Architetto e teorico dell’architettura e della città, Mirko Zardini dirige dal 2006 il Centre Canadien d’Architecture (Cca), un’istituzione sui generis nel panorama internazionale composta da archivi preziosissimi, una grande biblioteca, il centro studi e il museo, con un’agenda culturale molto forte che ne ha fatto uno dei punti di riferimento internazionali per la cultura urbana e di progetto. Insieme a Giovanna Borasi, Zardini ha curato negli ultimi anni una serie di mostre inusuali, supportate da una ricerca incredibilmente rigorosa e da una ossessiva volontà di portare alla luce le crepe paradigmatiche, i limiti e le contraddizioni dell’architettura.
Da Sorry, Out of Gas, la mostra sulla crisi energetica degli anni Settanta, a Sense of the City o Imperfect Health, ancora in corso, emerge una forma di pensiero critico insolitamente chiaro e lontano dalla semplificazione comunicativa diffusa negli ambienti dell’architettura. Quali sono gli obiettivi di questo scarto curatoriale?
Il tentativo del Cca è stato quello di costruire mostre che fossero in grado di aprire un discorso, piuttosto che di chiuderlo. Abbiamo selezionato problematiche legate alla realtà quotidiana, come l’energia o la medicina, allo scopo di restituire all’architettura e all’urbanistica una cornice meno angusta di quella strettamente disciplinare, che rischia di confinarle nell’irrilevanza. Volevamo indagare i lati oscuri dell’architettura, ma non nello stile del manifesto politico, come ad esempio alcune mostre del Nai di Ole Bauman. Noi abbiamo cercato di mettere in questione i presupposti su cui operano gli architetti, che spesso ripropongono in modo completamente acritico idee e meccanismi prodotti in altre discipline, senza alcun filtro. In Imperfect Health abbiamo mostrato molti progetti diversi, che per lo più riproducono l’agenda moralistica e neoliberale propria della trasformazione del ruolo della medicina nella nostra società dagli anni settanta a oggi, della fine del welfare.
Per esempio, quarant’anni fa l’obesità non era considerata una malattia: si sarebbe parlato di prevenzione, di condizioni socioeconomiche, di educazione, mentre oggi è un problema di responsabilità individuale nei confronti di una società che non è più in grado di sostenere le spese mediche generalizzate. Un edificio come il celebre Cooper Union di Morphosis a New York «risolve» il problema reintroducendo l’attività fisica attraverso dei percorsi antifluidi, inserendo scale al posto degli ascensori e così via. Dispositivi che vanno anche bene, però pensare che l’obesità si riduca a questo e che l’architettura possa avere in questo modo un ruolo determinante è assolutamente superficiale.
D’accordo, ma allora con quali strumenti gli architetti possono influire sulla realtà cui in minima parte sono deputati a dare forma?
In primo luogo attraverso lo spirito critico. Prendiamo il discorso sull’ambiente: oggi il mantra della sostenibilità è diventato un meccanismo tecnocratico, un greenwashing dell’architettura che, riducendo il problema alla performance energetica di una costruzione, ha eliminato le componenti complesse, tutto ciò che viene prima e dopo l’edificio. Negli anni Settanta, durante la prima vera crisi energetica, moltissimi architetti avevano collegato il problema dell’energia al riciclo, all’uso delle risorse, alle reti sociali, a una critica dello stile di vita e dei modi di produzione. Per la prima volta era crollata la fiducia incondizionata nella tecnologia, nelle sorti progressive. Ma all’epoca prevalse una miope politica di sviluppo dei pannelli solari, che poi venivano usati per riscaldare le piscine dei sobborghi. Oggi abbiamo lo stesso problema: una riscoperta naive della tecnologia, come negli anni Cinquanta. Possiamo risparmiare tutta l’energia del mondo, ma per farne cosa? Se e per reimmetterla in un sistema di consumo identico a quello in cui abbiamo vissuto non ne vale la pena, è l’equivalente del caffè decaffeinato, della guerra umanitaria, della politica senza politica di cui parlava Zizek in Benvenuti nel deserto del reale.
Esistono indizi di un’inversione di rotta?
In generale la crisi che la nostra società sta attraversando oggi definisce l’esigenza di elaborare nuove piattaforme di pensiero, e il fenomeno riguarda anche l’architettura e l’urbanistica. Sono molto contento che la bolla iconica che ha afflitto l’architettura degli ultimi trent’anni si sia conclusa, lasciando spazio a nuove problematiche. Le aree più ricche restano conservatrici, ma le cose interessanti avvengono altrove, in una sorta di terzo paesaggio dell’architettura: non nelle aree forti di intervento, ma in quelle marginali, nel lavoro delle Ong, nei progetti di intervento sociale, in quelli che utilizzano un sistema di partecipazione. Oppure in casi più tradizionali come le abitazioni per homeless di Michael Maltzan a Los Angeles e l’Olympic Sculpture Park di Weiss Manfredi a Seattle, che dissolve l’edificio in una struttura paesaggio, o ancora nei progetti di riparazione ambientale che agiscono in direzione opposta all’eccesso di estetizzazione del paesaggio operato dai progettisti negli ultimi anni.
Nel non vitalissimo scenario europeo uno dei discorsi più produttivi, in grado di unire la riappropriazione della sovranità popolare, la partecipazione, a una serie di ripensamenti sulle politiche spaziali ed energetiche, è quello dei beni comuni.
È vero, anche se non mi piace l’idea di comunità che affiora nel discorso. In architettura era stata elaborata soprattutto da Solà-Morales un’idea molto efficace di spazio collettivo che individuava caratteristiche alternative al binomio pubblico-privato, senza cadere in nostalgie comunitarie. Ma qualunque sia il punto di vista adottato, bisogna tenere a mente i limiti del progetto: pensare che l’architettura possa risolvere tutti i problemi dell’ambiente e del territorio era un’idea modernista. Ne paghiamo ancora i danni, come nel caso dell’eternit. L’architettura era intesa come cura, mentre secondo me dovrebbe prendersi cura delle cose. È necessario approfondire le dinamiche della crisi in atto, ma mettendo sempre in evidenza le conseguenze che le nostre azioni producono.
L’apparente rozzezza delle prescrizioni d’igiene moderniste, però, rivela forse anche una maggiore libertà rispetto alla manipolazione occulta del contemporaneo: era un’assunzione di responsabilità che conduceva a errori drammatici se si vuole, ma era meno intellettualmente subordinata agli interessi altrui. Se lo compariamo a Le Corbusier, Koolhaas è molto più consapevole dei limiti, ma non ha rinunciato alla postura di guru e attraverso una grande mole di argomentazioni ambigue continua a porsi come il risolutore ideale dei problemi del mondo attraverso i suoi masterplan.
Koolhaas ha segnato un periodo, ma il dibattito non può essere egemonizzato dalle stesse persone che hanno dominato la comunicazione negli ultimi vent’anni. Non si può andare avanti nei modi ancora di recente utilizzati da Winy Maas degli Mvrdv: a ogni problema corrisponde una soluzione che, naturalmente, si incarna in un progetto di architettura. Molto spesso la soluzione è non fare niente. Il progetto più bello degli ultimi anni forse è stato quello di Lacaton e Vassalle per il concorso di «abbellimento» di place Léon Aucoc a Bordeaux. Dopo avere frequentato il posto e parlato con i passanti e gli abitanti, proposero di lasciare tutto così com’era, al di là di qualche intervento di manutenzione, perché la piazza non aveva bisogno di miglioramenti.
Uno dei fattori che più incoraggiano il conformismo, almeno qui in Italia, sono le scuole. Nella sua esperienza di insegnamento ha conosciuto università migliori da questo punto di vista?
Negli Stati Uniti emergono sempre più diffusamente all’interno delle scuole temi come l’ecological urbanism o le favelas, ma non so quanto possano giovare: quanto questa è realmente l’occasione di ripensare i problemi e quanto è riproposizione degli stessi metodi in un contesto differente? Nel frattempo sta avvenendo una rivoluzione nei meccanismi di produzione dell’architettura: urge una riflessione sulle nuove regole sulla responsabilità civile e la proprietà intellettuale del progetto. Oppure sul digitale e i modi in cui viene incorporato nell’architettura, sui rendering che vengono per lo più prodotti in Cina o in India. Insomma è un periodo interessante, ma non saprei dire dove andiamo. Noi cerchiamo solo di costruire prospettive diverse.
Il fatto che il Cca sia un centro di ricerca oltre che un museo ha favorito questo tipo di approfondimento?
Non tanto, perché la ricerca è ancora parecchio convenzionale, basata sui phd programs, sugli scholars, mentre il nuovo approccio è dovuto soprattutto a un’idea diversa del ruolo curatoriale e della responsabilità intellettuale di un’istituzione. La posizione periferica di Montreal permette di sperimentare delle cose senza la pressione che avremmo a New York. Sarebbe bello che anche le istituzioni di qui approfittassero della condizione marginale italiana per sviluppare una strategia analoga: se si pensa alla filosofia, c’è una delle scene più interessanti a livello mondiale – anche se sembra che gli architetti non se ne siano accorti.
La mia impressione è che, esaurito l’entusiasmo per l’architettura iconica, sui nostri media l’architettura e il discorso sulla città sono spariti o banalizzati. In questo momento ad esempio in Italia è stata montata una improbabile campagna mediatica contro l’Ex Enel, uno tra i mille brutti progetti milanesi, e su blog e giornali non si parla d’altro che di bellezza e scempio.
Quando sento parlare di bellezza mi preoccupo sempre. È fondamentale impostare il discorso del territorio e dell’urbano su altri presupposti: il consumo di suolo, la mobilità, le infrastrutture, i servizi sociali, l’accesso ai servizi, il diritto all’abitare. Nessuno è ovviamente a favore dei brutti progetti, ma il discorso estetico sull’architettura è deviante e dannoso. Tanto per fare un esempio, il progetto abortito dell’orto planetario per l’Expo (premesso che le Expo sono inutili, a mio parere), non era significativo in quanto bello o brutto, ma perché simbolicamente era importantissimo come progetto a volume zero – o quasi.
L’ultima esperienza che ebbi a Milano furono i Giardini di Porta Nuova: il progetto originale incorporava il giardino in un discorso sullo spazio pubblico, tentando di inserire gli edifici in un sistema di relazioni urbane con l’intera area, che comprendeva la stazione, le strade, le piazze, tenendo in gran conto l’interesse dei cittadini. Invece si è parcellizzato il problema, i privati hanno fatto quel che hanno voluto, poi quanto è rimasto è diventato un giardino. Si è sempre parlato di contrattazione, ma la contrattazione di fatto non c’è stata. In Italia non ci sono neppure i luoghi deputati alla discussione: data per persa l’accademia, il Maxxi o la Triennale dovrebbero diventare i luoghi del dibattito, ma non mi pare che le scelte recenti nelle nomine vadano in questa direzione.
Conviene non dimenticare come nacque la candidatura di Christian Wulff, nel 2010. Nacque molto male, perché Angela Merkel s´era incaponita sul suo nome.Lo preferì a quello di un personaggio di ben altra statura. Se i tedeschi avessero potuto eleggere direttamente il capo dello Stato, senz´altro avrebbero scelto Joachim Gauck, non il grigio uomo d´apparato democristiano. Gauck era l´uomo del momento giusto, per la successione di Horst Köhler alla massima carica dello Stato. Per aver conosciuto la paura quando era un pastore dissidente nella Germania comunista, sapeva quel che significa pensare con la propria testa, resistere, affrontare tempi difficili come i nostri.
Assieme a Havel, era stato uno dei rari dissidenti che non solo aveva combattuto il totalitarismo ma era stato capace di guardare dentro se stesso, di intuire quello che può fare, di ogni uomo, un conformista o un ideologo, a seconda delle necessità e delle convenienze. Per dieci anni, fra il 1990 e il 2000, aveva diretto un´istituzione essenziale per l´unificazione tedesca e la rinascita democratica in Germania Est: l´autorità che archivia e mette a disposizione del pubblico gli atti della Stasi (servizi di sicurezza dell´Est). L´ex pastore era il candidato proposto da socialdemocratici e verdi, la sua popolarità nei sondaggi era immensa.
Angela Merkel predilesse Wulff, per mediocri calcoli di partito e probabilmente perché Gauck era figura troppo imponente per lei. L´outsider amato dai tedeschi l´avrebbe messa in ombra. Più segretamente, forse, contava anche la vita diversa che ciascuno dei due aveva avuto nella Germania comunista: dissidente lui, non comunista ma certamente conformista lei. Di Wulff non si conoscevano disonestà, quando fu designato. Ma era un personaggio senza spessore, senza grande passato. Ora che sono venuti alla luce tante macchie, e un intreccio così importante fra interessi pubblici e privati, la scelta del Cancelliere appare ancora più incongrua, e ottusa.
Wulff è il figlio della meschinità politica, del pensare corto e piccolo che ha prevalso in questi anni ai vertici tedeschi, specialmente democristiani. Roland Nessel, editorialista dello Spiegel, gli ha affibbiato un nomignolo: il Presidente altro non era che un Gernegroß, un «vorrei esser grande». In Italia diremmo: un «vorrei ma non posso». In Germania i capi di Stato non hanno poteri vasti come in Francia e America; non sono neanche paragonabili ai colleghi italiani. Da loro ci si aspetta tuttavia un senso acuto dell´etica pubblica, un´attitudine leggermente aristocratica a volare alto: a dire - nei momenti critici - parole possenti e decisive. Cruciali furono nel dopoguerra, e poi tra gli anni ´70 e ´90, presidenti come Theodor Heuss, Gustav Heinemann, Richard Von Weizsäcker, Roman Herzog, Johannes Rau. Il declino della carica comincia nel 2004, con il predecessore di Wulff che fu Horst Köhler. Tutti e due sono stati uomini della Merkel, costretti a dimettersi prima del tempo.
Detto questo, la caduta di Wulff è un giorno memorabile per la democrazia tedesca. I legami del Presidente con finanzieri poco fidati, la maniera in cui aveva ottenuto crediti agevolati grazie ai favori dell´industriale Geerkens, ai tempi in cui era presidente della Bassa Sassonia, i piccoli favori ottenuti dal magnate dell´industria cinematografica David Groenewold: simili reati non reggono il paragone con la corruzione che mina la politica italiana, ma sono insopportabili per i tedeschi. Sono il segno che i partiti nelle loro chiuse cucine possono sbagliare e deviare dall´etica pubblica, ma che nella società esistono fortissimi anticorpi, pronti a reagire a ogni sorta di malaffare, di bugia detta dal potere. E tutto questo, prima che comincino i processi veri e propri. Un caso Cosentino è impensabile in Germania. L´ultimo scandalo fu quello del ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, costretto a dimettersi nel marzo 2011, quando si scoprì che la sua tesi di dottorato era frutto di plagio. Anche Guttenberg era uomo della Merkel.
Non ci sono grandi personalità a guidare la Germania, ma il controllo sociale sulla politica è intenso, e le campagne stampa godono dell´appoggio della popolazione. L´uguaglianza di tutti davanti alla legge è una regola aurea cui la nazione e le sue classi dirigenti non rinunciano. L´una e le altre non indietreggiano davanti ai capi di Stato. Non lasciano soli i magistrati e i giornalisti, a fare le loro inchieste. Per questo i risultati di tali battaglie sono tangibili, e tempestivi.
Non così in Italia. Sono stati necessari la crisi economica e lo spread impazzito, perché Berlusconi venisse spinto fuori dall´arena politica. E ancor oggi la corruzione dilaga, ancor oggi l´operazione Mani Pulite è ricordata con sospetto, rancore: per alcuni il malcostume ha toccato le vette odierne non malgrado, ma a causa dei procedimenti contro Tangentopoli. C´è perfino chi ritiene non irrealizzabile il sogno di Berlusconi di salire un giorno al Quirinale. Speriamo che la Germania diventi un esempio per il funzionamento della sua democrazia, e non solo per la disciplina finanziaria che sta imponendo all´Unione europea.
Nel 2008 Roberto Cecchi volle e ottenne l'acquisto di un falso dell'artista italiano producendo un danno erariale al ministero di oltre tre milioni di euro per un prodotto fatto in serie. Furioso il ministro, ma il suo vice, per ora, resta al suo posto.
Secondo Roberto Cecchi, cattoarchitetto dalle trame celesti, mancato ministro e infine sottosegretario senza deleghe ai Beni culturali del governo Monti, il presunto cristo ligneo di Michelangelo, fatto acquistare su sua pressante insistenza allo Stato per la cifra di 3. 250. 000 euro nel 2008, è una scultura che “può essere facilmente trasportata, senza dare tutti quei problemi di conservazione che altre opere pongono”. La Corte dei conti gli ha dato ragione, trasferendo i quaranta centimetri del crocifisso dai depositi del Polo museale fiorentino alle aule di tribunale e rinviando a giudizio Cecchi ed altre quattro persone per “danno erariale”.
Secondo molti studiosi il Cristo altro non era che un prodotto seriale del valore di poche migliaia di euro. Cecchi si battè per farlo comprare al Mibac (la proposta venne accettata a sole 24 ore dall’offerta) e oggi si ritrova nei guai per un’opera che rischia di rivelarsi una crosta pagata circa 150 volte il suo reale valore. Ancora una volta il professor Roberto Cecchi è oggetto di attenzioni e approfondimenti non esattamente accademici. E la sua posizione nell’esecutivo tecnico, foriera di imbarazzi non cattedratici.
Dopo gli scivoloni di Bondi e Galan, altre ombre, non solo economiche sull’istituzione. Dicono che ieri sera il ministro Ornaghi fosse furibondo per l’ennesimo non commendevole faro acceso sul suo collaboratore. Che attendesse un gesto di buona volontà o una mossa di Cecchi che – giura chi lo conosce – non verrà né oggi né domani. Niente dimissioni per Cecchi (neanche se consigliato in tal senso) perché fanno sapere dal ministero: (“somiglierebbero a un’ammissione di colpa”). La parola per Cecchi è eretica e le stanze del collegio romano non somigliano per nulla a quelle inflessibili della Germania. Dopo l’apertura di un fascicolo in Procura a Roma sulle curiose modalità di cessione del restauro del Colosseo a Diego Della Valle, la scoperta di una serie di lettere firmate nel 2006 (quando era direttore generale dei beni architettonici e paesaggistici) volte a far ottenere al suo editore Armando Verdiglione denaro dal Mibac per il restauro di Villa San Carlo Borromeo e una sofferta archiviazione con proscioglimento per abuso d’ufficio su un vincolo fatto togliere a un mobile settecentesco, Cecchi è ancora in piedi.
Trasversalmente appoggiato dal Pd e dal Terzo Polo, ben visto dal Quirinale (ottimi rapporti con Carandini) Cecchi in queste ore riflette. In attesa che la Corte dei Conti proceda, essere eucaristici sul Cristo ligneo di Michelangelo è affare complicato. Il sottosegretario Cecchi non si limitò infatti a firmare le carte. Pretese, ottenne e interpretò la parte del prim’attore. Fu lui a imprimere la svolta decisiva ad una pratica che avrebbe potuto essere archiviata e ancora lui a fissare il prezzo, decidendo di sottrarre oltre tre milioni di euro ad un bilancio già ridotto all’osso. Cecchi difese con vigore l’acquisto, firmando un aggressivo memoriale di risposta all’interrogazione che un anno più tardi portò in Parlamento una polemica a tinte grottesche che già divampava sui giornali di tutto il mondo.
La Corte dei Conti si è concentrata sulla valutazione che Cecchi dette alla perizia del venditore (la definì oggettiva) e sul catalogo di vendita del Cristo (incomprensibilmente sdoganato come attendibile e autorevole da un passivo Comitato tecnico scientifico). Senza che l’attuale sottosegretario pensasse a coprirsi le spalle con lo straccio di uno studio indipendente.
Nell’operazione, tra buchi e omissioni, i misteri del caso. Cecchi non riuscì a farsi dire da dove venisse davvero l’opera (finendo così per girare al pubblico del Tg 1 l’ipotesi della “derivazione fiorentina”: mentre il Cristo proveniva dagli Stati Uniti, dove era stato acquistato per diecimila euro). Inoltre non si preoccupò di indagare sul perché l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze avesse saggiamente rinunciato all’acquisto pochi mesi prima e permise che a certificare il prezzo fosse Cristina Acidini, la stessa funzionaria che aveva proposto l’acquisto, creando così un macroscopico caso di conflitto di interesse. Soprattutto, non si chiese Cecchi, perché un vero Michelangelo rimanesse per anni a disposizione ed anzi fosse finito ai saldi, facendosi comprare per un sesto della (già stracciatissima) richiesta iniziale (18 milioni) posta all’allora ministro Rutelli che rifiutò sdegnato. Oggi, in luogo di un artista, ad essere crocifisso è Cecchi e la sua idea di un ‘ Michelangelo portatile ’ adatto all’industria delle mostre commerciali che promuovono soprattutto chi le organizza. Cecchi, Il supertecnico che intervistato dal Corsera qualche giorno fa ha dichiarato di considerare suo nemico mortale Italia Nostra, la principale associazione per la difesa del patrimonio e del paesaggio italiani, della macchina delle mostre blockbuster è spassionato sostenitore. Non è detto che tra qualche mese, da privato cittadino, non possa promuoverne a pieno titolo.
A due anni dalla denuncia dello stato comatoso delle sue finanze (ma gli interessati, in Germania e alla Bce, lo sapevano da tempo: erano stati loro a nasconderlo) la Grecia, sotto la cura imposta dalla cosiddetta Troika (Bce, Commissione europea e Fmi) presenta l'aspetto di un paese bombardato: un'economia in dissesto; aziende chiuse; salari da fame; disoccupazione dilagante; file interminabili al collocamento e alle mense dei poveri; gente che fruga nei cassonetti; ospedali senza farmaci; altri licenziamenti in arrivo; tasse iperboliche sulla casa e sfratti; beni comuni in svendita. E ora anche una città in fiamme. Ma a bombardare il paese non è stata la Luftwaffe, bensì il debito contratto e confermato dai suoi governanti di ieri e di oggi nell'interesse della finanza internazionale. Con la conseguenza che, a differenza di un paese uscito da una guerra, in Grecia non c'è in vista alcuna "ricostruzione", o "rinascita", "ripresa"; ma solo un fallimento ormai certo - e dato per certo da tutti gli economisti che l'avevano negato fino a pochi giorni o mesi fa - procrastinato solo per portare a termine il saccheggio del paese e, se possibile, il salvataggio delle banche che detengono quel debito; o di quelle che lo hanno assicurato. Le armi però c'entrano eccome. All'origine di quel debito, oltre alla corruzione e all'evasione fiscale, ci sono le Olimpiadi del 2004 (costate oltre un decimo del Pil) e l'acquisto di armi, che la Grecia è costretta a comprare e pagare a Francia e Germania come contropartita della "benevolenza" europea, per importi annui che arrivano al 3 per cento del Pil. Quattro fattori, armi (come F135), Grandi eventi (Olimpiadi o Expò, o Mondiali, o G8), evasione fiscale e corruzione che accomunano strettamente Grecia e Italia. Ma non solo.
Nel pacchetto, il quinto in due anni, delle misure imposte alla Grecia - liberalizzazioni di tariffe, mercati e lavoro, privatizzazioni dei servizi pubblici, blocco delle assunzioni, definanziamento di scuole, ospedali, Università, servizi sociali - c'è pari pari il programma del governo Monti (anch'esso cucinato da Bce e Commissione europea). La Grecia è solo un anno più avanti di noi sulla strada del disastro e Monti è il Papademos italico incaricato di accompagnarvi l'Italia spacciandosi per il suo salvatore e garantendone il saccheggio.
Aggiungi il patto di stabilità (Fiscal Compact) che impone di riportare il debito di entrambi i paesi, ormai chiaramente in recessione, al 60 per cento del PIL in regime di parità di bilancio, e avrete i termini di una politica senza ritorno imposta da una classe al potere senza un'idea di futuro che non sia la propria perpetuazione. Per loro contano solo i bilanci: tutto il resto crepi! Quando l'Unione europea avrà tagliato gli ormeggi alla Grecia per abbandonarla alla deriva, avrà messo il vascello in condizioni di non poter più navigare per decine di anni.
Nessuno degli economisti entusiasti degli "sforzi" di Monti ha la minima idea di come si possano raggiungere gli obiettivi del Fiscal Compact. E allora? Il fatto è che per loro "non c'è alternativa"; perché non sanno immaginare un futuro diverso dal presente: all'Università non lo hanno studiato e non si sono dotati di strumenti per concepirlo (tranne che per le loro carriere). "Non esiste un piano B per la Grecia, ha detto Draghi. Ma nemmeno per l'Italia. Per questo Monti non è la soluzione, ma il problema.
Ma un "piano B" per l'Europa va messo a punto, e in fretta; perché quello "A" è un strada senza uscita; e non si fa politica, né opposizione, senza un'idea sul da farsi appena il contesto la renda plausibile. E quel momento potrebbe essere vicino, perché il mondo sta cambiando in fretta. Ma l'Italia non è la Grecia, ripetono i supporter di Monti. E perché mai? Perché l'Italia ha un tessuto industriale robusto e perché è "troppo grande per fallire". Due tesi per lo meno parziali. Neanche la Grecia era priva di un tessuto industriale, anche se fragile, che le manovre deflattive imposte dalla Troika hanno mandato in pezzi. Una vicenda attraverso cui erano già passati anni fa - e per decenni - molti paesi dell'America Latina presi per la gola dal FMI. Quanto all'Italia, un inventario dei danni prodotti dal ventennio berlusconiano, non solo sullo "spirito pubblico" - e non è poco - ma anche sul tessuto industriale non è ancora stato fatto. Ma accanto ad alcune medie imprese che si sono ristrutturate ed esportano, tre dei maggiori gruppi industriali (Fiat, Finmeccanica e Fincantieri) sono alle corde e nel tessuto industriale residuo chiude una fabbrica al giorno. "Non si produce più niente" ripetono coloro che guardano la realtà senza lenti deformanti. Ma non è che tra un mese o tra un anno (o anche due) quelle fabbriche riapriranno, gli operai ritorneranno al loro posto di lavoro e le aziende riprenderanno a produrre come prima. Un enorme patrimonio di esperienze, di professionalità, di knowhow, di attitudine all'innovazione e al lavoro di gruppo viene disperso e scompare per sempre. Né ci sono in vista iniziative imprenditoriali in grado di mettere al lavoro, avviandole dal nulla, nuove produzioni, nuovi addetti e risorse gestionali in grado di riempire quei vuoti. E quanto agli investimenti stranieri, sono bloccati dall'articolo 18, dalla mancanza di infrastrutture come il Tav Torino Lione, dalle tasse troppo alte che nessuno paga, o dalla corruzione e dalla burocrazia che il governo Monti si è tirato in casa? BCE e governo Monti sono destinati a imprimere una accelerazione decisiva al lungo declino dell'economia italiana.
In secondo luogo, se l'Italia è troppo grande per fallire, è anche - come ci viene ripetuto spesso - "troppo grande per essere salvata". Qui sta la sua forza e la sua debolezza. La debolezza è quel continuo richiamo a fare "i compiti a casa" (un'espressione da deficienti) e a "cavarsela da sola" (sulla base, però, dei diktat di altri). Un compito impossibile, che i governi greci hanno già provato a svolgere nonostante la sua palese assurdità. La forza sta nel fatto che se il governo Italiano non sarà in grado di azzerare il deficit e dimezzare il debito, o anche solo di rifinanziarlo, perché il suo PIL precipita, "salta" anche l'euro - il che, forse, è già stato messo in conto. O verrà messo in conto tra poco - ma salta anche, probabilmente, l'Unione europea e con essa l'economia di mezzo mondo. E forse anche quella dell'altra metà. Non siamo più negli anni '30, quando la partita si giocava tra cinque o sei Stati. Il circuito finanziario ha ormai coperto e avviluppato l'intero pianeta.
Un piano B per l'Europa deve innanzitutto evitare un default disordinato (come ormai viene chiamata la prossima bancarotta degli Stati a rischio di insolvenza; e non sono pochi) e promuovere un "concordato preventivo": cioè un accordo che dimezzi in modo selettivo i debiti pubblici che non possono essere ripagati o che ne sterilizzi (con una moratoria delle scadenze) una buona metà. Il che trasferirebbe l'insolvenza sulle banche, costringendo anche la BCE e gli Stati più forti e arroganti a correre in loro soccorso: con nazionalizzazioni, "bad bank" e separando finalmente il credito commerciale dal pozzo senza fondo degli investimenti speculativi. Quanti più saranno gli Stati a rischio che si impegnano su questa strada, tanta maggiore sarà la forza per imporla.
Certamente, sia che l'euro venga conservato, sia che si torni alle vecchie divise, il caos economico che incombe sul paese e sull'Europa è spaventoso; ma non minore di quello in cui ci sta trascinando il tentativo di rinviare giorno per giorno una resa dei conti. In tempi di crisi valutaria, ciò con cui bisognerà fare i conti, a livello nazionale e locale, saranno gli approvvigionamenti: innanzitutto quelli energetici e alimentari. L'unica risorsa a cui attingere a piene mani nel giro di pochi mesi e pochi anni sono risparmio ed efficienza energetica. La condizione di paese bombardato apparirà allora in tutta evidenza: spente le luminarie che non servono per vedere ma per farsi vedere; auto ferme e mezzi pubblici strapieni (scarseggerà il carburante); orari cambiati per garantire il pieno utilizzo dei mezzi durante tutto l'arco della giornata; conversione in tempi rapidi - come all'inizio di una guerra - delle fabbriche compatibili con la produzione di impianti per le fonti rinnovabili o di cogenerazione, di mezzi di trasporto collettivi o condivisi a basso consumo; interventi sugli edifici per eliminarne la dispersione energetica. ecc. Giusto quello che si sarebbe dovuto fare - e ancora potrebbe essere fatto - in questi anni, con esiti economici certo migliori.
Lo stesso vale per l'approvvigionamento alimentare: occorrerà restituire a ogni territorio la sovranità alimentare con un'agricoltura meno dipendente dal petrolio e un'alimentazione meno dipendente da derrate importate: una operazione da mettere in cantiere con una nuova leva di giovani da avviare a un'attività ad alta intensità di innovazione e di lavoro che potrebbe cambiare l'aspetto del paese. Analogamente occorrerà intervenire sul patrimonio edilizio inutilizzato, sul ciclo di vita dei materiali (risorse e rifiuti), su scuola, università, sanità con interventi che riducono gli sprechi e producono occupazione di qualità.
Ma soprattutto ci vorrà una revisione generale degli acquisti quotidiani: spesa condivisa, rapporti diretti con il produttore e Km0 (i GAS), riduzione degli imballaggi e del superfluo, ricorso all'usato e alla riparazione e alla condivisione dei beni: tutti campi in cui il sostegno di un'amministrazione locale conta molto. E tante altre cose simili su cui occorre riflettere: sono tutti interventi da concepire, programmare e gestire a livello locale - con la partecipazione diretta della cittadinanza attiva - che potranno essere agevolati anche da un circuito parallelo di monete garantite dalle autorità locali, come era avvenuto con successo in molti paesi occidentali - compresa la Germania nazista - durante la grande crisi degli anni '30. Fantascienza? Forse; comunque un programma meno irrealistico dell'idea di affidare alla liberalizzazione dei servizi e dei rapporti di lavoro la ripresa di una crescita che sottragga l'Italia al cappio del debito; e magari anche alla crisi ambientale - ah! questa sconosciuta! - che investe il pianeta.
Titolo originale: La deuxieme vie des malls - Traduzione di Fabrizio Bottini
Nel comune di Voorhees, New Jersey, il municipio è praticamente dismesso. Ormai per accedere ai servizi pubblici gli abitanti vanno … al centro commerciale! È in questo gigantesco spazio, da 105.000 metri quadrati, che si sono da qualche mese insediati gli uffici locali. Costruito negli anni ‘70, l'Echelon Mall era abbandonato. Nel 2005 il 75 % della superficie commerciale risultava inutilizzato. Così il comune ha dovuto trovare una soluzione alternativa. Basta col mall, ecco a voi il Town Center. Una parte della galleria è stata demolita per far posto a un percorso all’aperto, su cui si allineano ristoranti, botteghe, sportelli bancari, fontane. Ci ha trovato posto anche la scuola di estetica e per infermiere. Su parte dell’immenso parcheggio sono state costruite case private e uffici. E per la prima volta a Voorhees esiste un vero e proprio centro cittadino.
Ovunque negli Stati Uniti stanno sparendo centri commercial. “Secondo i miei calcoli degli 11.000 esistenti un terzo sono del tutto chiusi o sul punto di chiudere” racconta Ellen Dunham-Jones, professoressa di architettura al Georgia Tech. “Non se ne realizzano più di nuovi dal 2006”. Il motivo è sia internet con la sua offerta di shopping online, sia la crisi “che ha accelerato il fenomeno”. E poi i consumatori, che non ne possono più di quei centri commerciali extralarge, consacrati a shopping e ristorazione veloce. Una disaffezione che mette in imbarazzo le amministrazioni locali, prive di mezzi sia per demolire che convertire quei complessi, spesso su superfici di oltre 50.000 metri quadrati. In qualche caso c’è un piano B, come a Cleveland, Ohio, dove la Galleria at Erieview ha ormai solo qualche insegna accesa, quando negli anni ‘80 ce n’erano oltre cinquanta.
Sull’orlo della chiusura definitiva, si è trasformato in un “Lifestyle center”. Offre un passaggio coperto con mercato ortofrutticolo, centro studi sulla produzione agricola locale, saloni per feste matrimoni compleanni. “Alla fine è stata una bella idea” giudica Vicky Poole, direttrice del marketing de la Galleria. “Utilizzare in modo innovativo e diversificare gli spazi”. Ci si trovano anche scuole, ambulatori medici, biblioteche, anche chiese. Sono decine quelli che hanno proprio dovuto chiudere, ma altri hanno saputo approfittare delle possibilità di cambiamento. Come il marchio Jump Street, che in questi nuovi spazi installa giganteschi trampolini. “È ora che la periferia americana abbia dei veri centri di attività” conclude Ellen Dunham-Jones. “Un pochino all’europea”.
Ecco la nuova terrazza sul tetto del Fontego. La modifica al progetto è stata depositata all’Edilizia privata, firmata dall’archistar olandese Rem Koolhaas. La terrazza «a vasca» non è sparita, anzi. Occupa una buona metà del tetto lato Canal Grande con la possibilità – questa è la novità – di richiudere il tetto di notte o in caso di maltempo. Al centro il lucernario dell’edificio sarà «coperto» con un pavimento di cristallo e rinforzato con travi di metallo. Sarà uno spazio aperto, adibito a bar e ristorante. Proposta adesso all’esame dell’Edilizia privata, che però per il via libera definitivo aspetta l’ok della Soprintendenza.
Ma non è l’unico punto contestato del grande progetto. In Canal Grande spunterà un grande pontile da 25 metri per cinque di profondità. Sarà installato davanti alle arcate del Fontego e servirà per lo scarico delle merci e anche come plateatico. C’è già chi solleva questioni di viabilità acquea, perché quello è il punto dove il Canal Grande fa la curva e i vaporetti si incrociano. Prima c’erano due pontiletti delle Poste italiane.
Il via libera è arrivato il 7 febbraio, al termine della conferenza dei servizi convocata dal dirigente dell’Edilizia provata Lucio Celant sul permesso di costruire. Pareri tutti favorevoli, con il dirigente dell’Edilizia privata Franco Gazzarri che si limita a raccomandare la percorribilità pubblica interna e l’accessibilità diretta alla Corte interna dai tre ingressi del Fontego e l’uso dei gabinetti. «Per quanto riguarda l’uso pubblico del manufatto», scrive l’architetto, «si propone che i servizi igienici al piano terra siano di uso pubblico, secondo orari e modalità da concordare con il Comune e di rivedere l’organizzazione distributiva dei gabinetti». Flavio Gastaldi, delegato dal comandante dei vbigili urbani Luciano Marini, esprime «parere favorevole sulla viabilità», raccomandando di predisporre «idonea segnaletica» vista la destinazione commerciale del’immobile, ex palazzo delle Poste venduto a Benetton. Loris Sartorti, dirigente della Mobilità acquea, esprime infine «parere favorevole» al pontile. Ma accogliendo i dubbi espressi dagli uffici definisce lo stesso pontile «sovradimensionato» e poco funzionale rispetto al carico scarico, vista anche la dimensione dei mezzi».
L’iter va avanti, e l’istruttoria degli uffici comunali sul progetto è quasi conclusa. Si attende adesso il parere della Soprintendenza. La polemica resta alta, rilanciata anche dai media internazionali. Fa notizia la trasformazione di un palazzo del Cinquecento in centro commerciale, proprio sotto il ponte di Rialto, con scale mobili all’interno, terrazza sul tetto. Appelli e dure critiche al progetto vengono da storici dell’arte come Salvatore Settis e dal rettore dell’Iuav Amerigo Restucci.
Ma il sindaco Giorgio Orsoni difende l’operazione. «Occorre modernità», ha ribadito, «se no diventeremo una città di osti e albergatori in costume». Non si è fatta attendere la risposta dell’associazione albergatori. «Immaginiamo l’imbarazzo estremo nel cedere a Parrucconi imprenditori dell’ospitalità o di altri imprenditori parte del patrimonio pubblico con cambio di destinazione d’uso incluso, giunti in soccorso delle esangui casse comunali». Polemica che approderà presto in Consiglio comunale. L’ultima parola sulla licenza edilizia ai Benetton toccherà infatti proprio a Ca’ Loredan, che dovrà votare la Variante urbanistica
Titolo originale: Sprawl, Schmall... Give Me More Development - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Forse siete fra coloro che ritengono tutte le parole di quattro lettere sporche e cattive: che dire di quella che ne ha sei di lettere, sprawl?
Per certi personaggi tristi e catastrofici, "sprawl" sta insieme a cose come la peste, la lebbra, le malattie veneree, ma lasciate che ve lo dica: a me lo sprawl piace. Credo che ce ne sia bisogno. Lo facilito. Il territorio della Oakland County ne deve avere di più. Chiaro? Lo sprawl non è il male. Anzi, è il bene. Rappresenta l’espressione ovvia di chi esercita la propria libertà individuale garantita dalla nostra amata costituzione, che tutela chi insegue un sogno, chi sceglie dove abitare, dove lavorare, dove studiare, dove far crescere la famiglia. Smettiamola con questa isteria, e chiediamocelo onestamente: cos’è, lo sprawl? “Sprawl” è il termine peggiorativo che ahimè usano certi decisori pubblici per definire lo sviluppo economico che avviene in zone dove non hanno controllo. Si dice sprawl, ma in realtà si tratta di case, scuole, industrie, uffici, negozi. "Sprawl" è nuovi posti di lavoro, nuove speranze, l’avverarsi del sogno di tutta una vita, il Sogno Americano che diventa realtà davanti ai nostri occhi.
Oggi quando un’impresa decide di investire nell’abbandono di una sede suburbana, e si trasferisce in centro (spesso raddoppiando o triplicando il pendolarismo dei dipendenti), chi è contro il Sogno Americano, i tristi catastrofisti, parlano di “rivitalizzazione economica”, sono entusiasti. Quando invece un costruttore di case, o una famiglia, si trasferiscono nel suburbio questi Anti-Sogno-Americano li condannano. “Sprawl!” sibilano. “È il Male!”. Chiedono leggi, chiedono di sottrare poteri locali, di darli allo stato, per arginare, limitare, evitare, invertire tutto ciò che è crescita fuori dalle città centrali. Vogliono farvi credere che qualunque sviluppo nel suburbio rappresenti la radice di ogni problema in città, nel Michigan o in tutto il resto del paese. Paiono convinti che chi se ne è andato dalle città ha lasciato posti bellissimi, che è stata proprio la loro partenza a provocare tutti quei crimini, le troppe tasse, i servizi inesistenti, un sistema scolastico degradato.
Non facciamoci coinvolgere in questa nuova forma di negazionismo. Sprawl non ha mai voluto dire degrado urbano. Le città decadono perché hanno sprecato le proprie risorse. E sono stati la criminalità, le troppe tasse, le scuole degradate, la mancanza di verde a spingere la gente ad andarsene. I protagonisti dello sprawl, e io sono uno di loro, vogliono solo una casa con giardino in una via tranquilla e ben tenuta, una buona scuola nella propria zona che educhi davvero i figli, un buon lavoro, verde e spazi per giocare, un’amministrazione locale che eroghi effettivamente i servizi per cui chiede le tasse. In altre parole, vogliono qualcosa come ciò che la Oakland County è oggi. Qualcuno degli Anti-Sogno-Americano, particolarmente in malafede, dice che noi la stiamo asfaltando, la Oakland County. Che campi e boschi vengono cementificati dai costruttori, gente orribile che fabbrica casette unifamiliari invece dei palazzoni popolari. Dicono che il nostro territorio, anzi tutta l’America, presto si trasformerà in un gigantesco parcheggio di supermercato. La realtà però nega queste immagini da isterici.
La prima cosa che si può rispondere è che guardando obiettivamente il nostro sviluppo si capisce che non ci sta affatto crollando il cielo sulla testa. La Oakland County soddisfa il cittadino, l’impresa avveduta, l’amministratore locale delle nostre 62 circoscrizioni comunali, che insieme hanno lavorato sugli oltre 2.200 kmq di territorio. Lo dimostra il modo in cui abbiamo usato il nostro spazio. Vediamo: le case unifamiliari, meta delle tantissime famiglie all’inseguimento del proprio Sogno Americano, occupano il 38,5% della superficie. Al secondo posto i terreni liberi, 13,6%. Tutela ambientale (destinazione permanente) e ricreazione 13,3%. Specchi e corsi d’acqua 5,9%; agricoltura 4,2%, industria pure 4,2%, spazi pubblici 3,8%, funzioni commerciali solo 2,1% (resta una quota del 13,4% che comprende diritti di passaggio dei servizi a rete, ferrovie, superfici per abitazioni mobili). Un equilibrio che funziona benissimo! E tra l’altro, secondo una ricerca, il territorio dello stato del Michigan oggi è ancora al 91% rurale. Coi ritmi di urbanizzazione attuali abbiamo ancora circa duemila anni prima di esaurire la superficie dello stato.
Che dire, del fatto che staremmo asfaltando tutta l’America? Beh, la superficie totale degli Stati Uniti è di 9,37 milioni di kmq. Di questi, sono urbanizzati circa 360.000. Vale a dire che non molto più del 3% dell’America si può considerare “costruito”. I costruttori si stanno davvero mangiando boschi e prati con la loro cupidigia? Macché. Oggi in Michigan ci sono più boschi di cent’anni fa. Se diminuisce la superficie coltivata, ciò non si deve alle trasformazioni urbane, ma alla maggiore produttività delle colture. Grazie alle innovazioni tecniche, si possono produrre più cose usando meno terreni. Una grossa percentuale dei nostri prodotti dell’agricoltura oggi viene esportata, e ce ne resta ancora in abbondanza per dar da mangiare a tutto il paese. E infine sfatiamo la leggenda: quanta superficie abbiamo a disposizione? Beh, ascoltate: se ogni uomo, donna, bambino americano fosse obbligato a trasferirsi nel territorio del solo stato del Texas, avremmo ancora a disposizione, ciascuno, una superficie di 2.500 metri quadrati.
Allora, la prossima volta che sentite la parola sprawl, godetevela. Vuol dire solo sviluppo economico. Posti di lavoro. Libertà di scegliere. Si può tradurre letteralmente in qualità della vita. E se qualcuno ve la urla in faccia quella parola, sprawl, guadatelo con attenzione. E spesso vi accorgerete che è uno di quei radical chic che a suo tempo se ne sono andati dalle città. Adesso vorrebbero che qualcuno ci tornasse a prendere il loro posto. Vogliono usare il potere politico ad alto livello per obbligarvi a tornare in un quartiere urbano, in un tipo di case in cui loro non abiterebbero mai. Vogliono obbligarvi alla città per farvi espiare un loro peccato, quello di essersene andati da lì. Se non altro, per favore cercate di tenere ben presente che si parla di una “cosa”. Questa “cosa” è oggetto di forte concorrenza. Questa “cosa” è fra le più ambite del paese. Questa “cosa” vuol dire sviluppo economico. Chi non può averla, e ce ne sono, la considera il male, la chiama “sprawl”. Chiediamocelo: se fa tanto male, perché tutti la vogliono, perché fanno a gara per averla, perché per attirarla si fanno concessioni fiscali, si danno incentivi, si istituiscono zone speciali? La risposta la conoscete benissimo.
Non c’è che dire. Anche al netto dell’ovvia difesa del proprio fazzoletto di potere e prestigio locale (contro il classicissimo invadente “big government”) una bella montagna di sciocchezze, qualitative e quantitative insieme. Del resto in piena sintonia con quanto già riportato su questo sito a proposito delle posizioni più diffuse ormai anche ad alto livello tra i politici conservatori. E certo non limitate all’America profonda, basta pensare al senso concreto economicista della riforma urbanistica britannica, o alla cultura maggioritaria di altri paesi, Italia al primo posto, dove costruire sempre e comunque è sinonimo di progresso e ricchezza. Se vogliamo leggere un messaggio positivo anche in questa montagna di falsità e ideologie, però, è che calcando i toni oltre un certo limite non si va da nessuna parte: né dipingendo ogni trasformazione con le tinte rosee del sogno familiare, né urlando di continuo alla colata, all’ecomostro eccetera. Non perché sia di cattivo gusto (lo è, ma non importa): fa solo il gioco dell’avversario, rendendo ridicole le idee che si vorrebbero promuovere (f.b.)
Sono ancora da digerire le conseguenze della speculazione immobiliare dei primi anni 2000. Come ha scritto Robert Shiller, si è trattato di un aumento dei prezzi delle case ingiustificato in un paese – gli Stati Uniti – dove l'area edificabile procapite è potenzialmente illimitata.
Diverso è il caso dell'Italia, dove la bolla immobiliare è stata minore e in molti casi l'aumento di valore ha riguardato più le aree (l'edificabilità) che gli edifici costruiti (l'attività edilizia). Da questo punto di vista, non abbiamo neppure avuto il beneficio del sostegno al reddito dato da nuove costruzioni. Solo le conseguenze negative - anche in termini di legalità ed onestà - rappresentate dalla rendita immobiliare, che delle tante rendite di cui si occupa il Governo Monti, con le sue misure di liberalizzazione, meriterebbe qualche attenzione in più.
Anzitutto, una riflessione di metodo e poi alcune proposte. Il primo aspetto riguarda il concetto stesso di "rendita", che misura la remunerazione di una scarsità, che può essere naturale (come nel caso dell'area del centro storico) o dovuta ad un provvedimento amministrativo (come una concessione, data solo ad alcuni). La filosofia del Governo Monti è che tutte le rendite, a cominciare da quelle date da provvedimenti amministrativi, devono essere ridotte: meno rendite significa maggior reddito distribuito a salari e profitti, quindi maggior sviluppo.
Nel caso delle aree edificabili, siamo in un campo di cui ormai ci si occupa solo quando emergono scandali dovuti ad abusi, corruzione e così via. Il legislatore in teoria ha sistemato tutto molti anni fa: le competenze in campo urbanistico sono ripartite tra Regioni, Province e Comuni, in una serie di rapporti tra organi eletti dai cittadini e quindi con il massimo del controllo democratico. Questo in teoria.
Ma se facciamo un po' di ricerca, utilizzando il campione rappresentato dalla voce "scandali urbanistici" delle pagine (saranno una cinquantina) di Google, si vede subito che quel modello produce più corruzione e scandali di quando i Piani Regolatori erano approvati a Roma dal Ministero. Con amministrazioni di ogni colore politico, ogni tanto (con una qualche prevalenza nei periodi in cui ci sono campagne elettorali da finanziare) partono strumenti urbanistici nuovi o varianti che mutano destinazioni d'uso e quindi valori edificabili in modo significativo.
La competenza del Comune è soggetta a parere della Provincia, ma quando questo parere - che è solo di legittimità e non di merito - è negativo, basta che il Consiglio Comunale poi replichi, sostenendo che la Provincia non sa quel che dice, perchè la cosa si concluda così. Confermando l'opinione che se le Province sono più oneste, cioè meno coinvolte in scandali, è solo perchè... sono inutili. Una volta che si accerta che tanti diversi scandali presentano alcune fondamentali analogie, quali sono i rimedi possibili? Ovviamente, la prevenzione è necessaria e si vede che richiede molta più trasparenza. Occorre che anche in Italia, come avviene nei paesi civili, l'intero procedimento sia reso del tutto trasparente. Ad esempio, nel caso di varianti urbanistiche si pubblica, sul sito del Comune, la domanda dell'interessato, la successiva fase istruttoria, le varie delibere, le loro motivazioni, tutte le norme utilizzate, le ragioni del credito bancario, e così via.
Idem per il successivo parere della Provincia e per le eventuali controdeduzioni del Consiglio Comunale. Le moderne tecnologie rendono estremamente facile tutto ciò. Ma se esaminate i casi più clamorosi che compaiono sulle pagine Google e risalite ai siti degli enti locali coinvolti, non trovate nulla della documentazione che da qualche parte deve pur esistere; neppure i verbali dei Consigli Comunali che hanno discusso e votato quelle pratiche spesso milionarie. Già rendere integralmente pubblici (con le norme rilevanti e non solo i loro numeri) sia i pareri delle Province sia le successive controdeduzioni dei Consigli Comunali porrebbe un limite all'estrema privacy che oggi circonda varianti che regalano milioni di euro a pochi.... fortunati.
Si aiuterebbero anche le comunità coinvolte ad essere un po' più attente, fin dall'inizio, in queste pratiche. E non dovrebbe succedere ciò che si è visto nella mia città - Piacenza - dove una scuola già dell'Enel è stata venduta per 5 milioni e dopo tre mesi rivenduta per il doppio, sulla base di una promessa variante di destinazione d'uso, da scuola ad abitazione. Mentre nelle scuole pubbliche che distano pochi metri mancano laboratori, mancano palestre, e si fa lezione in aule poste nei seminterrati. Una variante che regala milioni di euro a pochi fortunati, mentre migliaia di ragazzi e le loro famiglie neppure ritengono che la cosa li riguardi. Come dire che se gli scandali urbanistici sono di casa nei Consigli Comunali, è anche vero che ogni città ha il Consiglio Comunale che si merita.
Singolare l’intervento di Giacomo Vaciago. Almeno per tre ragioni: una positiva, due negative.
Positivo il fatto che un economista di forte spessore accademico, e vicino ai luoghi della pratica economica (Confindustria), denunci il peso della rendita fondiaria in Italia e giunga a riconoscere una realtà dimenticata dai più, a destra come a sinistra: che «meno rendite significa maggior reddito distribuito a salari e profitti». Tanto più positivo poiché la rendita cui indirizza la sua critica è quella fondiaria urbana, che il pensiero dominante ritiene invece essere un inoppugnabile “motore dello sviluppo” (si veda in proposito il saggio di Walter Tocci).
Negativa a nostro parere (ma nel campo in cui Vaciago eccelle il nostro spessore è modestissimo) l’approssimazione con la quale l’illustre economista rappresenta il fenomeno della rendita fondiaria urbana e la superficialità che rivela (pur avendo avuto un’importante esperienza di amministratore locale) a proposito delle vicende dell’urbanistica italiana. Mentre sul primo aspetto (la rendita) rinviamo il lettore a scritti antichi e recenti pubblicati in questo sito, vogliamo spendere due parole sul secondo aspetto.
Vaciago coglie nel giusto quando afferma che «il legislatore in teoria ha sistemato tutto molti anni fa: le competenze in campo urbanistico sono ripartite tra Regioni, Province e Comuni, in una serie di rapporti tra organi eletti dai cittadini e quindi con il massimo del controllo democratico». Ma dimentica poi di dire che quella “sistemazione” (avvenuta grosso modo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso), e il “modello” che ne risultava, sono stati gradualmente distrutti con atti legislativi, amministrativi, politici e culturali che si sono succeduti con impressionante frequenza dagli anni Ottanta in poi, con uno scardinamento progressivo dei principi e dei metodi sottesi a quella “sistemazione” via via più veloce. Parole ed espressioni come “deroga”, “condono”, “emergenza”, “governabilità”, “urbanistica contrattata”, “perequazione”, “diritti edificatori” meriterebbero di essere approfondite nei loro significati e ruoli, sinistri per la città e il territorio.
Se il professor Vaciago approfondisse il suo ragionamento si accorgerebbe che le ricette che propone sono, più che modeste, inadeguate ai fini. Il materiale su cui ragionare più ampiamente, comprendere e proporre è molto, anche nel magazzino costituito da questo sito. (e.s)
Alcuni scritti sulla rendita urbana in eddyburg: La normalizzazione dei mercati delle aree e degli alloggi, di Siro Lombardini, L'insostenibile ascesa della rendita urbana, di Walter Tocci, Parole per ragionare sulla rendita urbana, di Edoardo Salzano
In conclusione del suo commento al no del governo alle Olimpiadi di Roma, Paolo Berdini, sul manifesto di ieri, ricorda opportunamente che - se tanto mi dà tanto - lo stesso criterio di prudenza finanziaria dovrebbe essere applicato a grandi opere come il Mose di Venezia o la Tav in Val di Susa (e a Firenze, ecc.). Eppure, due settimane fa il viceministro alle infrastrutture Ciaccia, già a capo della società di Banca Intesa che trafficava sulle infrastrutture, vice di Corrado Passera allora e oggi, ha firmato con il ministro dei trasporti francese, Thiérry Mariani, un accordo che darebbe definitivamente il via alla costruzione della Torino-Lione. Questo accordo, datato 30 gennaio, era rimasto più o meno segreto.
Come scrive il Movimento No Tav in un suo comunicato, ogni tentativo di vederlo (e i valsusini sono assai tenaci), era stato frustrato dal ministero: «Non sappiamo dove sia stato archiviato», era stata la risposta. Ma il diavolo fa le pentole e dimentica i coperchi, per cui i No Tav sono venuti in possesso del documento. «Si tratta - scrivono i valsusini - di un testo di 24 pagine e 28 articoliredatto allo scopo di convincere la Commissione europea che Italia e Francia sono d'accordo a realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione. Ricordiamo che tale accordo dovrà prima di tutto essere ratificato dai rispettivi parlamenti nazionali.
Secondo le aspettative dei due Stati membri, l'Europa dovrà sborsare il 40 per cento di un'opera che costerebbe 8,5 miliardi (ma per la Francia la stessa opera costerebbe 8,2 miliardi)». In sostanza, il governo italiano cerca di mettere le cose in modo tale che i 4,92 miliardi previsti dal lato italiano (ma come documenta Ivan Cicconi da anni i costi iniziali crescono poi in modo esponenziale) divengano 2,7 (secondo i francesi più di 3).
Ma il problema è che, dice sempre il testo dei No Tav, non solo i ritardi sono ormai enormi, il rapporto costi-benefici (cui Monti dovrebbe essere sensibile) lontanissimo dall'essere convincente, ma in più «il processo di co-decisione in corso a Bruxelles tra la Commissione europea e il Parlamento europeo per l'approvazione di un nuovo regolamento relativo ai finanziamenti a fondo perduto dei progetti Ten-T terminerà - se non vi saranno ritardi - non prima dell'inizio del 2013, per entrare in vigore nel 2014». L'accordo italo-francese al contrario annuncia «già alla fine dell'anno» l'apertura dei cantieri per il "mega-tunnel". Senza alcuna garanzia che l'Europa versi quel 40 per cento.
Con il no alle Olimpiadi di Roma siamo arrivati all'osso della questione. Negli ultimi decenni l'economia italiana è stata drogata con grandi opere, con "emergenze" alla Bertolaso e con grandi eventi con le Olimpiadi invernali di Torino. Il debito pubblico si spiega così: per la sola Tav sono stati spesi in un ventennio 100 mila miliardi di euro. Denaro pubblico e profitti privati. Ricavati con mezzi alla «shock economy», come dice Naomi Klein. Ma se Monti ammette che le Olimpiadi romane sono un costo eccessivo, perché non dovrebbe dire lo stesso per la Tav in Val di Susa? Come potrà continuare a sostenere che il problema sono le pensioni e l'articolo 18?
Stavolta Monti ha detto no, ma il Tav Torino-Lione segue la stessa logica
Mario Monti ha detto no alla candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020. Eppure i sostenitori della gloriosa e patriottica iniziativa avevano presentato conti da cui si deduce infallibilmente che l’operazione non sarebbe costata praticamente nulla alle nostre esangui casse pubbliche, così come è stato ampiamente dimostrato anche per l’Expo 2015 di Milano e, prima, per le Olimpiadi di Torino. Vediamo come sono organizzati questi luminosi conti sulla convenienza pubblica di questa faccenda (e delle altre citate, con approccio analogo). Tale convenienza è evidente dai numeri: 8,2 miliardi era la spesa pubblica necessaria, 3,5 miliardi i ricavi diretti previsti (biglietti e sponsorizzazioni, valorizzazioni immobiliari, ricavi dagli impianti in tempi successivi ecc.). Altri 4,6 miliardi i maggiori ricavi dell’Erario, dalle tasse generate da tutte le infinite attività economiche indotte dall’evento. Alla fine il costo pubblico netto sarebbe stato di soli 100 milioni di euro, quisquilie.
Peccato che i costi pubblici previsti siano certi (anzi, in generale i consuntivi tendono a essere molto più alti dei preventivi), e i ricavi assolutamente no. E il problema non è tanto che spesso arriva meno gente, o ci sono meno attività indotte, o gli impianti non servano più a nulla, e anzi generano alti costi di manutenzione o di demolizione, come a Torino. Il problema è che nessuno fa dei conti ex-post, cioè i risultati economici veri non si sanno mai. A chi interessa infatti fare i conti? L’evento è sempre e comunque dichiarato “un grande successo”; a quale dei soggetti promotori piacerebbe che emergesse che si è trattato di uno spreco di soldi pubblici?
Per stare sugli aspetti tecnici poi, si badi che qualsiasi spesa pubblica genera attività e ritorni fiscali indotti. Ma non è legittimo considerarli come dei “benefici”, se non confrontandoli con i risultati che si otterrebbero spandendo quei soldi pubblici diversamente (o lasciandoli nelle tasche dei contribuenti). I precedenti notoriamente catastrofici di questi grandi eventi sono però numerosi, e ben documentati: si è già detto degli impianti deserti di Torino (che apparentemente ha generato solo un piccolo passivo, ma al netto di 2 miliardi di soldi pubblici a fondo perduto). Anche le Olimpiadi di Vancouver sono andate male, come i Giochi del Commonwealth indiani, e le Olimpiadi di Londra presentano già adesso una crescita dei costi del 50%, che preoccupa molto gli inglesi. C’è poi il celebre caso di Atene: le spese pubbliche per le olimpiadi sono giudicate uno dei fattori del dissesto finanziario dello Stato greco (circa il 6% del Pil, e i costi finali sono stati il doppio di quelli previsti). Ma anche la Spagna (che ora ha qualche problema di buco di bilancio...) non ha scherzato: l’esposizione di Siviglia oggi è un deserto di rovine, e quella di Saragozza è stata un celebre flop: il sindaco intervistato in proposito, dichiarò candidamente: “Flop? Quale flop, sono arrivati un sacco di soldi pubblici alla città!”.
Sono invece andate molto bene le olimpiadi americane, di Los Angeles e di Atlanta, per le casse pubbliche: le hanno pagate quasi interamente i privati, ma lì non si fidano dei conti fantasiosi dei promotori, se non accompagnati da denaro sonante, e tanto. Certo, gli stadi erano brutti, a volte addirittura fatti coi “tubi Innocenti”. Mai e poi mai dal ricco Stato italiano (e ancor meno dai costruttori interessati) sarebbe accettata una simile volgarità, che dia-mine! In Italia di solito i grandi eventi di dubbia utilità sono un’ulteriore riprova dell’irrilevanza attribuita da molti politici al denaro pubblico. Così come le grandi opere: la governatrice del Piemonte, quando le chiesero alla radio, un paio di anni fa, se l’aumentato costo della linea Torino-Lione di due miliardi di euro la preoccupasse, rispose che la cosa non era assolutamente un problema. E purtroppo dal governo Monti finora non sono giunti segnali di volere fare con urgenza una spending review sulle grandi opere berlusconiane, basata su analisi costi-benefici comparative, come aveva fortemente raccomandato il Governatore uscente della Banca d’Italia Draghi presentando una ricerca sul tema fatta dalla banca solo l’anno scorso.
Nel momento in cui il governo mette mano alla riforma del lavoro – cioè all´atto politicamente più significativo del suo mandato emergenziale – i recenti lapsus comunicativi di alcuni suoi importanti esponenti sono preziosi non tanto per intentare processi alle intenzioni, quanto perché permettono di inquadrare la dimensione reale dei problemi in gioco.
In primo luogo, c´è un problema cognitivo: le élites sociali, economiche, intellettuali del Paese, oggi investite della diretta responsabilità di governo, conoscono l´Italia attraverso stereotipi (la colpa delle nostre condizioni è nel buonismo sociale) oppure attraverso le privilegiate esperienze di familiari e di amici (da cui apprendono che la mobilità è benefica, e che il lavoro gratificante si trova a Washington o a Wall Street o nella Silicon Valley, e non a casa di papà e mamma dove lo cercano, senza trovarlo, i giovani e illusi fannulloni). Questo cortocircuito è il segno che le élites oggi sono distanti dalla massa dei cittadini; la contrazione del ceto medio – già ampia e articolata riserva di energie culturali, sociali e anche politiche – lascia il campo a una società frammentata fra le élites sempre meno numerose, e sempre più separate, e i cittadini "normali", sempre più anonimi, passivi, incompresi. Non è questione di buona volontà o di sensibilità individuale. È una nuova struttura della società ciò che si profila dietro quelle parole.
Da qui un ulteriore problema politico. Le élites hanno sempre maggiore difficoltà a dirigere un Paese attraverso un´egemonia di tipo tradizionale: cioè attraverso un discorso che sia, com´è inevitabile, di parte, ma che al tempo stesso sappia aprire un orizzonte in cui c´è spazio per tutti, e non solo per pochi privilegiati. Ciò non significa che il governo non farà nulla per modificare il contesto in cui il lavoro manca per giovani e meno giovani, e, quando c´è, è sempre più spesso precario, sottopagato, non in linea con gli studi effettuati, e poco tutelato; significa però che oggi le élites muovono, per default, da una posizione, da una ideologia, che vede gli imperativi sistemici dell´economia non solo come privi di alternative ma anche scarsamente governabili. Significa che sostituiscono l´oggettività alla persuasione e al consenso – la tecnica alla politica, si direbbe, se non fosse politico anche l´agire che si presenta come tecnico –.
Le élites hanno in mente un futuro poco condiviso da chi lo deve vivere, cioè soprattutto dai giovani (che del futuro sono i naturali abitatori). E lo propongono senza farsene troppi problemi, senza sforzarsi neppure di nascondere il fastidio per la riluttanza dei diretti interessati davanti all´immagine, presentata come gratificante, di un lavoro perennemente mobile – cioè, in realtà, perennemente mancante –. Tanto che li trattano con qualche durezza, con qualche impazienza, poiché li vedono collocati prevalentemente nel "passato". Ma in realtà quei giovani, e anche i meno giovani, hanno i piedi ben piantati nel presente; e conoscono già, da qualche decennio, la realtà del lavoro che scarseggia; ma la vivono come una perdita, come un vulnus, rispetto sia alle aspettative individuali (tutte illusorie?) Sia allo stesso impianto categoriale e valoriale della Costituzione.
E questo è un ulteriore problema politico. Come conciliare la previsione programmatica e valoriale di una repubblica democratica fondata sul lavoro – ovvero l´idea di una civile convivenza che al lavoro affida la funzione di socializzazione, di promozione della persona umana, e che ne fa lo strumento privilegiato perché il cittadino determini in autonomia il proprio avvenire –, con la realtà di segno opposto del recente passato, del presente e anche dell´avvenire? Questo è un problema che deve interpellare chiunque faccia politica (a qualunque titolo), e spingerlo a interpretare con buon senso e con radicalità (cioè senza ideologie e senza superficialità) l´esperienza presente, ma anche a ricondurla nell´alveo, della nostra Costituzione, della nostra democrazia.
L´ultimo, e più grave, problema politico a cui rimandano le difficoltà comunicative del governo è infatti la crisi del capitalismo (o almeno della interpretazione che ne dà la dominante cultura neoliberista). È una crisi che ha almeno due volti: dal punto di vista istituzionale, implica un conflitto tra finanza e democrazie indebitate che apre contraddizioni laceranti fra i politici (sia i "tecnici" al governo, sia i partiti in Parlamento) che si devono fare carico di misure decise fuori dagli spazi della sovranità democratica, e i cittadini che le subiscono. Da un punto di vista materiale, poi, il capitalismo sta perdendo la sua capacità di realizzare crescita attraverso il lavoro sociale, che è stata la sua giustificazione storica, la sua legittimazione democratica. Se è vero che è più facile, oggi, creare ricchezza che creare lavoro, e che il lavoro sarà sempre più spesso scarso, dequalificato e sottopagato, che ne è del significato progressivo del capitalismo, della sua promessa di futuro?
Almeno alla questione del lavoro – della sua difesa, della sua centralità politica, del suo sviluppo – anche un governo "tecnico" non può non impegnarsi a dare risposte all´altezza della questione democratica che vi è implicita. Una risposta linguisticamente, concettualmente, operativamente, adeguata alla fiducia non solo tecnica che riscuote dentro e fuori d´Italia.
Sembrano passati cinquant´anni e invece ne sono passati solo cinque, da quando i capi d´Europa, riuniti a Berlino per commemorare i Trattati di Roma, firmarono una dichiarazione in cui è scritto che «noi, cittadini dell´Unione siamo, per la nostra felicità, uniti». E ancora: «L´unificazione europea ci ha permesso di raggiungere pace e benessere... È stata fondamento di condivisione e superamento di contrasti... Aspiriamo al benessere e alla sicurezza, alla tolleranza e alla partecipazione, alla giustizia e alla solidarietà... L´Unione si fonda sulla parità, sull´unione solidale... sul giusto equilibrio di interessi tra Stati membri».
Era bello, pensare positivo e non prevedere nulla. È la stoffa di cui è fatta la crisi odierna. Ben altro campeggia davanti ai nostri occhi, con Atene che s´incendia e precipita nella punizione dell´impoverimento: non la felicità ma il sospetto reciproco, il bruto squilibrio d´interessi, l´intolleranza che dilaga in Italia, Ungheria, Danimarca, Olanda. E in Grecia non la pace ma la guerra civile, che non turba l´Europa ma è pur sempre ritorno della guerra, dei suoi vocabolari minatori. Nel difendere un´ennesima contrazione dei redditi, il premier Papademos ha brandito l´arma della paura, non della speranza: «Una bancarotta disordinata provocherebbe caos e esplosioni sociali. Lo Stato sarebbe incapace di pagare salari, pensioni, ospedali, scuole. L´importazione di beni basilari come medicine, petrolio, macchinari sarebbe problematica». Parafrasando Joyce: ecco Europa, un incubo dal quale non sappiamo svegliarci.
Potrebbero andare in altro modo le cose, se i responsabili europei riconoscessero che il male non è l´inadempienza ellenica. Se capissero, come scrive l´economista greco Yanis Varoufakis, che malata è l´eurozona, con o senza Atene. Certo Atene è stata «un paziente recalcitrante»: ma è stata usata per velare il vizio d´origine, che è il modo in cui l´eurozona «ha aggravato gli squilibri, non ha assorbito il collasso finanziario del 2008».
In Grecia e altrove la Germania è descritta come cerbero, istupidito dai propri trionfi: quasi avesse dimenticato la disastrosa politica di riparazione che le inflissero i vincitori dopo il ´14-18. La sofferenza sociale dei tedeschi fu tale, che s´aggrapparono a Hitler. C´è del vero in quest´analisi – difesa nel ´19 da Keynes – ma le menti tedesche sono più complesse e incorporano anche il ricordo del ´45. Il ´45 seppellì l´era delle punizioni e aprì quella della fiducia, della cooperazione, creando Bretton Woods e l´Europa unita.
Angela Merkel deve essersi accorta che qualcosa sta andando molto storto se il 7 febbraio, in un incontro con gli studenti, ha confessato, in sostanza, che senza rifare l´Europa via d´uscita non c´è e il tesoro di fiducia svanisce. Non ha menzionato gli Stati uniti d´Europa, ma il suo progetto ha gli elementi tutti di una Federazione. L´Unione – ha detto – deve cambiar pelle. Gli Stati per primi dovranno farlo, e decidersi a un abbandono ben più vasto di sovranità: anche se per ciascuno, Berlino compresa, la scelta è «molto difficile». Così come difficili, ma non più rinviabili, sono l´abolizione del diritto di veto e l´estensione del voto a maggioranza. La Commissione di Bruxelles dovrà trasformarsi in autentico governo, con i nuovi poteri delegati, e «rispondere a un forte Parlamento europeo».
Ridimensionato, il Consiglio dei ministri sarebbe «una seconda Camera legislativa» – simile al Senato americano – e massima autorità diverrebbe la Corte di giustizia: «Vivremo meglio insieme se saremo pronti a trasferire le nostre competenze, per gradi, all´Europa». Che altro si prospetta, se non quegli Stati Uniti che Monti aveva escluso, nell´intervista alla Welt dell´11 gennaio? E come parlare di una Germania despota d´Europa, se vuol abbandonare le prevaricazioni del liberum veto?
Non solo. Senza esplicitamente nominarlo, il Cancelliere ha ricordato che Kohl vide subito i pericoli di una moneta senza Stato: «Oggi tocca creare l´unione politica che non fu fatta quando venne introdotto l´euro», senza curarsi delle «molte dispute» che torneranno a galla. Ci sono dispute più istruttive delle favole sulla felicità, perché non menzognere. Kohl, allora, chiese l´unione politica e la difesa comune: Mitterrand rispose no.
Può darsi che la Merkel parli al vento, un po´ per volubilità un po´ perché tutti tacciono. Comunque l´ostacolo oggi non è Berlino. Come ai tempi di Maastricht, chi blocca è la Francia, di destra e sinistra. È accaduto tante volte: nel ´54 per la Comunità di difesa, nel 2005 per la Costituzione Ue. Tanto più essenziale sarà l´appoggio di Monti a questo timido, ma cocciuto ritorno del federalismo tedesco.
Creare un´Europa davvero sovranazionale non è un diversivo istituzionale. Già Monnet diceva che le istituzioni, più durevoli dei governi, sono indispensabili all´azione. Oggi lo sono più che mai, perché solo prevalendo sui veti nazionali l´Europa potrà fare quel che Berlino ancora respinge: affiancare alla cultura della stabilità, che pure è prezioso insegnamento tedesco, una sorta di piano Marshall intra-europeo, incentrato sulla crescita. Il patimento greco lo esige.
Ma lo esige ciascuno di noi, assieme ai greci. La loro sciagura infatti non è solo l´indisciplina: è un accanimento terapeutico che diventa unica strategia europea, indifferente all´ira e alle speranze dei popoli. I dati ellenici, terribili, sono così riassunti da Philomila Tsoukala, di origine greca, professore a Washington: l´aggiustamento fiscale è già avvenuto (6 punti di Pil in meno di un anno, in piena recessione). Salari e pensioni sono già ai minimi, e le entrate aumentano ma colpendo i salariati, non gli evasori. Centinaia di migliaia di piccole imprese sono naufragate, la disoccupazione giovanile è salita al 48%, una persona su tre è a rischio di povertà. I senzatetto sono 20.000 nel centro di Atene. «La pauperizzazione delle classi medie è tale, che aumenta il numero di chi non teme più il default, non avendo nulla da perdere». A ciò si aggiungano losche pressioni esercitate ultimamente su Atene, perché in cambio di aiuto comprasse armi tedesche e francesi. È vero, la sovranità è oggi fittizia. Ma non può risolversi nel ricatto dei forti, e nell´umiliazione dei declassati.
È il motivo per cui l´Europa deve farsi, con istituzioni rinnovate, promotrice di crescita. E ai cittadini va detta la verità: se siamo immersi in una guerra del debito (in Europa, Usa, Giappone) è perché i paesi in ascesa (Asia, America Latina) non sopportano più un Occidente che domina il mondo indebitandosi. Alla loro sfida urge rispondere con conti in ordine, ma anche con uno sviluppo diverso, senza il quale la concorrenza asiatica ci schiaccerà. È lo sviluppo cui pensava Jacques Delors, con il suo Piano del ´93. Napolitano l´ha riproposto, venerdì a Helsinki: «Abbiamo bisogno di decisioni e iniziative comuni per la produttività e la competitività».
L´Europa può farlo, se oltre agli eurobond introdurrà una tassa sull´energia che emette biossido di carbonio (carbon tax), una tassa sulle transazioni finanziarie, un´Iva europea: purché i proventi vadano all´Unione, non agli Stati. È stato calcolato che i nuovi investimenti comuni – in energie alternative, ricerca, educazione, trasporti – genererebbero milioni di occupati e risparmi formidabili di spesa.
Divenire Stati Uniti d´Europa significa non copiare l´America, ma imparare da essa. Lo ricorda l´economista Marco Leonardi sul sito La Voce: subito dopo la guerre di indipendenza, e prima di avere una sola Banca centrale e un´unica moneta, il ministro del Tesoro Alexander Hamilton prese la decisione cruciale: l´assunzione dei debiti dei singoli stati da parte del governo nazionale.
Di un Hamilton ha bisogno l´Europa, che sommi più persone spavalde. Il loro contributo può essere grande e l´impresa vale la pena: perché solo nella pena riconosciamo l´inconsistenza, i costi, la catastrofe delle finte sovranità nazionali.
Non era mai capitato che un comitato promotore guidato nientemeno da Gianni Letta e formato tra gli altri da Cesare Geronzi, Giovanni Malagò, Emma Marcegaglia, John Elkann, Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e Azzurra Caltagirone [e il BAC: Bersani-Alfano-Casini – n.d.r.], ricevesse un no così sonoro. Il presidente Monti ha negato il consenso all'avventura delle Olimpiadi romane del 2020. Ha fatto bene e godiamoci almeno per un giorno la rabbiosa ritirata dell'esercito dei cacciatori di appalti - rigorosamente bipartisan - che erano già pronti a mettere le mani sui 5 miliardi iniziali che sarebbero stati spesi in tante opere inutili.
Il governo non ha creduto ai paludati studi che parlavano di un aumento del Pil tra il 2013 e il 2025 di 17,7 miliardi, accompagnato da un aumento di occupazione stratosferico: 14.000 nuovi posti di lavoro a partire dal 2015 con un picco di 29.000 nel 2020. Balle. Ma il parterre del comitato promotore controlla molti giornali e come a Milano per l'Expo 2015 era iniziata la favola dell'Olimpiade sostenibile e verde, austera. Maestri nel camuffare il cemento e l'asfalto. Maestri nel camuffare la verità.
Solo tre esempi. Il bacino remiero era previsto a Settebagni, nelle aree in cui sorge il Salaria Sport Village di Anemone, Bertolaso e Balducci.
È un'opera sotto giudizio penale e avevano pensato di renderla eterna con altro denaro pubblico. Le gare di nuoto erano previste a Tor Vergata nell'edificio disegnato da Calatrava che doveva già ospitare i mondiali del nuoto del 2009. Anche qui, visto che erano stati già gettati al vento circa 400 milioni di euro si sfruttavano le Olimpiadi per spenderne altri 500. Il velodromo, infine, doveva essere costruito ex novo perché il gioiello costruito nel 1960 era stato fatto saltare con la dinamite proprio per permettere l'ennesima speculazione edilizia sponsorizzata dall'Ente Eur.
Il colpo assestato alla famelica banda dei cacciatori di soldi pubblici può significare una svolta nel modo di pensare il futuro delle nostre città, a iniziare da Roma. Basta con il mito dei grandi eventi e delle grandi opere. In tempi di crisi dobbiamo cambiare paradigma e pensare alle migliaia di opere piccole e intelligenti che possono migliorare la vita delle periferie urbane che lottano per avere trasporti moderni o scuole in sicurezza e senza amianto, aria pulita. La prospettiva di una vita migliore invece del pessimismo in cui ci ha cacciato l'economia liberista.
E dato che anche i professori di governo hanno per una volta sobriamente ingrossato le file oceaniche dei signornò, proponiamo un piccolo passo avanti. Per essere coerenti con il diniego alle Olimpiadi del 2020 devono ora cancellare il folle ampliamento dell'aeroporto di Fiumicino pensato proprio per l'evento Olimpico, 1.200 ettari di aree agricole cancellate per costruire altre piste, alberghi, ipermercati. E poi, alzando lo sguardo da Roma, blocchino per sempre l'inutile opera della val di Susa e il Mose di Venezia. Solo così il no alle Olimpiadi sarebbe coerente e aprirebbe una prospettiva nuova alle nostre città.
1) Il Pgt di Milano ha un limite di origine difficilmente correggibile in sede di controdeduzioni: aver completamente trascurato i rapporti con l’hinterland, dove vive tre quarti della popolazione metropolitana. Chiediamo perciò che venga avviato subito il processo di consultazione metropolitana sistematica per definire scelte urbanistiche e di investimento condivise a livello di area vasta, che potranno poi portare anche alla modifica di alcune delle opzioni del PGT.
2) Lo stralcio, in fase di controdeduzioni, di gran parte delle scelte infrastrutturali, annunciato dalla Giunta, e il loro rinvio in sede di pianificazione di settore non consente la verifica di coerenza tra sviluppo del sistema insediativo e di quello infrastrutturale, che dovrebbe invece costituire la base essenziale di qualsiasi piano. Inoltre mette in forse la garanzia di un adeguato supporto di infrastrutture rare alla competitività del sistema territoriale. E’ dunque essenziale che le scelte infrastrutturali principali vengano reintrodotte nel PGT e non rinviate.
3) Gli ambiti di trasformazione (ATU) comprendono alcune aree che costituiscono opportunità uniche di riconformazione e riqualificazione della città. Soprattutto Bovisa/Farini/Lugano, Piazza d’armi/ Perrucchetti/Ospedale militare e gli scali di Porta Romana/Vigentina e Porta Genova/San Cristoforo, devono diventare grandi spazi di verde naturale ed attrezzato. La loro lunghezza può infatti permettere a centinaia di migliaia di milanesi di conquistare per la prima volta la fruizione diretta di grandi spazi a parco. Viceversa le densità edilizie ipotizzate (0,35 + 0,35 + 0, 28 circa di bonus energetici = 0,98 mq/mq circa di densità territoriale, che salgono a 1,14 circa nel caso di Bovisa/Farini, se calcolate, come è corretto fare, al netto dei sedimi ferroviari da mantenere) non permettono certo di raggiungere tale obbiettivo. Per aver chiari gli effetti congestivi di quanto ipotizzato basta visitare il cantiere di City life, costruita con una densità territoriale molto simile (1,15 mq/mq). Nessun eventuale ritorno economico per il Comune può giustificare il sacrificio delle ultime grandi opportunità di penetrazione di verde nella città, per di più su aree già di proprietà pubblica.
Con riferimento agli altri ATU e ai piani attuativi in genere sembra utile ricordare i quartieri approvati alla fine degli anni 90 con lo standard di 44 mq/100 mc. Non è chiaro se vi siano ragioni per scendere al di sotto di questo livello di qualità ambientale già acquisito in passato e realizzato.
4) Alla positiva notizia dell’intenzione della Giunta di cancellare gli ATIPG situati tra i margini della città e il Parco sud, sembra d’altro canto accompagnarsi la mancanza di indicazioni per le aree del Parco sud interessate dai futuri PCU (Piani di cintura urbana). Si chiede che il PGT contenga una precisa dichiarazione degli intenti del Comune di Milano per ciascuna di queste aree, da sottoporre poi al confronto e alla verifica con i profili di tutela di competenza del Parco Sud.
5) Una normativa molto creativa del PGT adottato prevede il convenzionale azzeramento della SLP di tutti i servizi pubblici e privati (edilizia residenziale pubblica compresa) con la conseguente attribuzione di ulteriore capacità edificatoria a tutte le relative aree, trattate perciò esattamente come fossero vergini ed inedificate. Questa norma, unitamente all’edificabilità virtuale attribuita alle nuove previsioni puntuali di verde e viabilità genera un’ulteriore mostruosa capacità insediativa di circa 16 milioni di mq di SLP, pari a più di cinque volte tanto quella ora prevista negli ATU. Se una tale norma dovesse essere confermata, gli effetti sarebbero inevitabilmente quelli di un diluvio di intasamenti, sopralzi e densificazioni che si abbatterà dovunque nel tessuto urbano esistente, e soprattutto nella sua parte centrale più appetibile. Si chiede la cancellazione di tale incredibile disposto normativo, facendo rientrare, come dovrebbe essere assolutamente del tutto ovvio, anche gli edifici per servizi nel calcolo della SLP.
6) Molti miglioramenti possono essere introdotti nel PGT adottato sotto il profilo della promozione della qualità progettuale, del recupero delle periferie, della tutela della città storica sia antica che recente, della conservazione dei nuclei urbani periferici, dell’attenzione complessiva al paesaggio, e della accentuazione del ruolo del Comune, accanto a quello delle Sovrintendenze in tutti questi campi. Alcuni interventi preciseranno le proposte su questi punti. Miglioramenti possono anche essere apportati alla definizione delle quote di social housing, per garantirne l’effettiva rilevanza sociale.
7) Appare opportuno che gli interventi per l’Expo non camminino su strade separate da quelle della pianificazione urbanistica e della tutela ambientale. In particolare suscita dubbi di sostenibilità ambientale ed economica l’ipotizzata nuova Via d’acqua.
8) In conclusione si evidenzia il rilevante rischio giuridico che potrebbe comportare l’approvazione in fase di controdeduzione di modifiche sostanziali al PGT, se non si procedesse poi ad una sua conseguente ripubblicazione.
Titolo originale: At Charlotte's New Walmart, a Transit Promise Unfulfilled - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
A fine estate 2009, dopo anni di attesa, la Walmart presentava un progetto di superstore nell’area di un ex centro commerciale abbandonato a East Charlotte. La città era stata duramente colpita dalla crisi del 2008, e molti, amministratori e non, vedevano questo arrivo sia come una possibilità occupazionale, sia come un segnale di ripresa per l’economia locale. Immaginavano, anche, si potesse trattare di un primo passo verso uno sviluppo urbano più sostenibile: “Credo ci sia l’occasione concreta per sperimentare e poi ampliare un sistema di transit oriented development. Il primo intervento ne attirerà altri” spiegava la consigliera Nancy Carter.
Sono passati due anni e mezzo, e una parte della promessa è stata mantenuta. A fine gennaio Walmart ha aperto con gran pubblicità un negozio su 13.500 metri quadrati. Creando 250 posti di lavoro, e il sindaco di Charlotte, Anthony Foxx, cita addirittura la famosa frase dell’allunaggio: “è un piccolo passo per il commercio, ma un grande balzo per tutta la fascia orientale di Charlotte”. Scusate se è poco. Però tutta la parte che riguarda il quartiere TOD orientato ai mezzi pubblici sta ancora aspettando. Invece di transit-oriented development, gli abitanti di East Charlotte vedono solo un intrico di traffico e congestione, come dimostrano parecchi articoli e studi. Il nuovo Walmart sta su Independence Boulevard appena a est di uno svincolo, e appena a ovest di un grosso incrocio con Albemarle Road. Anche se si chiama boulevard, l’Independence non è affatto un viale un po’ accogliente per i pedoni, ma una fragorosa superstrada a sei corsie.
Il che significa automobilisti che escono dal parcheggio del Walmart e si devono immettere nel flusso veloce, con altri diretti verso la Albemarle a spostarsi di varie corsie molto rapidamente, giusto il tempo che ci vuole e pronunciare la parola “offerte speciali”. Gli abitanti del vicino quartiere Amity Gardens lamentano il traffico delle auto verso l’ingresso posteriore del magazzino. Chi sperava che i mezzi pubblici potessero far qualcosa per allentare la congestione, per adesso dovrà sperare ancora: gli autobus che passano sull’Independence provenienti dal centro di Charlotte tirano dritti verso Sharon Amity Roar, parecchie centinaia di metri più in là, insomma non c’è alcuna fermata per il negozio. Per essere giusti, i responsabili cittadini dei trasporti spiegano ai giornalisti che entro il mese prossimo la fermata dovrebbe esserci.
Cosa semplice sul lato dell’Independence dove sta Walmart, ma sull’altro lato della freeway? Per fare le cose in piena sicurezza ci vorrebbe un attraversamento pedonale perfetto, con sei corsie di forte traffico: cosa improbabile, e comunque non di breve periodo. Il che significa per chi arriva dall’altra direzione cercarsi un punto di attraversamento sicuro a un’altra fermata, magari cambiando mezzo. Non è certo una cosa de genere che pensano gli urbanisti immaginando un transit-oriented development. Cos’è accaduto? La risposta più immediata è: la recessione. Charlotte si era dotata di un ambizioso Programma Trasporti Pubblici 2030, con tanto di strumenti di finanziamento sottoscritti dagli elettori, attraverso le imposte commerciali, una quota di mezzo centesimo. Ma con la crisi è crollato anche quel gettito, e dopo la realizzazione della metropolitana leggera Linea Blu si sono rinviate le altre (si sta almeno cercando di finanziarne una offrendola anche al trasporto merci).
Fra i progetti rinviati, la Linea Argento, sedici fermate di autobus veloce (o metropolitana leggera) per venti chilometri circa a trasportare 15.500 persone al giorno lungo Independence Boulevard. Progetto rinviato, certo, non abbandonato. Nella versione del nuovo piano cittadino approvata a maggio c’è ancora la Linea Argento come componente essenziale della trasformazione dell’area Independence Boulevard. Se si realizzerà, Walmart dovrebbe avere una fermata giusto davanti (il puntino sulla mappa sta a Amity Gardens): un giorno, forse, East Charlotte Walmart farà da traino a un vero transit-oriented development che interessa tutto il corridoio, come credeva fermamente l’amico Kaid Benfield. Per adesso però le cose appaiono molto diverse, la città pare avere un rapporto contraddittorio con lo spirito del programma trasporti pubblici.
Come scrive il quotidiano Charlotte Observer, si dovrebbe addirittura ampliare ulteriormente l’Independence Boulevard:
“Il tratto di strada dove oggi c’è Walmart ha visto chiudere parecchi esercizi, man mano l’Independence veniva allargato e diventava un’arteria a scorrimento veloce. Cosa che rende difficile accedere alle attività. Col progetto di ampliamento in corso il viale diventa un’arteria veloce per altri due chilometri fino a Wallace Road. Il che ha già fatto chiudere attività come Compare Foods o T.J. Maxx dentro all’Independence Shopping Center all’altezza della Idlewild Road, e anche demolizioni fra le vie North Sharon Amity e Idlewild. Alla fine per la superstrada saranno circa trenta gli esercizi demoliti”.
Insomma, gran cosa che a East Charlotte sia potuto arrivare un nuovo Walmart, e da qui a un po’ di anni gli abitanti magari considereranno quell’apertura come il momento in cui è iniziata la ripresa, e anche la trasformazione urbana per il meglio. Ma per ora c’è solo un enorme contenitore commerciale, con davanti un immenso parcheggio, e una superstrada che attira macchine invece che soprattutto trasporti pubblici, mentre prima del programma di quei trasporti, per cui scarseggiano i fondi, si allarga ancora la superstrada. È un transit-oriented development? A me pare l’ennesimo Walmart.
Nessuno restituirà la vita alle migliaia di persone uccise dall'amianto, operai e cittadini colpevoli solo di aver lavorato nelle fabbriche della morte, oppure di aver lavato le tute impregnate di veleno dei loro compagni, o di aver respirato in casa o al bar quelle maledette fibre. Una strage, a Casale Monferrato e nelle città di tutto il mondo in cui il miliardario svizzero Schmidheiny e il barone belga de Cartier hanno ucciso e intossicato in nome di un profitto che sapevano fondarsi sul sangue di tanta povera gente. Nessuno restituirà il sorriso a chi ha perso il marito o il figlio, o l'uno e l'altro, in base al principio criminale per cui la salute e la vita di chi lavora sono variabili dipendenti del plusvalore, architrave dell'impresa capitalistica.
Eppure, la sentenza di condanna a 16 anni per disastro doloso e omissione dolosa di misure antinfortunistiche emessa ieri dal tribunale di Torino, ha un grandissimo merito: restituisce a intere comunità vittime dell'amianto il rispetto che meritano e, insieme, la fiducia se non in un futuro ormai intimamente compromesso, almeno nella giustizia. Questa volta gli assassini non l'hanno fatta franca, uccidevano sapendo di uccidere e per questo sono stati condannati. Le lacrime di commozione di chi per anni ha lottato per avere non quel che aveva perso - e nessuna sentenza potrà restituirgli - ma verità e giustizia, mostrano la riappropriazione da parte di migliaia di persone del diritto a vivere ed elaborare il lutto più grande, sapendo però che la loro battaglia civile non è stata inutile. Il Comitato familiari delle vittime dell'amianto ne aveva appena vinta un'altra di battaglia, costringendo il sindaco e l'amministrazione comunale di Casale a tornare sulla sua decisione intollerabile di accettare i soldi del carnefice, mister Eternit, il magnate Schmidheiny, a condizione di rinunciare alla costituzione di parte civile. Uno schiaffo che la comunità delle vittime non poteva accettare. Quel sindaco di destra, oltre che cinico e disumano, neanche sapeva fare i conti, dato che la giustizia ha deciso un risarcimento al comune superiore a quello «offerto» dal miliardario in cambio dell'uscita di scena.
Chissà se qualche mascalzone verrà a spiegarci che sentenze come queste allontanano gli investimenti stranieri in Italia. Chissà se Schmidheiny interverrà a qualche congresso di Confindustria per protestare contro la sentenza, come avevano fatto i suoi colleghi della ThyssenKrupp. CONTINUA|PAGINA3 DALLA PRIMA
Sarebbe bello, al contrario, se la condanna di Torino istillasse almeno un dubbio nella testa di chi, in fabbrica come in Parlamento, a palazzo Chigi come nelle redazioni dei grandi giornali, cavalcando la crisi si batte per cancellare diritti e dignità di chi lavora. La cui sicurezza, oggi, viene in secon'ordine rispetto al profitto. La sentenza interroga chi in nome della crisi sta cancellando il contratto nazionale, lo Statuto dei lavoratori, le norme sulla sicurezza. Sono quelli per cui i profitti vengono prima dell'ambiente.
Della conclusione del processo di Torino dobbiamo ringraziare una magistratura che ha avuto il coraggio di formulare una sentenza che farà giurisprudenza in tutto il mondo. Dobbiamo ringraziare per primo il pm Raffaele Guariniello che ha istruito il processo, un uomo giusto, tenace, puntiglioso. Non un eroe, gli eroi non servono. Un magistrato.
Elettori trascurati pensando soltanto agli equilibri interni
di Marco Imarisio
Genova è un caso di scuola. Come farsi male da soli, da predestinati alla sofferenza, e riuscirci benissimo. Missione compiuta. Naturalmente è del Partito democratico che stiamo parlando, ancora una volta colpito e affondato dall'esito delle «sue» primarie. Senza mai fare tesoro delle legnate subite in precedenza, lezioni che sarebbero state facilmente comprensibili per chiunque. Se le vicende di Cagliari e soprattutto Milano hanno le loro peculiarità, la disfatta ligure, con i suoi profili netti, autorizza qualche domanda sulla capacità del maggiore partito di centrosinistra di capire le realtà che amministra, compresi i desideri e le frustrazioni dei propri potenziali elettori, determinati a non seguire incomprensibili equilibrismi sempre anteposti alla necessità.
E alla propria convenienza. Eppure, fin dall'inizio, i segnali c'erano tutti. Quali sentimenti, se non noia e irritazione, potrà mai evocare nel cittadino una sfida all'arma bianca tra due contendenti che rappresentano al meglio le due anime presenti nel corpo di un solo partito, per altro lanciata con un anno e mezzo di anticipo sulla data delle amministrative? Quella rivalità interna era garanzia di un insuccesso annunciato, ma nessuno ha potuto o voluto fermare il treno lanciato a pieno velocità contro il muro.
L'ormai sindaco uscente Marta Vincenzi è diretta discendente della tradizione Pci e poi Ds, in tutto e per tutto esponente della tendenza socialdemocratica del Pd. Roberta Pinotti, che non merita di diventare un capro espiatorio, si è prestata in buona fede a recitare da candidata di un altro pezzo del suo partito, da lei ben rappresentato. È una boy scout, cattolica osservante, lanciata allo sbaraglio nella città più laica d'Italia. A farla breve, una ex esponente della Margherita che nella corsa alla segreteria si era spesa per sostenere Dario Franceschini. Le primarie fratricide di Genova sono nate dalla decisione pilatesca dei vertici nazionali, che hanno così scelto di non scegliere, rimettendo agli elettori ogni scelta sulle risse del Pd locale. Ma se due galli continuano a beccarsi nel pollaio, spetta al padrone della fattoria scegliere il capo del proprio allevamento.
A Genova, e altrove, questo non è mai avvenuto. Il Pd si è ben guardato dall'esprimere un giudizio sul suo sindaco, se aveva fatto bene o male, se meritava la riconferma. E sempre nel nome degli equilibri interni, Roberta Pinotti ha corso con una mano legata dietro alla schiena, costretta dalla ragion di partito a urlare ai quattro venti di non volere alcuna discontinuità con la sua «amica», come no, Marta Vincenzi. Domenica sera un dirigente locale del Pd, padre di bimbi piccoli, paragonava il suo partito a Buzz, il giocattolo astronauta del film Toy Story, potenzialmente fortissimo ma sempre frenato dalla sua monolitica incapacità di capire la situazione che ha di fronte. In questo caso Genova, città in crisi, dove l'insoddisfazione si taglia a fette, e la richiesta di una vera discontinuità che veniva dalla società civile era visibile come la lanterna all'orizzonte.
Il professor Marco Doria ha raccolto queste esigenze di cambiamento, e ha stravinto anche nei quartieri roccaforte del Pd. Corre da indipendente, non è portatore di alcuna rivoluzione, arancione o di qualunque colore essa sia. Ha fatto poche promesse, molte meno di quelle spese dalle sue rivali. Non si sogna neppure di abbassare le tasse, si limita a giurare che non taglierà mai i servizi essenziali. Ha semplicemente ascoltato i suoi cittadini, rivolgendosi a loro libero da lacci e lacciuoli, da alambicchi che cercano di mantenere un delicato equilibrio nazionale, magari tutelando future alleanze. Era proprio questo che chiedeva Genova. La soluzione era semplice, sotto agli occhi di tutti. Invece, il Pd ha fatto finta di non vedere, ancora una volta. E ha perso, come spesso succede al prode astronauta Buzz. Avanti così, verso l'infinito e oltre.
Ma sul sostegno all'uomo di Vendola il partito è già diviso
di Maria Teresa Meli
ROMA — Era inevitabile: la crisi della politica non poteva lasciare indenne il solo Pd. E le primarie di Genova sono lì a testimoniarlo. Per dirla con il senatore Stefano Ceccanti, «basta che si presenti un outsider, qualcuno che non appare come espressione di partiti o di correnti, e vince». Era già successo, d'altra parte. A Milano e a Napoli. Perché la crisi ha raggiunto ora il suo picco massimo, ma data a ben prima. Pier Luigi Bersani preferisce minimizzare ufficialmente, ma che il Pd abbia qualche problema è innegabile. Walter Veltroni e i suoi ne hanno ragionato a lungo ieri. Questo il succo delle riflessioni dell'ex segretario: non è una vittoria della sinistra, perché Sel non cresce mai più di tanto, quel che sta accadendo è ancora più pericoloso, c'è una rivolta dal basso del nostro elettorato che ci vede come una casta, un partito d'apparato.
Parole amare, quelle di Veltroni, che riecheggiano nei tanti discorsi dei parlamentari del Pd. «L'attuale classe dirigente — osserva Salvatore Vassallo — non è in grado di corrispondere alle esigenze dei nostri elettori che chiedono di essere rappresentati da gente credibile». «Paghiamo la mancanza di coraggio e di innovazione, siamo visti come qualcosa di vecchio e di conservatore», spiega il senatore Roberto Della Seta. «Le primarie di Genova fotografano il distacco dei cittadini dalla politica», ammette la vicecapogruppo alla Camera Marina Sereni.
E ora? Ora Bersani non si dà per vinto, sostiene di essere «orgoglioso» del suo partito e medita di cambiare le regole delle primarie: «Del resto — spiega il segretario ad alcuni compagni di partito — avremmo dovuto occuparci proprio di questo nella conferenza organizzativa che abbiamo rinviato. Non possiamo scontrarci tra di noi. Dobbiamo selezionare il candidato del Pd con una consultazione interna e poi andare alle primarie del centrosinistra con un solo nome». Altrimenti, avverte il deputato Dario Ginefra, «rischiamo il suicidio».
Ma tra gli stessi bersaniani serpeggia il dubbio che non sia «solo una questione di regole», che ci sia qualcosa da registrare nel partito. Tra l'altro il risultato di Genova sta creando anche altri problemi. L'ex ppi Beppe Fioroni parla senza peli sulla lingua: «Come possiamo appoggiare Doria, che è uno che ha fatto tutta la campagna elettorale per le primarie contro Monti e il suo governo? Non possiamo comportarci come degli schizofrenici, che a livello nazionale facciamo una cosa e nelle realtà locali il suo opposto». Fioroni dà voce ai dubbi degli ex popolari, che si sono raddoppiati dopo la decisione dell'Udc di non sostenere il candidato del centrosinistra. Si profila un accordo tra centristi e Pdl che potrebbe far perdere al Pd Genova.
Enrico Letta prova a vestire i panni del pompiere e a circoscrivere il significato di quello che è successo. Secondo il vicesegretario la sconfitta dipende da due elementi: dalla divisione che ha portato a due candidature e dal fatto di non essersi concentrati sui bisogni della città di Genova. Però nel partito sono in molti a pensarla come Sergio Cofferati: «Quello delle primarie è stato un voto contro il Pd». E ora c'è chi teme che per recuperare consensi il gruppo dirigente si butti all'inseguimento di Vendola e Di Pietro, tirando fuori dal cassetto la foto di Vasto. In realtà Bersani è sempre rimasto in buoni rapporti con il leader di Sel e, anche nei momenti di maggior tensione, ha mantenuto i contatti con il leader dell'Idv. In vista delle elezioni, e non solo. Il segretario del Pd ha cercato un'intesa pure sulle primarie che verranno (se mai verranno) perché punta ancora a presentarsi come candidato premier.
Ma ormai in politica è pressoché impossibile fare piani a lungo termine. Come prova quel che è accaduto a Palermo. Lì Bersani, per evitare che le primarie finissero con una sconfitta del suo partito, ha candidato Rita Borsellino, con l'appoggio di Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. La maggioranza del Pd locale, legata a filo doppio con il governatore Raffaele Lombardo, ha sconfessato questa scelta e ieri ha sfiduciato il segretario regionale Lupo, reo di seguire le indicazioni di Roma.
Davvero qualcuno pensa di salvare l´Europa così, spezzando le reni alla Grecia? Proprio a ciò stiamo assistendo, con disagio: l´illusione nefasta di restituire unione al Vecchio Continente con il bastone dell´austerità. estando la rivolta di piazza Syntagma e contrapponendo un Parlamento prigioniero al suo popolo affamato. La sequenza di provvedimenti dettati dalla Troika al governo di Atene ricorda l´indifferenza del boia piuttosto che non l´abilità del chirurgo. Questa entità burocratica, composta dalla Commissione di Bruxelles, dalla Banca centrale di Francoforte e dal Fondo monetario di Washington si propone di erigere un firewall, cioè un muro antincendio, come estrema difesa dell´euro. E pazienza se al di là di quel muro sono i greci a bruciare.
Dietro la Troika che ogni giorno inasprisce le sue richieste di sacrifici – non basta, non basta, non basta – si riconosce inconfondibile la sagoma dominatrice della Germania. «Non dobbiamo dare l´impressione che non debbano sforzarsi», ha dichiarato ieri il ministro tedesco dell´economia, Wolfgang Schaeuble. Aggiungendo che la Grecia rimarrebbe in Europa anche se ritornasse alla dracma. Prospettiva, questa, che ormai gli avvoltoi della finanza internazionale sembrano auspicare. Sono gli stessi gnomi che tre mesi fa posero il veto al referendum indetto dal primo ministro socialista Papandreou, allora con buone chances di vincerlo, nella speranza che la difficile scelta di restare nell´eurozona venisse cementata dal suffragio popolare. Come è noto Papandreou fu costretto a cedere il posto al tecnocrate Papademos, uomo di fiducia di Francoforte. Ma ora neanche questo basta più. La Troika non vede di buon occhio la scadenza del prossimo mese d´aprile, quando i greci dovrebbero eleggere democraticamente un nuovo Parlamento e un nuovo governo. Teme che la volontà popolare contraddica il piano di lacrime e sangue cui ha vincolato la concessione di ulteriori prestiti. Esige un commissariamento della sovranità nazionale che non è previsto da alcun trattato, e quindi delinea una nuova forma di colonialismo il cui dominio si fonda non più sugli eserciti ma sul debito.
L´europeismo rigoroso e solidale che mira a una vera unione politica e fiscale, esce umiliato da questa tragedia greca che i governi di destra, a Berlino come a Parigi, hanno lasciato degenerare, temo, per fini pedagogici: colpiscine uno per educarne cento.
La stessa ragionevole constatazione del presidente Napolitano – «l´Italia non è la Grecia» – suona come un´estrema autodifesa. Perché è vero che disponiamo di risorse ben maggiori in confronto al vicino ellenico, la nostra società sta sopportando meglio la cura del risanamento, e le forze politiche garantiscono una maggioranza irrequieta ma solida all´azione del governo Monti. Ma la bancarotta che sta accelerando l´uscita della Grecia dall´eurozona rende meno probabile la tenuta della coesione sociale in casa nostra. L´Italia non è la Grecia, d´accordo. Come reprimere però il disagio provocato dallo spettacolo di una nazione costretta a licenziare, tagliare gli stipendi, rinunciare a prestazioni sociali essenziali, il tutto per pagare gli interessi sul debito, ma sapendo che ciò non comporterà alcun rilancio della sua economia? Finora ha prevalso fra noi un atteggiamento di distacco nei confronti delle sofferenze dei greci: in fondo se la sono voluta, avevano truccato i conti, vivevano al di sopra delle loro possibilità… Ma di fronte allo strangolamento in atto, non occorre richiamare gli antichi sentimenti filo-ellenici del romanticismo e della carboneria – da Lord Byron a Santorre di Santarosa – per sentirsi coinvolti nel destino di un Paese a noi così prossimo. Se questo è l´esito ultimo delle politiche d´austerità che privilegiano il pagamento del debito, coloro i quali hanno davvero a cuore la prospettiva europeista, non devono forse correre ai ripari?
L’incertezza rischia di uccidere le aziende, esattamente come la decisione di tagliare loro in modo indiscriminato il finanziamento diretto. Quello che resta certo e incontrovertibile sono i tagli retroattivi applicati agli stanziamenti relativi al 2010 su importi già messi a bilancio e spesi dalle aziende. Resta l’incertezza sui finanziamenti relativi al 2011, praticamente già anticipati dalle banche e spesi. E su quelli relativi all’anno in corso.
Una situazione ingestibile per qualsiasi azienda. Tanto più per un settore da tempo in crisi. Lo attesta la sequela drammatica delle testate che annunciano la loro chiusura: la liquidazione coatta de il manifesto e prima ancora sospensione delle pubblicazioni di Liberazione e di Terra e di tante altre testate cooperative e locali. Per non parlare delle emittenti locali. Lo stesso destino de l’Unità è appeso ad un filo. Per non parlare del Riformista, del Secolo d’Italia, di Europa, della Padania, di Avvenire. È il pluralismo dell’informazione ad essere minacciato.
Non erano allarmistici gli appelli lanciati nei mesi scorsi dal Comitato per la libertà d’informazione e la difesa del pluralismo, l’organismo unitario che raccoglie voci e sensibilità politiche e culturali diverse (dalla Fnsi a Mediacoop e Federcoop, dalla Cgil alla Federazione dei settimanali cattolici, dalla Cisl all’Associazione art.21 per la libertà d’informazione) sulle oltre 100 testate a rischio chiusura e sui quattromila lavoratori che rischiavano di perdere il posto di lavoro. Una situazione drammatica denunciata con chiarezza già lo scorso anno dai direttori di cento testate al presidente del consiglio, Mario Monti, ai presidenti di Camera e Senato, Fini e Schifani e ai segretari dei partiti rappresentati in Parlamento. E ancora prima nella lettera inviata al capo dello Stato, Giorgio Napolitano che ha fatto propria questa preoccupazione, raccomandando al governo attenzione alla tutela del pluralismo nel rigore.
Una linea condivisa da tutti. Anche dal premier Monti e ribadita dal sottosegretario con delega all’Editoria, Carlo Malinconico che si era impegnato a definire ai primi di gennaio di quest’anno i nuovi criteri, più rigorosi, legati alla vendita in edicola e al numero dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Bonifica, rigore e risorse: questo era l’impegno. Compresa una disponibiltà ad integrare i tagli al Fondo editoria voluti dal ministro Tremonti. Il settore non chiedeva una cifra straordinaria: 180 milioni di euro. Sarebbe costato di più far fronte ai prezzi della crisi del settore.
Ma dalla Finanziaria di Monti non vi è stato alcuna integrazione ai finanziamenti «diretti». Solo l’apertura di una finestra: l’utilizzo del «Fondo Letta», quello a disposizione della presidenza del Consiglio per fronteggiare le emergenze e le calamità naturali, per integrare il Fondo per l’editoria e far fronte alle situazioni di crisi del settore. È rimasta una «finestra» vuota. Non per Radio radicale che si è vista rinnovare la sua convenzione milionaria. Si è atteso il Milleproroghe, ma malgrado gli emendamenti presentati in Parlamento, la risposta non è arrivata. Sino ad oggi non vi è alcuna integrazione ai 53 milioni del Fondo editoria e nessuna indicazione sui nuovi criteri per accedervi.
Vi sarà un decreto ad hoc della presidenza del Consiglio? I tempi sono strettissimi, servono indicazioni precise. Le proposte sono da tempo sul tavolo. Le ha presentate la Federazione della Stampa, con il segretario Franco Siddi, Mediacoop e gli altri soggetti. Il confronto avviato con il sottosegretario Malinconico, è stato ripreso con il successore Paolo Peluffo. Cosa si aspetta? Siamo a metà febbraio. La situazione per il settore si fa sempre più drammatico. Il premier Monti, suo malgrado, rischia di portare a termine quello che non è riuscito a Berlusconi: la chiusura delle voci critiche e autonome, che non rispondono ai grandi potentati economico-finanziari. Se l’obiettivo di questo governo «tecnico» è quello di coniugare equità e sviluppo, può perseguirlo rinunciando a tutelare il pluralismo e quelle voci che alla domanda di equità danno voce.
Dopo le navi-grattacielo, nuove delizie sono in arrivo a Venezia per gli amanti dello snobismo low cost di guardare, ed essere guardati, da una sommità. Basterà salire sulla neo-terrazza in cima al Fondaco dei Tedeschi, passando dal neo-centro commerciale Benetton, per guardare dall´alto il ponte di Rialto e il Canal Grande. Una "vista mozzafiato", pazienza se a scapito della legalità e della storia. E questo mentre il governo, inspiegabilmente, ha bloccato (lo denuncia Italia Nostra) il decreto che vieta l´ingresso delle imbarcazioni oltre le 30mila tonnellate, con legioni di vacanzieri intenti a guardare dall´alto in basso il Palazzo Ducale.
Il Fondaco dei Tedeschi fu costruito ai primi del Cinquecento per «la Nazione Germanica, che concorreva a Venezia con le sue merci e le conservava in questo luogo. Le galee Viniziane, portando le speziarie di Levante, le diffondevano per tutte le parti di Ponente [l´Europa del Nord], e i Tedeschi ci portavano ori, argenti, rami e altre robe da le lor terre»: così Francesco Sansovino (1581). Le facciate esterne «furono dipinte da´ primi uomini d´Italia, vi lavorò Tiziano con sua grandissima lode, e Giorgione da Castelfranco, ambedue principalissimi in queste parti» (sopravvivono pochi frammenti). Dopo esser stato sede delle Poste, il Fondaco è stato acquistato dal gruppo Benetton nel 2008 per 53 milioni, per trasformarlo in un «megastore di forte impatto simbolico». Il progetto prevede non solo l´inserimento di incongrue scale mobili, ma anche la sostituzione del tetto con una terrazza panoramica: l´equivalente, appunto, di una mega-nave piombata nel cuore di Venezia. Lo firma Rem Koolhaas: come ha scritto Giancarlo De Carlo, le operazioni speculative cercano spesso la copertura professionale di grandi architetti (per esempio Norman Forster progettò a Milano il quartiere di Santa Giulia, che doveva sorgere sopra un immenso deposito illegale di scorie nocive).
Nuova "terrazza a vasca", rifacimento del lucernario per ricavare un altro piano, demolizione di parti del ballatoio: questi i pesanti interventi del progetto, esposto alla Biennale prima di presentarlo in Comune, con l´aria di voler forzare la mano. Il sindaco Orsoni allora fu "allibito" di tanta arroganza, ma si è ridotto a più miti consigli e ha docilmente firmato, il 28 dicembre, una convenzione con Benetton. Che cosa mai avrà piegato il fiero erede dei Dogi?
Benetton, dice la convenzione, creerà nel Fondaco «una superficie di vendita non inferiore a mq 6.800», e perciò presenterà svariate domande di autorizzazione edilizia e commerciale, anche in deroga al vigente piano regolatore. Per parte sua, il Comune si impegna a elargire ogni permesso «con la massima diligenza e celerità», e in modo da «non pregiudicare la realizzazione integrale del progetto». La chiave di questa resa incondizionata è nell´articolo 5: il gruppo Benetton si impegna a versare al Comune entro il 30 dicembre 2012 «un contributo in denaro a titolo di beneficio pubblico di sei milioni di euro», ma solo a condizione che il Comune rilasci tutti i permessi necessari entro 12 mesi e che tutti i lavori si concludano in 48 mesi, senza di che l´intero importo dovrà essere restituito, e con gli interessi. In altri termini, per assicurarsi piena e veloce ubbidienza, Benetton versa nelle esauste tasche del Comune una sostanziosa mancia. Se questo esempio sarà seguito, c´è da scommettere che le autorizzazioni edilizie verranno ormai bloccate finché il proprietario interessato non versi "a titolo di beneficio pubblico" una congrua regalia. Se i meno abbienti non possono permetterselo, peggio per loro. Per il Fondaco, gli uffici comunali hanno completato in meno di una settimana l´istruttoria sulle pratiche: quali sarebbero stati i tempi per un cittadino normale?
Sei milioni sono tanti? Sono pochi, se servono ad aggirare le leggi. Secondo la denuncia di Italia Nostra alla Procura della Repubblica e al ministero dei Beni Culturali, alcuni degli interventi previsti «violano le inderogabili prescrizioni conservative» di legge, al punto che possono ricadere sotto le sanzioni non solo del Codice dei beni culturali (art. 170), ma anche del Codice penale (art. 635). Tale è la neo-terrazza «per futili ambizioni di belvedere», «alterazione gravissima che offende la fabbrica», con «stravolgimento strutturale dell´edificio e danno gravissimo alla sua integrità fisica e alla sua identità storica». L´uso commerciale dell´edificio di per sé non è incongruo con la sua originaria destinazione d´uso: Sansovino ricorda che «di fuori lo circondano 22 botteghe, dalle quali si trae grossa entrata», e anche nei piani alti si vendevano mercanzie. Ma la legge prescrive di preservare rigorosamente l´integrità dell´edificio, mentre il progetto Koolhaas la deforma. La Fondazione Benetton da anni coinvolge i cittadini della provincia di Treviso nella conservazione dei Luoghi di valore, un progetto di qualità. Stupisce che nell´adiacente provincia di Venezia un´operazione edilizia dello stesso marchio voglia stravolgere un luogo di altissimo valore come il Fondaco dei Tedeschi. Che Benetton lo stia facendo, secondo la moda dei nostri tempi, a sua insaputa?
Trova sempre nuove conferme la tesi secondo la quale il gruppo Benetton è diventatoil vero padrone di Venezia: per responsabilità non tanto del gruppo economico trevigiano (che segue le tradizioni e le rinnovate aggressive prassi della “borghesia compradora” di tutto il mondo), quanto di un personale politico-amministrativo succube dei poteri economici. Il termine che esprime questa tesi (“Benettown”) è quello dell’omonimo saggio scritto da Paola Somma per la fortunata collana “Occhi aperti su Venezia”, dell’editore corte del Fòntego (che col Fontego dei tedeschi non ha nulla a che fare).
Sull’intervento al Fontego dei tedeschi altri numerosi articoli sono raccolti in questa stessa cartella “Vivere a Venezia”.
«Più determinato che mai» sulla strada delle riforme, Mario Monti torna dalla sua visita negli Stati uniti con un surplus di legittimazione politica che nemmeno cento voti di fiducia del parlamento italiano avrebbero potuto assicurargli. È un indice significativo di quanto stiano cambiando, sotto il combinato disposto della globalizzazione e della crisi economica, le regole del gioco della politica nelle democrazie occidentali, un cambiamento di cui il caso italiano, nella sua apparente eccentricità e anomalia, si rivela ancora una volta laboratorio di frontiera. Dove infatti le contraddizioni del gioco, lungi dal chiudersi, si riaprono.
Sul successo del viaggio americano del premier «tecnico» italiano c'è poco da dubitare. Accompagnato da un'investitura mediatica che rende ancor più patetici, retrospettivamente, i rovinosi tentativi di Berlusconi di accreditarsi sulla scena internazionale a suon di battute e barzellette, l'endorsement di Obama risponde certo a ragioni geo-politiche e geo-economiche stringenti - al primo posto il ritrovamento, sotto i colpi della crisi, dell'importanza dell'asse transatlantico nella politica americana, e la necessità di una sponda europea nel conflitto più o meno dichiarato con la gestione della crisi di Angela Merkel. Ma corona anche il lungo lavorio diplomatico del Quirinale - cominciato con l'accoglienza di Obama alla vigilia del G8 dell'Aquila nell'estate del 2009, e proseguito con la visita di Napolitano alla Casa Bianca nel maggio successivo - volto a «salvare» l'immagine nazionale dal discredito berlusconiano. Quelle fotografie del 2009, con i grandi della terra accolti fra le macerie dell'Aquila da un premier sommerso dagli «scandali sessuali» su tutti i media del mondo, sono archiviate. Italy is back, con tutt'altra faccia, sobria e competente, rispettabile e affidabile. Per chiunque si sia trovato negli ultimi anni a render conto a un tassista o a un giornalista, a un amico o a un'università di dove fosse precipitata l'Italia, non c'è che da rallegrarsi.
Da qui a parlare di un nuovo De Gasperi, come fa l'ex ambasciatore Gardner salendo a ritroso sulla macchina del tempo, o del Salvatore dell'Europa, come ha fatto il Time facendola partire in quarta, ce ne corre. Non siamo nel secondo dopoguerra ma nel pieno della guerra economica in corso, e il discreto ottimismo di Monti sull'eurozona e sull'Italia può servire a rassicurare Wall Street e i think tank, ma non i greci oltre l'orlo del crack, né gli italiani provati dalla sua ricetta pedagogica fatta di competizione e concorrenza e piegati dal debito a rispondere «con soli tre giorni di sciopero» alla riforma della previdenza.
Non solo: Angela Merkel è sempre lì e delle politiche keynesiane adombrate da Obama non vuol saperne, l'Europa monetaria manca sempre di un governo politico, l'euro è tutt'altro che in salvo. Di più: alla legittima incredulità di Obama sulla capacità delle politiche del rigore di rilanciare la crescita Monti non dà risposta, né si allinea al presidente americano nel giudizio sulla finanza emesso nel recente discorso sullo stato dell'Unione.
Ce ne corre anche a voler dedurre dalle stellette americane la consacrazione garantita di Monti a un futuro politico tutto in discesa, e la morte volontaria e certificata, per inutilità, della politica nazionale. È il teorema automatico prospettato ieri dal quotidiano della Confindustria (e già vagheggiato da Casini), un bell'accordo pre-elettorale che trasformi l'appoggio temporaneo al governo tecnico in una Grande Coalizione montiana blindata per la prossima legislatura: tanto i partiti non sanno fare niente, a governare ci pensano i tecnici, e le elezioni, com'è noto, sono diventate un rito superfluo. C'era una volta l'Europa, culla della politica antica e moderna. È davvero la tecnica che può salvarla?
L’Unità
Mani Pulite? D’Ambrosio:
«Il Paese perse la grande occasione per battere la corruzione»
di Rinaldo Gianola
«Abbiamo perso una grandissima occasione»: le amare parole di Gerardo D’Ambrosio, per una vita magistrato a Milano indagando da Piazza Fontana a Tangentopoli e oggi senatore Pd, raccontano la delusione per il fallimento di una stagione che avrebbe potuto cambiare profondamente il Paese.
Dottor D’Ambrosio, che cosa abbiamo perso?
«Abbiamo smarrito l’occasione di sconfiggere la corruzione, il cancro che avvelena la politica e l’ economia. Siamo ancora qui a invocare la cultura della legalità, altrimenti non c’è possibilità di risanamento, di rinascita, di sviluppo».
Vent’anni fa, invece, la speranza di cambiare c’era davvero?
«Sì. Mani Pulite raccolse un consenso enorme nell’opinione pubblica perchè le nostre inchieste svelavano quanto fosse grave e profonda la questione morale. Spadolini e Berlinguer avevano già denunciato il degrado dei partiti, la gestione corrotta della cosa pubblica. Ma nel 1992 l’Italia comprese come la corruzione stava distruggendo l’economia. Avevamo un debito pubblico enorme, pari al 120% del Pil, eravamo in condizioni terribili, simili a quelle di oggi, con Giuliano Amato costretto ad adottare misure straordinarie».
Qual era la malattia della Prima Repubblica?
«La corsa al finanziamento illecito da parte dei partiti era massiccia, sfuggiva a qualsiasi valutazione. La corruzione si era infiltrata nella burocrazia, nell’amministrazione, i partiti decidevano chi doveva vincere gli appalti. I corrotti facevano carriera, gli onesti no».
Come reagirono i cittadini?
«All’inizio l’inchiesta ebbe un grande successo. L’opinione pubblica rimase indignata dallo sperpero di denaro pubblico. Il potere politico non reagì, anzi in molti approvarono la nostra azione e forse ci illudemmo che la classe politica avrebbe cercato di cambiare, di emarginare i corrotti, di avviare il rinnovamento. Ma non successe nulla».
Perchè?
«Il clima cambiò presto, soprattutto tra i partiti. Ci fu un episodio che segnò questo passaggio. Per errore la Guardia di Finanza si presentò alla Camera per chiedere i bilanci che avrebbe potuto acquisire dalla Gazzetta Ufficiale. Fu un chiaro incidente, un equivoco, noi chiedemmo subito scusa, ma la frittata era stata fatta. Il fatto scatenò la prima forte reazione della politica contro la magistratura. Da quel momento partì una campagna di delegittimazione dei giudici che, per la verità, non si è più spenta. Iniziarono a piovere le accuse contro la Procura di Milano. Secondo alcuni facevamo troppi arresti, ma tutti i nostri provvedimenti erano accettati e firmati dal Gip. Noi perseguivamo i responsabili di gravi reati».
Le Istituzioni compresero la gravità degli episodi che emergevano da Mani Pulite?
«Il presidente Scalfaro intervenne per raccomandare che venissero allontanati dalla politica tutti coloro che erano implicati nelle inchieste. Poi ci fu il tentativo di mettere tutto a tacere, con il pacchetto Conso che venne ritirato per la nostra reazione, ma l’obiettivo era chiaro. Successe di peggio, dopo la vittoria elettorale di Forza Italia, con il decreto Biondi che voleva scarcerare gli imputati di corruzione e concussione e di fatto impedire che si perseguissero i corrotti».
Voi giudici di Mani Pulite siete stati accusati di aver avuto un occhio di riguardo per la sinistra. Anche Carlo De Benedetti, recentemente, ha detto che l’inchiesta salvò i comunisti...
«Pensi che nella mia carriera di magistrato sono stato accusato di essere fascista, comunista e persino di aver protetto l’ingegner De Benedetti... Non scherziamo, sono tutte balle. Le parole di De Benedetti sono gravi perchè puntano a delegittimare la magistratura. Esponenti di rilievo del Pci finirono in carcere, le inchieste andarono avanti senza riguardo per nessuno. Magistrati come Davigo e Di Pietro, poi, non potevano nemmeno essere sospettati di essere di sinistra».
Perchè Mani Pulite a un certo punto smarrì la sua forza propulsiva?
«Questo, forse, è il capolavoro di Silvio Berlusconi. Se la ricorda Retequattro? Trasmetteva in diretta da palazzo di Giustizia, con Paolo Brosio che elencava gli arresti tra gli applausi dei passanti. Forza Italia vince le elezioni del 1994 sull'onda dell’antipolitica, contro i partiti che rubano. La mistificazione mediatica e politica fu enorme perchè il creatore, il leader di Forza Italia era indagato e imputato. E quando Berlusconi arriva al governo le sue misure sono coerenti con le sue responsabilità e mirano a frenare l’azione della magistratura. Ho ricordato il decreto Biondi. Quindi c’è il tentativo di cambiare il codice di procedura penale annullando le confessioni rese al pm o alla polizia, poi la ex Cirielli con il taglio dei termini della prescrizione. E siamo alla legge ad personam per eccellenza, quella per alleggerire il falso in bilancio. È una legge propedeutica alla corruzione, favorisce la creazione di fondi neri». E la sinistra? Ha commesso errori? «Dal mio punto di vista la sinistra poteva fare di più, nel Paese e in Parlamento, per la difesa della legalità. Penso che qualche volta abbia rinunciato a dare battaglia, si è adeguata per comodità, per evitare tensioni. Negli ultimi vent’anni le due brevi stagioni dei governi Prodi non hanno lasciato alla sinistra la possibilità di incidere su questi temi».
Qual è oggi la priorità del Paese?
«La legalità. Dobbiamo essere crudeli con noi stessi: il Paese ha rifiutato la legalità. Anche oggi chi pratica la corruzione, chi evade le tasse non è considerato come un ladro che danneggia l’intera collettività. Eppure la corruzione vale 60 miliardi di euro e secondo la Banca d’Italia pregiudica la possibilità di investire, di creare sviluppo, occupazione. È una battaglia politica e culturale, bisogna ripartire dal basso, dalla scuola, insegnare e difendere il valore della legalità».
La cronaca offre i casi di parlamentari che abusano ancora di denaro pubblico o che guadagnano milioni su mediazioni immobiliari. Che impressione ricava da questi fatti?
«Un’impressione terribile. Il politico che ruba soldi pubblici va subito emarginato, denunciato. Senza esitazione, senza timidezze».
Com’è la sua esperienza di parlamentare?
«Non sono molto a mio agio. Conduco le mie battaglie, faccio proposte, ma c’è un grosso problema, inutile nasconderlo. Il sistema maggioritario, questa legge elettorale limitano la democrazia. Il deputato sa che sarà rieletto solo se si comporterà bene con i suoi dirigenti».
Corriere della Sera
Anni perduti, scelte urgenti
di Ferruccio De Bortoli
Vent'anni dopo, il ricordo di Mani Pulite è un insieme di immagini sbiadite. Colpisce l'ammissione dell'ex giudice Gherardo Colombo sui magri risultati delle inchieste contro la corruzione e il finanziamento illecito dei partiti. I protagonisti di allora sono critici severi dell'eredità civile, e non solo giudiziaria. Gli eccessi e gli errori non furono pochi. Con i partiti fu spazzata via un'intera classe politica. Troppe le sentenze mediatiche; non sempre adeguata la tutela delle garanzie individuali. Eppure quella stagione ebbe il merito di sollevare un velo sull'Italia del malaffare. Più di tremila gli imputati. Ogni dieci di loro, calcola Luigi Ferrarella, quattro i condannati, quattro i prescritti, due gli assolti.
Quel velo, rumorosamente alzato, è tornato a coprire, negli anni successivi, pratiche illecite diffuse in tutta la società. Le denunce sono crollate. Un fatalismo pernicioso è diventato sentimento comune. «Tanto non cambia nulla». «Anzi, oggi è peggio». La corruzione ha mutato pelle ed è penetrata in profondità nella nostra società. Ha un carattere più individuale, trasversale, minuto e non genera — amara considerazione — lo sdegno e l'istinto di ribellione che mossero l'opinione pubblica ai tempi di Mani Pulite. Il costo per l'Erario è stimato dalla Corte dei Conti fra i 50 e 60 miliardi l'anno. L'Italia è al 69° posto nella classifica Transparency International. La corruzione è una tassa occulta, frena gli investimenti esteri, distorce i mercati, umilia il merito e calpesta la cittadinanza.
Rileggere gli avvenimenti del '92 con spirito critico è necessario e costruttivo. Ma al di là del dibattito storico, sarebbe opportuno rispondere a una domanda. Che cosa è indispensabile fare per combattere efficacemente il fenomeno? Il governo Monti, che non disdegna una certa inclinazione pedagogica, ha davanti a sé una grande occasione. Agire senza indugi contro un morbo che frena la crescita più di tante liberalizzazioni mancate. Una commissione ministeriale ha già formulato delle proposte. Ne aggiungiamo alcune. Il reato di corruzione fra privati in Italia non esiste. Nemmeno quello di autoriciclaggio dei proventi illeciti. Dopo la riforma del 2001, il falso in bilancio non è di fatto più perseguito. Non si capisce perché l'Italia, unico fra i Paesi aderenti, non abbia mai ratificato la convenzione internazionale sulla corruzione del '99. L'evasione è fenomeno connesso. Ma l'Agenzia delle Entrate trasmette le informazioni alla magistratura dopo cinque anni. E la prescrizione è certa. La Banca d'Italia non comunica alla stessa Agenzia i movimenti anomali dei capitali ma solo alla Guardia di Finanza.
La risposta non può essere esclusivamente di carattere penale o di contrasto all'evasione o premiando (curioso) chi si comporta bene. Se la società non infligge anche un costo di reputazione a chi infrange le sue regole, se trascura istruzione e formazione, se banalizza le virtù civiche ed elegge i furbi simpatici a modelli di vita, non c'è norma che tenga. L'Italia ne ha persino troppe. All'apparenza severe. Ma solo sulla carta. Straccia.
Sull'indagine Mani pulite e sul quadro che rivelò vedi il libro di P. Della Seta ed E. Salzano, L'Italia a sacco. Come nei terribili anni 80 è nata e si è diffusa Tangentopoli, prefazione di D. Novelli, editori riuniti, Roma 1993. Il libro, esaurito in libreria, è raggiungibile qui in eddyburg.it
In Italia la subalternità all’egemonia liberale si è tradotta in posizioni liberiste in economia e in una cultura istituzionale tutta incentrata su governabilità e legittimazione diretta
I lunghi anni Ottanta, racchiusi tra l’offensiva craxiana per la rottura dei consolidati equilibri partitici del Paese e lo choc del crollo del Muro di Berlino, hanno segnato un punto di svolta per le strategie politiche e per la cultura delle forze che, oggi, compongono il centrosinistra (aprendo una vicenda che ha esibito tratti peculiari, in parte diversi da quelli che hanno caratterizzato altre esperienze europee dei medesimi anni).
È comprensibile che la discussione si sia concentrata soprattutto sulla questione delle strategie, che aveva un’urgenza irresistibile e reclamava decisioni immediate e operative, ma gli effetti più profondi e di più lungo periodo si sono prodotti sul terreno della cultura – o, se si preferisce, della cultura politica – delle forze che furono sottoposte al duplice stress del protagonismo craxiano e della dissoluzione degli equilibri postbellici.
Già il solidarismo cattolico-sociale sembrava cominciare a conoscere, a partire da quegli anni, una fase di ripensamento e pareva subire la spinta ad accreditare più i punti di contatto che quelli di differenziazione rispetto al liberalismo e allo stesso liberismo. Ma era soprattutto nella cultura politica comunista, che pure poteva contare su un grande patrimonio, che giacevano elementi critici che rendevano difficoltoso raccogliere la sfida delle novità: almeno a un livello intermedio, la grande tradizione culturale liberale non sempre era conosciuta appieno e chi la conosceva non sempre vi si confrontava a viso aperto, senza pregiudiziali ideologiche e senza ricorrere all’argumentum ex auctoritate (che voleva che certe tesi fossero sbagliate solo perché non avevano trovato accoglienza in qualche vulgata di facile successo).
Era fatale che questi elementi di debolezza, uniti a un’ingiustificabile spinta all’abbandono del patrimonio posseduto, a torto stimato quasi interamente “vecchio” e inutile per la comprensione del “nuovo” avanzante, generassero una grave subalternità culturale, che per un verso si traduceva nell’acritica accettazione di tutto quanto si era ignorato o avversato, e per l’altro incideva sulle stesse strategie politiche, che, prive di un robusto basamento di convincimenti teorici, subivano oscillazioni, tanto più pericolose quanto più spregiudicata si faceva l’iniziativa politica di molte forze politiche avversarie.
I segni di questa subalternità culturale sono stati e in qualche caso sono ancora evidenti, e basta ricordarne alcuni. Sul piano della cultura istituzionale, ad esempio, si è a lungo dimenticata la complessità strutturale e funzionale delle democrazie rappresentative, concentrando l’attenzione sulla sola questione della governabilità e della legittimazione (pretesamente) diretta degli esecutivi, trascurando la lezione impartita dalla stessa Costituzione, nella quale era stato disegnato un complesso meccanismo di produzione della decisione pubblica, che doveva muovere dai cittadini (titolari di diritti qualificabili come frammenti di vera sovranità), passare attraverso i partiti (intesi come strumenti di partecipazione e di emancipazione democratica), delinearsi nelle assemblee rappresentative (come luogo del confronto, non solo dello scontro), definirsi compiutamente in sede di governo.
Il distorto bipolarismo italiano non è frutto soltanto del caso o delle scelte del centrodestra, ma anche di un’ideologia maggioritaria che della tradizione politica liberale sembra conoscere Schumpeter, ma non Locke o Tocqueville.
Né le cose vanno diversamente sul piano della cultura economica. Anche qui sembra che si sia abbracciato Hayek senza passare per Smith o Ricardo o, men che meno, Keynes. Anche qui la lezione della Costituzione appare dimenticata. Il suo articolo 41 garantisce, certo, la libertà dell’iniziativa economica privata, ma allo stesso tempo ne subordina l’esercizio al rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Quali sono, nelle posizioni dell’attuale centrosinistra, i segni che si ritiene prioritario impegnarsi per definire cosa sia oggi, in questo momento storico, l’utilità sociale? Quali i segni che non ci si accontenta di farla coincidere con il risultato della competizione retta dai meccanismi della libera concorrenza? Eppure già i classici dell’economia politica sapevano che l’interesse generale non è la sommatoria di quelli individuali e nemmeno il risultato automatico del loro libero confronto. L’utilità sociale dovrebbe essere definita politicamente, ma chi ne è ancora consapevole?
Le parole hanno spesso una grande forza evocativa e quando si parla di concorrenza “libera” o di “liberalizzazioni” si ha l’impressione che un giogo sia stato rimosso, che l’arroganza del potere sia stata battuta. Ma non è sempre così.
Certe scelte economiche e normative implicano significative conseguenze sociali, che andrebbero considerate. Acquistare una maglietta a qualsiasi ora del giorno e della notte, certo, è una bella comodità. Ed è anche un bel vantaggio pagarla meno del solito, se si può comprarla in un grande esercizio commerciale che ha forti economie di scala. Ma tutto questo ha un costo. In termini di alterazione degli stili di vita, di deterioramento dei processi di socializzazione, di lacerazione della trama del tessuto produttivo, di riduzione delle reali opportunità di scelta, di incisione nelle garanzie effettive e concrete (quelle che contano davvero) dei lavoratori.
La retorica della sovranità dei consumatori è penetrata a fondo nella cultura del centrosinistra e ha fatto grandi guasti. Quella del consumatore è per definizione una figura apolitica o tutt’al più prepolitica. È al cittadino, al soggetto politico, che spetta la sovranità.
Anche questo è un insegnamento della Costituzione. E le forze politiche che, giustamente, continuano a difenderla hanno un dovere di coerenza, perché la Costituzione non è solo una bandiera da agitare per evitare il peggio o per evocare le ragioni unificanti della comunità politica, ma è anche e soprattutto un grande progetto di trasformazione sociale, di emancipazione della persona umana, di conciliazione delle ragioni della libertà con quelle dell’eguaglianza.
Credo che di questo si debba tornare a discutere.
Titolo originale Suburbs get helping hand in stabilizing neighborhoods - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Sono sei le circoscrizioni suburbane dell’area di Chicago che sono state individuate nell’erogazione dei 55 milioni di dollari, divisi tra fondi statali e di contea, per la stabilizzazione dei quartieri colpiti dai pignoramenti attraverso il recupero delle abitazioni lasciate vuote. Ancora da capire nei particolari, il Building Blocks Pilot Program, riguardo alla scelta specifica degli immobili e all’albo degli operatori. E comunque le sei municipalità — Berwyn, Maywood, Park Forest, Riverdale, Chicago Heights e South Holland — si aspettano molto per il proprio territorio da questa possibilità di recupero, che può interessare sino a 500 case. “Cerchiamo di concentrarci su quartieri ancora in bilico sull’orlo del degrado, orientandoli nella direzione giusta” spiega Hildy Kingma, responsabile per urbanistica e sviluppo locale di Park Forest. “Ogni casa che torna in uso aiuta, e aiuta molto, un’intera via”.
Secondo il programma, un sistema integrato di fondi statali e di contea (Cook County) contribuisce al sostegno per l’acquisto e il recupero di immobili pignorati e vuoti d parte di operatori privati. È però il singolo cittadino proprietario a poter chiedere di accedere al sostegno per andare ad abitare nella casa risistemata, o in altre della stessa circoscrizione. Le sei aree sono state scelte sulla base del numero di pignoramenti, la situazione del patrimonio immobiliare locale, eventuali precedenti programmi sulla crisi della casa, e prospettive occupazionali visto che in assenza di lavoro non ci si compra certo un’abitazione. “Abbiamo verificato le situazioni e ci siamo sommati a un insieme di investimenti già in corso in quelle stese aree” racconta Mary Kenney, direttrice esecutiva della Illinois Housing Development Authority, ente di supervisione del programma. “Abbiamo cercato in particolare quartieri con trasformazioni già in corso e una forte collaborazione municipale”.
Nel 2009, Chicago Heights ha speso 500.000 dollari del comune per finanziare un programma di anticipi che ha portato alla vendita di 67 alloggi. Ma finiti quei soldi è finito anche il programma, lasciando 15 richieste inevase, così adesso il sindaco David Gonzalez spera di riprendere da dove ci si era fermati: “È l’unico modo per farcela”. La sfida, come sottolinea la signora Kenney, è di far capire quanto le acquisizioni nel momento attuale di mercato siano essenziali nei quartieri in difficoltà. I potenziali acquirenti temono un calo dei valori immobiliari e del proprio investimento, e il fatto di avere tante case pignorate e degradate in quei quartieri li allontana ancora di più. E secondo la Kenney in alcuni casi si potrebbe anche ricorrere alla cessione in affitto.
“In qualche modo è piuttosto semplice acquistare in questa fase del mercato, e poi recuperare” spiega Ed Jacob, direttore esecutivo della Neighborhood Housing Services di Chicago, associazione senza scopo di lucro che ben conosce tutti i problemi legati alle case pignorate e da restaurare. Operano da più di otto anni, ma di case ancora da vendere, pur restaurate, ne restano ancora parecchie. E negli ultimi due anni l’associazione è diventata padrone di case che cede in affitto, contribuendo così a mantenerle in ordine, produrre un reddito, rispondere a una domanda di inquilini che esiste. Per ora è sospesa l’acquisizione di immobili da recuperare. “In realtà noi preferiamo vendere in proprietà, ma riconosciamo che al momento non ci sono acquirenti a sufficienza, soprattutto nei quartieri più colpiti” conclude Jacob. “Stabilizzare davvero le aree significa usare le case”.
La cosa che forse colpisce di più in questo breve resoconto di un caso locale (ma ce ne saranno decine di migliaia simili in tutto il paese) di intervento pubblico a sostegno dei quartieri, è la totale assenza di riferimenti a virtuose politiche urbanistiche in cambio dei finanziamenti. Eppure sia presso la Casa Bianca che il Ministero per la Casa sono stati attivati uffici di coordinamento che dovrebbero proprio sovrintendere a questi aspetti: va bene, finanziamo indirettamente le stesse banche che hanno prodotto il guaio, ma vediamo di non ripetere almeno quello socio-territoriale delle densità ultra-rarefatte, del principio della casa singola in proprietà come unico sbocco (che promuove, è il caso di sottolinearlo, la monofunzionalità e segregazione), insomma tutti i difetti più evidenti della dispersione urbana. Dove è finita la cultura del cosiddetto “suburban retrofit” di cui traboccano sia le riviste di area che le dichiarazioni pubbliche? Certo, l’articolo è pubblicato dalle pagine immobiliari del Chicago Tribune, e un punto di vista privilegiato a quegli aspetti era scontato. Ma saltare a piè pari le pur ampiamente pubblicizzate politiche di densificazione, diversificazione funzionale, adeguamento ambientale e dei trasporti (che ad esempio si legano al godimento in affitto) indica almeno una cosa: il mondo immaginario new urbanism è ancora soprattutto un giocattolino per chi se lo può permettere (f.b.)