Il testo riproduce la relazione dell’autore al convegno “Piano strutturale comunale, demanio militare e parco Pertite”, organizzato da Italia Nostra, sezione di Piacenza, 28 gennaio 2012.
Non credo che sia azzardato affermare che il motore certo non unico, ma forse il più efficiente e infine determinante, di questo piano strutturale in gestazione qui a Piacenza sia la nuova e imponente disponibilità di edifici ed aree, dentro e fuori l’insediamento urbano storico, che l’Amministrazione militare ha inteso contestualmente dismettere e avviare alla valorizzazione immobiliare, perché sono esaurite le specifiche destinazioni funzionali o perché si pone l’esigenza di trasferirle per ragioni di ammodernamento degli impianti (“riallocazione delle funzioni”).
E dunque si tratta di determinare le diverse funzioni urbane di quel vasto patrimonio dismesso e altrimenti disponibile, attraverso l’intesa tra amministrazione della difesa e amministrazione comunale secondo lo schema prefigurato nella Legge Finanziaria 2010 proprio per “valorizzazione” e “alienazione” degli “immobili militari”.
Un circolo vizioso in realtà, perché è intenzionalmente rimesso alla concertazione della scelta urbanistica il compito di massimizzare il valore immobiliare e in linea di principio l’esercizio della potestà urbanistica non è suscettibile di entrare in negoziazione con la proprietà fondiaria che pure – se siano “immobili militari”, l’amministrazione della difesa - ha un mandato di legge per la propria valorizzazione.
I commi 190 e 191 dell’art.2 della legge finanziaria 2010 (n.191 del 2009) riprendono, infatti, il modello che la legge di stabilizzazione della finanza pubblica (art.58 della legge 6 agosto 2008, n. 133) aveva escogitato per la valorizzazione del patrimonio immobiliare dei regioni ed enti locali e con la medesima disinvolta inversione logica affidano la determinazione della (più remunerativa per certo) destinazione urbanistica all’“accordo di programma di valorizzazione”, raggiunto tra ministero della difesa e comune nel cui ambito gli immobili sono ubicati. E la approvazione del consiglio comunale “costituisce autorizzazione alle varianti allo strumento urbanistico generale”. Con esonero dalla verifica di conformità alla pianificazione sovraordinata di provincia e regione se la variante non comporti variazioni volumetriche superiori al 30 per cento dei volumi esistenti (così ampiamente superato il tetto di quell’esonero che la legge di stabilizzazione della finanza pubblica aveva invece contenuto nel 10 per cento per la valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni ed enti locali). Insomma la valorizzazione immobiliare consapevolmente consumata contro le buone ragioni dell’urbanistica.
Ma forse la disposizione più sorprendente sta nel periodo che chiude il consecutivo comma 192 della Finanziaria 2010 perché “ai comuni con i quali sono stati sottoscritti gli accordi di programma […] è riconosciuta una quota non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del ricavato derivante dalla alienazione degli immobili valorizzati”. Una vera e propria tangente legalizzata, verrebbe da dire, nella accezione deteriore invalsa a bollare una illecita prassi non raramente constatata nella gestione della pubblica amministrazione, certo qui riconosciuta nell’interesse patrimoniale della Amministrazione comunale fatta diretta partecipe della valorizzazione fondiaria, ma si tratta a ben vedere della scoperta remunerazione, del prezzo, della conseguita destinazione urbanistica come strumento di valorizzazione immobiliare, un incentivo cinicamente speso (in tempi di finanza locale in affanno) dal legislatore nazionale contro le ragioni, lo abbiamo detto, della buona urbanistica.
La spendita di un simile (complesso e per alcuni versi perverso) dispositivo istituzionale di gestione amministrativa incontra, ci domandiamo, resistenza, e quale, nel sistema dei principi e delle regole che governano i fenomeni urbani e il patrimonio storico e artistico? Specie quando, come certamente qui nel prezioso insediamento di Piacenza, quel dispositivo si deve misurare con i riconosciuti valori del patrimonio urbano storico e con diffuse emergenze architettoniche di straordinaria qualità? Esistono tutele di insuperabile resistenza, che esigono cioè rispetto?
Italia Nostra crede che il sistema offra efficaci strumenti di resistenza affidati non soltanto alla responsabilità delle istituzioni statali della tutela del patrimonio storico e artistico – la soprintendenza – ma alla stessa amministrazione comunale che nell’autonomo esercizio della potestà urbanistica ha il compito in proprio di salvaguardia del patrimonio urbano storico ed è tenuta ad osservare le regole che la Regione Emilia Romagna nella sua Legge Urbanistica ha dettato per il governo del “sistema insediativo storico” e dei “centri storici”.
La stessa legge finanziaria 2010 nel comma 191 del suo art.2, completando il quadro degli adempimenti previsti nel procedimento di valorizzazione degli immobili militari, riconosce infine il ruolo della istituzione statale di tutela se gli accordi di programma di valorizzazione comprendono beni assoggettati alla disciplina del Codice dei beni culturali e del paesaggio e dispone perciò che sia “acquisito il parere della competente soprintendenza del ministero per i beni e le attività culturali, che si esprime entro trenta giorni”. Disposizione speciale che deroga al modello generale della conferenza di servizi (secondo la legge 241 del 1990, via via aggiornata), ma espressamente richiama la disciplina del “Codice” con la pienezza delle attribuzioni di tutela in ordine al patrimonio statale di interesse culturale, come in quel testo normativo regolate e dunque impropria deve ritenersi la espressione di letterale significato limitativo “parere”, mentre per certo è meramente ordinativo il breve termine assegnato al riguardo, escluso l’effetto di silenzio assenso inammissibile in tema di esercizio delle funzioni di tutela dei beni culturali. Il ruolo delle istituzioni della tutela statale non incontra dunque alcuna limitazione a fronte degli accordi di programma di valorizzazione degli immobili militari e deve essere esercitato nel rispetto degli inderogabili principi e regole dettati dal “codice”.
Ricordiamo che gli “immobili militari” “la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni”, come beni di appartenenza pubblica, sono per ciò stesso “assoggettati alla disciplina prevista dal codice dei beni culturali e del paesaggio” e soltanto l’esito negativo del previsto procedimento di verifica vale ad escludere per essi l’interesse culturale altrimenti presunto per legge (art. 12 del “codice”). Aggiungiamo che se per i beni di appartenenza privata la tutela presuppone l’accertamento di un interesse culturale particolarmente importante, i beni pubblici sono fatti oggetti di tutela pur se presentino un mero non qualificato interesse storico o artistico; quando appartengono allo stato ne costituiscono il demanio culturale e la alienabilità è soggetta a stringenti condizioni verificate dall’autorizzazione del ministero (art.55 del “codice”), perché l’alienazione deve assicurare la tutela e la valorizzazione dei beni, non può pregiudicarne il pubblico godimento e il provvedimento di autorizzazione indica le destinazioni compatibili con il carattere storico e artistico e tali da non recare danno alla loro conservazione. E il ministero – il direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici – potrà anzi dovrà negare l’autorizzazione alla alienazione se i beni immobili del demanio dello stato “rivestano un interesse particolarmente importante […] quali testimonianze dell’identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose” (artt.10, comma3, lettera d) e 54, comma 2, lettera d), del “codice”).
Fu Italia Nostra che partecipava alla commissione ministeriale costituita per stendere il regolamento delle ipotesi di ammessa alienazione dei beni del demanio culturale a proporre il riconoscimento di questa speciale categoria di beni, come si disse, identitari, che hanno cioè la proprietà di rappresentare materialmente l’ente in una sua essenziale ed esclusiva funzione e da un simile rapporto ricavano l’interesse che andrebbe irrimediabilmente perduto con il trasferimento ai privati. E al riguardo fu fatta le esemplificazione dei forti militari ottocenteschi costruiti dallo stato unitario per difendere Roma da un improbabile assalto delle armi francesi e le altre architettura funzionali militari, gli edifici ex conventuali acquisiti dalle così dette leggi eversive allo stato unitario che vi insediò le sue moderne principali funzioni, anche militari, gli edifici delle storiche residenze municipali, eccetera. Il regolamento (DPR. 283/2000, art.2, comma 1, lettera d) accolse il suggerimento (dichiarando inalienabili i “beni che documentano l’identità e la storia delle istituzioni pubbliche, collettive, ecclesiastiche) e il “codice” vi si adeguò con una disposizione che assimila questi beni a quelli che “rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere” nel comune requisito appunto dell’”interesse particolarmente importante” (forse non irragionevole in sé, ma tale da aprire una incontrollabile discrezione, sempre esercitata in pratica per escludere la sussistenza di quell’elevato grado di interesse) e la stesa disposizione ne esclude l’alienabilità se non ad altro ente pubblico territoriale e dunque con trasferimento da un demanio culturale all’altro.
Questo in sintesi il quadro delle tutele secondo il codice dei beni culturali e del paesaggio rispetto alle quali non può non essere valutata ogni proposta di cosiddetta valorizzazione del patrimonio immobiliare militare, diffuso e profondamente integrato, qui a Piacenza, come forse in nessuna altra città del paese, nel tessuto dell’insediamento storico, anche oltre il confine della città murata, così da costituire un sistema unitario con esso solidale, una vera e propria struttura urbana portante.
E come parte integrante del centro storico il patrimonio immobiliare militare entra nella considerazione di salvaguardia dell’urbanistica che ha come suo compito essenziale di dettare “i vincoli da osservare nelle zone di carattere storico, ambientale, paesistico”(così la modifica del 1968 alla legge urbanistica del 1942 ha definito il contenuto del “piano generale”), secondo le specifiche regole dettate dalla vigente legge urbanistica della Regione Emilia Romagna che nell’allegato sui “contenuti della pianificazione” si prende cura del sistema insediativo storico (Capo A-II) e specificamente dei centri storici (art.A-7), ponendo motivati limiti alle trasformazioni delle strutture fisiche e delle radicate destinazioni d’uso. Leggiamo la definizione del primo comma: “Costituiscono i centri storici i tessuti urbani di antica formazione che hanno mantenuto la riconoscibilità della loro struttura insediativa e della stratificazione dei processi della loro formazione. Essi sono costituiti da patrimonio edilizio, rete viaria, spazi inedificati e altri manufatti storici. Sono equiparati ai centri storici gli agglomerati e nuclei non urbani di rilevante interesse storico, nonché le aree che ne costituiscono l’integrazione storico – ambientale e paesaggistica” (vedremo il Piano Caricatore sta proprio in questo alone). E converrà continuare la lettura delle essenziali prescrizioni di conservazione dette nel comma 3 che pongono motivati limiti alle trasformazioni delle strutture fisiche e delle radicate destinazioni d’uso: ”Nei centri storici: a) è vietato modificare i caratteri che connotano la trama viaria ed edilizia, nonché i manufatti anche isolati che costituiscono testimonianza storica e culturale; b)sono escluse rilevanti modificazioni alle destinazioni d’uso in atto, in particolare di quelle residenziali,artigianali e di commercio di vicinato; c) non è ammesso l’aumento delle volumetrie preesistenti e non possono essere rese edificabili le aree e gli spazi rimasti liberi perché destinati ad usi urbani o collettivi, nonché quelli di pertinenza dei complessi insediativi storici”.
Prescrizioni come si legge assai rigorose ispirate alla considerazione del centro storico come un unitario monumento urbano, che gli “Indirizzi generali per la predisposizione del documento preliminare del Piano Strutturale Comunale”, enunciati dalla Unità di Progetto PSC del Comune di Piacenza nel 2009, fanno esplicitamente propria là dove per “la città murata” pongono quale primo degli “obbiettivi specifici” “tutela e valorizzazione del centro storico inteso come unico monumento”.
Che a questo impegno programmatico si siano poi attenute le “Alcune proposte progettuali” avanzate dall’Assessorato Pianificazione Territoriale come “Ipotesi di lavoro” per Il Comparto Pontieri e per l’area dell’Arsenale – Polo di Mantenimento Pesante v’è più di una ragione per dubitarne.
Ma è vero che l’art.A-7 centri storici dell’allegato (contenuti della pianificazione) alla legge regionale, di cui abbiamo interrotto la lettura, nel comma 4 dà al piano strutturale la facoltà di “prevedere, per motivi di interesse pubblico e in ambiti puntualmente determinati, la possibilità di attuare specifici interventi in deroga ai principi stabiliti dal comma 3”. Se non si voglia totalmente vanificare la portata prescrittiva di quei rigorosi principi di conservazione (chiamiamoli così), la previsione della deroga va intesa in senso restrittivo, per interventi puntuali e circoscritti (motivate specifiche eccezioni), e non può certo bastare a legittimarli quelle ragioni di generico interesse pubblico che necessariamente presiedono ad ogni scelta urbanistica Mentre in ogni caso non possono essere riconosciuti di interesse pubblico i motivi di mera valorizzazione economica degli immobili militari fatti oggetto della deroga sol per essere convenientemente destinati alla vendita (in funzione del più elevato ricavo a sostegno delle spese della riallocazione delle funzioni e con sia pur minoritaria – tra dieci e venti per cento abbiamo sentito - partecipazione dello stesso comune al profitto). E certo non può dirsi legittima la deroga ai principi introdotta attraverso l’accordo di programma, secondo il modello della legge finanziaria 2010, che sia estesa all’intero complesso di aree ed edifici militari diffusi nel tessuto civile dell’ insediamento storico e ad esso strettamente intrecciati, occupandone una parte di assoluto rilievo anche quantitativo. Una disposizione generale, non la tollerabile eccezione.
Conosciamo le ipotesi di valorizzazione che si sono concretate anche in proposte progettuali per il Comparto Pontieri, per l’Area del Polo di Mantenimento Pesante, l’Arsenale e quanto resta del Castello Farnese, il Piano Caricatore, l’Area della Pertite. E proviamo a constatare come operino in quegli ambiti le convergenti tutele del codice dei beni culturali e del paesaggio e della legge regionale urbanistica, dalla cui osservanza non esonera il programma di valorizzazione della Finanziaria 2010 (che esonera invece e in certi limiti, come abbiamo osservato, dall’adeguamento alla pianificazione sovraordinata).
E avviciniamoci intanto all’Area Pertite. Un insediamento di straordinario interesse per la storia militare e dell’industria militare in particolare, un monumento di archeologia industriale che ha tutela di legge per la disciplina del codice dei beni culturali e del paesaggio, del quale è immaginabile soltanto, se non sia mantenuto al demanio dello stato, il trasferimento al demanio comunale per la conversione al parco voluto dai cittadini di Piacenza uniti e impegnati anche in un tenace comitato. Non vogliamo neppure immaginare che soprintendenza e direzione regionale del ministero rimuovano quella tutela di legge attraverso una compiacente verifica negativa dell’interesse culturale.
Consideriamo il Piano Caricatore che è area inedificata cui la speciale funzione ha per certo conferito interesse storico e per altro, attestato sulla linea delle mura farnesiane, del centro storico “costituisce l’integrazione storico ambientale e paesaggistica”, per usare le parole stesse dell’Allegato alla legge regionale (Capo A-2, Sistema insediativo storico; art.A-7, Centri storici) che equipara al centro storico le aree di immediato alone. Dunque anche per il Piano Caricatore vigono i principi che abbiamo detto di conservazione del centro storico dettati della legge regionale e neppure per questa area può valere la deroga (in funzione di una vertiginosa volumetria edilizia) per le ragioni di cui abbiamo poco fa parlato.
Veniamo infine al complesso dell’Arsenale e al Comparto Pontieri il cui indiscusso interesse storico e artistico é dato così dalle preesistenze all’insediamento militare come dai manufatti funzionali a questa più recente destinazione. Certo è che l’interesse culturale comprende così gli edifici come le aree rimaste inedificate circostanti, cioè l’integralità dell’insediamento oggi militare, oggetto della tutela nel suo complessivo assetto storico, mentre sulle aree libere “di pertinenza dei complessi insediativi storici” opera il convergente divieto di edificazione della legge regionale (ne abbiamo qui sopra parlato); per i due comparti si pone il medesimo problema di verificare la eventuale presenza di costruzioni recenti e incongrue nella organizzazione planivolumetrica, in funzione di parziali demolizioni e recupero della spazialità preesistente. E credo che in entrambi i comparti debba essere riconosciuto (e specie nell’Area del Polo di Mantenimento Pesante) quel valore identitario - rappresentativo dell’ente pubblico di appartenenza (lo stato come funzione della difesa) che preclude anche parziali privatizzazioni del demanio culturale statale.
Vogliamo ricordare ancora che gli indirizzi per il piano strutturale comunale pongono “tutela e valorizzazione del centro storico inteso come unico monumento” quale primo specifico obbiettivo perseguito nella “città murata” e perciò non rinunciamo a indicare alla responsabilità della Amministrazione comunale il rispetto dei principi acquisiti dalla cultura della conservazione e del restauro urbano che la legge regionale ha tradotto nelle specifiche norme vincolanti che abbiamo richiamato. Fare il “parco abitato” dentro gli spazi intangibili del Castello Farnese, sotto la protezione del Bastione del Sangallo, tradisce per certo quei principi, come li tradisce il progettato prato per la città nel vuoto creato dall’atterramento degli edifici militari otto-novecenteschi del Comparto Pontieri, perfettamente integrati nella struttura urbana fino a segnarne il bordo sulla linea delle mura. E se davvero quegli edifici militari costituissero, come si dice superfetazioni, un ingombro intollerabile dentro gli spazi verdi che già furono pertinenza dell’insediamento conventuale di San Sisto, non vi sarebbe soluzione alternativa all’integrale ripristino del verde, esclusa ogni nuova diversa costruzione. Che invece, dentro al parco, è prevista con una lunga e massiccia cortina edilizia, al dichiarato fine, da un lato, di isolare sul bordo interno gli edifici esistenti “e di dare visibilità a San Sisto” [possibile con uno schermo edilizio?] e dall’altro “di creare un nuovo affaccio della città storica” [cui è dato dunque verso il percorso delle mura il volto dell’architettura di oggi]. Se questo è il modo di intendere “il centro storico come unico monumento”.
Non vogliamo rinunciare a chiedere che l’Amministrazione comunale nell’esercizio della sua autonomia di governo della città si determini per l’effettiva “tutela e valorizzazione del centro storico come unico monumento”, perché non debba subire il mortificante intervento repressivo della istituzione della tutela statale nel doveroso adempimento degli irrinunciabili compiti di salvaguardia del demanio culturale.
Perché non vogliamo neppure immaginare che si possa consumare tra le amministrazioni dello stato (ministeri della difesa e per i beni e le attività culturali) e l’amministrazione comunale di Piacenza un accordo di programma che alla esigenza di massima valorizzazione economica del patrimonio immobiliare militare sacrifichi la integrità del patrimonio culturale urbano. Un pactum sceleris contro il precetto costituzionale che assegna alla tutela del patrimonio storico e artistico della nazione un ruolo di primarietà non suscettibile di cedimento ad alcun altro interesse anche di rilevanza pubblica (che non sia quello assoluto del rispetto della incolumità e della vita delle persone).
Dare un’unica "casa" alla Città della salute, il grande polo pubblico per la ricerca, prevista inizialmente al Sacco, unendola al Cerba, il maxi polo privato per la ricerca biomedica avanzata che sorgerà nel Parco agricolo Sud, su terreni di Ligresti. È questa la proposta lanciata da Guido Podestà, il presidente della Provincia durante l’inaugurazione del nuovo centro di Radioterapia avanzata, uno dei fiori all’occhiello dell’Istituto europeo di oncologia. Di fronte alla proposta di unire due centri di eccellenza come la Città della salute e il Cerba, il professor Umberto Veronesi ha replicato, con entusiasmo, «ma questo è il mio sogno». E ha spiegato: «Due poli come questi messi insieme farebbero il più potente centro di ricerca e di sviluppo oncologico del mondo. I terreni, i piani, i finanziamenti ci sono. Ma occorre che tutte le istituzioni siano d’accordo. Perché non partiamo?».
Podestà ha annunciato la proposta di fusione dei due centri, partendo dalla considerazione che «due anni e mezzo fa, una delle mie prime firme come presidente della Provincia è stata quella a favore del Cerba di Veronesi. Teoricamente oggi dovremmo annunciare quando lo inaugureremo. E invece no. Le pratiche burocratiche sono troppo lente, dobbiamo cercare di accelerarle per non intralciare l’avanzata della ricerca». Ma mentre il Cerba segna il passo, la Città della salute, che avrebbe unificato al Sacco anche il Besta e l’Istituto dei tumori, sembra più che mai incerta. Ora si parla di un trasferimento del Besta e dell’Istituto dei tumori sui terreni di Porto di Mare. «Speriamo che questa collocazione non finisca nel "porto delle nebbie"», ha incalzato Podestà arrivando così a proporre la fusione dei due mega poli, uno pubblico e l’altro privato, nel Parco agricolo Sud Milano accanto allo Ieo, «un’area già servita, con una localizzazione felice». E a proposito di questa "fusione" Veronesi si è detto favorevole: «Sono stato per vent’anni il direttore dell’Istituto dei tumori e si capisce che vedo volentieri i due poli messi insieme». E ha precisato: «Fino a quando si è parlato del progetto della Città della Salute" al Sacco l’abbiamo rispettosamente appoggiato. Pensavamo a un polo a Nord-ovest con la Città della salute, un polo a Nord-est con il San Raffaele e un polo al Sud, cioè il nostro. Poi il San Raffaele ha avuto problemi, il progetto legato al Sacco pare rischi di dissolversi e, così, noi saremmo pronti a raccogliere qui tutti i frammenti».
Ma sul destino della Città della salute sarà determinante il ruolo del Comune. Il sindaco Giuliano Pisapia, anche lui presente ieri all’Ieo, ha fatto sapere che «tra poche settimane il Piano di governo del territorio sarà esaminato in consiglio comunale, e lì valuteremo le proposte che possiamo fare per un progetto importante, come quello della Città della salute, che servirà Milano e su cui noi puntiamo molto». La discussione sull’unione dei due poli non ha comunque messo in secondo piano l’inaugurazione del nuovo centro di Radioterapia, diretto da Roberto Orecchia, dove verranno curati 4.500 pazienti l’anno. «Qui si applicano terapie mirate e meno invasive per il paziente - ha ricordato Veronesi - negli anni ‘60, quando noi teorizzavamo l’importanza dei "trattamenti minimi efficaci", eravamo considerati degli utopisti. Ma questo centro è la dimostrazione che eravamo nel giusto e la sfida l’abbiamo vinta noi».
Gira, rigira, salta, zang tumb tumb ci risiamo: mortalmente noioso come le cittadelle della moda che volevano i socialisti (del tutto ignorate dagli stilisti) si replica il copione dei presidi della salute, che in nome della Scienza indiscutibile e infallibile hanno il mandato divino di spaparanzarsi ovunque. Chi si oppone è automaticamente nemico del Progresso, dello Sviluppo, magari addirittura dell’Uomo. Unico segnale di speranza pare ancora Pisapia, che a differenza dello sviluppista Penati, a suo tempo più rapido del fulmine nel cambiare le regole del Parco Sud e far posto all’indispensabile Cerba (progettato da Stefano Boeri), dice: aspettate almeno il piano regolatore. Già, perché nessuno ha qualcosa contro la Scienza eccetera, ma contro la vivisezione del territorio in suo nome magari sì (f.b.)
Il presidente della Commissione europea Barroso striglia il governatore Enrico Rossi per i ritardi dei permessi al nuovo negozio del colosso svedese. Ma da Firenze arriva una risposta per le rime
«Non consento a nessuno di denigrare la Toscana. Neanche al presidente Barroso». Il Governatore della Toscana, Enrico Rossi, ha lanciato il suo "non ci sto". E difende le decisioni e i tempi amministrativi per la nuova prossima licenza che Ikea sta per avere nel territorio di Pisa per un nuovo negozio.
Ma cosa ha combinato il presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso per stuzzicare la replica di Rossi?
In un recente intervento ha detto che i tempi dell'insediamento Ikea in Toscana «sono stati negativi» e l'ha portato come cattivo esempio sul rilascio dei permessi per nuovi insediamenti produttivi. Ma Rossi da un lato tiene a dire che Ikea per anni ha insistito per costruire un nuovo negozio nel Comune di Vecchiano, dove non era possibile per problemi di salvaguardia ambientale di una zona prossima al parco di San Rossore-Migliarino-Massaciuccoli.
Dall'altro il presidente toscano spiega che quando Ikea ha cambiato idea e si è trovata la soluzione verso Pisa, la Regione e il Comune hanno dato avvio alla procedura: a febbraio Pisa approverà la variante al piano urbanistico e in primavera sarà aperto il cantiere per la costruzione del nuovo negozio Ikea. «Da febbraio a luglio», ha affermato Rossi «sono i rapidi tempi cinesi che il presidente Barroso sostiene l'Italia dovrebbe cominciare a impegare per far ripartire la crescita delle imprese che vogliono investire nel nostro Paese.
Lo stesso amministratore delegato di Ikea ha riconosciuto la serietà e l'affidabilità del comportamento della Regione Toscana, della città di Pisa e delle istituzioni locali. Potrei inviare al presidente Barroso tante lettere di ringraziamento che riceviamo da imprese che desiderano insediarsi in Toscana e che possono farlo in tempi brevi». Insomma: non si macchia così il buon nome di Pisa e della Toscana. E Rossi insiste: «Come insegna il presidente del Consiglio Mario Monti, l'Europa deve imparare a rispettarci".
Il sindaco di Cagliari Massimo Zedda, quello di Bari Michele Emiliano, quello di Milano Giuliano Pisapia che si è scusato per l'assenza causata dall'inaugurazione dell'anno giudiziario, il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti che ha mandato un testo scritto, il governatore pugliese Nichi Vendola e ovviamente il padrone di casa, Luigi de Magistris, con il suo assessore di punta Alberto Lucarelli. La Rete dei Comuni per i bene comuni inaugura a Napoli una nuova stagione per la sinistra, con inedite alleanze territoriali e un rapporto stretto con i movimenti e le lotte sul lavoro. È l'alternativa «benecomunista» che si è presentata come l'unica opposizione sociale e perfino istituzionale nell'Italia del governo Monti.
AAA. POLITICA CERCASI
«A sinistra ci siamo abituati a dire pochi ma buoni, però poi si vincono le amministrative, poi anche i referendum e allora, come al forum di Napoli 'Comuni per i beni comuni', dobbiamo abituarci a dire buoni e tantissimi». Norma Rangeri apre i lavori dell'appuntamento partenopeo che ieri ha riunito amministrazioni, associazioni, movimenti, cittadini e tutte le realtà del territorio intorno alle possibili declinazioni del benecomunismo. Tocca alla direttrice de il manifesto «perché il nostro giornale dà voce e forma al cambiamento a cominciare dal referendum sull'acqua, su cui abbiamo condotto una battaglia quando erano in pochi a crederci. E poi siamo stati noi a scovare il comma dell'articolo 25, nelle liberalizzazioni di Monti, che avrebbe reso impossibile convertire le Spa in società speciali di diritto pubblico per gestire i servizi idrici», a partire da Abc Napoli - Acqua bene comune. «Ci siamo battuti e abbiamo ottenuto il ritiro della misura».
La sala del teatro Politeama, il più grande di Napoli, è gremita già dalle 11, arrivano anche gli scettici, non si sottraggono al confronto. Nei corridoi i banchetti per le firme per far tornare la Fiom sui luoghi di lavoro ma anche per la petizione popolare per cambiare il Trattato economico europeo. Dalla direttrice del manifesto, due bacchettate: «Come spesso accade, manca una presenza femminile più ampia perché viene disconosciuta l'importanza del contributo delle donne al rinnovamento della politica italiana. Manca l'attenzione all'informazione. I giornali indipendenti, come Liberazione, hanno già cominciato a chiudere, quando resteranno le multinazionali delle news quale sarà la qualità dell'informazione? Anche noi potremmo a breve non esserci più. Vogliamo assistere al funerale o scongiurarlo in nome della stampa Bene comune?».
Appello accolto da Alberto Lucarelli che comincia il suo intervento dalla difesa dei giornali senza padrone ma anche dei No Tav. Un tema, questo, che si rincorre in tutti i tavoli (contemporaneamente, alla stazione i movimenti occupavano in solidarietà i binari dell'alta velocità) perché ragionare di nuove forme di democrazia a partire dai Beni comuni è l'esatto opposto del delirio 'sviluppista' imposto con la forza. «Quando facevo parte della Commissione Rodotà - racconta Lucarelli - provammo a fare un elenco dei beni comuni, oggi non lo farei più perché è una categoria dell'essere e non dell'avere e si può declinare all'infinito». Ridefinizione dei parametri intorno a cui organizzare la democrazia attraverso la partecipazione ma, dice l'assessore, anche «strumenti concreti di azione a partire dal locale; rivendicare il diritto alla disobbedienza verso atti dello stato illegittimi e incostituzionali; un patto federativo tra amministrazioni per un modello pubblico e partecipato nella gestione dei servizi». E ancora: «Ci vogliono laboratori permanenti con capacità deliberativa per uscire dalla morsa della dittatura della delega da un lato e la proprietà privata dall'altro. Utilizziamo il Trattato di Lisbona per portare in Europa la Carta dei Beni comuni, rigettiamo unanimismo e pratichiamo la contaminazione permanente dei diversi».
La sala si svuota rapidamente perché ci sono i tavoli tematici al Maschio Angioino. Quello sull'Ambiente è talmente partecipato che viene spostato a Palazzo San Giacomo, sede del comune. Tra gli iscritti a parlare Marco Sirotti del centro sociale Tpo di Bologna: «Sono qui per capire cosa fanno Lucarelli e de Magistris. Il sindaco è andato all'inaugurazione dell'anno giudiziario, cioè di quella parte di stato che ha arrestato 30 No Tav, incluso mio fratello. Sono qui per capire se ci possono essere dei punti comuni per uscire a sinistra dalla crisi». Sala gremita anche per welfare e lavoro, a calamitare l'attenzione è la Fiom: Francesca Re David racconta cosa è successo alla Iveco, lavoratori dentro e Landini fuori col megafono. Antonio Di Luca ce l'ha con Ichino: «Parla di catena di montaggio lenta. La verità è che una Panda viene prodotta in un minuto e cinque secondi, 56 macchine all'ora, senza pause e senza mensa». L'assessore al Welfare, Sergio D'Angelo, è impegnato in una battaglia per impedire il taglio dei fondi: «Siamo sicuri che convenga eliminare i servizi per i cittadini in difficoltà?». Il patto di stabilità è l'arma per strangolare il benecomunismo. Dal tavolo sull'economia il titolare partenopeo al Bilancio lancia «la disobbedienza civile contro la legge di stabilità a patto che lo facciano tutti i comuni». Ribattono i movimenti: «Tra tutti e nessuno, comincino le aree metropolitane».
A portare il suo contributo sui Beni comuni Emiliano Viccaro del centro sociale romano Astra: «Cambiamo ragione d'essere all'esproprio, le amministrazioni lo usino per edifici pubblici vuoti rispondendo alla necessità della casa». Il gruppo ha riempito del tutto la Sala dei Baroni. L'esperienza del teatro Valle e del Cinema Palazzo è richiamata da Ugo Mattei. E ci sono anche loro. Non erano attesi, ma la democrazia partecipata non prevede limiti.
PAUL GINSBORG
«MONTI È LA VERA DESTRA STORICA»
Tra i relatori seduti al tavolo sui Beni comuni il professor Paul Ginsburg: inglese, insegna Storia dell'Europa contemporanea all'Università di Firenze. «Vedo che in Italia tutti dicono 'com'è sobrio Monti, com'è british'. Ma io sono quello genuino!». La sua relazione sulla democrazia partecipata comincia con un saggio di humour made in Uk, strappando una sonora risata alla sala gremita. Più tardi, una nuova provocazione sul filo dell'ironia: «Chi avrebbe mai pensato che a Napoli potesse succedere una cosa così?»
Sono passati dieci anni dal movimento dei professori, di cui lei faceva parte, sorto contro la scesa in campo di Berlusconi. Come è cambiato l'impegno di quella parte di mondo accademico?
«Eravamo un gruppo eterogeneo, c'erano moderati accanto a persone di sinistra, quel mix - in sé - era una bella cosa. Solo che la maggior parte di noi interpretava l'impegno politico in chiave difensiva, proteggere la democrazia contro l'attacco rappresentato dal signor B. Un gruppo minoritario, in cui c'ero anch'io, avrebbe voluto andare oltre, arricchire la democrazia. Credo che questo ci riconnetta ai professori di Napoli presenti al Forum. È raro trovare in Italia una tale passione civica, competenza e informazione come traspare, ad esempio, nella relazione introduttiva di Alberto Lucarelli».
I professori sono anche al governo...
«Forse Monti è un novello Cavour, sicuramente è il rappresentante della destra storica. I primi atti di governo sono molto lontani dall'equità sociale, ma comunque hanno un'idea molto precisa dell'Italia. Ad esempio la battaglia sulla semplificazione delle procedure burocratiche fatta in questo modo - non alla Brunetta, per intenderci - può portare un vasto consenso, nel paese europeo in cui i cittadini sono afflitti dalla burocrazia più farraginosa. È Monti che ha costruito in poco tempo una vera destra classica».
Il potere di attrazione del premier, il suo profilo di tecnico, può arrivare al punto di far coagulare il centro con i Democrat quando si andrà a votare?
«Non lo so, sono uno storico e non ho la sfera di cristallo, ma mi pare difficile che il Pd possa andare con il Pdl e Casini. Prima o poi capiranno che dovranno entrare in uno schieramento compatto di centrosinistra».
Come si può costruire la democrazia partecipata?
«Sul tema c'è una retorica insopportabile. La democrazia partecipata piace a tutti, tranne a D'Alema. La qualità della prima dipende da come si coinvolge il secondo termine nel processo decisionale. Ma non come fa a Firenze il Matteo Renzi che convoca assemblee dove se ne dicono di tutti i colori e poi il sindaco dice 'è stato molto proficuo' e non succede niente. Non basta votare o coinvolgere la base con meccanismi a scelta casuale e non ripetibile (come per le giurie) o, all'estremo opposto, attraverso assemblee fiume che finiscono alle tre di notte, perché non è socialmente sostenibile. Il mio modello ideale è Porto Alegre: il cittadino ha la sensazione reale di decidere e verificare che le decisioni vengano accolte e non, come per i referendum, cancellate attraverso vie 'misteriose'».
Devono cambiare solo le istituzioni o anche i cittadini?
«La democrazia partecipata presuppone, prima di tutto, un diverso modo di stare tra di noi. Bisogna lavorare su comportamenti e passioni. Rifiutare il neoliberismo nella nostra testa. Praticare passioni radicalmente diverse dalle forme politiche che assomigliano alla guerra. Restiamo a sinistra».
La scomparsa delle sale d'attesa: le stazioni come aeroporti
di Alessandra Mangiarotti
Il caso Venezia è solo l'ultimo in ordine di tempo: la stazione di Santa Lucia è sotto restauro e quando si presenterà con un nuovo volto agli 80 mila passeggeri che ogni giorno lì salgono o scendono da un treno lo farà senza sala d'aspetto. Così è successo a Roma e Milano, dove al posto di un'unica sala sono stati piazzati sedili in tutta la stazione. Così sarà nel giro di uno-due anni a Verona, Firenze, Bologna, Genova. E poi in tutte le tredici «grandi» italiane. Perché la strada è segnata: addio sale d'attesa (in principio ce n'erano addirittura tre: di prima, seconda e terza classe), le stazioni ferroviarie assomiglieranno sempre più agli aeroporti. Con punti ristoro, negozi e poltroncine sparse nelle aree strategiche. Davanti ai tabelloni con gli orari o ai bar dove mentre si beve un caffè ci si potrà connettere alla rete wi-fi o ricaricare il telefonino. Le uniche a resistere saranno, come appunto negli aeroporti, le salette vip delle singole «compagnie», da Trenitalia a Ntv, fino a Deutsche Bahn.
A Venezia le proteste aumentano in modo inversamente proporzionale alle temperature: più fa freddo più salgono i toni della polemica. Perché lì la sala d'aspetto è già stata chiusa per lasciar spazio ai cantieri e i sedili sono stati distribuiti in aree di passaggio non riscaldate. Così che qualcuno, pensando anche al futuro, dalle parole è già passato ai fatti presentando un esposto alla Regione. Mentre i pendolari denunciano ancora una volta la diversità di trattamento tra passeggeri di serie A («i soliti dell'alta velocità) e B («noi comuni viaggiatori»).
In Italia ci sono 5.000 stazioni. Fabio Battaggia è l'ad di Grandi Stazioni — società controllata al 60% da Ferrovie e al 40% da Benetton, Caltagirone, Pirelli e dalla francese Société Nationale des Chemins de Fer — che gestisce le tredici «grandi» e sta portando avanti un progetto di recupero per 400 milioni di euro. «A Venezia — spiega — ci sono disagi perché il 70% della superficie è cantiere. Al termine dei lavori sarà come a Milano dove i posti a sedere (in due isole, davanti ai pannelli con gli orari e sparsi) sono quasi triplicati (da 150 a 400): non un'unica sala d'attesa (troppo a rischio degrado), ma più sedute distribuite nelle aree coperte e in piccole isole con bar e negozi, come alla Union Station di Washington o alla Grand Central di New York. Servizi moderni in stazioni storiche». Nel dettaglio: «Debutteranno poltroncine ergonomiche. E come negli aeroporti si creeranno isole vicino ai servizi dove sarà garantito un collegamento wi-fi».
Per i passeggeri a ridotta mobilità c'è sempre la Sala Blu: «È prevista dalla legge. E ogni operatore avrà la sua Sala club, come negli aeroporti».
Un sistema che non piace a Sonia Zarino, portavoce dei pendolari liguri: «Le ferrovie devono essere di tutti, non possono esserci passeggeri di serie A e B. Impariamo dalla Svizzera». E da architetto aggiunge: «Trasformati in centri commerciali (dove con la crisi si fatica ad affittare spazi) le stazioni stanno diventando un non luogo, non più il biglietto da visita». Concorda Cesare Carbonari, voce dei pendolari piemontesi, che prendendo a modello stazioni Usa e aeroporti va oltre: «L'ingresso va riservato solo ai passeggeri».
La direzione è segnata: «Con la riduzione dei contributi pubblici (tutti usati a far marciare i treni) si cerca di far fruttare ogni metro quadro delle stazioni, veri monumenti il cui restauro è costosissimo», afferma Oliviero Baccelli, vicedirettore del Centro di economia regionale trasporti e del turismo dell'Università Bocconi. «La promozione del modello (globale) c'è ma con due materie da recuperare: la limitazione della pubblicità e la creazione di isole di servizi. Se si vogliono usare la Grand Central o e i grandi aeroporti come modello lo si faccia fino in fondo. Il vero problema è però il destino delle piccole stazioni».
«Gli incontri possibili sostituiti dallo shopping»
Intervista a Gae Aulenti, di Stefano Bucci
Di stazioni trasformate Gae Aulenti, uno dei grandi nomi dell'architettura e del design made in Italy (la progettista della lampada Pipistrello ha appena compiuto 84 anni lo scorso 4 dicembre), se ne intende. E non solo perché tra i suoi progetti realizzati ci sono l'ingresso (lato Fortezza da Basso) alla Stazione di Santa Maria Novella di Firenze (1990) e quello della facciata del palazzo delle Ferrovie Nord di Milano (1998-2000). Ma ancora di più perché è lei ad aver firmato (tra il 1980 e il 1986) la mutazione della parigina Gare d'Orsay, ex stazione ferroviaria della linea Parigi-Orleans costruita per l'Esposizione universale del 1900, in qualcosa di inaspettato: il museo per eccellenza degli Impressionisti, due milioni e mezzo di visitatori all'anno, il Musee d'Orsay appunto.
Forse anche per questo l'idea delle grandi stazioni che cambiano faccia non è per la Aulenti così scandalosa:
«Far sparire le sale d'attesa — dice — rientra in una filosofia che oggi vuole fare assomigliare sempre più questi spazi a veri e propri centri commerciali, dove più che partire si deve prima di tutto comprare, luoghi di passaggio come il "corso" di un vecchio paese, pieno di negozi di ogni tipo, in cui però ci scontra solo con i carrelli, senza mai incontrarsi davvero».
Ma questa mutazione non servirebbe ad annullare il degrado?
«Più che altro così le stazioni finiscono per perdere uno dei loro compiti originari, quello dell'accoglienza e dell'incontro. Perché nelle vecchie sale d'attesa qualche brandello di conversazione si riusciva comunque ad intrecciarlo, magari anche solo per chiedere a che ora partiva un certo treno».
Eppure stazioni come quella romana di Termini sono rinate dopo questi ammodernamenti:
«Ma non sono più vere stazioni: la libreria nell'atrio di Termini è bellissima, ma utilizza l'atrio puntando su una struttura commerciale e non di accoglienza». Anche se, aggiunge l'architetto, «quella libreria è almeno più facilmente individuabile della nuova Feltrinelli alla Centrale di Milano».
La Aulenti propone un ulteriore motivo (o modello) per questa mutazione:
«Le stazioni stanno sempre più assomigliando agli aeroporti, i primi luoghi di viaggio ad essere diventati centri commerciali». Il tema delle stazioni è dunque affascinante ma difficile: «Belle stazioni? Subito mi vengono in mente la Centrale a Milano, Porta Nuova a Torino e tra le più recenti quella di Zurigo. Ma la più bella di tutte resta ancora quella di Firenze e mi appare difficile immaginare un progetto di ammodernamento che possa migliorarla, a cominciare da quella galleria che serviva di passaggio e di ingresso alla città, costruita appunto per evitare ogni possibile degrado».
Da sempre la stazione di Firenze (inaugurata nel 1935, progettata dal Gruppo Toscano guidato da Giovanni Michelucci) è considerata una sorta di museo a cielo aperto (il recupero dovrebbe concludersi a primavera, 19 milioni di euro il costo annunciato). Vicino forse alla mutazione imposta dalla Aulenti alla Gare d'Orsay ma lontano dal comune sentire dei viaggiatori di oggi:
«Chi passa ora dalla stazione? — si chiede l'architetto —. Sono i pendolari e chi deve rapidamente cambiare treno o destinazione. Nessuno di loro ha voglia di perdere tanto tempo. L'unica cosa che può succedere è comprare. E allora a cosa serve la sala d'attesa?».
Il governo Monti non porta nessuna responsabilità diretta per le condizioni che hanno provocato le rivolte dei "forconi" in Sicilia, (pescatori e agricoltori, ma soprattutto autotrasportatori) e che hanno bloccato la distribuzione delle merci anche in tutto il resto del paese. Le condizioni che stanno mettendo alla fame molti di questi lavoratori e operatori risalgono al modo in cui i rispettivi settori sono andati organizzandosi nel corso del tempo, sotto molti dei precedenti governi. Va detto però che nessuna delle misure ora adottate (in particolare le presunte liberalizzazioni di autostrade, assicurazioni e distribuzione di combustibili) apporta a questi lavoratori il minimo sollievo, mentre il governo sembra orientato a cercare di pacificarli con una politica delle mance (sconto sulle tariffe autostradali e sulle accise sul carburante) già incorsa più volte in procedure di infrazione da parte della Commissione europea. Non è in questo modo, e gli autotrasportatori lo sanno, che si possono risolvere i loro problemi.
Il fatto è che l'autotrasporto è già un sistema completamente liberalizzato e che la condizione attuale della maggioranza degli autotrasportatori (dipendenti, autonomi e "padroncini") è l'epitome, la rappresentazione perfetta, di come i meccanismi di mercato operano nel polarizzare società e lavoro. Perché gli autotrasportatori - quelli che guidano un camion, o che gestiscono qualche camion guidato da altri, e per lo più guidano anche loro; e si tratta di un lavoro pesante e logorante e sempre meno remunerato - non sono che l'ultimo anello di una catena che vede al capo opposto poche grandi società multinazionali di spedizione, nessuna delle quali è più italiana; si tratta di operatori tedeschi, olandesi, cinesi, statunitensi o di Singapore che da anni hanno inglobato la totalità delle maggiori imprese italiane.
Quelle società controllano porti, flotte, vagoni, carghi, container, ma esercitano il loro ruolo grazie soprattutto alla loro potenza finanziaria, al controllo delle reti commerciali e ai software con cui mettono in contatto origini e di destinazioni delle merci e gestiscono l'intermodalità delle spedizioni.
Nessuna di loro, credo, dispone direttamente di mezzi per il trasporto su gomma. Le tratte percorse con autoveicoli vengono subappaltate a una serie di società di autotrasporto minori, per lo più di dimensioni regionali, che di mezzi peraltro ne hanno pochi anche loro e ricorrono sempre più spesso a ulteriori subappalti; a cui capita di ingaggiare a loro volta degli autotrasportatori "indipendenti". Accanto a queste imprese opera poi una serie di mediatori che non dispongono né di camion né di strutture e strumenti logistici (una vera porta aperta per la mafia), che reclutano, spesso "spot", cioè sul momento e sempre più raramente con programmi e percorsi fissi, le società minori o i singoli padroncini: sia per conto di spedizionieri che di produttori che hanno consegne dirette da effettuare.
Da tempo, poi, il mercato europeo e italiano è stato invaso da operatori dell'Europa dell'Est che fanno concorrenza a quelli locali sia in ingresso che in uscita dai confini nazionali - e a volte anche al loro interno - e che praticano prezzi di dumping resi possibili da tre fattori: i loro mezzi non rispettano gli standard di sicurezza richiesti ai veicoli immatricolati in Italia; la loro guida è molto più spericolata sia per velocità che per durata; la remunerazione degli autisti è molto più bassa. Per godere di questi vantaggi molte società di trasporto già nazionali hanno trasferito la loro sede legale in qualche paese all'Est europeo, pur operando prevalentemente in Italia. Le tariffe dell'autotrasporto in conto terzi sono regolate per legge entro una forcella che prevede un massimo e un minimo in base alla consistenza del carico e alla lunghezza del percorso; ma gli sconti che vengono imposti vanno ben al di sotto del minimo consentito. Di fatto, attenersi alla normativa su tariffe, limiti di carico, durata della guida, velocità consentita e minimi contrattuali vuol dire uscire dal mercato. I controlli sono facilmente eludibili non senza - secondo quanto riportano molti operatori - connivenze della polizia stradale. Schiacciati tra i costi crescenti dei fattori produttivi, le tariffe in continua diminuzione e una rilevante riduzione dei traffici, le condizioni dei lavoratori e dei piccoli operatori del settore sono tra quelle che maggiormente risentono della crisi.
Tutto questo è noto e viene di quando in quando riportato dai media, peraltro senza molte indagini sulle cause né proposte per porvi rimedio. In realtà la situazione richiederebbe un'analisi più approfondita perché costituisce uno degli esempi più vistosi e chiari del modo in cui l'organizzazione di un intero settore produttivo si è strutturato per scaricare il rischio di impresa verso il basso, cioè sui lavoratori. La maggior parte dei lavoratori dell'autotrasporto non è costituita da dipendenti salariati ma da "padroncini". Anche quando lavorano alle dipendenze di altri, se l'impresa è piccola i lavoratori sono indissolubilmente legati alle sue sorti, ai suoi alti e bassi, ai tempi sempre più lunghi dei pagamenti, che si riflettono direttamente sul modo e sui tempi con cui vengono remunerati. È lo stesso processo con cui in altri settori molto lavoro impiegatizio è stato sostituito da lavoratori precari ("a progetto" o a partita Iva) "esternalizzati". Ma, a differenza di altri settori tipici del precariato, nel settore dell'autotrasporto l'investimento è consistente (un autoarticolato non costa meno di 200mila euro) e le imprese di spedizione, siano esse grandi gruppi o operatori intermedi, si liberano tanto dell'onere dell'investimento quanto del rischio di avere mezzi fermi, scaricando entrambi - oneri e rischio - direttamente sui lavoratori.
Un processo analogo lo riscontriamo in molti altri settori, da quello dell'edilizia e dei grandi lavori - il paradigma qui è il Tav, su cui Ivan Cicconi ha scritto testi fondamentali - alla cantieristica. Insomma, l'autotrasporto non presenta affatto un assetto arcaico in attesa di una "modernizzazione" che solo il mercato potrà sviluppare, emarginando progressivamente la piccola impresa inefficiente a favore di strutture capitalistiche ben organizzate. La "modernizzazione" è già qui e il modello di impresa del liberismo è questo: e infatti il settore delle spedizioni presenta un grado di strutturazione e di concentrazione a livello internazionale da fare invidia a quelli energetico e alimentare; ma convive con - anzi, ha prodotto - l'estrema frammentazione del lavoro autonomo, che peraltro non è "lavoro autonomo di seconda generazione" (c'è il navigatore e c'è la scatola nera, ma i camion si guidano più o meno allo stesso modo di cent'anni fa).
Che fare? È chiaro che i problemi degli autotrasportatori - e delle altre categorie di lavoratori autonomi di prima generazione in lotta - non possono essere risolti con decreti dall'alto e meno che mai con delle mance che rischiano non solo di perpetuare, ma di approfondire, tutte le contraddizioni che li stanno trascinando verso la miseria. Devono essere i lavoratori stessi, dipendenti e autonomi, a coalizzarsi in strutture non solo rivendicative, come quelle attuali, ma operative: cioè in cooperative che affianchino al possesso e alla guida dei mezzi una parte consistente della gestione logistica, recuperando valore aggiunto al loro lavoro. Ed è chiaro che un processo del genere deve avere una interlocuzione con i governi sia nazionali che regionali perché mettano a disposizione le risorse e gli strumenti per operare questo passaggio; e soprattutto perché introducano forme di tutela adeguate contro la concorrenza selvaggia (altro che "liberalizzazioni").
Ma è altrettanto chiaro che una conversione del trasporto su gomma deve fare i conti con processi - in parte in corso; in parte da promuovere - destinati a incidere profondamente sul numero e sul ruolo degli operatori del settore; processi a cui è vano contrapporre una mera resistenza e che occorre invece mettersi in condizione di assecondare. Il combustibile sarà sempre più caro; i costi dell'inquinamento e della congestione sono destinati a crescere; l'epoca del trasporto a basso costo sta per finire e le spedizioni transcontinetali e di lunga percorrenza dovranno ridimensionarsi a favore di una rilocalizzazione di molte produzioni - a partire, ma non solo, da quelle agricole e alimentari - in prossimità dei punti di smercio. Il trasporto su gomma dovrà convertirsi ai percorsi brevi e molto articolati e integrarsi con quello su ferro e via mare con sistemi intermodali che evitino la duplicazione dei vettori (su questo punto potrebbero essere le associazioni stesse dei trasportatori a farsi parte diligente di una proposta che solleciti, insieme alle altre categorie interessate, nuove forme di mobilità intermodale delle merci; e i relativi investimenti).
Sono tutti problemi che non possono essere lasciati sulle spalle degli autotrasportatori; la conversione ecologica del trasporto merci, come di tutte le altre forme di mobilità e quella delle principali attività produttive deve essere presa in carico dall'intera comunità; a partire dal governo del territorio e dalle amministrazioni locali. Alcune delle quali oggi si riuniscono a Napoli per cominciare ad affrontare i termini e le condizioni di questo percorso.
Oggi Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano (Milano) e membro del Comitato direttivo dell’Associazione Comuni Virtuosi, riceverà il Premio Personaggio Ambiente 2011 a Roma, presso Palazzo Valentini in via IV Novembre.
Domenico Finiguerra l’ho conosciuto attraverso una video intervista, abbastanza improbabile nei colori e nel volume, ormai diversi anni fa, in cui parlava di questo comunello di 1.800 abitanti alle porte di Milano dove, con assoluta naturalezza e semplicità, gli amministratori avevano scelto di interrompere la folle spirale del consumo di suolo e delle speculazioni edilizie, dicendo, improvvisamente, basta.
A volte accade, se si è abbastanza fortunati e ostinati, di incontrare persone così. Che prima ancora di essere ottimi amministratori e servitori dello Stato (quello Stato che ti fa sentire orgoglioso e fiero una volta tanto) sono persone perbene, piacevoli, con cui vale la pena scambiare idee e riflessioni, ma anche chiacchiere e sorrisi, davanti a un bel bicchiere di vino.
Quella scelta, che oggi è adottata e imitata in tutta Italia ed è diventata portatrice di movimenti, campagne, iniziative pubbliche di ogni sorta e grado, ha squarciato in un momento il muro dell’ipocrisia di gran parte della politica parolaia di destra e di sinistra, che per anni ci aveva ripetuto (e ancora ci ripete) i soliti ritriti ritornelli: “Non si può fare, non è possibile, non possiamo fermare il progresso, dobbiamo costruire per far viaggiare l’economia…”
La scelta di Cassinetta è dunque diventata il simbolo di un possibile cambiamento generale, condivisa con le centinaia di esperienze virtuose che come Associazione dei Comuni Virtuosi abbiamo in questi anni cercato faticosamente di far emergere, coltivare, valorizzare e diffondere. Noi non ci siamo limitati a dire dei no, in questi anni ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo sperimentato, costruito e adottato un paradigma altro di comunità: rifiuti zero, indipendenza energetica, democrazia partecipativa, nuovi stili di vita, mobilità sostenibile.
Domenico è stato ed è per tutti noi un esempio da imitare e un portavoce a cui affidare le nostre convizioni, in questa specie di staffetta del buon senso con la quale cerchiamo di illuminare giorno per giorno ciò che funziona, nonostante tutto, nelle nostre trasandate istituzioni pubbliche.
Un abbraccio dunque al buon Domenico, alla splendida Cassinetta di Lugagnano, con la speranza che sempre più persone, movimenti, reti, vogliano condividere il pezzo di strada che stiamo facendo!
Dal Colosseo a piazza Navona caffé e locali colonizzano il suolo pubblico Alemanno ha tenuto per anni nel cassetto i divieti delle Sovrintendenze E il ministero dei Beni Culturali ha fatto finta di niente. Degrado alla romana
Roma Eterna ostaggio dei “bottegari”. Col sindaco Alemanno che corre a sospendere e a rinviare il più possibile le stesse prescrizioni delle Soprintendenze statali che lui, nel 2010, aveva fatto proprie e che erano poi quelle della Giunta Veltroni. Sotto le feste natalizie il sindaco le ha spostate a dopo la Befana e, quando il I ̊ Municipio è intervenuto per farle rispettare a Campo de’ Fiori e al Pantheon, con un’altra ordinanza volante ha prorogato di 60 giorni l’illegalità degli orribili e pericolosi dehors di plastica. Ma il “no” delle Soprintendenze per le stufe a gas e per i teloni di plastica non era allegato alla delibera dello stesso Alemanno? Che importa? Lui, prima recepisce e poi neutralizza...il resto, si vedrà. E pensare che – sia pure senza prevedere sanzioni (ecco il buco) – la delibera è molto restrittiva: tende e teloni senza scritte né mantovane, solo riscaldamenti consentiti dai vigili del fuoco, via i gazebo di plastica, ecc.
Roma, dunque, rovesciata dall’egemonia “bottegara”? In piazza della Rotonda, davanti, nientemeno, al Pantheon 900 mq. occupati da locali, invece di ridursi, sono diventati 1.000. In via Salvi, di fronte, e dico poco, al Colosseo, il marciapiede è ostruito da due locali, per cui «flussi enormi di bambini di 5 scuole adiacenti», denuncia il consigliere verde del I ̊ Municipio, Nathalie Naim, «e folle di turisti devono passare in strada dove transitano centinaia di auto a velocità elevata». Non fai in tempo a compiacerti della vasta area pedonale in piazza Sant’Apollinare e scopri che è in funzione delle pizzerie (una è penetrata dentro la medioevale Tor Sanguigna, lì vicino). Ed è la prova generale della nuova Piazza Navona “restaurata” dal Comune senza più marciapiedi: una marea di tavolini.
Fiere le proteste del Comitato che coordina le battagliere associazioni dei residenti. Questi, pur ridotti a 80-90.000 (neppure pochissimi), rappresentano l’unico controllo sociale su una selva di locali, spesso effimeri, che la malavita, con la crisi, ha aperto o fatto propri, centri di spaccio e di riciclaggio. Senza i residenti, il cuore di Roma, come di ogni città storica, sarebbe zona franca per la criminalità. Tanto più che le pattuglie di polizia sono, per mancanza di fondi, assai poche. Per l’indecoroso balletto del decoro urbano il Comitato per la Bellezza ha chiamato in causa lo stesso ministro Ornaghi, il segretario generale del MiBAC Recchia, la soprintendente Galloni, il sottosegretario Cecchi. Solo l’ultimo ha risposto: il 5 febbraio 2010 la materia è stata oggetto di accordo fra le Soprintendenze (Beni Architettonici e Archeologici) e il Comune, però «non so quale esito questo strumento abbia avuto». Molto evasivo. Eppure, nell’indecoroso balletto il Ministero ci gioca la faccia. Se si fa rispettare, salva, almeno in parte, la faccia sua e un bene come Roma. Sennò, povera Roma nostra. Addio residenti. Addio turismo qualificato. Tutta “movida” stile Campo de’ Fiori. Se vi pare un affare, fate voialtri.
La linea del Comitato “No Grandi Navi – Laguna Bene Comune – fuori le grandi navi dalla laguna!” si incardina in quasi cinquant'anni di riflessioni dell'ambientalismo veneziano, sorto negli anni Sessanta col Fronte per la difesa di Venezia sull'onda delle lotte per impedire la trasformazione della laguna in un'unica zona industriale (battaglia vinta) e l'apertura del Canale dei Petroli (battaglia persa). E tali elaborazioni hanno trovato ampio riscontro nella legislazione speciale per Venezia.
Liberare San Marco dalle grandi navi è imprescindibile, ma ciò non può avvenire dissestando ulteriormente la laguna: non lo dice il Comitato ma appunto l'intero corpus dei provvedimenti straordinari che il Parlamento ha votato per Venezia, a partire dalla legge speciale 171 del 1973 che all'articolo 1 si pone come obiettivo "l'equilibrio idraulico della laguna di Venezia" e passando per l'altro cardine, la legge speciale 798 del 1984, che all'art. 3 destina gran parte dei suoi finanziamenti agli "studi, progettazioni, sperimentazioni e opere volte al riequilibrio idrogeologico della laguna, all'arresto e all'inversione del processo di degrado del bacino lagunare e all'eliminazione delle cause che lo hanno provocato", e ciò nella esplicita convinzione che l'eliminazione dell'acqua alta non sia raggiungibile esclusivamente regolando con barriere fisse o mobili il rapporto tra il mare e la laguna.
Le cause del degrado, quelle da eliminare per legge, sono diverse, quasi tutte provocate dall'uomo, ma la prima, la più devastante - e su ciò c'è il consenso unanime dell'intera collettività scientifica, Consorzio Venezia Nuova compreso - è il Canale dei Petroli. Al riguardo, si legga Fatti e misfatti di idraulica lagunare (Istituto Veneto, Memorie, 2010) di quel prof. Luigi D'Alpaos che davvero paradossalmente il presidente dell'Autorità portuale, Paolo Costa, chiama sempre a testimone della sua idea di scavare il piccolo Contorta Sant'Angelo.
Sono passati quasi trent'anni dal 1984 e la laguna anzichè avviarsi alla rinascita è sulla soglia della morte: troppi gli interessi in gioco. Il Canale dei Petroli non è mai stato chiuso, il porto commerciale e le industrie hanno preteso il loro prezzo, ma oggi un modello economico è andato in crisi, Porto Marghera si sta spegnendo, la stessa Autorità Portuale ha avviato un percorso per creare fuori dalla laguna una piattaforma d'ormeggio per le petroliere, le portacontainer, le cerealicole. Non è certo un soprassalto di ambientalismo ma la consapevolezza che il Mose alle bocche di porto, nonostante la conca di navigazione, comprometterà la portualità, nonchè il tentativo di acquisire traffici ora impensabili per i massimi fondali ammissibili in laguna. Sia come sia, per la prima volta da un secolo a questa parte si apre la possibilità di iniziare a por mano davvero al riequilibrio della laguna, solo che si estromettano anche le grandi navi da crociera, che altrimenti imporrebbero il mantenimento degli attuali fondali, impedendone ogni ritocco al ribasso.
Queste sono le ragioni per le quali ci opponiamo allo scavo del Contorta Sant'Angelo, che significa solo due cose: mantenimento in eterno del Canale dei Petroli, e dunque del dissesto della laguna, e anzi suo ampliamento e allungamento fino al cuore della città, con tutti i rischi connessi. E' la reiterazione ossessiva delle scelte che hanno sconvolto la laguna, contro la logica e il dettato delle leggi speciali.
poi, sulla cosiddetta soluzione a breve termine:
- Non sarà questione di un anno, come dice il presidente dell'Autorità portuale, Paolo Costa, commissari o non commissari, perchè i problemi idraulici e ambientali sono enormi e le opposizioni a tutti i livelli saranno fortissime; serve anche l'interramento dell'elettrodotto Fusina - Sacca Fisola.
- Tolto l'inquinamento visivo, chiamiamolo così, tutte le criticità (fumi inquinanti, rumori, vibrazioni, dislocamento di milioni di tonnellate d'acqua, perdita di sedimenti) restano in laguna e segnatamente in Marittima; e permane il rischio di incidenti, che in mare non vengono provocati solo dagli scogli, come strumentalmente vuol far credere chi ricorda sempre che la laguna ha fondali morbidi, affermando che la tragedia del Giglio a Venezia non può succedere. Statisticamente la maggior fonte di rischio per le navi sono le esplosioni a bordo, con spillamento di carburanti: le navi da crociera che entrano in laguna non hanno il doppio scafo.
- La Marittima continuerà per sempre ad accogliere navi: non le sei di ora ma le nove di domani, quando i traghetti si trasferiranno a Fusina, e il progetto di cold ironing, che comunque non è finanziato, riguarderà solo quattro bastimenti. Dunque cinque navi - praticamente come oggi - resteranno coi motori sempre accesi, e le grandi navi inquinano all'ormeggio il doppio di quando non facciano in navigazione.
Quanto al nuovo porto a Malamocco, ammesso che non sia una bufala:
- Esso è chiaramente aggiuntivo e non sostitutivo della permanenza del crocerismo in Marittima: domani le grandi navi in arrivo anche contemporaneamente a Venezia non saranno nove come spiegato poco sopra ma fino a quattordici (cioè cinque in più a Santa Maria del Mare).
- Non potrà essere iniziato nel 2014 come si sostiene, perchè per quella data, se non ci saranno intoppi, saranno forse realizzati solo i cassoni per la semi - bocca di Treporti;
- Pellestrina è un'isola, e dunque i passeggeri sbarcati dovranno essere portati a terra esattamente come se fossero stati sbarcati in una piattaforma in mare aperto; davvero qualcuno crede che il tunnel sotto la bocca di porto di Malamocco (se ne parla da circa un decennio) o addirittura la metropolitana sublagunare (Paolo Costa ha evocato anche questo) siano soluzioni credibili, e in ogni caso a breve - medio termine?
- La piastra logistica di Malamocco, a suo tempo contestata dal Comune e dalle associazioni ambientaliste, sorge in area Sic, ed è stata autorizzata dal Tar solo perchè il Consorzio Venezia Nuova aveva garantito che era temporanea e che sarebbe stata rimossa alla fine dei lavori: un nuovo ricorso avrebbe poche chance?
- Pellestrina e il Lido insorgeranno, questo è matematico, perchè la proposta stravolge il delicato equilibrio di Pellestrina, tramuta il Lido in un'autostrrada (ammesso che ci si arrivi), compromette la pesca. Già sono scoppiate le prime polemiche.
- Non si vede dunque logica, salvo il regalo di 200 milioni di euro al Consorzio Venezia Nuova, tanto costerebbe lo smantellamento della piattaforma.
Per tutte queste ragioni, il Comitato continua a credere che si possano trovare soluzioni più pratiche, veloci, ambientalmente sostenibili, e perfino tali da garantire anche l'indotto croceristico, se davvero esiste. Non pensiamo che come Comitato spetti a noi indicare quali: noi poniamo un problema politico, chiediamo l'estromissione delle grandi navi dalla laguna, e sul come aspettiamo le proposte del Governo e del Comune, che per le ragioni che abbiamo elencato non possono essere quelle sul tappeto in questi giorni. Ne aspettiamo altre, che giudicheremo.
Può sembrare una posizione ambigua, codina, incerta, ma invece è chiarissima: dietro, infatti, c'è da fare un ultimo ragionamento che fin qui è mancato, e che va in piena rotta di collisione con la posizione del ministro Corrado Clini, di Costa, del sindaco Giorgio Orsoni: e' quello sul carico turistico complessivo che Venezia può sostenere mantenendo le caratteristiche di una città con residenti e servizi e non diventando un parco tematico, come ormai è quasi avvenuto. E' chiaro che per costoro – questo è il senso della loro intesa - le navi dovranno comunque diventare sempre di più e sempre più grandi, mentre per noi (e non solo per noi) serve determinare una soglia complessiva di turismo massimo sostenibile e all'interno di questa soglia assegnare una quota invalicabile anche per le grandi navi. Non sarà la stessa cosa trovare collocazione per una nave o collocazione per dieci: cioè non è possibile stabilire alcuna soluzione per l'ormeggio del crocerismo se prima non si dice quante e che navi devono arrivare.
Oltretutto non è neppure detto che debbano arrivare, perchè molti studi dimostrano che si tratta di un turismo povero, o meglio di un turismo che lascia poco alla città (le navi sono macchine progettate per far spendere ai croceristi il massimo possibile al loro interno) e se esistesse un vero studio che analizza i costi e i benefici siamo certi che salterebbero fuori diverse sorprese, al di là di quello che dice pro domo sua il presidente della Venice Terminal Passeggeri, SandroTrevisanato. Noi uno studio così lo pretendiamo.
Silvio Testa è portavoce del Comitato “No Grandi Navi – Laguna Bene Comune”, ed autore del piccolo saggio sull’argomento, E e chiamano navi, scritto per la collana “Occhi aperti su Venezia” dell’ Editore Corte del Fòntego
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Un canale che formerà anche delle darsene e si snoderà per cinque chilometri trasformando l’area espositiva in un’isola e 10mila piante che inizieranno a mettere radici quest’anno. È la scenografia di Expo, che dovrà accogliere i padiglioni e gli edifici principali del 2015 e che, ormai, è definita nei minimi dettagli. A cominciare dal verde: il piano prevede anche un giardino con specie esotiche dove nasceranno farfalle e giardini d’acqua.
I primi alberi inizieranno a mettere radici già quest’anno: sono i filari più esterni, destinati a correre lungo l’intero perimetro di quell’irregolare milione di metri quadrati di terra che sarà la cittadella di Expo, creando una barriera tra la strada e il canale, che si snoderà per cinque chilometri. Sono solo una parte delle 10mila piante di 400 specie diverse che, in totale, spunteranno tra i padiglioni del 2015. Tra pendii e gradinate, la collina mediterranea che verrà realizzata con 83mila metri cubi di terreno scavato dal canale, dove nasceranno olivi, viti e un bosco da visitare seguendo un sentiero di un chilometro, aree da picnic immaginate come aiuole di ortaggi e erbe aromatiche con tanto di pergolati e frutteti, giardini d’acqua e uno delle farfalle, dove l’intenzione è proprio quella di "allevare" bruchi.
Sono i segreti del progetto di Expo, quelli svelati dai dettagli della gara più importante del dossier: è il bando arrivato al suo primo traguardo (domani scade la fase della prequalifica, il 15 maggio toccherà alle offerte dei candidati rimasti in corsa) che serve a cercare chi realizzerà l’ossatura del sito espositivo: da tutti gli impianti ai percorsi verdi, appunto, da quelli d’acqua ai due viali principali alle piazze, dalle tende che ripareranno i visitatori all’ingresso che li condurrà dalla fermata della metropolitana ai tornelli. Lavori che, in tutto, valgono 270 milioni di euro e che inizieranno tra giugno e luglio.
Si parte dai tanti spazi d’acqua come il canale: è uno degli elementi cardine del progetto e, comprese diverse darsene che verranno realizzate, avrà una lunghezza di cinque chilometri e la forma di un "8". Alcune sponde saranno costruite a gradoni per permettere alla gente di sedere e riposare e sono previsti giochi d’acqua e 32 ponti per attraversare questo piccolo fiume che è concepito come parte integrante del Villoresi. Il progetto prevede anche undici vasche di "fitodepurazione" che serviranno per ripulire le acque piovane. Dedicata all’acqua anche la piazza principale, la "lake arena": uno specchio di 86 metri di diametro, circondato da 102 alberi, con una fontana ornamentale al centro e uno spazio in grado di accogliere 28mila persone.
È lì accanto che verrà creato il giardino delle farfalle, anche con specie esotiche. Il progetto si spinge a descrivere i minimi dettagli, come i materiali della pavimentazione del cardo e del decumano, i viali principali: ci saranno materiali di sei colori diversi, dal rosso corallo al giallo oro, fino al grigio e al bianco del marmo. Chi si aggiudicherà i lavori dovrà pensare anche a tutte le vie interne, comprese quelle dedicate ai mezzi di servizio, dove sarà previsto anche un sistema di trasporto degli ospiti su auto elettriche. Grande importanza è riservata all’ingresso Ovest, quello pedonale che collegherà il metrò con l’area espositiva, con tanto di camminamento protetto da una barriera di vetro. A Est, invece, arriveranno le auto e, si stima, un flusso che raggiungerà il 40 per cento dei visitatori.
Un intero complesso residenziale con quattro palazzi alti nove piani, con strutture portanti interamente realizzate in legno, sarà pronto in 14 mesi in via Cenni, vicino al parco di Trenno. Sarà il più grande intervento di questo genere in Europa, ma sarà anche il primo quartiere di housing sociale di Milano voluto da Regione e Fondazione Cariplo. Nei palazzi - costruiti secondo le più moderne tecniche importate anche dal Giappone, con criteri antisismici e antincendio - ci saranno 124 alloggi, destinati in maggioranza all’affitto a canone calmierato ma anche in parte all’acquisto. «Il 2012 sarà l’anno dell’housing sociale a Milano, progetto al quale stiamo lavorando da tempo. Presto apriranno altri cantieri», ha detto Giuseppe Guzzetti, presidente di Fondazione Cariplo. L’intervento su un’area di 17mila metri quadrati sarà realizzato da Polaris investment su progetto dell’architetto Fabrizio Rossi Prodi, che ha vinto un concorso internazionale indetto dalla Fondazione housing sociale
A un anno di distanza eccomi di nuovo in Africa. Ricomincio, riprendendo da un altro paese africano, il Ruanda, i miei appunti di viaggio, cominciati a Nairobi nel ottobre del 2010. Nel frattempo ho finito il dottorato e cominciato a lavorare sul serio. Ho lasciato lo studio di Londra e la mia attivita di conservation architect per cominciare quella di insegnante universitario.
Il 12 dicembre è iniziata la mia prima vera esperienza di insegnamento universitario, a Kigali, in Rwanda. Ho accettato un posto di senior lecturer alla facoltà di Architettura del KIST, università pubblica ruandese. Tengo un corso teorico di “urban design” e un laboratorio di progettazione, entrambi per gli studenti del quarto anno. Il prossimo semestre insegnerò “urban planning”, un altro laboratorio di progettazione e, vista la carenza di docenti, un terzo corso… ve ne parlerò più avanti, è ancora in via di definizione.
Sono atterrata a Kigali il 9 dicembre, di sera. Ad aspettarmi c’era il mio collega Tomà Berlanda, un altro italiano – veneziano per la precisione – arrivato qui l’anno prima. E’ grazie a lui che ho saputo che il KIST cercava docenti per la loro nuova facoltà di architettura, iniziata solo tre anni fa. Il che significa che i miei studenti del quarto anno saranno i primi ruandesi a laurearsi in architettura in Ruanda. Very exiting don’t you think?
Questa è una delle tanti ragioni che mi hanno spinto a fare domanda e partire. D’altronde non è che l’Italia offra di più o di meglio per una giovane (o peggio, non più giovane) ricercatrice che vuole insegnare all’università!
Devo confessare che quando si è prospettata quest’occasione e ho cercato di fare mente locale su quello che sapevo, mi sono accorta che non sapevo nulla sul Ruanda. Ancora meno sulla sua capitale, Kigali. Certo la prima e immediata associazione è quella del genocidio del 1994, che ha sterminato in poco più di cento giorni quasi un terzo della sua popolazione e constretto all’esilio circa 1.350 000 persone, poi rientrate tra il 1996 e il 1997. Il toccante film “Hotel Rwanda” anch’esso legato al genocidio è stata la seconda associazione. A parte che il film non è stato girato nell’ Hotel in cui si è svolta la vicenda, ma in Sud Africa, non riuscivo a farmi un idea di questo piccolo paese schiacciato tra il Congo a ovest, l’Uganda a nord, la Tanzania a Est e il piccolo Burundi a sud. Distante dalle coste.
Il Ruanda rimane ancora ad oggi un paese di agricoltori. Circa 11 milioni di abitanti, di cui un decimo nella capitale. Con una densità di circa 408 abitanti per Kilometro quadrato è il paese africano più densamente popolato, ma uno dei meno urbanizzati - almeno per ora. Infatti, anche qui l’urbanizzazione è un fenomeno prorompente, che sta cambiando totalmente il rapporto tra uomo e ambiente e sconvolgendo il territorio, non solo da un punto di vista fisico e ambintale, ma anche sociale e culturale.
Di questa città so pochissimo, a differenza di Nairobi, non ho ancora molto da dirvi. Imparerò a conoscerla man mano, anche attraverso il labpratorio degli studenti, impegnati in questo semestre a progettare uno spazio multifunzionale in un area umida di Kigali, affrontando il tema dell’intefaccia tra urbano e rurale e dello spazio pubblico/collettivo. Condividerò con voi le cose che imparerò, le mie impressioni e la mia esperienza di docente alle prese con l’insegnamento dell’architettura e della progettazione urbana ad un gruppo di giovani student appartenenti ad una cultura profondamente diversa dalla mia.
Questo diario è arricchito dagli appunti di Eddy Salzano, che mi raggiungerà in Ruanda per lunghi periodi. Attualmente l’impegno scolastico è enorme e il tempo libero per scrivere al di fuori delle lezioni è limitato. Quando non sono in classe sono a casa o in facoltà a preparare le lezioni. A parte questo faccio spola da un ufficio all’altro per regolarizzare la mia posizione nel paese e nell’Università. Finito questo rimane di fare la spesa, cercare casa, cercare un automobile (ancora un miraggio…). Sarà quindi Eddy ad introdurvi per il momento alla nostra vita a Kigali.
Un imagine di Kigali, bellissima, sembra un ricamo, in cui ogni punto è il risultato del lavoro dell’uomo. E’ un territorio profondamente addomesticato, ma nello stesso tempo selvaggio, forse per il rapporto ancora così stretto ed evidente con madre natura.
La città dalle mille colline, questa è Kigali agli occhi del viaggiatore. Il resto, l’urbano - la città moderna - non ha molto da dire, ma certamente è una città dove è facile vivere, se la si paragona a Nairobi.
VENT'ANNI DI STORIA E UN BLITZ
di Pierluigi Sullo
«Blitz contro i No Tav!», gridano i siti dei grandi giornali. Finalmente il progresso avanza, si direbbe. Qualche giorno fa è stata pubblicata la lettera con cui alcune persone di un certo rilievo - Luca Mercalli, Ivan Cicconi, Sergio Ulgiati e Marco Ponti - rispettosamente si rivolgono al presidente del consiglio, Mario Monti, per fargli notare che da ogni punto di vista - compreso quello liberista che anima il governo dei "tecnici" - il tunnel Tav in Val di Susa è una follia, proprio come gli abitanti della Valle e i loro numerosi amici sostengono ormai dal 1992.
1992? Caspita, giusto vent'anni. Chi se lo ricorda più il mondo del 1992? Eppure, in quell'anno capitarono molte cose. Ne ricordo alcune, forse istruttive a chi abbia la pazienza di leggere.
Il 6 gennaio una bomba viene fatta esplodere sulla linea ferroviaria poco prima del passaggio dell'espresso Lecce-Milano-Stoccarda all'altezza di Surbo. Si evita una strage per un pelo. Purtroppo i No Tav avrebbero preso ad esistere qualche mese dopo, non potevano essere loro i colpevoli. Il 13 gennaio iniziano i telegiornali Fininvest: primo il Tg5, diretto da Enrico Mentana. L'anno dopo Berlusconi sarebbe "sceso" in politica. Il 7 febbraio i 12 stati della Cee firmano il Trattato sull'Unione Europea, noto come Trattato di Maastricht. Il 17 febbraio a Milano il socialista Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio, viene arrestato per una tangente di 7 milioni di lire. È il primo atto di Mani pulite. Il 5 aprile le elezioni politiche: Dc 29,7%; Pds 16,1%; Psi 13,6%; Lega Nord 8,7%; Prc 5,6%. Il 23 di maggio sull'autostrada che collega Palermo all'aeroporto di Punta Raisi il tritolo uccide il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta. Il 26 Oscar Luigi Scalfaro diviene Presidente della Repubblica. Il 28 giugno Giuliano Amato forma il nuovo governo: farà la manovra da 100 mila miliardi che "salverà" l'Italia. Il 9 luglio un decreto autorizza infatti il governo al prelievo forzoso sui conti correnti bancari del 6 per mille. La misura è giustificata dal bisogno di fronteggiare le forti speculazioni internazionali che stanno colpendo la lira. Inoltre, il governo decide la privatizzazione di quattro imprese statali: Eni, Iri, Ina ed Enel. Il 19 luglio a Palermo vengono uccisi da un'autobomba il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Il 18 luglio, nella sala consiliare di Bussoleno nasce nell'indifferenza di politici e media il primo comitato No Tav. Più o meno nello stesso periodo Nomisma, società legata a Romano Prodi, si aggiudica consulenze varie sull'Alta velocità ferroviaria. Il 31 luglio, accordo tra Confindustria e sindacati: viene soppressa la scala mobile a partire dal gennaio 1993. Il 12 agosto l'ente Ferrovie dello Stato viene trasformato in società per azioni. Ma facciamola breve. Il 3 novembre il democratico Bill Clinton è eletto presidente degli Stati Uniti. Il 3 dicembre l'Italia decide l'invio di un contingente per partecipare all'operazione Restore Hope in Somalia.
Se siete arrivati fin qui, noterete quanto lontano sia il 1992 e allo stesso tempo quanto vicino. Certo i presidenti americani e i nomi dei corrotti, o i paesi in cui soldati italiani vanno in «missione di pace», cambiano. Ma c'è qualcosa di duro, di coriaceo, che resta. Le «manovre», le privatizzazioni, in nome della modernità e dell'Europa, per esempio. E i No Tav della Valsusa.
La magistratura di Torino ha firmato 26 ordinanze di custodia cautelare in carcere, messo una persona ai domiciliari, prescritto 15 obblighi di dimora. Il «blitz» ha interessato quindici province in tutta Italia. E Marco Imarisio, giornalista del Corriere della Sera specializzato in "movimenti", oltre a far sapere che «i reati contestati sono resistenza, violenza, lesioni, danneggiamento aggravati in concorso», scrive che l'operazione ha «colpito i vertici del movimento in Valle e a Torino...», e che è stato «colpito il centro sociale torinese Askatasuna, considerato il braccio operativo del movimento No Tav». Imarisio, autore anche di un libro su Genova 2001, si deve essere specializzato in qualche altro movimento, visto che i No Tav non hanno notoriamente alcun «vertice», e non delegano a nessuno il ruolo di «braccio operativo». Tanto è vero che lo stesso procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, ha detto che gli arresti non sono diretti contro la Valle di Susa o il movimento No Tav: «I soggetti che abbiamo individuato - ha dichiarato - sono autori, a nostro avviso, di specifici episodi di reato. È un'operazione che riguarda 41 persone e solo tre sono della Valle».
Ma quali sono, gli episodi di «resistenza» ecc.? Inizio luglio 2011: poliziotti e carabinieri - seguiranno gli alpini - occupano un'area della Valle di Susa, alla Maddalena di Chiomonte, poco dopo dichiarata «area di interesse strategico», cioè militarizzata, quindi sottratta alla normale gestione dei comuni, dei cittadini. Questa area viene chiamata «cantiere» perché vi dovrebbero lavorare le imprese (della Lega Coop) che hanno l'appalto per lo scavo di un tunnel esplorativo, propedeutico al tunnel di 52 chilometri. Ma in effetti nessuno vi sta lavorando, occupare manu militari la zona è un'azione dimostrativa, serve a dire ai cittadini della Valle che hanno perso la battaglia e all'Unione europea che ora si possono versare i milioni di euro promessi per l'opera (che ne costerebbe miliardi). La gente si oppone, cerca di divellere le reti, organizza una serie di manifestazioni che, in un clima sempre più minaccioso, sono sostanzialmente pacifiche, sebbene determinate (e per forza: i No Tav accumulano sapere e capacità di azione dal 1992).
Passano i mesi, ed ecco il "blitz". Proprio mentre i camionisti fanno i blocchi, i siciliani impugnano i forconi, il movimento dell'acqua fa quadrato attorno al referendum, i pescatori si fanno picchiare dalla polizia, e insomma i sondaggi sempre più rosei, l'unanimità o quasi dei partiti (come dimostra il testo votato dal Senato sul nuovo Trattato europeo) e il coro di elogi dei media non impediscono che le ferite e le fratture provocate dalla cura liberista del governo alla società italiana si traducano in proteste diffuse. I No Tav, come spesso è capitato loro negli ultimi anni, servono da cavia.
Ci vorrà ben altro, per farli finalmente tacere, quei valligiani riottosi. Intanto, Monti non risponde a chi contesta con fatti e cifre l'Alta velocità in Val di Susa (e a Firenze, per dirne un'altra). Forse il professore non ha argomenti?
CITTADINI ATTIVI, NON TERRORISTI
di Ugo Mattei
C'ero anch'io sui sentieri di Ramats lo scorso tre luglio e la sera sono rientrato incredulo di fronte all' aggressione irresponsabile delle forze dell'ordine ai manifestanti, saliti in montagna per una sacrosanta protesta in risposta allo sgombero della Libera Comunità della Maddalena, avvenuto solo pochi giorni prima. Salendo in fila e respirando quell'inebriante aria di montagna e di resistenza nei confronti di un potere arrogante e irrazionale, guardavo quei ragazzi, dell'età delle mie figlie e dei miei studenti. Ero fiero, come cittadino attivo, di vedere la loro partecipazione indignata da cittadini, agli antipodi di quella trasformazione in consumatori docili ed in carrieristi pronti ad ogni compromesso in cui da anni le riforme della scuola e dell'università tentano di trasformare i giovani occidentali, vittime designate del crollo della società opulenta. Attraversando le stradine del piccolo borgo e soffermandoci a bere ad una fontana che, a causa del traforo autostradale, offre acqua meno buona di un tempo, mi avevano colpito le signore che, sporgendosi sui balconi, ci ringraziavano per il nostro impegno per quella loro valle che da sempre è stata anche la mia valle.
Poi, in serata, la visita all'ospedale di Susa, il ritorno a Torino e il lavoro politico insieme alla Fiom per una grande fiaccolata, che per la prima volta era aperta da un cartello a me carissimo: No Tav Bene Comune. Venticinquemila persone, in massima parte torinesi, la solidarietà di tanti movimenti in lotta, da quello per l'acqua pubblica agli occupanti del Teatro Valle di Roma, a dimostrazione che il No Tav non è un movimento Nimby ma che invece sa far parte, a tutti gli effetti, di quella grande rete per i beni comuni che sta riuscendo ad organizzarsi (tappa importante domani a Napoli) per salvare il nostro paese dallo schianto cui lo condannano le politiche prone ai diktat del potere finanziario globale. Pochissimo dopo quel 25 luglio si scatenava la reazione contro la "primavera italiana" e contro il tentativo di ricominciare dai beni comuni: un tentativo di cui il movimento No Tav, con il suo rispetto certosino per il territorio è e resta parte integrante.
L'attacco alla legalità e il tentativo di obliare il senso politico delle lotte di primavera iniziava ad agosto con un susseguirsi di provvedimenti di pseudo-urgenza che ancora in troppo pochi ci sgoliamo per denunciare e per chiamare con il loro nome: emergenza democratica! La militarizzazione del cantiere Tav ci ha consegnato un messaggio forte e chiaro: per spartirsi quel bottino si è pronti a tutto. Ieri mattina la retata, volta a criminalizzare e intimorire non certo il solo movimento No Tav, che subisce questa sorte da vent'anni, ma proprio quel dissenso, quella solidarietà, quella cittadinanza attiva che lega in una sola lotta per i beni comuni le tantissime vertenze aperte sul territorio da chi rifiuta la logica dello stato di eccezione. Pratiche autoritarie che ci fanno piombare in un'emergenza democratica ancor più preoccupante ogni volta che la magistratura tiene bordone all' esecutivo.
Noi e la crisi da questa parte; le opere inutili, i politicanti, i professori e i banchieri del governo dall'altra.
Ancora arresti, ancora provvedimenti ad orologeria, 2 giorni prima di una manifestazione NO TAV che si svolgerà sabato 28 nella città di Torino per informare sulla truffa colossale del TAV, fonte inesauribile di nuovo debito pubblico, per noi, nuovo mangime per la pappatoria della politica (citazione del Giudice Imposimato), per quelli che stanno dall'altra parte.
Una ferrovia da 130 milioni a km a preventivo, 1300 a centimetro, un colossale spreco di risorse pubbliche per un'opera che non serve e che è già tecnicamente obsoleta anche se viene maldestramente venduta come icona della modernità dai faccendieri, lobbisti e corte politica.
La madre di tutte le truffe, capace di infiltrare non solo la politica corrotta, ma anche gran parte della carta stampata e alcuni settori dell'industria, generando contemporaneamente illusioni in tanti piccoli padroncini e tanti disoccupati. Una truffa che ha una sponda irresponsabile nella UE che promette briciole di finanziamento. Un'opera in grado di muovere più denaro che terra, di cui le grandi banche sono i principali beneficiari dal momento che i capitali dati in prestito produrrebbero enormi interessi con rischio pari a zero visto che i capitali utilizzati sono i nostri depositi bancari e a garantire le banche ci sarebbe lo Stato, cioè sempre gli stessi, noi contribuenti, coi nostri risparmi che copriranno i loro interessati debiti.
Una torta spartita tra chi ha la pancia già piena che se la ride pensando ai cittadini che la finanziano e ne pagheranno i costi per decenni. Diciamocelo, pagare non sarebbe neppure un dramma, ma un conto è pagare per avere servizi efficienti, un altro se dobbiamo pagare lo spreco studiato compiutamente a tavolino, un colposo tentativo di drenare risorse togliendole a scuola, sanità, trasporti, pensioni per fregare noi che lavoriamo che stiamo di qua e arricchire loro di là... Un piano delinquenziale che mira semplicemente a trasferire risorse dentro le tasche delle banche, dei Contraenti generali e loro amici, nelle saccocce delle imprese mafiose, sicuramente in quelle di molti politicanti corrotti.
Ormai sappiamo che i politici in buona fede favorevoli all'opera non esistono.
LA POLITICA E' UN'ALTRA COSA.
Sia chiaro, non c'è nulla di politico in queste nostre considerazioni, il concetto è troppo semplice: quando ti viene un ladro in casa e ti ruba tutto non stai a guardare se era di destra o di sinistra. E' un ladro, un malvivente. Si tratta di un'opera pubblica di cui non si sa ancora nulla, neppure se è realizzabile, e nel caso non prima del 2030. Un'opera da 10, 20, 30, forse 40 miliardi di Euro (80.000 miliardi di lire)che invece di creare benessere provocherà ulteriore debito pubblico. Non si tratta solo di truffa e furto, ma di un'organizzazione delinquenziale specializzata che ha lo scopo di prolungare il furto nel tempo. Semplifichiamo per analogia: è come per la Salerno Reggio Calabria, dove a nessuno importa nulla dell'opera e della sua utilità, ma ai soliti noti interessa solo che i finanziamenti pubblici, pagati dai cittadini si prolunghino all'infinito. Il Professor Angelo Tartaglia ha chiarito con una battuta: “Vogliono solo aprire il rubinetto, e tenerlo aperto all'infinito”. La “Salerno - Reggio Calabria del Nord”....
NON SI PUO' APPROVARE UN SIMILE PROGETTO.
C'è molto di politico quando invece si parla di “prescrizioni”. Le prescrizioni ad un progetto come quello della tratta internazionale della Torino Lyon hanno due particolarità: 1) Evidenziano gravi mancanze progettuali causando una enorme lievitazione dei costi. 2) Vengono richieste dagli organi di controllo tecnici e ribadite dai decisori politici. Ognuno ha fatto formalmente il suo compito, ma nessuno controlla che le prescrizioni vengano rispettate. Controllori e controllati sono lo stesso soggetto, coincidono con i costruttori... Un bel timbro e via? Come se non bastasse la Magistratura può intervenire solo a “danno conclamato”, non prima.
LE PRESCRIZIONI, ESPRESSIONE DI UN DISASTRO ANNUNCIATO.
A nessuno deve sfuggire che la Commissione VIA ha dato parere favorevole al progetto sulla tratta tra Chiusa San Michele ed il confine di Stato condizionandolo all'ottemperanza di 63 prescrizioni e 6 raccomandazioni di tipo ambientale. Lo strano è che nella fase successiva di approvazione la regione Piemonte ha approvato lo stesso progetto condizionandolo a oltre 150 prescrizioni. Tante prescrizioni equivalgono ad un progetto fatto coi piedi, per legge andrebbe rifatto, ma cosa fa il CIPE (Comitato Interministeriale Programmazione Economica che deve stanziare le risorse necessarie)? Approva il 3 agosto 2011 lo stesso progetto preliminare, ma con 222 prescrizioni e 5 raccomandazioni “proposte dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti”.
222 prescrizioni, come a dire che quel progetto preliminare ha lacune terribili, forse insanabili... ma approvano. Perché? semplice, se non approvassero la UE bloccherebbe la procedura di finanziamento, le famose briciole. Sta scritto proprio nella delibera CIPE... “al fine di evitare il definanziamento del contributo comunitario assegnato all'opera in esame, si rende necessaria la sollecita approvazione del progetto in esame”.
Possiamo dire che il progetto è da rifare e che chiedere il finanziamento sulla base di queste carte è una truffa? Possiamo ribadire che l'opera non è necessaria visto che la linea attuale è utilizzata al 30%? Possiamo definire questa procedura un grande Bluff?
Ma c'è una terza truffa in questa faccenda. E' facile verificare e lo ha spiegato benissimo Ivan Cicconi, esperto di appalti pubblici: i debiti del TAV sono fuori dalla contabilità nazionale anche se lo Stato viene regolarmente chiamato a ripianarli. Una truffa contabile sconosciuta alla UE. Si tratta di tanti debiti, roba da far accapponare la pelle, ma vengono contabilizzati a parte. Famosa in tal senso la denuncia della Corte dei Conti che metteva in guardia da questa procedura... Tutto documentato da tempo.
Orbene, sapete che c'è di nuovo? Il Professor Monti, bocconiano doc, professionista politico travestito da tecnico, Presidente del Consiglio di uno “strano governo” fatto di banchieri per nulla pentiti, ha già la soluzione in tasca. I prossimi debiti per infrastrutture cercheremo di finanziarli con Bond europei... almeno così ha detto in TV intervistato da Fabio Fazio alcune settimane fa. Le banche li piazzeranno, come al solito guadagnandoci una bella commissione. E i cittadini sottoscriveranno (se ci sarà ancora liquidità...).
Siamo alla frutta? Forse se la sono già mangiata, ma non disperiamo, continuiamo a ragionare con la nostra testa opponendoci pacificamente ma con fermezza, come sempre, diffondiamo per quanto possibile le nostre ragioni... spieghiamo cosa rappresenta la militarizzazione di Maddalena... spieghiamo perché i pensionati, gli artigiani, i giovani, i contribuenti attenti girano con le bandiere NO TAV. Prima o poi qualche giudice come Falcone e Borsellino risorgerà. Non c'è verso! Comunque la truffa TAV di qui non passerà. Non c'è verso! Lo sanno, perciò vanno in giro nelle case dei contribuenti a perquisire ed arrestare... Nessuno che indaghi sui lacrimogeni sparati in faccia alla gente! SARA' DURA, ma di qui non passeranno.
I palazzinari romani la regola l’hanno imparata negli anni ‘50, prima ancora del piano regolatore della Capitale: inizia a costruire, difendi tutto il cemento che hai messo in piedi, poi qualcosa succederà. È una regola aurea, che, unita a molte altre di bassa cucina di uffici, è quasi sempre vincente. Una regola che è diventata tanto più vincente quando i costruttori, finanziariamente molto liquidi, hanno iniziato a contrattare con un Comune sempre più povero, avendo in tasca una serie di condoni sempre più fantasiosi e una quantità di scheletri di cemento sempre più elevata da far adottare ai piani urbani. Lunedì prossimo il Comune di Roma riprenderà la discussione sull’attuazione del Piano Casa che la Regione Lazio ha approvato dopo una lunga battaglia consiliare nell’agosto scorso. In teoria il Comune dovrebbe porre dei paletti all’enorme deregolamentazione che la maggioranza di centrodestra alla Regione (Polverini, Pdl e anche Udc, che in Campidoglio siede invece all’opposizione) ha messo in pista. In verità, però, con il Piano Casa, si dà il via a un’ulteriore ampliamento delle cubature, ben oltre le previsione del Piano Regolatore Generale, il documento cardine che dovrebbe guidare le politiche urbane dell’amministrazione, tanto più perché approvato appena un paio d’anni fa dalla stessa aula consiliare.
E invece dopo aver ammesso tutta una serie di deroghe al Prg per venire incontro al Piano Casa regionale, la Giunta ha scritto un emendamento, il 5.3, per cui si lascia un’altra strada per sanare altri metri cubi di cemento. La strada passa attraverso i “relitti urbani”. Cosa sono i “relitti urbani”? Sono quei fabbricati spontanei abbandonati e degradati che, all’interno della città, avranno adesso la possibilità di essere “riqualificati”. Il bando, le cui domande sono scadute lo scorso ottobre, prevede che, “limitatamente ai soli edifici esistenti, dismessi o degradati” sia possibile proporre interventi anche “sulle aree agricole, a verde o a servizi pubblici”. Vale a dire che se un costruttore ha edificato un manufatto su un’area sulla quale non doveva esserci e che per via di quello stesso manufatto è andata con il tempo degradandosi, adesso riceverà un premio. Quale? Quello di poter ristrutturare l’immobile, oppure abbatterlo e ricostruirlo, o, ancora “rilocalizzare” i volumi eventualmente demoliti in altre aree che abbiano le medesime caratteristiche di degrado richieste dal bando. Una pacchia.
Questa ulteriore deroga al piano regolatore, i consiglieri capitolini si troveranno a votarla per l’appunto lunedì, quando, con il Piano Casa, si troveranno a certificare che “gli interventi sono comunque applicabili, senza eccezioni, negli ambiti oggetto di proposte di interventi di attuazione dei Bandi di recupero dei Relitti urbani qualora le stesse risultino ammissibili a seguito dal processo valutativo da quelli previsto”. Ma quali sono le proposte che il Campidoglio ha ricevuto su quel bando ormai tre mesi fa? E dove sono? I consiglieri comunali che hanno posto la questione hanno ottenuto per risposta che gli uffici sono ancora in una fase istruttoria, e che quindi a questa domanda non c’è risposta. Vale a dire che il Comune non dice chi ha fatto domanda né dove. Al quartiere Prenestino, sul tema, c’è una certa agitazione. L’area dell’ex Snia Viscosa, che si trova per l’appunto sulla Prenestina, tra il fascio di binari che dalla stazione Termini porta a Tiburtina, pare infatti rientrare a pieno titolo in quel bando. Non è l’unica (e nessuno sa se il proprietario ha chiesto di accedere al bando), ma forse può spiegare più di ogni altra di cosa parliamo.
Negli anni ‘80, il costruttore Antonio Pulcini (quello che anni dopo darà vita alla grande lottizzazione delle Terrazze del Presidente di Acilia), ottiene di poter costruire un palazzo in quell’area che, abbandonata dalla fabbrica chimica, era destinata - già all’epoca - a verde pubblico e servizi.
Qualcuno, al Comune, aveva combinato un marchiano “errore”, se così lo si vuol chiamare, tratteggiando un’area verde con i colori del terreno edificabile. Pulcini, legittimato dalla nuova colorazione, costruisce, trova prima nel sottosuolo la fogna della Marranella, poi, addirittura una fonte d’acqua che sommerge i primi tre piani dell’edificio dando vita a un bizzarro laghetto urbano con vista sui capannoni di fabbrica. Dal lago esce l’ecomostro, altri quattro piani di scheletro di cemento. Fu solo allora che l’assessore all’Urbanistica bloccò la concessione, cassò l’errore (che stranamente compariva solo sul piano regolatore depositato in Campidoglio), e, con apposita ordinanza, nel 1993, ne sancì la demolizione.
Tra un ricorso e l’altro passano diversi anni, fino a quando, nel luglio 2010, il Tar del Lazio, vista la scarsa opposizione del Comune di Roma e della Regione Lazio (la sentenza recita: “l’Amministrazione tace sul punto, avendo omesso ogni utile accertamento al riguardo”), accoglie parzialmente la richiesta del costruttore di annullare quell’ordinanza. È il primo passo per il quale, in caso di esproprio dell’area, il soggetto pubblico dovrà farsi carico non solo del terreno, ma anche dell’edificio abusivo.
In questi anni, quell’area, che nei piani del Comune aveva una vocazione universitaria non lontana dalla sede de La Sapienza - è rimasta bloccata tra un progetto di riqualificazione che prevedeva la costruzione di aule e residenze per studenti, e la difficoltà di trovare una soluzione che mettesse d’accordo università, costruttore, Comune e comitati di quartiere.
In questo limbo, l’area non ha trovato una destinazione e adesso ospita un parco pubblico di modeste dimensioni, una serie di corpi di fabbrica in uno stato di conservazione più o meno decente e uno scheletro di piscina mai finito, regalo degli appalti degli ultimi mondiali di nuoto a Roma, ancora sotto inchiesta. Ora, in questo che è già uno dei quartieri con più abitanti nella Capitale, potrebbero arrivare nuove abitazioni.
La Repubblica Milano
Le autostrade della bicicletta
di Alessia Gallione
Un tempo, a disegnare la Milano delle due ruote, c’erano i Raggi verdi: itinerari che, dal centro, avrebbero raggiunto la periferia. Una concezione «radiale», quella dei vecchi Raggi verdi, che il nuovo Pgt dice di voler superare. Progettando una rete di piste ciclabili capillare. Che assume anche altri colori, usati come nomi in codice per definire i tracciati immaginati: dai Raggi rossi come quelli destinati a nascere a Porta Venezia e lungo il Naviglio della Martesana, agli Anelli blu che correranno lungo le tre cerchie dei Bastioni, dei Navigli e della 90/91. fino alle Linee gialle, che dovranno cucire alcuni di questi percorsi principali e che si svilupperanno lungo strade come via Washington o i grandi viali come Corsica, Umbria o Tunisia. Con un obiettivo: far sì che la bicicletta venga utilizzata sempre più come un mezzo di trasporto alternativo e che i chilometri di piste salgano dagli attuali 130 ad almeno 200.
È un studio fatto da Amat, quello contenuto nel Pgt. La filosofia è spiegata nelle risposte del Comune ad alcune delle oltre 2mila osservazioni accolte, che hanno permesso all’amministrazione di modificare il documento urbanistico. Tra le maggiori richieste, infatti, accanto alle decine che invocavano la cancellazione del tunnel Expo-Linate, la diminuzione delle previsioni degli abitanti e delle volumetrie, ci sono anche le invocazioni ad aumentare i percorsi per le due ruote. Come a Porta Venezia, dove un cittadino chiede una pista che colleghi Loreto a San Babila: viene fatta propria dal Pgt anche in nome dei quesiti referendari. Proprio quel tracciato che i tecnici ormai definiscono come la nuova "autostrada" delle biciclette, visto che molti lo percorrono per arrivare in centro. Le future azioni immaginate da Palazzo Marino partono dall’analisi degli spostamenti attuali: in una città ancora dominata dall’auto, che rimane il mezzo di trasporto più utilizzato (copre il 42,4% dei tragitti), quelli in bici rappresentano il 3,8% del totale.
L’obiettivo, nella città del 2030, è di arrivare per quelli interni al 15%. Un traguardo che viene ritenuto raggiungibile visto che, è la premessa, anche i city users «hanno mostrato interesse e disponibilità a cambiare le proprie abitudini per recarsi al lavoro o sul luogo di studio». Ed è proprio per migliorare la mobilità «casa-lavoro» e «casa-scuola», che la rete delle piste è stata ridisegnata in modo più puntuale. Con collegamenti definiti «diretti» e, soprattutto, non soltanto pensati lungo i vecchi Raggi verdi. Certo, le vie radiali rimangono. Anche se, ormai, sono stati riviste e, a definire i nuovi percorsi meglio definiti, adesso ci sono i "Raggi rossi": sono le direttrici che dal centro collegano la periferia. E, solo per citare alcuni esempi, correranno lungo Melchiorre Gioia-Naviglio della Martesana, lungo il Naviglio Grande, lungo Zara-Testi o, appunto, Porta Venezia.
Per capire la nuova programmazione, però, bisogna immaginare anche altre piste, quelle che si svilupperanno lungo le direttrici rappresentate dalle tre cerchie concentriche. Sono definite Anelli blu, come quello che seguirà i Bastioni. Per coprire il più possibile la città, vengono aggiunte le Linee gialle, che serviranno a realizzare diversi punti di interesse. La mappa prevede, tra le altre, la linea che seguirà i viali che portano il nome dell’Umbria o della Corsica, e un’altra direttrice come via Washington. Ma dove verranno trovati i soldi? I tracciati, si dice, potranno essere finanziati anche con gli oneri di urbanizzazione dei vari progetti in corso. In una città che pedala, il Comune promette anche di aumentare il numero delle rastrelliere, costruire «grandi bicistazioni dove gli utenti possano trovare - in corrispondenza delle stazioni ferroviarie - un parcheggio più sicuro, assistenza, informazione e noleggio». Infine, nel regolamento edilizio si propone di affrontare il capitolo degli spazi per parcheggiare bici nei palazzi che verranno costruiti e dell’accessibilità negli spazi pubblici.
Corriere della Sera
Se pedalare a Milano diventa un pericolo per le donne
di Isabella Bossi Fedrigotti
Le signore di Milano, quelle che in numero sempre crescente e in grande maggioranza rispetto agli uomini vanno in bicicletta per fare la spesa, portare i bambini a scuola o raggiungere il lavoro, e che pedalano perché l'automobile la usa l'uomo di casa, perché sulle due ruote si arriva più in fretta senza l'incubo del parcheggio, perché un po' di moto fa bene o perché sono del tipo doverista e vorrebbero che Milano diventasse una città meno trafficata e meno inquinata, non sono più sicure di poter restare fedeli al loro mezzo di trasporto.
Gli incidenti già c'erano, con cadenza quasi regolare, che han visto falciare ciclisti giovani e meno giovani, e la colpa era quasi sempre del traffico troppo intenso e della corrispondente assenza di piste ciclabili. Ora è arrivato anche lo scippo in pieno centro grazie al quale una di queste signore che, con un certo disprezzo, vengono spesso definite (da chi di solito va in automobile) «sciure» o, peggio «sciurete», sta tra la vita e la morte. Non che scippare le cicliste sia una novità: è, anzi, lunghissima la lista di chi si è vista sottrarre la borsetta dal cestino mentre pedalava, ma l'incidente dell'altro ieri sera in piazza della Repubblica fa la differenza perché evidenzia il fatto che pedalando si è comunque in pericolo e che vita o morte dipendono da quasi nulla, da un abbordaggio un po' più brutale, da un gesto dello scippatore più o meno brusco.
Né i tempi promettono, purtroppo, meno violenza nell'immediato futuro. La crisi economica eventualmente scatena, infatti, anche i principianti, nuovi malviventi senza curriculum, senza esperienza, incapaci di misurare i rischi che comporta uno «strappo» in motorino ai danni di un pedone o di un ciclista e, dunque, precipitosi e rozzi, con le conseguenze che abbiamo visto l'altra sera. Ma si è anche visto, ancora una volta, che, dopo gli anziani, sono le donne che nelle strade e nelle piazze corrono i rischi maggiori. Ed è ovvio che, più sono coraggiose, più sono decise, più lavorano sodo fuori casa, anche di sera tardi, più sono in pericolo. L'ex sesso debole, insomma, quello che, almeno in teoria, fa così tanta paura agli uomini, che fa loro dura concorrenza in sempre più numerosi campi, assai più di loro resta comunque vulnerabile.
Perché non è soltanto una questione di bicicletta. Anche le signore meno coraggiose, che mai pedalerebbero la sera nel traffico, che, quando vanno a piedi, rasentano i muri lungo i marciapiedi, o che viaggiano sui mezzi pubblici, non possono stare così tranquille. Passino il tram oppure l'autobus, dove per lo meno c'è un autista, ma perché una ragazza o signora si decida a scendere nei corridoi della metropolitana dopo una certa ora, deve proprio non avere altra scelta. Paradossalmente, il mezzo che fa sentire le donne più protette resta l'automobile, della quale gli amministratori vorrebbero il più possibile liberarsi. Conviene forse che lo tengano presente nelle loro politiche tese a disincentivarne l'uso, perché la sicurezza passa prima dei problemi di traffico e molto prima di quello delle polveri sottili.
C’è un aspetto che qui voglio deliberatamente trascurare, ed è quello pur essenziale dei comportamenti: la signora violentemente scippata di cui parla Isabella Bossi Fedrigotti, teneva in bella vista sul cestino la borsetta, e in quanto ciclista urbana abituale probabilmente si rendeva conto di correre un rischio, sino a che punto? Sino a che punto, cioè, nella metropoli contemporanea sono leciti e praticabili (chiedendo poi a gran voce interventi sulla sicurezza) comportamenti come quelli di chi ad esempio attraversa certi quartieri ostentando auto di lusso e orologi d’oro massiccio penzolanti dal finestrino aperto?
Si tratta però, appunto, di tema di per sé complicatissimo, e accantoniamolo momentaneamente. Resta il rapporto fra la scelta apparentemente “minimalista” degli interventi sulla ciclabilità, e l’idea complessiva di spazio urbano, sicurezza, composizione funzionale, e conseguenti scelte urbanistiche (quelle relative alle regole generali sullo spazio fisico, per distinguerle dal resto). Ci si muove per andare da un posto all’altro, attraversando altri spazi: cosa c’è là dentro? Perché e come ci si muove? Non sono domande banali, perché esistono differenze radicali fra lo spazio di un quartiere misto, quello di una zona ad elevata specializzazione, la classica zona a monocoltura residenziale, e poi il momento della giornata in cui avviene lo spostamento.
Sta nella consapevolezza reale di tutte questa varianti, l’idea di città condivisa, e non nei confusi aneliti alla metropoli “a misura d’uomo” che quasi sempre nasconde stereotipi campati per aria, che siano gli spazi di eccellenza per pochi super protetti (la declinazione preferita del centrodestra securitario) o l’impraticabile caricatura del centro storico che fu, cara a tanti che ahimè si credono progressisti e di sinistra. Tanto per fare un piccolo esempio: che spazio può avere in questo contesto la deregolamentazione, o profonda riorganizzazione qualsivoglia, degli orari di commercio e servizi? Lo sa anche un bambino tonto, che ci sono solo due modi per garantire la sicurezza urbana e una buona qualità spaziale, il primo è un uso continuo degli spazi, il secondo è la loro graduale militarizzazione, in un modo o nell’altro.
In definitiva, e da un punto di vista che vorrebbe stare ad anni luce di distanza da certe tragicomiche idee ampiamente praticate dal centrodestra, immaginare che la città giusta e equa, sostenibile, ciclabile, “a misura d’uomo”, possa assomigliare al piccolo borgo felice campato in aria di certi spot pubblicitari, fa venire qualche brivido. Non per paura di finire in quel modello, ma perché si tratta, che piaccia o meno, di un vicolo cieco. E che come tale, richiede … ehm, una certa vigilanza (f.b.)
Ci si attendevano dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali segnali di novità, di discontinuità, che invece tardano ad arrivare. Ve ne sono semmai di segno contrario. E' di pochi giorni or sono la nomina di una "amministrativa", peraltro stimata, Maddalena Ragni, alla direzione generale che da qualche anno accorpa, nientemeno, i Beni artistici e storici e quelli architettonici. E' la prima volta dalla più recente riforma del MiBAC che viene nominato un dirigente di estrazione amministrativa. Gli storici dell'arte - un tempo colonna portante del Ministero - sono come scomparsi dal suo vertice. A Roma, dopo anni di commissariamento, è ancora da coprire il posto di titolare della Soprintendenza speciale di Roma e Ostia Antica che tutela a fatica decine di migliaia di ettari. E' di due giorni fa il documento degli archeologi romani che chiedono direttamente al ministro Ornaghi di nominare al più presto il nuovo soprintendente "fra gli archeologi di più alta professionalità tecnico-scientifica". Perché? Perché voci fondate darebbero infatti per favorito al Collegio Romano un architetto e non un archeologo. Per ragioni che con la professionalità non hanno molto a che vedere. Forse perché gli archeologi della Soprintendenza romana - i quali reclamano anche assunzioni di personale qualificato e lo sblocco di 32 milioni di euro già stanziati - avevano coraggiosamente protestato contro un commissariamento molto discusso.
C’è un modo radicale di risolvere l’annosa disputa (tornata d’attualità col pasticcio del Colosseo) sul ruolo dei privati nella gestione del patrimonio storico e artistico pubblico: alienarglielo direttamente. Voleva farlo il governo Berlusconi, ora lo stanno facendo, alla spicciolata e lungo tutta la Penisola, enti di ogni tipo e di ogni colore politico.
A Venezia il Comune vende a Miuccia Prada un pezzo pregiato del Canal Grande: Ca’ Corner della Regina. Una sorta di versione radicale della privatizzazione della Punta della Dogana, ceduta (temporaneamente) al bilionario Pinault. Si potrà discutere all’infinito su chi possa garantire la miglior tutela e il miglior godimento del palazzo (se, cioè, il ricchissimo privato o il comune sempre in bolletta): ma bisogna sottolineare che il Comune ha usato i 40 milioni di Prada per risanare il bilancio ordinario, non per realizzare qualcosa di durevole (un asilo o un ospedale, per esempio). In altri termini, la generazione presente decide di sottrarre a quelle future un bene comune per ricavarne un fuggevole beneficio una tantum.
A Parma l’Ospedale Vecchio, fondato nel 1476 e di proprietà del Comune, è stato affidato a un’impresa locale attraverso lo strumento del project financing, che prevede l'affidamento al privato del 44% della struttura per ventinove anni. Il risultato è che si pensa di realizzarci un albergo e un centro commerciale, mentre l’Archivio di Stato di Parma, ospitato dall'ultimo dopoguerra nell'Ospedale, è stato trasferito in periferia e la Biblioteca Civica giace pressoché abbandonata.
A Firenze, lo strombazzatissimo Anno Vespucciano (cioè le celebrazioni per il quinto centenario della morte di Amerigo Vespucci) si apre in modo tragicomico con la notizia che l’Ospedale di San Giovanni di Dio, cioè la viva eredità della famiglia Vespucci a Firenze, è stato venduto (con tutte le opere d’arte e le testimonianze storiche che contiene) dalla Asl ad una società privata. Nell’anno 1400 Simone Vespucci, il prozio di Amerigo, dispose in testamento che tutte le sue case di Borgo Ognissanti fossero trasformate in un ospedale, a beneficio della popolazione. La filantropia di Simone si irradia fino al 2012: ma non andrà oltre, perché – in nome di un presente onnivoro – decidiamo di tagliare questo prezioso filo di senso civico che lega il passato al futuro. E anche in questo caso, la Asl non investirà il ricavato in qualche progetto duraturo (magari nel restauro della Villa di Careggi di Lorenzo il Magnifico, che le appartiene e che va in rovina), ma lo userà per ripianare il bilancio ordinario, sommando danno a danno.
Sempre a Firenze, la Facoltà di Architettura sta vendendo a privati il Palazzo San Clemente «il quale – scriveva Giorgio Vasari nel 1568 – per ricchezza di diverse varie fontane … non ha pari in Fiorenza, né forse in Italia». Risulta che la destinazione d’uso potrebbe cambiare radicalmente: da sede dei Dipartimenti di Costruzioni e Restauro, e di Urbanistica e Pianificazione del Territorio (nonché di buona parte della biblioteca e di alcuni importanti archivi storici), a sede di un albergo di lusso. E cioè: da luogo dove si impara a tutelare e conservare l’architettura del passato, ad architettura essa stessa stravolta e violata per essere suddivisa in camere. E ancora: da luogo dove si studia la più virtuosa distribuzione dei nostri preziosi spazi storici, a spazio esso stesso privatizzato; da luogo votato al reddito culturale collettivo, a luogo deputato a produrre reddito monetario privato.
A Pisa è l’Ospedale dei Trovatelli, praticamente in Campo dei Miracoli, ad essere venduto con tutti i suoi beni. Il 16 dicembre scorso l’asta (24 milioni di base) è andata deserta, e alla prossima il complesso (che appartiene alla Asl) verrà battuto con un ribasso del 10%, per poi passare alla trattativa privata. La probabile trasformazione in albergo potrebbe mettere a rischio lo splendido edificio e le opere che contiene, tra cui la ruota cinquecentesca su cui venivano esposti i bambini, ricollocata all'interno. Continuiamo a scendere: in Lazio il Comune di Priverno (Pd) ha appena messo in vendita l’edificio nel quale è ospitato il Museo Medievale di Fossanova, che è l’antica foresteria della gloriosa Abbazia in cui è morto san Tommaso d’Aquino. Il destino del museo è probabilmente quello di tramutarsi in un ristorante, e per ottenere una deroga al vincolo della legge regionale attraverso cui è stata finanziata la realizzazione del museo si dovranno esporre altrove le opere: dove, ancora non è dato saperlo.
Concludiamo, in gloria, nella Campania in cui tutto è possibile. Va in vendita il Casino reale di Carditello, una delle residenze extraurbane preferite da Carlo di Borbone e Ferdinando IV, decorata da artisti come Philipp Hackert e Fedele Fischetti e già centro di una complessa azienda agricola, ma oggi teatro di spettacolari discariche di monnezza. Carditello appartiene al Consorzio di bonifica del Volturno, che è indebitatissimo nei confronti del Banco di Napoli, cioè di Banca Intesa: nel prossimo marzo il complesso sarà battuto all’asta, se la Regione Campania non troverà 9 milioni di euro.
Si potrebbe continuare a lungo, fino a disegnare una mappa della inarrestabile trasformazione che, convertendo la ricchezza del popolo italiano in ricchezza privata, inverte un secolare processo di civilizzazione.
E il messaggio di quella mappa è chiarissimo: la recessione economica sta diventando regressione culturale.
Titolo originale: Why Portland's Public Toilets Succeeded Where Others Failed - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Per gli abitanti di Portland, Oregon, una capatina al gabinetto pubblico non è solo questione di bisogno: è un vero e proprio atto di orgoglio cittadino. Tutto per via del Portland Loo, particolarissimo gabinetto da strada brevettato, che ispira ai suoi appassionati un’adorazione tale da far pensare che l’abbia inventato Steve Jobs in persona. Un’adorazione che regge nonostante quel servizio attivo 24 ore su 24 sia progettato per essere il più possibile inospitale. Un gabinetto certo non fatto per essere amato, ma che a Portland è di sicuro il Numero Uno (probabilmente anche il Numero Due). Un più che prosaico ricettacolo di rifiuti umani che è dotato di proprio blog, account Twitter, pagina Facebook. Qualcuno che odia i gabinetti a giugno ne ha incendiato uno, solo per provocare un vero e proprio assalto a Facebook. “Portland Loo è rock! Quale altra città può vantare gabinetti pubblici a prova di incendio?” scrive Laura Mears, e aggiunge Charlie Clint “Lo raccomando a tutti quelli che incontro: straordinario quanto sia solido! (woo hoo)”.
Una recensione del nuovo gabinetto in Jamison Square pubblicata da Yelp è intitolata “Mitico” e trabocca di amore. “Credo proprio che passerò da lì a lasciarci un ricordino al più presto” scrive Andrew C. Il 31 gennaio l’amministrazione di Portland tiene a battesimo il quinto gabinetto della città, all’incrocio fra Couch Street e l’Ottava Avenue, con un inaugurale colpo di sciacquone. Arricchito dai lavori artistici della vicina scuola elementare Emerson, potrebbe anche diventare il più famoso di tutti. Ma come sono riusciti questi piccoli bugigattoli di metallo e plastica, che magari puzzano pure on po’ di orina, a diventare un oggetto di culto fra gli appassionati di Portland? Facile: non sono dei pasticci come successo in altre città. Basta pensare ad esempio ai gabinetti da strada autopulenti di San Francisco. Subito carichi di problemi di manutenzione, sin da quando si sono inaugurati nel 1995. Qualcuno non funziona proprio, altri puzzano al punto che qualcuno li ha paragonati alla carcassa di un bisonte morto da una settimana.
Poi ci sono i bagni automatici di Seattle: un vero disastro. L’amministrazione avrebbe speso meglio quei cinque milioni di dollari anche pagando l’ingresso con consumazione a un locale Starbucks. Erano progettati in modo che chiunque poteva chiudersi dentro, trasformandoli nel proprio reame. La spazzatura si accumulava sul pavimento rendendo inutile il sistema automatico di pulizia. Alla fine dell’esperimento, nel 2008, anche i tossici avevano smesso di usare i gabinetti di Seattle. Volendo li si può ancora comprare a prezzi stracciati su eBay. Quando qualche politico a Portland ha cominciato a pensare a un proprio esperimento di gabinetto da strada, la prima cosa è stata quella di dare un’occhiata alle macerie fumanti delle altre varie esperienze simili della West Coast, prendendo accuratamente appunti. “Abbiamo considerato quello di Seattle come percorso da non seguire” ricorda Anna DiBenedetto, collaboratrice dell’assessore Randy Leonard, padre spirituale del Portland Loo. “Siamo convinti che l’errore fatale lì sia stato il tipo di progettazione. Cercare comodità e riservatezza fa sì che la gente poi si senta autorizzata a comportamenti scorretti, quelli soliti nei gabinetti pubblici”.
Così nel 2006 l’assessore Leonard ha riunito un super elitario Gruppo Gabinetti, a cui apparteneva anche il progettista di punta Curtis Banger, per realizzare il modello perfetto per la gente. Si è lavorato senza sosta – salvo quando si andava in bagno naturalmente, anche se non era un bagno perfetto – per ideare uno spazio interno in grado di scoraggiare soste troppo lunghe, anzi di spingere ad andarsene il più in fretta possibile. E due anni più tardi, il duro lavoro ha finalmente partorito il primo Portland Loo del mondo, collocato nel Vecchio Quartiere-Chinatown. Nonostante fosse proprio di fianco a una stazione degli autobus Greyhound, ad oggi resta ancora lì: una resistenza che si può attribuire senza dubbio all’idea base di spazio difendibile. “La cosa che ci mette un passo avanti rispetto ad altri tipi di gabinetto, è aver capito quanto alla gente piaccia far cose tremende” nei bagni pubblici, spiega la DiBenedetto. Così il Portland Loo è attrezzato di una serie di accorgimenti proprio per controllare certa utenza degenerata:
• Niente acqua corrente all’interno: “C’è gente, i senza casa per esempio, che usa i lavandini per farci il bucato” spiega la DiBenedetto. Così niente lavandino, solo un cannello esterno da cui esce acqua fredda.
• Niente specchio: La gente gli specchi spesso li rompe. Anche più di frequente se non trova acqua corrente a portata di mano.
• Sbarre sopra e sotto: Fa sembrare il gabinetto una specie di gabbia per gorilla, ma si tratta di aperture che possono rivelarsi di grande importanza. Un poliziotto può guardar dentro in basso e verificare che non ci siano più di due piedi per volta. Attraverso le aperture i rumori si diffondono senza ostacoli, chi passa fuori sente sospiri e sciacquii di chi sta dentro, chi sta dentro ascolta i passi e le conversazioni. Insomma nessuno ha la tentazione di star da quelle parti a lungo.
• Rivestimento a prova di graffiti: Non ci scarabocchierà sopra nessuno, a quelle latrine.
• Pareti e porte di solido acciaio inossidabile: “L’abbiamo pensato con l’idea che qualcuno potrebbe prenderlo a mazzate” continua la DiBenedetto. “Se ci sono dei danni, si può sostituire l’elemento”.
Sinora, il gesto più frequente dei malintenzionati pare quello di spaccare il bottone dello sciacquone, probabilmente usando qualche genere di attrezzo. Tutte queste caratteristiche espressamente rivolte ad atteggiamenti psicologicamente tipici fanno parte della domanda di brevetto n. D622,408 S presentata da Leonard e registrata nel 2010. Il gabinetto ha anche il discutibile onore di essere il primo brevetto della città di Portland. Il primo esemplare è costato circa 140.000 dollari. Per quelli successivi si è scesi a 60.000, più 12.000 dollari l’anno di manutenzione ciascuno. Portland ne ha anche venduto uno all’amministrazione di Victoria nella Colombia Britannica, a poco meno di 100.000 dollari. E si spera di piazzarne altri con la ripresa economica. L’idea di veder spuntare Portland Loo agli angoli delle strade di tutta l’America entusiasma la DiBenedetto, che non è solo una dipendente espressamente pagata per promuoverli, i gabinetti, ma anche una loro soddisfatta utente. “Quando sono in macchina con degli amici e passiamo vicino a uno si dice sempre ecco un gabinetto!. Dentro si prova una sensazione strana, fredda, viene da pensare: Wow, sto troppo vicino al marciapiede, mi possono sentire tutti che faccio pipì, ma è straordinario lo stesso”
Titolo originale: Settlers who went too far - even for Netanyahu - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Itai Harel scruta il deserto roccioso dei Monti di Giuda e ci invita a “guardare questa meravigliosa terra libera sino a Gerusalemme, che aspetta i suoi figli che la vengano a costruire e ad abitare”. Uno dei rari momenti in cui Harel, trentottenne operatore sociale, si fa poetico mentre spiega perché è venuto a stare, insieme alla moglie, ai sei figli, e altre cinquanta famiglie, in questo avamposto recintato in cima a una collina della West Bank a est di Ramallah. Stando qui di fianco alle stalle che Harel utilizza efficacemente come centro per la terapia ippica, è davvero difficile pensare che la Corte Suprema di Israele ha ordinato l’evacuazione e demolizione di tutto entro circa due mesi. E che questo avamposto si è trasformato nel crogiolo di una nuova prova di forza politica e legale, tale da determinare la posizione del governo israeliano sui limiti aglio insediamenti ebrei illegali nella West Bank.
In una pacifica mattinata d’inverno i bambini si arrampicano sugli scivoli nel campo giochi di un asilo. La torre dell’acquedotto, i pali della corrente elettrica, la strada che arriva serpeggiando fino in cima alla collina, tutto sta a testimoniare la generosità dei sostegni governativi alla comunità, cinque milioni di euro circa, per stabilirsi qui dieci anni or sono. Ci vengono anche in pattuglia i militari dell’esercito. Ma è il paradosso di Migron: non c’è nulla di legale. Nessuna norma internazionale, di quelle che la maggior parte dei governi democratici accusa Israele di violare sistematicamente con gli insediamenti nei territori occupati. Così come avvenuto con un altro centinaio di complessi illegali, spuntati a partire dagli anni ‘90 aggirando l’impegno dello stato a non realizzarne più, non hanno alcuna base nel diritto. Anche i ministeri, e la Corte Suprema, confermano come Migron sia costruita su terreni di proprietà privata di famiglie palestinesi dei vicini villaggi di Burqa e Deir Dibwan, quindi doppiamente illegale.
Nella sentenza, emessa dopo infinite promesse non mantenute di evacuare gli abitanti di Migron, il giudice Dorit Beinisch, dichiara inequivocabilmente che “speriamo gli abitanti [di Migron] accettino la necessità di evitare comportamenti violenti, ristabilendosi altrove, in luoghi dove ciò è consentito”. Harel ha un aspetto che è proprio difficile classificare come “da violento”, e ribadisce la volontà di cercare una soluzione pacifica. Ma non vacilla per un attimo la sua fede ideologica nel diritto di potersi stabilire dove vuole nella West Bank. “Sa, mio padre è sopravvissuto all’Olocausto, suo fratello minore è stato ucciso. Ha cercato dopo la guerra di venire in Israele insieme alla famiglia, quando aveva sei anni, gli inglesi li hanno mandati a Cipro. Ha combattuto alla liberazione di Gerusalemme [nella Guerra dei Sei Giorni del 1967]”. Harel crede che siano i cittadini, non i tribunali, a dover decidere il destino della terra: “Rappresenta la mia storia. É la terra dei miei padri, oppure un territorio occupato? Gli israeliani sanno già la risposta”.
La sentenza della Corte Suprema evoca lo spettro dell’evacuazione, forse con più violenza di quanto successo nel 2006, quando furono sgomberate nove abitazioni in un altro avamposto illegale, Amona, verso cui si diressero migliaia di coloni di destra. Qui dopo la demolizione di tre case ci sono state una serie di “ritorsioni” da parte dei coloni, ovvero attacchi vandalici e incendi nelle moschee di villaggi palestinesi (gli abitanti di Migron ribadiscono di essere totalmente estranei a queste cose). Il governo Netanyahu ora propone un “compromesso”, secondo il quale l’avamposto si dovrebbe spostare di circa due chilometri. Ovviamente ancora in territorio occupato, ma su terreni che ufficialmente sono di “proprietà statale. Hagit Ofran, dell’associazione Peace Now, crede che lo spostamento sia solo un modo per guadagnare tempo. E spiega: “I pratica il governo israeliano così ufficializza un nuovo insediamento, e manda un messaggio, se rubi terra ai palestinesi senza autorizzazione, e minacci di usare la violenza, noi ti costruiamo un villaggio a spese del contribuente. É una vergogna”.
Vergogna o no, i coloni non hanno ancora accettato l’offerta, sostenuti dall’ala di destra della coalizione che sostiene Netanyahu, e che chiede invece di legalizzare gli insediamenti: secondo Peace Now così “spingendo i coloni a continuare nella costruzione di insediamenti senza permesso, a creare fatti compiuti”. A pochi chilometri di distanza, nel villaggio di Burqa, Abdel Khader Mohammed Samarin, 72 anni, esponente dei proprietari di terra palestinesi che hanno presentato istanza alla Corte Suprema, osserva la bella valle che divide l’insediamento palestinese da Migron. Samarin ci ha rimesso circa otto ettari, dei 200 complessivi occupati dall’avamposto: “Voglio rivolgermi a Tony Blair in quanto presidente del Quartet, perché obblighi Israele a restituirci quella terra. Faccio appello al mondo intero. Ma non ho molte speranze. Credo che non lo faranno mai”. Almeno su questo punto, è d’accordo anche Harel. “Torni qui quest’estate quando fa più caldo, la porterò a fare un giro a cavallo. A Migron”.
La battaglia per la terra
Gli insediamenti sono fonte di continui scontri fra Israele e i palestinesi, un problema che tocca aspetti politici, religiosi, territoriali. Sono più di mezzo milione i coloni ebrei che – sostenuti da vari governi israeliani – si sono stabiliti fra West Bank e Gerusalemme Est, occupati con la Guerra dei Sei giorni del 1967. Insieme a Gaza, queste zone sono considerate la base del futuro Stato di Palestina, e la comunità internazionale considera illegali gli insediamenti, un ostacolo per la pace. La loro rapida espansione ha portato molti a disperare nelle possibilità della soluzione due popoli due stati. Israele vorrebbe che i più grandi restassero comunque territorio israeliano, idea criticata perché così secondo molti si creerebbero dei “bantustan” palestinesi, spazi isolati di autogoverno, nella West Bank.
I coloni, determinati a sostenere le pretese israeliane sulla West Bank, sono spinti da motivazioni economiche così come religiose. Molti considerano la West Bank parte del diritto storico. Ancora più intricata la questione di Gerusalemme Est, che i palestinesi vorrebbero capitale del futuro stato. Israele rivendica sovranità su Gerusalemme, e sono 250.000 i coloni che vivono nella sua fascia orientale dominata dalle popolazioni di origine araba. Gli avamposti – villaggi abbastanza improvvisati realizzati senza autorizzazione ufficiale israeliana – si sono dimostrati una spina nel fianco per lo stato di Israele. Migron, costruito su terreni di proprietà privata palestinese, è il principale. Secondo la road map approvata con gli auspici dell’amministrazione Bush nel 2003, Israele si impegna a demolire tutto quanto costruito dopo il 2001. Fra cui appunto Migron, ma tutti i tentativi sono stati sinora contrastati dalla destra, coi coloni schierati contro lo stato che vorrebbe smantellare gli insediamenti.
Vi sono due punti nel decreto sulle liberalizzazioni che meritano d'essere sottolineati per il loro notevole significato di principio.
Il primo riguarda l'eliminazione della norma che, vietando ai Comuni di costituire aziende speciali per la gestione del servizio idrico, contrastava visibilmente con il risultato del referendum sull'acqua come bene comune. Abbandonando questa via pericolosa e illegittima, il governo non ha ceduto ad alcuna pressione corporativa ma ha fatto il suo dovere, rispettando la volontà di 27 milioni di cittadini. Certo, la costruzione degli strumenti istituzionali necessari per dare concretezza alla categoria dei beni comuni incontrerà altri ostacoli nel modo in cui lo stesso decreto disciplina nel loro insieme i servizi pubblici. Ma il disconoscimento di una volontà formalmente manifestata con un voto avrebbe gravemente pregiudicato il già precario rapporto tra cittadini e istituzioni, inducendo ancor di più le persone a dubitare dell'utilità di impegnarsi nella politica usando tutti i mezzi costituzionalmente legittimi.
Vale la pena di aggiungere che questa scelta può essere valutata considerando anche l'annuncio del ministro Passera relativo all'assegnazione delle frequenze, da lui definite nella conferenza stampa come “beni pubblici” di cui, dunque, non si può disporre nell'interesse esclusivo di ben individuati interessi privati. Senza voler sopravvalutare segnali ancora deboli, si può dire che il ricco, variegato e combattivo movimento per i beni comuni non solo ha riportato una piccola, importante vittoria, ma ha trovato una legittimazione ulteriore per proseguire nella sua azione.
Questa associazione tra acqua e frequenze non è arbitraria, poiché la ritroviamo nelle proposte della Commissione ministeriale sulla riforma dei beni pubblici. Si dovrebbe sperare che i partiti non continuino soltanto a fare da spettatori alle gesta del governo, ma comincino a rendersi conto delle loro specifiche responsabilità. Tra queste, oggi, vi è proprio quella che riguarda una nuova disciplina dei beni, per la quale già sono state presentate proposte in Parlamento, e che è indispensabile perché le categorie dei beni corrispondano a una realtà economica e sociale lontanissima da quella che, sessant'anni fa, costituiva il riferimento del codice civile. Se questa riforma fosse stata già realizzata, non sarebbe stata possibile la vergogna del “beauty contest” sulle frequenze. E ci risparmieremmo molte delle approssimazioni su una via italiana al risanamento che contempli massicce dismissioni di beni pubblici, quasi che la loro vocazione sia solo quella di far cassa e non la realizzazione di specifiche finalità che le istituzioni pubbliche non possono abbandonare.
Tutt'altra aria si respira quando si considera l'articolo 1 del decreto. Qui non si trova uno dei soliti inutili e fumosi prologhi in cielo che caratterizzano molte leggi. Si fanno, invece, tre inquietanti operazioni: si prevede l'abrogazione di una serie indeterminata di norme, affidandosi a indicazioni assai generiche, che attribuiscono al governo una ampiezza di poteri tale da poter sconfinare quasi nell'arbitrio; si impongono criteri interpretativi altrettanto indeterminati e arbitrari; soprattutto si reinterpreta l'articolo 41 della Costituzione in modo da negare gli equilibri costituzionali lì nitidamente definiti. L'obiettivo dichiarato è quello di liberalizzare le attività economiche e ridurre gli oneri amministrativi sulle imprese. Ma la via imboccata è quella di una strisciante revisione costituzionale, secondo una logica assai vicina a quella di tremontiana memoria, poi affidata a uno sciagurato disegno di legge costituzionale sulla modifica dell'articolo 41, ora fortunatamente fermo in Parlamento.
Indico sinteticamente le ragioni del mio giudizio critico. Le norme da abrogare vengono individuate parlando di limiti all'attività economica “non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità”; e di divieti che, tra l'altro, “pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate”. Tutte le altre norme devono essere “interpretate e applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato rispetto alle perseguite finalità di interesse pubblico generale”.
Non v'è bisogno d'essere giurista per rendersi conto di quanti siano i problemi legati a questo modo di scrivere le norme. Non è ammissibile che l'”interesse pubblico generale” sia identificato con il solo principio di concorrenza, in palese contrasto con quanto è scritto nell'articolo 41.
Il sovrapporsi di diversi soggetti nella definizione complessiva delle nuove regole può creare situazioni di incertezza e di conflitto. Il bisogno di semplificazione e di cancellazione di inutili appesantimenti burocratici non può giustificare il riduzionismo economico, che rischia di sacrificare diritti fondamentali considerati dalla Costituzione irriducibili alla logica di mercato. Si pretende di imporre i criteri da seguire nell'interpretazione di tutte le norme in materia: ma le leggi si interpretano per quello che sono, per il modo in cui si collocano in un complessivo sistema giuridico, che non può essere destabilizzato da mosse autoritarie, dall'inammissibile pretesa di un governo di obbligare gli interpreti a conformarsi alle sue valutazioni o preferenze. In anni recenti, si è dovuta respingere più d'una volta questa pretesa, che altera gli equilibri tra i poteri dello Stato.
L'operazione, di chiara impronta ideologica, è dunque tecnicamente mal costruita dal governo dei tecnici. Ma, soprattutto, deve essere rifiutata perché vuole imporre una modifica dell'articolo 41 della Costituzione, attribuendo valore assolutamente preminente all'iniziativa economica privata e degradando a meri criteri interpretativi i riferimenti costituzionali alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Questo capovolgimento della scala dei valori è inammissibile. Un mutamento così radicale non è nella disponibilità del legislatore ordinario, e dubito che possa essere oggetto della stessa revisione costituzionale. Quando sono implicate libertà e dignità, siamo di fronte a quei “principi supremi” dell'ordinamento che, fin dal 1988, la Corte costituzionale ha detto che non possono “essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale”. Certo, invocando una qualsiasi emergenza, questo può concretamente avvenire. Allora, però, si è di fronte ad un mutamento di regime. Se ancora sopravvive un po' di spirito costituzionale, su questo inizio del decreto, e non nella difesa di questa o quella corporazione, dovrebbe esercitarsi il potere emendativo del Parlamento.
Un'inedita e clamorosa polemica minaccia di dividere il movimento ambientalista e di spaccare la galassia delle associazioni. Pomo della discordia, la riforma dei Parchi nazionali all'esame del Parlamento, a vent'anni di distanza dall'introduzione della legge 394. E la "querelle" rischia di coinvolgere anche i senatori eco-dem, Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, che stanno seguendo l'iter del provvedimento a palazzo Madama.
Con una pagina pubblicitaria, apparsa ieri sul nostro giornale, il Fondo per l'ambiente italiano (FAI), Italia Nostra, Mountain wilderness, la Lega per la protezione degli uccelli (Lipu)e il Wwf, hanno lanciato un "appello per fermare una riforma inutilee dannosa":a loro giudizio, stravolgerebbe il sistema dei Parchi compromettendone la funzione primaria di tutela ambientale e quindi l'attrattiva turistica. Secondo questo fronte, le modifiche alla legge 394 intendono alterare il delicato equilibrio della "governance" fra i ministeri dell'Ambiente e dell'Agricoltura, del mondo scientifico, delle associazioni e degli enti locali, spostandolo "a vantaggio dei rappresentanti di interessi locali e di settore". E ciò non farebbe che "aumentare la politicizzazione degli Enti Parchi". Le associazioni che hanno lanciato l'appello contro la riforma denunciano poi la "possibilità di cacciare nelle aree protette con la scusa del controllo delle specie aliene". E infine, contestano il "meccanismo di finanziamento degli Enti Parchi con l'introduzione di una royalty o di canoni su alcune attività a elevato impatto ambientale" (la coltivazione di idrocarburi, gli impianti idroelettrici o a biomasse).
Sul fronte opposto, insieme a Federparchi e a Legambiente, si schiera anche la Coldiretti, la principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo, presieduta da Sergio Marini, con un milione e mezzo di associati. In comune, questi tre soggetti manifestano una maggiore attenzione alle esigenze di carattere economico e in particolare a quelle dell'agricoltura.
In difesa della riforma, interviene il presidente di Federparchi, Giampiero Sammuri: «Le modifiche che si stanno delineando sono da giudicare utili e positive». E aggiunge che «i limitati e parziali interventi previsti non sono certo una mannaia sui parchi e sulla loro efficacia gestionale: in alcuni casi possono produrre una maggiore capacità d'azione, in altri migliore chiarezza su strumenti e opportunità, in altri ancora la riaffermazione, rafforzata ed estesa, di competenze e prerogative, come quelle sulla gestione della fauna».
Ancora più dura la replica di Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, in polemica aperta con le cinque associazioni firmatarie dell'appello: «È un ambientalismo alla Walt Disney, più da giovani marmotte che da moderni ambientalisti. Agricoltori ed enti locali non sono il lupo cattivo. Noi non abbiamo nessuna paura di modificare la legge 394/91 sui parchi per rilanciarne la funzione e renderli più efficienti». A suo parere, l'iter parlamentare della riforma «va nella giusta direzione prevedendo provvedimenti che velocizzano le nomine, semplificano la governance degli Enti Parchi, liberano dalle pastoie della cattiva politica e sburocratizzano organismi che rischiano, così restando, di apparire inutili carrozzoni». Di rincalzo, la Coldiretti ribatte che nella legge 394 l'agricoltura ha "uno spazio residuale", mentre le attività del settore rispondono a "logiche di investimento e di sviluppo". Da qui, appunto, la necessità di essere «più coraggiosi al fine di costruire un più deciso collegamento tra sviluppo dell'agricoltura e salvaguardia della natura». Per l'associazione guidata da Marini, insomma, «si tratta di mettere a punto una strategia di valorizzazione del territorio, in cui è possibile inserire la serie delle aree naturali protette che identificano e circoscrivono particolari habitat con tutti i connessi valori naturali e culturali».
RICCHI sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. In Italia l'ascensore sociale si è rotto, le categorie di reddito sono sempre più chiuse e il divario fra classi - invece di diminuire - aumenta. La tendenza accomuna quasi tutte le economie sviluppate, ma da noi la distanza è superiore rispetto alla media dei Paesi Ocse. Uomini e donne non salgono più i gradini della scala sociale e restano aggrappati alla ringhiera anche al momento delle nozze: il matrimonio tende a «polarizzare» i redditi. Il medico sposa quasi sempre il medico, l'avvocato dice «sì» solo all'avvocatessa, l'operaio all'operaia.
Ricchi con ricchi, poveri con poveri: una dura legge che nemmeno la favola bella di Cenerentola riesce a contrastare. Oggi i principi azzurri e le ricche ereditiere non rappresentano più la soluzione del problema: ce lo dice l'Ocse nel suo rapporto« Divided we stand», una spietata analisi sulla crescita delle ineguaglianze sociali presentata ieri all'Istat.
UNO A DIECI Le cifre indicate dallo studio dettano una tendenza netta: nel 2008, anno degli ultimi dati disponibili (e periodo comunque antecedente alla fase più pesante della crisi), il reddito medio del 10 per cento di popolazione più ricco del Paese era di oltre dieci volte superiore a quello del 10 per cento più povero (49.300 euro contro 4.887). A metà degli anni Ottanta il rapporto era di 8 a 1: il gap sta quindi peggiorando. Non è un fenomeno solo italiano, sia chiaro: il divario fra più e meno abbienti, sottolinea l'Ocse, sta aumentano in quasi tutti i paesi europei. Francia a parte dove - come in Giappone - il quadro è rimasto più o meno stabile, il differenziale è salito anche nella ricca Germania e nell'evoluta penisola Scandinava (passando dall'1 a 5 degli anni Ottanta all'attuale 1 a 6). Imbarazzante l'1 a 17 degli Stati Uniti, drammatico - pur se in netto miglioramento - il dato del Brasile dove i più ricchi hanno redditi cinquanta volte superiori a quelli dei più poveri.
I MEGLIO E I PEGGIO PAGATI Più sei pagato, più lavori, più ti arricchisci: a guardare le tabelle dello studio Ocse par di capire che le occupazioni di basso livello difficilmente evolvono e permettono il riscatto. Secondo gli studi dell'Ocse in Italia (ma la tendenza è confermata anche negli altri paesi) quantità e qualità del lavoro vanno di pari passo. Dalla metà degli anni Ottanta ad oggi il numero annuale di ore di lavoro effettuate dai dipendenti meno pagati è passato dalla 1580 alle 1440 ore. Anche fra i lavoratori meglio pagati la quantità è diminuita, ma in minor misura, passando dalle 2170 alle 2080 ore. Faticare, quindi, non basta. Ed essere lavoratore dipendente non aiuta: a differenza di molti paesi Ocse in Italia la diseguaglianza sociale va di pari passo con l'aumento dei redditi dei lavoratori autonomi.
La loro quota sul totale della ricchezza è aumenta, negli ultimi trenta anni, del 10 per cento.
CENERENTOLA E ALTRI RIMEDI Cos'è che fa aumentare la diseguaglianza? Il livello minimo di istruzione, certo, la bassa percentuale di lavoro femminile, lo storico divario fra Nord e Sud.
Ma non basta. Il gap di casa nostra è causato anche dalla tendenza degli italiani a celebrare unioni fra caste: i principi azzurri non vanno più in cerca della loro Cenerentola e questa mancanza di fantasia ha contribuito per un terzo dell'aumento delle diseguaglianze di reddito. Cosa fare per invertire la tendenza? L'estensione dei servizi pubblici non basta più: istruzione, sanità e welfare riducono il gap, ma in modo meno incisivo rispetto al passato (di un quarto nel 2000, di un quinto oggi). La svolta, suggerisce l'Ocse, per l'Italia passa attraverso una riforma del fisco e della previdenza, il potenziamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche di sostegno al reddito.
Ci viene spesso dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e quindi ferree leggi, la sapienza del comando. Quest'arte ruvida, che in democrazia è sempre guardata con un po' di diffidenza, quasi fosse arte legale ma non del tutto legittima. C'è diffidenza perché l'immaginario democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è idealmente padrone di sé, e fantastica di poter fare a meno del comando. Nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità, che del comando è la logica conseguenza, in qualche modo l'ornamento. Ma la responsabilità è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Il comando ha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile. Ancora una volta dal mare, dunque, ci giunge in questi giorni un esempio di cosa sia questo mestiere che impaura ed è al contempo profondamente anelato: il mestiere di guidare gli uomini nelle situazioni-limite, quando tutto, salvezza o disastro, dipende da chi è al comando, sempre che qualcuno ci sia. L'esempio lo conosciamo ormai: ce l'ha dato Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Nella notte del 13 gennaio fu lui a intimare, al comandante Schettino, di tornare subito a bordo anziché cincischiare frasi sull'inaudita trasgressione appena commessa: l'abbandono del posto di comando sulla nave, prima del salvataggio di passeggeri e equipaggio. Un peccato imperdonabile in mare.
Difficile dimenticare il tono di quell'ingiunzione a rispettare le regole: incaponito, incorruttibile. Una voce analoga s'era udita a Capodanno, inattesa, quando le Guardie di finanza diedero la caccia agli evasori fiscali di Cortina, ricordando che la legge non solo esiste ma può essere applicata, per castigare chi vitupera lo Stato esattore e al tempo stesso ne profitta - le parole sono di Mario Monti - «mettendo le mani nelle tasche degli italiani onesti, che pagano le tasse». È come se da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni, fosse la cosa che più ci manca.
Manca d'altronde non solo da noi ma anche fuori, in Europa, dove un marasma senza precedenti incancrenisce perché è assente, ai vertici dell'Unione, l'occhio in più che dia l'ordine di trasformare il coordinamento dei singoli soccorsi in salvataggio di tutti.
Ma in Italia la questione è incandescente, perché sono in tanti a reagire alla nuova severità dello Stato con la fuga o lo scompiglio. Non che sia mancata, per anni, la voce dei padroni. Ma non era intimazione, la loro: era intimidazione, al tempo stesso strillata e sterile. Abbiamo udito l'urlo di chi s'indigna e l'urlo di chi dall'alto dei propri scranni insulta, lancia ukase, grida menzogne per difendere gli interessi propri o dei propri clan. Per oltre un decennio abbiamo vissuto in mezzo a indistinte cacofonie: e vediamo in questi giorni, con le rivolte antistataliste che straripano, la potenza accumulata dalla cultura dell'urlo. L'intimazione stentorea di autorità emblematiche come il comandante di Livorno o le Guardie di finanza è di natura differente, ci sorprende come ladro di notte, come bisturi che ricuce ma resta pur sempre lama che offende. Abbiamo visto in de Falco un eroe ma non è un eroe.
Il suo modo d'essere dovrebbe essere la normalità: è contro un muro di norme indiscusse che dovrebbero sbattere i battelli ebbri senza comando né legge che metaforicamente ci rappresentano. Che impazzano addosso alle coste per fare inchini a amici complici in irresponsabilità, e impunemente s'avvolgono nella propria incuria come in un manto.
Chi ha letto Joseph Conrad sa le grandezze e i segreti fardelli del comando. Quasi tutti i suoi romanzi ruotano attorno a questa vocazione, che mette alla prova e decide chi sei, se vali oppure no. Anche qui, niente di eroico. Ecco il protagonista di Tifone: «Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, aveva, per quanto concerne l'aspetto esteriore, una fisionomia che rispecchiava fedelmente l'animo suo: non presentava alcuna distinta caratteristica di fermezza o di stupidità; non aveva caratteristiche pronunciate d'alcun tipo; era soltanto comune, insensibilee imperturbabile». Il comando non è solo imperio della legge, rule of law. C'è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce n'è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un'emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell'imperio della legge e del carisma. Torniamo ancora a Conrad, quando narra la nostra Linea d'ombra: d'un colpo scorgiamo innanzi a noi «una linea d'ombra che ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch'essa, la dobbiamo lasciare addietro». Il protagonista del racconto affronta a quel punto la massima prova esistenziale: l'esercizio del comando. Alcuni soccombono: è il caso di Lord Jim, che tutta la vita pagherà il prezzo - in dolore, rimpianto, vita d'angoscia - del peccato originale commesso quando abbandonò la nave. La linea d'ombra, in Italia, è come se non la scorgessimo mai. C'è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel nostro rapporto con l'autorità, la legge, lo Stato.
Stentiamo a capire una cosa, dell'ordine dato in nome del bene pubblico: il comando è quello che ci protegge dall'esplosione dell'urlo scomposto, dal caos propizio allo Stato d'eccezione. Fu con l'urlo che Hitler s'affacciò al mondo: la democrazia di Weimar non era stata capace di comando. Kurt Tucholsky, scrittore veggente, descrisse fin dal '31 quel che nel futuro dittatore più spaventava: «Non l'uomo in sé, che non esiste. Ma il rumore, che egli scatena».
Stentiamo a capire soprattutto in Italia, perché siamo da poco una nazione e ogni comune, ogni corporazione, usa urlare più che dirigere. Fellini descrisse questa cacofonia anarcoide - era il '79, dilagava il terrorismo - nell'apologo Prova d'Orchestra. Il tema cruciale era il comando: in che condizioni è esercitato, come degenera in urlo, e perché degenera.
L'Italia benpensante accolse il film con enorme diffidenza, sospettò nell'autore buie propensioni fascistoidi. Fellini le aveva messo davanti uno specchio, perché contemplasse i suoi vizi, e gli italiani voltarono la faccia sdegnati. Il film non perse mai da noi un odore di zolfo che altrove non ebbe. «Tutto è prova d'orchestra», disse il regista. E sulla pellicola capimmo perché la prova falliva: ogni violinista, flautista, clarinettista, pensava agli affari suoi, alcuni addirittura erano armati e ciascuno aveva a fianco un sindacalista tutore.
Qualcosa di simile accade a Monti, assalito da proteste quando si sforza di ammansire l'ego di corporazioni, lobby, clan semimafiosi (le grandi mafie suppongo siano in attesa: non ancora toccate, fanno quadrato attorno ai propri referenti, ne cercano di nuovi, sfruttano alla meglio i malcontenti di chi si sente ferito dal bisturi). Nonostante questo clima di sbandamento il Premier resta popolare, nell'Italia smarrita e infine conscia della crisi. Lo aiutano le virtù del comando: la gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l'autorevolezza che accresce l'autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i conti, e a chieder conto.
Non dimentichiamo la fine del film di Fellini: il direttore d'orchestra che non ha saputo comandare esplode in urla scomposte, mescolando vocaboli italianie parole d'ordine naziste. «Estrema pazienza e estrema cura», questo il comando secondo Conrad: oltrepassata la linea d'ombra, sempre possiamo mancare la prova, sottrarci al dovere di portare la nave sana e salva in porto. Ecco perché la via di Monti è così stretta.
Per costruire una strada larga due metri e mezzo, destinata a raggiungere una baita da ristrutturare a quota 1.600, hanno abbattuto alberi, sbancato e spianato quasi un chilometro di terreno nel parco ultra protetto delle Orobie, in alta val Brembana. Un «intervento agrosilvopastorale integrato» da 300 mila euro, finanziato all'80% dalla Regione Lombardia e regolarmente autorizzato dal Parco, su cui ora indaga la Procura di Bergamo. Tutto inizia nello scorso mese di agosto, quando un milanese che da decenni frequenta quella zona, l'avvocato Armando Salaroli, insospettito da quello scempio nel Parco, decide di andare a fondo e chiede l'accesso agli atti del comune di Carona, del Parco delle Orobie Bergamasche e della Comunità montana.
Vengono così a galla alcune anomalie e il Parco blocca subito i lavori perché non è stato rispettato il progetto originario. «Quello che doveva essere il semplice allargamento di un sentiero — dice Salaroli — è diventata una strada larga quasi tre metri che è stata prolungata oltre quanto autorizzato». Doveva infatti raggiungere la baita da ristrutturare, ma — così si difende il Comune di Carona — si è scoperto che lì c'era il rischio di valanghe e si è pensato di riattare un altro rudere più avanti. Ma poi si è deciso che costava meno costruirne uno ex novo lì vicino («senza permessi» dice Salaroli, «tutto in regola» per il Comune). Il sospetto dell'avvocato milanese è che, con la scusa dell'intervento agrosilvopastorale, si sia voluto realizzare una strada che — una volta prolungata nella zona non più protetta come ZPS e SIC — permetta di raggiungere le cascate della Val Sambuzza dove dovrebbe essere realizzata una centrale idroelettrica.
Dopo la scoperta delle irregolarità, il Comune ha chiesto l'autorizzazione per le varianti già attuate. Ora tutta la questione è al vaglio della magistratura che sta esaminando anche alcuni documenti non chiari, mentre della questione è stata interessata anche la Soprintendenza che dovrà esprimere il proprio parere ma che non potrà comunque autorizzare sanatorie ma soltanto, nel caso fossero accertate le violazioni, ordinare il ripristino.. Il sindaco di Carona, Giovanni Alberto Bianchi, respinge tutte le accuse e i sospetti. «Il nostro scopo — spiega — e solo quello di far vivere gli alpeggi. Con quell'intervento salviamo il lavoro di 3-4 persone che d'estate vivono sui pascoli e fanno il formaggio da portare subito a valle. Qualcuno crede che la Regione possa aver finanziato un progetto inutile?»
«Sì, è vero — aggiunge il sindaco — la variante l'abbiamo fatta, ma solo per evitare una zona umida e non danneggiare le rane». Quanto alla possibilità della costruzione di una centrale idroelettrica vicino alle cascate che anni fa pubblicizzavano in tv un noto bagno schiuma, il sindaco non ha dubbi: «Se ci costruiscono le strade per raggiungere altri pascoli non avremo dubbi nel concedere le autorizzazioni che ci competono».