Non è del tutto chiaro come mai Monti, che tanto ha insistito sullo sguardo lungo e l’Europa, abbia deciso di frenare lo scatto iniziale per dire d’un tratto ai tedeschi, in un’intervista alla Welt dell’11 gennaio: «Gli Stati Uniti d’Europa non li avremo mai. Non foss’altro perché non ne abbiamo bisogno». Forse è la prudenza a produrre un’affermazione così perentoria, che chiude orizzonti possibili. La battaglia contro gli egoismi di Berlino reclama compromessi. Forse è quella deferenza che lui stesso aveva stigmatizzato, il 26 giugno sul Financial Times: una sorta di virus che affligge i capi europei quando si compiacciono di sé per custodire apparenti sovranità. Nell’immediato e a casa i governi ne profittano - il potere degli esecutivi aumenta - ma in Europa quel che accampano è un diritto all’impotenza. O forse Monti non è un federalista, cosa senz’altro legittima se al diniego non aggiungesse la glossa un po’ stupefacente: della federazione «non c’è bisogno».
Non ce n’è bisogno, spiega, perché l’utopia di Ventotene è già realizzata, grazie alla sussidiarietà (quel che gli Stati non sanno fare da soli è delegato all’Unione sovranazionale, e viceversa). La sussidiarietà tuttavia dà risultati negli Stati compiutamente federali, non nell’Europa di oggi: se uno Stato affida incarichi a un’Unione senza statualità e di continuo paralizzata da 27 governi con diritto di veto, quando mai l’impresa funzionerà? Monti dice che il rimedio già c’è, ma nega la necessità dei mezzi per renderlo operante. Giunge addirittura ad annunciare che non ci saranno mai: per un Premier che nell’Unione è tra i più europeisti, e col coraggio dell’impolitico sta reinventando la politica, presumere con certezza un futuro ignoto è scommessa quantomeno azzardata.
Quel che è stupefacente, è l’ora storica in cui il federalismo viene sconfessato. I tempi bui sono sempre momenti di verità, e la verità la vediamo: l’alternativa alla federazione è una confederazione, che esclude un governo politico europeo, che dà il primato a finti Stati sovrani - limitandosi a migliorare coordinamento e reciproca sorveglianza - e che sta franando penosamente. La sorveglianza fa dell’Europa un panopticon, un Controllore: non prelude a un’azione comune, e di conseguenza non presuppone nuove competenze attive, non solo ispettive, degli organi sovranazionali (Commissione, Parlamento europeo). Non implica neppure la tutela delle democrazie: la prevalenza della concertazione economica, in nome dell’euro, aiuta paradossalmente gli autoritarismi - quello di Berlusconi ieri, quello ungherese oggi - a sopravvivere. Non così prima dell’euro: le terribili crisi dei cambi sempre provocavano cadute di governi. Non vorremmo che l’euro divenisse il garante di una Europa fondata sul doppio sacrificio del welfare e della democrazia.
Ernesto Rossi scriveva sin dal ‘52: «Federazione è l’arrosto; Confederazione è soltanto il fumo dell’arrosto. Coloro che dicono di volere un’unione confederale, in verità non vogliono niente; vogliono lasciare le cose come stanno, perché non sono disposti ad accettare alcuna limitazione delle sovranità nazionali». Il nome che Monti dà alla confederazione, denunciando il duopolio franco-tedesco, è «un’Europa dai molti centri (tra cui l’Italia)». L’arrosto ancora non c’è. C’è il fumo che avvolge i brancolanti superstiti degli Stati-nazione, consegnandoli alle furie dei mercati.
La tesi di Monti è la seguente: alcune economie europee vacillano, ma non l’euro. Basta dunque che ci si coordini meglio, e la solidarietà verrà. In parte il ragionamento tiene: oppressi dalla crisi, gli europei hanno sempre finito col fare qualche progresso, tanto grande in tutti è la paura dello sfascio. Quel che tiene di meno è l’analisi della crisi: venendo dagli Usa, essa «non è in alcun modo legata a un difetto del modello europeo (...) In Europa questa crisi non sarebbe mai potuta succedere. L’Europa è virtualmente in ottima posizione». Anche qui, la sicurezza è tanta. Sia l’Europa sia l’euro sono nati con imperfezioni gravi. La Banca custode della moneta è federale, ma ha le mani spesso legate (Monti l’ha detto a chiare lettere, ieri sul Financial Times). Le manca il rapporto dialettico con un governo egualmente sovranazionale, che le consenta di divenire prestatore di ultima istanza, come negli Usa, condividendo i rischi con il potere politico.
Questi non sono piccoli, ma grandissimi difetti di costruzione. Lo pensarono coloro che sin dall’inizio ammonirono contro l’«euro senza Stato». Lo afferma un rapporto sulla moneta unica, appena pubblicato per il Peterson Institute for International Economics: «Crediamo che la crisi europea sia politica, e in larga misura di presentazione», scrivono Fred Bergsten e Jacob Funk Kirkegaard. I due economisti americani appoggiano l’euro e l’unione fiscale decisa il 9 dicembre, ma aggiungono: «Fin dalla sua creazione negli anni ‘90, quel che è mancato nella moneta unica sono le istituzioni cruciali per assicurare il ripristino della stabilità finanziaria in tempi di incertezza acuta e di volatilità del mercato. Per questo il compito dei leader dell’eurozona va ben oltre i salvataggi (...) Essi devono riscrivere le regole dell’eurozona e completare una casa fatta solo a metà. Devono combinare misure finanziarie creative, per risolvere la crisi immediata, con un’ondata di nuove istituzioni».
Il federalismo non è subito attuabile, ma come orizzonte resta: «La maggiore sfida consiste nell’usare l’opportunità politica offerta dalla crisi per creare le basilari istituzioni (comuni), e completare nel lungo termine la casa lasciata a metà». Questo comporta, per Bergsten e Kirkegaard (anche per i federalisti europei), «revisioni aggiuntive e sostanziali dei trattati e delle istituzioni». L’Europa va ripensata sapendo che la via multicentrica-confederale non funziona. Quale via davvero alternativa tentare, se non quella federale?
Se il difetto di costruzione è l’euro senza Stato, lo stesso vale per le misure di rigore nazionali: anch’esse difettose, perché non compensate da un’Europa politica che generi crescita comune quando gli Stati non possono farlo. Domenica, su La Stampa, Enzo Bianchi ha detto una cosa illuminante: «Mi chiedo se uno dei motivi della progressiva disaffezione verso l’Europa non abbia anche a che fare con il fatto che non paghiamo direttamente alcuna tassa per il fatto di essere cittadini europei: cosa ho a che fare con quest’entità superiore che non ha una cassa comune alla quale io contribuisco? Si è infatti disposti a pagare di tasca propria solo per una realtà che ci supera ma che sentiamo nostra». Pagare un po’ meno tasse agli Stati e un po’ più tasse all’Europa, perché essa abbia un bilancio forte e investa in una crescita diversa (energie alternative, ricerca, trasporti, difesa, politiche mediterranee indipendenti dagli Usa). Questo è spendere meno e meglio, e dare una prospettiva al nostro mondo divenuto angosciosamente bidimensionale.
Molti ritengono che l’Europa federale abbia perso senso, ora che non è più questione di pace e guerra. Ma non meno drammatiche sono le crisi d’oggi: il welfare rattrappito, l’ineguaglianza, la miseria (dalla primavera scorsa negli ospedali greci mancano medicine). Per chi suona la campana della solidarietà, degli eurobond, dei debiti sovrani smorzati in comune, se non per noi che paghiamo il prezzo dell’Europa incompiuta? Non rischiamo più guerre fra Stati, ma il movente degli anni ‘40 rimane.
L’Europa non si edifica per creare il Bene (l’Identità e la Prosperità, secondo Monti): del Bene ognuno ha una sua idea, personale o identitaria. L’Europa serve per scongiurare insieme le sciagure: ieri la guerra, oggi la contrazione economica, la povertà, il clima, le possibili guerre civili. Compito nostro è evitare che naufraghi come la nave Concordia, con tutti i comandanti che fuggono per salvare solo se stessi, alla maniera del capitano Schettino, dopo aver condotto il bastimento alla rovina.
Fuori un centinaio fra ecologisti e agricoltori con fischietti e striscioni, dentro i sindaci di poco più della metà dei Comuni dell´area del Parco Sud. Dentro e fuori dall´aula di Palazzo Isimbardi comunque al centro del dibattito il futuro dell’area agricola, ancora una volta messo in pericolo dai piani urbanistici che, poco alla volta, intaccano il progetto originario che tutelava il verde a sud di Milano. Due le varianti approvate dall’assemblea dei sindaco di Parco Sud convocati dal presidente della Provincia - e anche del parco - Guido Podestà, proprio per sottoporre all’attenzione dei primi cittadini le due modifiche del piano territoriale di coordinamento che riguardano circa 44mila metri quadri di verde nei comuni di Rosate e Vignate. Molto discusso soprattutto il provvedimento che consente l’ampliamento dell’nsediamento produttivo dell´azienda Schattdecor di Rosate, multinazionale che produce film plastici. A Vignate invece è stato autorizzato un polo di interscambio merci fra ferrovia e camion.
Le due varianti sono passate perché su 61 comuni convocati, solo 31 erano presenti in consiglio e di questi quattro si sono astenuti, mentre il solo sindaco di Opera, il leghista Ettore Fusco, ha bocciato le due varianti. Furibondi i manifestanti fuori dal palazzo. Dario Olivero, vicepresidente della Cia (confederazione italiana agricoltori) di Milano, Lodi e Brianza, ipotizza un ricorso al Tar e parla di «una vera violazione delle norme del parco per tre ragioni: non è stato rispettato l’iter previsto dalla legge per l’approvazione delle varianti, è stata diminuita la quota destinata a suolo agricolo e non è nemmeno stato avviato un confronto preventivo con tutte le parti interessate a quest’area». Replica il presidente della Provincia, Guido Podestà: «La Schattdecor dà oggi lavoro a 140 persone, grazie a questo intervento ne saranno assunte 20 e in futuro altre. È importante fare in modo che le aziende straniere continuino ad investire».
L’approvazione delle due varianti è duramente criticata dai manifestanti fuori dalla Provincia, in prima fila il Fai (Fondo italiano per l’ambiente) e Legambiente. «No al cemento e ogni forma di consumo del territorio che non tenga in considerazione la vocazione agricola che caratterizza i territori del Parco Sud - tuona il sindaco di Opera Fusco - Condivido la necessità di salvaguardare l’occupazione, ma non che si eroda suolo fertile per tutelare gli imprenditori». Pietro Mezzi, capogruppo dei vendoliani in Provincia di Milano, teme che «rischi più grandi siano nascosti nella futura variante al Piano territoriale, di cui si è fatta promotrice la Provincia, ente gestore del parco stesso. Così facendo, si rischia di perdere, un po’ alla volta, il progetto di parco agricolo metropolitano, polmone verde per tutto il territorio milanese». Oggi l’argomento parchi torna in Regione con un’interrogazione del Pd.
Il business delle maxi-crociere non ha avuto soste nel decennio 2000-2010 balzando nel mondo da 10 a 19 milioni di passeggeri. Nei porti italiani la crescita è stata addirittura del 397%, è continuata, malgrado la crisi, nel 2011 (+ 16%), prevedendo per il 2012 traffico stabile o in leggero aumento. Sino al tragico incidente del Giglio. Che pone una chiara esigenza di regole. Il gigantismo navale galoppa: la Costa Concordia con 112.000 tonnellate di stazza, 3.800 crocieristi a bordo e 290 metri di lunghezza passa in seconda fila dinanzi a colossi come la Allure of the Seas o la Oasis of the Seas dal tonnellaggio doppio, che possono portare l’una 5.400 e l’altra 6.360 passeggeri (più circa 2.000 uomini di equipaggio). Del resto, poco meno della metà delle supernavi commissionate ai cantieri offrirà più di 3.000 posti letto.
E il Mediterraneo sta salendo: era al 12, ora è al 18, presto potrebbe giungere al 20 % del business mondiale. Civitavecchia, il porto di Roma (da dove vanno e vengono i crocieristi per visite mordi-e-fuggi), coi suoi 2 milioni e mezzo di passeggeri “vede” ormai Barcellona fino a ieri primatista in Europa, ed è fra i top 10 del mondo con Venezia che, arrivata a 1,8 milioni di imbarchi e sbarchi, è il principale “home port” europeo. Tutto per bene? Per le società di navigazione certamente sì e anche per porti e cantieri. Meno bene per un Paese dagli equilibri ambientali e paesaggistici delicatissimi. Le proteste per l’ingresso di questi mastodonti fino al bacino di San Marco sono sempre più diffuse e vibrate. Per seri problemi di inquinamento: visivo, atmosferico e lagunare. Finché sono in navigazione, infatti, questi colossi non inquinano molto, ma quando rallentano e si avvicinano alle rive il loro contributo allo smog ha punte altissime: si calcola che a Los Angeles concorrano per un quarto alla grigia cappa sopra la città. Più l’inquinamento delle acque, ovviamente.
Si deve dunque parlare – come ha già fatto il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini – di rotte da proibire e da rettificare. Non più maxi-navi dentro la Giudecca e il bacino di San Marco. Non più fra le isole che formano il Parco dell’Arcipelago Toscano, né alle Bocche di Bonifacio come nelle acque del Santuario dei cetacei (messi in seria crisi dai sonar delle navi). Non più nelle vicinanze di arcipelaghi come le Eolie o come le Tremiti, e nell’attraversamento dello stesso Stretto di Messina dove le correnti (e lo scirocco, per un terzo dell’anno) sono assai forti. Tutto ciò per rispettare acque e paesaggi che si potranno continuare ad ammirare di lontano o navigando su più modesti traghetti e aliscafi, oppure sulle totalmente ecologiche barche da diporto a vela (quest’ultime formano una economia interessante, ben più incardinata localmente dei fuggevoli passaggi turistici di massa).
Insomma, senza sottovalutare il fatto che l’industria delle crociere – fra cantieri, porti, trasporti, soste a terra, ecc. - ha sull’Europa un impatto di 14 miliardi e mezzo di euro, dei quali 4 e mezzo sull’Italia, occorre evitare che essa debordi, schiacciando altri settori dello stesso turismo e minacciando l’ambiente, il paesaggio, i beni culturali. Non dobbiamo dimenticare infatti che questo business, cresciuto prepotentemente dai 500.000 crocieristi del 1970 ai 20 milioni di oggi, si giova dell’uso di beni primari come il mare, le coste, i paesaggi, le città storiche, cioè di beni pubblici, collettivi. La cui consunzione o il cui danneggiamento e/o inquinamento rappresentano una perdita secca. Irrimediabile per l’intero Paese.
Il titolo di questo dossier - E lle chiamano navi - riprende quello di un volumetto della preziosa collana "Occhi aperti su Venezia", dell'editore veneziano Corte del Fontego.
Nuove regole per quei colossi
Salvatore Settis – la Repubblica
E la nave non va. Templi del consumismo, le super-navi entrate in scena negli ultimi anni somigliano più a uno dei colossali alberghi di Las Vegas che a una nave. Come a Las Vegas, navi con migliaia di posti-letto vengono spacciate per lusso "esclusivo", ma sono macchine per vacanze, che macinano i piaceri standardizzati di una finta opulenza.
Vendono illusioni, spacciando per altamente personalizzato il più banale e commercializzato turismo di massa. Dare l’illusione del lusso tenendo bassi i costi: di qui la corsa al personale non specializzato, che all’occasione, si scopre, non solo non sa calare una scialuppa in mare ma nemmeno balbettare qualche parola d’inglese (così, pare, sulla Costa Concordia, affondata a pochi metri dal porto dell’isola del Giglio).
Il rito salutista del viaggio per mare miete vittime, solo qualche volta (per fortuna) in senso letterale come al Giglio. Altre volte, vittime sono i clienti, ma anche il paesaggio e l’ambiente. Come per contrappasso, queste navi "da crociera" fanno di tutto per somigliare a una città, anzi a una neo-città addensata in un grattacielo, con dentro shopping center e ristoranti, discoteche e cinema, negozi, palestre, teatri, casinò, piste di pattinaggio su ghiaccio, percorsi jogging, campi sportivi. Nulla, insomma, di più innaturale. Forse per questo il momento di gloria di queste navi-monstre è quando possono esibire il più vicino possibile a una città di terra la loro pomposa arroganza di città-artificio. Non c’è da stupirsi che il capitano della Concordia volesse avvicinarsi il più possibile all’abitato del Giglio: è quello che accade, più volte al giorno, con identiche navi che entrano nel bacino di San Marco sfidando con la loro mole pacchiana la millenaria basilica, i cavalli di bronzo strappati dai dogi a Bisanzio, il Palazzo Ducale. Anzi, allineandosi su campi e calli, e dando ai passeggeri l’insulso piacere di guardare Venezia dall’alto in basso. E le chiamano navi, così s’intitola un pamphlet di Silvio Testa della serie bemenerita "Occhi aperti su Venezia".
Alte fino a 60 metri e oltre, molto di più dei nobili palazzi del Canal Grande, le navi penetrano nel cuore di Venezia per osservarne la bellezza, ma la oscurano e la offendono, alterandone la percezione anche per chi di noi è a terra, o in gondola, o su un vaporetto di linea. Per esempio, la Voyager of the seas è alta 63 metri, lunga 311, larga 47, con 47 ponti; la Costa Favolosa, di poco più piccola, gareggia apertamente con Las Vegas proponendo repliche del palazzo imperiale di Pechino, del Circo Massimo di Roma, di Versailles. Intanto si alterano secolari equilibri portando la profondità delle bocche di porto da 9 a 17 metri (Malamocco), da 7 a 12 metri (Lido).
Viene allora il sospetto che le dighe mobili alle bocche di porto (MoSe) servano a incrementare questa stolta escalation anziché a salvare la città dall’acqua alta.
Un gruppo di Facebook Fuori le maxinavi dal bacino di San Marco raccoglie crescenti adesioni ma non smuove le autorità; invano Massimo Cacciari, da sindaco, aveva provato almeno ad escludere le navi più grandi. Invano lo Spiegel denunciò il problema in un duro articolo di Fiona Ehlers (21 febbraio 2011), premiato dall’Istituto Veneto. Invano Italia Nostra, in un appello poi accolto dall’Unesco, ha protestato contro queste degenerazioni che annientano la forma caratteristica della città e la sua vita civile. Paolo Costa, ex sindaco e ora presidente dell’autorità portuale, propugna invece il senso unico a San Marco per incrementare il traffico delle super-navi.
Un milione e mezzo di turisti l’anno, dopo aver gettato su Venezia un distratto sguardo dall’alto, scendono e si aggirano comprando qualcosa sulle bancarelle, pagando una qualche tassa d’accesso. Di fronte a tanto beneficio, pazienza se Venezia muore. Il denaro prima di tutto, in luogo di tutto.
E la nave (una di queste navi) non va, a Venezia. Lo hanno gridato ieri i manifestanti alle Zattere, accogliendo la Magnifica con striscioni come Big Ship You Kill Venice, e urlando «Sei troppo grande per questa città». All’orribile impatto visivo si unisce infatti un significativo incremento della torbidità delle acque, ma anche il rischio di collisioni e di sversamento di idrocarburi nel cuore della città, un rischio che cresce col numero delle mega-navi che vi sono ammesse (2000 transiti nel 2011).
Nessuno ha calcolato gli effetti della pressione di migliaia di tonnellate d’acqua sulle fragili rive di Venezia. Nessuno ha offerto dati sull’inquinamento da polveri sottili (500 tonnellate scaricate dalle navi a Venezia nel 2010); o sulla presenza in laguna di benzopirene, altamente tossico. Nessuno sa dire se l’incidenza di malattie tumorali che potrebbe avere questa causa sta crescendo in questi anni, anche se il Registro dei tumori segnala a Venezia un «eccesso significativo di neoplasia del polmone» ( i dati nell’opuscolo di Silvio Testa).
Il terribile incidente del Giglio sta attirando molta attenzione, ma a Venezia un simile incidente fu sfiorato il 23 giugno 2011, quando la nave tedesca Mona Lisa, lunga "solo" 200 metri, per un errore di manovra si incagliò a pochi metri dalla Riva degli Schiavoni. Dobbiamo aspettare qualcos´altro, perché le autorità del porto e del Comune pongano fine alla chiassosa sarabanda di navi "magnifiche" e "favolose", ma nocive alla più preziosa e fragile città del mondo?
Navi sempre più grandi per profitti sempre più grandi
Vittorio Emiliani – l’Unità
La vita non è mai un film. Tantomeno un film della levità visionaria di “Amarcord”. Ricordate la scena del passaggio del leggendario Rex appena al largo del Grand Hotel di Rimini, fra le barche dei concittadini di Fellini accorsi a remi per godersi lo spettacolo? Qualcosa di analogo succedeva sovente – come ha documentato ieri questo giornale con raccapriccio – in prossimità degli scogli dell’Isola del Giglio. Coi comandanti che salutavano azionando gioiosamente la sirena dall’alto di queste navi sempre più gigantesche, ricche di luci, di passeggeri e di profitti. Una gioiosità incosciente che ora ha il suono cupo della tragedia. Sono le stesse navi colossali, a più piani, che hanno fatto di Civitavecchia il primo porto passeggeri italiano, con quasi 2 milioni di transiti nel 2010, e che entrano persino nel bacino di San Marco, nonostante le vive proteste alzate dal sindaco Giorgio Orsoni.
Maxi-navi da 112-114.000 tonnellate di stazza, alte 70 metri, che possono trasportare circa 3.800 crocieristi, più un migliaio di uomini di equipaggio. Navi sempre più kolossal. Evidentemente per attrarre su questi enormi “alberghi galleggianti” quanti sognano di ritrovarvi le luci e i colori dei centri commerciali. I porti italiani attrezzati per questo traffico relativamente nuovo sono balzati da 18 a 38 nel primo decennio del terzo millennio. Anche se i rapporti turistici dicono che soltanto una parte di essi può accogliere mastodonti da 350 metri di lunghezza e la Costa Concordia, varata nel 2006 ed ora rovesciata come una gigantesca balena, al Giglio ne misura poco meno di 300. Il valore dei ricavi da crociere sul venduto complessivo delle agenzie di viaggio è montato, secondo Italian Cruise Watch 2011, dal 22 del 2000 al 31% del 2010, con punte del 50 %.
Una attività economica dalle ricadute anche territoriali assai ampie, che esigerebbe di venire gestita con meno faciloneria o leggerezza. Ora si punta l’indice accusatore sul comandante, sul suo ritardo nel segnalare dell’incidente, sull’abbandono del bastimento. Ma le falle nell’organizzazione del salvataggio paiono molteplici. Del resto, è davvero possibile assicurare, in caso di emergenza, l’evacuazione rapida e senza problemi per 3-4.000 persone con equipaggi che non sembrano dotati di alta professionalità, formati da marittimi per lo più non italiani, con scarsa conoscenza delle lingue, remunerati con salari che non attraggono un personale qualificato? Temo di no. Questo sembra dirci il tragico naufragio del Giglio. Malgrado una notte fredda ma serena e senza mare mosso. Malgrado il pronto accorrere degli isolani con le barche e il lavoro, al solito encomiabile, dei Vigili del Fuoco. Evidentemente maxi-navi del genere non vanno in alcun modo arrischiate laddove non ci siano fondali e altre condizioni di navigabilità di assoluta sicurezza. Evidentemente l’illusione di potere tutto dall’alto di questi colossi del mare può giocare tragici scherzi.
Assieme al dramma umano di vite spezzate, di persone gravemente ferite, di altre sotto choc, si profila il rischio ambientale delle 3.800 tonnellate di gasolio denso nei serbatoi del gigante riverso sugli scogli. Purtroppo, a quanto si sa, tali navi colossali non hanno scafi col doppio fondo. Del resto esso è stato imposto alle petroliere soltanto una decina di anni or sono dal governo Amato, ministro dell’Ambiente, Willer Bordon. Occorre quindi approfittare delle prossime giornate - di clima sereno, secondo le previsioni meteo – per svuotare i serbatoi della Costa Concordia. Cerchiamo di non aggiungere tragedia a tragedia.
Questa dell'Isola del Giglio sta diventando, di ora in ora, una autentica tragedia del mare. Soltanto per una "leggerezza"? Cioè per aver voluto rispettare la rischiosa tradizione di salutare da vicino, all'ora di cena o poco più, gli amici dell'isola, affascinati dal passaggio di quel colosso marino costellato di luci, con tanta gente a bordo quanti sono tutti gli abitanti del vicino Comune di Capalbio? Vedremo cosa diranno la scatola nera e le carte dell'inchiesta.
Ma il disastro - umano anzitutto ma con possibili risvolti ecologici - è figlio di molti padri. La rotta troppo ravvicinata ad una costa ricca di scogli e di isolotti è certamente la prima delle possibili cause. Aggiungiamoci anche un'idea troppo facile del gigantismo navale. Si pensava che la corsa verso navi da crociera sempre più grandi non potesse fermarsi e, con essa, la corsa a profitti sempre maggiori. E invece la dura legge dell'ambiente marittimo ha dato uno stop. Costato vite umane e sofferenze crudeli. In quella tal corsa è stato evidentemente sottovalutato il problema della sicurezza in caso di emergenza. Ma quale sicurezza può essere organizzata con pronta efficienza su di un mastodonte del genere, nottetempo, in modo tale da garantire una evacuazione sicura per oltre 3.200 passeggeri? Credo cioè che, per poterla assicurare, occorrerebbe un equipaggio non soltanto superiore ai 1.023 componenti della Costa Concordia, ma ben più preparato di quello in servizio. Coi riflessi sui bilanci della società di navigazione facilmente immaginabili.
In realtà ci si è illusi che una emergenza del genere non fosse possibile, che il "sogno" di questa colossale love-boat non potesse conoscere ombre. Pensate cosa sarebbe successo se la notte non fosse stata di queste che stiamo avendo, rigide e però serene e senza vento, ma una notte con mare mosso, da libeccio per esempio. E se non fossero accorsi, generosamente (o non fossero potuti accorrere) con le barche gli isolani. Il bilancio sarebbe stato ancor più doloroso di quanto già non sia. Fra i rilievi critici si aggiunge il fatto che l'equipaggio non fosse di livello adeguato anche perché formato da extra-comunitari con scarse nozioni di italiano. Da anni ormai i salari offerti dalla nostra marineria sono così poco invitanti da aver allontanato dalla navigazione i giovani italiani delle zone di mare, anche quelli, non numerosi, che a bordo salirebbero ancora a lavorare, e non soltanto come camerieri. Sin dalle prime ore l'indice accusatore è stato puntato sul comandante della maxi-nave che avrebbe dato con un'ora di ritardo il segnale d'allarme a terra e che a mezzanotte risultava già sbarcato sul molo di Porto Santo Stefano e non più a bordo a dirigere le operazioni di salvataggio. Vedremo se tutto ciò sarà confermato.
L'altro problema angoscioso che sta emergendo, nel momento in cui i Vigili del Fuoco, al solito esemplari, stanno completando il loro duro lavoro, è quello ambientale. Sono cioè le 2.380 tonnellate di gasolio contenute nei serbatoi di questa nave che, al pari delle consorelle, non è dotata di doppio fondo. Come non lo erano, fino a qualche anno fa (se non erro fino al governo Amato del 2000, con Willer Bordon titolare dell'Ambiente), petroliere e superpetroliere che pure vedevamo transitare nello stesso bacino di San Marco a Venezia. Dove questi mastodonti da crociera - nonostante le vibrate proteste del sindaco Orsoni - continuano ad entrare, scaricando sulla fragile Venezia fiumane di turisti mordi-e-fuggi. E così leggerezza e sfruttamento formano una perversa alleanza. Fino a quando?
A tre anni dai primi rinvii a giudizio, l'inchiesta che svelò la criminosa gestione dell'emergenza monnezza, non ha mai visto la luce. Tutto bloccato tra eccezioni di competenza territoriale e pronunce di Cassazione che tardano ad arrivare. Mentre l’orologio della prescrizione continua a ticchettare
E’ stata l’indagine più dirompente e clamorosa sull’immondizia napoletana. Ha messo sotto accusa chi avrebbe dovuto ripulire la Campania e invece ne ha aggravato lo scempio ambientale. E’ stata chiamata ‘Rompiballe’, dal contenuto di un’intercettazione telefonica in cui si parlava di ecoballe di monnezza pressata “che se le rompevi, usciva fuori di tutto, anzi apriamole e utilizziamo ciò che esce come scarto”. In una gragnuola di arresti, svelò l’amministrazione pasticciata e scriteriata dell’emergenza rifiuti e gli sversamenti improvvisati e illegali senza rispettare le norme di prevenzione, rivelò inquietanti conversazioni telefoniche di funzionari pubblici consapevoli che si stava giocando sulla pelle dei cittadini, mise sotto inchiesta uno degli uomini più potenti dell’epoca, Guido Bertolaso, il commissario straordinario di tutte le crisi, compresa quella eterna della spazzatura in Campania. Proprio sui reati da contestare all’ex sottosegretario ai rifiuti la procura di Napoli si spaccò in due, con il capo dell’ufficio, Giandomenico Lepore, fautore di una linea morbida verso Bertolaso (prosciolto per le accuse più gravi e rinviato a giudizio solo per alcuni reati contravvenzionali) e i sostituti titolari del fascicolo, Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo, che per protesta dismisero le indagini, tolsero la firma dalla richiesta di rinvio a giudizio e in seguito hanno chiesto e ottenuto il trasferimento ad altri uffici giudiziari.
Molto rumore per nulla. Carte seppellite in trenta faldoni che viaggiano tra Napoli e Roma. Non c’è un Tribunale che avvii il processo. A tre anni e mezzo dai provvedimenti cautelari, a tre anni dai primi rinvii a giudizio (avvenuti il 29 gennaio 2009), l’accertamento della verità sui fatti contestati ha preso la piega di un romanzo kafkiano. In pratica non è stata mai celebrata un’udienza vera. Tutto bloccato tra eccezioni di competenza territoriale e pronunce di Cassazione che tardano ad arrivare. Mentre l’orologio della prescrizione continua a ticchettare (le prime scatteranno nel 2014) ‘Rompiballe’ marcia spedita a conquistare un posto in cima tra gli esempi di malagiustizia e inefficienza. Fino a scontentare tutti: magistrati, imputati, avvocati e parti lese, ovvero i cittadini campani vittime, secondo le parole scritte dal Gip Rosanna Saraceno, di “una colossale opera di inquinamento del territorio”.
La storia del processo ‘Rompiballe’ è un gomitolo di nodi. Proviamo a riassumerla. L’inchiesta, su decisione di Lepore, viene divisa in due tronconi. Nel primo c’è la ex vice di Bertolaso, Marta di Gennaro, e altri 24 indagati. Finiscono tutti alla sbarra con accuse pesantissime: smaltimento illecito di rifiuti, truffa, falso in atto pubblico, abuso d’ufficio. Nel secondo troncone c’è Bertolaso insieme ad altri ex commissari straordinari e consulenti della struttura commissariale, la cui posizione viene stralciata per un supplemento d’indagini. Alla fine questi vengono tutti prosciolti per i reati più gravi, ma Bertolaso viene rinviato a giudizio con decreto di citazione diretta per il reato minore di “gestione dei rifiuti in assenza delle necessarie autorizzazioni”: è di competenza del giudice unico e non necessita del vaglio del Gup. Tra le archiviazioni, spicca quella del pm di Napoli Giovanni Corona, per un periodo consulente al commissariato per l’emergenza. Il suo proscioglimento è la palla di neve che poco alla volta diventerà la valanga che ha travolto il processo. Ma andiamo con ordine.
Il processo a De Gennaro&C. inizia davanti al Tribunale di Napoli. I legali degli imputati sollevano un’eccezione. L’inchiesta – sostengono – andava trasferita a Roma per ‘connessione funzionale’ – per la presenza tra gli indagati di un magistrato di Napoli (Corona, ndr), che radicherebbe la competenza presso l’ufficio giudiziario assegnatario dei procedimenti sui colleghi napoletani: Roma, per l’appunto. La Procura napoletana si oppone. Inutilmente. Il 16 dicembre 2009 il Tribunale accoglie l’eccezione e spedisce tutto a Roma. Come nel gioco dell’oca, si torna al punto di partenza. La Procura capitolina deve ricominciare da capo: richiesta di rinvio a giudizio, notifiche, udienza preliminare, seconda udienza preliminare per perfezionare le notifiche (al primo tentativo ce n’è sempre qualcuna che non va a buon fine). Altri mesi e mesi gettati nell’infernale meccanismo della burocrazia giudiziaria. Intanto a Napoli anche il giudice unico che dovrebbe processare Bertolaso si adegua all’ordinanza del Tribunale e si spoglia del fascicolo, inviandolo nella Capitale.
A Roma il colpo di scena. Il pm Barbara Sargenti, ex sostituto della Dda di Napoli, va in udienza preliminare e difende le ragioni dei colleghi inquirenti napoletani: il processo va celebrato a Napoli perché a suo dire la ‘connessione funzionale’ non esiste più con il proscioglimento del magistrato coinvolto. Il Gup ritiene non infondate le ragioni della dottoressa Sargenti e passa la palla alla Cassazione, l’unico ufficio che in questi casi può dirimere il conflitto. E ovviamente anche il processo-bis a Bertolaso si ferma di nuovo. Tutti col fiato sospeso. La sezione di Cassazione investita del caso fissa un paio di udienze, poi congela la decisione. Motivo? Le Sezioni unite della Cassazione, per un’altra vicenda, stanno per emettere una sentenza che farà giurisprudenza sulle controverse questioni della ‘connessione funzionale’. Peccato che questa sentenza debba arrivare, sta per arrivare, ma non è ancora arrivata. E intanto la sezione competente sull’eccezione ‘Rompiballe’ ha fissato una nuova udienza per il 2 marzo 2012. Tre anni e due mesi dopo i rinvii a giudizio. In un paese normale sarebbe un tempo più che sufficiente per emettere una sentenza definitiva di colpevolezza o di innocenza su una vicenda di notevole interesse pubblico. In questo caso forse non basteranno nemmeno a sapere dove e quando iniziare il processo.
Titolo originale: Thousands 'forcibly relocated' in Ethiopia, says HRW report – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il governo etiopico sta spostando forzosamente decine di migliaia di persone nella remota regione occidentale di Gambella, agli abitanti dei villaggi viene spiegato che questo si deve all’affitto di vaste superfici concesso a operatori agricoli privati, come riferisce una associazione per i diritti umani.
Secondo il rapporto Waiting for Death di Human Rights Watch i trasferimenti di persone nell’ambito del programma cosiddetto villagisation avvengono senza consenso e indennizzo. Le persone vengono spostate in luoghi privi di adeguato sostentamento, servizi sanitari, scuole. E non sono mancate minacce, aggressioni, arresti del tutto arbitrari, per chi oppone resistenza. Human Rights Watch l’anno scorso ha condotto fra maggio e giugno cento interviste in Etiopia, e fra abitanti di Gambella fuggiti nei campi profughi del Kenya, rilevando ripetute e “generalizzate” violazioni di diritti in ogni fase del programma.
“Il programma di villaggizzazione del governo etiopico non migliora certo la condizione dei servizi per le popolazioni indigene di Gambella, mettendone invece a repentaglio qualità della vita e sopravvivenza” spiega il direttore europeo dell’associazione Jan Egeland. “Si devono sospendere le operazioni fino alla predisposizione dei servizi indispensabili, adeguate consultazioni con gli abitanti e indennizzi per la perdita dei terreni”.
Gambella è grande come il Belgio, ha una popolazione di 307.000 persone, principalmente indigeni Anuak e Nuer. Il suolo fertile interessa gli investitori anche internazionali, che hanno affittato a prezzi convenienti ampie superfici. Complessivamente in Etiopia dal 2008 al gennaio 2011 si sono affittati così almeno 3,6 milioni di ettari.
Altri 2,1 milioni di ettari sono disponibili attraverso la governativa banca federale terreni per gli investimenti agricoli. In Gambella, ben il 42% della superficie secondo i dati del governo è stata già concessa o è disponibile agli investitori. E molti dei territori da cui vengono spostate le popolazioni si trovano all’interno dei queste zone destinate all’affitto commerciale.
Gli investitori sono come il miliardario saudita Mohammed al-Amoudi, che sta costruendo un canale di irrigazione da trenta chilometri per dare acqua a 10.000 ettari a risaia, o imprese etiopi che operano anche su meno di 200 ettari.
Secondo il rapporto il governo continua a negare il rapporto fra deportazioni a Gambella e affitti per l’agricoltura commerciale, però agli abitanti dei villaggi è stato detto dai funzionari che è proprio questo il motivo del trasferimento.
Un agricoltore racconta a Human Rights Watch che all’assemblea di villaggio convocata, il rappresentane del governo ha detto: “Ci sono investitori che possono far crescere prodotti meglio di voi, che non sapete sfruttare i terreni, lasciati incolti”.
Entro il 2013 secondo il governo dovranno essere spostate così un milione e mezzo di persone, in quattro regioni: Gambella, Afar, Somali, e Benishangul-Gumuz. Si è cominciato nel 2010 in Gambella, con circa 70.000 abitanti da trasferire entro il 2011. Secondo il programma dovrebbe trattarsi di spostamenti volontari, con assicurati nei nuovi villaggi infrastrutture e servizi per il sostentamento.
E invece, secondo il rapporto, nei nuovi villaggi non c’è nulla.
I primi trasferimenti si sono effettuati nel periodo peggiore dell’anno – l’inizio del raccolto - e i terreni agricoli delle nuove aree sono molto poco fertili e secchi. C’è da disboscare, senza alcun sostegno per sementi o fertilizzanti. L’assenza di sostegni anche solo alimentari ha determinato denutrizione e fame endemica, secondo Human Rights Watch.
Si chiede perciò che a livello internazionale si sospendano tutti gli aiuti per quella che è una deportazione forzata e una violazione dei diritti umani con la scusa dello sviluppo. L’Etiopia rappresenta una delle principali voci nella spesa mondiale sia per lo sviluppo che per l’assistenza alimentare. Solo nel 2010 ha ricevuto oltre 700.000 tonnellate di alimenti e più di due miliardi di euro. Fra i principali paesi donatori il Regno Unito, che dovrebbe dare 500 milioni di euro l’anno fino al 2015.
Si tratta solo dell’ultimo rapporto critico di Human Rights Watch sull’Etiopia. Nel 2010, un altro accusava il governo Meles Zenawi di usare gli aiuti allo sviluppo per reprimere il dissenso, condizionandone l’erogazione al sostegno per il partito di maggioranza, accusa sempre fermamente respinta.
La bassa lodigiana evoca aromi di latte, lontane cascine, la linea bluastra del primo Appennino che si staglia oltre il Po, e magari è anche come la percepiscono i suoi abitanti. Invece, pur con le complessive basse densità edificate, il carattere dominante è identico a quello metropolitano: nelle abitudini dei tempi, nell’uso degli spazi, e soprattutto nella mobilità automobilistica che tutto domina. Succede che nell’ahimè usuale trambusto dei veicoli carico-scarico bambini davanti a un asilo, uno di questi piccoli finisca sotto le ruote di un Suv, e tutti naturalmente sconvolti, a “chiedersi il perché”, amministratori in testa (vedi articolo riportato sotto).
Come sempre e come ovvio, la risposta non è solo una, categorica, e impegnativa per tutti come diceva quel tizio quando i treni arrivavano in orario. Però tra le variabili in campo una di sicuro spicca, e suona sotto forma di domanda retorica: che ci fanno tutte quelle macchine davanti a un edificio scolastico? Ci fanno quello che vediamo ogni giorno, là davanti, ovvero un guazzabuglio indecente, in cui si mescolano tutti i peggiori tic della nostra convivenza sociale quando non siamo regolamentati da qualcosa di insito o di esterno. Ed è qui che torna in ballo la pubblica amministrazione, che oltre a “chiedersi il perché” sarebbe anche quella che poi prova a dare delle risposte. Torna in ballo, uno dei feticci della nostra epoca, tanto decantato nelle campagne elettorali quanto ignorato nella pratica: il cosiddetto quartiere a misura d’uomo.
Curioso, che tra i non moltissimi pilastri su cui si regge l’urbanistica moderna, ci sia proprio questo dell’elemento costitutivo base della città. Che nasce in forma spontanea quando Raymond Unwin, davanti alle leggendarie calamite dello stenografo di tribunale Ebenezer Howard diventato alfiere di riforma socio-spaziale, si pone una questione: come unire lo spazio del villaggio rurale tradizionale, dell’aia diremmo magari noi, o comunque la piccola piazza del centro minore, ai servizi e aspettative di una società tendenzialmente metropolitana? Anche sulla base delle sue riflessioni, una piccola manciata di anni dopo, Frederick Law Olmsted Jr. prova a interpretare in un altro contesto il medesimo tema nel suburbio sperimentale di Forest Hills Gardens, e in uno di quei villini immersi nel verde, ma organizzati per gruppi attorno a spazi comuni, si trasferisce la famiglia del giovane Clarence Perry.
Cresciuto e diventato ricercatore sociale, Perry non si scorda i tanti spunti positivi dell’adolescenza in quel quartiere appunto a misura d’uomo, e per conto della Russel Sage Foundation (la stessa che aveva costruito Forest Hills Gardens) darà forma compiuta alla formula della neighborhood unit, o quartiere autosufficiente: numero di abitanti, servizi essenziali, organizzazione spaziale, e soprattutto rapporti organici con la città di cui dovrebbe essere la componente base. Ma è accaduto qualcosa di sostanziale, fra le prime riflessioni dei socialisti fabiani britannici sulla comunità di quartiere e quelle più mature del ricercatore newyorkese. È successo che tale Henry Ford abbia cominciato a invadere il mondo con la sua vetturetta a motore di massa, mezzo di spostamento comodo, veloce, ma anche da trattare con tutte le cautele: una tonnellata di lamiera è sempre pericolosa, si sa.
Il quartiere autosufficiente, come si capisce benissimo leggendo la relazione di Clarence Perry allegata al Regional Plan di New York, dal punto di vista socio-spaziale ha due elementi portanti irrinunciabili, il rapporto con la rete della mobilità e quello coi servizi. Il resto, tutto il resto, viene poi. I margini del quartiere sono, appunto, segnati dagli assi di mobilità, quelli pensati espressamente per le automobili, o adattati ad esse dai grandi viali ottocenteschi. Il centro del quartiere è un nucleo di servizi dominato dalla scuola dell’obbligo. Questo rapporto fra centro e margini, fra scuola e automobile potremmo anche dire, determina tutto il resto, è una invariante. I margini non possono essere troppo lontani dal centro, perché un bambino deve poter andare a scuola a piedi, e un abitante magari a far spesa nel negozietto affacciato sul medesimo slargo della scuola. Perché il bambino possa andare a piedi in tutta sicurezza, magari anche da solo se è cresciutello, non ci devono essere rischi, a partire appunto da quelle tonnellate di lamiera che si aggirano in città. A tenerle lontane non ci pensa un poliziotto, un anziano volontario, un ausiliario della sosta, ma la forma stessa del quartiere.
Del resto, che senso ha raggiungere un luogo come la scuola materna o dell’obbligo, un servizio eminentemente locale, di piccola scala e raggio, con un mezzo di trasporto progettato per distanze medio-lunghe come l’automobile? Perché, questo lo capiscono benissimo tutti i progettisti appena si pongono il problema, dare spazio all’automobile significa togliere spazio a tutto il resto. È il modello della neighborhood unit ad essersi affermato in quasi tutto il mondo quando si tratta di calcolare certi rapporti fra abitazioni e servizi, come nei complessi di case popolari, o in forma più compiuta nelle new town britanniche del secondo dopoguerra. Ma uno degli assunti irrinunciabili, ovvero quello della pedonalità come base della socialità nella sicurezza, oltre che elemento distintivo dello spazio del quartiere parzialmente autosufficiente dal resto della città, è andato via via scemando, di fronte a discutibilissime soluzioni a carattere ingegneristico e norme sugli standard, dei parcheggi per esempio.
Così invece di spazi pedonali, o condivisi ma ad elevata prevalenza di orientamento pedonale e ciclabile, si sono spesso sostituite soluzioni “tecniche” come separazione, sovra o sottopassi, semaforizzazioni, corsie riservate. E fuori dai sistemi urbani centrali, pure peggio: le automobili hanno colonizzato preventivamente lo spazio suburbano-rurale, dove di fatto gli edifici (è quasi impossibile parlare davvero di quartieri in senso proprio) si posano dentro una griglia in tutto e per tutto stradale, al massimo attenuata localmente dalla classica organizzazione a cul-de-sac. E nello stesso modo in cui in queste strade a fondo cieco con inversione di marcia abbondano gli incidenti in area industriale, fra mezzi pesanti o muletti da carico, sono ovviamente a rischio anche tutti gli altri spazi di manovra, inclusi gli accessi alle scuole da cui era partito tutto.
Che il sistema originario sia stato totalmente dimenticato, travolto dall’ignoranza forse incolpevole, salta ad esempio all’occhio anche in due specifici casi italiani piuttosto noti, da storia dell’architettura per intenderci. Il primo è il Villaggio San Marco, unità di quartiere su impianto di Giuseppe Samonà e Luigi Piccinato nella terraferma veneziana, la cui integrità è stata troncata da un asse di attraversamento trasversale multicorsia progettato credo negli anni ’80. Il secondo è il QT8 di Milano con impianto di Piero Bottoni, dove lo stravolgimento è stato evitato negli anni recenti, ma come spesso accade solo per preoccupazioni di carattere formale-artistico, più che funzionali e sociali.
E del resto spesso anche nei progetti migliori il rapporto con le quattro ruote (complici norme e adeguamenti alla domanda) è gestito con strumenti diversi dall’organizzazione generale, come sensi unici, o barriere, o proprio nulla di speciale. Figuriamoci nei piccoli centri, dove anche gli interventi di case economiche non hanno mai raggiunto la massa critica sufficiente a definire un quartiere, e quelli privati spesso ostentano orgogliosamente la totale assenza di spazio pubblico, marciapiedi, percorsi ciclabili ecc. E adesso, proviamo a ripetere la domanda: incidente, fatalità? I responsabili scolastici e amministrativi che si stracciano le vesti disperati, e gli stessi genitori commossi ma saldamente col volante in pugno dal cancelletto di casa a quello dell’asilo, forse dovrebbero riflettere un po’. E noi con loro.
Caterina Belloni, Ucciso dal Suv davanti all'asilo, Corriere della Sera, 12 gennaio 2012
BORGHETTO LODIGIANO (Lodi) — La mamma Lidia lo ha stretto tra le braccia e cullato. Anche se Cristiano aveva già smesso di respirare. Anche se subito, quando la ruota anteriore destra del Suv lo ha travolto fino a spezzargli la scatola cranica, s'è capito che per suo figlio non c'era nessuna speranza.
Aveva 5 anni Cristiano Pezzini. È morto nel parcheggio dell'asilo travolto da un fuoristrada guidato da un giovane papà che stava portando il figlio alla scuola materna. È morto sotto gli occhi della madre Lidia, 40 anni, arrivata dalla Moldavia e che qui, tra i 4 mila abitanti di Borghetto Lodigiano, aveva messo su famiglia con Carlo Pezzini che di professione aggiusta trattori e mietitrebbia. Conosciuto e indispensabile in questa terra agricola come il sindaco o il prevosto.
E tutti ieri sono andati davanti alla materna comunale dedicata alla santa Gianna Beretta Molla per capire come, in un parcheggio da 21 posti proprio di fronte ai cancelli, sia potuto succedere tanto. «Hanno portato via il mio angelo», ha ripetuto papà Carlo. Lacrime mischiate a rabbia, come quelle della compagna Lidia, che Cristiano se l'è visto volare via davanti agli occhi. Erano le 9.20. I figli dovevano essere in classe già da 20 minuti. La casa dei Pezzini dista 300 metri dall'asilo di via Lago. Ma insieme a Cristiano c'era anche la sorella di due anni più piccola e per la madre usare l'auto è stata una scelta inevitabile. Era in ritardo anche il figlio di Cristian F., 30 anni, famiglia di imprenditori da sempre a Borghetto. È stato il caso a far sì che le loro auto si incrociassero in quel parcheggio.
Per prima è arrivata la Bmw 320 guidata da mamma Lidia. Cristiano è schizzato giù mentre lei prendeva la più piccola sul seggiolino. «Fermo. Attento alla macchina», la frase urlata quasi in automatico. Perché neppure lei aveva notato, alle sue spalle, l'arrivo del Suv Journey Chrysler. Il fuoristrada ha svoltato dal vialetto per entrare nella zona di parcheggio proprio nel punto in cui c'era il piccolo Cristiano. L'urlo disperato della madre: «Spostati, hai schiacciato mio figlio». Il trentenne alla guida ha ingranato la retro. Sull'asfalto il corpo già senza vita. «Non l'ho visto. Sono distrutto», ha detto ai carabinieri di Lodi prima di essere ricoverato sotto choc in ospedale e denunciato per omicidio colposo. L'auto viaggiava lentamente, forse l'altezza del muso ha coperto la sagoma del piccolo Cristiano. «È una tragedia enorme», ripete il sindaco di Borghetto Franco Rossi.
Quel piccolo parcheggio protetto dalle aiuole era stato aperto sette anni fa proprio per evitare che i bimbi corressero rischi in strada. Ora, sotto il tronco di un salice piangente, ci sono una rosa rossa, un mazzo di fiori e un biglietto: «Addio Cristiano, piccolo angelo».
Migliaia di sottotetti trasformati in appartamenti da un giorno all’altro. In tutta la Lombardia. E’ quello che potrebbe accadere se il Consiglio regionale approverà il nuovo piano casa della giunta guidata da Roberto Formigoni. Per la gioia di quegli imprenditori che hanno realizzato immobili già predisposti per lo sperato regalo. E con un’insidia, nascosta tra le righe della norma: il rischio di un condono mascherato e gratuito per i sottotetti resi abitabili in modo illegale. Come nel caso di diversi condomini da poco costruiti a Bormio, dove la procura di Sondrio ha predisposto ispezioni che hanno riscontrato presunti abusi. E dove, nel settore immobiliare, fa affari anche la General project & contract di Giorgio Pozzi, consigliere regionale del Pdl e presidente della commissione Territorio del Pirellone. Dove proprio in questi giorni è in discussione la nuova legge regionale.
“Norme per la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente e altre disposizioni in materia urbanistico-edilizia”. Si chiama così il progetto di legge proposto dalla giunta lombarda. Una sorta di piano casa bis, di cui ha tracciato le linee guida il decreto sviluppo approvato dal governo Berlusconi lo scorso maggio. Nella versione lombarda si parla di interventi di recupero edilizio, incrementi volumetrici, riqualificazione energetica ed edilizia residenziale sociale. Fino all’articolo 8. Che, attraverso la modifica di una legge regionale già in vigore (la numero 12 del 2005), prevede il recupero a fini abitativi di tutti i sottotetti realizzati entro il 31 dicembre 2010. Di fatto si rendono abitabili dall’oggi al domani tutti quei solai e mansarde che, in base alla precedente normativa, avrebbero potuto essere trasformati in alloggi solo dopo cinque anni dalla costruzione dell’edificio.
Per Legambiente Lombardia la legge consentirà “una nuova ondata di manomissioni di sottotetti trasformati in piani abitabili”. Ma c’è un pericolo in più: “La possibilità di condono gratuito degli abusi realizzati negli ultimi cinque anni”. I furbi che dal 2005 al 2010 hanno già reso abitabili i sottotetti senza rispettare la legge vedrebbero regolarizzata la loro posizione. E tutto questo grazie a un colpo di spugna che rischia addirittura di cancellare le eventuali conseguenze penali degli abusi commessi.
E, di abusi, negli ultimi anni ne sono stati fatti. Questo almeno il sospetto della procura di Sondrio, che ha già eseguito alcune ispezioni in Alta Valtellina con l’ausilio del Corpo Forestale. Le prime verifiche, secondo quanto riportato dal quotidiano La Provincia di Sondrio, hanno evidenziato abusi in quei sottotetti che dovevano essere semplici solai, ma sono stati venduti come locali abitabili di alloggi su due piani, o addirittura come appartamenti a sé stanti. Nel mirino degli inquirenti ci sono parecchie centinaia di abitazioni. Un business illecito per le imprese a cui potrebbero avere contributo amministratori, politici e notai compiacenti.
A Bormio, e nelle vicine Valdisotto e Valfurva, l’edilizia è stata rilanciata negli ultimi anni grazie ai mondiali di sci del 2005. Schiere di condomini sorti tra le Alpi, là dove prima c’erano prati. Nuovi appartamenti eleganti. E costosi, vista la vicinanza con gli impianti di risalita e con le terme. Come quelli del complesso “il Forte”, realizzato dalla General project & contract, società di Mariano Comense, il cui 95% è in mano a Giorgio Pozzi, che a Bormio è stato pure capo cordata nell’operazione Sottovento Luxury Hospitality, l’hotel di lusso inaugurato nell’aprile 2011 alla presenza, tra gli altri, dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Daniela Santanchè.
Il nome di Pozzi è legato anche alla società Il Pellicano, fallita e poi finita nelle carte dell’inchiesta sulle bonifiche del quartiere milanese Montecity-Santa Giulia, di cui condivideva le quote con Massimo Ponzoni, ex assessore regionale, Massimo Buscemi, attuale titolare della Cultura nella giunta Formigoni, e Rosanna Gariboldi, moglie del deputato del Pdl Giancarlo Abelli. Grazie a diverse società che operano in più parti del territorio lombardo, gli interessi di Pozzi vanno al di là dell’Alta Valtellina. E ora potrebbero trarre vantaggio dal nuovo piano casa regionale, al momento in discussione proprio nella commissione Territorio da lui presieduta. Con il sospetto che quello tentato dalla maggioranza sia un colpo di spugna.
Per l’assessore regionale a Territorio e Urbanistica, il leghista Daniele Belotti, sostenere che la norma ha lo scopo di rendere vana l’inchiesta della procura di Sondrio equivale a scrivere “una fantasiosa sceneggiatura da film giallo”. Nessun condono nascosto, assicura Belotti. Ma ora il Pd vuole vederci chiaro e giovedi scorso in commissione ha richiesto a Pozzi il parere scritto dell’avvocatura del Consiglio regionale: “L’articolo 8 sui sottotetti – spiega il consigliere Franco Mirabelli – nato come norma straordinaria per sanare alcuni spazi inutilizzati degli edifici, così come formulato rappresenta una vera e propria sanatoria permanente”.
Siamo alla paralisi: le concessioni per i «servizi al pubblico» sono scadute da anni e le nuove gare, bandite un anno e mezzo fa, si sono arenate. Non rispondono alle esigenze dei musei, non consentono investimenti né guadagni alle imprese, contengono errori e requisiti incongrui per i concorrenti che hanno costretto i Tar di mezza Italia a sospendere o bocciare i bandi. Il Tar del Lazio ha annullato quello per il bookshop del Polo Museale Romano; la Soprintendenza della Calabria ha preferito ritirare il bando per i maggiori musei della Regione; annullata dal Tar la gara per la ristorazione nel Polo Museale Fiorentino (Uffizi, Pitti, Boboli); annullata anche quella per i servizi di biglietteria del Polo Museale Romano; sospeso, a novembre, il bando in Puglia; il Tar della Campania deciderà il 25 gennaio sui servizi di Napoli e Pompei. Uniche gare andate a buon fine: Ravenna e Cerveteri-Tarquinia, alle quali ha partecipato un solo concorrente. Un rosario di bocciature che danno ragione alle tante imprese che hanno ritenuto insostenibili e illegittimi i termini dei bandi. La situazione è di caos e incertezza, i concessionari in proroga garantiscono soltanto i servizi essenziali.
In prima linea, a guidare la rivolta dei concessionari è Confcultura, aderente a Confindustria, che riunisce gran parte delle imprese del settore. Quali sono i punti critici e gli errori di un’operazione sulla quale il Mibac contava molto e che si può ormai dire fallita? Per Patrizia Asproni, presidente di Confcultura, il primo errore è stato quello di suddividere i bandi per specializzazioni: ristorazione, biglietteria, bookshop ecc. Il Mibac ha scartato l’idea dei bandi «integrati», che raccolgano cioè imprese specializzate per gestire insieme i diversi servizi, come avevano raccomandato le due società di consulenza (costate 200mila euro) chiamate dallo stesso Mibac a preparare le linee guida dei bandi. «Il direttore della Valorizzazione Mario Resca ha adottato il metodo “disaggregato” per evitare la concentrazione dei concessionari», spiega la Asproni. Lo scopo dichiarato era cioè quello di «aprire il mercato» dominato da pochi. «Ha ottenuto l’effetto opposto. Le imprese concorrenti sono pochissime, una o al massimo due per sito». Perfino la gara per la ristorazione agli Uffizi, a Boboli e a Palazzo Pitti, una delle più appetibili, ha avuto un solo concorrente e il Tar ha poi annullato la gara. «È la prova, dice ancora la Asproni, che con le gare disaggregate non è possibile bilanciare tra loro spese e ricavi dei diversi servizi e le imprese non possono investire per migliorare i servizi, anche perché la durata della concessione è di soli 6 anni (prima erano 12), troppo pochi per recuperare un serio investimento».
Patrizia Asproni mette poi l’accento sul problema di fondo: i concessionari non possono intervenire nei criteri di gestione dei musei. In primo luogo gli orari di apertura, che sono decisi dal Ministero in maniera spesso non razionale. Altro elemento che soffoca i concessionari: il prezzo del biglietto, deciso dallo Stato senza consultarli. Secondo Confcultura sarebbe necessario lasciare al gestore la possibilità di modulare il prezzo: una politica di incentivi gioverebbe anche al museo, per esempio con sconti in bassa stagione e alle famiglie. Tutto viene invece deciso da commissioni ministeriali. Basti pensare che la percentuale sui biglietti spettante ai privati che gestiscono il servizio è stabilita in anticipo. Per i musei più frequentati è al massimo il 14%, e questo assicura un guadagno, ma nella maggior parte degli altri arriva al 30% e la perdita è garantita: in molti musei con basso numero di visitatori lo sarebbe anche assicurando al concessionario il 100% del prezzo del biglietto. Infatti diversi musei statali hanno scelto di renderlo gratuito. «I concessionari sono ridotti al rango di impiegati, fa notare Patrizia Asproni, eppure non stiamo parlando di “appalti”, ma di “concessioni” e la Cassazione ha stabilito che si tratta di due cose ben diverse. Alle imprese adesso si chiedono “servizi” che devono limitarsi a eseguire. Il principio della concessione è basato invece sul rischio di impresa, e non puoi rischiare i tuoi investimenti se non hai autonomia. Bisogna insomma cambiare il rapporto tra pubblico e privato, stabilire principi di partnership». Certo, questo sistema non funziona e le imprese sono troppo spesso in passivo, non investono, non migliorano i servizi e i musei ne soffrono. La ricetta di Confcultura è drastica: il Mibac è obsoleto. E lancia una proposta politica. «La cooperazione fra Stato, Regioni ed enti locali diventa necessaria per coordinare le iniziative. Il Ministero per i Beni culturali e quello del Turismo sono frammentati. Ci vorrebbe, come in altri Paesi, un Ministero della Cultura che si dedichi alla salvaguardia del patrimonio e allo stimolo della produzione culturale. Le altre competenze, come la gestione, dovrebbero far capo al Ministero per lo Sviluppo economico. Quanto ai servizi al pubblico, conclude Patrizia Asproni, la soluzione è affidare ai privati la gestione diretta dei servizi museali. comprese le decisioni su marketing, orari, personale, prezzi ecc. Naturalmente in accordo e con il controllo delle Soprintendenze in una vera partnership».
Proposte shock ma applicate in molti Paesi stranieri. Quanto ai bandi, sono necessarie decisioni urgenti: vanno ripensati e corretti per uscire dalla paralisi.
La mole immane della Costa Concordia coricata a ridosso del Giglio, quasi appoggiata all´isola in un estremo tentativo di sostenersi, è una delle immagini più impressionanti degli ultimi tempi. È come se solamente il naufragio, e l´adagiarsi in mare, restituisse a quel palazzo galleggiante la sua natura di nave. Una nave, come tutte le navi, sospesa sul mare.
È un mare domestico, quello smagliante di luce dell´arcipelago toscano. Un mare prossimo, che a noi italiani dà un´idea rassicurante e conosciuta, niente affatto esotica, per nulla disorientante. Ma è pur sempre mare: e dunque natura, non solo tecnologia; e caos, non solo economia. Le megastrutture che solcano i sette mari dando ai loro abitanti l´impressione (fallace) di annullare il moto ondoso e il clima, e a qualunque latitudine e longitudine replicano l´orgogliosa sicurezza dell´uomo che ha domato per sempre gli elementi, sono esposte anch´esse - come tutto, come tutti - alla potenza della natura, all´arbitrio del caso e soprattutto agli errori dell´uomo.
Quello del Giglio è un disvelamento tragico: costa morti, dispersi, panico, polemiche, strascichi legali. Ma può avere una sua utilità, perfino una sua severa moralità, se aiuta a capire che la convivenza tra uomini e natura rimane pur sempre soggetta a regole, e avvenimenti, non tutti pacifici, non tutti compresi nel prezzo del biglietto. Basta uno scoglio quasi affiorante, a un miglio appena da un´isola, a squarciare uno scafo costruito da macchine formidabili e da operai sapienti, e progettato da un´orchestra di computer. Basta una distrazione o una sciatteria o un azzardo malcalcolato a portare una città semovente (cinquemila persone!) esattamente sopra quello scoglio e fuori dalla sua rotta, sprofondando nella sciagura e nell´ansia chi era partito per ballare, mangiare e giocare: e in un batter d´occhio si passa dalla luce eterna della crociera al buio invernale, da un dentro ospitale e allegro a un fuori gelido e nero come è il mare d´inverno.
Molto si vocifera, e forse si sa, delle colpe del comandante della nave, che è in stato di fermo con accuse molto gravi; dell´impreparazione dell´equipaggio; del caotico e sregolato sovrapporsi dei soccorritori, forse non sorretti da un coordinamento impeccabile. Ma in attesa di fare i doverosi conti con le responsabilità, le omissioni, perfino le viltà (che in mare sono terribili colpe), quello che vediamo è lo spietato ribaltamento di migliaia di tonnellate di acciaio (pare che la Concordia sia la più grande nave affondata di ogni tempo, e di ogni mare), saloni immensi che perdono l´asse fino a trovarsi con le pareti mutate in pavimento, scialuppe che cozzano l´una con l´altra come birilli, persone sparite da cercare forse nelle cabine sommerse, come nei film catastrofisti e nelle memorie delle grandi tragedie di mare, il Titanic, l´Andrea Doria, l´euforia del viaggio che muta in disperazione, gelo, morte.
I tribunali, i periti, le assicurazioni, le carte bollate: ci sarà tempo per tutto. E il dolore delle vittime e dei loro parenti, appena leggibile nelle interviste concitate, nelle dichiarazioni furenti. Ma prima e dopo tutto questo, al di sopra e al di sotto, le grandi tragedie dei trasporti (di terra, di mare, d´aria) ci ricordano che la grandezza della tecnologia non appaia ancora, e forse non appaierà mai, la grandezza della natura, che va dalla potenza deiforme degli uragani, delle eruzioni, dei terremoti, alla minuta ferocia di uno scoglio invisibile, e alla ancor più minuta imprevedibilità degli errori e delle colpe degli esseri umani.
Proprio in questi giorni, in queste ore, va in onda sulla tivù satellitare un documentario sulla catastrofe (dimenticata) del Concorde, il supersonico francese che nel luglio del 2000, per un dettaglio quasi assurdo - un frammento metallico perduto da un altro aereo di linea, e dimenticato sulla pista - prese fuoco durante il decollo, e precipitò su un albergo. L´eccellenza tecnologica aiuta a diminuire i pericoli, ad accorciare le distanze, ad alleviare i disagi. Non a cancellare i rischi, non a sfrattare l´errore dal novero delle facoltà umane. La quasi omonimia tra l´aereo Concorde e la nave Concordia è ovviamente casuale, e però suggestiva. Li apparenta un destino da fenomeni tecnologici, da meraviglie della cantieristica, poi affossati da una fine cruenta. L´orgoglio umano è legittimo, se si pensa che da Icaro si è passati al volo supersonico e dalle piroghe alle odierne navi da crociera. Ma capita che l´orgoglio accechi, e qualora lo avessimo dimenticato basta uno scoglio a ricordarcelo.
«Io non lancio aut aut, sono molto rispettoso verso il Pd, ma se la prospettiva di un nuovo Ulivo di cui ha parlato Bersani non c’è più perché c’è una svolta a destra, noi saremo competitivi con il Pd in maniera virulenta. Parleremo al suo popolo dal momento che gli stati maggiori si possono anche dividere, ma il popolo di centrosinistra è uno soltanto e ha più volte dimostrato che vuole un cambiamento». Non è un aut aut ma ci somiglia moltissimo e Nichi Vendola non ci tiene neanche troppo a smorzare i toni perché questa storia della Federazione tra Pd e Terzo Polo a cui lavora Fioroni, o quell’altra secondo cui la legge elettorale devono studiarsela a tavolino Pdl, Pd e Terzo Polo, come auspica Letta, per il leader di Sel è davvero troppo. E niente sconti alla politica europea, di destra, di cui il governo Monti è soltanto «una variabile colta e illuminata».
Vendola, la S&P declassa mezza Europa e l’Italia scende in serie «B». Che sta succedendo?
«Ormai siamo di fronte ad una situazione insostenibile e paradossale. L’Europa si sta sgretolando e il male oscuro che la divora è quel clamoroso deficit di politica e democrazia che la rende priva di soggettività reale nella scena del mondo. Un’Europa inesistente, priva di narrazione, che non assomiglia per nulla alla grande utopia europeista che l’ha ispirata, alla Altiero Spinelli o alla Willy Brandt. È ormai prigioniera della mediocrità della destra europea, della più incapace classe dirigente ben incarnata dalla coppia Merkel-Sarkozy».
Condivide il monito del Capo dello Stato che esorta gli stati ad una vera unità politica e economica?
«Prima bisognerebbe chiedersi perché è finita così: è nel fatto che l’Europa oggi è quasi interamente governata dalla destra e la sinistra, folgorata sulla strada del liberalismo, con le sue mille torsioni moderate ha regalato l’Europa all’egemonia culturale, politica e economica della destra».
Lei dice: Europa responsabile del suo fallimento. Ma sulle agenzie di rating non ha nulla da dire?
«Il fatto che i luoghi opachi privi di credibilità come le agenzie di rating, possano avere un peso nello spianare la strada all’assalto speculativo dei loro proprietari, visto che operano per conto di soggetti economici importanti, non mi stupisce. Piuttosto è la mancanza di un’agenzia di rating europea un’altra prova del carattere fiacco dell’Unione».
Intanto nel centrodestra c’è chi inizia a dire che non era colpa di Berlusconi, come spread dimostra.
«Di questa Europa così spettrale e priva di visione il governo Monti rappresenta una variante colta e illuminata ma non un’alternativa. L’unica alternativa possibile è l’Europa sociale che solo le forze socialiste, socialdemocratiche ed ecologiste del vecchio Continente possono ricostruire. Anche perché si sta dimostrando che le politiche tecnocratiche a cui anche l’Italia partecipa, non solo sono socialmente inique ma anche inefficaci».
Dunque, meglio le elezioni anticipate come auspicano Berlusconi e Bossi?
«Non credo che sia nelle intenzioni di Berlusconi andare al voto. Ha tutto l’interesse ad aspettare per smarcarsi il più possibile dalla crisi, per apparire estraneo alle ragioni del disastro che sta vivendo l’Italia. In questo modo può caricare il governo Monti di una responsabilità che in realtà appartiene tutta al ventennio berlusconiano. La Lega poi, non mi sembra sia in condizione da affrontare le elezioni, si sta squagliando. Il fatto che si sia salvato Cosentino in Parlamento dimostra che hanno bisogno di guadagnare tempo per recuperare terreno e organizzare, contro la quaresima tecnocratica che vive il Paese, una riscossa del populismo».
Però anche il Pdl inizia a minacciare il governo Monti.
«Fa impressione vederli oggi come avversari dei poteri forti, proprio loro che hanno sempre garantito gli evasori, la ricchezza, anche quella criminale... Attenzione, lo dico soprattutto al Pd».
Cosa rimprovera a Bersani?
«Non rimprovero alcunché, dico che la questione oggi, sia in Italia sia in Europa, è la giustizia sociale. Il Pd non può avere un’azione incisiva sulle politiche di Monti perché la sua capacità è stata annientata a monte, dalla parte più moderata del partito. I gruppi dirigenti, alcuni, hanno impedito un negoziato più stringente sulla direzione del governo Monti che finora ha evocato scenari, ma non sciolto i nodi, dalla patrimoniale alla tobin tax. Sel ha organizzato il 22 gennaio a Roma un’assemblea nazionale con un titolo chiaro: “Per la giustizia sociale. Una nuova sinistra per salvare l’Italia”. Ci saranno Pisapia, Landini, De Magistris, Michele Emiliano... esperienze di governo fatte di riformismo radicale».
Vendola, tra l’Idv e il Pd i rapporti sono al lumicino, Vasto un ricordo lontano. Come ci arriva il centrosinistra alle elezioni?
«Sarebbe un errore imperdonabile immaginare che l’Idv rappresenti un impiccio o un fardello di cui liberarsi».
Perché il Pd dovrebbe dialogare con un partito che lo attacca ogni giorno?
«Il nostro alleato principale, il mio e di Di Pietro, non può pensare di non sciogliere mai i nodi della prospettiva, per cui ogni giorno leggiamo che Enrico Letta la legge elettorale la vuole fare in modo che definire autoritario è un eufemismo, oppure che Fioroni vuole fare la Federazione con il Terzo Polo. Ma se quello è il destino io e Di Pietro non abbiamo paura a metterci a capo di un altro polo di governo, alternativo al Pd. Non intendo più immaginare che per la sinistra ci sia soltanto un destino di testimonianza democratica».
L'Europa è in balia del rating. E a ogni minimo sussurro di un'agenzia, l'euro compie un passo in più verso l'abisso. Lo si è visto ieri quando Standard & Poors' (S & P') ha annunciato di aver degradato la Francia (e l'Austria) dalla tripla A (AAA) ad AA+: retrocessione anche per Italia, Spagna e Portogallo. I francesi, colpiti al cuore nella loro grandeur, non l'hanno presa bene. Per il consigliere di Nicholas Sarkozy, Alain Minc, queste agenzie «non sono più nemmeno 'pompieri piromani', sono peggio». L'annuncio ha mandato a picco le borse. Non solo: ha innescato una mina micidiale sotto la valuta europea: tutte le speranze di salvataggio erano riposte nel duumvirato franco-tedesco, ma ora la Francia è indebolita, il club dei paesi «virtuosi» si restringe e il «fondo salvastati» non può più rastrellare fondi a basso tasso d'interesse. (E intanto le trattative con la Grecia venivano sospese.)
È l'ultima, ridondante riprova dello strapotere di queste agenzie private possedute dai più potenti capitalisti Usa: Moody's è controllata da Warren Buffett attraverso il suo fondo Berkshire Hathaway, S & P' dalla famiglia Lovelace attraverso il fondo Capital World Investors di Los Angeles; e questi fondi speculano sulle stesse valute su cui le agenzie di rating da loro possedute esprimono i propri giudizi: è poco giudicarlo un «conflitto d'interessi».
Queste agenzie agiscono come monarchi assoluti: il loro verdetto è insindacabile; decidono a proprio piacimento quando e come emettere i loro «oracoli» che sono vere e proprie lettres de cachet senza possibilità di appello; e lo loro profezie hanno il magico potere di autorealizzarsi, visto che spingono sulla china del declino economico quei paesi che diagnosticano in discesa.
Sono monarchi assoluti perché delle costituzioni dei vari paesi fanno carta igienica, perché ogni loro verdetto abroga un aspetto dopo l'altro della democrazia.
Ma i monarchi sono assoluti perché i loro sudditi non si ribellano. E il potere delle agenzie di rating è dovuto per buona parte all'imbelle, velleitaria gestione franco-tedesca di questa crisi ormai da quasi due anni.
L'Europa avrebbe potuto evitare questo avvilente spettacolo se si fosse vista almeno una parvenza di democrazia europea. Ma invece costituzioni sono state revocate, democrazie sospese e il potere affidato direttamente a banchieri o a tecnici consulenti di banchieri.
Ribadiamo: senza una politica economica comune l'euro non è sostenibile. Ma una politica comune non è neanche pensabile senza una struttura di governo comune democraticamente eletta (altrimenti avremmo una tirannia europea). Solo una struttura simile sarebbe in grado di ridurre a più miti consigli l'arroganza delle agenzie di rating, di cui ormai ci si può cominciare a chiedere a che gioco stanno giocando e chi inziga chi (e quale ruolo ambiguo ha il Tesoro degli Stati uniti). Lo sappiamo che è una speranza quasi vana, ma altro non ci resta.
P.S. Va detto che nomen omen: l'agenzia fissa arbitrariamente lo Standard e a noi ci lascia Poors'.
La crisi: istruzioni per l'uso. Da "credit crunch" a default, dai bond ai Btp, dalle capitalizzazioni ai "credit default swaps", un glossario, chiaro e articolato, per capire i termini dell'economia e il suo funzionamento
Il premio Nobel Paul Krugman, ha scritto sul New York Times un articolo intitolato "Nessuno capisce cos'è il debito". Intendeva nessun economista della scuola preferita dai conservatori, e il debito cui si riferiva è quello pubblico generato dal disavanzo della spesa statale. Per dimostrarlo ha fatto il seguente esempio. Coloro che aborriscono i disavanzi statali ritengono che possano causare un futuro in cui i cittadini saranno impoveriti dal dover rimborsare il denaro preso a prestito. Quindi paragonano gli Stati Uniti a una famiglia che abbia contratto un mutuo tanto oneroso da condannarla a soffrire gravi difficoltà nel pagamento delle rate mensili. Ma, dice Krugman, si tratta di una analogia falsa per due motivi.
Il primo: le famiglie devono rimborsare il debito contratto ma non i governi, ai quali si impone solo che il debito cresca meno della base fiscale. L'enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l'economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione.
Il secondo: una famiglia oberata dai debiti deve del denaro a qualcun'altro, mentre il debito degli Usa è in larga parte denaro che è dovuto ai suoi stessi cittadini. È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere che, in rapporto al reddito nazionale, era assai maggiore di quello attuale. Ma quel debito era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra i quali, anzi, godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti. Krugman sostiene dunque che, in determinate situazioni, politiche governative dirette a stimolare la crescita e l'occupazione possono rendere sopportabili aumenti del debito assai superiori a quelli che la saggezza convenzionale ritiene accettabili.
Le argomentazioni di Krugman contro la miope visione degli economisti e dei politici che avversano l'indebitamento statale sono convincenti ma non forniscono di quella miopia una ragione logica. Che invece emerge chiaramente da una diversa teoria che sostiene, al contrario di ciò che si pensa comunemente, che il sistema capitalista per sua natura è perpetuamente costituito dalla stretta connessione fra la dimensione privata-individuale e quella pubblica-statale, ma altresì che l'intreccio fra quelle due dimensioni non lo si può cogliere a prima vista. Perché (proprio come nel caso delle due facce di una moneta) la percezione di una nasconde l'altra e perciò la visione individuale nell'economia – cioè il punto di vista della famiglia che si indebita - occulta la visione dell'intervento statale – cioè il punto di vista delle sue conseguenze sull'insieme dei cittadini. Esistono, in altre parole, effetti delle azioni dei singoli individui sul complesso dell'economia di cui essi sono inconsapevoli, come è altrettanto vero che vi sono azioni pubbliche che producono effetti sui singoli di cui lo Stato non è conscio.
Per superare questa oscura dicotomia occorre collocarsi al di fuori di entrambe le dimensioni sia individuale che statale, e situarsi invece in un'altra che si può definire "collettiva", capace di rivelarle simultaneamente. È difatti la dimensione collettiva che rende evidente la duplice interconnessione pubblico-privato ignorando la quale si incorre in errori gravi nell'analisi teorica ma anche nelle concrete politiche economiche. A cominciare da quelle che invocano ossessivamente le regole dell'"austerità", magari buone per le famiglie ma non per i governi. Un solo caso può bastare a illustrare questo problematico carattere duale del capitalismo.
È il caso del "reddito nazionale" che, essendo uguale alla somma dei profitti e dei salari, misura l'economia nel suo complesso e nel quale perciò non sono affatto distinguibili gli obiettivi delle famiglie (il salario) da quelli delle imprese (i profitti). E tuttavia è proprio a questo livello complessivo dell'economia che un aumento della quota dei profitti nel reddito nazionale ai danni dei salari (auspicato dalle imprese) produrrà una riduzione della quota dei consumi, e quindi anche una riduzione del prodotto interno lordo (il Pil) mentre, all'opposto, si otterrà un aumento del Pil dall'aumento della quota dei salari a danno dei profitti (deprecato dalle imprese). Se invece da quello complessivo si passa al livello dei singoli agenti sia produttori che consumatori, si scopre che essi, nelle loro rispettive azioni sul mercato tese a incrementare i propri profitti o i propri consumi, sono all'oscuro degli effetti positivi o negativi che quelle azioni produrranno sul Pil e, quindi, al loro livello decisionale non possono esserne direttamente la causa.
Ecco dunque che questo famoso Pil non dipende né dai comportamenti individuali, come sostiene la scienza economica prevalente, né da autonome azioni pubbliche, ma da comportamenti politici, sindacali e/o lobbistici che influiscono in larga misura proprio sulle politiche economiche e di distribuzione dei redditi da parte degli Stati, e quindi sul tipo di spesa pubblica che essi attuano.
Se mettono in atto politiche di austerità quando la crisi è di domanda, seguendo l'istinto individuale che nella crisi spinge per il risparmio, allora la crisi non è battuta. Se invece aumentano la spesa pubblica, che nelle circostanze è causa inevitabilmente di nuovo indebitamento possono, a determinate condizioni, come nel pensiero di Krugman, provocare non un impoverimento ma un arricchimento della collettività, come è avvenuto nell'ultimo dopoguerra. Fra quelle condizioni c'è ovviamente la destinazione del maggiore debito non allo spreco, alla corruzione, o al sollievo diretto dei margini di profitto, ma all'aumento della domanda per le attività produttive e agli incrementi della produttività. E, attraverso ciò, al Pil, ai salari e ai profitti.
Ma è ovviamente necessario un adeguato lasso di tempo perché questi effetti si realizzino. E proprio qui sorge il problema dei mercati finanziari e del loro predominio a livello globale. Perché se anche, al contrario di quanto oggi avviene, invece di ridurre la spesa pubblica la si accrescesse per stimolare la produzione e l'occupazione, potrebbe succedere che il maggiore indebitamento che ne deriverebbe non avrebbe come effetto immediato l'aumento del Pil ma dovrebbe misurarsi con la speculazione finanziaria che, incapace di prevederne gli effetti positivi nel periodo più lungo, ne farebbe salire il costo (lo spread) tanto da vanificarne gli effetti positivi.
Questa è la trappola in cui si trovano oggi tutti i Paesi, compreso il nostro, nei quali la sovranità è stata svuotata da poteri metanazionali e da una cultura economica e politica incapace di sollevare lo sguardo a livello collettivo e di dominare il rischio di una prolungata recessione, assai pericolosa per le nostre democrazie.
Il verdetto del ministero dei Beni culturali mette sotto accusa la Soprintendenza: contestate modalità e durata dei contratti
Le maxipubblicità dell’area marciana sotto accusa come il caso-Colosseo. Ma se a Roma a muoversi è stata l’Autorità Antitrust mettendo in discussione durata dell’accordo e ritorno d’immagine della Tod’s di Diego Della Valle, che finanzierà l’intervento di restauro, a Venezia a muoversi è stato direttamente il Ministero dei Beni Culturali, con un’indagine interna affidata al direttore regionale dei Beni Culturali Ugo Soragni. E ora è arrivato il verdetto dell’indagine sui contratti delle maxipubblicità stipulati in questi anni dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici nell'area marciana, in cambio dei fondi necessari ai restauri delle facciate della Biblioteca di San Marco e delle Procuratìe Nuove. Contratti pluriennali che manterranno ancora per diversi anni le maxipubblicità nell'area monumentale. A stilare il giudizio, l’Ufficio Legislativo del Ministero dei Beni Culturali, molto critico su modalità, durata e meccanismi di finanziamento adottati con l’accordo dalla soprintendente Renata Codello, a cui è stato ufficialmente comunicato in questi giorni e che dovrà ora rispondere agli addebiti che possono avere conseguenze di carattere amministrativo, visto che i contratti di sponsorizzazione e le maxipubblicità nell’area marciana sono ancora in essere.
Cinque i punti che non vanno in questi contratti, che non rientrerebbero nel campo delle sponsorizzazioni vere e proprie, ma farebbero capo agli appalti stipulati per i vari interventi di restauro. Una prima conseguenza è che per aggiudicarli si sarebbe dovuti andare a una gara ad evidenza pubblica e non a trattativa privata come invece avvenuto con i contratti sottoscritti dalla Soprintendenza in esclusiva con la società inglese (con sede a Floriana di Malta) Remedia e con l'italiana Gerso, con un contratto di sette anni e un importo di 3 milioni e 600 mila euro per i restauri, in cambio di maxipubblicità sui ponteggi delle facciate dell'ex Palazzo Reale, Procuratie Nuove, Biblioteca Marciana, Zecca e sulle due facciate del Correr (Ala Napoleonica e Calle dell'Ascension).
Proprio la lunghezza dei contratti è un altro dei punti messo in discussione, perché una durata più breve - come accade normalmente - vincolata a tempi certi per il singolo intervento avrebbe consentito un maggior potere contrattuale da parte del committente e la possibilità di successive condizioni migliori in regime di concorrenza. Un esempio chiaro delle conseguenze di questa situazione sono i ponteggi da anni presenti sull’Ala Napoleonica con maxipubblicità, senza che la stessa soprintendente Codello - come ha dichiarato di recente in pubblico presentando la conclusione dei restauri della facciata sul Ponte della Canonica di Palazzo Ducale - possa dichiarare con certezza quando l’intervento sarà concluso.
Proprio per tutte queste problematiche e per l’ampiezza anche temporale dell’accordo raggiunto, la Soprintendenza avrebbe dovuto prima sottoporlo per accettazione al Ministero dei Beni Culturali e questo è un altro degli aspetti da chiarire. Il consigliere particolare del ministro Franco Miracco ha già dichiarato inoltre che l’accordo per le maxipubblicità nell’area marciana sarebbe in contrasto con lo stesso Codice dei Beni Culturali «che all'articolo 49 autorizza sì il soprintendente a ricorrere alle pubblicità sui monumenti, ma solo "quando non ne derivi danno all'aspetto, al decoro e alla pubblica fruizione" di essi e mi pare non ci sia dubbio sul fatto che ciò è invece quanto sta avvenendo a San Marco».
Vedi questo argomentol'articolo di eddyburg, con l'allegato powerpoint.
Democrazia annacquata
di Guglielmo Ragozzino
Ieri, a metà giornata, la Camera dei deputati ha votato in segreto contro l'arresto, giusto o sbagliato che fosse, di Nicola Cosentino, un suo membro. Sei mesi orsono, 26 milioni di voti nel referendum sul «legittimo impedimento», avevano stabilito che tutte le persone sono uguali davanti alla legge. Per il Parlamento, Cosentino è dunque più uguale degli altri. Poche ore prima la Corte Costituzionale aveva reso noto la bocciatura della richiesta di referendum abrogativo sulla attuale legge elettorale, quella nota come «porcellum», sostenuta da 1,2 milioni di cittadini. Il giorno prima il governo autorevolmente rappresentato da Mario Monti aveva esposto «le norme generali sulle liberalizzazioni e tutela dei consumatori», a supporto della precedente manovra del 6 dicembre «Salva Italia». Lo aveva fatto a Berlino, ottenendo l'invocato plauso di Angela Merkel, la Cancelliera. Non una parola sui referendum sull'acqua.
Il senso di fastidio dei poteri sui referendum idrici si esprime in una frasetta: «Il presente articolo 18 non si applica al servizio idrico per il quale rimangono ferme le competenze dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas...» Ecco chiamata in causa una quarta Autorità centrale.
Camera, Corte, governo mostrano di non tenere in considerazione la volontà popolare, giusta o sbagliata che sia. Il referendum sull'acqua, preparato su migliaia di tavoli, in una discussione pubblica diffusa è malvisto da chi è convinto che l'acqua sia buona solo da vendere e che venderla sia un grande affare, il più grande del secolo, purché ritorni nella disponibilità dei gruppi multinazionali. I soliti 26 milioni - noi - sono folclore italico, non certo un modello per i popoli della Terra.
Nei decreti, quello di dicembre e quello di gennaio, sono esposti molti provvedimenti che, presi tutti insieme, trasformano il nostro paese in un modello diverso, nel quale la maggioranza dei cittadini, ancor di più gli stranieri che si sono uniti a noi, vivrà una vita più grama. Il motivo è la crisi, ora declinata nell'astrazione dello «spread», una spirale che potrebbe inghiottire tutto quello che abbiamo. Difendere il «porcellum» e Cosentino; disprezzare o deridere, a Berlino, la volontà popolare: in che paese siamo finiti?
Il governo ci vuol convincere a cedere pezzi di salario, di pensioni, di democrazia, di libertà: il Parlamento vota tutto. È una stretta implacabile, conseguenza della crisi; oppure è un veritiero caso di «Shock Economy». Naomi Klein potrebbe prendere in considerazione l'Italia se mai scrivesse una nuova edizione del suo libro. Travolti dalla crisi, terrorizzati dal gorgo spaventoso detto «spread», dovremmo accettare una democrazia a scartamento ridotto e soprattutto consentire che le libertà sindacali e sociali che l'articolo 18 della legge 300 del 1970 rappresenta per tutta la popolazione, vadano in fumo.
Da quarant'anni infatti, nel bene e nel male, la popolazione vi riconosce un principio generale di eguaglianza e giustizia. Per questo è affezionata a quel che è stato e significa ancora; sarà arduo scippare l'art 18.
Una barbarie giuridica incostituzionale
di Alberto Lucarelli
Nel testo della bozza di decreto legge sulle liberalizzazioni circolato in queste ore suscita particolare sconcerto la disposizione di cui all'art. 20. Tale disposizione, marginalizzando l'ambito di applicazione dell'azienda speciale ex art. 114 del testo unico sugli enti locali, rischia di vanificare di fatto il vittorioso esito dei referendum dello scorso giugno contro la privatizzazione dell'acqua, in attuazione del quale il Comune di Napoli ha (primo in Italia) provveduto a trasformare la natura giuridica del soggetto incaricato di erogare il servizio idrico integrato.
In primo luogo, nella fattispecie, si segnala un abuso dello strumento giuridico del decreto legge, con il quale si procede ad un riforma ex abrupto di interi settori dell'economia nazionale (servizi pubblici locali, commercio, trasporti, professioni), in assenza di adeguata meditazione, nonché dei requisiti previsti dall'articolo 77 Cost. Si realizza, in tal modo, per il tramite di un illegittimo ricorso alla decretazione d'urgenza, un tradimento della volontà popolare espressa a seguito dei referendum.
Il decreto in oggetto, così come già l'art. 4 del decreto di Ferragosto, ripropone la medesima disciplina contenuta nell'art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133 e successivamente abrogato tramite lo strumento offerto dall'art. 75 della Cost. La giurisprudenza costituzionale ha avuto più volte modo di affermare l'illegittimità della riproposizione sostanziale di normative abrogate con referendum. Lo stesso art. 18 della bozza di decreto ("Promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali"), riaffermando di fatto una disciplina abrogata (e limitandosi semplicemente ad eliminare i riferimenti al servizio idrico), comporta un'indebita restrizione dell'ambito di applicazione del referendum (che ha avuto ad oggetto l'intero art. 23-bis e non certo il solo servizio idrico). Anche volendo ammettere la legittimità delle parti del decreto richiamate, la disciplina dei servizi pubblici locali che ne deriva appare decisamente sbilanciata in favore di modi di gestione privatistici, in assoluta violazione del diritto comunitario.
Infine, del tutto ambigua è la riconducibilità del servizio idrico integrato al novero dei servizi di interesse economico generale, attesa la peculiare natura del bene acqua, strettamente collegato a diritti fondamentali (si pensi al diritto alla salute). È evidente che ci troviamo di fronte ad un subdolo disegno eversivo di disarmo del diritto pubblico e delle garanzie ad esso collegate, concepito ad arte per neutralizzare l'imponente movimento politico e culturale sorto in questi mesi a tutela dei beni comuni.
Le grandi manovre dei privatizzatori
di Andrea Palladino
Obiettivo del decreto è quello di svuotare il referendum che, nel primo quesito, riguardava tutti i servizi pubblici locali Gli ecodem: «Non voteremo questo imbroglio. Serve una grande mobilitazione»
Sette mesi è durata la manovra che metterà la mani nella vita quotidiana degli italiani. Un tempo in definitiva breve per cambiare nel profondo il paese, con la più grande privatizzazione mai concepita in Europa dopo l'era Thatcher. Sette mesi, due governi, tre provvedimenti ed un certosino lavoro della più potente lobby economica, quella espressa dai giganti dei servizi pubblici. Sono loro, alla fine, i principali beneficiari del corposo decreto che il governo di Mario Monti sta preparando.
Speravano nel silenzio, cercavano di bloccare le prime indiscrezioni, inviando giovedì sera alle agenzie uno stringato comunicato che cercava di smentire quel testo arrivato nelle redazioni. Un tentativo goffo, che ieri non ha avuto replica, dopo la pubblicazione di ampi stralci del provvedimento..
Le grandi manovre dei privatizzatori hanno una data d'inizio chiara, il 14 giugno scorso. Ovvero il giorno del conteggio dei 27.637.943 voti espressi dagli italiani per abrogare due norme centrali sull'acqua e sulla gestione dei servizi pubblici locali. Un evento storico, ma in fondo facilmente spiegabile: in ballo c'era quello che le multinazionali chiamano «l'essenziale per la vita». Oltre ai servizi idrici quelle norme abrogate riguardavano la gestione dei rifiuti, il trasporto pubblico, gli asili nido, le farmacie comunali. Per questo il successo dei referendum è stato travolgente. Quasi ventotto milioni di persone hanno capito che in ballo c'era molto di più di un acquedotto o di una fontanella pubblica, si trattava in fondo della qualità della vita.
La prima mossa la compie il parlamento, approvando il 21 giugno l'istituzione dell'Agenzia regolatrice dei servizi idrici. Un'autority, ovvero lo strumento principe dei mercati liberalizzati. Già allora spunta la parola chiave, liberalizzazione: «Potete scegliere il servizio migliore», si poteva leggere tra le righe dei commenti usciti dalle bocche e dalle penne dei pasdaran della privatizzazione. «Diminuiranno i prezzi», «Eliminiamo la gestione politica e le poltrone nei Cda» e, immancabile, «Il mercato è in grado di regolare i servizi essenziali».
Dopo il primo passo del parlamento si è aperto un fronte ampio quanto silenzioso, con l'obiettivo dichiarato di svuotare i referendum. Il primo luglio è intervenuta la lobby dei gestori dell'acqua, l'Ania (Associazione nazionale autorità e enti di ambito territoriale). Durante l'assemblea annuale si discute degli «effetti dei referendum». E spiegano: c'è «incertezza sulla normativa applicabile agli affidamenti dei servizi pubblici locali»; e ancora: «ridotta finanziabilità degli investimenti». Una richiesta chiara di interventi per bloccare il cambiamento voluto dagli elettori.
Pochi giorni prima, il 24 giugno, era intervenuto il docente di diritto pubblico Giulio Napolitano - figlio del presidente della Repubblica - che in un documento richiesto dalla romana Acea spiegava come difendere lo status quo: «Il referendum non ha nessun effetto sui rapporti in corso». Acea poteva stare tranquilla, quel voto non avrebbe messo in discussione la grande privatizzazione alla romana, avviata nel 1998 da Francesco Rutelli. E il futuro? Qui entra un punto chiave, che verrà ripreso dall'intervento del governo Monti. Scrive Giulio Napolitano: «L'intera materia dei servizi pubblici (...) rimane disciplinata dal testo unico sugli enti locali». Segnamoci questo passaggio.
Il 3 luglio inizia il ballo dello spread. Sono i conti pubblici il tema quotidiano dei giornali e, rapidamente, il referendum viene archiviato. In un mese e mezzo il governo Berlusconi-Tremonti prepara l'intervento della vigilia di ferragosto, dove appare, all'articolo quattro, la norma Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dell'unione europea. In sostanza il ministero dell'Economia riprende l'abrogato 23 bis della legge Ronchi e lo riporta - con un vero copia e incolla - nel pacchetto, escludendo il solo servizio idrico. È un imbroglio, in realtà, perché il primo quesito referendario riguardava tutti i servizi pubblici locali. Si avvia così la privatizzazione forzata dei rifiuti, del trasporto pubblico locale e di altri pezzi di vita quotidiana. Un pacchetto confermato - e rafforzato - dal decreto sviluppo, ultimo atto del governo di Silvio Berlusconi. I professori stavano già scaldando i muscoli.
A fine novembre arriva Mario Monti, curriculum da economista ed esperto di quella parola che da mesi girava attorno ai referendum e ai servizi pubblici locali: la liberalizzazione. Il paese è ingessato, bloccato dalle corporazioni, serve aria nuova, è il leit-motiv che intasa le cronache politiche. Si prepara l'atto finale.
La bozza del decreto Monti uscita giovedì ha tre articoli micidiali sui servizi pubblici: il 18, il 19 e il 20. I primi due rafforzano - e nessuno ne sentiva il bisogno - il ripescaggio del 23 bis della legge Ronchi preparato dal governo Berlusconi. L'articolo 20 va più in profondità, riallacciandosi alla sottile analisi di Giulio Napolitano, che tanto aveva tranquillizzato Acea. Intacca un articolo cardine del testo unico degli enti locali, escludendo dalla gestione pubblica - ovvero dagli enti non economici, come le aziende speciali e i consorzi - i servizi locali, acqua inclusa. Tutte le gestioni, in questa maniera, dovranno essere affidate solo alle società per azioni, possibilmente sorrette dal capitale privato. Non solo. I comuni in difficoltà finanziaria dovranno cedere quote prima di bussar cassa allo stato centrale.
Il cerchio ora è dunque chiuso. Manca il passaggio finale, il voto in parlamento, dove essenziale sarà il partito democratico. Gli ecodem spiegano che questo imbroglio loro non lo voteranno, e lo stesso Roberto Della Seta chiede aiuto anche ai movimenti: «Serve una grande mobilitazione dei comitati referendari», spiega al manifesto.
Oggi il quadro è ormai chiaro. La lunga marcia in stile Thatcher sta per arrivare all'ultima tappa.
norma «tecnica» che azzera la ripubblicizzazione di Napoli
di Corrado Oddi
Il governo ha ignorato tutti gli appelli dei movimenti. Ora fa il colpo di mano per esautorare i comuni
In molti si sono cimentati nella discussione sulla discontinuità o meno del governo Monti rispetto al precedente governo Berlusconi. Molto ci sarebbe da dire in proposito, ma certamente non si sbaglia ad evidenziare come non sia cambiato il metodo di accreditare ipotesi e regolarsi sulla base delle reazioni che esse suscitano. Non si può pensarla diversamente rispetto al fatto che nella giornata di ieri sono girati varie versioni sul presunto testo del decreto legge sulle liberalizzazioni che il governo dovrebbe varare il prossimo 20 gennaio.
Non è certamente un bel modo di fare la discussione, ma si rischia di non potersi sottrarre a quest'esercizio poco edificante se il governo sceglie di non confrontarsi con i soggetti che sono portatori delle varie istanze e rappresentanze sociali. Questo vale anche sul tema dei referendum del giugno scorso sull'acqua pubblica: subito all'indomani dell'insediamento del governo Monti il Forum dei movimenti per l'acqua ha chiesto un incontro con il Presidente del Consiglio per poter discutere sull'applicazione e il rispetto dei due referendum che hanno sancito che la gestione del servizio idrico deve essere pubblica e che su di esso non si possono fare profitti.
Questa nostra richiesta è stata del tutto ignorata; in compenso, ieri ci è toccato leggere un testo del presunto prossimo decreto del governo che all'art. 20 contiene una dizione molto tecnica, ma che assesta un colpo molto pesante alla volontà referendaria espressa dalla maggioranza assoluta dei cittadini italiani. Lì si dice che le Aziende speciali, soggetti di diritto pubblico e non società per azioni che operano allo scopo di produrre utili, sono abilitate a gestire solo servizi pubblici «diversi dai servizi di interesse economico generale». Uscendo dal tecnicismo, il governo vuol dire che il servizio idrico, considerato servizio di interesse economico generale - anche se ci sarebbe molto da dire su ciò - potrebbe essere gestito solo tramite gara o da società per azioni, eliminando il punto più importante dell'esito del primo referendum sull'acqua, quello che ha nuovamente reso possibile una gestione realmente pubblica del servizio idrico stesso. Per dirla in un altro modo, si vuole cancellare l'esperienza che ha iniziato il Comune di Napoli, trasformando la società per azioni a totale capitale pubblico che gestisce il servizio idrico in Azienda speciale, e che potrebbe interessare in tempi brevi la gran parte del nostro Paese. In più, il presunto testo del decreto rafforza la volontà privatizzatrice in materia di trasporto pubblico locale e ciclo dei rifiuti che era già stata messa in opera con la manovra dell'estate scorsa del governo Berlusconi, che contravveniva platealmente con il risultato referendario. Infine, si continua a non dare applicazione al fatto di togliere la remunerazione del capitale investito dalle tariffe del servizio idrico, non rispettando così quanto dettato dalla stessa Corte Costituzionale sul secondo quesito referendario.
È bene che il governo cambi completamente rotta: cancelli i provvedimenti ipotizzati sulle Aziende speciali, consideri il ruolo fondamentale svolto dai servizi pubblici locali anziché lavorare per la loro privatizzazione, dia applicazione all'eliminazione del profitto sulle tariffe, si confronti con chi rappresenta la volontà di 26 milioni di cittadini. Come è necessario che le forze politiche e sociali si pronuncino in modo chiaro per evitare che sia inferto un grave colpo alla democrazia nel nostro Paese. Si sappia che, comunque, la mobilitazione del popolo dell'acqua è già in corso e si intensificherà nei prossimi giorni, con iniziative in tutto il Paese, con la campagna di obbedienza civile per il ricalcolo delle bollette, con l'azione perché si affermi una gestione realmente pubblica del servizio idrico.
la Repubblica
Alberi, ponte mobile e isola pedonale: la Darsena rinasce e si collega a Expo
di Laura Fugnoli
L’Expo parte dalla Darsena, con le sue acque, ora scarse e putride, prossime a riprendere antichi splendori. I lavori di riqualificazione del porto di Milano partiranno tra la fine di quest’anno e l’inizio del 2013 quando, contestualmente, verrà realizzato il progetto delle vie d’acqua per collegare il centro con il villaggio Expo: un intervento che garantirà, secondo le parole dell’amministratore delegato di Expo Giuseppe Sala, «l’avvicinamento dei milanesi alla "mobilità dolce", con 21 chilometri di pista ciclabile dal centro al villaggio dell’Esposizione universale, ripristino dei canali fino al Villoresi e verde attrezzato in tutta la cintura ovest della città».
Sul piatto 175 milioni di investimenti, di cui 160 a capitale pubblico attraverso Expo Spa e 15 garantiti da soggetti privati. Sul totale, sono 17 i milioni riservati al maquillage della Darsena, ben 9 in meno rispetto al progetto di partenza: «Vorrà dire che sfrutteremo meglio il granito preesistente e rinunceremo alla sistemazione completa di piazzale Cantore» spiega Edoardo Guazzoni, uno degli architetti coinvolti nel progetto, mentre il sindaco Giuliano Pisapia assicura che, «pur con le limitazioni di bilancio, le parti fondamentali del progetto saranno mantenute».
L’area tra Cantore e piazza XXIV Maggio è destinata dunque ad una vera rivoluzione urbanistica. Verranno ripavimentati l’ingresso dell’approdo occidentale e il Belvedere alla Darsena da piazzale Cantore, con l’aggiunta di un ponte tra le due sponde. Parte dei reperti archeologici affiorati nei decenni (pezzi di mura spagnole, per lo più) verranno messi sotto teca, a disposizione dei passanti. Una promenade costeggerà viale Gabriele D’Annunzio con un ampliamento della banchina destinata a manifestazioni e spettacoli.
La sponda meridionale, quella di viale Gorizia, verrà ampliata e alberata, mentre il collegamento con la sponda opposta verrà garantito da un ponte mobile all’altezza della confluenza col Naviglio Grande. L’intervento più consistente riguarderà piazza XXIV Maggio, parzialmente pedonalizzata e abbellita da uno specchio d’acqua grazie alla riapertura del Ticinello sotto la porta neoclassica del Cagnola. Complessivamente le banchine verranno abbassate, mentre elementi conservativi lungo le mura spagnole e l’innalzamento di pareti in mattoni separeranno il bacino da via D’Annunzio, sulla falsa riga di quello che accade a Parigi lungo la Senna:
«Vorremmo ricostruire il senso di un luogo separato - spiega l’architetto Sandro Rossi, coprogettista - per tenere la Darsena lontana dalla concitazione della vita urbana».
I bandi partiranno a giugno «e nel 2014 la Darsena sarà visibile e vivibile, una sorta di lascito di Expo per tutti i milanesi» afferma il sindaco, rammaricandosi di «troppi anni di violenza urbanistica, tra progetti di parcheggi rimasti sulla carta, degrado e sporcizia». C’è voluto l’appuntamento del 2015 per sbloccare un’incuria durata per decenni.
Corriere della Sera
Rinasce la Darsena in stile Expo: verde e piste per bici
di Elisabetta Soglio
Ci voleva Expo, per riqualificare Navigli e Darsena. Grazie ai 175 milioni di euro già stanziati (altri 15 arriveranno dai privati), infatti, il complesso intervento verrà realizzato all'interno del programma delle vie d'acqua, che resterà in eredità a Milano. Come ha spiegato il sindaco Giuliano Pisapia, «per anni questa zona è stata oggetto di violenza urbanistica col risultato che uno dei luoghi più belli di Milano è diventato degradato, sporco, invivibile». I lavori, sulla base del progetto firmato dagli architetti Jean Francois Bodin, Edoardo Guazzoni, Paolo Rizzatto e Sandro Rossi, rivisto per rispettare le nuove esigenze di Expo, partiranno all'inizio del 2013 (il bando sarà lanciato entro giugno prossimo) e si concluderanno entro dicembre 2014. Il disegno di questi 800 ettari di parco lineare sarà presentato il 5 febbraio prossimo, durante un grande evento al Teatro Dal Verme.
L'ad di Expo, Giuseppe Sala, ha spiegato che l'operazione delle Vie d'acqua, inserita nel masterplan di Expo, si articola su tre voci: i canali e l'acqua; i percorsi ciclabili; il verde agricolo e attrezzato. «Vogliamo valorizzare le risorse che Milano già possiede, partendo dall'elemento dell'acqua che è matrice del territorio milanese e lombardo». Ecco dunque un canale di circa 20 chilometri che porterà acqua dal Villoresi (nel comune di Garbagnate) fino al sito di Expo e da qui alle aree agricole e al sistema dei parchi dell'Ovest milanese, il Parco di Trenno, Bosco in Città e Parco della Cave, per finire nel Naviglio Grande.
Chi ama la bicicletta, potrà spostarsi lungo un percorso che partirà dalla Darsena, seguirà il Naviglio Grande fino a San Cristoforo, attraverserà il Giambellino, si snoderà lungo i parchi della zona. Sopra Trenno la pista si biforca: la parte di destra attraversa il quartiere del Gallaratese per arrivare nel sito di Expo attraverso cascina Merlata; la parte di sinistra volterà invece verso Pero per raggiungere l'accesso ovest della Fiera.
E la Darsena? È prevista una nuova pavimentazione per l'ingresso e il Belvedere da piazza generale Cantore. Sulla sponda settentrionale, verrà ampliata la passeggiata lungo il lato che costeggia viale Gabriele D'Annunzio; sulla sponda meridionale, anche questa risistemata, compariranno nuovi alberi e un ponte mobile alla confluenza con il Naviglio Grande.
Infine, piazza XXIV Maggio sarà trasformata in un nuovo specchio di acqua, con la riapertura parziale del Ticinello sotto la porta neoclassica del Cagnola. L'intero progetto di riqualificazione della Darsena sarà pagato da Expo: circa 17 milioni di euro.
Sono accecati dall'ideologia, intrisi di liberismo fino al midollo. Oppure cercano la guerra? La guerra no, pensano di poterla evitare perché sono stati nominati salvatori dell'Italia dalla più alta carica dello Stato, benedetti da un voto bipartisan inedito, forti della paura istillata nella testa della gente che è svegliata di notte dall'incubo del default. Dunque pensano di poter infrangere ogni tabù senza doverne pagare le conseguenze.
Fatto sta che hanno messo non solo le mani ma anche i piedi nel padre di tutti i tabù, l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Secondo la bozza di decreto sulle liberalizzazioni di cui il manifesto è entrato in possesso, la copertura dell'articolo 18 che garantisce al lavoratore ingiustamente licenziato il reintegro e non una mancia non riguarda più chi è occupato in aziende con oltre 15 dipendenti ma soltanto quelli che lavorano in società con più di 50 dipendenti. Basta che due o più padroncini si fondano ed ecco fatto il miracolo.
La motivazione dà il senso del modello sociale che questo governo ha in mente: mica si tratta di un attacco ai diritti, spiegano nelle motivazioni, è solo un incentivo per ridurre la frammentazione del nostro sistema produttivo. Morale: quel che a noi interessa è la produttività e l'efficienza del sistema produttivo italiano. La soggettività del lavoratore, la sua sicurezza, la sua dignità non sono argomento di interesse e di legiferazione. Non cambia niente, dicono ancora nelle motivazioni con una frase evidenziata da chi ha la coscienza sporca, è solo una razionalizzazione, un incentivo alla crescita. Peccato chi chi ha scritto il "18 bis" non è lo stesso che scrive le motivazioni, e infatti c'è un errore: il secondo parla di aziende che, sommate tra di loro, occupino più di 30, e non 50, dipendenti. Non sarà che, fatta una bozza di decreto, hanno già definito il punto di mediazione possibile con i sindacati?
Se sull'articolo 18 non è passato Berlusconi, travolto da tre milioni di persone al Circo Massimo, perché dovremmo far passare il professore?
Insistere nell'obiettivo della crescita economica è voler perseverare in una direzione ingannevole, perversa e catastrofica. La vera risposta alla crisi della crescita sarebbe quella di fare a meno della crescita: realizzare il benessere economico senza dover sottostare alle logiche incrementali imposte dal mercato finanziario attraverso il debito
Ci mancava "Crescitalia", il nuovo slogan coniato dal professor Monti per la "fase due" del suo governo. Forse persino un nuovo brand destinato a prendere il posto nel mercato della politica di quello consunto di Forza Italia.
Ma crescita di che? Ovviamente del "denominatore" - come familiarmente viene chiamato il Pil da chi si intende di economia debitoria. Visto che il "numeratore", cioè il deficit pubblico annuale (che forma il montante dello stock del "debito sovrano"), nessuno crede che possa realisticamente scendere (solo per interessi lo stato italiano ha pagato lo scorso anno 75 miliardi, cento se va bene il prossimo), è indispensabile credere e far credere che sia possibile accrescere il volume monetario delle merci e dei servizi comprati e venduti in Italia. Non importa sapere quali siano queste merci, di cosa siano fatte e come siano state fabbricate, chi ne faccia uso e per soddisfare quali necessità.
L'importante è che aumentino. In cima alle preoccupazioni dei tecnocrati che governano l'economia (quindi, come sempre, anche la politica, che ne è la fidata ancella) c'è il miraggio del "pareggio di bilancio". Che venga raggiunto producendo cacciabombardieri o grano biologico non fa differenza. La moneta, si sa, è uno strumento tecnico neutro, indifferente all'uso che ne viene fatto. Ai banchieri interessa solo che ne giri di più. Sempre di più. I banchieri non sono né preti, né filosofi: non spetta a loro indicare alla gente che uso fare dei soldi. Essi sono solo i chierici del magico rito dell'autoaccrescimento del denaro: ne comprano l'uso dai risparmiatori ad un prezzo basso (tassi di interesse) e lo rivendono agli "investitori" (imprenditori, speculatori, enti pubblici... a loro fa lo stesso) ad uno più alto. Punto. Sono il lubrificante del motore dell'economia. Dove ci porti, non gli interessa. Anche i politici amano definirsi "laici" (oltre che moderni e democratici) e non vogliono interferire sulle libere preferenze espresse dai cittadini in veste di consumatori: l'importante è che spendano il più possibile, che lavorino di più per procurarsi il denaro necessario, che diano fondo ai loro risparmi, che si indebitino. Il "consumatore imperfetto" è il cittadino peggiore, colui che fa andare a rotoli l'economia e che mette a rischio la coesione e anche l'unità del Paese. Ma in questo ragionamento - che ci martella come un mantra dalla mattina alla sera, ogni santo giorno - ci sono varie incongruenze. Ne indico cinque.
1) Per comprare e vendere di più serve produrre di più. In un'economia globalizzata e liberalizzata la concorrenza tra imprese e aree economiche è selvaggia. Vince chi fa prezzi più bassi. Uno sterminato esercito di riserva (mobilitato da capitali occidentali tramite joint venture e delocalizzazioni ed organizzato da governi non sempre propriamente democratici) preme sui cancelli delle officine del mondo in Asia, Sud America, ma anche in Turchia, Nigeria, Sud Africa ecc.. I differenziali salariali con i paesi di più vecchia industrializzazione è incolmabile, almeno da qui a dieci, vent'anni.
2) Ma sappiamo che il costo del lavoro è solo una parte (la più piccola nei prodotti più evoluti) del costo delle merci. Un modo per vincere la concorrenza sul versante della produttività sarebbe quindi quello di posizionare il sistema delle imprese italiane nella parte alta della divisione internazionale del lavoro, ovvero inventare prodotti e sistemi produttivi, materiali e applicazioni tecnologiche sempre nuovi. Facile a dirsi ma sarebbero necessari enormi investimenti in ricerca, proibitivi per le piccole e medie imprese ed anche per stati periferici come il nostro. La capacità di produrre ed applicare brevetti è concentrata in poche decine compagnie hi-tech e bio-tec statunitensi, tedesche, giapponesi. Ci stanno brevettando anche il broccolo!
3) Comunque, anche lì dove cresce l'innovazione (vedi gli Stati Uniti) scendono i salari e l'occupazione. La quota del reddito nazionale degli Stati uniti che va al lavoro (secondo il Financial Times) è stata lo scorso anno la più bassa dal dopoguerra (58%) rispetto alla quota andata ai profitti (37%), massimo storico. Non mancano al lavoro solo i denari sottratti dall'avidità dei ricchi e dalla criminalità finanziaria. È proprio la tecnologia ad essere finalizzata a "risparmiare" lavoro.
4) Ma all'Italia non basterebbe nemmeno produrre di più. Per un paese che importa materie prime e semilavorati, per un sistema industriale che trasforma e assembla, bisognerebbe guardare con più attenzione alla bilancia commerciale dei conti con l'estero (549 miliardi di posizione debitoria lo scorso anno): se il prezzo di ciò che importiamo è troppo alto rispetto al valore che l'attività lavorativa nazionale riesce ad aggiungere, c'è il rischio che il gioco non valga la candela. Se per alimentare le nostre imprese adoperiamo troppo petrolio, ferro, rame, fosfati, soia... rischiamo di dover "uscire dai mercati d'esportazione".
5) Un trucco per fare "più fatturato" c'è: il dumping ambientale. Produrre male, "risparmiare" sui costi di smaltimento dei residui tossici, infischiarsene delle polveri sottili inalabili che appestano la Pianura padana, costruire sull'alveo dei fiumi... continuare a fare, insomma, ciò che l'Italia già fa.
Come si vede, insistere nell'obiettivo della crescita economica (cioè del Pil) in questi contesti è voler perseverare in una direzione ingannevole, perversa socialmente ed ambientalmente catastrofica. La vera sfida, la vera risposta alla crisi della crescita sarebbe quella di fare a meno della crescita: realizzare il benessere economico senza dover sottostare alle logiche incrementali imposte dal mercato finanziario attraverso il debito. Il debito asservisce, costringe l'economia a produrre sempre di più per pagare gli interessi a prescindere da qualsiasi considerazione di merito sull'utilità e sulla qualità effettiva dei prodotti immessi nel mercato. Liberarci dalla morsa dell'economia debitoria è quindi una precondizione per uscire dalla crisi. Riformare alla radice il sistema finanziario e monetario partendo dal semplice principio etico che è immorale fare soldi con i soldi.
Poi è necessario riconvertire le basi produttive economiche orientandole non alla competizione globale, ma ai bisogni genuini delle popolazioni. Fare quel che serve con ciò che si ha a disposizione. A questo scopo dovrebbe servire l'ingegno e la scienza. La prima necessità che hanno le comunità in ogni parte del mondo è offrire un lavoro degno a tutte e a tutti. La priorità dell'azione di politica economica di ogni autentica democrazia dovrebbe essere creare opportunità di lavoro. Per contro, il primo, scandaloso spreco su cui i decisori politici dovrebbero impegnarsi è quello di milioni di giovani inoperosi a fronte di necessità sociali di tutti i tipi: cura delle persone, preservazione del territorio, recupero immobiliare e del patrimonio culturale.
Se il mercato non sa riconoscere queste necessità e questi valori, allora è giunto il momento di fare a meno del mercato.
Da quando siamo rinchiusi come morti viventi nella recessione, è soprattutto sulle sciagure passate che riflettiamo, illuminati da economisti e raramente purtroppo da storici. È un rammemorare prezioso, perché delle depressioni di ieri apprendiamo i tempi lunghi, gli errori, gli esiti politici fatali, specie nella prima metà del secolo scorso. Anche sulle grandi riprese tuttavia conviene meditare: sulle rivoluzioni economiche che hanno aumentato e diffuso il benessere. In particolare, vale la pena ripensare la scintilla da cui partì la Rivoluzione industriale del XVIII secolo. È allora infatti che l´Europa comincia a crescere a raggiera, con impeto. Anche se costellata di iniziali fatiche, ingiustizie, ricordiamo quella rivoluzione come un´epoca d´oro, e forse proprio per questo l´evochiamo di rado. Dai tempi di Dante lo sappiamo: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria, e ciò sa ‘l tuo dottore».
Il perché di quella scintilla, i fattori che la resero possibile, il nuovo vocabolario che ne scaturì, concernente in special modo la questione sociale: tutti questi elementi possono aiutarci a capire non solo la genesi di una crescita accelerata, ma a vedere nella crisi odierna una sfida, una trasformazione possibile. Se la ricchezza sta spostandosi dall´ovest all´est del mondo, se l´Occidente paga questo dislocamento con una Grande Contrazione (non solo del prodotto interno, anche di diritti accumulati negli anni del benessere) vuol dire che siamo davanti a un incrocio simile dei sentieri.
Che urge in chi analizza il presente – i politici e anche gli economisti, intrappolati spesso nei loro modelli matematici – una prospettiva più lunga, un´attitudine a alzare l´occhio perché veda l´orizzonte, oltre che il proprio naso. La memoria storica e delle passioni umane sarà lievito di tanta impresa.
Chi voglia avventurarsi su questo sentiero apprenderà molte cose dall´ultimo libro di Deirdre McCloskey, storica ed economista all´Università dell´Illinois di Chicago (Bourgeois Dignity: Why Economics Can´t Explain the Modern World(, 2011). Come dice il titolo, la Rivoluzione Industriale – il Grande Fatto, lo chiama l´autrice – non è dovuta a fattori solo economici: le garanzie date ai diritti di proprietà, la scienza in espansione, la drastica riduzione dei costi dei trasporti, utile al commercio. I fattori tecnici sono cruciali, ma la scintilla decisiva non fu tecnica: fu una conversione di atteggiamenti verso le passioni della borghesia, e di due classi in prima linea, i commercianti e gli industriali delle manifatture. Fu perché venne loro data una dignità sociale mai posseduta, che la produzione industriale ricevette quella formidabile spinta. La rivoluzione francese aveva fatto della borghesia un protagonista politico, non ancora morale.
La ricchezza non era più un imbarazzo per il commerciante e l´industriale – l´Olanda del ´600 fu precursore, basta vedere i dipinti del suo Secolo d´oro – e conquistarsela con le proprie mani cessò di essere un´attività non onorata. La rivoluzione della dignità borghese comincia in Nord Europa (McCloskey parla di «rendimento della dignità», dignity return), e quest´onore reso a manifatturieri e bottegai spinse a produrre e scommettere sul futuro. Se parliamo di rivoluzione, è perché in concomitanza declina – fino a svanire – il rendimento economico di classi non borghesi (le corporazioni di allora) che fin qui erano le sole a essere nobilitate moralmente: i guerrieri, gli aristocratici che vivevano di rendita, il clero.
Il problema, oggi, è sapere quali siano le classi, le attività, le passioni che devono ottenere dignità, affinché un nuovo Grande Fatto possa non solo prodursi ma radicarsi, contando sugli espedienti tecnici ma anche (come faceva Adam Smith) sullo studio delle passioni morali. Porsi questa domanda significa non solo dare spazio e voce a persone e occupazioni non sufficientemente onorate, ma decidere quale crescita vogliamo, diversa da quella iniziata con la Rivoluzione Industriale.
All´Europa, conviene investire nel suo nuovo e nel suo futuro, non in industrie migranti verso Asia o Sud America. L´industria dell´auto probabilmente tramonterà, da noi. Si parla in proposito di crescita sostenibile, ma questo sostenibile va raccontato, spiegato: se «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni» (Rapporto Brundtland, 1987, Commissione Mondiale sull´Ambiente e lo Sviluppo) l´Unione deve scegliere produzioni che domani saranno d´avanguardia: energie alternative, trasporti cittadini comuni più che individuali, conoscenza, e in genere quello che viene detto «capitale umano» e più semplicemente possiamo chiamare persona umana. Deve investire prioritariamente su istruzione, ricerca, cultura, convivialità cittadina.
Per una svolta così importante, gli Stati europei non bastano: sono i superstiti stanchi della vecchia rivoluzione. Troppo enorme è lo sforzo che stanno facendo per mettere a posto i propri conti, e neanche sanno bene se servirà. Il nuovo Grande Fatto, solo l´Unione può generarlo, e per questo il dogma tedesco che predilige la «casa (nazionale) in ordine» ha un respiro così corto. Ma per riuscire, l´Europa va rivoluzionata. Per investire nel nuovo ha bisogno di poter spendere, dunque di un bilancio più forte. Per contare deve saper decidere senza che il liberum veto di Stati fatiscenti la blocchi.
Quali sono oggi le persone e le classi cui va restituita dignità, e una cittadinanza vera? Gli immigrati, senza i quali finanziare il Welfare è impossibile. I precari, che non riescono a mettere a frutto l´istruzione ricevuta e tribolano come apolidi in patria. I professori e ricercatori, che erano una classe nobile nell´800 (non dimentichiamo che in Francia, dopo la scuola obbligatoria e la separazione Stato-Chiesa, Charles Péguy li chiamò gli ussari neri della Repubblica) e sono oggi poco stimati, vessati, demotivati.
In sostanza, è al futuro che occorre dare dignità, preparandolo ora. Lo stesso dramma dei debiti sovrani muta di natura, in quest´ottica. In un saggio uscito sul suo blog, un giovane studioso di bolle finanziarie dell´università di Michigan, Noah Smith, ragiona così: il debito di uno Stato, di per sé non malvagio, lo diventa se lo scarichiamo sulle generazioni future per poter consumare adesso quel che desideriamo (http://noahpinionblog.blogspot.com). Quel che Smith propone è di grande interesse: «Nel mondo reale (non nei modelli matematici) la questione essenziale non è il debito, ma la scelta fra due ordini temporali ((intertemporal choice(). Importante non è quanto debito accumuliamo, ma se vogliamo spostare il consumo dal futuro al presente, anziché (come dovremmo, potremmo) dal presente al futuro».
Tutto dipende da come spendono i governi, e dagli investimenti che possibilmente insieme, in Europa, privilegeranno: spenderanno per consumare più oggi, o più domani? Lasciare che i consumi si spostino dal futuro al presente (dunque pesare sulle generazioni a venire) significa ridurre gli investimenti e consumare oggi. È il percorso contrario che va imboccato: investendo sulle produzioni utili nel futuro, consumabili in modi nuovi da figli e nipoti.
Anche questa è rivoluzione della dignità. È onorare chi viene, e non ha ancora voce né rappresentanza. È meno remunerativo nell´immediato, non porta voti ai partiti che vivono solo per il breve termine (cioè per i mercati) e ignorano il nuovo spazio pubblico che è l´Europa; ma nel lungo periodo apre speranze. È giudicare quello che abbiamo e facciamo – terra, clima, politica – alla luce delle parole di Alce Nero, il capo Sioux: "La terra non l´ereditiamo dai nostri padri, ma l´abbiamo in prestito dai nostri figli".
Come nel film. Quando Roberto Benigni e Massimo Troisi aprirono il portone di casa e si ritrovarono nel Medioevo. Ecco, la famosa pellicola, potrebbe essere stata girata qui, a Borgo Vione, che riprende la sua storia di oltre mille anni dopo un periodo di abbandono. Un agiato rifugio scelto da chi vuole cambiare vita nel nome della sicurezza e del comfort. A 15 chilometri da Milano. L'ultimo nato della sempre più numerosa famiglia delle gated community. Centoquarantasei appartamenti chiusi da cancelli, a 500 metri da Milano 3. Vigilanza, telecamere sul muro di cinta e sensori elettronici antintrusione.
Borgo Vione, che fa parte del gruppo Vedani, è stato inaugurato la scorsa settimana, con la consegna delle chiavi, a medici, avvocati, manager. Età compresa tra i 35 e i 50 anni, tutti con famiglia, quasi tutti con bambini. I prezzi? Da 3.800 euro al metro quadro per ville che vanno dagli 80 ai 300 metri quadrati. E poi le spese condominiali: vigilantes, giardinieri, custodi. «Ma Vione — come sottolinea Stefano Fierro, responsabile alle vendite — è stato ristrutturato con la tutela della Soprintendenza ai beni culturali».
«Quello della sicurezza — spiega l'architetto urbanista Paolo Caputo — è un sentimento diffuso a tutti i livelli. Dalle case popolari in su, fino ad arrivare a palazzine con sistemi di sicurezza tra i più sofisticati e portineria 24 ore su 24. Come da modello newyorkese. In città, pur nella sicurezza, c'è un senso di non esclusività nell'incontro di persone e di eventi poco simpatici. Fuori porta, invece, la casa è intesa come club house all'interno della quale ci trovi piscina, palestra, tutto. Quella delle gated community, poi, si è aggiunta al marketing e incrocia queste aspettative».
Come il Borgo Viscontina, a Vigevano. Altra community con l'edilizia progettata in luogo sicuro. Sessanta loft singoli per ville di prestigio e 16 appartamenti in villa, inseriti in un parco nel centro del residence. Il motto? «Ritrovare il piacere antico di incontrarsi con gente conosciuta in un borgo a dimensione d'uomo».
In modo diverso, ma con la stessa filosofia, è City Life, il progetto di riqualificazione del quartiere della Fiera, nel polo di Rho-Pero, che ha tenuto conto della qualità della vita degli abitanti, con la più grande area pedonale di Milano, dove la circolazione di auto e i parcheggi sono esclusivamente ai piani interrati. Con un parco di 60 mila metri quadrati.
«Le gated community — spiega la sociologa Francesca Zajczyk — sono un fenomeno Usa. Chi vi abita ricerca sicurezza, ma vuole anche riconoscersi con i pari grado, in una sorta di individualismo collettivo. È in pratica un escludersi dalla vita collettiva urbana. Spesso la motivazione di sicurezza è solo un alibi. Gated community vuole dire stare dentro a una comunità chiusa verso l'esterno. Gli adulti, comunque, per motivi di lavoro o d'altro, incontreranno momenti di aggregazione all'esterno. Per i più piccoli, invece, potrebbe essere più difficile e molto preoccupante».
Una piccola premessa: non è affatto divertente dover scriverle, queste note agli articoli dei giornali, specie quando servono a solo a ribadire cose già dette e ridette, segno che purtroppo si è parlato per niente. Innanzitutto, il tema della gated community in Italia per ora praticamente non esiste, oppure, in alternativa, la gated community così come se ne parla esiste da decenni (il Villaggio Brugherio è degli anni ’60, Milano San Felice quasi contemporanea ne ha tutta la struttura, ecc.). Sul caso specifico di Cascina Vione ci si è già soffermati anche su queste pagine: è una emergenza di carattere culturale, anche piuttosto estrema, ma se si fa la tara del linguaggio fascistoide della promozione immobiliare, gli aspetti fisico-spaziali in realtà non vanno molto oltre un portone chiuso.
È certo però che se gli approcci continuano ad essere così generici, a mescolare a minestrone intenzioni e cose diversissime, singoli edifici, quartieri, complessi, localizzazioni urbane e suburbane, non si va da nessuna parte, o meglio si lascia la gated community magari avanzare strisciante, all’italiana, tutti pronti a dire fra una decina d’anni: “ma noi non potevamo sapere” (f.b.)
Questa telenovela della sponsorizzazione del restauro del Colosseo contiene parecchi passaggi indubbiamente opachi. Intanto non è mai stata pubblicata la convenzione fra Ministero e sponsor Della Valle. Quando la Uil-Bac denunciò, il 4 aprile, alcune ombre, l’allora sottosegretario Giro e l’allora segretario generale nonché commissario all’archeologia romana Roberto Cecchi, oggi sottosegretario, giurarono che avrebbero reso noto quel testo fondamentale entro quindici giorni. Chi l’ha visto? Conosciamo soltanto un testo reso pubblico dalla Uil-Bac e in esso si dice che lo sponsor, in cambio della messa a disposizione di 25 milioni di euro in quindici anni, potrà stampigliare il marchio Tod’s sui biglietti d’ingresso, oggi 5 milioni l’anno, domani di più, per un totale finale di 80-90 milioni, comprati da cittadini di tutto il mondo. E sui tendoni di 2,40 metri che copriranno (per anni) le grandi arcate in restauro, ecc.
Sempre da fonti non ufficiali – dal Codacons che come Uil-Bac ha fatto ricorso – apprendiamo che l’Antitrust distingue in modo molto chiaro fra l’Avviso (cioè il Bando) e l’Accordo intervenuto (cioè la Convenzione, ignota ai più). In base al primo, lo sponsor, oltre che metterci gli euro, doveva caricarsi del completamento dell’attività di progettazione e direzione dei lavori, del coordinamento della sicurezza, dell’appalto a terzi o dell’esecuzione diretta dei lavori. Con l’Accordo, invece, tutto “si risolve nella semplice messa a disposizione di una somma di denaro”, ma, oh sorpresa!, esso “prevede una durata del periodo di sfruttamento dei diritti ben superiore ai limiti introdotti dall’Avviso, pari a due anni oltre il termine della conclusione dei lavori in favore di Tod’s e a 15 anni in favore dell’Associazione” Amici del Colosseo “ai sensi dell’art. 4 dell’Accordo”. Siamo all’abbuffata dei ritorni pubblicitari rispetto agli impegni, soltanto finanziari, nel restauro.
Inoltre – altro rilievo dell’Antitrust – il MiBAC, andata deserta la gara (molto impegnativa) indetta col Bando, “all’indomani della gara” è ricorso alla trattativa diretta “interpellando un numero di soggetti estremamente limitato, senza aver dato adeguata pubblicità al fatto che gli oneri posti a carico dell’eventuale sponsor erano stati sostanzialmente ridimensionati” al solo finanziamento. Chiaro come il sole.
Non so cosa ne dirà il Tar, ma credo che la Corte dei Conti dovrebbe far luce su questo punto nevralgico. L’”Unità” fu uno dei pochissimi giornali a sollevare perplessità in merito l’11 luglio scorso parlando di “convenzione genuflessa”. In generale fu tutto un’“exultate, jubilate”. E adesso si chiede in modo perentorio: ma, allora, volete bloccare i restauri dell’Anfiteatro Flavio che va in pezzi? Poiché il “marchio Colosseo” vale molto di più di 25 milioni di euro in quindici anni e il monumento non sta propriamente crollando, lo Stato deve darsi regole più chiare e comportamenti meno improvvisati. Tutto cioè deve avvenire nel massimo di limpidezza, anche perché, non agendo così, si creano (stiamo parlando di un vero “totem”) precedenti rischiosi. Diego Della Valle fu onesto nella conferenza-stampa: “Non siamo qui per fare beneficenza”. Subito dopo altri gridarono al mecenatismo. Non scherziamo: mecenate è chi dona denari per la cultura senza chiedere nulla in cambio, neppure di essere citato. Come mister Packard ad Ercolano. In fondo in fondo, se l’attuale biglietto d’ingresso fosse stato aumentato di 30 cent con l’indicazione “pro-restauro”, in quindici anni si sarebbero incassati i 25 milioni della sponsorizzazione e forse anche di più. Senza ambiguità, né opacità di sorta.
L'articolo di eddyburg del 2010
È necessaria una grande battaglia di civiltà contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali. E per dire al governo «tecnico» che l'acqua non si tocca. Un grande appuntamento a Napoli il 28 gennaio, con amministrazioni locali e movimenti
Un governo "politico" in agosto ha violato la Costituzione reintroducendo, in contrasto con l'esito referendario del 12 e 13 giugno 2011, meccanismi concorrenziali e logiche di mercato per l'affidamento dei servizi pubblici locali (ad eccezione dei servizi idrici), determinando un preoccupante scollamento tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa. Un governo "tecnico", nella cosiddetta fase due della sua azione politica, vuole accelerare tale processo, con l'obiettivo di reintrodurre privatizzazioni forzate anche nel settore all'acqua.
È bene allora ricordare che l'art. 4 d.l. n. 138/2011, convertito con la L. n. 148/2011 riproduce l'abrogato art. 23 bis del Decreto Ronchi, che trovava applicazione per tutti i servizi pubblici locali (spl), prevalendo sulle discipline di settore con esso incompatibili, salvo quanto previsto in materia di distribuzione di gas naturale e di energia elettrica, gestione delle farmacie comunali, trasporto ferroviario regionale. Attraverso procedure competitive ad evidenza pubblica, da svolgersi nel rispetto della relativa normativa comunitaria, gli spl potevano essere affidati ad imprenditori o a società in qualunque forma costituite oppure a società a partecipazione mista pubblica e privata (mediante il ricorso alla gara cosiddetta a doppio oggetto), con l'attribuzione al socio privato di una partecipazione non inferiore al 40%. L'affidamento in house veniva ammesso come deroga al regime ordinario, a patto che fossero presenti «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato» e che si rispettasse la procedura indicata (svolgimento di un'analisi del mercato per motivare la scelta dell'in house, consultazione dell'Agcm). In ultimo, la norma abrogata prevedeva un regime transitorio per gli affidamenti già in essere all'entrata in vigore della disciplina, fissandone la scadenza ed una data certa per la messa a gara, a seconda del tipo di affidamento e della natura dell'ente gestore. La norma trovava applicazione per tutti i servizi pubblici di rilevanza economica, come del resto era stato riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 24 del 2011, la quale, proprio in forza dell'applicazione estesa a tutti i servizi, aveva ritenuto il primo quesito rispettoso del requisito di omogeneità, richiesto ai fini dell'ammissibilità dalla giurisprudenza della Consulta.
L'abrogazione referendaria dell'art. 23 bis, come indicato dalla stessa Corte Costituzionale, non determinava né la reviviscenza dell'art. 113 T.u.e.l. né tanto meno creava una lacuna normativa, giacché la disciplina comunitaria poteva infatti trovare diretta applicazione nel nostro ordinamento, anche in assenza di una intervento nazionale di adeguamento.
Tale cornice giuridica ha avuto una assai breve vigenza: l'articolo 4 è stato infatti introdotto dal legislatore solo due mesi dopo l'avvenuta abrogazione dell'art. 23 bis, ignorando di fatto la volontà referendaria. La consultazione di giugno avrebbe reso prioritaria una discussione profonda in materia di spl, al fine di intervenire in maniera razionale e sistematica in un settore da sempre oggetto di continui ritocchi normativi. Ciò tuttavia non è avvenuto: il decreto legge n. 138/3011 è stato votato in una situazione di asserita emergenza, per rispondere al mercato.
Il risultato, per quel che concerne i servizi pubblici locali, è stato - come si è detto - la riproposizione della norma abrogata solo due mesi prima, con una scelta che ha definitivamente segnato l'incapacità di una classe politica di saper cogliere le novità politiche ed istituzionali generate dal processo referendario. Ancora una volta, il legislatore ha posto le basi per un processo di dismissione, segnato da uno sbilanciamento dell'assetto delle gestioni a favore del privato, contribuendo alla svalutazione degli stessi assets che saranno messi a gara, essendo indiscutibile che una contestuale immissione sul mercato di numerosi beni e servizi è idonea a determinare il crollo del loro prezzo. In questo modo, il legislatore ha anche ignorato la maggiore autonomia che il diritto comunitario assicura agli enti locali in materia di definizione delle procedure di affidamento.
Attualmente la situazione è la seguente: l'art. 4 d.l. 138/2011 disciplina la gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ad eccezione del servizio idrico e dei settori già esclusi dal Decreto Ronchi, «liberalizzando tutte le attività economiche e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad un'analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità». L'affidamento dei servizi avviene «in favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità» (comma 8); inoltre, per quel che concerne gli affidamenti a società miste, al partner privato selezionato con gara a doppio oggetto dovrà detenere «una partecipazione non inferiore al 40 per cento» (comma 12). L'affidamento in house, possibile ma solo in via derogatoria rispetto al regime ordinario, è ammesso «a favore di società a capitale interamente pubblico che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento europeo per la gestione cosiddetta in house», a patto che «il valore economico del servizio oggetto dell'affidamento sia pari o inferiore alla somma complessiva di 900.000 euro annui». Infine, è definito un regime transitorio per gli affidamenti già in essere all'entrata in vigore della nuova disciplina, determinandone la scadenza e la relativa messa a gara (comma 32, lett. a, b, c, d). Se all'esistenza del regime transitorio e del meccanismo delle gare a data certa si aggiunge da una parte il "premio" che i Comuni riceveranno una volta effettuate le dismissioni (l'art. 5 prevede infatti l'assegnazione di una somma non sottoposta ai vincoli di spesa propri del patto di stabilità), dall'altra la sanzione del commissariamento per gli enti che invece risulteranno inadempienti alla data del 31 marzo 2012, non è certamente infondato parlare di una violazione dei principi comunitari e costituzionali dell'autonomia decisionale dell'ente locale.
Occorre reagire, e subito, a questa situazione di illegalità diffusa, di attentato alla Costituzione e di vulnus alla democrazia partecipativa; occorre reagire agli ulteriori e attuali progetti politici dell'attuale governo "tecnico" (fase 2) che intendono estendere gli effetti di tali provvedimenti anche all'acqua. La reazione deve partire non "soltanto" dal Forum dei movimenti per l'acqua pubblica e dai ventisette milioni di cittadini che hanno votato contro le privatizzazioni "forzate", ma anche da parte di tutte quelle amministrazioni locali che rivendicano il rispetto della Costituzione e della loro dignità ed autonomia decisionale. Democrazia partecipativa e democrazia locale, in una dimensione nazionale, devono unirsi in una grande battaglia di civiltà, una grande battaglia per i diritti.
Una prima e importante occasione per discutere di questi temi sarà il 28 gennaio a Napoli, giorno in cui de Magistris ha invitato, nell'ambito del I forum dei comuni per i beni comuni, le amministrazioni e i movimenti a discutere di tali temi e a produrre un documento unitario.