac an Bháird dice che vuole raccogliere sostegni anche da gruppi normalmente conservatori.
“Anche nello spazio Occupy alla Banca Centrale, vengono dei borghesi a dirci che sono d’accordo con noi. Sono loro che oggi stanno pagando l’avidità di banchieri e costruttori, di un sistema corrotto. Capiscono la logica di occupare edifici che altrimenti sarebbero lasciati per anni a marcire”. Il gruppo vuole ora occupare un importante edificio di proprietà Nama a Dublino per mettere alla prova l’atteggiamento delle autorità. “Sarà interessante vedere se sono proprio decisi a evacuare dei senzatetto da quell’edificio, di proprietà dello stato e dunque dei cittadini, e lasciato lì vuoto per anni”.
Titolo originale: Mega mall opens in Casablanca – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Inaugurato dalla popstar Jennifer Lopez davanti al meglio della società marocchina, il primo mega-centro commerciale di Casablanca, dotato anche di acquario su due livelli, sgocciola ovunque lusso e glamour. I costruttori ne parlano come di una tappa che avvicina il Marocco alle nazioni più sviluppate, e i critici temono invece che si tratti solo di boriosa vanità, difficile da sostenere in un paese che oscilla sull’orlo della crisi economica. Quella del Marocco pareva una scelta curiosa, per localizzare il sedicente centro commerciale più grande dell’Africa. Perché già c’erano quei rinomatissimi e tradizionali bazaar che offrono ceramiche e tappeti, e attirano turisti da tutto il mondo.
Il regno nordafricano è anche la patria dei più vistosi squilibri sociali nel mondo arabo, e adesso ci arrivano i negozi di Louis Vuitton, Gucci, Dior e Ralph Lauren, o i magazzini Galeries Lafayette in questo mall, struttura futuristica a forma di bulbo affacciata sulla costa, davanti alle onde dell’Atlantico. Simbolo brutale in un paese con 8,5 milioni di persone in stato di povertà, al 130° posto nella classifica ONU di 186 nazioni, per quanto riguarda lo sviluppo umano, ma dove si tengono anche spettacoli estivi di Shakira o Kanye West. Basta farsi i venti minuti in macchina lungo la costa, dal centro di Casablanca – la più grande città del paese – al centro commerciale, per vedere uno spaccato di tutta questa complessità, con gli slum nascosti alla vista da alte pareti, i cantieri di strutture commerciali, le ville e i locali notturni per ricchi.
“É un onore per il Marocco ospitare un progetto di queste dimensioni” ha dichiarato Salwa Akhannouch, responsabile di Aksal principale promotore del centro, alla cerimonia di inaugurazione. Ma saranno pochi i marocchini che ci faranno shopping. Il paese ha uno dei più alti tassi di analfabetismo, di disoccupazione, di squilibrio dei redditi, di tutto il Medio Oriente e il nord Africa, secondo i calcoli del coefficiente Gini, un metodo statistico di misura usato dagli economisti per valutare la diseguaglianza. E la disparità cresce di anno in anno. Nelle settimane successive all’apertura, il centro è stato invaso dalla folla, a passeggiare in quelle gallerie illuminate dal sole, ammirare l’acquario, i 350 negozi. Regolarmente, animatori dai vestiti colorati, alcuni arrivano sin dall’Europa Orientale, si lanciano in sfrenate danze accompagnate dal rullo di tamburi.
Si sono visti pochi sacchetti pieni di acquisti, però, la maggior parte delle persone pareva solo curiosa di vedere finalmente questo monumento dello shopping di cui tanto si era parlato per anni, costato 200 milioni di euro per la costruzione. “C’è un abisso fra ricchi e poveri, coi ricchi che lo diventano sempre di più, e i poveri pure: il mall è un simbolo” commenta Hassan Ali, quarantacinquenne artigiano del cuoio che vende giacche di pelle nella sua bottega della vecchia Casablanca. Nei programmi del centro commerciale il turismo occupa una parte essenziale, secondo l’amministratrice Jenane Laghrar, che valuta al 20% dei complessivi 12 milioni annui di presenze i visitatori dall’estero. E le vendite almeno per la prima settimana sono state quelle degli obiettivi prefissati. Secondo Laghrar la speranza è di attirare clienti dal resto dell’Africa, chi passa dall’aeroporto di Casablanca diretto in Europa.
Per ora dall’Africa però i turisti in Marocco sono solo il 5%, la maggioranza viene dall’Europa. Il che potrebbe diventare un problema con l’attuale crisi del continente, secondo l’economista Najib Akesbi, anche in termini di economia complessiva del Marocco, fortemente intrecciata a quella dei vicini nel Mediterraneo. La principale fonte di liquidità sono investimenti stranieri, turismo, rimesse degli emigranti, soprattutto dall’Europa. Il 20 dicembre il governo ha rivisto le previsioni per il 2012 dello 0,5% in vista della crisi europea. I responsabili del centro commerciale rispondono indicando la crescita nazionale, fra il 4 e il 5% negli ultimi anni, in grado di sostenere questo tipo di commercio di lusso. Anche con la crescita comunque non si creano posti di lavoro, la disoccupazione sta almeno all’8%, e per chi ha meno di 34 anni a uno spaventoso 30%.
postilla
Difficile non dar ragione a tutti i dubbi sul senso non elitario e speculativo dell’operazione mega-mall di Casablanca, del resto così chiaramente esposti dall’articolo. Resta però almeno un aspetto chiave, lasciato in sospeso forse proprio per la rassegnazione al “modello globalizzato” che si finisce per subire: quello territoriale, che al tempo stesso peggiora il quadro, ma avvicina la questione a problemi e potenzialità nel resto del mondo. Di passaggio si parla dei “venti minuti in macchina dal centro lungo la costa ” necessari a raggiungere la cittadella dello shopping. Vale a dire che, pure al netto del modello commerciale odioso ed esclusivo adottato, il contributo della trasformazione alla città è pari a zero, anzi probabilmente negativo visto che occupa pure una striscia di costa dell’Atlantico. Quando fra XVIII e XIX secolo dopo le varie rivoluzioni popolari i cittadini comuni iniziarono a poter entrare nelle tenute della nobiltà, le trasformarono nei grandi parchi urbani che ancora oggi sono il vanto delle nostre (di alcune almeno) metropoli. Immaginarsi una primavera araba che irrompe fra le scansie di Louis Vuitton e l’acquario, a una trentina di chilometri almeno dalle piazze urbane, risulta comicamente sinistro, e malaugurante da tanti punti di vista, ambiente in primis. La presa della Bastiglia, nel XXI secolo, sta iniziando ad assumere prospettive inquietanti, o quantomeno problematiche (f.b.)
Ieri il Ministero per i Beni e le attività culturali ha messo a bando una posizione davvero cruciale: la Direzione Generale per il Paesaggio, le Belle Arti, l’Architettura e l’Arte contemporanea. È la posizione apicale da cui dipendono il contrasto alla quotidiana distruzione del paesaggio del nostro paese, la tutela del patrimonio storico e artistico, la promozione dell’arte contemporanea e molto altro ancora.
Per fare qualche esempio tratto dalla cronaca di queste ultime settimane: è il direttore generale che decide se i pareri (purtroppo solo consultivi) del comitato tecnico-scientifico degli storici dell’arte vanno seguiti oppure no, e se dunque si può spedire all’ennesima mostra di cassetta in Russia il solito Giotto ormai usuratissimo. O è ancora lui che potrebbe intervenire quando una dirigente importante dell’Opificio delle Pietre Dure denuncia che le è stato imposto di «operare danneggiamenti alla superficie pittorica» degli affreschi di Vasari a Palazzo Vecchio perché Matteo Renzi si accanisce a fare marketing cercando, sotto di essi, un Leonardo che non c’è.
L’attuale direttore generale era una funzionaria molto corretta, Antonia Pasqua Recchia, appena diventata il primo segretario generale donna nella breve storia del Mibac, al posto del discusso architetto Roberto Cecchi, balzato dai ranghi ministeriali a quelli politici con la nomina a sottosegretario.
Anche Cecchi era stato direttore generale per il Paesaggio, le Belle Arti etc.: e fu in quella posizione che decise di comprare un Cristo ligneo improbabilmente attribuito a Michelangelo, e in realtà prodotto di un crocifissaio seriale della Firenze del primo Cinquecento. Pensò bene di farlo senza chiedere uno straccio di parere terzo, e pagandolo 3.250.000, quando il valore commerciale di quell’opera si aggira (nel migliore dei casi) intorno ai 50.000. Un caso su cui sta, comprensibilmente, indagando la Corte dei Conti. Sempre da direttore generale, nell’autunno del 2009 egli tolse il vincolo ad un preziosissimo mobile settecentesco, contro il parere dell’Ufficio legislativo del MiBAC, e facendo invece leva sull’unica voce stranamente fuori dal coro, quella del Comitato tecnico scientifico. Grazie alle intercettazioni telefoniche e agli interrogatori disposti dalla Procura di Roma si è poi appreso che proprio Roberto Cecchi aveva condotto alle riunioni di quel comitato l’avvocato dei proprietari del mobile: un comportamento senza precedenti, e assai irrituale da parte di chi doveva agire nell’esclusivo interesse dello Stato. Per questa vicenda Cecchi è stato indagato per abuso d’ufficio e non rinviato a giudizio (a differenza del legale, curiosamente). Se si aggiunge che come commissario straordinario dell’area archeologica di Roma, Cecchi è stato accusato da Italia Nostra di «riprovevole carenza di trasparenza amministrativa», e che è stato sempre lui il responsabile della svendita del Colosseo alla Tod’s di Diego Della Valle si potrà forse capire come mai il contrariato ministro Ornaghi non gli abbia ancora dato, a un mese esatto dalla nomina a sottosegretario, alcuna delega.
È dunque probabile che Cecchi si stia un poco pentendo di aver abboccato all’amo della tentazione politica: senza deleghe rischia di trasformarsi nel tagliatore di nastri ufficiale del Mibac, mentre il suo potere interno viene smantellato pezzo a pezzo.
Se il nuovo Direttore generale sarà un funzionario «senza rispetti umani», con la schiena diritta e capace di rispondere solo alla Costituzione, alla scienza e alla coscienza, vorrà dire che, al Mibac, le cose avranno ripreso a girare nel verso giusto. Ancora un po’ di pazienza, e lo capiremo.
La reggia di Carditello cade a pezzi. E intorno a questo gioiello dell'architettura settecentesca, a pochi chilometri da Caserta, si allestisce una specie di danza macabra. Non bastano i ladri e i vandali che quasi ogni notte scavalcano il recinto e strappano la corona dello stemma, si avventano sulle aquile alla base dell'obelisco oppure danno fuoco a uno dei grandi platani che svettano davanti alla facciata dell'edificio, nell'arena dove i re Borbone allenavano i cavalli - i migliori nell'Europa del Settecento. Al grottesco e lugubre balletto dei saccheggiatori si aggiungono le istituzioni che dovrebbero occuparsi di questa residenza reale, costruita nel cuore di quella che un tempo era la Campania felix. E che invece scaricano le responsabilità l'una sull'altra. Lasciando che la reggia a marzo prossimo venga venduta all'asta per pochi spiccioli (poco meno di venti milioni, dopo due sedute andate a vuoto).
La reggia è di proprietà di un ente della Regione Campania, il Consorzio di bonifica del Basso Volturno, che affoga nei debiti. E che è costretto a svendere ai creditori (l'ex Banco di Napoli, ora Banca Intesa) il suo patrimonio. E quindi la reggia, finita ora sotto la custodia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Qualche settimana fa il giudice che cura la vendita ha emesso un decreto con il quale si vieta a chiunque, anche ai giornalisti, di entrare. Pericolo di crollo, dice il provvedimento. Che impedisce ai cronisti di documentare lo strazio di un patrimonio culturale, ma non ha evitato che i saccheggiatori facessero man bassa. Qualche giorno fa si è deciso di istituire una vigilanza anche notturna. Ma la notizia è stata presa come l'ulteriore, tardiva beffa in una storia triste e tragica che va avanti da tempo.
Ai ladri si sommano gli effetti dell'abbandono in cui versa la reggia. Le decorazioni, restaurate appena una decina di anni fa, rischiano di staccarsi inzuppate dall'acqua che cola nelle murature, e sono in pericolo anche i preziosi affreschi di Jakob Philipp Hackert, amico di Goethe e pittore di corte con Ferdinando IV di Borbone, aggrediti dall'umidità e dalle muffe. I ladri sono saliti fin sull'altana, da dove lo sguardo spazia sulla maglia a scacchiera della campagna aversana che, nonostante le discariche abusive e quelle legali, conserva i tratti di un paesaggio rurale fra i più celebrati. Dalle balaustre hanno staccato i pilastrini in marmo, uno dopo l'altro, scartando quelli del piano di sotto che invece sono copie. I pilastrini che si sono rotti durante il trasporto li hanno abbandonati ai piedi del recinto. I pezzi interi li hanno portati via con i camion. Ci sono volute ore, i pilastrini sono pesanti e ingombranti. Ma nessuno ha visto niente. Negli anni scorsi hanno rubato quasi tutti i caminetti, i lastroni in marmo delle scalinate e interi pezzi di pavimento. Non si erano però mai viste tante razzie come negli ultimi giorni. Ora si teme per le cornici delle porte, anch'esse di un marmo che non si trova più in circolazione.
Il Consorzio di bonifica, che in realtà si occupa di irrigazione e regimazione di acque, ha ereditato la reggia, circondata da una tenuta di oltre 2 mila ettari, dall'Opera nazionale combattenti, alla quale finì in dote negli anni Venti del Novecento. Nessuno, né i combattenti né il Consorzio, hanno mai capito che cosa fare di questa meraviglia. La tenevano lì, inscrivendola nei propri bilanci e sperando che qualcuno se l'accollasse. Negli anni Ottanta nei padiglioni laterali di Carditello venne organizzato un Museo della civiltà contadina, tenuto con molta cura. Ma poi anch'esso venne abbandonato, i solai cominciarono ad aprirsi e le tegole si sfracellavano al suolo. I pezzi più belli vennero rubati, altri furono dispersi in varie collezioni. Attualmente ci sono solo brandelli di carretti, di macine e di aratri.
Alla fine degli anni Novanta il Ministero per i Beni culturali investì cinque miliardi di lire per restaurare la parte centrale dell'edificio, la vera e propria residenza reale. Ritornarono a splendere gli stucchi verde chiaro delle volte e ripresero colore gli affreschi di Hackert, molti dei quali raffigurano il paesaggio rurale dell'intorno, attraversato da cavalli e bufale, l'acquedotto carolino e la Reggia di Caserta. Il Consorzio vi installò alcuni uffici e la Reggia, seppure con abiti burocratici, viveva. Poi la crisi: le casse del Consorzio si andavano prosciugando e l'ente agonizzava a causa dei debiti. Fra i creditori c'era l'allora Banco di Napoli, che tramite una sua società, la Sga, avviò la procedura per la vendita all'asta.
La Reggia di Carditello ha iniziato a morire giorno dopo giorno. Vuota, abbandonata, perdeva pezzi. I tetti, sfondati, lasciavano entrare la pioggia che imbeveva le murature. Gli infissi non chiudevano più, l'acqua penetrava nei grandi saloni e stagnava nei solai. La Regione Campania (era Bassolino) avviò dei progetti di restauro e di riuso dell'edificio. Il Consorzio, per iniziativa di un commissario, Alfonso De Nardo, raggiunse un'intesa con la Sga che si sarebbe accontentata di 9 milioni, evitando che la reggia finisse all'asta. Bastava che la Regione, a sua volta debitrice del Consorzio, versasse nelle casse dell'ente quanto dovuto. Ma tutto è rimasto fermo. Nel frattempo è cambiata l'amministrazione regionale. Ora il presidente Stefano Caldoro fa sapere tramite la sua portavoce che lui su Carditello non ha niente da dire. E il consiglio regionale ha appena bocciato un emendamento alla legge finanziaria che stanziava tre milioni in tre anni per pagare il debito del Consorzio e per evitare che la reggia finisse nelle mani di chissà chi.
Il Consorzio accusa la Regione. E contro la Regione si scaglia anche la Soprintendente Paola Raffaella David. Che mette Caldoro sul banco degli imputati insieme a Consorzio e Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, cercando di impedire la vendita all'asta e chiedendo l'intervento dell'Avvocatura dello Stato per fermare la procedura. D'altronde, ribattono gli imputati, non è che i Beni culturali abbiano fatto granché. E in effetti a Carditello non si è mai visto nessuno in questi anni, tantomeno ministri o alti dirigenti di quel ministero, quasi che la reggia, fastidioso ingombro, non avesse altro destino che essere abbandonata o soccombere sotto i colpi dei vandali.
L’inchiesta di Francesco Erbani e Anna Laura De Rosa con interviste e video su R’E Le inchieste
1923, a fine dicembre con Regio Decreto 2493 il territorio comunale di Milano aggrega una serie di circoscrizioni rurali confinanti, e raggiunge la massa critica minima, necessaria ma non sufficiente, a svolgere meglio il suo ruolo di capitale economica.
1925, l’assessore liberale all’Edilizia professor Cesare Chiodi delinea sulla rivista Il Politecnico gli obiettivi del grande concorso per il piano regolatore urbanistico: trasformazione edilizia e densificazione del tessuto esistente, espansione per quartieri coordinati innestati sui nuclei storici dei comuni aggregati; fasce e cunei verdi di interposizione e collegamento regionale; integrazione a rete tra le varie forme di mobilità, le funzioni insediate, la scala urbana e quella metropolitana.
1927, i risultati finali del concorso vedono vincitore un progetto spettacolare quanto vagamente schizofrenico, in cui da un lato la città viene completamente ricoperta da una griglia stradale che ritaglia lotti potenzialmente edificabili, proposti da accattivanti schizzi di architetture a metà fra lo stile moderno e quello tradizionale; dall’altro a quella griglia, bruscamente e inopinatamente interrotta ai confini comunali, si sovrappone una rete di trasporti che lega tecnicamente città e area metropolitana, individuando nodi di scambio, punti focali, centrali e decentrati.
Si scoprirà presto che il piano “vero” è quello della speculazione edilizia, pochissimo interessata all’equilibrio cittadino e metropolitano, ma solo a trasformare quei riquadri del piano regolatore in superfici edificate o edificabili. Delle varie linee metropolitane nessuna traccia per un paio di generazioni, e così pure del coordinamento a scala regionale, lasciato al massimo alla effimera buona volontà di partiti e singoli amministratori. Abbastanza ovvio, si potrebbe osservare: i cattivi solo nelle favole fanno una brutta fine, mentre nella realtà le cose vanno in maniera diversa. Ma c’è anche di mezzo l’idea di urbanistica che a quell’epoca (forse per forza di cose, forse per altri motivi) imperava, e di cui il succitato assessore era a suo modo uno dei campioni.
Un altro passetto indietro, 1926. Solo per citare ancora Cesare Chiodi, che estromesso dal suo ruolo di assessore dalla riforma fascista degli enti locali torna al lavoro di ingegnere urbanista e docente al Politecnico. Come ingegnere partecipa al concorso per il piano regolatore che aveva contribuito a istruire, e quasi naturalmente lo interpreta in modo coerente: schema regionale, coordinamento fra trasporti e insediamenti, quartieri su modello vagamente neighborhood unit separati da fasce e cunei verdi. Come professore propone sempre nel 1926 il primo corso di Urbanistica, che verrà attivato un paio d’anni più tardi. La cosa più interessante di questo corso, da un certo punto di vista, è la lettura comparata del programma di massima, pubblicato sulla rivista La Casa, con le idee professionali di un altro ingegner Cesare, quel Cesare Albertini capo ufficio tecnico al comune di Milano, che di lì a poco inizierà a tradurre in pratica i risultati del concorso per il piano regolatore.
Chiodi espone sistematicamente tutti gli aspetti tecnici dei trasporti, dell’edilizia, dei necessari riferimenti a discipline esterne, che un giovane dovrà affrontare per capire le basi dell’urbanistica moderna. Albertini, sempre su La Casa e nel 1926, si impegna invece a delineare quali sono gli interessi e le figure professionali attorno a cui si può costruire una specie di corporazione nazionale delle discipline della città e del territorio, magari prendendo come modello quelle che si stanno delineando a scala internazionale a partire dalle esperienze delle città giardino. Combaciano in parecchi punti, le idee dei due ingegner Cesare, probabilmente non solo per motivi di omonimia. Raccontano di una urbanistica rigorosamente inquadrata in tutto quanto concerne la produzione materiale della città, coordinamento a scala vasta, piani di massima urbani, programmi di attuazione e controllo dell’attività edilizia, trasporti, integrazione di aspetti finanziari e amministrativi. Manca qualcosa? Certo che si.
Manca arte di costruire le città, ovvero il contributo intuitivo dell’architettura, che per primo ha saputo, e non solo in Italia, cogliere il senso nuovo assunto dall’idea di progetto edilizio e sociale nella fase matura dello sviluppo industriale a cavallo tra i due secoli. È con questo decisivo e maggioritario tocco finale che, alla fine, si costruisce la figura dell’architetto-urbanista nazionale, il suo prestigio sociale, e insieme si iniziano a definire norme, leggi, ruoli, e immaginario collettivo in materia urbanistica. Tecnica, basi scientifiche, qualche dose di cuori lanciati oltre l’ostacolo, decisione politica in grado di sostenere la visione. Ma mancano ancora parecchie cose: dove stanno per esempio il carbone, o i bordelli, la raccolta della spazzatura, la gestione dei mercati rionali? Cosa vuol dire, che c’entrano con l’urbanistica? C’entrano, c’entrano eccome, almeno nel 1926.
I bordelli e i carretti del carbone, insieme a tante altre cose per nulla evanescenti ma sparite dal tavolo da disegno dell’architetto-urbanista, rispuntano nell’idea di città e urbanismo che propone un segretario comunale, Silvio Ardy. Perché se è vero che per approfondire le conoscenze è utile dividere e distinguere, al momento di decidere è indispensabile la sintesi, e non si può far sintesi credibile escludendo troppi fattori, semplificando oltre il dovuto. La città è case, strade, rotaie, condotti fognari, verde, ma è anche e soprattutto gente che va e viene su strade e rotaie da una casa all’altra, a fare varie cose fra cui anche riempire le fogne, scaldarsi col carbone, sfogare l’eccesso di testosterone al bordello, curarsi, studiare … Se l’orizzonte di una classe dirigente urbana è quello di “costruire il futuro di una città globale, coesa e protagonista di un nuovo sviluppo economico, sociale, culturale, intergenerazionale” pare difficile staccare il contenitore dal contenuto, e le due relative riflessioni, o peggio ancora lasciare il compito interamente alla discrezionalità della sola decisione politica.
O meglio: magari (magari) la cosa può funzionare in uno stato totalitario- corporativo come era o voleva essere quello fascista, non certamente in una società democratica e aperta come siamo diventati abbastanza faticosamente dopo. L’idea di urbanistica, di ruolo del piano regolatore “edilizio”, e di ruolo professionale, sociale, politico, dell’urbanista, così come si è affermata con notevole successo dai lontani anni ’20 in poi, sicuramente ci arriva oggi molto modificata, evoluta, complessa. Ma restano ancora parecchi strascichi dell’indecente esclusione di puttane e carbonai (insieme a tanti altri) dalla stanza dei bottoni, e ahimè ne paghiamo tutti le conseguenze. A Milano da cui si è fatto partire tutto, in questa fine d’anno 2011 si è approvato un documento a suo modo assai innovativo, il Piano Generale di Sviluppo. Sono poche pagine, solo apparentemente generiche, e che invece meritano una lettura attenta, di prospettiva. La citazione che chiude il paragrafo precedente è tratta da lì, come forse faceva intuire l’aggettivo “globale”, non ceto ripescata dal 1926.
Sicuramente non è un caso, se i primi due capitoli del PGS sono dedicati a urbanistica e trasporti. Il consenso ai vari livelli di una amministrazione quasi sempre si gioca in larga parte sul tipo di sviluppo locale che ha alla base trasformazioni edilizie e mobilità. Occupano quindi un abbondante spazio, non solo ideale, questi due capitoli, con sicura soddisfazione dei fantasmi dei due Cesari e di tutte le schiere dei loro discendenti, ma pare proprio scorrendo il resto che finalmente puttane, carbonai &Co. siano riusciti a rientrare dalla finestra. Nel senso che, dalle premesse agli sviluppi sino alle conclusioni, il PGS pare proporsi come contenitore di neo-urbanismo in cui l’interpretazione politica, vuoi conservatrice o progressista nelle varie sfumature che si possono immaginare, non significa arbitrio. Non può significare, cioè, tanto per fare un esempio, lasciar libero corso a un aspetto (il mitico “sviluppo del territorio” di recente memoria) contando su un effetto traino generalizzato. Gli edifici oggi si giudicano anche da quanto carbone fanno consumare, no? Il fatto che lo si pronunci in inglese non cambia la sostanza.
Ma a questo punto, dopo una specie di chilometrica “introduzione”, meglio lasciare campo libero alla lettura diretta del documento, allegato di seguito. Per chi non le avesse mai lette, alcune delle idee del secolo scorso citate, e di sicuro interesse ancora oggi, stanno lì ad aspettare eventuali curiosi nella cartella Urbanistica, Urbanisti, Città.