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Il derby tra Milano e Sesto San Giovanni sulla nuova sede per la Città della salute continua. Dopo la proposta del sindaco di Sesto Giorgio Oldrini (offrire alla Regione parte delle ex aree Falck ora di proprietà della Sesto Immobiliare per la realizzazione del progetto di fusione dell’Istituto dei Tumori, del neurologico Besta e dell’ospedale Sacco), Milano rilancia e propone la piazza d’armi della caserma Perrucchetti che, però, è di proprietà dello Stato. «Bene la proposta di Sesto, ma Milano si conferma disponibile al confronto con tutti i comuni dell’hinterland» precisa l’assessore comunale all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris. «Evitiamo le fughe in avanti» aggiunge l’assessore comunale ai Servizi Sociali Pierfrancesco Majorino. Ma il sindaco di Sesto Oldrini, anche lui del Pd, insiste: «È da anni - spiega che il centrosinistra dibatte sulla nascita dell’area metropolitana, poi quando si tratta di fare una scelta cambia strada». Oldrini non risparmia un’altra stoccata: «Il concetto di città metropolitana non può certo fermarsi dentro i dazi doganali. Altrimenti finisce che è peggio per chi vive dentro e per chi vive fuori»

Alle obiezioni del Comune e dell’assessore regionale alla Sanità Luciano Bresciani (Lega) sulla «compatibilità ambientale» dell’area ex Falck, Oldrini, che ieri si è presentato alla stampa al fianco di Roberto Formigoni, risponde: «Saremo pronti, questa potrebbe essere un’operazione straordinariamente importante per allargare i confini di Milano». Il governatore conferma che Milano e Sesto sono in pole position, ma annuncia che la Regione deciderà il 7 marzo, quando si riunirà nuovamente il Collegio di Vigilanza dell’Accordo di Programma della Città della Salute. «La scelta dell’area - anticipa - si baserà sulla possibilità di realizzare l’opera nei tempi più rapidi, con i costi più bassi e con tutte le garanzie di accessibilità e pulizia dei terreni che sono necessarie». Il sindaco di Sesto sembra convinto che riuscirà a spuntarla e fa sapere che il 1° marzo incontrerà già i tecnici della Regione e che l’architetto Renzo Piano potrebbe avere un ruolo nella realizzazione della "cittadella". Escono di scena, invece, le ipotesi dell’area del Parco sud, vicino all’area in cui sorgerà il maxi polo privato Cerba. L’area di Porto di Mare e del Canale navigabile Cremona-Po che sono già state giudicate impraticabili. Mentre solo ieri si è fatta avanti Novate Milanese con un’offerta che, però, deve essere ancora perfezionata.

L’annuncio di ieri è stato per la Regione anche l’occasione per fare il punto su un progetto annunciato da anni, che negli ultimi mesi sembrava essersi arenato. Il Pirellone infatti si era impegnato nel 2009 a mettere a disposizione 228 milioni di euro su un costo totale previsto di 520 milioni. Che nel frattempo è aumentato di 90 milioni tra tagli ai fondi dello Stato e spese affrontate nel frattempo. Come la realizzazione di tre vasche di laminazione a nord dell’area Vialba, che era stata scelta inizialmente; l’istituzione di due shuttle dedicati per il trasporto, e la realizzazione della viabilità locale per collegare l’ipotetica cittadella con la nuova Rho-Monza. Il tutto mentre l’Inps, proprietaria di quei terreni, non ha ancora fatto sapere le sue pretese, costringendo così la Regione a valutare altre opzioni. Tra due settimane il verdetto finale.

Titolo originale: Can we pull the plug on the plug? Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Eric Giler punta un telecomando verso un apparecchio appoggiato al muro, istantaneamente si accendono tre lampade e un tablet inizia a ricaricare. La cosa divertente è che l’apparecchio appoggiato al muro non ha alcun collegamento con quelli che sta alimentando, non c’è la spina. Giler è il CEO di Witricity, compagnia sperimentale che spera di rivoluzionare il mondo dell’elettronica facendo passare in modo affidabile l’energia senza fili attraverso l’aria. Lavora da quasi cinque anni utilizzando una tecnologia sviluppata al Massachusetts Institute of Technology per ampliare il raggio della carica wireless. Secondo Witricity i primi prodotti saranno disponibili sul mercato entro l’anno. Ed entro un paio apparecchiature del genere potranno essere usate per la ricarica senza fili delle auto elettriche. In seguito l’energia wireless sarà usata per apparecchiature cardiache e altri strumenti medici.

L’idea di trasportare energia senza fili non è certo nuova. La prima dimostrazione di Nikola Tesla è di cent’anni fa, oggi sono già abbastanza diffusi sistemi per ricaricare spazzolini elettrici e/o accessori di video game. Ma i sistemi induttivi di oggi operano solo su distanze molto ravvicinate, con un contatto diretto fra caricatore e apparecchiatura, il che non è molto diverso in pratica dall’uso di una spina. I sistemi di ricarica induttivi funzionano con una spirale che genera un campo magnetico, a indurre elettricità simile in un’altra spirale opportunamente orientata, in un’altra apparecchiatura. Man mano le due spirali si allontanano, però, diminuisce rapidamente l’efficienza del trasferimento. Allo scopo di incrementare questa distanza utile, Witricity cerca di far risuonare a una determinata frequenza le due spirali, diminuendo la dispersione di energia.

La distanza poi dipende anche dalle dimensioni delle spirali. Se sia il trasmettitore che il ricevitore sono piccoli (ad esempio nel caso di un telefonino) per una discreta efficienza si deve restare nell’ambito di una manciata di centimetri. Ma Witricity ha realizzato anche prototipi più grandi che superano anche la distanza di un metro. Ed è anche possibile usare delle specie di ripetitori che rilanciano il segnale. Nella dimostrazione proposta da Giler, spirali inserite nel pavimento consentono di far saltare l’energia da un apparecchio sul muro a tutti i punti di una stanza. Witricity è una delle pochissime imprese che lavorano in questo campo. È stato anche sviluppato un tavolo prototipo dove si possono caricare tutti gli oggetti che vi vengono posati sopra – anche lasciandoli dentro una borsa o altro contenitore – e una tastiera e mouse wireless che si alimentano dallo schermo, eliminando la necessità delle batterie. Studiato anche un metodo di ricarica delle auto elettriche. Sta in una piastra di circa mezzo metro da mettere nel pavimento del garage: basta parcheggiarci sopra.

Witricity collabora con altre imprese per far arrivare questo tipo di prodotti sul mercato. C’è un lucroso contratto con la Toyota per la ricarica dei veicoli (quindi presto non li chiameremo più a spina) e la prospettiva di un accordo con una compagnia taiwanese di elettronica, Mediatek, per apparecchiature portatili. Katie Hall, la responsabile tecnologie di Witricity, racconta la ricerca per le componenti necessarie da aggiungere agli apparecchi. Ad esempio si sviluppa un sistema di ricarica per telefonini identico ai gusci di protezione in uso oggi. Ancora incertezze sui costi, ma nel caso delle auto ad esempio la Hall sostiene che non si spenderà più di quanto si fa ora con le apparecchiature normali di ricarica da garage.

Ci sono parecchie altre imprese che lavorano allo sviluppo di sistemi induttivi di carica efficienti. Siemens e BMW per le loro auto elettriche, e la Qualcomm ha recentemente acquisito una piccola compagnia che operava ad un proprio sistema. La Fulton Technologies ha sviluppato una tecnica per far passare il flusso anche attraverso uno spessore di alcuni centimetri di marmo, ad esempio il pavimento di un garage. Alcuni ricercatori stanno ampliando il concetto alla possibilità di ricarica delle auto mentre viaggiano. A Oak Ridge e a Stanford si è lavorato in particolare proprio su questi aspetti. Con un finanziamento federale da 2,7 milioni di dollari alla Utah State University si è realizzato un sistema di ricarica degli autobus a una fermata stradale di Salt Lake City. Nel modello Oak Ridgeci sono 200 spirali inserite nel manto stradale e controllate da un’apparecchiatura unica, ciascuna di queste via via ricarica il veicolo consentendogli di arrivare alla serie successiva a un paio di chilometri di distanza. John Miller, ricercatore della Oak Ridge, calcola che ciascuna serie potrebbe costare meno di un milione di dollari. “Wireless vuol dire comodità, non doversi intricare di cavi di alimentazione, non dover badare al tempo atmosferico. Credo prenderà piede molto in fretta”.

(articolo ripreso dalla MIT Technology Review)

Non è possibile prospettare una via d'uscita in un quadro nazionale o continentale privo dei riferimenti ai vincoli e alle opportunità offerte dalla crisi ambientale

L'orizzonte esistenziale delle nostre vite è dominato dalla crisi ambientale: non solo dai mutamenti climatici, che rappresentano ovviamente la minaccia maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e suolo fertile (non a causa della loro limitatezza naturale, ma dell'inquinamento e della devastazione a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della biodiversità; dall'esaurimento del petrolio e degli altri idrocarburi (che sono anch'essi "risorse naturali", anche se utilizzate per devastare la natura); dall'esaurimento di molte altre risorse, sia geologiche che alimentari (il nostro "pane quotidiano"); dall'inquinamento degli habitat umani che riduce progressivamente la qualità della vita e delle relazioni interpersonali. A molte di queste minacce c'è chi pensa di poter fare argine con l'innovazione: nuovi materiali; nuovi processi; nuove tecnologie. È in gran parte un'illusione, ma anche se fosse possibile farlo su una o alcune delle grandi questioni ambientali, è la loro interconnessione in un sistema unico e complesso a imporre un approccio globale. Parlare di crescita economica, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, senza fare riferimento a questo quadro, è un discorso vuoto.

La crisi ambientale offre all'economia delle opportunità e impone dei vincoli: le opportunità sono note (a chi ha interesse per la questione): sono le potenzialità di una conversione ecologica di produzioni e consumi verso beni e servizi meno dipendenti dai combustibili fossili, meno devastanti per la biodiversità, e verso la qualità e la disponibilità di risorse primarie; le potenzialità di una occupazione maggiore e diversa, caratterizzata a una più estesa valorizzazione delle facoltà personali e della cooperazione; le potenzialità legate alle caratteristiche fisiche, storiche e sociali di ogni territorio; i territori sono diversi uno dall'altro e la loro ricchezza dipende dalla conservazione di questa diversità.

Ma i vincoli sono altrettanto rilevanti: il consumo di suolo e di risorse non può procedere al ritmo seguito finora; molte delle produzioni che hanno guidato lo sviluppo industriale dell'ultimo secolo - dall'edilizia all'automobile, dagli armamenti all'utilizzo dei combustibili fossili, dal turismo di massa alle monocolture alimentari - non potranno continuare per molto sulla stessa strada: non solo per mancanza di risorse e per eccesso di rilasci inquinanti, ma anche per saturazione dei mercati: della domanda solvibile.

Vincoli e opportunità indotti dalla crisi ambientale dovrebbero essere i criteri informatori di qualsiasi politica industriale: cioè delle scelte che determinano o orientano le decisioni su che cosa, quanto, con che cosa, come e dove produrre. Sono scelte che non possono essere lasciate al mercato, cioè al libero gioco della domanda e dell'offerta; perché nessun mercato è in grado di cogliere tutti i segnali che provengono dalla complessità del contesto ambientale, da cui non si può più prescindere.

In secondo luogo, la globalizzazione ha trasformato alcune aree geografiche del pianeta in manifatture del mondo. A questo è dovuta la contrazione della domanda di lavoro - qualificato e no - che ha colpito i paesi di più antica industrializzazione, imponendo alle relative classi lavoratrici un drammatico deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita: precarizzazione, disoccupazione, contrazione dei redditi, compressione del welfare. Questo processo ha investito tutti i settori e tutta - o quasi - la gamma delle produzioni e, in misura maggiore, i beni consumati dalle classi lavoratrici: i cosiddetti beni-salario. Mentre nelle cittadelle di più antica industrializzazione sono rimaste quasi solo alcune produzioni di beni di investimento di maggiore complessità, molte delle attività di coordinamento e gestione delle attività delocalizzate e alcuni segmenti di produzioni più o meno tradizionali di beni suntuari (ormai riuniti in un'unica categoria merceologica onnicomprensiva, denominata per l'appunto "lusso").

Tutto ciò ha profondamente alterato l'efficacia delle politiche economiche. Gli Stati ne hanno perso alcune (la determinazione del tasso di sconto, la politica dei cambi, la creazione di moneta, la politica doganale) o per averle cedute a enti sovranazionali (è il caso dell'Unione europea e soprattutto dell'eurozona); o perché esse sono state di fatto requisite dalla finanza internazionale: cioè da organismi di diritto privato detentori - e anche creatori - di una massa monetaria sufficiente a condizionare le decisioni di ogni Stato: anche di quelli più potenti. Ma, soprattutto, le misure economiche adottate in una parte del pianeta possono distribuire i loro effetti (diluendoli o moltiplicandoli) su tutto il resto del mondo (lo si è visto con la crisi dei mutui subprime) e magari non avere alcun effetto, né positivo né negativo, nel paese dove sono state prese. Ciò ha minato molte delle misure di sostegno della domanda di matrice keynesiana con cui di recente si è cercato di stimolare la produzione e, con essa, l'occupazione. Raramente oggi gli incrementi di produzione si traducono in aumenti dell'occupazione - a volte innescano salti tecnologici o organizzativi che addirittura la riducono - ma sempre meno la produzione aggiuntiva messa in moto da una politica di sostegno della domanda riguarda lo stesso paese in cui è stata adottata. Lo si è visto con gli incentivi alla rottamazione con cui quasi tutti i paesi occidentali hanno cercato di fare fronte alla crisi del 2008-2009: in molti casi il sostegno all'occupazione nazionale è stato insignificante. Ma questo è particolarmente vero per la maggioranza dei beni-salario il cui consumo potrebbe essere alimentato da un sostegno ai redditi più bassi. Gli effetti riguarderebbero soprattutto beni di importazione a basso costo; il che si traduce solo in maggiori squilibri della bilancia commerciale da finanziare con l'indebitamento.

Le politiche keynesiane che hanno sorretto lo sviluppo dei cosiddetti "trenta (anni) gloriosi" erano tarate sul contesto di uno Stato nazionale ancora in gran parte in possesso delle principali leve della politica economica (e che non per questo aveva rinunciato a sviluppare anche una robusta politica industriale adatta alle condizioni dell'epoca: per esempio nel campo della siderurgia, degli approvvigionamenti energetici, della navigazione, della infrastrutturazione e, ovviamente, degli armamenti; per sconfinare magari in campi, come l'alimentare o l'automobile, da cui avrebbe forse potuto esentarsi). Ma oggi un ragionamento sulle "vie di uscita" dalla crisi sviluppato in un quadro nazionale (come quello al cui interno hanno funzionato per alcuni decenni le politiche keynesiane), o anche continentale, ma privo di riferimenti ai vincoli e alle opportunità indotti dalla crisi ambientale non è più plausibile. Non ha più molto senso ragionare su meri aggregati economici espressi in termini monetari, senza tener conto che nessuna politica economica è più praticabile senza una contestuale politica industriale che orienti e condizioni l'oggetto delle produzioni e le modalità (individuali o condivise) del consumo di molti beni e servizi. Questo, a mio avviso, è un limite inemendabile delle analisi e delle proposte correnti di stampo keynesiano, come quelle peraltro esemplari di Giorgio Lunghini sul manifesto del 16 febbraio («Riscopriamo Keynes per uscire dalla crisi»).

Non solo; una politica industriale che faccia riferimento alla crisi ambientale, cioè orientata a produzioni e consumi sostenibili - la "conversione ecologica" - non è concepibile se non in un contesto di progressiva riterritorializzazione: con un ridimensionamento e una rilocalizzazione delle produzioni in prossimità (relativa) dei mercati di smercio; o in un rapporto diretto - o comunque meno esposto alle alee di un interscambio non programmato - tra produzione e consumo.

Questo indirizzo, che non è protezionismo né abolizione, della competitività (l'idolo del nostro tempo) ma una sua moderazione certamente sì, rimette al centro delle politiche economiche e industriali il governo del territorio. Ed è anche, a mio avviso, l'unica alternativa plausibile al progressivo deterioramento dell'occupazione, dei redditi e delle condizioni di vita delle classi lavoratrici dell'occidente industrializzato, ormai trascinate in una corsa al ribasso per allinearle a quelle dei paesi emergenti; la politica salariale della Grecia (salari minimi quasi al livello di quelli cinesi) ne rappresenta oggi la manifestazione più lampante.

«Una crisi di crescita come quella che viviamo presuppone un approccio sviluppista». Non ci gira certo intorno Guido Gentili, in prima pagina sul Sole24Ore, per indicare la via da seguire da parte del governo. Ed è francamente preoccupante che nel 2012 si possa ancora parlare di "sviluppismo" dimenticando i danni che ha prodotto fino ad oggi.

La tesi di Gentili ruota attorno alla lettera sulla crescita e le liberalizzazioni inviata al Consiglio e alla Commissione Ue da dodici Governi europei e che non è stata firmata da Germania e Francia. Iniziativa voluta da David Cameron, Mark Rutte e dal nostro Mario Monti, secondo l'editoriale del Sole «punta a una svolta modernizzatrice: apertura del mercato interno dei servizi, abbattimento delle restrizioni anticompetitive, creazione di un mercato unico digitale entro il 2015 e di un mercato efficiente e interconnesso nel settore energia entro il 2014, compresa l'eliminazione degli ostacoli, normativi e procedurali, che rallentano gli investimenti nelle infrastrutture».

In concreto bisognerebbe puntare «sugli investimenti indispensabili per un Paese in deficit di modernità. Ci sono cose, opere (compiute e incompiute) che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Sono le reti visibili, a volte anche troppo perché lo spettacolo è pessimo in tutti i sensi. Parliamo di autostrade, ferrovie, porti, aeroporti che hanno bisogno di investimenti per offrire un servizio migliore e a costi migliori. Parliamo dei rigassificatori visibili, sì, ma solo su carta mentre da anni si discute di vulnerabilità dell'assetto energetico (...). Ci sono poi le reti meno visibili o invisibili. Telecomunicazioni, banda larga ed ultralarga, insomma l'economia dell'innovazione digitale che dalla pubblica amministrazione ai nuovi media "attraversa" gli interessi dei cittadini e delle imprese».

Insomma, di tutto un po'. E la domanda nasce spontanea: se la spesa dello Stato è risicata per non dire ridotta a zero, come è possibile chiedere investimenti a tappeto? Dentro una logica - che peraltro noi non sposiamo neppure - di rigore dei conti, la crescita (sarebbe meglio dire lo sviluppo) un governo deve ottenerla secondo quello che crede essere il migliore modo possibile. Quindi scegliere su cosa investire: e se lo fai puntando sulle reti digitali, per restare nell'esempio, avrai meno soldi per il resto e dovrai ulteriormente scegliere. E lo farai secondo una logica di sostenibilità, altro che approccio "sviluppista".

Sembra davvero un approccio totalmente ideologico e fuori contesto, che arriva tra l'altro nel giorno in cui meritoriamente il Wwf riporta l'economia con i piedi per terra attraverso il nuovo studio ‘Market Transformation - Sostenibilità e mercati delle risorse primarie', realizzato dall'associazione ambientalista e dal Sustainable Europe Research Institute (Seri). Mentre si discute infatti di come risolvere la crisi finanziaria e far ripartire la crescita quale che sia, come se niente fosse accaduto negli ultimi tre anni e mezzo e la crisi ecologica fosse un intralcio allo sviluppo, qualcuno si è preso la briga di analizzare la pressione esercitata dai mercati globali sulle risorse naturali, con un focus specifico su quattro "commodities" prioritarie per il mercato italiano (caffè, cotone, carta e olio di palma).

Bene, ecco i risultati: quasi 8 miliardi di metri cubi di acqua utilizzati, oltre 34 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti emesse in atmosfera, 8,5 milioni di ettari di terra sottratti ad agricoltura e biodiversità, più di 20 milioni di tonnellate di materiali ‘biotici' (ovvero la biomassa coltivata) prelevati dagli ecosistemi, 38 milioni di tonnellate di materiali ‘abiotici' (come sedimenti, rocce, minerali) erosi. Un totale che vale mezza tonnellata di risorse all'anno prelevate in natura per ogni cittadino italiano. È il peso del ‘fardello ecologico' che ‘trascinano' con sé le importazioni italiane di caffè (470mila tonnellate in un anno), carta e pasta di carta (7,6 milioni t), cotone (670mila t) e olio di palma (720mila t): quattro risorse naturali collegate a settori industriali strategici del mercato italiano, quali il tessile, l'alimentare e il cartario, il cui prelievo in natura e relativa filiera produttiva hanno un forte impatto sull'ambiente, e di cui i protagonisti del mercato, a partire dalle imprese, devono assumersi la responsabilità. E stiamo parlando di solo quattro commodity...

«L'umanità ha superato i 7 miliardi di abitanti e ricava risorse naturali dalla terra per oltre 60 miliardi di tonnellate l'anno (erano 40 nel 1980, saranno 100 miliardi entro il 2030 se continuiamo su questa strada), un peso ecologico totalmente insostenibile per il futuro - ha detto Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia e editorialista di greenreport.it. Più che mai in una situazione di crisi economico-finanziaria che dura ormai da anni, dobbiamo dare la massima centralità al capitale naturale, alla sua cura, al suo ripristino, perché senza di esso l'intera economia mondiale non ha futuro. La Conferenza di Rio+20 sarà un momento molto importante, ed è fondamentale che istituzioni, consumatori e soprattutto imprese, dalle grandi multinazionali alle piccole e medie imprese dei nostri distretti industriali, si assumano la responsabilità di trasformare i mercati e condurli a modelli meno insostenibili, sviluppando una produzione di qualità anche sotto il profilo ambientale».

Per ridurre il proprio ‘fardello ecologico' il Wwf ha elaborato una serie di proposte specifiche rivolte a imprese, istituzioni e cittadini. Alle imprese chiede ad esempio di: svolgere un'analisi delle politiche di approvvigionamento delle materie prime, valutando i rischi ambientali e sociali connessi alla catena di fornitura e identificando le aree di miglioramento; avviare piani per la riduzione degli input di materie prime ed energia nella produzione di beni e servizi; formulare strategie di indirizzo della politica di approvvigionamento che prevedano l'adesione a standard di sostenibilità e schemi di certificazione internazionalmente riconosciuti (es. FSC) e, ove possibile, la riduzione della domanda di risorse; mentre alle istituzioni finanziarie chiede di sviluppare politiche finanziarie e strumenti per la valutazione del rischio ambientale connesso a un approvvigionamento non sostenibile di risorse prioritarie.

Alle istituzioni chiede invece tra le altre cose di "definire riforme che spostino il peso fiscale dal lavoro e dal reddito all'utilizzo delle risorse; supportare con politiche pubbliche, comprese quelle relative al public procurement, i sistemi di produzione sostenibile; creare un ambiente favorevole allo sviluppo di standard volontari relativi all'uso delle risorse e alle pratiche di management che impattano sull'ambiente attraverso il coinvolgimento di imprese, NGO, associazioni dei consumatori, centri di ricerca ecc; agire sulle condizioni economiche del commercio internazionale, sia con tariffe che nell'ambito dello sviluppo di accordi commerciali con altri Paesi (es. abolizione tariffe su importazione di materie certificate); imporre per via legislativa il rispetto di norme minime relative alla produzione di scarti, ad esempio proibendo l'utilizzo di imballaggi eccessivi o materiali non riciclabili; usare i canali delle relazioni diplomatiche per fare pressioni affinché i governi dei Paesi produttori delle risorse primarie assumano iniziative a difesa dell'ambiente e dei diritti dei lavoratori e delle comunità minacciate. Infine ai cittadini si chiede di avere comportamenti di consumo che aiutino, con le loro scelte sui prodotti, ad ottenere modifiche verso la sostenibilità.

Noi ci permettiamo di aggiungere la necessità di una no fly zone sulle materie prime agricole e soprattutto un Consiglio di sicurezza dell'Onu per un governo mondiale sulle materie prime e sull'energia. Una cornice dentro la quale l'Italia può fare la sua parte se sa cogliere tutte le potenzialità della green economy a partire dal mercato del riciclo che è la migliore strada per chi non ha commodity a disposizione; l'efficienza energetica; lo sviluppo delle reti digitali; la manutenzione del territorio. Alla faccia degli approcci sviluppisti!

Ma la cosa che colpisce, infine, è la contraddittorietà dei messaggi che arrivano dai governi e dai "tecnici" europei (e non solo): da una parte documenti che dimostrano consapevolezza della finitezza e crisi delle risorse e dei limiti (già superati) del pianeta, dall'altra la riproposizione del modello di competitività/sfruttamento delle risorse/infrastrutturazione pesante che tende a perpetuare/salvare il modello della globalizzazione che non funziona più e che ha prodotto la crisi di sistema del capitalismo. Di fronte alla necessità di una rivoluzionaria riforma del sistema la si annuncia a parole mentre la si contraddice nella pratica e nei progetti politici, governo tecnico italiano compreso. Il vecchio vizio della riduzione della complessità all'interno dei soliti schemi non sembra finito.

La Soprintendenza sta completando l’istruttoria, il parere è in arrivo ma crescono le perplessità sulle demolizioni interne ed esterne dell’edificio

Fontego dei Tedeschi, è in arrivo una profonda revisione al progetto che l’architetto olandese Rem Koolhaas ha elaborato per il gruppo Benetton che dovrebbe portare a una sua ampia modifica, con alcuni stop. E’ infatti in corso in questi giorni l’istruttoria negli uffici della Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia che sta esaminando la mole di materiali inviati dallo Studio Oma si Koolhaas, da cui dovrà poi scaturire il “verdetto” firmato dall’architetto Renata Codello.

Il parere non è stato ancora emesso, ma già dalla fase istruttoria sarebbero emerse perplessità soprattutto per ciò che riguarda le demolizioni a parti della struttura dell’edificio cinquecentesco, non solo per ciò che riguarda l’abbattimento di una porzione del tetto e dei solai per realizzare la famosa maxiterrazza con vista Rialto, ma anche all’interno, per la realizzazione delle scale mobili legate al centro commerciale che dovrebbe impiantare la Rinascente. Anche la scala mobile prevista nell'atrio, con la possibilità di «spostarla» quando ci saranno eventi, va comunque agganciata alla struttura in muratura, comportando comunque una serie di demolizioni.

Per quanto riguarda invece la sommità dell’edificio, la terrazza «a vasca» non c'è più, modificata con un belvedere sul tetto e la copertura in vetro semovente. Soluzione meno rivoluzionaria rispetto a quella iniziale, ma comunque impattante rispetto alla forma originaria dell’edificio. Lo stesso progetto prevede anche la realizzazione di un nuovo piano nel sottotetto con pavimento in cristallo e sul Canal Grande un pontile di 25 metri per 5 da utilizzare come plateatico per i clienti del bar, in un punto tra l’altro delicato per l’intenso passaggio di vaporetti e imbarcazioni, a due passi da Rialto.

Su tutto questo la Soprintendenza sta ragionando per un parere che dovrebbe essere emesso nel giro di pochi giorni e sono pertanto presumibili, a questo punto, sulla base dell’istruttoria in corso, che esso possa contenere sostanziali prescrizioni che lo modifichino in modo sensibile, prima dell’invio al direttore regionale dei Beni Culturali Ugo Soragni, che ha già annunciato che esso verrà comunque inviato all Ministero dei Beni Culturali perché lo giudichi anche il Comitato tecnico-scientifico per i Beni Architettonici e Paesaggistici, accompagnato anche da una sua relazione.

Si tratta di un elemento non trascurabile nel giudizio finale, perché l’architetto Soragni ora ha avocato a sé la delega sulle demolizioni per edifici vincolati - prima concessa al soprintendente Codello - e proprio la parte che riguarda gli abbattimenti è di fatto diventata centrale nel nuovo progetto di ristrutturazione del Fontego dei Tedeschi.

Questo intervento è ormai del resto diventato un caso nazionale, dopo la dura presa di posizione contro di esso dello storico dell’arte Salvatore Settis, l’esposto su di esso presentato da Italia Nostra alla Procura della Repubblica di Venezia e la forte reazione del gruppo Benetton, che attraverso la controllata Edizione minaccia azioni legali per il possibile danno d’immagine e anche i problemi che uno stop al progetto nella forma attuale potrebbe creargli con il partner già designato per realizzare un centro commerciale all’interno del Fontego dei Tedeschi: il gruppo Rinascente. Difficile approvarlo come se niente fosse.

Che fine ha fatto la nuova legge elettorale? S'è persa, gettata nel pozzo della revisione costituzionale. L'accordo tra le maggiori forze politiche su un complessivo pacchetto di modifiche istituzionali, infatti, fa temere che alla fine si andrà a votare conservando l'attuale sistema elettorale. Sarebbe un atto suicida: la delegittimazione dell'attuale Parlamento supererebbe ogni limite e la forza dell'antipolitica finirebbe per travolgere gli stessi partiti. L'unica fonte di legittimazione del potere, a quel punto, non potrebbe che essere quella tecnocratica. La nostra democrazia, sofferente ormai da troppo tempo, avrebbe concluso la propria epopea, trascinando il paese verso la deriva di una tecnocrazia neoliberista. Il governo Monti perderebbe il carattere dell'eccezione e rappresenterebbe il prototipo dei governi prossimi futuri.

I partiti politici - le vittime predestinate in questo scenario - non sembrano essere consapevoli o non sanno reagire. È certo comunque che s'illude chi pensa veramente di poter riformare il bicameralismo, ridurre il numero dei parlamentari e rafforzare il governo approvando una legge costituzionale, per poi modificare i regolamenti parlamentari per introdurre corsie preferenziali ai provvedimenti del Governo. Ed infine modificare la legge elettorale secondo un modello ritagliato sulle attuali esigenze dei tre partiti maggiori. Non importa considerare il merito delle proposte, quel che appare determinante è che non ci sono le condizioni, né il tempo per realizzare così velleitari propositi. Tutte le misure dovrebbero essere sostanzialmente decise entro l'estate. In autunno il Parlamento sarà impegnato a discutere le leggi finanziarie di fine anno, per poi gettarsi, con l'inizio del nuovo anno, in una lunga campagna elettorale per le politiche del 2013. Chi può credere che tutto possa essere definito nel giro di sei mesi?

Apparentemente ragionevole l'argomento utilizzato per fermare la richiesta di una immediata riforma della legge elettorale, ma che alla fine appare solo pretestuoso. Si spiega l'ovvio: la scelta di un sistema elettorale si collega all'assetto costituzionale complessivo. Vero, ma è anche vero che l'ordine logico non coincide mai con l'ordine storico nella ridefinizione degli equilibri tra i poteri (neppure nell'ipotesi estrema dell'instaurazione di un ordinamento costituzionale del tutto nuovo). Basta guardare indietro. In fondo anche l'imposizione in Italia della cosiddetta democrazia maggioritaria ha avuto origine da una legge elettorale che ha anticipato la modifica dei regolamenti parlamentari, mentre nulla ha potuto di fronte alla rigidità del sistema bicamerale. Può, ovviamente, auspicarsi che la riforma della legge elettorale innesti un progressivo riassetto degli equilibri tra i poteri e che ciò possa esigere ulteriori modifiche dei regolamenti parlamentari o anche adeguate misure che richiedano revisioni costituzionali. Ma questo - bene che vada - può essere un compito per la prossima legislatura, non certo per l'oggi. Impensabile che simile impresa possa essere assolta da partiti compromessi nel vecchio assetto dei poteri, in una fase di delegittimazione politica e sociale, nonché di ridefinizione complessiva del sistema politico. A voler seguire la stessa logica sistemica che presiede alla «grande riforma» proposta (riforma costituzionale, più riforma dei regolamenti, più riforma elettorale) dovrebbe coerentemente affermarsi che un altro tassello appare essenziale per il successo: prima di ogni cosa si riformino i partiti. Non risulta che questo, però, rientri tra gli accordi raggiunti tra le maggiori forze politiche, le quali sembrano voler cambiar tutto salvo se stessi.

D'altronde, neppure quando si discute di cambiare la legge elettorale emerge una netta consapevolezza della gravità del momento. Più che voler risalire la china, riacciuffando una legittimazione e una capacità rappresentativa ormai perduta, i partiti politici sembrano interessati a difendere ciascuno le proprie rendite di posizione. Come se non fossero coscienti che un terremoto li travolgerà, come se credessero veramente che modificata la legge elettorale tutto possa tornare com'è stato sin qui. Il tentativo di accordo ventilato (il cosiddetto modello ispano-tedesco), ma anche i discorsi che si susseguono tra le forze politiche, comprese quelle minoritarie, paiono esclusivamente improntate a individuare il punto di maggiore vantaggio per gli attuali assetti e strategie politiche.

Un ritorno al proporzionale che però avvantaggi solo i primi tre partiti, ritagliando i collegi e innalzando lo sbarramento oltre la soglia che - si presume - possono raggiungere gli altri; definire un sistema che imponga l'accordo preventivo di coalizione, per assicurare alle forze minori uno spazio decisivo, rendendoli determinati ancor prima della verifica elettorale.

In tal modo, ciascuno crede di pensare al proprio futuro e dare ancora una possibilità alle proprie - certamente legittime - pretese politiche, ma non si avvede che la fotografia che oggi si vuole scattare per mantenere lo status quo diventerà ben presto sfuocata. Ancor prima della prossima tornata elettorale.

Avremmo grande bisogno di politici lungimiranti che comprendano come la propria sopravvivenza sia legata a un filo sottile: quel filo che dovrebbe ricondurre i partiti a esercitare il ruolo loro assegnato dalla nostra costituzione, tornando a essere uno strumento dei cittadini affinché questi possano concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Ciò che potrà salvare i partiti, e con essa quel che rimane della democrazia costituzionale, non sarà l'alchimia elettorale, ma solo un sistema che riscopra le virtualità della rappresentanza politica reale.

Con molta, troppa facilità ci stiamo abituando a dire che la bancarotta greca non sarebbe poi la catastrofe paventata da anni. Il male, incurabile, basterebbe allontanarlo, asportando Atene dall´Eurozona come si fa con un´appendicectomia. Quel che conta è evitare il contagio, e non a caso il Fondo salva Stati si chiama d´un tratto Firewall, muro parafuoco che serve a proteggere i sistemi informatici dalle intrusioni: che salverà chi è ancora dentro (l´Italia, per esempio) da chi, nell´ignominia, sta cadendo fuori.

Come la linea Maginot che i francesi eressero per proteggersi dagli assalti tedeschi negli anni ‘20-´30, Firewall evoca gli universi chiusi della clinica e della guerra: il miraggio d´un muro inviolabile rassicura, anche se sappiamo bene come finì il fortilizio francese. Cadde d´un colpo. Lo storico Marc Bloch parlò di strana disfatta perché il tracollo era avvenuto negli animi, prima che lungo la Maginot: «nelle retroguardie della società civile e politica», prima che al fronte.

In realtà nessuno ci crede, al chimerico Firewall che abita le fantasie e fiacca la ragione. Altrimenti l´Unione non avrebbe deciso, ieri, un ennesimo importante prestito alla Grecia. Altrimenti non ci sarebbe chi pensa, allarmato, a una nuova architettura dell´Unione: più federale, dotata di un governo europeo cui gli Stati delegheranno sovranità crescenti. Ci stanno pensando Berlino e forse Roma, anche se Monti ha appena firmato una lettera con Cameron e altri europei in cui non si parla affatto di nuova Unione, ma di completare il mercato unico. Così le cose procedono lente, e il problema cruciale (le risorse di cui disporrà l´Unione, per un possente piano di investimenti) nessuno l´affronta. In parte la lentezza è dovuta a corti calcoli prudenziali: ogni leader ha le sue elezioni. In parte si vuol vedere l´esito del dramma ellenico, e qui comincia la parte più torbida della storia europea che si sta facendo.

Ci sono momenti in cui sembra che i governi forti aspettino la bancarotta greca, per costruire l´Unione che dicono di volere. È la tesi dell´economista Usa Kenneth Rogoff, intervistato da Spiegel: una volta espulsa Atene, gli Stati Uniti d´Europa si faranno prima del previsto, grazie alla crisi. C´è, nell´aria, odore di capri espiatori. Ma è proprio vero che l´autodafé della Grecia genererebbe la nuova Unione? E quale Europa nascerebbe, se svanirà la pressione della crisi greca? Per ora, una cosa pare certa: Atene è in tumulto, e a forza di piani a breve termine mina l´eurozona e l´idea stessa di un´Europa solidale nelle sciagure. Difficile che quest´ultima si costituisca in federazione, se il primo atto consisterà nel gettare a mare i Paesi che non ce la fanno. L´operazione Firewall non è indolore per la Grecia, ma neppure per l´Europa.

È quello che hanno scritto sull´Economist Mario Blejer e Guillermo Ortiz, ex banchieri centrali dell´Argentina e del Messico, in un appello in cui si ricorda agli europei il costo della bancarotta di Buenos Aires nel 2002, e la diversità tra quel fallimento e quello temuto in Grecia. L´Argentina conobbe in effetti sei anni di crescita dopo la svalutazione del peso e lo sganciamento dal dollaro, ma nel mondo non c´era la recessione odierna, il risanamento fu distribuito lungo una decina d´anni, e il peso esisteva ancora. Invece la dracma non c´è più, e ricrearla sarebbe un salasso terribile (i debiti greci sono in euro: come ripagarli con dracme svalutate?). Infine, aggiungono i banchieri centrali, s´è persa memoria della veduta breve del Fondo Monetario, e di un tracollo che fu «straziante» per gli argentini. La loro bancarotta era obbligata mentre non lo è per la Grecia, che è pur sempre nell´Unione: «Chi propone l´uscita di Atene dall´eurozona sottovaluta le conseguenze devastanti che avrebbe. L´esperienza argentina dovrebbe servire non come esempio, ma come deterrente contro ogni idea di fuoriuscita».

Un avvertimento simile viene in questi giorni da Lorenzo Bini Smaghi. Sul sito del Financial Times, il 16 febbraio, l´ex membro dell´esecutivo Bce fa capire, senza dirlo chiaramente, che così come l´Europa oggi è fatta, così come fa sgocciolare le sue imperfette misure, il male non sarà curato. Esiziale, comunque, è la falsa sicurezza che si ostenta di fronte a un possibile fallimento, simile a quella esibita ottusamente nel 2008 quando fallì la società Lehman Brothers: «Il contagio finanziario opera in modi inaspettati, specie dopo gravi traumi come il fallimento d´una grande istituzione finanziaria o d´un Paese».

Il trauma colpirebbe la Grecia, ma anche le istituzioni europee: esse dimostrerebbero infatti una strutturale «incapacità di risolvere i problemi». Di qui la convinzione che il modello Fondo Monetario sia migliore: la sua assistenza è egualmente condizionale, ma almeno è prevedibile e prolungata. Non così l´Europa, che tiene Atene sotto la minaccia di continuo fallimento: una minaccia che «sfinisce il sostegno politico di cui (la disciplina richiesta) ha bisogno, e alimenta l´instabilità sui mercati finanziari». Forse è tardi per cambiar metodo, ma «se si vuol evitare un disastro non è mai troppo tardi».

Il piano europeo non può essere solo tecnico, mi dice Bini Smaghi: «Cosa succederà della Grecia se c´è un default? Una crisi sociale e politica nel cuore dell´Europa, con la democrazia di quel Paese a rischio. Il fallimento non sarebbe solo tecnico ma anche politico, perché se c´è la povertà e un regime autoritario il fallimento dell´Europa diventerebbe ovvio. Quale modello potrebbe rappresentare l´Europa agli occhi del mondo se uno dei suoi membri torna indietro nella storia?».

Ma com´è fatta esattamente l´Europa, per stare così male? È l´economia che vacilla, o sono malate le sue classi politiche, la sua cultura? Tutte e tre le cose in realtà barcollano, e l´Europa che uscirà da questa prova sarà forte o degenererà a seconda del modo in cui i tre mali insieme - economia, cultura, politica - saranno curati.

Culturalmente, stiamo ricadendo indietro di novant´anni, nei rapporti fra europei. Ad ascoltare i cittadini, tornano in mente le chiusure nazionali degli anni ´20-´30, più che la ripresa cosmopolitica del ´45. Sta mettendo radici un risentimento, tra Stati europei, colmo di aggressività. Le prime pagine dei giornali greci, da mesi, dipingono i governanti tedeschi come nazisti. Intanto Atene riesuma le riparazioni belliche che Berlino deve ancora pagare all´Europa occupata da Hitler. Dimenticata è la tappa del ´45, quando si ridiede fiducia alla nazione tedesca e ci si accinse a unire l´Europa. Quella fiducia aveva un preciso significato, anche finanziario: la Germania non doveva più risarcire nella sua totalità le distruzioni naziste. La politica delle riparazioni, che era stata la sua maledizione nel primo dopoguerra e l´aveva gettata nella dittatura, non doveva più esistere (Israele costituì un caso a parte).

Proprio questo si rimette in discussione, ed è la ragione per cui assistiamo a un formidabile arretramento. Quel che si fece nel ´45 verso la Germania, per motivi strategici e perché era mutata la cultura politica, non si è in grado di farlo con la Grecia. Gli errori commessi da Atene non sono crimini, e tuttavia urge espiare oltre che pagare. Son guardate con fastidio perfino le sue elezioni. La politica di riparazioni che le si infligge è feroce, crea ira, risentimento. E questo perché? Evidentemente non si vedono motivi strategici perché la Grecia resti in Europa: manca ogni visione del mondo, e la cultura non è più quella del ´45-´50.

La regressione ha effetti rovinosi sulla politica. Come può nascere l´Europa federale, se vince una cultura che ha poco a vedere con quello che gli europei appresero da due guerre? La scelta di un Presidente come Joachim Gauck, in Germania, è una buona notizia, perché la popolazione tedesca ha contribuito a questo clima di sospetti, anche se non sempre immotivati (perché assistere Paesi del Sud prigionieri volontari di una corruzione che a Nord si combatte?). L´Europa ha bisogno di popolazioni illuminate, non di capri espiatori, e Gauck che usa parlar-vero potrà aiutare. L´Europa ha bisogno di una crescita diversa, comune, non di anni e anni di recessione, di odi interni, di sospensioni della democrazia. Altrimenti la sua disfatta sarà di nuovo strana: nata nelle retroguardie civili, prima che nell´armata schierata lungo i muri anti-contagio.

Titolo originale: Driverless Car Could Defy Sprawl Rules – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Da molte notizie pare proprio che l’auto che non ha bisogno di guidatore, un tempo relegata nei libri di fantascienza, si affacci alla realtà del trasporto. Settimana scorsa il Nevada per primo ha approvato regole statali riguardanti i veicoli senza pilota, che a parere di un responsabile sarebbero “certamente il futuro dell’automobile”. Ci sono state parecchie ipotesi sugli effetti di questa tecnologia sul nostro modo di usare l’auto, sulla sicurezza, sulla responsabilità. Ma invece: come cambierà la città americana? Ad esempio, magari così gli automobilisti potrebbero mettersi a fare più strada, comodamente, e accelerare la dispersione urbana.

È questa la prima conclusione logica a cui si potrebbe arrivare. Negli ultimi cent’anni e oltre, qualunque salto tecnico nel campo dei trasporti, che siano le ferrovie, i tram a cavallo, l’automobile o l’aeroplano, ha accresciuto la mobilità, e parallelamente prodotto sistemi insediativi più dispersi in ogni regione urbana del mondo. Non si tratta però di un fatto inevitabile. Riflettendo sui trasporti spesso ci si basa su convinzioni superate. Una è l’idea del determinismo tecnologico: introducendo una innovazione ci sono una serie di conseguenze sulla società. Quando in realtà ciascuna delle innovazioni, qualunque avanzamento umano, produce risultati straordinariamente diversi.

Il caso delle ferrovie

Ad esempio la ferrovia del XIX secolo è stato il fattore determinante dell’accumularsi di popolazione e attività nelle grandi città industriali, mentre si consentiva in contemporanea a una notevole percentuale di popolazione urbana di risiedere nel suburbio un po’ più esterno. E anche se la crescita delle automobili è avvenuta in un periodo di marcato decentramento urbano e calo delle densità,non si tratta per nulla di un risultato inevitabile. Le regioni urbane di Phoenix o Los Angeles dipendono in gran parte dal trasporto automobilistico, ma negli ultimi decenni hanno incrementato notevolmente la propria densità. Altro ostacolo a una riflessione obiettiva sui trasporti, è l’orientamento a credere che esista qualche profonda differenza fra mobilità pubblica e privati – ad esempio automobile contro autobus – e che si tratti di modelli diversi in concorrenza uno contro l’altro. È articolo di fede, fra coloro che auspicano scelte contro l’automobile e a favore dei trasporti pubblici per combattere la congestione, i consumi petroliferi e le emissioni di gas serra.

Ma viste le innovazioni tecniche più recenti non è affatto detto che i treni, e soprattutto gli autobus, siano ancora più efficienti per unità di distanza percorsa, rispetto all’automobile. Per la stragrande maggioranza degli spostamenti sono molto più lenti. Nei casi migliori, anche le più avanzate scelte per spingere all’uso dei mezzi pubblici a spese dell’auto comportano dei sacrifici. E oggi l’auto senza pilota potrebbe alterare gli equilibri fra pubblico e privato, individuale e collettivo. Le scelte sui trasporti non sono mai state così nette come parrebbero suggerire certe polemiche. Ad esempio il taxi possiede le caratteristiche di entrambi gli aspetti. Negli ultimi anni poi la divisione fra mobilità pubblica e private si è ulteriormente ridotta coi progetti Zipcar o Super Shuttle, o altri tipi di veicoli a noleggio individuale pronto per l’uso come Personal Rapid Transit, automatizzato e che corre su una linea propria. C’è un ottimo esempio pionieristico di questi PRT realizzato negli anni ’70 e ancora in funzione a Morgantown, in West Virginia.

Sistemi flessibili

Ciò in cui l’auto senza autista potrebbe riuscire, è assottigliare ancora queste differenze. Pensiamo al chiamare uno dei veicoli a richiesta – ad esempio uno piccolo come quelli che si usano oggi sui campi da golf per commissioni in città, oppure una cosa più spaziosa per un gruppo di persone che si sposta verso un’altra città – e che quel veicolo possa effettivamente andare dal punto di partenza alla destinazione finale. La grande flessibilità di sistema offerta ridurrebbe di molto la spinta a possedere un’automobile, che deve appunto poter svolgere molti compiti diversi, è costosa all’acquisto e nella manutenzione, e di solito sta per gran parte della propria vita in un parcheggio o in un garage. Se l’auto senza pilota può ridurre la congestione massimizzando l’uso delle reti stradali esistenti, spostando passeggeri in tutta comodità, si potrebbe certo arrivare a un sistema insediativo ancora più disperso. Oppure no: l’effetto potrebbe essere opposto.

Vista la gran quantità di spazio oggi riservato a strade e parcheggi dalle città americane, anche un piccolo incremento nell’uso collettivo dei veicoli potrebbe far diminuire la necessità di nuove superfici asfaltate, e far crescere le densità residenziali e commerciali. Confermando così una tendenza già rilevabile oggi, quando i nuovi insediamenti che si realizzano ai margini estremi delle regioni metropolitane sono molto più densi che in passato, e quando dentro le città e nei sobborghi di prima fascia si lavora a incrementare le densità esistenti. Certo di sicuro anche l’auto senza autista porterà moltissimi problemi nuovi, come avviene sempre con le innovazioni tecnologiche, ma potrebbe anche contribuire alla soluzione di quelli attuali provocati dall’automobile, prima di tutto gli incidenti e la congestione. E un primo passo importante per aumentare gli effetti positivi e ridurre quelli negative sarebbe smetterla di pensare automaticamente come oggi fanno certi esperti di pianificazione e trasporti.

Si potrebbe partire dalla diffusa quanto discutibile convinzione secondo cui le città dovrebbero essere pensate secondo un certo sistema di mobilità. A sostegno di autobus e treni c’è molta gente che vorrebbe far tornare indietro le lancette dell’orologio, riproponendo il tipo di tessuto urbano denso che era forse indispensabile per la città industriale del XIX secolo. Nulla di sbagliato in questo modello abitativo, se fosse liberamente scelto da chi ci abita. Ma dopo l’avvento dell’automobile i cittadini si sono potuti permettere più mobilità e flessibilità nella scelta di dove risiedere, spesso con risultati radicali, e certo unire alcune caratteristiche dell’auto con quelle dei trasporti collettivi, consentirà una maggiore scelta nei modelli abitativi, che siano quello compatto ad alta densità, o disperso a bassa densità (chiamatelo pure sprawl, se vi piace). Più probabilmente, entrambi.

postilla

Dice il saggio: tutto è bene ciò che finisce bene, e l’ultimo chiuda la porta. Peccato che il sedicente saggio professor Bruegmann, pur maneggiando molto meglio di altri (del resto è il suo riconosciuto mestiere di accademico) gli strumenti della tesi antitesi sintesi riesca a convincere solo della solita cosa: le argomentazioni delle campagne anti-sprawl devono piantarla con certe semplificazioni. Se proviamo a rileggere l’articolo infatti cercheremmo inutilmente qualunque riferimento ai temi energetici, sociali, o alle vere motivazioni complesse che hanno condotto alcune generazioni a lanciarsi nell’avventura contraddittoria dello sprawl novecentesco. C’è solo una superficiale presa d’atto (e presa a prestito ad esempio da alcuni passaggi descrittivi di Fishman) di quanto avvenuto dalle “profezie” di Henry Ford in poi. Come del resto nelle descrizioni di altri benintenzionati ambientalisti compaiono solo gli orrori suburbani, figuriamoci oggi col degrado di interi quartieri pignorati e semi-abbandonati. E tutto per far cosa? Per avvisarci che non dobbiamo, noi idioti passatisti, secondo Bruegmann, fare gli scongiuri e metterci di traverso davanti a qualunque innovazione tecnologica. Ok professore, ci hai convinti: da domani tutti sull’automobilina automatica, ma cosa c’entri col risparmio energetico, le città sostenibili, una migliore qualità sociale, dovremo scoprircelo da soli. In definitiva, come succede ormai da qualche anno, le dissertazioni dell’accademico di successo servono soprattutto in negativo, a far riflettere sulla debolezza delle argomentazioni opposte. Grazie molte, alla prossima (f.b.)

Chi si occupa di normativa ambientale sa bene che i problemi di fondo sono due: la pessima qualità delle leggi e la mancanza di controlli.

Si tratta, peraltro, di problematiche in qualche modo connesse perché proprio la pessima qualità delle leggi condiziona la qualità e la quantità dei controlli, sempre più spesso demandati a strutture inadeguate e carenti per mancanza di mezzi, di personale e di professionalità; di modo che troppo spesso i (pochi) controlli che vengono effettuati, in presenza di norme complicate, confuse e contraddittorie, si limitano a riscontrare solo eventuali situazioni macroscopiche di illegalità, senza prendere neppure in considerazione settori che richiedono un approfondimento di indagini. Basta pensare a quello che è successo per il trasporto di rifiuti dopo l’allucinante tira e molla sul SISTRI.

Del resto, basta guardarsi attorno o leggere i giornali per capire che nel settore della tutela ambientale, i controlli vanno potenziati con grande determinazione: come è possibile, tanto per fare due esempi su illegalità “facili facili” da controllare, che nel 2012, 36 anni dopo la legge Merli, vi siano ancora numerosi scarichi fognari pubblici immessi nell’ambiente allo stato bruto, senza alcuna depurazione e autorizzazione; oppure che esistano centinaia di discariche abusive ?

Purtroppo, invece del potenziamento, con il governo dei Professori è arrivata la “semplificazione” dei controlli. Nel decreto legge n. 5 del 9 febbraio 2012, entrato in vigore il 10 febbraio, -oltre a 2 articoli (23 e 24) di semplificazione della normativa ambientale su cui ci riserviamo un intervento più approfondito-, esiste un ineffabile art. 14, intitolato “Semplificazione dei controlli sulle imprese”, la cui ratio dichiarata è di limitare al massimo i controlli sulle imprese al fine di recare alle stesse “il minore intralcio” possibile.

L’apice, a mio sommesso avviso, si raggiunge quando si stabilisce che i controllori devono adeguarsi al principio di “collaborazione amichevole con i soggetti controllati al fine di prevenire rischi e situazioni di irregolarità”.

Se con questo si voleva dire che i controlli devono essere effettuati con educazione e senza vessare e intimidire i poveri industriali, trattasi, ovviamente, di norma del tutto superflua.

Ma questo non vuol dire “collaborazione amichevole”. I controlli sono controlli e non si può imporre alcuna “collaborazione amichevole” tra controllori e controllati. Né spetta ai controllori dare amichevoli consigli all’industriale su quello che deve fare al fine di prevenire rischi e situazioni di irregolarità. L’industriale, se ha dei dubbi, ha tutti i diritti di pagarsi una consulenza privata o rivolgersi in modo formale e diretto alle istituzioni competenti e di ricevere risposta.

Ma il pubblico controllore, se riscontra reati, deve farne denuncia all’A.G. e non può essere invischiato nei problemi del controllato.

Se, a questo punto, ci focalizziamo sul settore dei controlli ambientali (dalle disposizioni dell’art. 14 sono esenti solo i controlli in materia fiscale e finanziaria), appare ancora più evidente la pericolosità di questo stravagante principio.

E’ noto, infatti, che l’organo deputato al controllo tecnico delle violazioni ambientali è l’ARPA.

In proposito, recentemente la Cassazione ha evidenziato che “i funzionari dell’ARPA, preposti al controllo e alla vigilanza ambientale, sono titolari di una posizione di garanzia in relazione all' impedimento dei reati commessi dai terzi e, pertanto, qualora, venuti a conoscenza dell'effettuazione irregolare di operazioni di gestione di rifìuti, omettano di intervenire, sono responsabili ex art. 40, 2°comma, c.p. dell 'illecito smaltimento del rifìuto” (Cass. Pen, sez. 3, c.c. 15 dicembre 2010, n. 3634, Zanello).

Oggi si dice agli stessi funzionari che devono collaborare amichevolmente con i soggetti controllati.

Se, in questo quadro, aggiungiamo che già esiste un altro scellerato principio legislativo in base al quale, per fare cassa, l’ARPA può accettare consulenze a pagamento anche dai soggetti che dovrebbe controllare (ed eventualmente denunciare), diventa ancor più concreto il rischio che la collaborazione “amichevole” possa talvolta essere intesa come collaborazione a pagamento, dove chi paga si assicura l’amichevole collaborazione del controllore ora e per il futuro. E chi vuole capire capisca!

Caro direttore, in Italia sta accadendo qualcosa di grave, ma pochi ne parlano. Ci sono delle imprese che, dopo aver sloggiato centinaia di cinema dai centri urbani, stanno emarginando migliaia di cittadini soprattutto adulti, meno propensi a mettersi in auto per andare a cercare un film nei multiplex metropolitani. Il fiorire delle multisale, diventate il tempio del divertimento giovanile, si accompagna all'emarginazione dei film meno commerciali, privando così gli stessi ragazzi di un confronto con titoli importanti che puntano su impegno e qualità. Da notare che queste sale godono di finanziamenti a fondo perduto e non pochi benefici fiscali dallo Stato. In cambio di cosa? Certo il cinema, incluso quello dei grandi autori, è anche industria. Tuttavia se a dettare legge è solo il lato commerciale, sarà un guaio per tutti. Dichiaro subito di essere interessato perché sta per uscire un mio film e non posso non essere preoccupato. Ci sono nel cinema operatori ai quali poco importa del valore di un film, gente che misura a spanne le pellicole in rapporto ai soldi che possono fare.

Sigmund Freud diffidava proprio di costoro. A Hollywood gli avevano chiesto più volte di lavorare per loro. Non accettò mai perché riteneva il lato commerciale estraneo alla cultura. Lo disse chiaro e tondo a Samuel Goldwyn, fondatore della Metro Goldwyn Mayer, quando nel 1924 attraversò l'oceano per convincerlo a scrivere «una grande storia d'amore per il cinema». Da allora le cose sono peggiorate. Se all'inizio gli artisti prevalevano sui finanziatori (la United Artists nacque per volere di quattro attori e registi: Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e David W. Griffith), col tempo le cose si sono capovolte. Oggi il potere sta in mano solo a chi controlla il denaro.

Nell'industria del cinema c'è una lobby potente, che il pubblico non conosce. È quella degli esercenti. Questa categoria ha l'ultima parola sulla «tenitura» di un film, quanto tempo resterà in sala, dunque quanto incasserà. Il guaio è che se un film non monetizza sin dal primo weekend, può anche essere un capolavoro, ma la sua sorte è segnata. Non era così un tempo, quando l'esercizio partecipava ai costi di produzione e aveva tutto l'interesse a difendere lo sfruttamento sino all'ultimo centesimo. Sembra incredibile, ma il luogo principale dove si consuma il «bene» cinematografico non di rado è il più insensibile alla circolazione dei film migliori. Si tratta di una dicotomia insolubile. Ricorda certe storture dell'amore: «Né con te né senza di te».

Per molti autori la dura legge dell'esercizio sta diventando un'ossessione. I nemici del cinema, dicono, sono gli esercenti. Molti registi arrivano al punto di preferire Internet, pensando di trovarvi più libertà che in sala. Ma è un'illusione. Nulla in contrario al proliferare del successo di commedie, anche se sgangherate. Servono pure quelle. Ma può un Paese vivere solo di risate? Che circolazione avrebbero oggi capolavori comeUmberto D.di De Sica oProva d'orchestradi Fellini, stando al «gusto» prevalente delle multisale? Che cosa sta facendo il cinema italiano per impedire che il consumo uso e getta impedisca l'accesso a chi non vuole ridere soltanto?

Pongo il quesito soprattutto a chi impiega il denaro pubblico. Di fronte alla «dittatura» dei multiplex, il cinema pubblico (tra cui Rai e Cinecittà) dovrebbe occupare il terreno rafforzando la suamission. Il che significa dare un segnale forte per essere presente alla pari, offrendo agli spettatori le stesse opportunità dei film più commestibili. Lapar condiciovale solo per i politici? Basta fare un paragone con un Paese vicino. In Francia, dove la cultura è tenuta in massima considerazione, un film difficile ma importante comeUna separazione, in odore di Oscar, è stato visto da 846 mila spettatori in tutte le sale. Da noi solo da 77 mila in poche sale: i francesi sono undici volte più intelligenti di noi o c'è qualcosa che non va nella nostra distribuzione?

È la riprova che scommettendo su un buon film non si fa solo cultura: ci si può anche guadagnare. Il famigerato I soliti idiotipiazza sul mercato centinaia di copie? Fa benissimo. Ma perché non fare altrettanto con film meno consumabili, capaci di arricchire la mente dei ragazzi? Un'azienda pubblica deve certo guardare al mercato, ma anche porsi il problema di orientarlo, non di subirlo. Il principio vale per il grande come per il piccolo schermo. È come se in tv trionfassero solo i realitye venisse abolito tutto il resto. Speriamo che Mario Monti, nel mettere mano alla riforma, non cada ancora una volta nell'errore di pensare alle pedine e non ai contenuti.

Il furto più grave viene commesso proprio ai danni dei giovani. Di questo passo la legge dell' audienceinvaderà anche le scuole e le università. A furia di pensare solo a far ridere i ragazzi non finiremo per crescere una marea di italiani un po' troppo tristemente allegri?

postilla

Inutile girarci tanto attorno: la questione posta da Faenza dal punto di vista socio-spaziale è perfettamente identica a quella della grande distribuzione commerciale, e in quanto tale deve essere considerata. Scatoloni organizzativamente e culturalmente autoritari che risucchiano vita e attività dalle zone urbane, trascinando persone e sensibilità verso una specie di limbo. Senza contare naturalmente sia il contesto auto-orientato che i fattori di esclusione (ma anche, ahimè, di relativa inclusione e accessibilità che a volte, spesso, mancavano alla rete di esercizi tradizionali). In questo, come in tutti gli altri casi, la questione si pone in modo duplice: da un lato verificare cosa in effetti si debba e possa ragionevolmente conservare, delle attività economiche sociali e culturali, dall’altro a quali spazi esse debbano corrispondere, e a quali soggetti delegare la gestione: pubblici, privati, misti. Sinora la smisurata fiducia nelle capacità del mercato di autoregolarsi ha prodotto gli squilibri urbani, territoriali, socioeconomici che ben conosciamo, ma al tempo stesso l’auspicio che spesso emerge, al ritorno a forme che i nostri stessi comportamenti reali e consapevoli hanno respinto (dai consumi alle aspettative culturali e di relazione), pare non solo debole, ma ridicolmente regressivo. Una questione del tutto aperta, e che di nuovo rilancia l’idea di una gestione urbana assai più integrata e condivisa fra i vari approcci scientifici, tecnici e amministrativi. Neppure il cinema è più solo cosa da cinematografari o cultori, insomma (f.b.)

Comune «ostaggio» di Prada per Ca’ Corner della Regina e di Benetton per il Fontego dei Tedeschi, visto che 8 milioni di euro della vendita dell’ex sede dell’Asac (l’Archivio storico della Biennale) e 6 milioni di indennizzo per i cambi di destinazione d’uso dell’ex sede delle Poste centrali di Rialto sono «congelati» dai privati in un fondo vincolato in attesa di sapere se i progetti di trasformazione saranno approvati da Ca’ Farsetti e dalle altre autorità competenti. A sollevare il caso è il presidente della Commissione consiliare Bilancio Renato Boraso che ha convocato per giovedì nell’organismo l’assessore competente Sandro Simionato per un’«informativa sui riflessi sul patto di stabilità 2012 in relazione ai procedimenti amministrativi riguardanti Ca’ Corner della Regina e Fondaco dei Tedeschi». «Vogliamo chiarezza e trasparenza dal Comune - attacca Boraso - perché i 40 milioni di euro della vendita di Ca’Corner della Regina e i 6 della valorizzazione del Fontego sono già stati inseriti in bilancio ai fini del patto di Stabilità.

Ma di quei 46 milioni, 14 in realtà non ci sono, perché vincolati al fatto che Prada e Benetton restino poi soddisfatti dell’approvazione effettiva dei relativi progetti. E’ una situazione assurda e assai poco trasparente, vogliamo capire se possiamo realmente contare su quegli 8 milioni per Ca’ Corner della Regina e sui sei per il Fontego o se il bilancio del Comune e il rispetto del Patto di stabilità possono essere messi in crisi dai “capricci” dei loro nuovi proprietari, lasciando l’Amministrazione alla loro mercè».

Effettivamente, nel contratto di compravendita che il Comune ha stipulato con la Petranera srl - una controllata del Gruppo Prada - si legge che «qualora, decorsi due anni dalla data di sottoscrizione del presente contratto, non sia approvata da tutte le competenti autorità la summenzionata destinazione d’uso del piano secondo dell’immobile, la parte acquirente avrà diritto ad una riduzione del prezzo per un importo pari a 8 milioni di euro». E, come è ormai noto, nella convenzione che lo stesso Comune ha stipulato con Edizione Property - la società immobiliare del gruppo Benetton - i 6 milioni di euro di indennizzo sono a loro volta vincolati al rilascio di tutte le autorizzazioni necessari ai cambi di destinazione d’uso da parte dell’Amministrazione, ma anche al sostanziale rispetto del progetto dell’architetto olandese Rem Koolhas, che prevede anche la maxiterrazza sul tetto con vista Rialto di cui si continua a discutere, in attesa dell’ultima parola del Ministero dei Beni Culturali.

Prova a gettare acqua sul fuoco proprio l’assessore Simionato: «Per il Comune e il rispetto del patto di stabilità non c’è alcun problema con gli accordi con Prada e Benetton per Ca’ Corner della Regina e Fontego dei Tedeschi. Quei soldi li abbiamo incassati e anche se in parte su un fondo vincolato, valgono comunque ai fini del rispetto dei nostri vincoli di bilancio. Se poi tra due anni, nel caso di Ca’ Corner della Regina, Prada non dovesse ritenersi soddisfatto della progettazione che gli sarà consentita all’interno dell’edificio, vorrà dire che gli restituiremo quegli 8 milioni di euro». E l’incertezza resta.

postilla

Come se dicesse: “Io Comune ha venduto a Benetton e a Prada qualcosa che non era nella mia disponibilità, quindi so che (a meno di non passare sulle regole della tutela come un bulldozer e concedendoti di fare gli scempi che ti servono per mercificare i beni che ti ho donato) dovrò restituirti quello che hai fatto finta di regalarmi, ma intanto ho messo in bilancio quello che provvisoriamente ho incassato, quindi sono a posto con il patto di stabilità”. Ma questi amministratori li abbiamo scelti o ce li hanno imposti?

Milano, 21 febbraio 2012 - L'area ex Falck di Sesto San Giovanni potrebbe essere scelta per ospitare la 'Citta' della Salute'.Dopo l'incontro dei giorni scorsi tra il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni e il sindaco di Sesto San Giovanni, Giorgio Oldrini, quest'ultimo ha comunicato al governatore l'interesse e la disponibilità che Regione Lombardia insedi sull'area ex Falck la nuova Città della Salute, potendo contare sul fatto che tale iniziativa incontri il favore della Sesto Immobiliare SpA, la società che si sta occupando della riqualificazione immobiliare dell'areae che da tempo, insieme all'architetto Renzo Piano,sta studiando l'inserimento nel progetto di centri di eccellenza.Il sindaco sottolinea come sia possibile valutare insieme la disponibilità a concedere come standard l'area, che verrebbe assegnata già bonificata senza costi per la Regione Lombardia.

postilla

Nessuno lo dice (ancora) ma pare che anche nelle menti perverse di chi ha sinora preso decisioni sbagliate e intempestive si sta facendo strada, in un modo o nell’altro, ciò che Richard Rogers chiama il principio “town center first”: le prime trasformazioni urbanistiche sono quelle delle aree già urbanizzate, meglio ancora se di dismissione industriale, e se con un intervento di alto profilo e contenuti se ne garantisce la bonifica ambientale. Nel caso specifico si potrebbero anche affiancare la bonifica socioeconomica, con un polo di eccellenza e di occupazione al posto delle acciaierie, e la “bonifica morale” col definitivo riuso di aree sinora famose per tangenti, scorrettezze urbanistiche e altro (i casi Zunino, Penati ecc.). Speriamo davvero se ne faccia qualcosa di concreto, lasciando che il Parco Agricolo Sud se ne stia a fare … il parco agricolo, appunto, e non il parcheggio di un ospedale (f.b.)

Nessuno lo immaginerebbe mai: nel centro di Roma a poco più di un chilometro da piazza San Pietro, nel cuore della splendida tenuta Piccolomini che si estende da Villa Pamphili a via Gregorio VII, in cima a una terrazza naturale unica al mondo, con una vista mozzafiato sul cupolone, in un luogo verde e magico dove si aggirano indisturbate le volpi selvatiche sta per sorgere un campo da golf.

La società Borgo Piccolomini Srl di Alberto Manni (amministratore unico e detentore dell’80 per cento delle quote) ha appena ottenuto l’autorizzazione con determina dirigenziale della Regione Lazio per realizzare in questo luogo unico al mondo un campo pratica per il gioco del golf; la creazione di un percorso vita; la ristrutturazione di tutti i fabbricati esistenti con cambio di destinazione d’uso in club house a servizio del campo da golf e infine anche una piscina.

L’inaugurazione del complesso è prevista nel giugno del 2012 ma il consigliere regionale dell’Italia dei Valori Vincenzo Maruccio, che ha raccolto il grido di allarme del comitato di cittadini “Parco Piccolomini”, ha presentato un’interrogazione al presidente della Regione Lazio Renata Polverini. Per Maruccio quel campo da golf non s’ha da fare. Non solo per le problematiche sollevate dai cittadini che paventano “un grave impatto ambientale su un’area di alto valore paesaggistico” ma anche perché i terreni che lo ospitano non appartengono a una società privata bensì alla Fondazione Piccolomini, che ha finalità pubbliche. Non solo. Secondo Maruccio, la Fondazione è presieduta da Benedetta Buccellato, un’attrice che in passato ha recitato in una fiction diretta da Alberto Manni, proprio il socio principale della società Borgo Piccolomini.

La Fondazione Niccolò Piccolomini nasce da un lascito. Il proprietario della tenuta, il conte Nicolò Piccolomini, morì a 28 anni durante la seconda guerra mondiale dopo avere frequentato l’Accademia di Arte drammatica e destinò al mantenimento degli artisti drammatici indigenti il terreno sul quale sorgerà il campo da golf, più un vero e proprio borgo, una villa cinquecentesca immersa nel verde e numerosi casali .

Nel 1943, per realizzare le volontà del nobile attore, fu creata la Fondazione. Il conte avrebbe voluto che il suo patrimonio fosse utilizzato per “il ricovero e il mantenimento di artisti drammatici inabili al lavoro e l’assegnazione di elargizioni ad artisti drammatici indigenti”. La sua volontà non è mai stata pienamente realizzata. Nel 1980 la Fondazione è divenuta un’Ipab, cioè un’Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficienza sotto la vigilanza della Regione Lazio, che dal 2006 al 2009 ha commissariato la Fondazione. Dal maggio del 2009 a seguito dell’occupazione degli attori, villa Piccolomini è gestita da un consiglio di amministrazione nominato secondo le regole della Fondazione: due membri nominati dalla Regione Lazio, un membro nominato dal Sindaco di Roma, uno dall’Accademia di Arte drammatica e un membro nominato dai sindacati di categoria in rappresentanza degli attori drammatici, che hanno scelto Benedetta Buccellato, vicina alla Cgil che aveva diritto a esprimere il nome in quella tornata. La tenuta di 8 ettari che si estende dalle pendici del Gianicolo fino a via Cava Aurelia, era inutilizzata, ma rappresentava un potenziale polmone verde da sfruttare per il quartiere Aurelio. “Quei terreni devono essere restituiti alla cittadinanza”, secondo Vincenzo Maruccio dell’Idv, “e devono essere aperti ad attività culturali per realizzare lo scopo del lascito: una casa di riposo per attori anziani e non autosufficienti, immersa in un polmone verde per quel quadrante di Roma”.

Sotto la gestione Buccellato invece la strada intrapresa è stata un’altra: mettere a reddito il patrimonio affittandolo con bandi pubblici. Quello per affittare il terreno, secondo Maruccio, presenta però alcuni punti oscuri: “La Borgo Piccolomini Srl diviene locataria di parte dei terreni del parco a seguito di un avviso pubblico del 19 luglio 2010 che prevede come termine ultimo di presentazione delle offerte il 29 luglio 2010. La Borgo Piccolomini appartenente ad Alberto Manni e a Marco Cupelloni, risulta costituita in data 4 novembre del 2010, quindi postuma alla chiusura dei termini previsti per la presentazione delle offerte”. Inoltre Maruccio annota la coincidenza: “Alberto Manni, amministratore unico della Borgo Piccolomini Srl è un regista. La dottoressa Buccellato, presidente della Fondazione Niccolò Piccolomini è un attrice profesionista e ...vanta precedenti duraturi rapporti professionali con Manni avendo lavorato nella fiction “Vento di Ponente” diretta dallo stesso. Con tale contratto di locazione trentennale (per 96 mila euro all’anno Ndr) la presidente Buccellato vincola un bene facente parte di un’Ipab regionale per un periodo di gran lunga superiore alla sua carica”. Benedetta Buccellato difende la sua scelta: “Il comitato dei cittadini sbaglia a parlare di parco pubblico. Si tratta di terreni privati di una fondazione che ha il dovere di mettere il suo patrimonio a reddito per destinare i soldi al sostentamento degli attori, come prevede il nostro statuto. Il campo da golf non porterà nessuna nuova cubatura e riqualificherà la zona. Manni era solo uno dei 4 registi di quella fiction e non è un mio amico. Oggi fa l’imprenditore e ha presentato l’offerta migliore in un bando pubblico con una decina di concorrenti”.

Come è noto, la stampa italiana non ha una gran confidenza con la storia dell’arte, a meno che non si tratti di pubblicare a caro prezzo la velina dell’ultima mostra blockbuster. Non c’è dunque da stupirsi, se in queste ore in cui la farsa grottesca del crocefisso ligneo cosiddetto ‘di Michelangelo’ entra nella fase finale (vale a dire il processo alla Corte dei Conti per alcuni degli attori del suo acquisto pubblico), le pagine dei quotidiani si vadano riempiendo delle più inverosimili balle.

Non potendo certo pretendere che chi firma articoli sulla questione perda tempo a leggere le centotrenta pagine del libro che ho dedicato a questa storia ( A cosa serve Michelangelo?, Torino, Einaudi, 2011), ho pensato che rispondere alle dieci domande frequenti (Frequently asked questions) possa giovare.

1. Perché il Cristo comprato dallo Stato non è di Michelangelo?

Si legge di tutto, in questi giorni: il Cristo sarebbe una copia, un falso, un’opera di scuola. Niente di tutto questo: il Cristo è una scultura realizzata all’inizio del Cinquecento nella Firenze di Michelangelo. Ma non ha nulla a che fare con lui: non ha né lo stile né la somma qualità dell’opera del Buonarroti. È invece stata prodotta in una prolifica bottega di artigiani del legno, e conosciamo a tutt’oggi una ventina di pezzi usciti dalla stessa bottega, alcuni proprio della stessa mano. Una delle imperdonabili colpe del Mibac è stata proprio quella di non riunire in una mostra tutti questi pezzi, permettendo a tutti di farsi un giudizio.

Non sappiamo esattamente quale fosse il titolare di questa bottega: Stella Rudolphha, per esempio, proposto di identificarlo con Leonardo Del Tasso.

Come ha scritto Francesco Caglioti (tra i massimi esperti della scultura rinascimentale): «il Crocifisso appena acquisito dallo Stato non trova rispondenza né in quello di Santo Spirito né in altri lavori di Michelangelo, esso mostra invece somiglianze davvero eloquenticon un’altra decina di Crocifissi ugualmente lignei e piccoli, di solito classificati, per intesa pacifica di tutti, come opere fiorentine anonime del 1500-10 circa. Tali Crocifissi erano in parte ben noti già nel 2004 (io stesso ne avevo segnalato alcuni al venditore), ma la Sovrintendenza di Firenze adottò la curiosa scelta di non presentarne neanche uno alla mostra del Museo Horne. Ci si limitò a schedarli nel catalogo di accompagnamento, riservato a pochi occhi, mentre al grande pubblico fu concesso di osservare il Crocifisso privato a contrasto con due altri Crocifissi lignei fiorentini di dimensioni analoghe ma di tutt’altro stile (uno dei due appartenente o appartenuto – guarda un po’ – allo stesso antiquario torinese). Fu scelto, insomma, di rimuovere ogni paragone imbarazzante e di presentare la nuova scultura alla stregua di un capolavoro assoluto e irrelato».

È importante notare che, ancora alla data di oggi, gli unici storici dell’arte che si sono pronunciati per l’attribuzione a Michelangelo dell’opera sono quelli direttamente coinvolti, a vario titolo, nella pubblicazione (legittimamente) sovvenzionata dall’antiquario. In altre parole, nessun esperto terzo e indipendente sostiene che l’opera comprata dallo Stato sia del Buonarroti. Sarà dunque assai interessante seguire le deposizioni degli storici dell’arte durante il processo.

2. Cosa c’entra la Corte dei Conti con la storia dell’arte?

Sulla «Repubblica» del 18 febbraio, Antonio Paolucci ha dichiarato di non vedere «come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica». Apprendiamo così che per l’ex Ministro dei Beni culturali non esistono procedure, pareri tecnici sindacabili, consulenze terze: padrone in casa propria, perché la storia dell’arte è zona franca. Tutto questo, nei fatti, è stato fin troppo vero. Per decenni il chiuso, intoccabile mondo degli storici dell’arte si è sentito, ed è stato, letteralmente irresponsabile. Ma, naturalmente, la legge dice il contrario, e la Corte dei Conti ha ora la possibilità di affermare che non esistono zone franche dalla responsabilità verso i cittadini e i loro denari.

È importante capire che la Corte non dovrà decidere se quell’opera è o non è di Michelangelo, ma se i funzionari dello Stato hanno agito in scienza e coscienza per accertarlo (per esempio, chiedendo e acquisendo pareri autorevoli e terzi sull’autografia e sul vero valore dell’opera), o se invece c’è stata una colpa, magari grave o gravissima.

È accertato che pochi anni fa il Cristo fu comprato negli Stati Uniti per l’equivalente di diecimila euro: è normale che lo Stato lo acquisti poco dopo per 3.250.000 euro? Domanda urgentissima, in un momento in cui – per dirne una – la Pinacoteca di Brera non riesce a pagare il conto dell’energia elettrica (equivalente, per un anno, ad un ottavo di ciò che è stato pagato il cosiddetto ‘Michelangelo’).

3. Quali sono le responsabilità del Comitato tecnico scientifico storico-artistico del Mibac?

In queste ore Sandro Bondi è riemerso dalle nebbie per dirne una delle sue: il Cristo lo comprò lui – dice – ma per il «parere vincolante del Comitato consultivo»: certo, se una ha creduto alla nipote di Mubarak, può anche credere alla categoria metafisica del «consultivo vincolante».

Ma il tentativo è chiarissimo: scaricare le colpe sui tecnici veri, i quattro storici dell’arte del comitato. La tattica appare un po’ troppo comoda. Negli ultimi mesi lo stesso comitato composto dalle stesse persone ha, per esempio, espresso parere negativo sulla spedizione a Mosca di un Giotto (dove è andato a ‘impreziosire’ un assurdo inciucio di prelati assortiti) e di un importantissimo Caravaggio: ebbene, in entrambi casi il direttore generale ha spedito le opere in Russia, in barba a quel parere. Non si può dunque sostenere che quando il Comitato dice di non mettere a repentaglio Giotto il Ministero se ne può fregare, ma se dice di comprare una patacca, ebbene quel parere è vincolante. Non conosco i meccanismi del processo contabile, ma riterrei bizzarro che, alla fine, ai quattro storici dell’arte si chiedesse di restituire la stessa cifra chiesta all’allora direttore generale, o alla soprintendente di Firenze: chi dà un parere consultivo non può esser ritenuto responsabile come chi firma il decreto, o chi certifica la congruità del prezzo.

Ciò detto, se esistesse un albo degli storici dell’arte (o semplicemente degli uomini di scienza) Marisa Dalai Emiliani, Carlo Bertelli, Caterina Bon Valsassina e Orietta Rossi Pinelli meriterebbero di esserne radiati.

Per ben tre volte il Comitato è stato chiamato a vagliare la proposta d’acquisto al fine di consigliare il ministro circa l ’attendibilità dell’attribuzione, e circa il prezzo da proporre al venditore. Poiché tra i quattro membri non figurava né un michelangiolista né uno specialista di scultura rinascimentale sarebbe stato ovvio, perfino banale, aspettarsi una nutrita serie di formali consultazioni di esperti italiani e stranieri, riconosciuti e indipendenti. E invece il Comitato non fece niente di tutto questo. In ossequio alla chiara fama dei colleghi che vi avevano scritto (potere della consorteria accademica!), decise di acquisire come unica relazione scientifica il catalogo pubblicato a spese dell’antiquario nel 2004. Così, l’unico organo composto da storici dell’arte chiamato ad esprimersi ufficialmente sull’acquisto del ‘Michelangelo’ risolse la sua alta consulenza nella segnalazione dell’unica voce bibliografica disponibile: e viene da chiedersi se per far questo non sarebbe bastato un bibliotecario, o anche un libraio aggiornato. E, anzi, nemmeno questo adempimento notarile fu svolto impeccabilmente, giacché, di fatto, esso censurò l’importante e autorevole parere negativo di Margrit Lisner.

Nel far ciò, il comitato – forse perché composto in gran parte da storici dell’arte che non fanno attribuzioni – mostrò una deferenza più fideistica che scientifica verso il principio di autorità: poiché i colleghi che hanno scritto sono autorevoli, il loro parere è sufficiente. Al contrario, se anche questi illustri colleghi avessero pubblicato sulla più indipendente delle riviste, sarebbe stato comunque necessario che il comitato si rivolgesse ad esperti terzi, cioè a studiosi che non avevano impegnato il proprio nome e la propria reputazione nell’attribuzione da valutare.

Quando poi si ricordi che il catalogo del 2004 è niente di più che una articolata perizia a più voci pagata dal venditore (e non priva di parecchie mende scientifiche), non si può che rimanere sbalorditi: consigliare al ministro di acquistare l’opera basandosi su quel testo e sull’audizione della proponente è stato esattamente come se un comitato del Ministero della Sanità avesse messo in circolazione un nuovo farmaco basandosi sulla letteratura finanziata dalla casa produttrice di quel farmaco, e sull’audizione di chi ne proponeva l’adozione.

Anche nel loro caso, tuttavia, ‘dimission impossible’: salvo Orietta Rossi Pinelli (dimessasi qualche settimana fa), sono ancora tutti al loro posto a vagliare allegramente gli acquisti del Mibac. E se, almeno, Caterina Bon ha accettato un pubblico dibattito sul caso Michelangelo, Marisa Dalai Emiliani ha invece accusato di lesa maestà chiunque le muovesse una critica. Ma se la professoressa si è rifiutata di discutere della cosa con la Consulta degli storici dell’arte universitari (quelli che in teoria rappresenterebbe in seno al comitato), ora le sarà più difficile trattare con sdegnosa sufficienza i giudici della Corte dei Conti che la stanno per processare.

4. Quali sono le responsabilità di Cristina Acidini, soprintendente di Firenze?

Molte, e assai pesanti. La prima e più importante è stata quella di aver proposto (con una lettera ufficiale spedita all’allora ministro Rutelli il 25 luglio 2007) l’acquisto pubblico del Cristo. La seconda è quella di aver perorato la causa dell’acquisto in seno al Comitato tecnico-scientifico (ai cui membri riferì di«conferme sulla scultura emerse nel recente convegno fiorentino dedicato a Michelangelo»: conferme poi irrintracciabili), anche come autrice di un libro su Michelangelo. La terza – rilevantissima – è quella di aver dichiarato (il 14 novembre 2008) formalmente la congruità del prezzo richiesto (che più incongruo non poteva essere). E una delle cose che il processo aiuterà a capire è come questi tre ruoli potessero stare insieme senza macroscopici conflitti di interesse.

Anche Cristina Acidini si è sempre rifiutata di accettare un confronto pubblico sul Cristo ‘di’ Michelangelo e sulle modalità del suo acquisto. La soprintendente ha preferito buttarla in politica, sostenendo che si trattava di accuse politiche della ‘sinistra’ contro Bondi. In effetti, l’unico giornalista che l’ha indefessamente sostenuta è stato Marco Ferri (del «Giornale della Toscana»), il quale ha addirittura pubblicato un libro, con il Cristino in copertina, zeppo di errori ma zelantissimo nella difesa dell’Acidini. La quale avrà tanti difetti, ma non è un’ingrata: da qualche giorno ha nominato Ferri suo portavoce, facendoselo pagare da Opera Laboratori Fiorentini (la controllata di Civita concessionaria dei servizi aggiuntivi del Polo Museale diretto dall’Acidini stessa: alla faccia dei conflitti di interesse).

Ma, soprattutto, la macroscopica e oggettiva responsabilità dell’Acidini è quella di aver sequestrato in cassaforte il Cristino per ben due anni. La ragione di questa clamorosa decisione è stata la paura di polemiche: ma la paura è notoriamente una pessima consigliera. Se l’Acidini fosse davvero convinta di aver comprato un Michelangelo, perché non esporlo in un museo? Chi comprerebbe un tesoro per tenerlo nascosto? E se occultare il corpo del reato fa aumentare i sospetti, negare ai cittadini la vista di un’opera acquistata coi loro soldi non fa che aumentare il danno erariale.

5. Quali sono le responsabilità dell’attuale Sottosegretario ai Beni Culturali, Roberto Cecchi?

Il vero motore decisionale dell’acquisto del ‘Michelangelo’ è stato l’allora direttore generale Roberto Cecchi. È stato lui a imprimere la svolta risolutiva ad una pratica che avrebbe potuto essere archiviata; è stato lui a fissare il prezzo, decidendo di sottrarre oltre tre milioni di euro ad un bilancio già ridotto all’osso; è stato (soprattutto) lui a firmare il decreto di approvazione del contratto di acquisto (l’atto ufficiale e decisivo di tutta la vicenda); è stato lui a difendere vibratamente l’acquisto, firmando il memoriale di risposta all’interrogazione parlamentare. Insomma, la sua presenza negli studi del Tg1 (il 21 dicembre 2008, edizione delle 20) accanto al ministro e alla scultura stessa ha tradotto in immagine un ruolo effettivo.

Se a Cecchi è andata la gloria, sempre a lui si dovrebbe imputare anche la responsabilità di aver condotto la faccenda in un modo che ha aperto le porte alle polemiche (che, alla fine, hanno guastato su scala planetaria la festa michelangiolesca), e soprattutto alle indagini della Corte dei Conti e della Procura di Roma. Il direttore generale, infatti, ha accettato come oggettiva la perizia del venditore (il catalogo del 2004, sdoganato dal parere notarile del Comitato tecnico scientifico), senza coprirsi le spalle con lo straccio di uno studio indipendente; non è riuscito a farsi dire da dove venisse davvero il pezzo (finendo così a girare al pubblico del Tg1 la leggenda della «derivazione fiorentina»); non si è preoccupato di indagare sul perché l ’Ente Cassa di Risparmio di Firenze avesse rinunciato all’opera; ha permesso che a certificare il prezzo fosse la stessa funzionaria che aveva proposto l’acquisto, creando così un macroscopico caso di conflitto di interesse. E, soprattutto, non si è chiesto perché un vero Michelangelo rimanesse per anni a disposizione, ed anzi fosse finito ai saldi, facendosi comprare per un sesto della (già stracciatissima) richiesta iniziale. Ora, in qualsiasi paese civile (financo nello Zimbabwe, avrebbe detto il mitico Mauro Masi) un funzionario che copre di ridicolo il suo Ministero e il suo ministro viene gentilmente invitato a passare ad altro incarico. In Italia, invece, viene promosso al ruolo di onnipotente Segretario generale del medesimo Ministero, e poi fatto sottosegretario in quanto supertecnico in un immacolato governo di tecnici. Salvo comportarsi come il peggior politico berlusconiano, insinuando (grazie ad un compiacente Paolo Conti, sul Corsera del 19 febbraio) che il suo ‘rinvio a giudizio’ presso la Corte dei Conti farebbe parte di una ‘macchinazione’. Nientemeno! Le toghe rosse vogliono abbeverare i loro cavilli nelle cristalline fontane del Mibac!

6. Quali sono le responsabilità dell’ex Ministro dei Beni Culturali, Sandro Bondi?

L’assetto giuridico sottrae in questo caso il ministro in carica al momento dell’acquisto ad ogni responsabilità contabile. Ma Sandro Bondi ha messo con eccezionale entusiasmo la propria faccia nell’operazione e ha strumentalizzato senza ritegno il nome di Michelangelo e l’iconografia sacra dell’opera. Ciò che, poi, si deve attribuire interamente a Bondi e alla sua appartenenza politica è l’ eccezionale amplificazione, anzi la vera e propria trasfigurazione mediatica del nuovo ‘Michelangelo’. Da questo punto di vista, la vicenda ha rappresentato una esemplare applicazione alla storia dell’arte di uno dei principi cardine del berlusconismo: la fede illimitata nel marketing della comunicazione.

La brevissima prefazione di Bondi al catalogo pubblicato in occasione dell’ ostensione del Cristo a Montecitorio, è identica al comunicato stampa con il quale il ministro aveva annunciato e commentato l’acquisto il 12 dicembre 2008, e individua con chiarezza i due poli tra i quali si sarebbe poi mossa la macchina della propaganda: il nome sommo di Michelangelo e la somma sacralità del tema del Crocifisso. Sul primo punto, il ministro scrive: «In un momento delicato e di crisi come quello che stiamo attraversando, è fondamentale dedicare le poche risorse disponibili a progetti e iniziative che abbiano un significato così alto che possiamo consegnare alle generazioni future». È un concetto chiave per comprendere non solo la genesi dell’acquisto del ‘Michelangelo’, ma anche l’intera visione di Bondi: ed è difficile immaginare un concetto altrettanto intrinsecamente sbagliato. Innanzitutto, esso sancisce una resa incondizionata e senza speranze verso lo scellerato prosciugamento del bilancio dei Beni Culturali, che proprio sotto il quarto governo Berlusconi è arrivato a record inimmaginabili.

È in questo contesto che Bondi arrivò a teorizzare che la risposta a un simile disastro potesse essere la concentrazione delle poche energie residue su opere ed eventi tanto celebri e illustri da assurgere ad un rango simbolico. Un’idea grave non solo perché rivela che l’acquisto del Crocifisso ‘di Michelangelo’ è stato pensato come una foglia di fico enfaticamente posta sull’enorme vergogna dell’abbandono della tutela perpetrato dal governo (da tutti i governi recenti, di destra o di sinistra). Essa è ancor più grave per il valore profondamente diseducativo che rischia di avere su un’opinione pubblica già pericolosamente esposta al rischio di una desertificazione culturale che lascia vivi (ma a questo punto vuoti e muti) solo i nomi di Michelangelo e Leonardo, di Caravaggio e Van Gogh.

7. Cosa c’entra in questa storia Antonio Paolucci?

Moltissimo, quasi tutto: anche se l’attuale direttore dei Musei Vaticani non ha avuto responsabilità burocratiche (e dunque eviterà il processo alla Corte dei Conti), è lui il regista e il motore immobile dell’acquisto pubblico dell’opera. Come Soprintendente di Firenze, nel 2004 egli ‘lanciò’ la scultura ospitandola presso il Museo Horne in una mostra che la presentava, senza se e senza ma, come un Michelangelo e il cui catalogo (da lui sdoganato con una prefazione istituzionale) era di fatto una perizia pagata dall’antiquario che possedeva il pezzo. E quel catalogo (in cui egli stesso sposava l’attribuzione) divenne poi decisivo per l’acquisto pubblico dell’opera.

Il 6 agosto 2007 Paolucci scrisse all’allora ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli consigliandogli «di prendere in seria considerazione l’acquisto» dell’opera, che giudicava «di superba qualità e straordinario interesse». In seguito, e fino a questi giorni, Paolucci ha difeso a spada tratta l’acquisto e la sua pupilla, e successora a Firenze, Cristina Acidini.

8. Cosa c’entra in questa storia Federico Zeri?

Probabilmente niente. Zeri è stato tirato in ballo esattamente dieci anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1998. Un articolo di Antonio Paolucci apparso sull’ «Osservatore Romano» del 16 dicembre 2008 enfatizzava la presunta eccezionalità dell’opera con un titolo audace fino alla blasfemia: “Se non è Michelangelo è Dio”. La frase era tra virgolette perché attribuita proprio a Federico Zeri: ma Paolucci l’aveva ricavata da un articolo del «Giornale dell’arte» del maggio precedente dello stesso 2008, che non cita né fonte né testimoni. Dunque, una patacca nella patacca.

9. Cosa c’entra in questa storia Salvatore Settis?

Evidentemente non avendo migliori argomenti di autodifesa, Roberto Cecchi sta cercando di appollaiarsi sulle spalle dei ‘padri della patria’ della storia dell’arte: in un’intervista al Corriere della Sera (19 febbraio 2012) ha ripetuto il mantra di Zeri, e ha tirato fuori dal cassetto una email di Settis del novembre 2008, in cui l’allora presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali definiva «ottima» la decisione di acquistare un Michelangelo.

Nella sua replica (Corsera del 20 febbraio), Settis ha chiarito che questa «è una citazione irrilevante. Durante la mia presidenza il Consiglio Superiore non ha mai, neppure per un secondo, parlato del Crocifisso (lo fece invece il Comitato di Settore per la Storia dell’arte): è dunque evidente che non posso aver parlato in nome del Consiglio. Né posso aver fatto attribuzioni, e non solo perché non sono un esperto di scultura del tardo Quattrocento, ma perché non ho mai visto (ad oggi) quel crocifisso, e non ho l’abitudine di esprimere pareri senza aver visto. La verità è molto più semplice, anzi banale; e ringrazio Cecchi per aver citato la data dalle mia email (18 novembre 2008), che aiuta a ricostruire il contesto.

Era allora in corso un durissimo scontro con l’allora ministro Bondi: egli tacque quando il bilancio del suo ministero subì un taglio pesantissimo di oltre un miliardo, ma si agitò quando io ne scrissi sul Sole-24 ore del 24 luglio 2008; il sottosegretario Giro ed altri mi invitarono allora alle dimissioni, che Bondi respinse. Ma la gravità della situazione mi spinse a intervenire ripetutamente nei mesi successivi, con alcuni articoli su Repubblica, uno su Die Welt e numerose interviste, in Italia e fuori. […] È in questo clima polemico che Cecchi, senza darmi particolari né sulle procedure né sul prezzo, mi chiese “abbiamo i soldi per comprare un probabile Michelangelo, che ne pensi?”. In quel contesto, c’era un solo senso possibile: verificare se avrei criticato il Ministero, magari sui giornali, perché, in tempi di magra, non destinava quei soldi altrimenti. E la mia risposta aveva un solo senso possibile: la convinzione che, anche in tempi di magra, un buon acquisto può essere un segnale positivo. Nessuna implicazione di tipo istituzionale, né tanto meno attributivo. Non potevo allora immaginare gli inquietanti retroscena che avrebbe più tardi rivelato Tomaso Montanari nel suo A cosa serve Michelangelo?».

10. Perché questa è una storia davvero importante?

La vicenda del finto Michelangelo acquistato dal governo Berlusconi è una metafora perfetta del destino dell’arte del passato nella società italiana contemporanea: raccontarla significa parlare del potere del mercato, dell’inadeguatezza degli storici dell’arte, della cinica manipolazione dei politici e delle gerarchie ecclesiastiche, del sistema delle mostre, del miope opportunismo dell’università e della complice superficialità dei mezzi di comunicazione. La storia del finto Michelangelo insegna che l’amore per l’arte può essere distorto e strumentalizzato fino a diventare un potente vettore di diseducazione, imbarbarimento e mistificazione.

Se vogliamo che Michelangelo non serva solo agli interessi di un pugno di cinici registi del pubblico intrattenimento, ma torni ad essere necessario alla vita interiore di ciascuno di noi, dobbiamo ricominciare a raccontare la storia dell’arte. Quella vera.

A sentire i protagonisti di ieri, che calcano le scene di oggi, sembra che nulla sia accaduto. Invece tutto è già successo. Senza una trascinata agonia, come accadde nel passaggio tra la prima e la seconda repubblica, e con una velocità che non ha precedenti nella storia recente. Un’accelerazione che ha imprigionato i partiti in una terra di mezzo, dove ciò che era prima non c’è più e dove ancora manca un indizio che parli al futuro.

Come voterebbero gli italiani oggi? La tabella

E’ vero che, in termini relativi, il Pd si conferma prima forza politica con il 27% e il Pdl scende al 23%, con una perdita di oltre 14 punti rispetto alle politiche del 2008. Ma è un dettaglio rispetto a quanto sta accadendo nelle dinamiche più generali che riguardano la struttura del sistema politico nel suo complesso. In termini assoluti (cioè considerando tutti gli elettori) sta prendendo corpo qualcosa di più profondo rispetto alle dinamiche osservabili in superficie, testimoniato proprio dai dati dell’indagine realizzata da Tecné

Innanzitutto, i due principali partiti hanno perso, rispetto a quattro anni fa, il 30% dei consensi. Oggi, la somma dei voti che otterrebbero insieme è pari al 27,7% degli aventi diritto, rispetto al 54,7% del 2008. In secondo luogo la perdita di consenso dei due principali partiti non si compensa all’interno dello stesso schieramento, né si orienta verso il campo opposto, ma si dispone verso l’area dell’astensione. Se si votasse oggi, infatti, sceglierebbero un partito di centrodestra o uno di centrosinistra, solo il 42,6% degli elettori, mentre, nel 2008, l’area del consenso, polarizzato all’interno delle due principali coalizioni, riguardava 7 elettori su dieci.

Terzo aspetto: l’area del non voto è salita al 44,6%, superando, per la prima volta, l’insieme dei consensi convergenti su opzioni alternative rispetto al governo del Paese. Un rovesciamento dei rapporti che indica che si è fortemente ridotta la capacità attrattiva dei due principali partiti e, conseguentemente, delle due principali opzioni politiche. Una forza di gravità che, fino a qualche anno fa, i partiti erano in grado di esercitare nei confronti degli elettori, orientandoli e attivando consensi rispetto a ipotesi alternative di governo.

Ma se è sbagliato pensare di interpretare i sondaggi, come una bocciatura o una promozione, altrettanto sbagliato è interpretare il calo della partecipazione come il manifestarsi di un diffuso sentimento di antipolitica. Sembra emergere, invece, una forma di apatia verso le tradizionali espressioni della politica, dovuta non tanto alla distanza dai luoghi istituzionali ma al declino di una cultura dell’impegno che aveva segnato profondamente il secolo scorso.

Nel calo della partecipazione tradizionale non c’è, infatti, il segnale di un rifiuto, quanto di una trasformazione delle modalità che danno corpo ad atteggiamenti e comportamenti nuovi. Un processo che corrisponde a un cambio di prospettiva, che non parla solo italiano: i cittadini delle società contemporanee sono sempre meno favorevoli a sostenere le gerarchie istituzionali e le grandi organizzazioni come i partiti di massa, perché vogliono incidere direttamente nella cosa pubblica. E vogliono farlo in forme non tradizionali. Questa spinta ha portato verso un cambio dei paradigmi riconducibili all’impegno politico tradizionale, particolarmente visibile nelle nuove generazioni, più esposte ai processi di cambiamento valoriale e al post-materialismo.

I cittadini non sono distaccati dai valori civili e democratici, non sono disimpegnati. Al contrario, diventano sempre più competenti, interessati, e si mobilitano prevalentemente in forme non convenzionali, all’interno di piccole organizzazioni e gruppi, spesso informali. La partecipazione oscilla da forme più impegnate a forme più leggere, con modalità di mobilitazione più discrete, dove manca un carattere ideologico strutturato, tanto che i cittadini faticano a definirsi “politicamente attivi”. Un impegno che corrisponde a un’articolazione multi-dimensionale della società e della politica, dove le attività sono ispirate da motivazioni differenti e persino divergenti all’interno dello stesso ambito. Se si assiste a un progressivo indebolimento della fedeltà di partito è perché il focus dell’impegno si è spostato progressivamente da azioni partecipative dentro i partiti, ad azioni auto-dirette all’interno dei nuovi ambiti in cui si articola la società.

Per ricucire il legame con i nuovi cittadini, meno sensibili al richiamo ideologico, occorre rovesciare i paradigmi che hanno ispirato le scelte dei partiti negli ultimi anni, puntando sulla realizzazione di reti orizzontali piuttosto che su intelaiature verticali, portando la politica nei luoghi, anziché i luoghi alla politica. Non è sufficiente utilizzare i social network per essere al passo con i tempi. I tentativi, anzi, appaiono persino goffi. C’è un’inflazione di partiti e di politici che occupano la rete in modo improprio e con linguaggi inadeguati, che ritengono internet un nuovo “strumento” per raccogliere adesioni da contabilizzare con i vecchi metodi, quando, invece, internet è un “luogo”, dove le idee e i progetti possono prendere forma e maturare in una dimensione politica veramente nuova, senza per questo sovrapporsi o necessariamente intrecciarsi con il vecchio. Innovare usando facebook e gli altri social come fossero sedi di partito virtuali, o twitter come un ufficio stampa più fashion, è solo il segno dell’incapacità di leggere il mondo e i suoi fenomeni.

Occorre esplorare strade nuove. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di governo della società, dove la Polis ha una dimensione politica e non solo amministrativa. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che non si è indebolita, ma ha assunto soltanto nuove forme di espressione.

La Regione boccia il Pgt di Monza targato Lega e Pdl e firmato da Paolo Romani, ex ministro dello Sviluppo economico e, fino a qualche mese fa, plenipotenziario di Berlusconi nelle vesti di assessore all’Urbanistica. La maggioranza, però, fa sapere di essere pronta ad impugnare il parere uscito dal Pirellone. Esulta invece l’opposizione di centrosinistra: «Con oggi si è messa la parola fine sul mandato di questa amministrazione». Una batosta per la maggioranza che aveva puntato forte sul documento di programmazione urbanistica, per il quale si era speso anche l’ex premier. Risale a poche settimane fa il vertice a Villa San Martino con i maggiorenti del Pdl locale nel quale il padrone di casa aveva dettato la linea da seguire: «Prima si approva la variante, poi si parla di candidati».

Sei i poli strategici e 41 gli ambiti di trasformazione individuati dalla maggioranza, 314 gli ettari interessati dal progetto che avrebbe ridisegnato lo skyline del capoluogo brianzolo. Una colata di 4 milioni di metri cubi di cemento per far spazio e 35mila abitanti in più. Tra gli interventi più discussi la Cascinazza, l’area verde che finisce a mollo con due gocce d’acqua, dove era stato dato il via libera a un intervento di 420mila metri cubi tra residenziale e terziario. Di proprietà della Istedin di Paolo Berlusconi, finita nelle mani di Axioma Real estate per 40 milioni di euro. Nell’atto di compravendita (ottobre 2007) era stata inserita anche una clausola di non poco conto: nel caso la zona fosse stata resa edificabile, la vecchia proprietà avrebbe ricevuto un secondo assegno da 60 milioni di euro.

Quando ormai la giunta credeva di aver messo in cassaforte la maxi variante è arrivata la doccia fredda. La Direzione generale territorio e urbanistica della Lombardia, punto per punto mette in discussione l’intero progetto. Manca, si legge nelle 52 pagine, «la riqualificazione del territorio e la minimizzazione di consumo di suolo libero». Di più: «L’impostazione del piano non sviluppa i requisiti richiesti dalla normativa regionale». L’assessore monzese all’urbanistica, Silverio Clerici, ha radunato la sua squadra che già da ieri sera è al lavoro per preparare la controffensiva. «Presenteremo delle controdeduzioni, per noi non cambia nulla» obietta l’assessore. «Non hanno i tempi per rattoppare. La Regione ha stroncato l’intero programma di questa amministrazione», replica Roberto Scanagatti, capogruppo del Pd. Le elezioni del 6 maggio incombono, del Pgt di Monza si dovrà parlare nella prossima amministrazione.

Pgt in aula, tre mesi per la Milano del futuro

di Alessia Gallione

Un anno dopo, Milano ci riprova. Un’altra maratona, un’altra battaglia per approvare il nuovo Pgt rivisto e corretto dalla giunta Pisapia che oggi torna in Consiglio comunale. E un traguardo che, realisticamente, Palazzo Marino ha tracciato: fare in modo che le regole dell’urbanistica diventino legge entro l’estate. Tre, al massimo quattro mesi di tempo considerando che a marzo l’aula dovrà affrontare il dibattito sul bilancio, già annunciato ad alta tensione.

Sarà una seduta importante quella del Consiglio di oggi: prima la discussione sulla delibera che permetterà alla giunta di concludere l’accordo con le banche per i derivati. Subito dopo, l’esigenza - per rispettare tempi e scadenze - di dare avvio al percorso del Pgt con la relazione all’aula dell’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris.

Era il 4 febbraio del 2011 quando la giunta Moratti riuscì ad approvare il suo Piano di governo del territorio. Un documento mai pubblicato che il nuovo esecutivo ha revocato per riaprire la rilettura delle 5mila osservazioni di cittadini, associazioni, operatori. Oltre 2mila sono state accolte ed è così che molti punti sono cambiati: le quantità di cemento sono state ridotte così come le previsioni di nuovi abitanti; le volumetrie che avrebbe generato il Parco Sud cancellate; il tunnel Expo-Linate eliminato. Adesso l’imperativo del centrosinistra è fare in fretta. Senza stravolgere, con il passaggio in aula, le nuove regole. Con appelli che partono in direzione centrodestra: «Ci daremo un programma e la possibilità di approfondire anche in altre sedute di commissione - dice la capogruppo del Pd, Carmela Rozza - Ci auguriamo però che le opposizioni abbiano la consapevolezza di quanto sia importante dare alla città regole urbanistiche, e che abbandonino lo strumento dell’ostruzionismo».

Per il capogruppo del Pdl Carlo Masseroli, tuttavia, il dibattito di oggi non dovrebbe neppure cominciare: «Non è stato possibile - dice - affrontare nel merito molte questioni: sembra che la maggioranza abbia paura». Le critiche piovono anche sul metodo: «Il Piano è stato modificato in modo sostanziale e dovrà essere ripubblicato per riaprire una nuova fase di ascolto della gente». Se no scatterà un ricorso? «Spero di non essere messo nelle condizioni di doverlo fare - dice l’ex assessore all’Urbanistica - perché politicamente non è la partita che vorrei giocare. Temo però che i ricorsi saranno moltissimi». Le osservazioni sono state divise in 99 gruppi. Sarà il Consiglio, adesso, a stabilire come impostare il dibattito. Anche se il presidente Basilio Rizzo si augura che non siano necessarie «maratone notturne dettate solo dalla volontà di fare ostruzionismo. Pensiamo piuttosto a lunghe sessioni di lavoro durante il giorno».

"Troppi cantieri sono arenati alla città servono regole subito" (intervista all’assessore De Cesaris)

«Questa amministrazione l’aveva promesso: avrebbe chiuso il lavoro delle osservazioni e portato in Consiglio la sua proposta di Pgt all’inizio del 2012. Adesso chiediamo a tutti di partecipare a un lavoro che deve essere di confronto e approfondimento, con un obiettivo: fare presto». Eccolo, l’appello dell’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris.

Perché è importante che il Pgt sia approvato velocemente?

«Perché Milano ha bisogno di nuove regole. E perché, se si supera questo momento di conflitto politico sulla pianificazione, si può cominciare a occuparsi in modo serio di quale disegno si voglia dare alla città, tenendo conto del numero e dell’impatto di interventi ancora in corso e delle forti criticità che molti presentano, soprattutto in periferia».

Si riferisce a quartieri come Santa Giulia?

«A Santa Giulia, ma anche a piani come Rubattino, Marelli, Porta Vittoria... C’è un’enormità di progetti che vanno avanti a singhiozzo e che vanno reinseriti in un contesto generale. Dobbiamo riannodare i fili di interventi avviati che vanno ripensati per essere portati a termine garantendo, però, infrastrutture e verde».

Qual è il disegno di città che viene fuori da questo Pgt?

«Questo Piano ha in sé un’idea di città in cui lo sviluppo non può coincidere con un’incondizionata crescita edilizia. Al centro di ogni trasformazione urbana deve esserci l’interesse collettivo, il miglioramento della qualità della vita».

Non teme l’opposizione dei costruttori?

«Parlare di indici in un momento di crisi del mercato non ha molto senso. Quello che il Pgt mette in gioco è la possibilità di costruire rispondendo alle effettive esigenze dell’abitare, di rimettere in comunicazione domanda e offerta reali».

A cosa si riferisce, all’housing sociale?

«Sicuramente la residenza sociale, in tutte le sue declinazioni, è la vera scommessa. Ma penso anche alla possibilità di realizzare trasformazioni che poi non rischino di morire ancora prima di essere terminate o che siano prive di collegamenti, parchi, strutture pubbliche».

Questo Pgt non è stato scritto ex novo dalla giunta. Qual è il cambiamento di cui è più orgogliosa e quale, invece, quello che non è riuscita a fare?

«Sicuramente questo non è il mio Piano. Ma sono molto contenta delle scelte fatte per il Parco Sud, di aver limitato una pioggia di volumetrie che difficilmente avremmo gestito. Attraverso la rilettura delle osservazioni, poi, abbiamo ridato, non in modo ideologico, una funzione alla regìa pubblica. So, invece, che tutta la parte relativa alla mobilità e alle infrastrutture è rimasta debole: dovremo occuparci quanto prima del Piano urbano della mobilità».

L’opposizione vi accusa di aver stravolto il Pgt.

«Non è stato stravolto. Abbiamo ascoltato la città, recepito i pareri dei vari enti, tenuto conto dell’esito dei referendum ambientali. Un Pgt è sempre la sintesi della proposta che fa un’amministrazione e delle osservazioni dei cittadini, che comportano inevitabilmente modifiche e aggiornamenti».

Crede che, economicamente, l’impianto stia in piedi?

«Per noi i conti tornano. Certo, a chi consuma un bene come il suolo chiediamo di partecipare alla costruzione della città pubblica con case di edilizia sociale, con servizi».

Teme ricorsi?

«Un ricorso non si nega a nessuno. Il vecchio Piano è stato impugnato ancora prima di essere pubblicato e, nella mia storia professionale di avvocato, non ho notizie di Pgt che non lo siano stati. L’importante è aver lavorato nel rispetto della legge».

1. Dall’Unità d’Italia alla caduta del fascismo

1.1. I primi provvedimenti

L’Italia unita tarda a dotarsi di norme per la tutela dei beni culturali e del paesaggio, e ciò è dovuto non tanto alla difficoltà di definire gli oggetti da salvaguardare quanto alla concezione integralistica della proprietà, a quel tempo ancora prevalentemente considerata jus utendi atque abutendi. Secondo Giuseppe Galasso, è solo nel periodo giolittiano che la necessità di provvedere alla tutela si traduce in iniziative legislative, “in quel periodo, cioè, della sua storia nazionale in cui l’Italia varcò molte frontiere della modernità e dei congiunti progressi, a cominciare da quella di un definitivo decollo quale paese industriale”.

In effetti, la prima legge per la protezione del territorio è quella (n. 411), approvata nel 1905, quarantacinque anni dopo l’Unità d’Italia, che riguarda solo la conservazione della Pineta di Ravenna. Una legge fortemente voluta da Luigi Rava, a quel tempo ministro dell’Agricoltura, industria e commercio, e subito dopo ministro della Pubblica istruzione. Nel 1909 ancora una legge parziale (364/1909) per la tutela delle antichità e belle arti, approvata dal Senato con l’eliminazione dei riferimenti alle bellezze naturali com’era stato richiesto dal ministro Rava.

Soltanto nel 1922 (sono passati 62 anni dall’Unità) vede la luce la legge generale (n. 788) per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico, che resta in vigore fino al 1939. Il decreto legge che l’aveva preceduta era stato presentato due anni prima da Benedetto Croce, ministro della Pubblica istruzione nell’ultimo governo Giolitti (1920 – 1921), il quale, tra l’altro, aveva messo in luce “che anche il patriottismo nasce dalla secolare carezza del suolo agli occhi, ed altro non essere che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, i quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli”. Il contenuto della legge del 1922 (solo sette articoli contro i 184 del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2008) è ben sintetizzato dal suo primo articolo: “Sono dichiarate soggette a speciale protezione le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le bellezze panoramiche”. Sono evidentemente tutt’altro che facili la distinzione fra la bellezza naturale e quelle panoramiche, oltre che il riconoscimento del carattere “notevole” e “pubblico” dell’interesse alla protezione. Di ciò si discusse lungamente negli anni successivi.

1.2. Urbanistica e tutela. Il disegno di legge Di Crollalanza.

Nel 1933 fu elaborato, per iniziativa del ministro dei Lavori pubblici Araldo Di Crollalanza, un disegno di legge urbanistica che prevedeva, fra i contenuti dei piani regionali, anche appositi vincoli per la tutela delle bellezze artistiche o panoramiche. Quella proposta non fu approvata per l’opposizione della federazione nazionale fascista della proprietà edilizia, e per quasi un decennio la nuova legge urbanistica fu accantonata. Ma la necessità che la pianificazione urbanistica comprendesse la tutela continuò a essere presente nel dibattito di quegli anni. Nel 1938, su «Urbanistica», rivista dell’Istituto nazionale di urbanistica (Inu), Virgilio Testa sostiene che: “La tutela delle bellezze panoramiche deve essere […] non l’elemento unico per la formazione di un piano regolatore paesistico ma uno degli elementi certo fra i più importanti in determinate località, per la disciplina integrale, dal punto di vista urbanistico, di zone più o meno vaste di territorio. La tutela delle bellezze panoramiche deve essere, cioè, inserita fra gli scopi da raggiungere attraverso la formazione di quei piani regolatori che fuori d’Italia hanno preso il nome di «piani regionali», e che tendono appunto alla disciplina integrale di zone più o meno vaste di territorio, avuto riguardo alla tutela del panorama, al miglioramento del traffico, all’impianto e perfezionamento dei servizi pubblici, alla zonizzazione, alla creazione di nuovi aggregati edilizi, ecc.”. Analoghe proposte sostenne Gustavo Giovannoni nel successivo fascicolo di Urbanistica.

1.3. Giuseppe Bottai e la legge n. 1497/1939

Prima che si concludesse il dibattito sulla legge urbanistica, fu però approvata la legge 1497/1939, sulla “protezione delle bellezze naturali”, subito seguita dal regolamento d’attuazione approvato con regio decreto (n. 1357/1940). La nuova legge, fondamentale e di lunga durata, dovuta in particolare all’impegno del ministro Giuseppe Bottai, riprende in parte i principi e le formulazioni della legge del 1922, aggiungendo peraltro l’importante distinzione fra le “bellezze individue” e le “bellezze d’insieme” Ma il pregio indiscutibile e l’originalità assoluta della legge 1497 sta nella previsione della pianificazione paesistica. Infatti l’art. 5, attribuisce al ministro dell’Educazione nazionale la “facoltà di disporre un piano territoriale paesistico”, volto a impedire un’utilizzazione pregiudizievole alla bellezza panoramica delle località vincolate dalla medesima legge. La relazione al disegno di legge (a firma del ministro Bottai), pone in evidenza il fatto che “la vigente legge non conosce i piani territoriali paesistici e quanto ai piani regolatori urbani detta una norma affatto insufficiente”.

La successiva legge urbanistica (n. 1150/1942) è conseguentemente priva di norme di tutela e regola solo le espansioni e le trasformazioni urbane. Detta legge, nonostante sia stata più volte oggetto di modifiche e integrazioni (cfr. successivo paragrafo 2.2), è anch’essa di lunga durata e tuttora in vigore. Un tentativo di radicale riforma fu tentato nei primi anni Sessanta per iniziativa del ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo, democristiano, sconfessato però del suo partito la proposta finì su un binario morto.

Con la legge sulle bellezze naturali del 1939 e quella urbanistica del 1942 si istituì la distinzione fra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche, una separazione che, nel bene e nel male, opera da settanta anni e caratterizza tuttora l’assetto dei poteri pubblici in materia di organizzazione del territorio.

Restano da ricordare le leggi relative ai primi parchi nazionali – Gran Paradiso (1922), Abruzzo (1923), Circeo (1934) e Stelvio (1935) – che, per ragioni di spazio, non sono oggetto della presente nota. Esse tuttavia testimoniano l’attenzione in quegli anni per la protezione della natura, ove si consideri che il primo parco nazionale istituito dopo il fascismo è quello della Calabria del 1968.

2. Dalla Costituzione repubblicana al Codice del 2008

2.1. L’art. 9 della Costituzione

Com’è noto, fra i 12 articoli della Costituzione relativi ai principi fondamentali è compreso l’articolo 9 (“La repubblica promuove lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). La repubblica italiana fu il primo Stato al mondo a considerare nella propria costituzione la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio. È impossibile fermarsi qui sull’importanza di quella decisione e si rinvia all’ultimo libro di Salvatore Settis.

Si deve invece osservare che il dettato costituzionale è restato per anni dimenticato e negletto. Anche i piani paesistici sono stati trascurati. A parte il piano paesistico dell’Isola d’Ischia, approvato nel 1943, negli ultimi mesi del fascismo, nel dopoguerra, prima della legge Galasso (1985) sono stati approvati solo 12 piani paesistici: S. Ilario di Genova-Nervi (1953), Osimo (1955), Monte di Portofino (1958), Appia Antica (1960), Versilia (1960), Gabicce Mare (1964), Argentario (1966), Sperlonga (1967), Assisi (1969), Ancona Portonovo (1970), Procida (1971), Terminillo (1972). Sono piani paesistici molto diversi da come li immaginiamo oggi. Alcuni sono limitati a minuscole porzioni di spazio: quello della zona di via Cinque Torri e via Leopardi in comune di Osimo, interessa appena 6 ettari, una specie di piano particolareggiato. Pessimo – come vedremo – il piano dell’Appia Antica, in effetti un vero e proprio programma di devastazione, che prevedeva nuova edilizia per milioni di metri cubi, fatta salva un’esigua fascia di rispetto a cavallo della regina viarum. Altri piani paesistici, invece, pur se in forma rudimentale, prevedevano norme drastiche, rigidissime. Il piano dell’Isola d’Ischia, approvato nel 1943, progettista Alberto Calza Bini, imponeva l’inedificabilità lungo quasi tutta la costa e nel nucleo interno dell’Isola. La metà circa delle aree edificabili consentiva indici di copertura molto bassi. È appena il caso di ricordare che quel piano è stato del tutto disatteso e, com’è noto, l’Isola d’Ischia, dopo la seconda guerra mondiale, è stata massacrata dalla speculazione edilizia legale e abusiva, nel sostanziale disinteresse delle amministrazioni comunali, regionali e statali. Analoga la sorte degli altri piani, approvati e sepolti nei cassetti ministeriali.

Esiste poi una sorta di seconda generazione di piani paesistici, quelli promossi nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso dalla Cassa per il Mezzogiorno con il lodevole intento di proteggere i 29 comprensori di sviluppo turistico individuati dalla stessa Cassa nei più bei luoghi del Mezzogiorno. Sono stati definiti “piani interrotti”, perché oggetto di lunghe, complesse, talvolta apprezzabili soluzioni, ma nessuno di essi è mai stato approvato.

2.2. La tutela nella pianificazione urbanistica

Il doppio regime. Abbiamo visto che in Italia, in materia di organizzazione del territorio, operano due regimi distinti: quello specifico delle tutele, che fa capo alla legge del 1939 e il regime delle trasformazioni urbanistiche, che fa capo alla legge del 1942 e ai successivi precetti statali (e poi regionali). Ma nel dopoguerra la disciplina urbanistica si è a mano a mano arricchita di contenuti fino a comprendere la salvaguardia dell’integrità fisica e dell’identità culturale. Tant’è che, talvolta, come vedremo, la strumentazione urbanistica è stata più efficace di quella specialistica ex lege 1497/1939.

In questo processo evolutivo è stata fondamentale la cosiddetta legge ponte (n. 765/1967), che include fra i contenuti propri del piano regolatore generale “la tutela del paesaggio e di complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici” (per la prima volta la parola “paesaggio” ex art. 9 della Costituzione è ripresa da una legge ordinaria). La legge ponte fu voluta da Giacomo Mancini, ministro dei Lavori pubblici negli anni del primo centro sinistra, per rispondere all’indignazione provocata dalla frana di Agrigento del luglio 1966 causata dall’immane sovraccarico dell’edilizia speculativa. Fu definita “ponte” perché doveva rappresentare un rimedio provvisorio, nell’attesa di un organico provvedimento di riforma urbanistica (quello che stiamo ancora aspettando).

Dieci anni dopo, il decreto presidenziale (616/1977) che regola il trasferimento delle funzioni dallo Stato alle Regioni definisce all’art. 81 la materia urbanistica come “la disciplina dell’uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione dell’ambiente” (definizione di Massimo Severo Giannini).

La tutela dell’Appia Antica. L’obbligo o la facoltà di tutela da parte degli strumenti urbanistici non sono stati soltanto riconosciuti legislativamente, ma anche, come ricordato prima, ripetutamente utilizzati nella pratica della pianificazione. Solo qualche esempio. Il caso certamente più importante è quello del piano regolatore di Roma approvato dal ministero dei Lavori pubblici nel 1965 (non erano state ancora istituite le Regioni a statuto ordinario). Il decreto ministeriale di approvazione introdusse, per “preminenti interessi dello Stato” una strepitosa modifica al piano adottato, sottoponendo a tutela, e quindi destinando a parco pubblico, oltre duemila ettari dell’Appia Antica e della campagna circostante, da porta San Sebastiano al confine comunale. Ai fini del nostro discorso, va soprattutto messo in evidenza che con il decreto di approvazione del piano regolatore furono eliminate le possibilità edificatorie consentite invece dal già citato pessimo piano paesistico dell’Appia Antica del 1960.

Fra gli esempi illustri di urbanistica sposata alla tutela, si devono ricordare ancora almeno il piano regolatore di Firenze del 1962 (sindaco Giorgio La Pira, assessore all’urbanistica Edoardo Detti) che, tra l’altro, impose la tutela delle colline che racchiudono la città; e poi i piani coordinati dei comuni della maremma livornese dei primi anni Sessanta del secolo passato. E, ancora, Ferrara, la sua prodigiosa “addizione verde”, prevista dal piano regolatore del 1975, più di mille ettari fra la cinta muraria e il Po, destinati a formare un gran parco urbano come parte integrante del centro storico. Infine, mi permetto di menzionare il nuovo piano regolatore di Napoli, approvato nel 2004, che ha sottratto all’edificazione, per ragioni di tutela, quanto resta del territorio comunale non coperto di cemento e di asfalto nei decenni precedenti.

La tutela dei centri storici. La legge ponte del 1967 va ricordata anche per aver imposto un’appropriata tutela dei centri storici, riprendendo di fatto il principio dell’inscindibile unitarietà degli insediamenti storici definito nella cosiddetta ‘Carta di Gubbio’ approvata per iniziativa dell’Associazione italiana centri storici (Ancsa) nel convegno che si tenne nel 1960 nella città umbra. Riguardo ai centri storici, la legge ponte subordina, di fatto, ogni intervento di sostanziale trasformazione all’approvazione di piani particolareggiati. Una soluzione all’apparenza precaria e semplicistica che però, con il passare degli anni, si è dimostrata di eccezionale efficacia. Tant’è che l’Italia è l’unico paese d’Europa che ha in larga misura salvato i propri centri storici. Certamente, nessuno può sostenere che nel nostro paese la tutela del patrimonio immobiliare d’interesse storico sia garantita in modo soddisfacente, ma certamente non sono più all’ordine del giorno gli episodi di gravissima alterazione, se non di vera e propria distruzione, che avvenivano frequentemente nei primi lustri del dopoguerra.

Specialmente dopo l’approvazione della legge ponte, i centri storici sono stati più volte oggetto di studio, di politiche e di interventi di salvaguardia nell’ambito della pianificazione urbanistica, mentre sono meno frequenti le proposte di conservazione promosse dai titolari di specifiche competenze in materia di tutela. È noto, infatti, che solo alcuni centri storici sono integralmente sottoposti alle leggi del 1939.

La distinzione fra legislazione di tutela e legislazione urbanistica ha retto al trascorrere degli anni, nonostante alcuni tentativi di superamento. Riguardo ai quali mi limito solo a citare i lavori della commissione cosiddetta Franceschini, dal nome del suo presidente, Francesco Franceschini, istituita nel 1964, con l’obiettivo di formulare proposte per la tutela e la valorizzazione del patrimonio archeologico, artistico e paesistico. Circa gli strumenti di intervento, è indubbio ed esplicito l’orientamento della commissione a ricondurre gli obiettivi della tutela e dei valori culturali nell’ambito dell’ordinaria pianificazione urbanistica, assicurando peraltro la concorrenza dei poteri statali e specialistici nelle procedure ordinarie. Alla commissione Franceschini fece seguito la commissione presieduta da Antonino Papaldo che similmente propose di collocare la tutela nell’ambito dell’ordinaria pianificazione urbanistica, precisando che le determinazioni dell’amministrazione dei beni culturali sono però prevalenti su ogni altra. Anche le risultanze della commissione Papaldo, come quella della precedente commissione Franceschini, non produssero alcun effetto concreto.

Vanno ricordate infine le sentenze della Corte costituzionale n. 55 e n.56 del 1968. Con la prima fu stabilito il carattere “espropriativo” (e perciò da indennizzare) dei vincoli di natura urbanistica, quelli cioè che individuano la aree destinate a servizi; con la seconda fu confermata invece la non indennizzabilità dei vincoli a tutela del paesaggio. L’orientamento della Corte è stato ribadito da altre sentenze negli anni successivi.

2.3. L’istituzione delle Regioni a statuto ordinario

Le Regioni a statuto ordinario furono istituite nel 1970 e due anni dopo avvenne l’effettivo trasferimento dallo Stato dei poteri previsti dall’articolo 117 della Costituzione. Le competenze in materia di urbanistica furono trasferite con il Dpr n. 8/1972 che, al secondo comma, prevede che il trasferimento “riguarda altresì la redazione e la approvazione dei piani territoriali paesistici di cui all’articolo 5 della legge 29 giugno 1939, n. 1497”. Trasferimento, quest’ultimo, rimasto del tutto ignorato e infatti non risultano piani paesistici approvati dalle Regioni prima della legge Galasso.

2.4. La legge Galasso

Inaspettatamente, la legge Galasso (n. 431/1985, che sostituisce il precedente decreto ministeriale, a firma del sottosegretario per i Beni culturali e ambientali Giuseppe Galasso) interrompe nove lustri di inerzia politica e legislativa in materia di tutela e pianificazione del paesaggio. Com’è noto, la legge integra gli elenchi delle bellezze naturali e d’insieme della legge 1497 con alcune categorie di beni (dai territori costieri alle zone d’interesse archeologico) ope legis assoggettati a vincolo paesaggistico. La tutela non è più puntiforme ma si estende alla globalità del territorio. La pianificazione paesistica non è più discontinua e facoltativa ma assume carattere strutturale e diventa obbligatoria. L’art. 1 bis della legge dispone infatti che le Regioni “sottopongono a specifica normativa d’uso e di valorizzazione” i territori dei beni vincolati “mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali da approvare entro il 31 dicembre 1986”. I “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali” sono una importante novità a favore dell’inserimento della tutela fra i contenuti dei piani urbanistici ordinari, ritenendo quindi ammissibile la rinuncia a una pianificazione specializzata alla tutela del paesaggio.

Ma i risultati della legge Galasso sono deprimenti. A parte le province autonome di Bolzano e di Trento che tutelavano il paesaggio con approfonditi ed efficaci provvedimenti ancor prima della legge 431, entro la scadenza del 31 dicembre 1986 nessuna Regione disponeva di piano paesistico né di piano urbanistico-territoriale ad hoc. Solo quattro Regioni – Emilia Romagna, Liguria, Marche, Val d’Aosta – si dotarono di un piano paesistico in tempi accettabili. Altre Regioni provvidero in ritardo. Il Veneto fu la prima Regione, seguita da Piemonte e Venezia Giulia, che intraprese la strada del piano urbanistico territoriale con specifica considerazione dei valori paesistici. Storicamente inadempienti Sicilia e Calabria.

In verità, un bilancio puntuale e significativo della legge Galasso è privo di senso e probabilmente inutile. L’assenza di indirizzo e coordinamento dell’azione regionale, la conseguente vistosa differenza dei comportamenti regionali sotto ogni punto di vista (di procedure, di merito, di scala degli elaborati, di caratteri dei vincoli e delle prescrizioni, di categorie dei beni interessati) ha determinato che ogni piano costituisce in effetti un caso a sé.

2.5. Le altre leggi di tutela (e di rinuncia alla tutela)

Come si è detto, nella presente nota, per evidenti ragioni di spazio, non possiamo trattare delle leggi che tutelano l’integrità fisica del territorio: dalle leggi n. 183/1989 per la difesa del suolo e n. 394/1991 sulle aree protette, alle leggi istitutive dei nuovi parchi regionali, a quelle per la protezione dell’ambiente, la sicurezza sismica, eccetera. Mi limito a osservare che le nuove leggi statali specialistiche e di settore che si sono moltiplicate a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso (insieme a un numero indefinito di norme regionali), hanno generato una molteplicità di nuovi piani che hanno modificato radicalmente il quadro concettuale e operativo della pianificazione del territorio in assoluta assenza di principi generali e di coordinamento (legge cornice sul regime dei suoli o simili). Si è perciò configurata una situazione normativa tanto complicata quanto insoddisfacente. All’intricata trama di perimetri e di poteri non corrispondono quasi mai coerenti e coordinate scelte di piano, ma un coacervo disarticolato di divieti e di prescrizioni prevalentemente transitorie. Tutto ciò ha contribuito ad alimentare l’insofferenza per qualsiasi forma di pianificazione, agevolando, di fatto, la proliferazione di quelle norme statali e regionali di natura derogatoria, “eversive” degli ordinamenti fondamentali che, proprio a partire dagli anni Ottanta, si sono moltiplicate in forma vertiginosa e devastante. Per non dire delle leggi di condono edilizio – tre in diciotto anni (1985, 1994, 2003) – e delle leggi statali e regionali relative al cosiddetto “piano casa” che rendono disonorevole la condizione italiana nel panorama europeo.

2.6. Il Codice del paesaggio

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, emanato nel 2004 (e definitivamente approvato nel marzo del 2008), non introduce sostanziali novità, e la struttura normativa resta fondata sul doppio riferimento alla legge 1497 e alla legge Galasso. Apprezzabile la definizione del paesaggio tutelato dal Codice (che riprende i concetti espressi da Benedetto Croce nel 1920), “relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali” (art. 131, c. 2). Ottimo il netto assoggettamento della valorizzazione alla tutela (art. 131, c. 5). Rispetto a precedenti stesure, risulta anche opportunamente stemperata la connessione con la Convenzione europea del paesaggio (cfr. successivo paragrafo 2.7).

Inedito e pregevole l’art. 145 (c. 1) che recita: “La individuazione da parte del Ministero delle linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, costituisce compito di rilievo nazionale, ai sensi delle vigenti disposizioni in materia di principi e criteri direttivi per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali”. Ritorna il lessico del celebrato e colpevolmente disatteso art. 81 del Dpr 616/1977, che prevedeva la funzione centrale di indirizzo e coordinamento in materia di urbanistica. Le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ai fini della tutela del paesaggio restano però una pura dichiarazione d’intenti, in assenza di ogni determinazione organizzativa volta a dotare il ministero delle indispensabili risorse professionali e materiali per garantire concretezza all’azione d’indirizzo. A ciò si aggiunga la drastica riduzione del bilancio ministeriale, il progressivo invecchiamento e la diminuzione del personale, la sottovalutazione del paesaggio nella riorganizzazione degli uffici dirigenziali, e infine la manifesta ostilità governativa nei confronti della pianificazione. D’altra parte, non inducono all’ottimismo l’inconsistenza, meglio sarebbe dire l’inutilità, delle convenzioni finora stipulate fra ministero e regioni (Toscana, Campania, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Lazio, eccetera) per i piani paesaggistici, unitamente all’assoluta inerzia regionale.

Un inaccettabile passo indietro rispetto a precedenti stesure del Codice sta nella delimitazione del territorio oggetto del piano paesaggistico elaborato congiuntamente da Stato e Regioni. Prima dell’accordo con le Regioni, l’area di piano coincideva con “l’intero territorio regionale”. Il testo definitivamente approvato, assume invece come area di piano quella limitata “ai beni paesaggistici” (art. 135, c. 1), e cioè agli immobili vincolati a norma delle leggi del 1939, alle categorie della legge Galasso e alle loro integrazioni. Non è difficile intendere che in tal modo risulterebbe velleitario e astratto, quand’anche effettivamente praticato, l’obiettivo del citato art. 145: che senso ha che il ministero individui le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione, se la pianificazione paesaggistica di cui può occuparsi il medesimo ministero comprende solo i beni vincolati?

A fronte della complessiva labilità della pianificazione paesaggistica prevista dal Codice, risulta probabilmente superflua la minuta, disordinata, faticosa articolazione dei contenuti. Sostanzialmente inutile il riferimento ai centri e ai nuclei storici di cui tratta l’art. 136, c. 1, lett. c), argomento già affrontato dal regolamento del 1940 di attuazione della legge 1497 e spesso oggetto di pianificazione ad hoc. In realtà, si è persa l’occasione per allestire finalmente un’efficace normativa nazionale per i centri storici. Walter Veltroni, da ministro dei Beni culturali, propose un ottimo disegno di legge che prevedeva un vincolo di tutela ope legis per i centri storici, come definiti dai piani regolatori, proposta poi ritirata dallo stesso proponente per le resistenze dei portatori di interessi colpiti.

Nell’ottobre del 2010, l’associazione Italia Nostra ha pubblicato un primo rapporto nazionale sulla pianificazione paesaggistica, dal titolo Paesaggi. La tutela negata, un documento che dà conto dello stato di attuazione del Codice. Emerge un quadro sconfortante. Solo la Sardegna, grazie alla determinazione di Renato Soru (presidente della Regione dal 2004 al 2008), dispone di un piano definitivamente approvato. In nessun’altra Regione risulta effettivamente operante l’elaborazione congiunta con lo Stato dei piani paesaggistici e il ministero non ha neppure provveduto a definire i criteri uniformi per la redazione degli accordi di pianificazione.

2.7. La Convenzione europea del paesaggio

Secondo la Convenzione europea del paesaggio, il paesaggio è “una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni”; inoltre, secondo la Convenzione, il paesaggio “costituisce una risorsa favorevole all’attività economica” e “può contribuire alla creazione di posti di lavoro”.

Questi e altri enunciati della Convenzione non convincono, in quanto la subordinazione del valore paesaggistico alle percezioni dei cittadini direttamente interessati a eventuali trasformazioni e, ancor più, la funzionalizzazione del paesaggio allo sviluppo economico sono obiettivi evidentemente in contrasto con l’assunzione della tutela del paesaggio fra i principi della Costituzione repubblicana (art. 9) e con la tradizione della legislazione e delle politiche di settore. Insomma, almeno in teoria, nel nostro paese il paesaggio è sempre stato inteso come un valore in sé, svincolato da ogni subordinazione, soprattutto dalle convenienze locali, e quest’impianto concettuale è opportunamente ricordato in ogni occasione di dibattito su attentati alla bellezza del territorio.

Il testo completo di note e bibliografia nel file allegato

Cosa sarebbe dell'Italia senza la democrazia? Per capirlo è sufficiente vedere cosa sta succedendo a Pomigliano, in una fabbrica chiusa e riaperta da Marchionne sotto altro nome per cancellare il sistema di garanzie e diritti sindacali e individuali conquistati in più di un secolo di lotte.

Sotto il Vesuvio, lungo le linee della nuova Fiat Panda, la Fiom non ha accesso, è stata messa fuori da un accordo separato che getta alle ortiche il contratto nazionale di lavoro e riconosce qualche sparuto diritto sindacale solo alle organizzazioni che hanno firmato la resa loro e la morte di un altro sindacato che invece non si è arreso. Qui, su duemila «nuovi» assunti non ce n'è uno iscritto alla Fiom. Forse uno o due ce l'aveva quella tessera extraparlamentare, ma per essere assunto l'ha dovuta strappare. Allora, a Pomigliano senza Fiom succede che se un operaio selezionato (politicamente e sindacalmente) non ce la fa a reggere i ritmi infernali del nuovo modello produttivo Fiat, se ritarda di qualche secondo o se monta male un pezzo, non solo viene sanzionato ma a fine turno e senza poter andare in mensa a mangiare è costretto a presentarsi nell'«acquario», un open space dove al disgraziato viene consegnato un microfono e davanti a una folla di capi, capetti e sottocapi deve dire «song n'omm e mmerda». Meglio ancora se accusa il suo vicino alla catena di montaggio per quel ritardo o quell'errore. Così, con meno pause, con la mensa spostata a fine turno, con i ritmi da far paura all'operaio Charlie Chaplin, con il divieto di scioperare e di eleggersi liberamente i propri rappresentanti, con i pubblici atti di dolore e di autoflaggellazione, ci raccontano che la locomotiva Italia riconquisterà la competitività sul mercato globale. E quasi nessuno, tra i monti e i colli di Roma, trova da ridire.

Se così stanno diventando le fabbriche e tutti i posti di lavoro - perché la Fiat fa scuola in Italia, da Pomigliano a tutti gli stabilimenti del gruppo, all'indotto meccanico, chimico e via costruendo e trasportando, e via egemonizzando in Federmeccanica, in Confindustria, al governo dei tecnici, persino dentro il centrosinistra e negli altri sindacati - cosa ne sarà della nostra democrazia? Una democrazia sospesa, e dormiente, una politica che si è consegnata ai tecnici illuminati dalla finanza.

Inutile chiedersi se e quando si risveglierà la nostra democrazia, raccontandoci che saranno gli stessi anestetisti, un giorno, a decidere di aprire le finestre.

Quelle finestre resteranno chiuse, se non ci penseremo noi a spalancarle. Dove il noi comprende tanti pezzi di società non pacificati che stentano a mettersi in comunicazione tra di loro. Bisogna capire, come si ostina a fare la Fiom, che la condizione precaria riguarda l'intero mondo del lavoro e del non lavoro, che non c'è contrapposizione tra difesa dell'articolo 18 che andrebbe semmai esteso a tutti insieme agli ammortizzatori sociali, e battaglia per un reddito di cittadinanza.

Il 9 marzo sarà un'occasione per tutte le voci fuori dal coro del pensiero unico dominante. Lo sciopero generale della Fiom deve diventare un embrione di alternativa allo stato di cose presente, un primo momento di ricostruzione di un progetto comune con cui uscire dalla difensiva.

Ieri a Roma la parte viva del sindacato italiano ha lanciato un appello generale. Con uno slogan - la democrazia al lavoro - e la convinzione che è il lavoro a creare la ricchezza mentre la finanza lo distrugge. I delegati e le delegate metalmeccaniche hanno raccontato un paese in crisi, fabbriche occupate e in cassa integrazione, interi distretti industriali desertificati, regioni come la Sardegna a cui hanno tolto il tappo e adesso rischia di affondare. Ma anche fabbriche salvate dalla lotta coraggiosa della Fiom, come il cantiere navale di Sestri, o prima ancora la Innse. Dunque, è di lavoro e investimenti per un nuovo modello di mobilità e di sviluppo che bisogna parlare, di come creare occupazione qualificata, di come lo stato deve intervenire nell'economia, e non di come rendere ancor più facili i licenziamenti. Invece il centrosinistra si limita a dire che sul mercato del lavoro va bene quel che decidono i sindacati naturalmente uniti e le parti sociali. Di quale unità vanno cianciando, nella stagione degli accordi separati?

La sinistra parlamentare non ha niente da dire sul mercato del lavoro, e neanche vuole vedere quel che succede a Pomigliano. Il dio mercato è diventato anche per loro il regolatore generale che non ammette variabili indipendenti. La sinistra parlamentare non guarda nei call center, o all'università, o nel mondo giovanile a cui è interdetta la possibilità di crearsi un futuro e di accedere a un lavoro se non a condizioni schiavistiche e ricattatorie. Non guarda al trasporto che è diventato un bene di lusso per pochi, perché solo i capitali e i capitalisti possono muoversi liberamente. Gli altri restino a terra. Viva la Tav e abbasso i treni dei pendolari. L'Italia pagherà le multe all'Unione europea perché gli autobus che girano nelle nostre città sono i più vecchi e inquinanti del continente, e la politica non ha nulla da dire quando la Fiat decide di chiudere l'unica fabbrica di autobus italiana per andare a costruire altrove.

Inutile far finta di non sapere per chi suona la campana. Ieri a Roma hanno parlato operai, tecnici, ricercatori, studenti, precari, il popolo No-Tav rappresentato da una sindaca della Valsusa e tanti altri. Quel che succede a Pomigliano non è diverso da quel che sta per succedere o già succede in tutta la società italiana. Bisogna tagliare il filo spinato che stanno stringendo intorno alla Fiom come ai cantieri dell'Alta Velocità.

Come ha detto Maurizio Landini, sbaglia chi si riscalda per i tre delegati persi dalla Fiom a Melfi e non va ad abbracciare gli altri duecento delegati Fiat che non hanno gettato la spugna e ancora stringono in pugno orgogliosamente la loro tessera. Sono quelli che scelgono di abbassare gli occhi al cospetto della moglie e dei figli a cui non riescono più a garantire una vita decente, pur di non abbassare la testa di fronte a Marchionne. Sono quelli che hanno imparato l'insegnamento di Giuseppe Di Vittorio, quando diceva ai lavoratori di non togliersi il cappello al cospetto del padrone. Dopo gli anni Cinquanta sono arrivati i Sessanta, non per grazia ricevuta ma grazie alla tenacia e alle lotte dei lavoratori che più volte salvando la propria dignità hanno salvato la democrazia. Il 9 febbraio la campana suona anche per noi. La lotta che stanno facendo i compagni del manifesto, è stato detto ieri dal palco dell'Atlantico gremito fino all'inverosimile, è la nostra stessa lotta. Questo fa sentire la Fiom e il manifesto meno soli, e un po' più forti.

Architetto e teorico dell’architettura e della città, Mirko Zardini dirige dal 2006 il Centre Canadien d’Architecture (Cca), un’istituzione sui generis nel panorama internazionale composta da archivi preziosissimi, una grande biblioteca, il centro studi e il museo, con un’agenda culturale molto forte che ne ha fatto uno dei punti di riferimento internazionali per la cultura urbana e di progetto. Insieme a Giovanna Borasi, Zardini ha curato negli ultimi anni una serie di mostre inusuali, supportate da una ricerca incredibilmente rigorosa e da una ossessiva volontà di portare alla luce le crepe paradigmatiche, i limiti e le contraddizioni dell’architettura.

Da Sorry, Out of Gas, la mostra sulla crisi energetica degli anni Settanta, a Sense of the City o Imperfect Health, ancora in corso, emerge una forma di pensiero critico insolitamente chiaro e lontano dalla semplificazione comunicativa diffusa negli ambienti dell’architettura. Quali sono gli obiettivi di questo scarto curatoriale?

Il tentativo del Cca è stato quello di costruire mostre che fossero in grado di aprire un discorso, piuttosto che di chiuderlo. Abbiamo selezionato problematiche legate alla realtà quotidiana, come l’energia o la medicina, allo scopo di restituire all’architettura e all’urbanistica una cornice meno angusta di quella strettamente disciplinare, che rischia di confinarle nell’irrilevanza. Volevamo indagare i lati oscuri dell’architettura, ma non nello stile del manifesto politico, come ad esempio alcune mostre del Nai di Ole Bauman. Noi abbiamo cercato di mettere in questione i presupposti su cui operano gli architetti, che spesso ripropongono in modo completamente acritico idee e meccanismi prodotti in altre discipline, senza alcun filtro. In Imperfect Health abbiamo mostrato molti progetti diversi, che per lo più riproducono l’agenda moralistica e neoliberale propria della trasformazione del ruolo della medicina nella nostra società dagli anni settanta a oggi, della fine del welfare.

Per esempio, quarant’anni fa l’obesità non era considerata una malattia: si sarebbe parlato di prevenzione, di condizioni socioeconomiche, di educazione, mentre oggi è un problema di responsabilità individuale nei confronti di una società che non è più in grado di sostenere le spese mediche generalizzate. Un edificio come il celebre Cooper Union di Morphosis a New York «risolve» il problema reintroducendo l’attività fisica attraverso dei percorsi antifluidi, inserendo scale al posto degli ascensori e così via. Dispositivi che vanno anche bene, però pensare che l’obesità si riduca a questo e che l’architettura possa avere in questo modo un ruolo determinante è assolutamente superficiale.

D’accordo, ma allora con quali strumenti gli architetti possono influire sulla realtà cui in minima parte sono deputati a dare forma?

In primo luogo attraverso lo spirito critico. Prendiamo il discorso sull’ambiente: oggi il mantra della sostenibilità è diventato un meccanismo tecnocratico, un greenwashing dell’architettura che, riducendo il problema alla performance energetica di una costruzione, ha eliminato le componenti complesse, tutto ciò che viene prima e dopo l’edificio. Negli anni Settanta, durante la prima vera crisi energetica, moltissimi architetti avevano collegato il problema dell’energia al riciclo, all’uso delle risorse, alle reti sociali, a una critica dello stile di vita e dei modi di produzione. Per la prima volta era crollata la fiducia incondizionata nella tecnologia, nelle sorti progressive. Ma all’epoca prevalse una miope politica di sviluppo dei pannelli solari, che poi venivano usati per riscaldare le piscine dei sobborghi. Oggi abbiamo lo stesso problema: una riscoperta naive della tecnologia, come negli anni Cinquanta. Possiamo risparmiare tutta l’energia del mondo, ma per farne cosa? Se e per reimmetterla in un sistema di consumo identico a quello in cui abbiamo vissuto non ne vale la pena, è l’equivalente del caffè decaffeinato, della guerra umanitaria, della politica senza politica di cui parlava Zizek in Benvenuti nel deserto del reale.

Esistono indizi di un’inversione di rotta?

In generale la crisi che la nostra società sta attraversando oggi definisce l’esigenza di elaborare nuove piattaforme di pensiero, e il fenomeno riguarda anche l’architettura e l’urbanistica. Sono molto contento che la bolla iconica che ha afflitto l’architettura degli ultimi trent’anni si sia conclusa, lasciando spazio a nuove problematiche. Le aree più ricche restano conservatrici, ma le cose interessanti avvengono altrove, in una sorta di terzo paesaggio dell’architettura: non nelle aree forti di intervento, ma in quelle marginali, nel lavoro delle Ong, nei progetti di intervento sociale, in quelli che utilizzano un sistema di partecipazione. Oppure in casi più tradizionali come le abitazioni per homeless di Michael Maltzan a Los Angeles e l’Olympic Sculpture Park di Weiss Manfredi a Seattle, che dissolve l’edificio in una struttura paesaggio, o ancora nei progetti di riparazione ambientale che agiscono in direzione opposta all’eccesso di estetizzazione del paesaggio operato dai progettisti negli ultimi anni.

Nel non vitalissimo scenario europeo uno dei discorsi più produttivi, in grado di unire la riappropriazione della sovranità popolare, la partecipazione, a una serie di ripensamenti sulle politiche spaziali ed energetiche, è quello dei beni comuni.

È vero, anche se non mi piace l’idea di comunità che affiora nel discorso. In architettura era stata elaborata soprattutto da Solà-Morales un’idea molto efficace di spazio collettivo che individuava caratteristiche alternative al binomio pubblico-privato, senza cadere in nostalgie comunitarie. Ma qualunque sia il punto di vista adottato, bisogna tenere a mente i limiti del progetto: pensare che l’architettura possa risolvere tutti i problemi dell’ambiente e del territorio era un’idea modernista. Ne paghiamo ancora i danni, come nel caso dell’eternit. L’architettura era intesa come cura, mentre secondo me dovrebbe prendersi cura delle cose. È necessario approfondire le dinamiche della crisi in atto, ma mettendo sempre in evidenza le conseguenze che le nostre azioni producono.

L’apparente rozzezza delle prescrizioni d’igiene moderniste, però, rivela forse anche una maggiore libertà rispetto alla manipolazione occulta del contemporaneo: era un’assunzione di responsabilità che conduceva a errori drammatici se si vuole, ma era meno intellettualmente subordinata agli interessi altrui. Se lo compariamo a Le Corbusier, Koolhaas è molto più consapevole dei limiti, ma non ha rinunciato alla postura di guru e attraverso una grande mole di argomentazioni ambigue continua a porsi come il risolutore ideale dei problemi del mondo attraverso i suoi masterplan.

Koolhaas ha segnato un periodo, ma il dibattito non può essere egemonizzato dalle stesse persone che hanno dominato la comunicazione negli ultimi vent’anni. Non si può andare avanti nei modi ancora di recente utilizzati da Winy Maas degli Mvrdv: a ogni problema corrisponde una soluzione che, naturalmente, si incarna in un progetto di architettura. Molto spesso la soluzione è non fare niente. Il progetto più bello degli ultimi anni forse è stato quello di Lacaton e Vassalle per il concorso di «abbellimento» di place Léon Aucoc a Bordeaux. Dopo avere frequentato il posto e parlato con i passanti e gli abitanti, proposero di lasciare tutto così com’era, al di là di qualche intervento di manutenzione, perché la piazza non aveva bisogno di miglioramenti.

Uno dei fattori che più incoraggiano il conformismo, almeno qui in Italia, sono le scuole. Nella sua esperienza di insegnamento ha conosciuto università migliori da questo punto di vista?

Negli Stati Uniti emergono sempre più diffusamente all’interno delle scuole temi come l’ecological urbanism o le favelas, ma non so quanto possano giovare: quanto questa è realmente l’occasione di ripensare i problemi e quanto è riproposizione degli stessi metodi in un contesto differente? Nel frattempo sta avvenendo una rivoluzione nei meccanismi di produzione dell’architettura: urge una riflessione sulle nuove regole sulla responsabilità civile e la proprietà intellettuale del progetto. Oppure sul digitale e i modi in cui viene incorporato nell’architettura, sui rendering che vengono per lo più prodotti in Cina o in India. Insomma è un periodo interessante, ma non saprei dire dove andiamo. Noi cerchiamo solo di costruire prospettive diverse.

Il fatto che il Cca sia un centro di ricerca oltre che un museo ha favorito questo tipo di approfondimento?

Non tanto, perché la ricerca è ancora parecchio convenzionale, basata sui phd programs, sugli scholars, mentre il nuovo approccio è dovuto soprattutto a un’idea diversa del ruolo curatoriale e della responsabilità intellettuale di un’istituzione. La posizione periferica di Montreal permette di sperimentare delle cose senza la pressione che avremmo a New York. Sarebbe bello che anche le istituzioni di qui approfittassero della condizione marginale italiana per sviluppare una strategia analoga: se si pensa alla filosofia, c’è una delle scene più interessanti a livello mondiale – anche se sembra che gli architetti non se ne siano accorti.

La mia impressione è che, esaurito l’entusiasmo per l’architettura iconica, sui nostri media l’architettura e il discorso sulla città sono spariti o banalizzati. In questo momento ad esempio in Italia è stata montata una improbabile campagna mediatica contro l’Ex Enel, uno tra i mille brutti progetti milanesi, e su blog e giornali non si parla d’altro che di bellezza e scempio.

Quando sento parlare di bellezza mi preoccupo sempre. È fondamentale impostare il discorso del territorio e dell’urbano su altri presupposti: il consumo di suolo, la mobilità, le infrastrutture, i servizi sociali, l’accesso ai servizi, il diritto all’abitare. Nessuno è ovviamente a favore dei brutti progetti, ma il discorso estetico sull’architettura è deviante e dannoso. Tanto per fare un esempio, il progetto abortito dell’orto planetario per l’Expo (premesso che le Expo sono inutili, a mio parere), non era significativo in quanto bello o brutto, ma perché simbolicamente era importantissimo come progetto a volume zero – o quasi.

L’ultima esperienza che ebbi a Milano furono i Giardini di Porta Nuova: il progetto originale incorporava il giardino in un discorso sullo spazio pubblico, tentando di inserire gli edifici in un sistema di relazioni urbane con l’intera area, che comprendeva la stazione, le strade, le piazze, tenendo in gran conto l’interesse dei cittadini. Invece si è parcellizzato il problema, i privati hanno fatto quel che hanno voluto, poi quanto è rimasto è diventato un giardino. Si è sempre parlato di contrattazione, ma la contrattazione di fatto non c’è stata. In Italia non ci sono neppure i luoghi deputati alla discussione: data per persa l’accademia, il Maxxi o la Triennale dovrebbero diventare i luoghi del dibattito, ma non mi pare che le scelte recenti nelle nomine vadano in questa direzione.

Dal 2005 cresciuti del 50% gli acquisti dall´estero Marche e Puglia le nuove mete

Va di moda la casa in Italia: se gli immobili commerciarli non attirano più i capitali esteri, le famiglie straniere fanno a gara per comperare una casa in un borgo toscano o una villetta di fronte al mare pugliese. Ad acquistare sono soprattutto i tedeschi e gli inglesi, ma è in netta crescita il mercato del Nord America ed aumentano in modo esponenziale le vendite a clienti russi.

Uno studio di Scenari Immobiliari fa notare che se nel 2005 sono state tremila le famiglie straniere che hanno acquistato un immobile residenziale nel nostro Paese, quest´anno il tetto dovrebbe arrivare a quota 4500, con una crescita del 50 per cento. È in aumento anche l´importo medio investito, passato da 245.000 euro a 445.000 euro. Lo scorso anno, la quota maggiore degli investitori proveniva dalla Germania (il 36 per cento) e dalla Gran Bretagna (21 per cento), ma sono stati gli acquisti effettuati da famiglie russe a registrare un vero e proprio boom: dal 2 per cento del 2005 sono passati al 12 per cento del 2011. «La maggior parte degli acquisti – spiega Paola Gianasso, responsabile mercati esteri di Scenari Immobiliari – è stata realizzata da famiglie che si sono arricchite negli ultimi quindici anni. L´investimento in Italia è motivato dalla volontà di diversificazione, ma rappresenta anche uno status symbol». L´attenzione degli acquirenti russi si concentra sugli immobili di lusso nelle località turistiche più prestigiose - Liguria, Toscana e Sardegna o zone dei laghi - ma sono state acquistate anche case storiche nel centro delle principali città, in particolare a Milano. In aumento anche gli acquirenti provenienti dagli Stati Uniti e dal Canada: dal 6 per cento del 2005 all´11 del 2011.

Lazio e Toscana sono le regioni più gettonate, ma nel corso degli anni la quota del mercato toscano - un tempo destinazione per eccellenza degli acquisti di seconde case da parte degli stranieri - si è ridotta passando dal 30 per cento del 2005 al 16 dello scorso anno. Una caduta causata soprattutto dell´alto livello delle quotazioni che ha spinto gli acquirenti a scegliere regioni limitrofe, come le Marche e il Lazio settentrionale, considerate più convenienti. Il mercato veneto e quello nordico in generale è dominato dai tedeschi che comprano ville in campagna, case sul lago di Garda o di fronte al mare di Lignano Sabbiadoro e Grado. Cresce anche il mercato pugliese, passato dal 7 per cento del 2005 al 20 del 2011.

Tutt´altra tendenza nel mercato degli immobili commerciali: la società di consulenza immobiliare CB Richard Ellis segnala che lo scorso anno, gli investitori internazionali hanno acquistato immobili per 1,1 miliardi di euro, in diminuzione del 22 per cento rispetto all´anno precedente e del 76 rispetto al picco del 2007. L´emoraggia di capitali stranieri dovrebbe proseguire nel 2012. Per Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, il trend negativo è dovuto alla "stangata" fiscale applicata ai partecipanti non istituzionali nei fondi immobiliari e alla carenza di prodotti di qualità.

A difesa di Roma, del centro storico più bello e insieme più minacciato sono intervenuti Confcommercio e Confesercenti col sostegno di Cgil, Cisl e Uil per dire al governo Monti: “Negozi senza regole? No, grazie”. Dopo le associazioni per la tutela (Comitato per la Bellezza, eddyburg, Italia Nostra, Touring Club, Bianchi Bandinelli, ecc. e personaggi come Salvatore Settis, Alberto Asor Rosa, Paolo Baratta, ecc.). Opposizione corporativa? No, difesa della vivibilità, del decoro, delle bellezza e quindi dell’attrattiva turistica delle nostre città d’arte. Il solo ineguagliabile patrimonio che i monitoraggi internazionali sul turismo di qualità ancora ci assegnano, avendo l’Italia compromesso spiagge e natura.

Si spiegano con chiarezza il presidente della Confcommercio romana, Giuseppe Roscioli: “Non siamo contro le liberalizzazioni, ma in questo modo non porteranno nessun beneficio. Per rimanere aperti 24 ore su 24, o si alzano i prezzi o si va in sofferenza”. E il segretario della Camera del Lavoro, Claudio Di Berardino: “Il rischio è che aumentino lo sfruttamento e il lavoro nero”. Nei bei servizi di Lilli Garrone e di Maria Egizia Fiaschetti sul “Corriere della Sera” sono indicati i guasti indotti da una liberalizzazione calata senza paletti nei centri storici: spariscono già negozi di qualità, stoffe inglesi, scarpe alla moda, norcinerie tradizionali o librerie, e subentrano, pub e ancora pub, gelaterie, pizzerie notturne ecc., con un abbassamento catastrofico dell’offerta turistico-commerciale. Eppure nel governo gli economisti ci sono, a cominciare dal premier: possibile che non sappiano che nel nostro Paese un terzo abbondante del 10-11 % di Pil turistico viene dal turismo culturale?

Il modello (terribile) sembra la “movida” notturna senza regole, tante Campo de’ Fiori disseminate ovunque. Secondo la stessa Confcommercio, il Decreto semplificazioni consente attività di discoteca, di spettacolo, di pubblico intrattenimento all’interno degli esercizi senza autorizzazioni né controlli preventivi di pubblica sicurezza e di agibilità. Idem per i cosiddetti “circoli culturali”, vecchio escamotage per aprire nelle aree contingentate locali notturni. Che non potranno più venire chiusi dalla Ps, né dalla questura. Nei negozi si potranno vendere cibi e bevande (anche alcoliche) senza autorizzazione e i clienti potranno sedersi a consumarle all’esterno. Anche in aree sin qui vietate. Con quale gioia degli ultimi residenti si può ben immaginare. Pure i distributori automatici non dovranno più chiudere alle 22 – fa notare il consigliere del I Municipio, Nathalie Naim – offrendo così alcol “facile” ai minori. Niente più vincoli pure per le bancarelle abilitate a vendere fino all’alba cibi, birre, souvenirs. Uno sterminato, degradante, inarrestabile bazar. Che garantisce ogni tipo di inquinamento: estetico, acustico, morale, malavitoso (i negozi “di copertura” per il riciclaggio e lo spaccio sono già tanti).E questa sarebbe concorrenza?

Di fronte alla valanga che promette di mettere fuori mercato i negozi veri e seri, gli esercizi di qualità, persino quelli storici, il governo dei “bocconiani” dovrebbe correre ai ripari correggendo se stesso, accettando i consigli sensati. Per ora tutti tacciono, a partire dal ministro dei Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi. Se non lo fa il governo, ascoltino questi allarmi i Comuni, i sindaci, e intervengano. Nei 90 giorni dalla decorrenza del Decreto 214/2011 possono infatti confermare le limitazioni e i contingentamenti loro consentiti da leggi e regolamenti ispirati ad alcuni articoli-chiave della Costituzione, all’art. 9 che tutela il paesaggio e i patrimonio storico e artistico (quindi i centri storici), all’art. 32 che tutela la salute dei cittadini e anche all’art. 41 che dichiara libera l’iniziativa privata purché non “in contrasto con l’utilità sociale”, con la sicurezza, la libertà, la dignità umana. Una prova di saggezza economica oltre che di civiltà culturale.

Il sindaco Pisapia dorma sonni tranquilli, non ha svenduto la memoria di sant'Ambrogio per colpevole parsimonia: la verità è che non esiste nessun argomento razionale contrario a questo parcheggio. Tanto per incominciare: le piazze stanno di solito davanti all'edificio che dà loro il nome, piazza della Scala sta davanti al teatro e piazza del Duomo davanti alla cattedrale, e il parcheggio del quale parliamo non è davanti alla chiesa, non è in piazza Sant'Ambrogio.

Questione di lana caprina? No, ricorrendo alla falsa denominazione viene suggerita l'idea che la basilica abbia a che vedere con il parcheggio, se viene scavato sulla sua piazza. Non è così, lo stradone di Sant'Ambrogio — come più appropriatamente lo denominava Dal Re nella sua stampa del 1734 — è disposto diagonalmente dispetto alla basilica, dalla quale è separato dagli edifici della canonica, sicché proprio non c'è alcun rapporto di continuità tra l'area del parcheggio e la chiesa, tant'è che lungo lo stradone correva un tempo una roggia frequentata dalle lavandaie. Le facciate sullo stradone, poi, non sono antiche, sono state ricostruite tutte dopo il 1945, sicché non c'è alcun ambiente originario da salvaguardare.

Il campanile è stato rifoderato in cemento armato dopo l'ultima guerra dall'ingegner Locatelli, il più valido esperto strutturalista della città, e insinuare che non sapesse tenere conto delle diverse dilatazioni dei materiali tra cemento e mattoni è semplicemente un insulto alla sua memoria. Nelle città romane era d'obbligo seppellire i morti fuori dalle mura, e questo divieto venne mantenuto dai cristiani per secoli, sicché la Milano romana è circondata da più di un milione di sepolture: difficile non trovare, scavando, un qualche osso dell'antenato.

Il sindaco Pisapia dorma sonni tranquilli, non ha svenduto la memoria di sant'Ambrogio, anche gli argomenti sentimentali sono molto fragili perché dovrebbero venire condivisi da tutte le città europee. Ma a Torino il sindaco Chiamparino ha scavato un parcheggio sotto la più nobile piazza della città, piazza San Carlo. A Montpellier la collina davanti alla promenade royaledel Peyrou è scavata da un parcheggio e sembra un gruviera. A Barcellona i parcheggi sotterranei sono sotto la piazza de Cataluña, sotto la Rambla e — udite udite — davanti alla Cattedrale. A Bordeaux il primo venne scavato sotto le avenue de Tourny, oggi gli altri circondano il centro storico. A Parigi sotto piazza Notre Dame. A Colonia sotto la piazza del Duomo, a Lione sotto place de la Bourse, a Strasburgo sotto la piazza principale, piazza Gutenberg. A Monaco di Baviera sotto la piazza monumentale, la Maxplatz.

Ma queste sono soltanto quelle che mi vengono in mente, Google vi consentirebbe di ampliare la casistica a dismisura: non sembra che i cittadini di queste città considerino questi parcheggi un insulto alla sacra memoria della città, e neppure che i solerti visitatori milanesi se ne lamentino, e anzi trovano comodissimo infilare le loro automobili lì sotto. La percezione sentimentale della città deve essere condivisa nel contesto europeo — come quella di pedonalizzare il centro storico — altrimenti è un capriccio locale del quale non è necessario tenere conto.

postilla

Fa benissimo, il professor Marco Romano, a ricordarci che una visione solo localistica, di cortile, sentimentale, ci sprofonda in una specie di infernale autosilo del provincialismo, da cui poi non basta pagare l’adeguata tariffa per riemergere a una sensibilità “condivisa nel contesto europeo”. In effetti spesso, un pochino complice la stampa attenta a cogliere certi accenti e punte del dibattito, lasciando sullo sfondo questioni di più ampio respiro, pare che la disputa box sotterranei (o su altre varie trasformazioni urbane contemporanee) venga vissuta come opposizione di alcuni benintenzionati quanto fanatici intellettuali, all’ingresso di qualunque segno di progresso umano fra atrii muscosi e fori cadenti. Mentre invece, pur non mancando certo isolate posizioni del genere, magari dettate da piccoli interessi particolari, ciò che un pochino di sicuro tormenta i sonni del sindaco Pisapia ha un altro nome, e si chiama idea di città. In cui, proprio come accade nella citata Europa del professor Romano, le amministrazioni non procedono per progetti isolati, ma seguendo strategie di lungo periodo, ad esempio ispirate a idee generali come il ruolo della città storica rispetto alle periferie e all’area metropolitana, il contenimento delle emissioni e dei consumi energetici per quanto possibile a quella dimensione, e in cui le considerazioni formali, soggette a gusti o sensibilità particolari, se ne stanno al loro giusto posto nell’ambito dei progetti di trasformazione. I quali progetti hanno senso appunto entro un programma più vasto. Conosciamo ahimè il “programma” delle giunte che da almeno vent’anni si sono susseguite a Milano, di cui fanno parte il sistema dei parcheggi sotterranei in centro, o il tunnel autostradale Linate-Expo con relativi svincoli urbani ecc. Il nuovo programma urbanistico, trasportistico, di sostegno ad alcuni comportamenti rispetto ad altri, pare indicare una direzione diversa, quella di sicuro “condivisa nel contesto europeo” molto più della modernità stupidotta delle automobili dappertutto, sempre che ce lo si possa permettere. Ed è in questo contenitore logico, che vanno giudicate anche le opposizioni, magari esclusivamente e soggettivamente estetizzanti, magari pure un po’ discutibili nel merito. Ma questo il professor Romano lo sa già benissimo: si era solo dimenticato di scriverlo, oppure la redazione del Corriere gli ha tagliato le ultime righe per motivi di spazio. Ne siamo certi (f.b.).

L’orgoglio di ieri si è trasformato in imbarazzo. Dopo le presentazioni di rito e un breve tour propedeutico all’applauso del pubblico pagante, il presunto Cristo ligneo di Michelangelo giace in una cassaforte del Polo museale fiorentino.

Blindato e nascosto alla vista nonostante non valga che poche migliaia di euro (per Christie’s ne varrebbe 60.000) e per accaparrarselo (non senza echi flaianei che rimandano alla vendita della Fontana di Trevi a Girolamo Scamorza in “Totòtruffa”) lo Stato italiano avesse sborsato nel 2008 oltre 3 milioni.

Un acquisto perorato dal sottosegretario ai Beni culturali Roberto Cecchi che rinviato a giudizio dalla Corte dei conti per danno erariale, grida al complotto e si difende. Riceve l’abbraccio mortale del ministro di allora, Sandro Bondi, che rivendica la “bontà dell’operazione” e lamenta “accanimento”.

Parla di “situazione indecente” Cecchi, sostenendo che la stessa Corte avesse fornito “legittimità all'acquisto registrando il contratto relativo”, ma dimenticando di rimarcare come ciò accada, per obbligo e senza alcuna valutazione nel merito, per ogni singola acquisizione statale. Al ministero sono in difficoltà e il titolare di ruolo, Lorenzo Ornaghi, impegnato ieri nel Concistoro, ha vissuto con il suo vice un déjà-vu che sta diventando regola.

Il caos del Mibac è senza argini, stride con il basso profilo imposto da Monti e nonostante il cambio d’abito, somiglia alle ultime discutibili gestioni berlusconiane. Ornaghi non ha capito dove si trova, ma regge un dicastero inclinato come la Costa Concordia. Una falla al giorno da coprire, mentre l’aria, pesante, è ammantata da spifferi, fughe di notizie e faide.

Prima il buco del presidente del Consiglio Superiore, il professor conte Andrea Carandini, colto ad autorimborsarsi per quasi 300.000 euro il restauro del castello di famiglia senza aprirlo al pubblico come legge pretenderebbe. Quando L’Espresso e Saturno tirano fuori l’aristocratica manfrina, Ornaghi è costretto a emettere un sofferto comunicato in cui ribadisce a Carandini la sua fiducia.

Parole che gli valgono un’inaudita reprimenda del Pd: “Spiace davvero – dichiara Orfini – che Ornaghi abbia deciso di coprire comportamenti che umiliano la storia del ministero che è chiamato a dirigere”.

Poi Cecchi. Nonostante non gli avesse concesso le deleghe, in un empito di ecumenismo, Ornaghi aveva deciso di fargli nominare il nuovo direttore generale delle Belle arti e del Paesaggio. Il candidato più autorevole sarebbe stato Gino Famiglietti, coautore del Codice dei Beni culturali. Famiglietti fu rimosso dalla posizione di vice capo dell’ufficio legislativo del Mibac e spedito a Campobasso perché si oppose allo svincolamento di un mobile settecentesco voluto da Cecchi e costata al sottosegretario un procedimento giudiziario concluso con un’archiviazione per abuso d’ufficio. In Molise, Famiglietti non si è dato per vinto, e ha ingaggiato una dura battaglia contro gli insediamenti delle pale eoliche.

Alla fine dello scorso novembre, “Italia Nostra” ha assegnato proprio a Famiglietti il premio Umberto Zanotti Bianco: sorta di Nobel italiano della tutela. Un candidato lontano mille miglia dal modello Cecchi che al suo posto, infatti, nomina Maddalena Ragni. Da responsabile della Direzione generale per i beni culturali e paesaggistici della Toscana, Ragni era salita all’onore delle cronache per lo spostamento (qualcuno insinua la distruzione) di un’area archeologica che avrebbe ‘intralciato’ la realizzazione di un capannone industriale della Laika.

Carandini, Cecchi, gli scandali. Questo il panorama del Mibac, questo lo specchio poco letterario in cui Ornaghi è costretto a osservarsi ogni giorno. Invece di Dorian Gray, nell’immagine riflessa, ad alcuni sembra di intravedere la sagoma di Sandro Bondi.

Paolucci. Il regista dell’operazione

L’epilogo della farsa del finto Michelangelo rigetta i media nella nostalgia. Repubblica data (posticipandola di sei mesi) l’ostensione del legnetto al Tg1 all’era Minzolini. Ma il capolavoro è l’intervista, sempre allo stesso giornale, dell’attuale direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci. Ma Paolucci fu il vero regista dell’operazione: da soprintendente di Firenze infatti, organizzò il lancio dell’opera. Sublime la conclusione: Paolucci non “vede come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica”. Apprendiamo così che per Paolucci non esistono pareri tecnici sindacabili o consulenze terze: padrone in casa propria, perché la storia dell’arte è zona franca. Che l’ex ministro dei Beni culturali cominci a confondere l’Italia e il Vaticano?

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