loader
menu
© 2025 Eddyburg

Ho raggiunto Ilaria il 17 gennaio, dopo otto ore di tranquillo volo da Brusselles, e starò qui, per ora, fino al 28 febbraio. Ilaria ha spiegato le ragioni per cui lei è qui (vedi “Diario n.1 Inizio di una nuova vita”). Per ora è indaffaratissima con l’università e le complicazioni della vita quotidiana a Kigali, quindi integro io questa serie di note che completeranno il suo diario.

Qui per me è tutto molto strano, molto diverso dalle consuetudini europee.

Intanto, vi racconto il posto dove abitiamo. E' una villetta di cui inserisco una immagine (ma nel .pdf allegato troverete molte immagini di più). E’ carina e abbastanza confortevole, tenuta in modo minimale e un po’ disordinato dai suoi occupanti. Questi sono attualmente: una canadese Kristine, che lavora come free lance progettando website e svolgendo attività odi volntariato, parla un americano incomprensibile non solo a me ma anche a Ilaria; un simpatico americano Zach, giovane e bellino, che insegna inglese in una scuola qui, impegnandosi molto nel suo lavoro; una coppia belga, giovanissimi, Ruben e Arlène, lui lavora in una ONG e sta facendo un rapporto sull'amministrazione della giustizia in Rwanda, lei insegna fiammingo in una scuola elementare, molto carini e simpatici. Eccetto Kristine, stanno tutto il giorno fuori. Poi c'è un giardiniere che sta fisso qui tutto il giorno, un ruandese che si chiama Abdul. Una giovane signora ruandese, Jeanne, viene tre volte alla settimana a pulire e lavare.

La cosa un po’ sgradevole è che, come tutte le costruzioni “ricche”, il lotto è recintato da un muro coronato da cocci di bottiglie e fermamente chiuso da un portone di ferro, sempre rigorosamente sbarrato. Il pomeriggio, al di là del muro e del cancello, un gruppo costante di bambinetti giocano. Quando Ilaria torna a casa la sera si assiepano, le fanno coro quando mi chiama (“Eddy!!!”) perchè le apra, occhieggiano quando entra, pieni di curiosità, ed è una pena chiudere loro in faccia il portone di opaca lamiera. La “protezione” non è dovuta tanto, credo, al timore di veri rapinatori (che supererebbero i cocci di vetro semplicemente gettandovi sopra una pezza, e del resto in Ruanda la criminalità è inesistente rispetto a quella, per esempio, di Nairobi) ma per i bambini. La segregazione è un dato endemico là dove ci sono estese situazioni di povertà. Ma ormai si sta estendendo in tutto il mondo: perfino a Venezia si parla di chiudere le corti a unico accesso!

La casa è costituita da quattro stanze da letto, molto piccole, un grande soggiorno-ingresso-pranzo, due bagni (uno per ciascuna coppia di stanze da letto), una cucina piccola (con un fornello a 2 soli fuochi!), un portico d’ingresso e una loggia verso il giardino.

Il giardino è molto bello, ne inserisco qualche immagine. Tutte le case qui hanno un giardino (grande o piccolo a seconda della ricchezza dei proprietari), e soprattutto un orto.

Noi abbiamo una stanzetta piccolissima: circa 3,5 x 3,0; è arredata da un letto, due sedie che fanno da comodino, un piccolissimo armadio a scaffali: i vestiti sono, per ora, su grucce attaccate a chiodi che Ilaria ha messo sul muro. Mi sono impossessato di una scrivania in soggiorno dove lavoro, quando non vado nella loggetta sul giardino, dove mangiamo alle 8 e alle 12 (quando, come nel weekend, Ilaria lavora qui a casa, col computer sul letto o sul tavolo da pranzo in soggiorno). Le due immagini che vedrete nel .pdf le ho riprese dalla mia scrivania.

La nostra casa è appena sotto il crinale di una collina dalla quale si ha la vista su una parte di Kigali: Nyakabanda, una vastissima estensione di terreno, sulle pendici del monte Kigali, disseminata di case e casette. E' una zona abitata da molti arabi, quindi si sente - alle scadenze rituali - la voce del muezzin. E nor-malmente ne sale il normale vocio di un’area molto abitata.

Sul prato davanti alla loggetta vi sono, tra l’altro, alcuni grandi alberi di avocado, carichi di frutti che nella buona stagione vengono raccolti in abbondanza ma che, in questa stagione, cadono e rapidamente marciscono. Abdul li getta col rastrello giù nell’orto. Ma a volte (è successo stamattina) un’aquila dalle grandi ali scende e sta sul prato finchè non ha finito di spolpare un frutto, poi vola via, senza alcun timore di chi, a pochi metri, sta prendendo il caffè, la fetta di torta e il succo di frutta, chiaccherando e fotografando (ma mancando di fotografare il momento dello svolo!).

Ecco una immagine del panorama visto dalla loggetta. In quell’area c’è sempre un po’ di foschia, forse perché il fondo valle ospita una delle zone palustri residue.

Il sito dove sta la casa è molto comodo, perché è vicino sia all'università (che Ilaria raggiunge a piedi) che al centro commerciale. In questa città la questione delle distanze è molto importante. E’ una città a densità bassa, distesa su un terreno collinare con notevoli dislivelli. Inoltre gli isolati (cioè i gruppi di lotti recintati circondati da strade percorribili) sono molto estesi: se sbagli strada devi camminare a lungo per tornare sui tuoi passi.

La casa, come ho detto, è piccola e tenuta un po’ disordinatamente (sono tutte persone molto giovani, abituate a vivere in modo promiscuo e “studentile”), e nell’appartamento non c’è una stanza per gli ospiti, e insomma non è l'ideale. Ilaria cercherà un’alternativa; ma è facile trovarne solo in zone più lontane, che renderebbero obbligatorio l’acquisto di un’automobile.

Comunque stare in giardino, o seduti nella loggetta dove spesso mangiamo è veramente una goduria. E i trilli variegati degli uccelli sono stupefacenti. L’immagine della loggetta è qui sotto, e accanto uno scorcio del giardino visto da là.

Come fanno gli stranieri ad abitare a Kigali? Essi sono parecchi, e in aumento: docenti di università e di scuole private, volontari e funzionari delle ONG (organizzazioni non governative della cooperazione internazionale), organismi internazionali ufficiali (ONU, Banca mondiale ecc.), funzionari di ambasciate e di aziende private (l’Africa continua a essere terra di conquista). Le capacità di spesa sno anch’esse variabili: dai funzionari internazionali, ai docenti delle varie scuole (quelle statali sono poverissime), ai volontari.

La cosa funziona così. In genere una persona che appartiene a quel mondo prende in affitto una villa, più o meno grande (la nostra è tra le più piccole). Firma il contratto con il proprietario (persona benestante, del mondo rwandese o straniero) e assume nei suoi confronti ogni responsabilità di gestione e manutenzione; assume, e comunque paga, il personale (il giardiniere, il guardiano, la persona che viene a fare le pulizia e a lavare i panni, il cuoco). Poi subaffitta ad altre persone, single o coppie, ciascuna delle quali ha una stanza e utilizza i servizi comuni, che in genere sono molto ricchi. Il costo a persona/coppia oscilla tra i 400 e i 700 $.

Si possono trovare anche appartamenti in edifici a più piani, ma in questa città la cosa bella è stare all’aperto, in mezzo ad alberi, piante e animali, magari con una bella vista.

Giovedì sera Ilaria ha organizzato una cena con alcuni suoi nuovi amici, che insegnano con lei alla facoltà di Architecture and Environmental Design del KIST (Kigali Institute of Science and Technology). Un irlandese, Kilian, che lavora nel laboratorio con Ilaria, una catalana, Nerea, che ha ospitato Ilaria i primi giorni e sta organizzando con Ilaria un corso che terranno nel secondo semestre (sulla gestione dell’emergenza); un italiano di Castelfranco Veneto, Zeno e un’italiana di Padova, Alice, che insegnano al primo e al secondo anno e con cui Ilaria ha fraternizzato molto. Tutti molto simpatici. Abbiamo mangiato pesce del lago Vittoria con patate e birra: due enormi pescioni, arrostiti alla brace, che si mangiavano con le mani, spolpandoli dal piatto unico. Grande ristorante all’aperto, con vista sul wetland (zona umida con fiumiciattolo), ma era buio; a ogni angolo un catino alimentato da un bidone di acqua tiepida e bombolette di sapone, per lavarsi le mani prima e dopo il pasto. Prezzo: 7.000 franchi, circa 9 €: Ilaria dice che è abbastanza caro. Per raggiungere il ristorante Ilaria Kilian ed io siamo arrivato col mototaxi (gli altri erano autonomi), il mio era straordinariamente veloce. Si arrampicava audacemente sulla strada sterrata, facendo tremare di paura per me Ilaria che ci seguiva.

Sabato mattina siamo andati al mercato di Nymiarambo. Una cosa incredibile. Un intrico di decine e decine di micronegozietti dove vendono di tutto: donnette che offrono ortaggi nei microbanchetti della parte coperta (di lamiere e altri materiali di risulta), oppure accoccolate all'aperto, ciascuna con la sua cestina con due dozzine di pomodori, qualche peperone, erbe, cipolle, banane. E poi pentole, casalinghi d'ogni specie, cestini, scarpe, cinture, attrezzi sportivi, giocattoli, gioiellini, pezze variopinte (e ottime sarte che in poche ore e pochi soldi ti cuciono un vestito identico al modello che le porti), telefonini e schede, materassi e cuscini, vestiti usati. Il tutto su un parterre di terra scavato dai rivoli e torrenti delle grandi piogge. Ai margini, sotto una vecchia tettoia di mattoni e tegole, mucchi di farina, grano e altri cereali, fagioli d'ogni tipo,

Bisogna mercanteggiare per ogni cosa. Ho comprato una cinta molto normale, usata, di pezza, cercata a lungo (per la lunghezza) in un mucchio di migliaia; mi hanno chiesto 6000 franchi, ne ho proposti 2000, me l'hanno data per 4000 (l'equivalente di 5 €: 800 franchi = 1 €).

A quel mercato siamo arrivati con un matatu: furgoncino dotato di una decina di posti, che segue itinerari preordinati e si ferma molto spesso, e in cui si assiepano più persone dei posti. Costa circa 100 franchi (pochi cm di €). L'altro mezzo di trasporto è il mototaxi: la città è percorsa di sciami di ragazzini, su motociclette molto agili, tutti con giubba pubblicitaria di una compagnia di telefoni, con casco in testa e casco per il cliente, che fermi con un gesto e ti portano per un prezzo di 300 franchi all’interno della centro (0,40 €). Sono autonomi: prendono in affitto una modoclilcetta e si mettono sulla strada; in un paio d’anni riescono a mettere da parte i soldi per comprare un mezzo proprio. Oltre ai mototaxi e ai matatu ci sono anche autobus simili ai nostri, che costano un po’ di più.

Non ho ancora visitato la città e i suoi dintorni, e sia dal matatu che dalla motocicletta si vede poco. I caschi hanno la visiera trasparente spesso rabberciata alla meglio, e non vedi un gran che. Comunque colpisce la compresenza di costruzioni di qualità e forma molti differenti (dai palazzoni international style delle aree centrali alle ville e villette e palazzine del periodo coloniale, molte scuole nelle zone centrali; nelle aree più popolari di quelle nelle quali sono passato case basse, ciascuna con le bottegucce a piano terra. Molta varietà anche nelle persone, numerosissime, che incontri: dai vestiti eleganti secondo il modello internazionale prevalente, fino agli abiti sgargianti della tradizione africana e agli abbigliamenti più semplici. Volti in prevalenza nerissimi con grandi occhi curiosi e smaglianti bocche sorridenti.

Una singolarità che Ilaria mi ha fatto osservare è che nessuno mangia per strada, né si vedono chioschi o botteghe dove si comprino cose da mangiare in piedi e in pubblico. Nella loro cultura il pranzo (e in genere il mangiare) è una cosa del tutto privata

Per ora ho girato poco, e non ho neppure lavorato molto. Purtroppo ci sono problemi con la connessione. Per varie ragioni non siamo riusciti a trovare un sistema non troppo caro che funzioni da casa. Quindi il metodo che sto usando è di andare una volta al giorno: o, nei giorni feriali, all'università, da Ilaria, dove la connessione è facile (sebbene spesso si interrompa); oppure, nel weekend, quando la connessione al KIST è disattivata, a un centro commerciale, dove sedendomi in un caffè ho l’accesso gratuito alla rete.

Da lì scarico le e-mail e dai giornali on-line, gli articoli che mi interessano per eddyburg; dopo un paio d'orette torno a casa, preparo i pezzi da inserire in eddyburg, leggo la posta e rispondo off-line; il giorno successivo invio le e-mail, carico gli articoli su eddyburg e scarico quello che nel frattempo è arrivato.

Eddy, 23 gennaio 2012

Cronache di un disastro annunciato. Dopo giorni di avvertimenti sull'avvicinarsi di una perturbazione, il sistema paese è andato in frantumi. Autostrade bloccate. Interi comprensori senza elettricità per ore e ore. Comuni colpiti dalle politiche del rigore monetarista che non hanno i mezzi per riaprire la viabilità secondaria. Treni fermi per guasti a Carsoli o per problemi di linea a Cesano, comune di Roma, capitale di un paese disgregato dal neoliberismo.

La rete ferroviaria costruita nell'Italia post-unitaria aveva alla base l'obiettivo di unificare fisicamente il paese. Attraverso l'uso della spesa pubblica si perseguì l'obiettivo di mettere in rete ogni angolo, anche il più remoto, dell'Italia. I treni avevano all'epoca tre classi. C'era dunque una concezione molto gerarchica della società e non mancarono scandali. Ma c'era anche il pensiero che il paese intero dovesse beneficiare del miglioramento economico e sociale. Con il trionfo della cultura neoliberista sono state spese decine di miliardi di euro (Ivan Cicconi li ha contati uno ad uno) per costruire la linea di alta velocità tra Napoli e Torino. Il resto è stato abbandonato a se stesso. Non è conveniente dal punto di vista economico, ci dicono i grandi strateghi del fallimento. Città e regioni del sud e delle aree interne sono stati abbandonati a se stessi. Milioni di persone non contano nulla: la competitività si gioca tra le aree forti e lo Stato ha abdicato alla funzione principale sancita dalla Costituzione, quella di rendere più uguale e giusta la società e gli individui.

Il pilastro ideologico che ha reso possibile questa devastante involuzione è la cultura delle privatizzazioni. Ferrovie dello Stato, come tutte le società pubbliche, è stata privatizzata e disarticolata in tante società, ognuna delle quali ha perseguito l'unico obiettivo del fare cassa. Licenziando, diminuendo le tutele ai lavoratori e alla stessa rete. La tragedia di Viareggio è inscritta in questa logica. Non paghi di quanto hanno provocato, i super stipendiati strateghi del liberismo stanno completando il disegno. Da qualche settimana le sale d'aspetto, ad eccezione di Roma e Bologna sono state chiuse. Chiuse e basta. Uno dei paesi più ricchi del mondo non può permettersi di "sprecare" metri quadrati senza valorizzarli. Lunedì scorso, in un dibattito sulla prima rete radiofonica, un dirigente di Grandi stazioni (uno dei pezzi dell'ex FS) nascondendo a stento il fastidio per le mie argomentazioni, ha affermato che non c'è nessuna necessità di sedersi: meglio camminare tra negozi e gadget.

Questo disprezzo delle persone in carne ed ossa, degli anziani, di chi viaggia per motivi di salute, o per le tante vicissitudini della vita, mi è tornato in mente ieri sera nell'apprendere che in ogni angolo del paese - ad eccezione della tratta dell'alta velocità, naturalmente - i treni si erano fermati. Potevano seguire il consiglio del nostro intrepido manager di cartone. Potevano scendere e camminare nel buio di una notte senza fine cui ci sta condannando la troppo lunga stagione del liberismo.

Sono soddisfatte delle ultime modifiche. Ma chiedono uno sforzo in più. Le associazioni ambientaliste accolgono con favore la revisione condotta dalla giunta Pisapia al Pgt, il Piano di governo del territorio radicalmente modificato da quello approvato dalla precedente amministrazione. Dal Fai a Legambiente, da Italia Nostra a Wwf, la richiesta è di andare oltre con ulteriori rettifiche nel voto in consiglio comunale.

Italia Nostra, ieri in un convegno sul Pgt all’Urban Center, con la presidente nazionale Alessandra Mottola Molfino ha chiesto «che il Consiglio comunale lo migliori: c’è ancora troppa cubatura sulla città e poco verde». La giunta ha già accolto la proposta di verde pubblico tra Quinto Romano e il Parco delle Cave, oggi ricovero di mezzi rimossi vigili. Ma non basta, per l’associazione. L’urbanista e membro di Italia Nostra Giuseppe Boatti avverte: «Il Piano ha trascurato i rapporti con l’hinterland, e ciò lo rende medievale. Chiediamo che vengano reinserite le opere infrastrutturali.

Negli ambiti di trasformazione urbana le densità edilizie ipotizzate sacrificano troppo le ultime chance di nuovo verde in città». Assicura di continuare a vigilare sul nuovo Pgt il Fai, il Fondo ambiente italiano: «Hanno accolto molte nostre osservazioni - puntualizza Costanza Pratesi - chiediamo più attenzione e controlli, però, alle modifiche anche estetiche della città esistente, specie nel centro storico. Bene che le aree di trasformazione si siano contratte, ma attenti a non lasciar troppo alle scelte dell’investitore». Su una cosa ancora le cose non vanno, per il Fai: «L’arco temporale di 30 anni è troppo lungo - aggiunge Pratesi - meglio 20 o 10 anni, le cose oggi cambiano troppo rapidamente». Soddisfatto anche il Wwf, che però rilancia: «Il Comune realizzi davvero la rete ecologica cittadina - chiede Paola Brambilla, presidente lombardo di Wwf - intervenga di più anche sulle aree agricole del Parco Sud».

È contento dell’abbattimento robusto degli indici volumetrici Damiano Di Simine, presidente lombardo di Legambiente, ma «sul verde serve una miglior distribuzione in città. Purtroppo gli effetti del Pgt li vedremo tra anni, nulla potrà contro grandi trasformazioni in atto, da Cascina Merlata al Cerba. Il Consiglio faccia in fretta: così avremo regole certe e una visione d’insieme».

L’assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris, ricorda che «si è deciso di mantenere il Piano adottato per non bloccare la città, dando però sostanza alla fase essenziale delle osservazioni, ignorata dalla giunta precedente». E, sul fronte delle opere infrastrutturali, aggiunge: «Il Piano è realistico: elimina le cose inattuabili come il tunnel Expo-Forlanini, e rende praticabili progetti già finanziati. Per il resto riporta al Piano urbano della mobilità, la sede in cui si dovranno tenere insieme le diverse scale e tutte le modalità di trasporto». In generale, invece, ricorda che «è stata complessivamente dimezzata la capacità edificatoria, rafforzando gli interventi per la residenza sociale. Per gli scali ferroviari si sta lavorando all’accordo di programma: l’edificabilità di queste aree deve essere connessa a investimenti per la rete ferroviaria».

Il 20 gennaio scorso i funzionari del Comune si sono presentati a Palazzo Venezia chiedendo la documentazione su un piccolo restauro in corso, appena un paio di ponteggi. Gelosissimi delle loro competenze che comprendono la tutela dei beni culturali, i funzionari dello Stato si sono rifiutati e s'è scatenato un parapiglia: nervi tesi, voci stridule che si sovrapponevano, qualche minaccia, torve lettere tra le amministrazioni. È il primo frutto avvelenato del decreto attuativo sulla legge per Roma Capitale, che affida al Campidoglio funzioni nella valorizzazione e, tremate!, anche nella tutela dei Beni Culturali. Così, a dispetto delle leggi e della Costituzione repubblicana, il sindaco oltre che sulla città potrà allungare le mani anche sulla archeologia, l'arte, i monumenti: ovvero il nostro patrimonio più importante e prezioso.

DECRETO FUORI LEGGE. Redatto dal precedente esecutivo, approvato il 21 novembre scorso nella prima riunione operativa del Consiglio dei ministri del governo Monti, e ora in via di conversione in legge, il decreto contiene diversi profili discutibili. All'articolo 1 viene «istituita un'apposita sessione della Conferenza Unificata tra Roma Capitale (il Comune), lo Stato, la Regione Lazio e la Provincia». Gli articoli 2 e 4, attribuiscono alla Commissione competenze nella «valorizzazione.... anche ai fini del rilascio di titoli autorizzatori, nulla osta e pareri preventivi nell'ambito di procedimenti amministrativi concernenti beni culturali presenti nel territorio di Roma Capitale». Nella sostanza i rappresentanti del Sindaco potranno mettere bocca dall'orario dei musei dello Stato fino al rilascio delle licenze per costruire in zone di interesse archeologico, artistico o architettonico. Si tratta di una della funzioni fondamentali della tutela, che la Costituzione, articolo 117, affida all'esclusiva potestà allo Stato, vale a dire al Ministero dei Beni Culturali. Anche il Codice per i Beni e le Attività Culturali (D. Lgs. 42/2004) ribadisce che il Mibac ha «le funzioni di tutela sui beni culturali», estendendole a scanso di equivoci a tutti gli interventi che coinvolgono beni pubblici o privati. Eppure qualcuno ha voluto equivocare. Ma c'è di più: è assai discutibile che una conferenza possa emettere autorizzazioni o pareri sull'impatto ambientale.

A tutela dei cittadini, la Legge 241 del '90, prescrive tassativamente per ogni procedimento di individuare un'amministrazione competente e uno specifico responsabile — persona fisica. Una sessione della Conferenza per Roma Capitale non è, né potrà mai essere, un'amministrazione competente o una persona fisica da individuare come responsabile. Il decreto, insomma, appare in palese contrasto con la Costituzione e con la legge. In palese contrasto con la Costituzione e con la legge, il decreto in definitiva crea evidenti problemi — di fronte a un ricorso contro un'autorizzazione chi ne risponde, una conferenza? —, per non parlare dei conflitti d'interesse: i lavori del Comune di Roma li autorizza il Comune di Roma! Dulcis in fundo: i beni ecclesiastici sono esclusi da un provvedimento tanto singolare. «Orate fratres»: ecco i privilegi «a divinis». Pretesa dall'attuale Sindaco di Roma Alemanno, lasciata in eredità dal precedente governo Berlusconi all'attuale di Monti, questa normativa contiene tali e tanti punti controversi che avrebbe meritato una più seria e pacata discussione parlamentare invece d'essere approvata frettolosamente come decreto legge, peraltro l'ultimo giorno utile prima della decadenza del provvedimento. Gli interessi in gioco sono enormi e, per fare qualche ipotesi d'attualità, Alemanno avrebbe un paio questioncelle da risolvere. A cominciare dal parcheggio sotto via Ripetta, cui il sindaco tiene tanto e che dovrebbe sorgere in un terreno sovraccarico di antiche e importantissime vestigia, che fino a oggi hanno imposto di negare qualsiasi autorizzazione.

E poi i lavori per le pretese Olimpiadi, gli scavi della Metro (dai costi triplicati col sindaco che dà la colpa agli archeologi, che hanno semplicemente svolto il loro lavoro e con estrema puntualità), e tanti altri appetiti che si scatenano mangiando. Ma al di là del fatto che oggi in Campidoglio ci sia Alemanno, d'ora in avanti e per sempre questo decreto prevede che Regione, Provincia e Comune — amministrazioni antonomisticamente soggette, per non dire sensibili, a pressioni più o meno limpide —, decidano sul nostro patrimonio. E questo attraverso la sessione di una Conferenza che rischia di restare in bilico fra una trincea di veti incrociati e un mercato delle vacche. Il 21 febbraio scadono i termini per la conversione in legge di questo decreto.

Iniziative

Se ne discute:

L'associazione obiettivo comune organizza per questo lunedì una discussione pubblica sul secondo decreto per Roma Capitale. L'appuntamento è presso il Tempio di Adriano, piazza di Pietra (www.obietttivocomune.it).

Ė da oltre un anno che chiedo sui giornali sardi che Cappellacci spieghi cosa intende fare sul Ppr. Senza successo: non risponde a nessuna domanda sul governo del territorio dopo avere fatto intendere chissà che cosa. Questa estate sembrava imminente la conclusione del percorso iniziato un po' tempo fa per rendere inefficace il piano paesaggistico – come pensano molti – , per apportare qualche indispensabile puntualizzazione – come dice il presidente della Regione. Non si capisce cosa ci aspetta, dopo i botti di ferragosto: l'annuncio della catarsi urbanistica sarda, la fine di un'epoca iniziata nel 2004. E che ci aveva dato un po' di lustro però, compensando l'idea della Sardegna solo Billionaire, tutta palcoscenico per cafoni ricchi, almeno in quelle due settimane-choc per l'ecosistema insulare (di cui dicono, in modo inequivocabile, i depuratori in tilt).

Cappellacci simula, va avanti nel solco della commedia berlusconiana doubleface. Pensa alle maniere spicce per togliere vincoli paesaggistici, e insieme si destreggia nella costruzione di un modello teorico per elevarle al rango di antidoti al maleficio-Ppr. C'è agli atti la versione volgare: lo slogan nei comizi con B. “scaldate i motori delle betoniere”, destinato alla platea di intenditori. Evidentemente insufficiente. Perché qualcosa bisogna pur dirla alle persone per bene che hanno votato la destra e ora cominciano a dubitare. Ed ecco la parata “Sardegna nuove idee”, parodia della partecipazione, cortina per celare i movimenti che contano e disorientare con il messaggio “siamo tutti ambientalisti”. Una lunga fase che si è conclusa questa estate con il tripudio di pagine di pubblicità sui giornali (che hanno messo in conto ai contribuenti). Per rassicurarci: il nuovo piano sarà come come lo vuole la gente, niente a che vedere con ciò che dicono i detrattori di sinistra, come scrive il Quotidiano vicino al governo regionale Ma intanto sono pronti a festeggiare tutti quelli che vedono nel Ppr disarmato la nemesi storica di Soru, Tuvixeddu come la campagna di Russia per Napoleone.

La domanda: a che punto siamo dopo sei mesi dalla fanfara e a tre anni dall'insediamento della prima giunta Cappellacci ? E' urgente sapere. Perché la promessa di un nuovo Ppr ha fatto sì che i comuni costieri smettessero o rallentassero le attività di adeguamento dei piani comunali a uno strumento in procinto di essere cancellato o tramortito. Roba che non dà l'idea del partito del fare preoccupato per la sorte della Sardegna. Uno stato di incertezza nelle regole allontana gli investitori buoni e accende la fantasia dei maneggioni. Per questo è bene parlare chiaro, oltre le tattiche politicanti. Smettendo la catena solidale tra piani casa, leggi sul golf e nuovo Ppr, basata sul sostegno reciproco tra strumenti difettosi, confidando che uno aggiusti l'altro per strada. Provvedimenti diversi: in marcia divisi per colpire uniti, con eccesso di prosopopea e noncuranza di Codice dei beni culturali e Costituzione

Ė successo infatti, e si tratta di una circostanza essenziale, che due delle tre punte della strategia siano malferme per l' impugnativa del governo Berlusconi prima e poi del governo Monti. Che ha intravisto nella legge sul golf seri difetti, e per estensione nel piano casa ultima versione e che riguarderà il nuovo Ppr se scantonasse abusando delle prerogative. La due deprecabili leggi, assumendo sembianze e competenze improprie, prefigurano un inammissibile arbitrio: la giunta regionale autorizzata a modificare il piano paesaggistico per individuarvi, a sua discrezione, le aree – verosimilmente preziose – per campi da golf e case. Senza sentire lo Stato che quel piano ha condiviso, perché lo Stato ha competenza primaria in materia di paesaggio, e sui beni paesaggistici è chiamato dal Codice dei beni culturali a concorrere, in ogni regione, alla loro individuazione (ed eventualmente alla loro soppressione). C'è un ostacolo nella missione contro il Ppr. Lo Stato dovrebbe cambiare giudizio e contraddire, senza fatti nuovi, il valore già riconosciuto a beni paesaggistici individuati sulla base di approfondite analisi: improbabile capriola, forse auspicata e sollecitata da faccendieri in disarmo. Cappellacci ha però diritto a esprimere un'altra idea di governo del territorio, come succede in un Paese normale. Se rinunciasse al ruolo dell'ambientalista che ogni tanto gli piace assumere nei convegni, seguirebbe un dibattito interessante e senza pregiudizi.

Il progetto che Benetton intende realizzare al Fontego dei Tedeschi è improntato -e non poteva essere diversamente- all’ideologia di mercato. Come è noto questa ideologia ha come fine massimizzare il profitto e come strumenti un vasto armamentario, nel quale spiccano l’appeal o lo share, o l’audience, o come cavolo volete chiamarlo e, in sinergia con esso, la corruzione economica ma soprattutto morale. Quest’ultima, la più pericolosa, si attua insinuando surrettiziamente consumi smodati quanto non necessari, assecondando la moda o, come si usa dire, i trend del gusto comune che, si sa bene, non è mai buon gusto ma è il più appagante sul piano economico. Ne sono valida conferma i programmi trash della televisione, i più seguiti, o i fenomeni della moda, come i blue-jeans lisi e strappati.

Quando si entra nel terreno dell’architettura risulta molto appagante rivolgersi ad un archistar. Archistar non vuol dire buon architetto: significa solamente “architetto alla moda”, con tutto ciò che di buono e di cattivo può contenere questa definizione. Nel caso del Fontego l’archistar avrà sicuramente fatto ampie ricerche storiche, approfondendo la conoscenza delle sue strutture, della sua conformazione, delle sue trasformazioni e delle sue utilizzazioni nel tempo, scoprendo così che all’origine aveva destinazione commerciale e che tale riavrà con l’attuazione del suo progetto. Bene: fin qui lo seguiamo. Dopo di che elabora un progetto che non solo non tiene conto delle “regole” (ahimè!, non è forse questo il vero dramma del nostro tempo?) ma che non si esprime con congruità nei confronti dell’oggetto che tende a modificare. E questo è il nodo architettonico. Già l’arch. Vittorio Gregotti, sulle pagine della Nuova Venezia, spiegava la posizione culturale dell’arch. Koolhaas, progettista d’avanguardia non amante della tradizione e, quindi, non rispettoso del contesto storico e architettonico che si trovava tra le mani, rilevando molto opportunamente anche le responsabilità della scelta da parte del committente, che di questo aspetto non ha tenuto conto. Ma, si sa, Benetton non è Olivetti e Koolhaas non è Carlo Scarpa. Il risultato è un progetto che stravolge uno dei più begli edifici della città, fregandosene di storia e di regole, disarmonico e totalmente incongruo. In una parola: brutto! Ora la parola è alle istituzioni, perché l’opinione pubblica, le associazioni che tutelano la città e la sua conservazione, gli esponenti della cultura si sono già espressi con una netta condanna. Alle istituzioni tocca far rispettare le regole valide per tutti, senza introdurre valutazioni estranee al merito del progetto. In caso contrario dovremmo amaramente prendere atto che quella corruzione morale della quale abbiamo parlato non solo è arrivata a lambire le istituzioni ma è persino riuscita a intaccarle e corroderle, marcando ancora una volta, e in modo grave, la loro separatezza rispetto al sentire della comunità civile.

L’autore è un architetto veneziano

«Chi scoraggia gli investimenti è Monti suggerendo con le sue affermazioni ai capitali di non investire». La Cgil è sul piede di guerra, ma anche Cisl e Uil sono in fibrillazione. Monti ritiene che in Italia siano troppe le tutele sul lavoro e che tutto ciò renda il mercato stagnate, anzi scoraggi gli investimenti? «Al presidente del Consiglio piacciono gli esempi estremi - contrattacca il sindacato di Susanna Camusso - ma parlare di troppe tutele per chi è "blindato nella sua cittadella", è non solo sbagliato, non vero, ma anche un po´ offensivo verso quei lavoratori». Un atto d´accusa che Fulvio Fammoni, segretario confederale traduce in una domanda diretta: «Monti conosce la condizione reale del lavoro? In tre anni abbiamo perso centinaia di migliaia di posti».

Le parole del premier sono benzina sul fuoco di scioperi già indetti dalla Fiom (Landini: «L´articolo 18 esca dal tavolo della trattativa»), mentre la minoranza interna della Cgil pensa a uno sciopero generale. Però la piattaforma unitaria del sindacato per ora regge, e mercoledì prossimo i segretari di Cgil, Cisl e Uil, Camusso, Bonanni e Angeletti hanno in programma un incontro, poco prima del tavolo con le imprese. Il tam tam di Fornero e Passera ha preparato il terreno alla svolta sul mercato del lavoro, che Monti ha ormai lanciato. Il clima sociale e politico si surriscalda.

Il Pd frena e avverte che così non va. Bersani ha ribadito che si può essere innovativi sul lavoro senza cancellare l´articolo 18, anche se ritiene sia meglio per il momento lasciare che esca una proposta dal confronto tra governo e parti sociali. Teme l´effetto domino. I partiti insomma facciano un passo indietro.

Di Pietro invece accusa: «Le dichiarazioni di Monti sembrano un´intimidazione e una truffa mediatica. Le ragioni della crisi economica e occupazionale in Italia non sono certo causate dall´articolo 18, ma dal fatto che lo Stato ha accumulato quasi duemila miliardi di debito e da una classe politica allo sbando». Casomai le tutele vanno estese - secondo il leader di Idv - non certo tolte. Altolà da Vendola: «Il governo è guidato da un conservatore di destra». E anche il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina taglia corto: «Quelle di Monti sono affermazioni sorprendenti perché infondate». Nelle file democratiche ci sono opinioni divergenti. Cesare Damiano afferma che se il governo non trovasse un accordo con i sindacati, allora si aprirebbe un problema politico in Parlamento, e a Monti: «Sull´articolo 18 sbaglia». Al contrario Piero Ichino è convinto che, se anche non ci fosse condivisione, il governo non debba rinunciare alla riforma del lavoro. I Radicali propongono di procedere pragmaticamente, varando ad esempio una moratoria triennale sull´articolo 18. «Nelle imprese fino a 30 dipendenti», suggeriscono Pannella e De Lucia. Nel centrodestra tutt´altra musica. Brunetta entusiasticamente dichiara: «Togliamo questo tabù che ingessa». Quagliariello rincara: necessarie riforme coraggiose.

Niente decreto del governo per togliere le Grandi navi dalla laguna. Il testo già firmato dal ministro per l’Ambiente Corrado Clini è fermo al ministero delle Infrastrutture guidato dall’ex ad di BancaIntesa Corrado Passera. E a quanto pare non sarà approvato in tempi brevi. Diversità di vedute tra i due ministeri. Con il titolare delle Infrastrutture e Trasporti (ma anche Sviluppo economico) contrario a imporre divieti.

La proposta di Clini prevede lo stop al passaggio dele navi al di sopra delle 40 mila ronnellate di stazza. Cioè in pratica quasi tutte le navi da crociera che oggi attraversano San Marco. Il problema è che l’alternativa in tempi brevi non c’è. E dunque la situazione, alla faccia delle indignazioni dopo la tragedia della Costa Conordia, rischia di restare com’è. Ieri il ministro Clini era atteso a un convegno in laguna. Ma non è venuto, bloccato dal Consiglio dei ministri e dalla neve. Ha mandato un messaggio ribadendo il suo «no» alle estrazioni di petrolio in Adriatico. E confermando la sua posizione sulle navi fuori dalla laguna.

Il progetto alternativo che il ministero «condivide, fatto salvo la compatibilità ambientale», è quello messo nero su bianco dal presidente dell’Autorità portuale Paolo Costa. Scavo del canale Contorta Sant’Angelo da 2 a 10 metri per collegare il canale Malamocco Marghera da Fusina alla Marittima. E nel 2017 spostamento della Stazione passeggeri dove adesso è il cantiere del Mose a Santa Maria del Mare. Progetti che sollevano dubbi di carattere e ambientale e idraulico. Le alternative proposte sono. Quella di Cesare De Piccoli, progetto già depositato e condiviso all’epoca dal sindaco Cacciari come alternativo al Mose per spostare la Marittima a Punta Sabbioni. Pontili galleggianti, trasferimento dei passeggeri con le motonavi, fondali che potrebbero essere rialzati rendendo quasi inutile il Mose. C’è anche chi rilancia l’off shore, già proposto dal Porto come terminale in mare per i petroli e le grandi navi merci portacontainer. Uno studio olandese (Tec consulting) propone di realizzare da lì un oleodotto verso Marghera e un tunnel verso la terraferma per trasportare merci e passeggeri. «Così saremmo competitivi, senza rotture di carico», dice l’architetto Fernando De Simone. Un terminale al Lido è anche la proposta di Ferruccio Falconi, ex capo dei piloti del porto. Banchina in superficie dietro all’isola artificiale, sul bacàn di Sant’Erasmo, che potrebbe ospitare fino a nove grandi navi. Ma il Porto non ci sta. Con due stazioni marittime appena costruite, le alternative sono tutte in salita.

I due principali candidati alle presidenziali francesi, il socialista François Hollande e Nicolas Sarkozy, che non ha ancora ufficializzato la sua partecipazione alla corsa all'Eliseo del 22 aprile e 6 maggio, si scontrano sulle «classi medie» e si accusano a vicenda di non volerle proteggere. I due principali candidati mascherano, con l'espressione «classi medie», che il sociologo Louis Chauvel descrive «alla deriva», un reale imbarazzo nei confronti della classi popolari.

Sarkozy, che nel 2007 aveva vinto grazie al voto di operai e impiegati, convincendoli con la promessa di un aumento del potere d'acquisto grazie al «lavorare di più per guadagnare di più», ha ormai consumato il divorzio con questa parte della popolazione. Dice Jérôme Fourquet dell'istituto di sondaggi Ifop: «Oggi, soltanto il 10% degli operai sarebbe pronto a votare Sarkozy al primo turno e tra il 30 e il 35% al secondo, contro il 50% del 2007».

Il Ps, secondo l'economista Bruno Amable, dalla svolta del rigore dell'83, ha girato le spalle alle classi popolari: «La scelta di abbandonare una politica di rilancio contro la disoccupazione a vantaggio della deflazione competitiva non è stata solo l'espressione del vincolo esterno o della volontà di restare in Europa. È stata una scelta politica che ha privilegiato le attese delle classi medie e superiori a detrimento di quelle delle classi popolari». Oggi, i sondaggi indicano che le intenzioni di voto degli operai sono al 40% per Marine Le Pen, seguite da Hollande al 35%. Sarkozy sarebbe alla pari con il candidato del Front de Gauche, Jean-Luc Mélénchon, per attirare il 10% del voto delle classi popolari.

Come è cambiata la situazione della società francese negli ultimi anni? Come ha influito la mondializzazione, in un paese che nel 2005 aveva stupito l'Europa votando «no» al Trattato costituzionale europeo, affossato da quel rifiuto (che si era aggiunto al «no» olandese)? Lo abbiamo chiesto al ricercatore di geografia sociale Christophe Guilluy, autore, tra l'altro, dell'Atlas des nouvelles fractures sociales en France (Autrement, 2004) e di Fractures françaises (Bourin, 2010).

L'organizzazione sociale del XXI secolo, che vediamo in Francia, ma anche in altri paesi, Usa compresi, ci mette di fronte a grandi città mondializzate, aperte, che accolgono dall'alto la ricchezza e dal basso l'immigrazione. Da una quindicina di anni c'è stato un rinnovamento della sociologia delle grandi metropoli, che votano per i socialisti o per i Verdi. Questa situazione pone la questione sul cosa sia la sinistra oggi e ci mostra il divorzio tra sinistra e classe operaia, classi popolari. Si tratta di un divorzio geografico e culturale. La sinistra è universalista, aperta al mondo, ha dimenticato la questione sociale: questo ha favorito che fosse mangiata dalla logica neoliberista. È uno choc culturale gigantesco rispetto al passato. La questione sociale è stata dimenticata e sostituita dai dibattiti di società. C'è una dimensione geografica: la sinistra non è più in contatto con le classi popolari. Mélenchon, certo, riporta nel discorso politico la questione sociale, ma lo fa con una visione che era quella del Pcf degli anni '70, come se in trent'anni non fosse successo nulla.

È la mondializzazione che ha cambiato tutto, nel senso che le classi popolari sono le perdenti di questa trasformazione, con le delocalizzazioni e la disoccupazione, mentre l'élite delle grandi città ha solo i vantaggi di questo mondo dove tutto è a portata di mano?

Dopo vent'anni di mondializzazione, la divisione dominante non è più destra/sinistra, ma tra classi popolari e classi dominanti. Non c'è la stessa percezione culturale della mondializzazione. Gli abitanti delle grandi città che votano a sinistra, anche se nei discorsi non lo dicono, erigono di fatto delle barriere, delle frontiere culturali: lo si vede nella scelta delle scuole per i figli, dei condomini dove abitare. Gli operai non hanno i mezzi per erigere queste frontiere e chiedono allo stato di farlo. La gente, confusa dalla perturbazione dell'identità, ha bisogno di ritrovarsi. Tutti pensano del resto che l'identità sia importante, che i valori siano importanti. Ma in alto si sa cosa non si deve dire. Vengono fatti discorsi moralizzatori a sinistra su coloro che sono confusi dal multiculturalismo, ma questa è più una questione sociale che filosofica: la percezione de multiculturalismo è diversa se si guadagnano 800 o 10mile euro al mese. Da vent'anni, le classi popolari votano più o meno uguale, No all'Europa di Maastricht, Le Pen nel 2002, Sarkozy nel 2007, oggi Marine Le Pen, e dicono sempre la stessa cosa, servendosi dei partiti. Negli anni '80, il Fronte nazionale era liberista, era votato dalla vecchia borghesia cattolica, quando negli anni '90 gli operai hanno cominciato a votarlo non appartenevano alla sua cultura che non aveva nulla a che vedere con la lotta di classe. Poi il Fn ha adattato il discorso, così come la sinistra adatta il discorso al suo elettorato.

Ma i due partiti dominanti, Ump e Ps, si rivolgono soprattutto alle classi medie. Come mai?

È un concetto legato al periodo dei Trenta gloriosi, quando nel momento della crescita sociale tutti erano destinati a diventare classe media. A ciascun periodo di mutazione economica corrisponde un paesaggio sociale e una classe sociale. Dopo il periodo della Francia rurale, con i contadini al centro, fece seguito quello della rivoluzione industriale, con la classe operaia, i quartieri operai e il Pcf. Nei trenta gloriosi emerge la classe media, che abita nei pavillon, nelle villette, creando un paesaggio urbano diffuso. Dalla fine degli anni '80 emergono i quartieri etnici, i ghetti che si contrappongono ai pavillon delle classi medie. Oggi, dopo vent'anni di mondializzazione, c'è stata una ricomposizione del territorio. Le classi medie sono esplose. Le classi popolari sono composte non solo da operai, ma anche da impiegati, dal terziario, dai precari: rappresentano il 60% della popolazione.

I grandi partiti hanno capito che queste categorie soffrono enormemente a causa della mondializzazione, ne sono i perdenti. Hanno bassi salari, sono precari, vivono in territori non ben definiti, sono stati cacciati dalle grandi città, vivono ai margini delle zone dove si produce ricchezza, a differenza degli operai di una volta. Vivono una una no man's land culturale e non è un caso se emergono qui i partiti populisti. Da vent'anni le classi popolari hanno un'immagine culturale deteriorata, svalorizzata. Si tratta della Francia periferica, sia dal punto di vista della logica geografica che culturale. In queste zone vivono molti giovani, ma nessuno li vede: secondo un sondaggio Ifop, il 28% di questi giovani tra i 18 e i 24 anni vota Fronte nazionale. Questo vuol dire che, mentre lo zoccolo elettorale dell'Ump sono i pensionati, del Ps i funzionari, la popolazione attiva lo è del Fronte nazionale. È un immenso problema.

La sinistra, il Ps in particolare, come mai ha voltato le spalle alle classi popolari?

Negli anni '80, la sinistra è andata verso il liberismo. Ha abbandonato la questione sociale, sostituendola con l'antirazzismo. Il Pcf è scomparso, è rimasto il Ps che è sempre stato borghese e ha scelto delle tematiche che potenzialmente possono venire difese anche dalla destra, le questioni di società, la scelta della bicicletta invece dell'auto ecc..

Lei parla di Francia divisa in tre: città mondializzate, Francia di provincia e banlieues. Come si situano oggi le banlieues, dove vive una parte della classe popolare?

La figura dell'immigrato ha sostituito a sinistra la figura dell'operaio. Ma la maggior parte degli operai in Francia non sono immigrati. La carta della povertà ci rivela che l'80% dei poveri non vivono nelle banlieues, ma nei pavillon e nelle zone rurali. Le banlieues sono state molto mediatizzate, a causa delle cattiva coscienza coloniale. Le banlieues sono però territori molto mobili, dive si entra e si esce con grande frequenza. Quindi la fotografia che si fa a un momento dato delle banlieues è sempre sfasata: l'immigrato precario arriva, mentre il francese di origine immigrata se ne va. La disoccupazione resta forte, ma non sono le stesse persone a essere senza lavoro. Chi riesce, e sono in molti, se ne va, diventa classe media. Nelle banlieues si riproduce la storia delle classi popolari, si parte dal basso, una maggioranza ci resta, mentre una minoranza riesce e prende l'ascensore sociale. Finora, il modello assimilazionista era basato sul fatto che l'altro diventa sé. In una generazione, italiani, spagnoli ecc. si sono assimilati.

Ma, senza dirlo, dagli anni '80 l'assimilazione è stata abbandonata. Pensavamo di essere più furbi degli americani o degli inglesi, ma l'altro è rimasto l'altro. Siamo entrati in un mondo multiculturale. Ma chi è stato proiettato in questo nuovo mondo senza le istruzioni per l'uso? Le classi popolari. Ai tempi del Pcf, c'era un'integrazione culturale, oggi questo non esiste più e per questo il Fn recupera terreno. Prima, gli immigrati abitavano negli stessi quartieri degli operai francesi, oggi non è più così. L'immigrazione recente vive nelle grandi città, nelle banlieues, mentre l'immigrazione anziana e i bianchi non vivono più negli stessi luoghi. Hanno subito uno choc culturale enorme, quando sono diventati minoranza sul loro territorio.

C'è un effetto-specchio, tra la rivendicazione identitaria dei giovani di origine immigrata e quella dei giovani bianchi di estrazione popolare. C'è un comportamento razionale delle classi popolari, rispetto a quello che hanno vissuto negli ultimi vent'anni, non bisogna disprezzarle. Ho l'impressione che i grandi partiti, che si limitano a fare proposte tecniche, tendano a fare in modo che le classi popolari non votino più neppure alla presidenziale. Del resto, già disertano le urne per gli altri appuntamenti elettorali.

L´occupazione, in Italia, sta assumendo il profilo di una catastrofe sociale. I disoccupati sono almeno 3,5 milioni. Altri 250.000 posti sono a rischio nel corso del 2012, cui vanno aggiunti un miliardo di ore di cassa integrazione. I precari, molti vicini alla mezza età, sono almeno 3 milioni. Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti.

Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la riforma si farà con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l´intento di rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni governative.

Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può star certi che i membri del governo credono davvero che le "nuove regole sui licenziamenti per ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro", richieste da una lettera del commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l´occupazione e ridurre la precarietà. E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti.

Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l´Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d´accordo, che l´articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria (per la quale l´articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c´è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari.

Si prenda il caso della "flessibilità buona", un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido) coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o superati dalla competività cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà che questo è appunto l´intento del governo. Ma è proprio qui che sta l´errore. Le imprese in crisi hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese in crisi, o solo una data fascia di età di essi, o altro? Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch´esso determinabile in base al numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa: prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della precarietà, quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente, per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità il numero dei precari.

Partire da scopi reali e quantificati per ridurre disoccupati e precari non significa sminuire il ruolo della legislazione del lavoro. Significa riportarlo alla sua funzione primaria di ottenere che le condizioni di lavoro siano aderenti agli articoli della Costituzione che di esse si occupano. Per creare occupazione la ricetta è un´altra: decidere come si fa a crearla davvero, e farlo.

Certo, questo governo dei tecnici dovrebbe essere più misurato nel linguaggio. Va bene che i sottosegretari sono stati indicati da quei partiti i cui dirigenti – maschi e femmine – spesso parlano (nel senso di straparlare) “fuori dal vaso”. Per questo, uno/una potrebbe anche scusare il sottosegretario Polillo che vede il ministro Fornero come “icona della fontana che piange” e il sottosegretario Martone che considera “sfigati” gli studenti non laureati a 28 anni. Ma se ci si mette pure il sobrio, contenuto, controllato Mario Monti, allora non c’è speranza. Significa che le derive del linguaggio sono inarrestabili.

Per il premier “i giovani devono abituarsi a non avere un posto fisso nella vita”. Turbocapitalismo e flessibilità: do you remember? Con un modello del lavoro scivolato dalla fabbrica al postindustriale; dalle vecchie “classi”, direbbe André Gorz, ovvero dalle antiche aggregazioni sociali alle nuove élites iperattive (basta pensare al ministro Passera) e alla massa del “lavoro servile”.

Certo, starebbe ai giovani essere autonomi e dimostrarsi responsabili del proprio destino. Solo che il destino non cammina sulle gambe del creativo o del manager bensì di chi staziona in un call-center a un migliaio di euro (se va bene) al mese. La banconista, il commesso, l’addetta al confezionamento, il contabile, centralinista, sportellista, receptionist (tutti magari con laurea e master) non ci provano nemmeno a trovare nobili motivazioni (tipo “il far bene”) per ciò che fanno in cambio di modestissima paga.

Quanto al posto fisso “diciamo anche, che monotonia averlo per tutta la vita. E’ bello cambiare…” suggerisce ancora il premier. Meglio spostarsi di qua e di là, scegliere una dimora piccola ma accogliente, incontrare nuovi amici. Ma lo sa Monti che se il parasubordinato deve firmare per l’affitto di una casa, senza busta paga nemmeno lo prendono in considerazione? E sa che se vuole acquistare un frigorifero a rate, accendere un mutuo per la macchina, senza la garanzia di uno stipendio fisso, serve l’avallo del padre o della madre?

Il meraviglioso appello a una rivoluzione mentale dei giovani avrebbe bisogno di un po’ più di umiltà. Credere in se stessi è possibile però bisogna che qualcuno cominci con il dare il buon esempio. Fin tanto che i ricchi non saranno tassati, il capitalismo continuerà a mostrare la sua faccia più irresponsabile. Fin tanto che i potenti non avranno uno sguardo meno strabico su ciò che avviene intorno a loro, fallirà il tentativo di disegnare delle alternative. E non sarà facile convincere le ragazze “indignate” bolognesi e quella romana del centro sociale Esc – invitate all’“Infedele” di Gad Lerner (lunedì 30) per valutare il governo Monti – che la fine del posto fisso è una vera fortuna.

DomaniDeA mailing list, DomaniDeA@www.women.it, http://www.women.it/mailman/listinfo/domanidea

In tutta Italia stanno nascendo sale di lettura organizzate "dal basso" grazie al modello della studiosa Agnoli -Sono posti pubblici dove si forniscono servizi multipli: si trovano i volumi e si tengono corsi - Sono nuovi spazi che vanno avanti grazie ai cittadini diventando "rifugi" per anziani e bimbi

«Mi piace, perché leggendo posso addormentarmi senza che nessuna guardia mi svegli», ha scritto su un post-it un lettore della bolognese Sala Borsa. Sala Borsa è la biblioteca multimediale di piazza Nettuno, pieno centro della città. Un tempo, alla fine dell´Ottocento, qui si scambiavano merci, bestiame e titoli. Ora alle cinquemila persone che tutti i giorni vi transitano hanno chiesto di completare la frase «Sala Borsa mi piace perché... ». E quella era una delle risposte. Un´altra recitava: «Perché "io barbone" quando piove o fa freddo ho un riparo ma soprattutto perché "posso" acculturarmi leggendo un buon libro il che non è poco, grazie».

Antonella Agnoli ha raccolto i post-it nel suo iPad e li porta sempre con sé. Da alcuni anni si fa promotrice in Italia di quelle che nel mondo anglosassone chiamano le public library e che lì si sa benissimo cosa sono. Non sono le biblioteche di conservazione, con gli scaffali grigi, i libri in ordine, le lampade liberty e le sale manoscritti riservate agli studiosi. Patrimonio indispensabile alla cultura di una nazione, eppure in Italia costrette a combattere per sopravvivere. Quelle alle quali lei pensa sono "piazze del sapere" (si intitolava così il libro che ha pubblicato da Laterza alcuni anni fa), luoghi in cui si fornisce un servizio multiplo: libri, certamente, e poi giornali, studio, collegamenti a internet, musica, caffè, poltrone, spazi per bambini, per le riunioni di associazioni e comitati, per i corsi più vari, dall´informatica all´ikebana, dal lavoro a maglia alla lingua cinese o all´italiano per stranieri. Luoghi di socialità. Tenuti in vita da bibliotecari di professione e da volontari. Servizio culturale e welfare. «Infrastrutture democratiche», le chiama, spazi essenziali soprattutto laddove si raggrumano vecchie e nuove povertà, solitudini e fatica di vivere.

La Agnoli, cadorina di nascita e di lingua, ha diretto la biblioteca di Spinea (vicino a Venezia) e inventato quella di San Giovanni di Pesaro, per tanti aspetti esemplare, di cui è stata direttrice fino al 2008. Ha appena scritto Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica, pagg. 140, euro 12). E da qualche tempo è diventata una specie di consulente itinerante di gruppi di cittadini, di volontari e anche di amministratori locali che la lezione anglosassone vogliono metterla in pratica. Anglosassone, poi, fino a un certo punto. Nei quartieri più difficili di Londra, come Tower Hamlets, funzionano gli Idea Store, di cui è responsabile anche un bibliotecario italiano, Sergio Dogliani. Ma per trovare un paese che vanta un trend vorticosamente positivo occorre andare in Colombia: a Bogotà le biblioteche non sono tantissime, 52, ma sono frequentate ogni anno da 5 dei 7 milioni di abitanti. Il che ha indotto l´Unesco a proclamare la città "Capitale mondiale del libro" nel 2007.

Tre giorni fa Antonella Agnoli ha girato fra Caivano, Cardito, Crispano e Frattaminore, paesi a nord di Napoli, verso Caserta. Realtà difficile, al limite della disperazione (discariche, abusivismo, caos edilizio, camorra). Eppure amministratori e soprattutto un gruppo di giovani si sono detti convinti che «una biblioteca con i suoi nuovi spazi e laboratori diviene un´istituzione fondamentale in una società democratica». «Lo hanno scritto in un documento intitolato La città che vogliamo, con il quale si sono presentati alle elezioni amministrative», racconta Antonella Agnoli. «Alla biblioteca chiedono ambienti di lavoro e di studio armoniosi, luoghi di accesso a internet, spazi autogestiti. Chiedono inoltre che contribuisca all´educazione permanente degli adulti: una serie di servizi che un´amministrazione pubblica intelligente non può ritenere superflui in un´area tanto mortificata, certamente più sensati di certe sagre, festival o premi letterari».

È spesa sociale, insiste la Agnoli. La sola parola welfare evoca l´idea dello spreco in chi pensa che bastino gli accomodamenti del mercato ad alleviare povertà e incultura. «Ma studi americani dimostrano che un welfare culturale riduce le malattie da depressione, dunque più soldi per la cultura sono meno soldi per la sanità. E ancora: nel 2010 il 68 per cento di chi cercava lavoro negli Stati Uniti ha inviato il suo curriculum da una biblioteca. Significa che le biblioteche, anziché sparire perché c´è il web, come profetizza qualcuno, sono un passaggio essenziale anche per accedere alla rete: molti di quel 68 per cento prima aprivano internet da casa, poi, perso il lavoro, hanno tagliato le spese di connessione».

In Italia solo il 10 per cento degli ultrasessantacinquenni ha familiarità con internet. E nel 2015 avranno oltre sessantacinque anni 13 milioni di italiani. Dice Antonella Agnoli: «Non esiste luogo migliore di una biblioteca per offrire agli anziani un´elementare alfabetizzazione informatica: vogliamo che vadano in un internet caffè?». Sono molte le cause che allontanano i lettori dai libri. «Ma quante di quelle settecentomila persone che, secondo l´Istat, l´anno scorso rispetto al 2010 si sono tenute alla larga da una libreria lo hanno fatto perché con tre figli e 1.200 o 1.400 euro al mese non ne hanno potuto spendere 20 per un romanzo? Questi lettori può recuperarli la biblioteca. Ma quale biblioteca?».

Non è un compito che possono assolvere le gloriose Marciana di Venezia o Nazionale di Firenze. Ma la biblioteca delle Balate del quartiere Albergheria, centro storico depresso di Palermo, sì. È una delle iniziative virtuose che segnala la Agnoli, molte delle quali spuntano al Sud. Biblioteca per bambini e adolescenti, le Balate è l´unica del capoluogo siciliano. È retta da volontari, con un contributo della Fondazione Unipolis, e da Donatella Natoli, una vita spesa nelle zone più degradate della città, prima come medico e ora come guida per una quarantina di piccoli lettori ogni giorno.

Piccoli lettori difficili, oltre a lettori grandi, frequentano anche il Centro Hurtado diretto dal gesuita Fabrizio Valletti e la biblioteca Le Nuvole a Scampìa, Napoli. La Fondazione Unipolis ha aiutato Bibliocasa, la biblioteca sistemata in un prefabbricato dell´Aquila, a Piazza d´Arti, e animata da Nicoletta Bardi e da un gruppo di volontari (ora c´è anche un autobus che distribuisce libri nella martoriata e dispersa città). «I volontari sono indispensabili», spiega Antonella Agnoli, «i bibliotecari dipendenti dagli enti locali sono sempre meno e sempre più anziani. Sono generosi e competenti, senza di loro una biblioteca non funziona, ma ce ne sono anche di demotivati. Assunzioni non se ne fanno. Subentrano le cooperative, ma alcune pagano 5 euro l´ora, un compenso da sfruttamento che non induce a un atteggiamento cordiale e garbato, essenziale invece in una biblioteca: molto meglio i volontari». A Torino sono impegnati in tantissimi servizi, fra musei e siti storico-artistici. Poi c´è il caso di Giovanni Galeazzi, un pensionato che tutte le mattine da Mestre va all´Archivio di Stato di Venezia (lo ha raccontato Carlo Mazzacurati nel film Sei Venezia). «Ad Avellino un gruppo di persone aderente ai Presìdi del libro ha raccolto soldi in città, comprato scaffali, donato giornali e riviste, allestito tre postazioni internet e colorato gli arredi della biblioteca Nunzia Festa. Ma soprattutto ha consentito che le sale fossero aperte anche il pomeriggio. Una biblioteca accessibile dalle 9 alle 13 non è una biblioteca».

«Possiamo essere tutti tranquilli per il nuovo e inutile parcheggio di piazza Sant'Ambrogio?». La torre medievale dei monaci, la più bassa, tradisce segni di cedimento ed è stretta dai ponteggi di restauro: «Abbiamo tutte le ragioni di temere per la resistenza del campanile del IX secolo agli assalti di una malintesa modernità». La denuncia è di Carlo Bertelli, storico dell'arte, ex soprintendente, uno dei promotori del comitato contrario alla costruzione dell'autosilo sotto la basilica del Patrono: le ruspe, dice, minacciano la storia architettonica e sacra di Milano. La sua invettiva, pubblicata dal blog «Salva la piazza», pone una domanda e rilancia un allarme: «I monumenti sono davvero sicuri? Evidentemente c'è di che preoccuparsi».

Il parcheggio interrato è stato pensato nel 2000, modificato, messo sotto indagine dalla Procura, assolto, bersagliato da proteste ed esposti. Il cantiere è stato avviato a fine 2010: cinque piani, 234 posti auto a rotazione e 347 privati, la consegna prevista nel 2013, in ritardo sulle previsioni. La giunta Pisapia, nonostante gli appelli, non ha fermato l'operazione: «Le penali sarebbero troppo onerose». Scrive Bertelli: «Il danno architettonico ambientale alla piazza è cosa certa». Ma il rischio per la stabilità della basilica si può solo stimare: quanto faranno male le vibrazioni?

L'ultimo sisma non ha provocato crolli, «per fortuna», ma è stato un «ammonimento». La chiesa di Sant'Ambrogio, ricorda Bertelli, è compromessa e fragile: «Con i restauri dell'architetto Reggiori, nel Dopoguerra, l'interno della canna del campanile fu completamente alterato con la costruzione di una struttura in cemento armato. Il pericolo del cemento inserito in una struttura laterizia antica è che i due sistemi sono tra loro incompatibili. Le sollecitazioni, in caso di scosse (un terremoto, ma anche un imponente cantiere vicino) producono comportamenti pericolosamente diversi».

Borio Mangiarotti, l'impresa che costruisce i box, studia l'impatto dei lavori secondo un piano di monitoraggio elettronico condiviso con la Soprintendenza: «Dall'ultima lettura dei dati — rassicura il presidente Claudio De Albertis — non risulta alcuna anomalia». Gli operai stanno completando la «scatola» del parcheggio sotterraneo. In aprile inizieranno a scavare.

Titolo originale: Can retrofit enhance urban ecosystems? - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Piace a tutti avere una camera con vista, ma quando pensiamo al futuro di un edificio di solito ci scordiamo del tutto il mondo che sta oltre le pareti. Ci soffermiamo sul manufatto in sé – fondamenta, pavimenti, cavità, crepe – isolandolo dal contesto che lo circonda. Mentre invece il suo funzionamento più o meno efficiente dipende moltissimo dalle condizioni esterne. La progettazione più attenta diventa parte attiva dell’ecosistema locale: si sfrutta il calore del sole, si favorisce il flusso di aria fresca, si trae vantaggio dalle piante o dalle alture come schermi. Si restituisce anche qualcosa: piccoli habitat per la fauna, deflusso acque piovane, verde per mantenere fresco un denso isolato urbano.

Il valore degli ecosistemi locali per le aree urbane inizia solo ora ad essere riconosciuto. Una recente ricerca condotta a New York City rileva che il valore degli alberi può essere calcolato in 122 milioni di dollari, per il ruolo nella riduzione dell’inquinamento, il miglioramento estetico, il mantenimento delle temperature nei quartieri a livelli accettabili. Si tratta però di “servizi” raramente presi in considerazione quando si progettano adeguamenti alla struttura urbana. Mentre una loro rigorosa valutazione potrebbe accompagnarsi a tantissimi aspetti, per i potenziali di risparmio energetico, riduzione dei costi, e magari non si tiene conto dei vantaggi di un tetto verde. Si riducono gli impatti per il pianeta controllando le emissioni, e non si calcola quanto costa sigillare una mansarda per i pipistrelli del quartiere.

Un’occasione persa. Se diamo uno sguardo di insieme, capiamo quanto alcune azioni siano di benefizio sia alla città che all’ambiente naturale. I tetti verdi ad esempio. Non solo isolano un edificio come un’imbottitura, ma gestiscono anche il deflusso delle acque piovane, rinfrescano l’ambiente del quartiere, aiutano la vita di preziosi impollinatori e altra fauna. La vegetazione riesce a prolungare la vita attiva in piena efficienza di un tetto, riducendo le sollecitazioni sui materiali caratteristiche dell’erosione e degli agenti atmosferici.

Il rovescio della medaglia è il costo di installazione, in certi casi fino al doppio di un tetto normale. Un anticipo che però si può ripagare coi risparmi energetici. In alcuni progetti l’aria condizionata si è tagliata di un terzo, secondo Paul Mankiewicz, direttore esecutivo dell’Istituto Gaia, centro studi ambientali di New York. Seimila metri quadrati di tetto verde al Canary Wharf, Londra, hanno fatto risparmiare enormi somme per il riscaldamento. Secondo l’amministrazione dell’edificio al numero 10 di South Colonnade, sede della Barclays Capital, col nuovo tetto si riesce a ridurre praticamente a zero la necessità di riscaldare o condizionare l’ultimo piano “e risparmiamo quattro o cinquemila sterline l’anno”. A Singapore, il grande ospedale Changi ha scoperto che le verdure coltivate idroponicamente sui tetti non solo possono essere portate in tavola ai pazienti, ma assorbono il calore dei reparti interessati. Quei risparmi sulle bollette si possono curare meglio i pazienti. E l’energia non è l’unico vantaggio economico del tetto verde. Migliora la produttività e riduce il turnover dei dipendenti degli uffici urbani: il fenomeno si chiama “biofilia”.

Otto piani sopra al fragore della Avenue of the Americas di New York, c’è una piccola foresta di trifoglio, file d’erba e fiori che mostra lo scorrere delle stagioni. Un terrazzo di copertura opera dello studio di architettura Cook+Fox. Attraverso le finestre i dipendenti guardano libellule e farfalle svolazzare sui fiori colorati che spuntano là dove prima c’era una desolante nera copertura catramata. Uno strato di colore che cresce dai sacchi di plastica per terriccio chiamati Green Pak. Riempiti di una miscela di ghiaia e compost, sono più leggeri del classico tetto a verde, i cui strati di terriccio e filtrante richiedono strutture portanti rinforzate. E poi costano la metà: 100 dollari al metro quadrato anziché 180-200. I committenti sostengono che questa realizzazione, completata nel 2006, è uno dei migliori investimenti mai fatti. Magari al settimo piano ci si guadagna dall’effetto termico di quella copertura, però il progettista Rick Cook dice che il suo studio ci guadagna per via del panorama.

Anche altri si sono accorti del potenziale di un ambiente artificiale ma bio-diverso per migliorare i profitti. British Land, il principale costruttore del Regno Unito, ha progettato una “collana verde” attorno al centro commerciale di Teeside – nel quadro di un intervento di modernizzazione del complesso da 26.000 sterline – che comprende un ambiente per le lontre, laghetti, arbusti, casette per gli uccelli. “La gente si sente più vicina alla natura e ci lavora meglio”, spiega Sarah Cary di British Land. Ma aggiunge che è difficile giustificare questi investimenti a bilancio. “Purtroppo, il valore [percepito] è prevalentemente sociale”, commenta. Rafael Marks dello studio di architettura Penoyre & Prasad concorda: “Nel modo in cui si gestiscono preventivi progetti realizzazioni la biodiversità finisce per essere la cugina povera. Tutto dipende dalla discrezione del committente”.

Al momeno, Marks sta lavorando al rifacimento per un centro giovani di una vecchia centrale dismessa di smistamento elettrico dentro a un parco londinese. La nuova funzione sarà di educazione ecologica, e quindi si tratta di un’ottima occasione per rendere complementare l’edifico all’ambiente circostante. Una delle soluzioni è la luce dall’esterno attraverso una specie di “palpebra”, a contenere quell’inquinamento luminoso che può rivelarsi micidiale per i pipistrelli. Quando tramonta il sole i pipistrelli escono a caccia, ma con sempre più luci artificiali nelle aree urbane spesso non si accorgono esattamente di quando arriva il crepuscolo. “Le luci si devono mantenere il più possibile tenui, certo nei limiti di sicurezza di uscire nel parco”, spiega Marks. Il complesso avrà anche tetti verdi, riciclaggio delle acque grigie, massimo sfruttamento della luce solare all’interno.

Restiamo però ai pipistrelli. Il cui numero è nettamente diminuito da quando si è presa l’abitudine di convertire mansarde e sigillare in genere gli edifici. Il Bat Conservation Trust raccomanda di lasciare un varco da 10 cm nei solai: sufficiente all’ingresso degli animali e importante per la ventilazione. Se deve anche evitare di seppellirli vivi nelle pareti cave totalmente isolate, lasciando spazio per uscire. In un progetto di trasformazione ci si è dovuti confrontare con un intero stormo di civette che abitavano in un granaio del XVIII secolo. “Per la conversione di quel granaio vicino a Cambridge abbiamo realizzato uno spazio per civette in ciascun abbaino del tetto”, ricorda Katie Thornburrow di Granta Architects, specializzati in progetti sostenibili. Il committente, Chris Bristow, si sente “lusingato dall’avere queste magnifiche creature in casa. Ci sono costati [gli spazi per le civette] nell’ordine di qualche centinaio di sterline”.

Pare piuttosto economico, ma si tratta comunque di interventi di nicchia se non ci sono stimoli economici chiari per i progettisti. “Siamo onesti”, osserva Stuart Wykes, direttore aggiunto a Lafarge A&C Gran Bretagna. “Le attività edilizie e di escavazione sono per loro natura impattanti sull’ambiente. Sono però anche un’occasione per creare nuovi ambienti e habitat: a volte migliorare ciò su cui si lavora. Dal nostro punto di vista, si inizia il ripristino quando si comincia ad eliminare materiale”. Difficile non essere d’accordo. Il problema è se conservazionisti e investitori con interesse per l’ambiente riusciranno a capire in pieno l’occasione che rappresentano questi interventi per riportare armonia fra città e preziosi ecosistemi. Oppure tutto il nostro impegno per ridurre le emissioni si risolverà contro la vita nei quartieri?

È difficile essere cittadini. In ogni tempo sono stati molti, e assai diversi fra loro, gli ostacoli che sbarrano l'accesso alla cittadinanza o che ne condizionano e vanificano l'esercizio. Pare che non si possa includere alcuni nello spazio politico senza escludere o discriminare altri. In Grecia, infatti, la cittadinanza era ristretta a una sola parte del corpo sociale, ai maschi liberi figli di liberi, e - se si trattava di una democrazia - consisteva nella partecipazione diretta agli affari della città attraverso la pubblica deliberazione in assemblea. L'esclusione, o meglio l'inclusione subalterna e differenziata, di classi, ceti e generi (gli schiavi, le donne, i meteci, ossia gli stranieri residenti) era netta. Invece Roma si differenzia dal mondo greco perché concepisce la cittadinanza come uno spazio non etnico ma giuridico e istituzionale, all'interno del quale possono essere accolti (naturalmente, dopo dure lotte civili) ceti subalterni e genti diverse, politicamente sottomesse; certo, anche questa cittadinanza riguarda solo i maschi liberi, e perde progressivamente il significato di partecipazione politica via via che Roma si trasforma in un impero mondiale. Il mondo cristiano medievale predica la cittadinanza universale del regno dei cieli ma in questo mondo conosce cittadinanze plurime, particolari, gerarchizzate. La sua cifra è la differenza (fra nobili, clerici, plebei); solo nelle città si aprono spazi di conflitto e di lotta per l'accesso alla cittadinanza di larghe fette di popolo, a sua volta diviso fra ricchi e poveri. Che la cittadinanza sia un'inclusione che implica un'esclusione,o una discriminazione, resta confermato (si pensi non solo alle donne, ma anche agli eretici, o agli ebrei).

È la modernità che si incarica di affermare la cittadinanza universale, l'uguaglianza civile e politica, senza esclusioni. Più che di lotte, ora, si deve parlare di autentiche rivoluzioni che azzerano le discriminazioni; il cittadino dei tempi nuovi vive un'universale appartenenza alla repubblica. Eppure, quel cittadino è al tempo stesso un borghese; ovvero, dal godimento di quella cittadinanza sono per lungo tempo esclusi i non-proprietari, i poveri, ancora e sempre le donne, e tutto il mondo coloniale. Sono state ancora necessarie lotte durissime perché i diritti di cittadinanza diventassero effettivi, perché la cittadinanza fosse davvero inclusiva, perché ai diritti civili e politici si affiancassero i diritti sociali.

Ma anche quest'ultima fase della storia della cittadinanza, che coincide con la democrazia e con lo Stato sociale, ha i suoi problemi e le sue contraddizioni. Prima di tutto all'esercizio della cittadinanza: ciò che il mondo d'oggi produce è più un apatico consumatore che un cittadino. Ma un altro rischio sovrasta la cittadinanza moderna. L'attuale crisi dello Stato sociale è di fatto crisi della cittadinanza: la frammentazione della società, la marginalità, la precarietà, sono infatti espulsioni dalla sfera pubblica; la cittadinanza non è più appartenenza ma si rovescia in rancore, in frustrazione; e, ancora una volta, in esclusione.

A ciò si aggiunge il fatto che la cittadinanza moderna è sì universale, ma è determinata dallo Stato, che prescrive le modalità con cui si diventa cittadini; se prevale l'elemento della nascita, della cittadinanza dei genitori, vige lo ius sanguinis, mentre se prevale il territorio in cui si nasce o in cui si vive, vale lo ius soli. In Italia il primo è assai più importante del secondo: lo straniero residente può chiedere la cittadinanza solo dopo molti anni di permanenza e di lavoro. E i figli degli stranieri non diventano italiani neppure se nascono e vivono in Italia.

Quando la società era omogenea, quando lo Stato coincideva con la nazione, i problemi erano relativamente pochi: di solito, si nasceva in Italia, da genitori italiani. Ma oggi l'età globale implica la coesistenza, in dosi massicce, su un medesimo territorio di diverse culture, etnie, lingue, religioni. E la prevalenza dello ius sanguinis fa sì che nel medesimo spazio si creino differenze rilevantissime fra residenti cittadini e quantità sempre maggiori di residenti non-cittadini, molti dei quali nati in Italia, che come nuovi meteci condividono la nostra vita quotidiana ma non la nostra cittadinanza. Nasce così un'assurda società postmoderna, in cui la diversità culturale è disuguaglianza civile e politica; una società che non fa convivere le differenze ma le stratifica, le gerarchizza. Ritorna, insomma, la difficoltà della cittadinanza, secondo una modalità che sembrava superata; non si tratta più del suo cattivo esercizio, ma di uno sbarramento all'accesso.

L'argomento che allargando i casi di acquisizione della cittadinanza tramite lo ius soli si snaturerebbe l'identità italianaè del tutto erroneo: non c'è in Costituzione alcun accenno a una necessaria base naturale o culturale della repubblica, che è fondata solo sul lavoro e sui principi della democrazia. La cittadinanza esige non uniformità né omogeneità, ma uguaglianza e pari dignità. In realtà, chi chiede oggi la cittadinanza non universale ma selettiva e diseguale, propugna una sorta di uscita a ritroso dalla modernità, verso un nuovo feudalesimo delle disuguaglianze, verso nuove servitù. E, al contrario, la lotta per la cittadinanza degli stranieri residenti, può essere un'occasione per riaprire una stagione di partecipazione politica anche per chi la cittadinanza già ce l'ha, ma non ne fa buon uso. Non sono solo gli stranieri, ma tutto il Paese, ad averne bisogno.

MILANO

Cosa c'era dietro lo scontro tra Boeri e Pisapia? Expo, lo sanno tutti. Adesso che a Palazzo Marino la calma sembra tornata, a mente fredda ci si può tranquillamente chiedere: ma chi aveva ragione? Dopo la sfuriata del sindaco, Stefano Boeri ha dovuto mettere la coda tra le gambe e rinunciare alle deleghe proprio sull'esposizione universale del 2015. Dietro il generico appello al rispetto della collegialità invocato dalla giunta c'era il fastidio crescente di Giuliano Pisapia per il continuo controcanto dell'archistar sulla fiera internazionale. Si era detto di uno scontro di personalità lontane fra loro. Può darsi, ma c'è dell'altro.

Il ballo del mattone

Il 2015 è la data fatale su cui Milano si gioca il tutto per tutto. L'economia della città motore d'Italia ormai da decenni gira attorno al mercato edilizio e immobiliare, soprattutto grazie alla riconversione delle ex aree industriali. E' su questo enorme flusso di affari e cemento che si riposizionano interessi e poteri fortissimmi. Gli ultimi industriali chiudono e svendono fabbriche ancora attive per puntare solo sul valore dei terreni. Le banche (Unicredit e Intesa in testa) lesinano credito alle imprese, ma sono invece esposte per miliardi di euro sul fronte delle speculazioni edilizie. Finanza e mercato immobiliare sono sempre più intrecciati. Ma gli immobiliaristi sono sempre più in crisi. Zunino è fuori gioco e Ligresti è sempre più in difficoltà, e sta per essere salvato in extremis da Unipol. Eppure è da questo gioco del mattone che dipende tutta la lunghissima catena di appalti e subappalti che si spartiscono cantieri, bonifiche e smaltimento rifiuti. Da questo dipende il lavoro nella regione più ricca d'Italia, e anche gli affari delle ormai accertate infltrazioni della 'ndrangheta.

La politica in Lombardia, e a Milano, negli ultimi venti anni si è occupata prima di tutto di gestire questo enorme business. Su queste fondamenta di cemento armato si è sviluppato il ventennio di governo delle destre e il lungo pontificato (quattro mandati) del governatore ciellino Roberto Formigoni, ma anche il ruolo succube, per non dire connivente, del centrosinistra di Filippo Penati & Compagni, impegnati a ricavarsi un posticino nella stanza dei bottoni cercando di spartire la torta tra Cooperative rosse e Compagnia delle opere.

Adesso, però, è tutto cambiato. La crisi mondiale del mattone prima, e la crisi mondiale poi, rischiano di fare saltare il banco. Il settore immobiliare è in stagnazione, la cuccagna è finita, la torta è molto più piccola e non basta per tutti. E se il castello di cemento crolla, tutti rischiano di crollare. Per questo ognuno cerca di salvarsi come può. Il bel mondo del business milanese è diventato un verminaio di interessi incrociati e contrastanti che si riverbera nell'implosione del sistema di governo delle destre, e nella crisi non ancora risolta del Pd.

Expo rappresenta l'ultima spiaggia per tutti. Anche per Giuliano Pisapia, l'unico che con tutta questa storia non c'entrava proprio nulla e che però si trova a governare proprio nella fase più delicata. Ma questo è solo il primo di una lunga serie di paradossi legati alla fiera del 2015.

Il paradosso dell'Archistar

Non era passato neppure un giorno dalla vittoria di Pisapia, ed ecco servito il secondo paradosso. Boeri, l'architetto di alcune della maggiori speculazioni immobiliari, l'uomo nuovo del Pd del nord clamorosamente bastonato alle primarie, ha tentato di riciclarsi interpretando l'inedito ruolo di paladino ambientalista contro le colate di cemento. Da allora non ha mai perso occasione di sparare contro la giunta (e contro Pisapia). E' stato questo «fuoco amico» insistito che ha portato allo scontro mal ricucito col sindaco.

Ma chi è, o meglio chi era Boeri, prima di scoprirsi star della politica? Insomma, da che pulpito viene la predica? Boeri ha realizzato il masterplan dei progetti sull'area destinata a Expo, quando Expo era ancora il fiore all'occhiello d Letizia Moratti. Da quando si è candidato, l'archistar ha difeso con le unghie il suo mitico orto planetario, ma sembra essersi dimenticato dei progetti di palazzoni previsti già allora su quell'area, anche se le simulazioni sulle cubature previste su quei terreni restano archiviati negli scaffali del suo ufficio. Boeri è anche l'architetto che era stato chiamato per realizzare con urgenza i lavori per il G8 alla Maddalena. Visse sull'isola mesi senza accorgersi del giro incredibile di corruzione e malaffare che ruotava intorno alle sue opere architettoniche. E Boeri, soprattutto, è anche il progettista del cosiddetto «orto verticale» (due palazzoni «verdi» nell'ambito dell'impressionante colata di cemento sull'area Repubblica-Garibaldi). E' l'architetto del Cerba, il mega centro di ricerca sognato da Umberto Veronesi da realizzare sulle aree del principe del mattone, Salvatore Ligresti, proprio nel mezzo della grande area agricola del parco sud di Milano. Ma allora, com'è possibile che proprio lui abbia potuto permettersi di rifarsi una verginità attaccando Giuliano Pisapia su Expo e accusandolo nientemeno di fare il gioco di Roberto Formigoni e degli immobiliaristi speculatori?

La sconfitta di Letizia Moratti

Il trucco c'è, e sta nel fatto che Pisapia è entrato nella partita di Expo quando i giochi erano già fatti e mancava un minuto alla fine. Quando è arrivato a Palazzo Marino mancavano poche settimana prima che il Bie, il comitato internazionale di Parigi, disgustato dall'infinita querelle tra Moratti e Formigoni, portasse via la fiera da Milano per manifesta incapacità di realizzare l'evento. Il vincitore della partita, dopo tre anni di duri scontri con Letizia Moratti, c'era già ed era Roberto Formigoni, il quale certo non ha versato troppe lacrime per la sconfitta dell'ex sindaco. Palazzo Marino non aveva i soldi per comprare i terreni di proprietà di Fiera Milano (che dipende dalla Regione) e del gruppo Cabassi. Per questo la Moratti poteva solo puntare sul comodato d'uso. In pratica, se fosse andato in porto, Fiera e Cabassi avrebbero ceduto il diritto di utilizzare i terreni fino alla fine di Expo per poi riprenderli con la concessione di potere edificare su metà dell'area a un indice di edificazione intorno allo 0,5%.

Un affarone per Fiera Milano, che quei terreni li aveva acquistati per quattro soldi pochi anni fa, e che se li sarebbe visti super rivalutati. I Cabassi erano d'accordo, anche se loro quelle terre le possiedono da sempre e su quell'area avevano già subìto sette espropri, pari a tre quarti della superficie originale.

Boeri vs Cabassi

Ai Cabassi piace essere considerati degli «sviluppatori» (non immobiliartisti alla Ligresti) interessati, oltre che al business, anche all'idea di poter gestire al meglio i progetti per il dopo Expo. Lo stesso Boeri, pochi giorni prima di accettare la sfida delle primarie, aveva riconosciuto loro questa capacità e li aveva indicati come i migliori candidati alla gestione del suo famoso orto planetario dopo il 2015. Eppure, un secondo dopo essersi lanciato in politica, come spesso gli è capitato, ha cambiato linea e non ha risparmiato duri attacchi anche ai Cabassi, dipingendoli come squali del mattone. Lo scontro non si è mai risolto tanto che la famiglia Cabassi sarebbe pronta anche a portarlo in tribunale per diffamazione, dove troverebbe a difendere l'architetto un peso da novanta come l'avvocato Guido Rossi, amico storico della famiglia Boeri.

Lo strapotere di Formigoni

Ma torniamo all'infinito braccio di ferro per l'acquisto dei terreni. Chi invece i soldi per comprare l'area li aveva eccome era il solito Formigoni, o meglio la Regione (si parla sempre di soldi pubblici). Da qui l'idea: ventilare l'esproprio dei terreni in nome dell'interesse pubblico facendo poi acquistare a prezzi scontati l'area ad una società creata ad hoc (ArExpo) - composta da Regione, Comune, Provincia, Fiera Milano e Camera di Commercio. Quindi, essendo l'unico in grado di comprare, Formigoni è riuscito mettere tutti sotto il suo dominio.

Ed ecco un altro paradosso: la vittoria di Giuliano Pisapia ha chiuso definitivamente la partita del governatore con la rivale Letizia Moratti. Formigoni è rimasto l'unico incontrastato principe di Expo. In pochi mesi è riuscito a ridurre il sindaco di Milano al ruolo di semplice controllore; e, soprattutto, gli indici edificatori delle aree sono stati confermati allo 0,52%, ma lo «sviluppatore» per il dopo Expo non saranno né i Cabassi - costretti a vendere a prezzi di saldo, prendere o lasciare - e neppure il Comune di Milano. Sarà il solito giro del Pirellone, una delle Regioni con il più alto tasso di inquisiti d'Italia.

La scelta obbligata di Pisapia

Quindi, anche se Boeri è l'ultimo che aveva i titoli per sollevare la questione, non aveva tutti i torti quando sostenne che Palazzo Marino, pur di non perdere i cospicui finanziamenti in arrivo da Roma per Expo, era rimasto schiacciato sulla linea di Formigoni. Il fatto che i terreni siano pubblici, infatti, non mette i milanesi al riparo dalla speculazione edilizia. Anzi. L'esborso di soldi pubblici (120 milioni, 80 alla Fondazione Fiera, 40 ai Cabassi anticipati per intero dalla Regione) impone di far fruttare al massimo quelle aree dopo l'Expo. Questo significa una cosa sola: costruire. Altro che parco agrolimentare, quello tanto caro a Boeri e soprattutto ai milanesi che per averlo hanno anche votato a larga maggioranza un referendum ambientale. E non è un caso se il giorno dopo la lavata di capo del sindaco a Boeri le mitiche serre dell'archistar siano diventate virtuali e gli orti abbiano lasciato il posto ad una più tecnologica e meno verde «Smart city».

Mentre intorno all'area di Expo stanno per partire due enormi progetti edilizi: Cascina Merlata e le torri di via Stephenson. A Cascina Merlata cooperative «bianche» e «rosse» - insieme a Banca Intesa - costruiranno a partire da questa primavera 4 mila alloggi low cost e per l'housing sociale, supermercati e quattro torri per uffici su una superifice di 127 mila mq. Un'operazione immobiliare da 1,2 miliardi di euro. In via Stephenson sono in attesa di partire i progetti di Ligresti, torri altissime che saranno ridimensionate solo grazie alle modifiche del Pgt (piano regolatore) volute dalla nuova giunta di Palazzo Marino. Il sospetto è che Expo fornirà i servizi per ciò che già adesso sta per essergli costruito intorno.

Ma il paradosso più grande è che il Comune di Milano, nonostante sia l'istituzione con le casse più vuote, debba però sborsare più di tutti per l'Expo di Formigoni (magari tagliando anche su quelle voci che sono irrinunciabili per chi Pisapia lo ha votato). Palazzo Marino deve pagare 28 milioni e mezzo e cedere una parte dei terreni comunali per avere il 36,7% di AreExpo (stessa quota della Regione) ai quali vanno aggiunti 20,4 milioni in 4 tranches per le spese di gestione. Una realtà difficile da accettare, anche perché il Comune forse avrebbe potuto tentare un'altra via: lasciare il gioco alla Regione senza sborsare un euro per i terreni e mantenere comunque l'ultima parola sulla destinazione urbanistica, visto che buona parte dell'area Expo è su territorio comunale. Il progetto originale, quello che aveva avuto anche la consulenza eminente di Carlin Petrini di Slow Food, è completamente snaturato e ridimensionato, i cantieri scontano anni di ritardo e molte strade e metropolitane connesse all'Expo non si concluderanno entro il 2015, ma il sindaco è costretto ad andare fino in fondo. E per questo sta facendo il possibile per portare a casa qualcosa di utile per la città, come, per esempio, la sistemazione della Darsena dei navigli e lavoro per i cassintegrati.

Ormai non si può fare altrimenti: questa è l'unica via percorribile per non buttare un'occasione d'oro e non lasciare a Roma i miliardi che dovrebbero arrivare per tutte le opere direttamente e indirettamente legate all'Expo. Tanto più adesso che al governo non c'è Silvio Berlusconi, e neppure Giulio Tremonti che all'esposizione universale non aveva mai creduto. Oggi ci sono i banchieri milanesi che nell'affare del mattone a Milano hanno investito moltissimo. E le banche adesso si trovano scoperte per miliardi e hanno una gran paura che prima o poi la bolla immobiliare milanese gli scoppi in faccia.

Appello per l'incolumità della cappella degli Scrovegni

L’appello per l’incolumità di uno dei massimi monumenti dell’arte italiana, la Cappella degli Scrovegni a Padova è stato promosso da Alessandro Nova, Steffi Roettgen e Chiara Frugoni (massima studiosa della cappella) ed è stato scritto da questa ultima.

Chi volesse sottoscriverlo, può mandare un’email al professor Sergio Costa: gs.costa@alice.it

Gli affreschi di Giotto della Cappella Scrovegni a Padova corrono il rischio di essere distrutti perché la delicatissima situazione idro-geologica sottostante sarà modificata inesorabilmente dalla progettata costruzione di un Auditorium a meno di 200 metri dalla cappella. Nella stessa zona esiste anche il progetto di un grattacielo di 104 metri ed è stato appena ultimato un parcheggio, cioè una vasta cementificazione che ha modificato l’assorbimento delle piogge nel terreno.

I risultati di uno studio affidato dal Comune nel 2011 a tre ingegneri sulle possibili conseguenze che la costruzione dell’Auditorium avrebbe sull’area circostante, sono possibilisti, ma segnalano che la falda profonda dell’area Auditorium è in collegamento con quella della Cappella. E’ evidente che non si può affidare a un progettista di una nuova opera la salvaguardia dell’ambiente né affidargli il verdetto sulla possibilità che l’Auditorium danneggi la Cappella, nell’immediato o negli anni futuri.

Chiediamo che prima che inizi la costruzione dell’Auditorium, si realizzino opere di massima salvaguardia del sottosuolo della Cappella, possibilmente a seguito di un concorso internazionale.

Quanto valgono gli affreschi di Giotto, rispetto ai vantaggi portati dalle nuove costruzioni? Non lasciamo soli i padovani a discuterne il prezzo, perché non c’è prezzo.

Chiara Frugoni

Francesco Aceto

Roberto Bartalini

Francesco Caglioti

Laura Cavazzini

Keith Christiansen

Maria Monica Donato

Vittorio Emiliani, per il Comitato per la Bellezza

Julian Gardner

Carlo Ginzburg

Maria Pia Guermandi, per Eddyburg

Donata Levi, per PatrimonioSos

Franco Miracco

Tomaso Montanari

Alessandra Mottola Molfino, per Italia Nostra

Alessandro Nova

Titti Panajotti, per Italia Nostra Padova

Giuseppe Pavanello

Antonio Pinelli

Giuliano Pisani

Serena Romano

Steffi Roettgen

Salvatore Settis

Giovanna Valenzano

Bruno Zanardi.

"Gli affreschi di Giotto minacciati dall'auditorium" l'appello che divide PadovaDario Pappalardo -la Repubblica

«Gli affreschi di Giotto sono in pericolo». A Padova, il progetto di costruzione di un auditorium a 200 metri dalla Cappella degli Scrovegni mette in allarme Italia Nostra e un gruppo di storici e intellettuali - da Salvatore Settis a Carlo Ginzburg - che lanciano un appello per scongiurare l'avvio dei lavori. «La delicatissima situazione idrogeologica sottostante al luogo che contiene gli affreschi del Trecento sarà modificata inesorabilmente», dicono. Il disegno dell'architetto austriaco Klaus Kada prevede la realizzazione di un enorme cubo bianco nell'area di piazzale Boschetti: una casa della musica con una sala grande di 1300 posti, che affaccerebbe direttamente sul Piovego, il canale cittadino, alle spalle della Cappella degli Scrovegni. Negli ultimi mesi, il Comune ha affidato a tre ingegneri un'indagine sulle eventuali conseguenze della nuova costruzione. Il responso è che l'edificazione del’auditorium sarebbe possibile «purché non vengano modificate le quote locali della falda acquifera nell'area degli Scrovegni». Nello spazio di qualche centinaio di metri, intanto, è stato appena realizzato un parcheggio, mentre è già aperto il cantiere per un grattacielo che supererà i 104 metri.

«Gli affreschi di Giotto rappresentano il principale patrimonio identitario, culturale ed economico della città. Chi arriva a Padova viene per lo più per visitarli. Non saremmo mai così suicidi da metterli in pericolo», spiega il vicesindaco di Padova Ivo Rossi. «Abbiamo speso 300 mila euro per affidare l'esame ai tre saggi. Faremo ulteriori valutazioni, la nostra attenzione sarà massima. Il progetto dell'auditorium non è stato ancora assegnato: se dovessimo scoprire che ci sono problemi, saremmo pronti a modificare i nostri propositi. Padova vanta una lunga tradizione musicale e ha bisogno di uno spazio di questo tipo. In Italia, spesso, si rischia di restare fermi e di non concretizzare nulla».

Se anche Facebook è in fermento - il gruppo KADAstrofe (che gioca col nome dell'archistar Kada) diffonde la protesta sul social network - storici e intellettuali non si sentono rassicurati dall'esito delle indagini commissionate dal Comune di Padova. «La situazione idrogeologica della Cappella è già molto fragile e la falda profonda dell'"area auditorium" risulta in collegamento - spiega la storica Chiara Frugoni, tra i principali promotori della raccolta di firme a cui ha aderito anche il veneto Franco Miracco, consigliere del ministro dei Beni culturali Ornaghi. Nel 2009 si denunciò che il terreno intorno non era in grado di assorbire l'acqua piovana e si creavano ristagni. È facile capire quale pericolo l'acqua rappresenti per le pitture. Chiediamo che prima che inizi la costruzione dell'auditorium si realizzino opere di massima salvaguardia del sottosuolo della Cappella, possibilmente a seguito di un concorso internazionale». Dal Comune ribattono: «I controlli alla falda acquifera degli Scrovegni sono costanti. Vengano pure a controllare la documentazione. Si tratta di un falso problema: fino agli anni Cinquanta, e quindi per 700 anni, prima che si intervenisse, il fiume che scorre lì vicino aveva un regime diverso. Quando c'erano le piene, la Cappella si trovava sempre con l'acqua che la lambiva, per fortuna, però, gli affreschi si sono conservati».

L'auditorium della discordia per ora rimane un progetto nel cassetto. Al di là delle contestazioni, mancano ancora i finanziamenti. Il costo dei lavori si aggira attorno ai 60 milioni di euro. La Fondazione Cassa di Risparmio aveva stanziato prima 55 milioni, poi 35. Adesso la situazione è ferma. E dal Comune non escludono di pensare presto a soluzioni alternative.

A partire dal luogo dove far sorgere la casa della musica. Magari un po' più lontano dagli affreschi di Giotto, che quest'anno festeggiano il decennale del loro restauro, conclusosi nel 2002

L'intervista - a Salvatore Settis

«In duecento anni, è la seconda volta che la zona in cui si trova la Cappella degli Scrovegni, viene messa in pericolo per ragioni di guadagno». L'archeologo e storico dell'arte Salvatore Settis, tra i primi firmatari dell'appello contro la costruzione dell'auditorium di Padova, si riferisce a quando, nel 1827, gli ultimi eredi, i Gradenigo, fecero abbattere Palazzo Scrovegni, bisognoso di restauri, e minacciarono di fare lo stesso con la Cappella attigua. Dopo anni di contesa, l'aggressione fu sventata con la vendita della piccola chiesa al Comune di Padova, nel 1880. «Quella distruzione è ancora da risarcire», dice ora Settis.

Professore, perché non si deve costruire l'auditorium? «In primo luogo per il problema di natura idrogeologica che comunque esiste: anche se il rischio fosse solo dell'1 per cento, bisogna fermarsi. Occorre sempre prendere per buona la valutazione più allarmistica: se un aereo "potrebbe" cadere, io non lo prendo. Stiamo parlando di Giotto».

E la seconda ragione? «Non si deve cambiare la funzione storica di quell'area, ma rispettarla. A un passo ci sono anche gli Eremitani con le pitture di Mantegna. Adesso, oltre a un parcheggio, e ad altra cementificazione, si procede alla costruzione di un grattacielo. Tutto questo mi sembra perverso e non è degno della città di Padova».

Insomma, la zona va lasciata così com'è... «C'era un progetto di dedicare tutta quell'area al verde pubblico. Ecco, sarebbe il giusto modo per riparare a quel danno di quasi due secoli fa».

La relazione di compatibilità economica della Commissione Roma 2020 mostra l'impatto positivo in termini economici di una candidatura della capitale alle Olimpiadi e Paralimpiadi del 2020. Analizzando a fondo la relazione, emerge che da un punto di vista metodologico sono state fatte scelte che hanno come conseguenza la convenienza del progetto. Ne deriva che la Commissione ha effettuato una valutazione che sovrastima alcuni benefici dell’evento, e va quindi presa con cautela.

La recente relazione di compatibilità economica per la valutazione della candidatura di Roma alle Olimpiadi e Paralimpiadi del 2020 ha dimostrato il potenziale impatto positivo dei Giochi sull’economia della capitale, del Lazio e del paese nel suo complesso. La Commissione di compatibilità economica, presieduta da Marco Fortis, afferma che le Olimpiadi, in un’ottica keynesiana di supporto pubblico alla domanda, porterebbero a una crescita dell’1,4 per cento del Pil. Nella Relazione, s’ipotizza un impegno economico di 9,7 miliardi di euro, di cui 4,7 miliardi pubblici: 2,5 per costi di organizzazione, 2,8 per infrastrutture sportive e 4,4 per infrastrutture di trasporti, mobilità e progetti urbani. Le Olimpiadi sarebbero a costo zero per lo Stato: l’investimento si autofinanzierà attraverso un maggior gettito erariale futuro e attraverso i ricavi del Comitato Organizzatore (ad esempio, biglietteria) e della valorizzazione immobiliare. Infine, i benefici occupazionali sarebbero notevoli, ma transitori: 170mila unità anno di lavoro in quattordici anni, con un picco di 29mila nuovi occupati nel 2020.
D’altra parte, è necessario smorzare facili entusiasmi.

Il lavoro del team Fortis, seppur svolto con professionalità, sembra rappresentare una giustificazione economica a una decisione puramente politica. Sin dall’edizione di Los Angeles del 1984 sono state introdotte valutazioni ex ante sull’entità del finanziamento necessario e sui benefici derivanti dai Giochi, ma con scarsi risultati. (1) Tali studi sono più che altro esercizi matematici, che dimostrano ipoteticamente la convenienza dell’evento. D’altra parte, se la Relazione fosse inconfutabile, perché il Governo Monti sta prendendo tempo prima di dare una risposta su Roma 2020? Se i Giochi sono tanto convenienti, perché mettere in dubbio i risultati?

IPOTESI CREDIBILI?

Nella relazione, si confronta l’ipotesi in cui vengano assegnati i Giochi a Roma rispetto a un’ipotesi di base in cui i Giochi non vengano ospitati (cioè zero investimenti). Risultato: crescita del Pil e dell’occupazione. Si vede che alla Commissione piace vincere facile. Creare ipotesi alternative credibili è sicuramente impresa ardua. Ma un confronto corretto richiederebbe un’ipotesi rilevante, ad esempio, il caso in cui si investisse comunque in tutte le infrastrutture urbane e sportive previste nella Relazione, escludendo invece i costi direttamente legati all’organizzazione dell’evento. Solo in questo modo sarebbe possibile dimostrare il valore aggiunto delle Olimpiadi.

IL MODELLO

La relazione utilizza una metodologia input/output (I/O) per la valutazione dell’impatto dell’evento. Nell’appendice alla relazione si sostenga che negli ultimi anni tale metodologia sia stata in parte abbandonata a favore di modelli di Computable General Equilibrium (Cge), che superano la visione statica dei modelli I/O, permettendo di inserire le dinamiche comportamentali (come le aspettative) degli agenti. (2) Nel modello I/O utilizzato dalla commissione, i prezzi dei beni e dei servizi “non sarebbero influenzati, se non marginalmente per gli effetti della maggiore domanda” (pag. 62). Non tenendo in considerazione i vincoli dell’offerta, si sta ipotizzando, ad esempio, che i prezzi di alberghi e ristoranti non aumenteranno durante il periodo dell’analisi. In realtà, l’offerta non è sempre disponibile in qualsiasi quantità, ma sono i prezzi a modificarsi. In definitiva, i modelli I/O non includono gli effetti negativi, ma sovrastimano sistematicamente i benefici di un evento. Anche il modello Cge non è esente da critiche, ma è più accurato, e sorge il dubbio sul perché non sia stato scelto. La risposta si trova tra le righe dell’appendice: “i modelli Cge sono più costosi da sviluppare rispetto agli input-output, a fronte della struttura più complessa e del maggiore quantitativo di dati richiesto” (pag. 69). Di fatto bisognerebbe modellizzare il sistema dei prezzi e dei salari, complicando l’analisi. (3) Ne consegue che si è preferito risparmiare tempo e denaro.

I PUNTI CRITICI

Nella Relazione si prevede anche:
1. un aumento dei posti di lavoro legati all’organizzazione dei Giochi Olimpici, al commercio, al turismo e al settore delle costruzioni. Ma che tipo di posti di lavoro? Part-time? Temporanei?
2. nessun effetto negativo per il turismo, grazie alla particolare configurazione del nostro sistema turistico, caratterizzato da molti poli di attrazione. I turisti continueranno a visitare Roma e altre località italiane, senza paura di sovraffollamento, con un effetto positivo sui consumi e sul settore turistico. Un modello Cge avrebbe invece incluso l’effetto di un aumento dei prezzi dovuto alla crescita della domanda dei turisti, e anche lo spostamento di risorse in questo settore da altre industrie, con conseguenze economiche negative sulle seconde. Giesecke e Madden dimostrano con un modello Cge come i Giochi di Sidney abbiano comportato uno spiazzamento dei consumi a livello nazionale di 2,1 miliardi di euro; (5)
3. gli investimenti in infrastrutture (il villaggio olimpico e il villaggio media ) verranno “certamente” recuperati attraverso i privati. Una visione a dir poco ottimistica: il costo delle Olimpiadi di Londra 2012 è triplicato dall’anno della candidatura e il governo dovrà coprire con soldi pubblici il mancato investimento, a seguito della crisi, da parte dei privati.
4. la spesa pubblica prevista per i Giochi implicherà una riduzione della spesa in altri settori: a essere tagliate saranno le spese che risulteranno meno efficienti in termini di moltiplicatore del reddito. Sarebbe interessante sapere se anche per questa scelta si utilizzerà sempre un modello I/O.
I risultati finali della Commissione dipendono dunque dalle discutibili ipotesi del modello, che dimostrano la convenienza economica del progetto Roma 2020. Ciò implica che non è una valutazione del tutto obiettiva, e, sovrastimando i benefici, dovrebbe essere presa con cautela.

(1) Preuss, H. (2004) “The Economics of Staging the Olympics”. Edward Elgar. London Reference Collections.
(2) Dwyer, L., P. Forsyth, J. Madden, and R. Spurr (2000) “Economic Impacts of Inbound Tourism under Different Assumptions Regarding the Macroeconomy”. Current Issues in Tourism, 3: 325-363.
(3) Blake, A. (2005) “The Economic Impact of the London 2012 Olympics”. Nottingham University Business School Working Paper No. 5, 2005.
(4) Giesecke, J.A., and J..R Madden (2007) "The Sydney Olympics, seven years on: an ex-post dynamic CGE assessment" Centre of Policy Studies/IMPACT Centre Working Papers -168, Monash University, Centre of Policy Studies/IMPACT Centre.

1. DAGOREPORT


La conquista del cinema Etoile, nella centralissima piazza San Lorenzo in Lucina, da parte del colosso della moda francese LVMH di Bernard Arnault, merita due righe. Intanto, lo spazio ha visto una guerra fino all'ultima goccia di sangue tra Armani e il transalpino. Non si sa come e perché, bisognerebbe chiederlo al Comune di Roma, ha vinto Arnault.

Anche perché l'ostacolo maggiore all'operazione porta il nome di "cambio di destinazione": come ha fatto il colosso parigino a convincere il Campidoglio a cedere, da cinema a grande magazzino di moda, il "più grande d'Europa"? Con i soliti "inghippi" alla romana: dalla pavimentazione del Tridente a una serie di "trovate", prossime alle stronzate, di creare una saletta cinematografica (con poltrone d'oro!) per chissà quali documentari in gloria della griffe, più vari ipotetici e anche ridicoli riferimenti al mondo del cinema.

Amorale della fava: mentre Roma dimostra ancor di più di essere una città portata alla penetrazione anale da parte di chiunque atterri a Fiumicino, il paraguru Arnault ha ‘incassato' un grande valore immobiliare.

2- RESTYLING GRIFFATO PER IL TRIDENTE FINANZIATO DALLA MAXI BOUTIQUE VUITTON


Alessandra Paolini, per "la Repubblica - Roma "del 13 maggio 2011

Come è possibile? La generosità non c'entra. C'entra piuttosto un accordo tra il Campidoglio e la Luis Vuitton, che a piazza in Lucina aprirà nei prossimi mesi il suo store più grande d'Europa. Lo aprirà lì, nell'ex spazio Etoile, ancor prima cinema. E proprio i soldi - due milioni e mezzo di euro circa, realizzati con gli oneri concessori per il "cambio di destinazione" - verranno spesi per rimettere a posto uno degli angoli più nobili della città eterna.

Il rapporto è diretto. I soldi saranno spesi direttamente dal marchio francese, che ha scelto anche le ditte committenti, mentre al Comune spetterà la supervisione dei lavori. Dovranno essere celeri: 32 settimane, complessivamente. E portati avanti con un sistema a "quarti" di via per cercare di creare minor disagio possibile ai negozi, che con la crisi non se la passano bene.

I lavori sono necessari. "Basta fare un giro per via del Gambero per vedere quante buche ci sono. Passeggiare in certe strade oramai è a rischio frattura", dice Stefano Mencarini, dell'associazione Tridente di Confesercenti. Così i commercianti, seppur spaventati (ne sono stati interpellati 250) sembra siamo pronti alla grande "rivoluzione". Le strade verranno lastricate da sampietrini, i marciapiedi buttati giù e al loro posto ci sarà una nuova pavimentazione, fatta da altri sampietrini di dimensioni più grandi.

2- LOUIS VUITTON E CENTRO SPERIMENTALE INSIEME PER I NUOVI TALENTI DEL CINEMA


http://www.bestmovie.it/

Uno dei marchi più prestigiosi dell'alta moda e la più antica scuola di cinema del mondo uniscono le forze per sostenere e arricchire la formazione delle promesse della settima arte in Italia. In occasione dell'apertura della Maison Roma Etoile, è stata infatti siglata una partnership triennale tra Louis Vuitton e Centro Sperimentale di Cinematografia a sostegno dei giovani talenti dell'istituto.

Gli studenti della Scuola Nazionale di Cinema avranno così l'opportunità di frequentare workshop e laboratori con celebri personalità del mondo del cinema, amiche della Maison. Gli studenti particolarmente meritevoli, ma privi di mezzi, avranno inoltre accesso a borse di studio istituite proprio in virtù di questa nuova collaborazione.

3- ROMA IN SVENDITA


Paola Pisa, per “Il Messaggero”

Due ali di folla come agli Oscar. Applausi a scena aperta per ogni diva che avanza. La piazza gremita. Il palazzo illuminato a festa. Un evento a stars&fashion da non dimenticare quello della apertura della prima Maison italiana, la Etoile Louis Vuitton. Lo scalone che occupa gran parte della immensa sala è stato concepito per sembrare una pellicola che si srotola. Le pareti-pannello che accolgono all'ingresso sono composte da mini-immagini di film in super-otto, un gioco-impazzimento da vero cinofilo.

Le prime borse in cui ti imbatti sono quelle colorate e disegnate da Sofia Coppola, amica della griffe. Nella saletta, con diciannove poltrone supercomode, si proiettano corti d'autore. Uno spasso anche per chi vorrà solo entrare e visionare. Ieri mattina si sono visti il filmato intitolato Handmade cinema di Laura Delli Colli e Guido Torlonia, produttore Luchino Visconti di Modrone, voce narrante Chiara Mastroianni e la serie di minifilm che parlano del Viaggio, complice da sempre del marchio francese. La collaborazione col Centro Sperimentale sarà continua e si avvarrà della collaborazione di Luca Guadagnino.

Ma è la moda, chiaro, che domina. E, nello splendore di luci che abbagliano, nel tripudio di bauli, borse, accessori, vestiti, nel trionfo di champagne e negazione di tutto quanto sia triste e depresso, con una iniezione di ottimismo come fosse una commedia glamour, ecco arrivare i personaggi da red carpet che fanno sognare dal grande schermo. Serata mix di Hollywood e Cinecittà.

C'è Bernard Arnault, presidente di LVMH, gruppo che riunisce il top del lusso mondiale. Ad accogliere è Yves Carcelle, presidente di Vuitton che si dichiara entusiasta di far rivivere un palazzo storico, nato nel '900 per il cinema muto. E' stata qui la prima, nel '49, di Riso amaro. «Abbiamo fatto un omaggio alla Hollywood sul Tevere», dice Pietro Beccari che ha seguito la realizzazione del negozio come vice presidente Vuitton, ma prestissimo sarà presidente di Fendi.

Ecco a voi, appunto, la Maison Etoile Louis Vuitton, spazio-cinema-libreria che più grande non si può. L'ha ideata Peter Marino, archistar americana, presente nel suo completo byker in pelle nera. C'è Patrick Louis Vuitton, discendente della famiglia di fondatori del marchio, che ora segue gli ordini speciali.

Da domani fino al 5 febbraio, alcuni bauli unici saranno in esposizione. Altri, così ha voluto l'architetto, salgono fino al cielo in quella parete infinita che Marino chiama la colonna vertebrale del negozio. L'inaugurazione è un momento di grandeur. Cate Blanchett è un sogno nel vestito Anni 50 pastello, Catherine Deneuve, accompagnata da Carla Fendi, indossa una pochette gioiello ed è accompagnata dalla figlia Chiara Mastroianni, ci sono Antoine Arnault e la fidanzata Natalia Vodianova che è uno schianto, è arrivato Stefano Accorsi in genere molto parigino e Laetitia dipendente ma al momento a Roma per le prove dello spettacolo Furioso Orlando che debutterà tra poco all'Ambra Jovinelli.

Poi Margaret Madè, Laura Morante, Francesco Scianna, Lavinia Biagiotti, Delfina Delettrez, Nicola Bulgari, il premio Oscar Francesca Loschiavo, Anita Caprioli, Adriano Giannini, Sveva Alviti, Saverio Ferragina con una delle top model che hanno sfilato per Dior e si è precipitata qui. C'è un po' di society romana che non guasta, come Mario D'Urso, Ivonne Sciò, Isabella e Ugo Brachetti Peretti, Ginevra Elkann e il marito Giovanni Gaetani dell'Aquila d'Aragona. Un jet privato con venti persone a bordo è arrivato dalla Francia, le limousine prenotate sono un subisso. La cena privatissima dopo il vernissage è a Palazzo Ruspoli.

Un marziano potrebbe pensare che in una città amministrata nel nome della legalità e del bene comune la discussione verta su come incarnare e rendere concreto lo spirito delle leggi, onorandone, e financo superandone, la lettera in nome dei principi superiori che esse traducono in norma.

Tradotto in pratica: quel marziano potrebbe pensare che a Napoli si discuta su come rendere più bella, pulita e sicura la Villa Comunale o su come proteggere dal traffico Via Caracciolo.

E quel marziano si sbaglierebbe di grosso, perché – tutto al contrario – la discussione non è sullo spirito, ma sulla lettera della legge: e cioè su come e su quanto si possano aggirare i numerosi vincoli che mettono al sicuro quei luoghi meravigliosi.

In questa nobile caccia al cavillo, poi, nessuno vuole rimanere col cerino acceso in mano.

Il primo passo lo ha fatto l’amministrazione comunale, chiedendo alla Soprintendenza se i vincoli consentono di prolungare la scogliera e di collocare le installazioni necessarie alle regate. E qui c’è la prima anomalia: ad un’amministrazione che ha i valori che dice di avere quella presieduta da Luigi De Magistris non dovrebbe venire nemmeno in mente di compromettere (anche solo temporaneamente) uno straordinario bene comune come il paesaggio del Lungomare. E il punto non è se il vincolo lo consente o meno: ma se quel progetto è giusto, sano ed educativo. Non tutto quello che i vincoli consentono va necessariamente fatto: almeno se il progetto è quello di rivoluzionare il modo di fare politica e di amministrare una città.

E qui inizia il balletto delle responsabilità.

Il soprintendente al Paesaggio Stefano Gizzi è chiaramente poco entusiasta del progetto, ma si limita a dire ‘ni’ rinviando la decisione.

Vista la complessità dei vincoli e la molteplicità delle competenze coinvolte, la palla passa dunque al Direttore generale regionale del Mibac, Gregorio Angelini: il quale si guarda bene dal decidere, e interpella l’Ufficio legislativo del Ministero, a Roma. Naturalmente, il responso dell’ufficio non sostituisce formalmente la decisione del Direttore regionale: ma è evidente che la mossa ha anche il valore mediatico e politico di condividere la responsabilità con Roma, se non proprio di scaricarsela di dosso.

Ebbene, ora che Roma locuta est, è finita questa interminabile causa? Manco per sogno, perché anche al Legislativo del Mibac stanno bene attenti a non rimanere col cerino in mano. Il parere (firmato dal capo dell’Ufficio, Paolo Carpentieri) è per certi versi così abilmente ambiguo che il marziano di cui sopra potrebbe ben chiedersi a cosa diavolo servano questi benedetti vincoli, visto che un vincolo che vieta di collocare gli ombrelloni d’estate potrebbe esser piegato a consentire la costruzione di oltre centocinquanta metri di scogliera.

Ciò nonostante, ci sono alcuni punti fermi.

Il primo è che, mentre strutture stagionali sarebbero vietate, la Soprintendenza può, in questo caso, dare parere favorevole perché le «opere precarie» della Coppa (cioè passerelle, ormeggi, ponti e boe) rimarranno in loco «pochissimi giorni».

A questo ragionamento sfugge però il prolungamento della scogliera, che – con tutta la buona volontà – è difficile definire un’«opera precaria». In un passaggio, i giuristi del Mibac riconoscono, infatti, che la scogliera «presenta un notevole impatto sull’ambiente», per poi precisare: «ma non sembra porre problemi di compatibilità con il vincolo». E qui è impossibile non chiedersi: la Direzione generale avrà a cuore l’ambiente, o avrà a cuore il vincolo?

Si tratta a quel punto di fidarsi dell’Amministrazione, accettando di considerarla opera «di cui si assume sia certa la rimozione, stante l’impegno espressamente assunto in proposito dal Comune di Napoli». Dunque, conclude il parere, il progetto potrà essere autorizzato «soltanto sulla base di idonea valutazione che – previo specifico e puntuale accertamento degli elementi e delle circostanze di fatto idonei a rendere certa e sicura la pronta rimozione dei manufatti – tenga conto, da un lato dell’impatto visivo delle opere sul paesaggio marino, e dall’altro, del tempo più o meno lungo di permanenza della modificazione dello stato dei luoghi, anche in considerazione dei tempi stimati di installazione e di rimessione in pristino».

Ora cosa succederà? Al Mibac si fa notare che il direttore generale Angelini potrebbe, sì, dare l’autorizzazione, ma condizionandola a tali e tanti paletti da rendere l’operazione di montaggio e smontaggio macchinosissima e costosissima. Perché almeno una cosa, il parere la rende chiarissima: la scogliera e le altre opere non potranno restare fino alle regate del 2013, ma dovranno essere realizzate e dunque smontate per ben due volte, quest’anno e il prossimo (il che, se ha ragione Gian Antonio Stella, vuol dire 3200 camion carichi di pietre che vanno e vengono per quattro volte: senza contare le messe in opera). Ed entrambe le volte dovranno rimanere in loco solo per lo strettissimo indispensabile: cioè pochissimi giorni oltre ai nove delle regate.

Dunque, il cerino tornerà probabilmente nelle mani del sindaco De Magistris: a cui spetterà chiedersi se davvero Napoli ha bisogno di questo Grande Evento, a queste condizioni.

E a quel punto, piegata la lettera della legge, vedremo almeno chiaramente dove soffierà lo spirito.

E se avesse ragione Ennio Flaiano? Se venisse confermato per l’ennesima volta che da noi niente è più definitivo del provvisorio? È questo il dubbio di chi si oppone, a Napoli, alla trafelata costruzione per l’America’s Cup di due barriere di 170 metri, il carico di almeno 3.200 camion, in faccia a via Caracciolo. « Piano B. Extralusso » dopo il fallimento del milionesimo piano per Bagnoli. Vi chiederete: ma proprio davanti alla Villa Comunale e a via Caracciolo, che tanti napoletani dicono essere «la più bella strada del mondo col più bel panorama del mondo» dovevano programmare le regate dei catamarani dell'America's Cup Events? Proprio lì devono costruire due «baffi» di una nuova scogliera per 95 metri da una parte e 75 dall'altra per «ricavare un maggiore spazio d'acqua in sicurezza, cioè al riparo della barriera, in caso di mare grosso» più una decina di capannoni di tela per il ricovero delle barche più le altre strutture d'appoggio?

L'errore è nell'uso del verbo «programmare»: come ha ricostruito sul Corriere del Mezzogiorno Angelo Lomonaco, qui non hanno programmato proprio niente. E il luogo è stato scelto all'ultimo istante, nel ricordo delle regate napoletane per le Olimpiadi del '60 (altro secolo, altro mondo...), per mettere una pezza, come dicevamo, all'evaporazione del progetto originale, quello di sfruttare la scusa dell'America's Cup per risanare almeno un pezzo dell'ex area industriale di Bagnoli.

L'ultima puntata di un tormentone iniziato un quarto di secolo fa. Basti dire che sono passati 23 anni da quando Edoardo Bennato compose una canzone che già aveva capito tutto: «Ma che occasione, ma che affare / Vendo Bagnoli chi la vuol comprare / colline verdi mare blu / avanti chi offre di più...» E ne sono passati 16 da quando il governo Dini presentò un progetto di bonifica della zona che prevedeva una spesa di 267 miliardi dell'epoca e si intitolava «Bagnoli 2000» perché avrebbe dovuto «essere completato entro il 1999». Campa cavallo...

Sono anni che i piani per Bagnoli tornano e ritornano. In tutte le salse. Compresa, appunto, la salsa velista. Con il progetto di portare nell'area un tempo occupata dall'ex Italsider le finali dell'America's Cup del 2003. Quella vera, finita poi a Valencia. Obiettivo fallito. Anche stavolta erano ripartiti da lì, da Bagnoli. Quel territorio un tempo stupendo stuprato da una industrializzazione sbagliata insieme con l'isola di Nisida cantata dallo stesso Bennato: «Non è un problema ecologico per carità / Nisida è un classico esempio di stupidità».

Solo pochi mesi fa, il 6 agosto, una nota del governatore campano (di destra) Stefano Caldoro, del sindaco (vendoliano) Luigi de Magistris e del presidente partenopeo dell'Unione degli Industriali Paolo Graziano esultava: «Siamo ormai vicinissimi a un grande traguardo che rappresenta una occasione di crescita e sviluppo per l'intero territorio». Che te ne fai del sole, del Vesuvio, del mare, di Capri, di Castel dell'Ovo e dei musei meravigliosi senza uno straccio di regata velica? Poi, l'autoelogio: «È il segno evidente che quando funziona la collaborazione fra le diverse istituzioni e c'è voglia di fare...».

Sì, ciao. Mancava il via libera del ministero dell'Ambiente. Per settimane e settimane, l'hanno aspettato. Finché il 15 dicembre, quando mancavano solo tre mesi e mezzo all'inizio delle regate fissato il 7 aprile, gli amministratori hanno dovuto arrendersi: «Abbiamo pronto un piano B». Via Caracciolo. Con il vantaggio di poter usare l'occasione, se proprio non si può risanare Bagnoli, di risanare almeno il cosiddetto «lido Mappatella», una spiaggia definita dagli stessi organizzatori «una vergogna cittadina» da sostituire con «un'attrezzatura balneare e di svago degna di una città civile». Tre giorni dopo Caldoro confermava: «Piano B». Via Caracciolo. «Soluzione molto apprezzata dagli americani», parola del vicesindaco Tommaso Sodano. Ci credo: e dove lo trovavano un palcoscenico più bello? Che importa loro dei problemi urbanistici napoletani?

Il guaio è che devono esser fatte le scogliere che dicevamo per allungare di qua e di là la barriera già esistente davanti alla rotonda Diaz. Totale delle rocce da posare: il carico, se il mare non consentisse l'uso delle chiatte, di almeno 3.200 camion. Un viavai infernale. Che costringerà a chiudere per settimane al traffico via Caracciolo dirottando il caos della viabilità partenopea, che già impressionò Alphonse de Sade, sulla parallela riviera di Chiaia.

Problema: tutta l'area sottoposta a tutela. «Sono vietati ormeggi stagionali, passerelle, pontili, boe fisse e simili in acqua, finalizzati all'ormeggio dei natanti, nonché tavolati, passerelle e attrezzature da spiaggia al di sopra delle scogliere; piattaforme in cemento armato o in muratura; baracche e/o prefabbricati». Parole così rigide da non poter essere aggirate. Come uscirne? Idea: il vincolo non parla di opere «provvisorie». Passata la settimana di regate, basta togliere tutto...

Ma ve li immaginate, a Napoli, gli escavatori e le gru e i camion che rimuovono una scogliera artificiale di 170 metri perché «provvisoria»? Per poi magari ricostruirla, avanti e indrè, per l'altra settimana di regate nel 2013? Dicono: ci sono già i finanziamenti per la rimozione. Sinceramente: dopo tante prove di inaffidabilità ci si può fidare?

Se lo sono chiesti in tanti, sul Corriere. Da Gerardo Ragone a Paolo Macrì, da Benedetto Gravagnuolo a Mirella Barracco, anima della fondazione «Napoli novantanove». La quale ha posto il tema: perché spacciare l'iniziativa come «una panacea di tutti i nostri mali»? Perché ripetere («Ancora!») la formula imbolsita che le regate serviranno a offrire «una nuova immagine di Napoli nel mondo»? Molto meglio, «per dimenticare la mortificazione mondiale del disastro rifiuti, dal quale si comincia appena a venir fuori» recuperare un «grado di civiltà e di vivibilità. Un bene comune, questo sì, che non può essere tolto ai napoletani sottoponendoli a mesi di inferno in cui diventerà impresa ardua recarsi al lavoro o a scuola». È con la buona manutenzione e il ritorno a una vita «normale», insomma, che si recupera credibilità: «Perché perseverare a farci del male?».

Un «incendio grigio», che nella sola pianura padana divora ogni giorno 19 ettari di campagne fertili, assorbite per sempre dal cemento. Più dei roghi, più dei dissesti idrogeologici, forse più dell'inquinamento: è la cementificazione selvaggia il nemico fin troppo visibile che continua a erodere l'ambiente. Se non ci fossero dati tanto puntuali alla mano, la notizia avrebbe quasi dell'incredibile: invece ora il dossier «Terra rubata, viaggio nell'Italia che scompare», elaborato dal Fondo ambiente italiano con il WWF Italia studiando 11 regioni italiane (il 44% della superficie totale), sorprende con la forza dei numeri.

A presentarlo ieri a Milano, con l'intento di tracciare una road-map anticemento, sono stati il presidente onorario del Fai Giulia Maria Mozzoni Crespi, il presidente onorario del Wwf Italia Fulco Pratesi, il direttore delle Politiche ambientali Wwf Italia Gaetano Benedetto, la responsabile ufficio Ambiente e paesaggio Fai Costanza Pratesi, e il vicepresidente esecutivo Fai Marco Magnifico. «Nei prossimi 20 anni l'Italia verrà divorata dal cemento al ritmo di 75 ettari al giorno — ha spiegato una più che mai combattiva Giulia Maria Mozzoni Crespi —. Qualche esempio? La nuova area di Porta Garibaldi, a Milano: dove sono stati fatti grattacieli poteva esserci un parco. Non amo parlare di esempi negativi, preferisco pensare al meglio e per fortuna adesso anche Milano sta aggiustando il tiro. Fino ad oggi si è pensato sempre al presente, ma il domani arriva e non fa sconti».

Sfogliando il dossier il «saccheggio» prende forma e assume proporzioni importanti: l'area urbana in Italia negli ultimi 50 anni si è moltiplicata di 3,5 volte e nei prossimi 20 anni crescerà di 600 mila ettari, con un andamento di oltre 33 ettari al giorno. Ma c'è di più: dal 2000 al 2010 la superficie agricola utilizzata è diminuita del 2,3%, il numero di aziende zootecniche del 32,2%, con il risultato di un territorio più fragile, che ha causato 6.439 vittime tra morti e dispersi per le frane e un rischio desertificazione del territorio stimato intorno al 4,3%. I danni hanno di fatto ridotto all'osso le possibilità future. «Il terreno che oggi ognuno di noi ha a disposizione è mezzo ettaro, pari a un piccolo campo di pallone», ha detto Fulco Pratesi. «Le costruzioni sopra un terreno sopravviveranno fino al 50.000 dopo Cristo, impedendo non solo le coltivazioni, ma anche la fioritura di papaveri, fiordalisi e tutto ciò che rende gentile il mondo».

Quello che emerge dal dossier è un sovraffollamento di case, edifici e costruzioni, talmente imponente da rendere impossibile tracciare «un cerchio con un diametro di 10 km senza intercettare un nucleo urbano», come ha spiegato Costanza Pratesi.

A fare da volano alla «terra rubata», non sfugge allo studio, è stato il fenomeno dell'abusivismo edilizio, che negli ultimi 16 anni è stato sanato e «incentivato» dai 3 condoni del 1985, del 1994 e del 2003. Anche qui i numeri valgono più delle parole: 4,5 milioni di abusi dal 1948 ad oggi, quasi 75 mila l'anno e 207 al giorno, con un totale di 1.730.000 alloggi irregolari realizzati fino ad oggi. «Due terzi — ha sottolineato Gaetano Benedetto — si concentrano in Calabria, Campania, Lazio, Puglia, Sicilia e 4 di queste Regioni hanno la presenza della criminalità organizzata».

Tra le proposte dalla road-map anticemento sono stati sottolineati i severi limiti alla edificazione nella nuova generazione di piani paesistici, una moratoria delle nuove edificazioni su scala comunale, oltre al censimento degli effetti dell'abusivismo. «Ci opponiamo all'Imu che impoverisce ancora di più gli agricoltori — ha sottolineato Giulia Maria Mozzoni Crespi —. Siamo certi che il governo Monti accoglierà questo appello accorato, colmando carenze vecchie 40 anni e oltre, come il ruolo sbiadito delle Soprintendenze, accompagnate dolcemente dai precedenti governi verso la morte».

(Dossier scaricabile qui di seguito)

Il documento che segue fa il punto sullo “stato dell’arte” del corridoio tirrenico utilizzando analisi, studi e proposte avviati oltre vent’anni fa dalle Associazioni Ambientaliste. Attualmente il gruppo di lavoro è costituito da Maria Rosa Vittadini, Anna Donati, Edoardo Zanchini, Stefano Lenzi, Vittorio Emiliani e Valentino Podestà.

Le ampie e documentate osservazioni presentate da Legambiente, WWF, Rete dei Comitati per la Difesa del Territorio, Comitato Terra di Maremma, Comitato per la Bellezza nell’agosto 2011 al progetto definitivo SAT e le relazioni presentate al convegno del 22 ottobre a Capalbio hanno chiarito molti aspetti fondamentali. Anzitutto i flussi di traffico lungo il percorso Rosignano-Civitavecchia sono quanto mai variabili da zona a zona in relazione, evidentemente, al variare del trasporto locale: da punte di 33.000 veicoli al giorno ai minimi di soltanto 11-12.000. Ciò significa che creare, come si voleva - e come diverse istituzioni locali purtroppo chiedono ancora - una nuova autostrada in variante era una soluzione del tutto semplicistica, non corrispondente alla domanda di trasporto, oltre che devastante sul piano ambientale e paesaggistico.

Quindi il tipo di pedaggiamento sarà la chiave di tutto: non si può infatti pensare che il traffico attuale, per lo più locale, si trasferisca dall'Aurelia, sin qui gratuita, a strade complanari che non ci sono o che sono sostanzialmente strade della bonifica e che, se venissero trasformate o realizzate ex novo come strade di grande comunicazione, risulterebbero del tutto incompatibili con il territorio e il paesaggio. E' da sfatare anche il mito del "corridoio tirrenico di importanza europea" che in realtà non esiste perché provenendo da nord arriva a Fiumicino e poi devia su Roma, a differenza di quello adriatico che corre dalla Romagna alla Puglia.

Il fatto che l'ultimo progetto ricalchi in larghissima misura il percorso dell'Aurelia ci riporta alla impostazione del Progetto Anas del 2000, che tutte le Associazioni Ambientaliste e gli le amministrazioni pubbliche interessate hanno approvato, sia pur con osservazioni puntuali. Una impostazione che le Associazioni condividono, mentre hanno respinto in toto quella del progetto preliminare SAT approvato dal CIPE nel 2008 con 110 Km in variante da Civitavecchia a Grosseto, che pure era stato ed è tuttora sostenuto dalla Provincia di Grosseto e da molti Comuni perché li sgrava apparentemente del problema del traffico locale che sarebbe rimasto o rimarrebbe sull'Aurelia. Appare strano che tutti questi Enti non pensino alla devastazione che ne deriverebbe del più grande patrimonio, anche economico, della Maremma: ambiente e paesaggio, naturale e agrario. Un maggior approfondimento aderente alla specifica realtà territoriale e urbanistica richiede tuttavia il tracciato definitivo in comune di Orbetello che oggettivamente è quello più difficile da risolvere.

In conclusione le Associazioni ritengono il progetto definitivo un sostanziale passo avanti rispetto al progetto preliminare in variante del 2008 ma non ancora sufficiente, e sollevano diverse questioni critiche che non hanno ancora trovato una soluzione e su cui hanno presentato precise Osservazioni al Ministero per l’Ambiente, che sarà chiamato ad esprimere il parere per la Valutazione di Impatto Ambientale.

Partendo da questa impostazione, esaminiamo qui di seguito i nodi generali a nostro parere tuttora irrisolti del progetto definitivo SAT nel suo complesso.

Tre fattori sono strettamente interconnessi nel caso di una infrastruttura come il corridoio tirrenico:

Il tracciato e l’impatto ambientale

La fattibilità economico-finanziaria

Il ruolo territoriale dell’infrastruttura

L’abbandono del devastante progetto in variante tra Civitavecchia e Grosseto approvato dal CIPE nel 2008 è una precondizione necessaria a rendere accettabile la realizzazione dell’infrastruttura a patto che la trasformazione in autostrada a pedaggio non comporti un sistema di complanari e viabilità aggiuntiva insostenibile per il territorio.

Il sistema free flow multilane consente di ridurre sostanzialmente la necessità di complanari e di ridurre i costi di realizzazione. I veicoli sono identificati da portali automatizzati e da barriere, il passaggio dai portali e dalle barrire non implica l’arresto del veicolo, il pagamento del pedaggio può avvenire in forma differita.

Il sistema permette di semplificare l’infrastruttura con svincoli più semplici, minor numero di sovrappassi, minor occupazione di spazio e riduzione dei costi di investimento. Ciò rende possibile una selezione del traffico non solo in termini di percorso, ma anche in termini di soggetti, di attività, di caratteristiche specifiche di chi si muove, cosa che permette una “politica” di compensazione a favore dei residenti, soprattutto quelli “obbligati” anche attualmente all’uso dell’Aurelia dalla struttura territoriale.

Il traffico registra una forte prevalenza di brevi-medie percorrenze: gli attuali volumi di traffico sulla SS1 Aurelia sono stimati in 19.900 Veicoli Teorici Giornalieri Medi (VGTM). Le diverse tratte hanno livelli di traffico di punta molto diversi tra loro, il che significa che il traffico che percorre tutta l’autostrada è poco, mentre molto traffico percorre tratti brevi (vedi Allegato 1 nel .pdf sacricabile in calce))

Le nuove stime di traffico di lungo periodo riproposte da SAT, pur fortemente ridimensionate rispetto a quelle indicate nel progetto preliminare, sono comunque ancora ottimistiche. La crescita del traffico dopo il 2016 è quantificata in termini di veicoli-km/anno, che sconta l’assunzione delle tariffe presumibilmente necessarie a remunerare l’investimento per la concessionaria.

Al 2026 si prevede un TGM di 25.350 veicoli/g.

Al 2036 si prevede un TGM 28.300 veicoli/g.

Il ridimensionamento rispetto alle stime SAT del 2008 è fortissimo: oltre il 40% di traffico in meno dei 50.000 veicoli/g del 2030.

Soprattutto in una situazione non solo congiunturale di crisi l’itinerario tirrenico non attrarrà traffico da altri itinerari autostradali, e le obiezioni di allora delle Associazioni sulla sovrastima risultano oggi del tutto fondate.

Chi paga il pedaggio? Il 2016 è l’anno previsto di entrata in esercizio dell’autostrada con l’introduzione del pedaggio. Il traffico potenziale, ovvero quello che userebbe l’autostrada se non ci fosse il pedaggio, è maggiore del traffico pagante di circa il 25%. Il 25 % comprende: 11% di traffico senza pedaggio o a pedaggio “agevolato”, 14% di traffico deviato su viabilità alternative

La componente “agevolata” riguarda il traffico automobilistico dei residenti che effettuano tragitti inferiori a 20 km. La componente “non catturata” è quella “che effettua il by-pass delle barriere o che utilizza viabilità alternative non a pedaggio” (punto 6.17 pag 36 dello Studio del traffico SAT).

I livelli di traffico e pedaggio: nel 2016 su un traffico potenziale di 20.500 veicoli il traffico pagante è di 15.400 veicoli; aggiungendo a questi la quota di 2.255 veicoli di traffico “agevolato” (11% del totale) si ottiene il traffico medio presente sull’autostrada: 17.655 veicoli/g, meno di quelli che utilizzano l’Aurelia nella situazione attuale (19.900).

Meno viabilità alternativa e più utenti sull’autostrada. Circa 3.000 veicoli/g troverebbero conveniente usare l’autostrada se non ci fosse il pedaggio e sarebbero invece costretti a utilizzare la ben più fragile viabilità alternativa.

Nel progetto definitivo sono previsti oltre 134 km di viabilità alternativa, talvolta complanare di nuova realizzazione e talvolta ottenuta con l’allargamento di strade esistenti. Il traffico che pur potendola usare non usa l’autostrada e la lunghezza davvero rilevante di viabilità alternativa aumenta inutilmente gli impatti sul territorio, evitabili con il sistema free flow, rendono il progetto (e i livelli di pedaggio) inutilmente costoso e contraddicono profondamente la stessa impostazione del progetto (vedi Allegato 2).

Manca il Piano economico-finanziario. Al progetto definitivo non è allegato alcun Piano Economico e Finanziario complessivo. Il Piano economico e finanziario è assolutamente necessario per capire il problema dei costi, del pedaggio e quindi del ruolo territoriale dell’infrastruttura. La sfida progettuale proposta dalle Associazioni è stata raccolta solo in parte, bene il tracciato ma con qualche grave problema non risolto. Quali possibili servizi (ad esempio di trasporto pubblico) per i territori attraversati, quali connessioni con le attività strategiche locali?

Una analisi costi-benefici molto debole. Le uniche informazioni disponibili derivano da analisi costi-benefici parziali, dalle quali si deduce, solo per alcuni lotti, come, a fronte dei costi dell’intervento, le quantità di traffico stimato ed il pedaggio (elevato) siano in grado di remunerare l’investimento.

I benefici sono pressoché totalmente costituiti dai risparmi di tempo degli utilizzatori. Si assume che si passi dai 70 km/h sull’itinerario attuale ai 130 km/h sull’autostrada. E’ un differenziale di velocità troppo elevato soprattutto nelle tratte dove già oggi la Superstrada Aurelia permette velocità sicuramente superiori ai 100 km/h.

Alla probabile sovrastima del tempo risparmiato corrisponde una sicura sovrastima del valore di tale tempo. Si attribuisce un valore di 16 euro/h indifferentemente a tutto il traffico leggero, turisti e opzionali compresi: una quantificazione sicuramente inattendibile.

Per gli utenti che utilizzeranno l’autostrada è vero che l’aumento della velocità, permesso dalla trasformazione, diminuisce i costi generalizzati, ma tale diminuzione trova un limite ben pesante nella introduzione del pedaggio.

I volumi di traffico atteso sull’autostrada sono relativamente modesti e configurano livelli di servizio assai alti, mentre i livelli di servizio sulle viabilità alternative (di cui non si fa cenno) rischiano di essere bassi o bassissimi.

Occorre mantenere sull’autostrada tutto il traffico potenziale attraverso adeguate politiche tariffarie (comprese politiche di esenzione totale): quale risparmio consentirebbe una simile strategia in termini di minori investimenti e minori consumi di suolo per complanari e viabilità alternativa?

Occorre pertanto conoscere al più presto il piano economico e finanziario per poter valutare gli scenari di pedaggiamento e quindi il ruolo territoriale dell’infrastruttura e la reale fattibilità dell’intervento.

Gli allegati sono visibili nel fle .pdf allegato, scaricabile in calce

Il presidente della Commissione europea Barroso striglia il governatore Enrico Rossi per i ritardi dei permessi al nuovo negozio del colosso svedese. Ma da Firenze arriva una risposta per le rime








«Non consento a nessuno di denigrare la Toscana. Neanche al presidente Barroso». Il Governatore della Toscana, Enrico Rossi, ha lanciato il suo "non ci sto". E difende le decisioni e i tempi amministrativi per la nuova prossima licenza che Ikea sta per avere nel territorio di Pisa per un nuovo negozio.

Ma cosa ha combinato il presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso per stuzzicare la replica di Rossi?

In un recente intervento ha detto che i tempi dell'insediamento Ikea in Toscana «sono stati negativi» e l'ha portato come cattivo esempio sul rilascio dei permessi per nuovi insediamenti produttivi. Ma Rossi da un lato tiene a dire che Ikea per anni ha insistito per costruire un nuovo negozio nel Comune di Vecchiano, dove non era possibile per problemi di salvaguardia ambientale di una zona prossima al parco di San Rossore-Migliarino-Massaciuccoli.

Dall'altro il presidente toscano spiega che quando Ikea ha cambiato idea e si è trovata la soluzione verso Pisa, la Regione e il Comune hanno dato avvio alla procedura: a febbraio Pisa approverà la variante al piano urbanistico e in primavera sarà aperto il cantiere per la costruzione del nuovo negozio Ikea. «Da febbraio a luglio», ha affermato Rossi «sono i rapidi tempi cinesi che il presidente Barroso sostiene l'Italia dovrebbe cominciare a impegare per far ripartire la crescita delle imprese che vogliono investire nel nostro Paese.

Lo stesso amministratore delegato di Ikea ha riconosciuto la serietà e l'affidabilità del comportamento della Regione Toscana, della città di Pisa e delle istituzioni locali. Potrei inviare al presidente Barroso tante lettere di ringraziamento che riceviamo da imprese che desiderano insediarsi in Toscana e che possono farlo in tempi brevi». Insomma: non si macchia così il buon nome di Pisa e della Toscana. E Rossi insiste: «Come insegna il presidente del Consiglio Mario Monti, l'Europa deve imparare a rispettarci".

© 2025 Eddyburg