Senza la disordinata invasione europea la malattia sarebbe rimasta circoscritta - Negli anni ´30 Kinshasa era piena di avventurieri e fu il ground zero dell´incubazione
Tutto è nato da una scimmia. Uno scimpanzé. Il pantroglodytes troglodytes. Un cacciatore bantu nel sudest del Camerun cattura e uccide un esemplare. Lo scuoia, lo macella, lo cucina e se lo mangia. Scene normali nella foresta più interna e isolata dell´Africa centrale. Il primo contagio del virus Hiv è avvenuto così. Con il sangue infetto. È storia nota. Dopo anni di dibattiti e tesi contrapposte la scienza ha decretato una prima verità. Quello che non si riusciva ancora a capire è in che modo il contagio abbia raggiunto i centri abitati, poi le città, le metropoli, gli Stati, i continenti, fino a trasformare l´Aids nella più spaventosa pandemia del secolo scorso. Un giornalista del Washington Post e un ricercatore statunitense lo hanno scoperto. O meglio: sostengono, indicando una serie di prove, che la responsabilità ricade su quel grande dinamismo economico e commerciale che spinse le vecchie potenze europee a colonizzare l´Africa all´inizio del Novecento. Una conclusione che offre al quotidiano statunitense lo spunto per titolare: «Kinshasa, il ground zero dell´Aids».
La tesi del libro ("Tinderbox") è suggestiva. Mette insieme una serie di elementi che ricercatori ed esperti avevano sottolineato nell´itinerario del virus, senza riuscire però a tracciare la linea che li univa. Se la corsa all´Africa fosse stata gestita con più oculatezza, se il Belgio di re Leopoldo II, assieme a Francia, Gran Bretagna, Portogallo e Germania, non avessero spedito in quelle terre inospitali frotte di avventurieri ignoranti e senza scrupoli, il contagio sarebbe stato contenuto e forse non avrebbe mai varcato i confini della giungla. Bramosia di ricchezza, desiderio di conquista. Le colpe originarie sono dei colonialisti. Colpe vere, quelle che hanno prodotto 40 milioni di sieropositivi al mondo, di cui 30 solo in Africa, e ucciso altri 25 milioni di uomini, donne e bambini.
Il povero e ignaro cacciatore bantu fu infettato dallo scimpanzé. Tornò al villaggio e lì, probabilmente per decenni, il virus dell´Aids rimase in silenzio. Nel vecchio Continente si moriva di tubercolosi, di diarrea, di malaria, di fame. L´Hiv, almeno fino al 1980, era sconosciuto. Ma la nascita delle automobili e quindi degli pneumatici, ai primi del secolo scorso, spinse i Grandi dell´Europa a cercare nuove piantagioni di caucciù di cui l´Africa occidentale e centrale è ricchissima. Gli esploratori, ma soprattutto gli avventurieri arruolati dalle società belghe, si rivelarono spietati caporali. Venivano pagati a seconda dei chili di gomma che riuscivano a raccogliere dagli alberi. Un lavoro che facevano svolgere agli indigeni: erano i soli a conoscere i segreti e i pericoli della foresta. Erano schiavi. Se il raccolto era basso venivano puniti con l´evirazione: un modo barbaro di umiliarli e destinarli all´isolamento.
Questo esercito di uomini, spesso criminali salvati dal carcere ma utilissimi per il lavoro sporco, attirò un indotto di taverne, postriboli, case da gioco, bar. Le foreste erano meno isolate, i contatti più frequenti, soprattutto quelli sessuali. L´Aids, misterioso e sconosciuto, aveva la strada spianata. Si è scoperto che il primo caso di virus Hiv-M2 è stato individuato nel 1959, nel sangue di un uomo che viveva a Kinshasa. Era dello stesso tipo del Siv, il virus dell´immunodeficienza delle scimmie. Si stima che il primo contagio risalga almeno al 1931.
Altri studiosi si spingono fino a indicare il 1908. È l´anno che segna la nascita delle prime grandi città della conquista coloniale. Kinshasa era già un centro che vibrava di attività. «Era piena di gente, frenetica, allegra, carica di energie e di speranze», ricordano gli autori del libro. «Una comunità dove le vecchie regole venivano messe da parte di fronte al nuovo commercio che arricchiva tutti». Fu l´inizio della fine. Solo più tardi si scoprirono a San Francisco i casi dei cinque gay infettati. Kinshasa è stata la culla: per mezzo secolo ha protetto e diffuso il più ostinato, mutante, subdolo nemico dell´uomo. Un nemico diventato oggi quella bomba che condiziona le economie africane. E il Sudafrica guida la classifica del contagio, con 5,3 milioni di sieropositivi.
Parlando dell´austerità che si impone a Atene, e delle riforme strutturali necessarie al ritorno della crescita, il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi è ricorso a un´immagine forte. In un´intervista al Wall Street Journal, il 23 febbraio, ha detto che quel che si profila in Grecia è un Nuovo Mondo. L´immagine è forte, e singolare, perché di Nuovi Mondi nessuno osa più molto parlare: tanti ne sono stati promessi, e le cose non sono andate bene.
Generalmente quando si annunciano Nuovi Mondi se ne seppelliscono di vecchi, o perché falliti o perché malgovernati. Goethe, ad esempio, era convinto che la Rivoluzione francese non avrebbe spazzato via i monarchi come «vecchie scope», se questi fossero stati veri monarchi. Lo stesso si può dire oggi dell´Europa, che versa in condizioni ancora peggiori di quei re: la corona non l´ha persa; non l´ha mai pienamente avuta. Non esiste un impero europeo che governi il caos. Non esistono partiti europeisti che si battano contro l´impotente potenza dei nazionalismi, letale per l´Unione. Proviamo dunque a vederlo e pensarlo, il Nuovo Mondo proposto non solo a Atene ma a tutti noi.
È un mondo che abolirà il vecchio regime, e ci libererà dei sepolcri imbiancati dentro cui giacciono divinità ancora onorate, ma ormai finite: «All´esterno paiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume», di ipocrisia e iniquità. Tra questi sepolcri viene additato il Welfare: cioè quel sistema di protezione universale dai rischi della malattia, del lavoro, della vecchiaia, conosciuto in Europa dopo il ‘45. «Lo Stato sociale è morto», annuncia il governatore della Bce, perché perde senso se non copre tutti i cittadini e se il lavoro resta duale: da una parte i giovani costretti alla flessibilità, dall´altra i protetti con salari basati sull´anzianità e non sulla produttività.
Naturalmente c´è del vero, nella denuncia del sepolcro-idolo. Lo Stato sociale fallisce, a partire dal momento in cui non mantiene più la parola. Ma perché dire che come promessa è morto, gone? Perché nessun accenno al fatto che, essendo un patrimonio essenziale dell´Europa, va riorganizzato, ma non ucciso? Possibile che debba emergere da un certificato di decesso il mirabile nuovo mondo che vedremo dopo austerità e liberalizzazioni? Il brave new world di Huxley - ricordiamocelo - è una distopia, un´utopia tutta negativa.
In realtà sono decenni che lo Stato sociale è sotto attacco, quasi fosse un lusso ormai insano. Più fondamentalmente è sotto attacco lo Stato: considerato esso stesso un rischio, da politici ed economisti abituati a nutrirsi di dottrine antistataliste. Su quel che accadrà di qui al Nuovo Mondo non ci si sofferma. Parole come povertà, penuria, declino demografico scompaiono, sostituite dal pulito, clinico eufemismo: «Ci sarà una contrazione». Torna in auge perfino la famosa certezza esibita dalla Thatcher: «Non c´è alternativa». Anche quest´affermazione è leggermente stupefacente, perché l´univoca ideologia inglese e americana degli anni ‘80 è finita infelicemente. Il mercato-padrone, che da solo si equilibra, s´è infranto nel 2007-2008. Oppure no?
Quel che conta è sapere cosa muore, e cosa si mette nel vuoto che resta. Muore quel che gli europei appresero nella crisi degli anni ‘30, e in due guerre. La prima cosa che scoprirono fu l´unione europea, il No alle rovinose sovranità assolute degli Stati-nazione. La seconda fu il Welfare, il No alla povertà che aveva colpito le genti negli anni ‘30, gettandole nelle dittature e nelle guerre. Si tratta di due polizze d´assicurazione, offerte ai popoli per far fronte ai sinistri del passato, e tra esse c´è un nesso. Basti ricordare che il principale ideatore del Welfare, William Beveridge, fu anche militante dell´Europa federale.
Come si tiene insieme una società? Come si scongiurano le guerre, civili o tra Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare che la questione della povertà divenisse di nuovo mortifera. Lo Stato sociale che Beveridge propose nel 1942 su richiesta di Churchill fu voluto all´inizio da un liberale e un conservatore. Toccò al Premier laburista Attlee, nel dopoguerra, metterlo in pratica. Come disse Churchill, l´aspirazione era di «proteggere l´individuo dalla culla alla tomba». Secondo Michel Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle persone «che avevano attraversato una crisi economica e sociale gravissima», i governanti dissero in sostanza: «Ora vi chiediamo di farvi uccidere, ma vi promettiamo che, una volta fatto questo, conserverete il posto di lavoro sino alla fine dei vostri giorni» (Foucault, Nascita della biopolitica). Cinque erano i «giganti» che Beveridge riteneva nemici della Ricostruzione postbellica: Bisogno, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. Tutti insieme andavano abbattuti.
Quali sono i giganti contro cui oggi combattiamo, per ricostruirci? A sentire chi ci governa non sono quelli evocati da Beveridge. Non sono il disgregarsi della convivenza civile, la miseria, il crollo della democrazia. Sono la non-attuazione dell´austerità, l´«immediata reazione negativa» dei mercati. Perfino il voto democratico si tramuta in rischio, e infatti si diffida delle elezioni greche di aprile, e forse anche delle italiane. L´unico gigante che impaura è l´ozio, la pigrizia figlia del Welfare. L´essere umano non è guardato con apprensione: è guatato con sospetto, e sul sospetto non si edificano polizze né patti.
Per la verità anche Foucault denunciò la «coppia infernale sicurezza sociale-dipendenza», negli anni ‘80. Di fronte a una «domanda infinita», s´ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del mercato sulla società, era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un´ennesima utopia, lo si era visto negli anni ‘30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli anni di presa di coscienza sull´orlo del disastro. È il patto di guerra che stavolta manca, in Europa. È la memoria di quel che escogitarono uomini come Keynes, Beveridge, Roosevelt. È significativo che mentre l´Europa dimentica, l´America tenti - assai timidamente con Obama - di resuscitare Roosevelt e il New Deal.
Ci sono momenti nella vicenda europea dei debiti sovrani in cui si ha l´impressione, netta, che sulla pelle dei greci si stia compiendo un esperimento neo-liberista, una sorta di regolamento dei conti con Keynes, Beveridge, Roosevelt. Si vuol capire sin dove regge un paese, se impoverito e sfrondato di Stato sociale. È la tesi di Michael Hudson, economista dell´Università di Missouri a Kansas City: «La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore».
Con decenni di ritardo, molti economisti e politici sembrano riesumare l´illusione del 1989, quando Francis Fukuyama dichiarò finita la Storia. I patti sociali del dopoguerra non servono, ora che è naufragato lo stimolo che fu il comunismo. Quel che prevale è una sorta di spirito anti-conciliare: allo stesso modo in cui la Chiesa disattende sovente la sua stessa dottrina sociale (meno in Europa, più in America), gli Stati affossano la giustizia sociale offerta in pegno nel buio della guerra. Pensano di poter fare l´Europa così, sognando di sospendere lo Stato sociale e l´agorà democratica con le sue sempre possibili alternative. Non riusciranno, perché un´Europa siffatta è costruzione vana, dietro la quale non ci sono più comunità di uomini, ma cavalli dalle gambe spezzate.
La verità su quanto sta accadendo in Val di Susa, e sul suo significato generale, sta tutta in una quarantina di ore. Nel breve spazio che va dal sabato pomeriggio al lunedì mattina. Sabato, una valle intera - un popolo - molte decine di migliaia di persone, anziani, giovani, donne, bambini, contadini, operai, piccoli imprenditori, commercianti, "popolazione", riempiono le strade, i campi circostanti, le rotatorie e i borghi, per dire no al Tav. Pacificamente, con volti sorridenti e idee chiare in testa. Lunedì mattina - come se niente fosse - una colonna di uomini armati marcia, secondo programma, sull'area-simbolo di Clarea, sui terreni di proprietà comune risparmiati dal primo blitz del 27 giugno 2011 e diventati il simbolo della resistenza, per occuparli. Indifferenti a tutto, muovono per spianare la Baita che ha ospitato in questi mesi l'anima della valle, come se con le ruspe potessero cancellare le ragioni di tutti. In mezzo, un uomo che cade da un traliccio, folgorato, e solo per miracolo non perde la vita.
Non servono molti discorsi per cogliere l'intreccio di arroganza, di stupidità, di sordità burocratica e di sostanziale disinteresse per i fondamenti della democrazia che muove un potere insensibile a qualunque argomentazione razionale e a ogni criterio di prudenza. Persino a ogni calcolo di costi e benefici. Incapace di leggere i numeri (anche se composto da fior di professori di economia) come di ascoltare le voci dei territori (anche se sensibilissimo ai sussurri dei mercati globali). Chiuso in un'assolutistica fedeltà ai soli interessi dei forti e ai progetti (insensati) degli apparati tecnocratici, a tal punto da non soprassedere neppure una settimana, neppure un giorno, nell'esecuzione di una decisione con tutta evidenza improvvida.
Ho sempre cercato di resistere alla seduzione delle teorie "catastrofiche" che annunciano l' "azzeramento della democrazia" di fronte all'onnipotenza delle tecnocrazie trans-nazionali e all'impersonalità dei mercati. Mi sembravano una diagnosi paralizzante. E tuttavia è difficile non cogliere l'evidenza empirica della forbice sempre più larga - un abisso - che si va creando tra le pratiche autoreferenziali e burocraticamente formali delle istituzioni nazionali e continentali (di quella che con drammatica ironia si chiama "politica") e le domande sempre più esasperate di partecipazione (o anche solo di ascolto) che salgono dai territori. Tra la "democrazia dell'indifferenza" che domina in alto, e la "democrazia della partecipazione" che abita in basso.
Non si tratta solo della pressione repressiva, che d'altra parte in Val di Susa si è fatta soffocante, ai limiti della tollerabilità costituzionale e anche oltre. Si tratta di una cosa più complessa che riguarda il delicato rapporto tra rappresentanti e rappresentati, giunto davvero - per lo meno sul piano nazionale - al punto di rottura, forse irreversibile. Si tratta di quell'organo essenziale in ogni democrazia (e che manca in ogni dittatura) che è l'udito: la capacità di ascoltare le voci della società, dei suoi diversi "pezzi", e di dar loro il giusto peso, come condizione per mantenere "coeso" un Paese, ed evitare l'esodo delle sue parti vitali.
In assenza di quel canale uditivo, un Paese si "slega". Se ignorata troppo a lungo nelle sue ragioni vitali, una popolazione esce dal patto civile che determina il grado e la forma della legittimazione. L'immagine della Grecia è esemplare: un popolo, una nazione, una società condannata alla morte civile in nome di dogmi fideistici coltivati e celebrati nel cuore istituzionale d'Europa, sulla base di ricette rivelatesi mortali agli occhi di tutti, tranne che a quelli dei decisori istituzionali. Come esemplare è l'immagine di quei poliziotti-scalatori che alla baita di Clarea, armati di corde scalano, implacabili, il traliccio indifferenti al rischio e alle parole di Luca Abbà, finché la tragedia non si compie.
Se non riempiremo quell'abisso di senso e di silenzio, se non sapremo riportare a terra il luogo della decisione sul destino dei beni di tutti ora evaporata nell'alto dei cieli finanziari e tecnocratici - ricominciando in primo luogo ad "ascoltare" - quelle di Atene e di Chiomonte non saranno le sole tragedie a cui assisteremo.
La situazione in Portogallo è terribile, ora che la disoccupazione vola addirittura oltre il 13 per cento. Ma va anche peggio in Grecia, Irlanda e probabilmente Spagna. Nel suo complesso tutta l´Europa pare scivolare nuovamente nella recessione. Perché l´Europa è diventata il malato dell´economia mondiale?
La risposta è nota a tutti. Purtroppo, però, buona parte di ciò che si sa non è attendibile, e le false voci sui guai europei stanno snaturando il nostro dibattito economico. È assai probabile che chi legge un articolo d´opinione riguardante l´Europa – oppure, troppo spesso, una presunta cronaca giornalistica degli avvenimenti – possa imbattersi in una di due possibili interpretazioni, alle quali penso in termini di variante repubblicana e variante tedesca. In verità, nessuna delle due rispecchia la realtà.
Secondo la versione repubblicana di come stanno le cose – uno dei temi centrali sui quali batte la campagna elettorale di Mitt Romney –, l´Europa si trova nei guai perché ha esagerato nell´aiutare i meno abbienti e i disgraziati, e staremmo quindi assistendo all´agonia del welfare state. Questa versione dei fatti, a proposito, è una delle costanti preferite della destra: già nel 1991, quando la Svezia si angosciò per una crisi delle banche innescata dalla deregulation (vi suona familiare?), il Cato Institute pubblicò un trionfante articolo su come ciò che stava accadendo di fatto confermasse il fallimento dell´intero modello del welfare state.
Vi ho già detto che la Svezia – che ha ancora oggi un generoso welfare – è al momento una delle migliori performer e ha una crescita economica più dinamica di qualsiasi altra ricca nazione? Ma procediamo con sistematicità: pensiamo alle 15 nazioni europee che usano l´euro (lasciando in disparte Malta e Cipro) e proviamo a classificarle in rapporto alla percentuale di Pil che hanno speso in programmi di assistenza sociale prima della crisi. Le nazioni Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna) che oggi sono nei guai spiccano davvero in tale classifica per il fatto di avere uno stato assistenziale insolitamente generoso? Niente affatto. Soltanto l´Italia rientra nelle prime cinque posizioni della classifica, ma anche così il suo welfare state è inferiore a quello della Germania. Ne consegue che i problemi non sono stati causati da grandi welfare.
Passiamo ora alla versione tedesca, secondo la quale tutto dipende dall´irresponsabilità fiscale. Questa opinione pare adattarsi alla Grecia, ma a nessun altro Paese. L´Italia ha avuto deficit negli anni antecedenti alla crisi, ma erano di poco superiori a quelli tedeschi (l´enorme indebitamento dell´Italia è un´eredità delle irresponsabili politiche di molti anni fa). I deficit del Portogallo erano significativamente inferiori, mentre Spagna e Irlanda in realtà avevano plusvalenze.
Ah: non dimentichiamo che Paesi non appartenenti alla zona euro sembrano proprio in grado di avere grandi deficit e sostenere un forte indebitamento senza affrontare alcuna crisi. Gran Bretagna e Stati Uniti possono prendere in prestito capitali a un tasso di interesse che si aggira intorno al 2 per cento. Il Giappone – di gran lunga più indebitato di qualsiasi Paese europeo, Grecia inclusa – paga soltanto l´1 per cento. In altre parole, il processo di ellenizzazione del nostro dibattito economico – secondo il quale tra uno o due anni soltanto ci troveremo nella stessa situazione della Grecia – è del tutto sbagliato.
Che cosa affligge, dunque, l´Europa? La verità è che la questione è in buona parte legata alla moneta. Introducendo una valuta unica senza aver preventivamente creato le istituzioni necessarie a farla funzionare a dovere, l´Europa in realtà ha ricreato i difetti del gold standard, inadeguatezze che rivestirono un ruolo di primo piano nel provocare e far perdurare la Grande Depressione.
Andando più nello specifico, la creazione dell´euro ha alimentato un falso senso di sicurezza tra gli investitori privati che ha dato briglia sciolta a enormi e insostenibili flussi di capitali nelle nazioni di tutta la periferia europea. In conseguenza di questi flussi, le spese e i prezzi sono aumentati, la produzione ha perso in competitività e le nazioni che nel 1999 avevano a stento raggiunto un equilibrio tra importazioni ed esportazioni hanno iniziato invece a incorrere in ingenti deficit commerciali. Poi la musica si è interrotta.
Se le nazioni della periferia europea avessero ancora le loro valute potrebbero ricorrere alla svalutazione – e sicuramente lo farebbero – per ripristinare quanto prima la propria competitività. Ma non le hanno più, e ciò significa che sono destinate a un lungo periodo di disoccupazione di massa e a una lenta e faticosa deflazione. Le loro crisi debitorie sono per lo più un effetto collaterale di questa triste prospettiva, perché le economie depresse portano a deficit di budget e la deflazione aumenta l´incidenza del debito.
Diciamo pure che comprendere la natura dei guai europei offre agli europei stessi benefici soltanto assai limitati. Alle nazioni colpite, in particolare, non resta granché al di là di scelte difficili: o soffrono le pene della deflazione oppure prendono la drastica decisione di abbandonare l´euro, il che non sarà praticabile da un punto di vista politico fino a quando – o a meno che – ogni altra cosa non avrà fallito (punto verso il quale pare che si stia avvicinando la Grecia). La Germania potrebbe dare una mano facendo dietrofront rispetto alle sue stesse politiche di austerità e accettando un´inflazione più alta, ma non lo farà.
Per il resto di noi, tuttavia, capire bene come stanno le cose in Europa fa una bella differenza, in quanto circolano su di essa false teorie utilizzate per spingere avanti politiche che potrebbero rivelarsi aggressive, distruttive o entrambe le cose. La prossima volta che sentirete qualcuno invocare l´esempio dell´Europa per chiedere di far piazza pulita delle nostre reti di sicurezza sociale o per tagliare la spesa a fronte di un´economia gravemente depressa, ricordate di tenere bene a mente che non ha idea alcuna di ciò di cui sta parlando.
Traduzione di Anna Bissanti - © 2012 New York Times News Service
Titolo originale: Le paysage français, grand oublié des politiques d'urbanisation – Traduzione di Fabrizio Bottini
Come spesso accade, ancora una volta Nicolas Sarkozy non ha usato certo mezze misure. Nel suo intervento trasmesso contemporaneamente da dieci canali televisivi domenica 19 gennaio, Il Presidente della Repubblica ha annunciato il progetto di aumentare del 30 % la possibilità di edificare, "su ogni terreno, edificio, immobile. Incrementando così straordinariamente le possibilità di lavoro per il settore edilizio”. E poi “per aumentare notevolmente la disponibilità di case, influenzandone il prezzo. Sia per l’acquisto sia per l’affitto". Una scommessa sull’immobiliare in grado di accontentare poi un po’ tutti? Prima di essere adottato dall'Assemblée nationale il 22 febbraio, il progetto di legge ha sollevato notevole ostilità. I promotori prevedono una impennata di prezzi dei terreni, gli agenti immobiliari uno sconvolgimento del mercato, i costruttori di case economiche si sentono trascurati. Quanto alle amministrazioni locali, che dovranno rilasciare le licenze e istruire nuovi piani regolatori, si sentono un po’ scavalcate dal nuovo testo.
Ma soprattutto, la legge pare tacere su uno degli aspetti essenziali per le trasformazioni edilizie in Francia: il paesaggio. Gli anni dalla ricostruzione ai ’70 sono stati caratterizzati dai grands ensembles, mentre gli ultimi tre decenni hanno visto il trionfo delle casette unifamiliari, che oggi rappresentano i due terzi degli alloggi a livello nazionale. Le torri e i casermoni delle città sfigurano oggi il paesaggio della valle della Senna o le alture del marsigliese. Ma da ora in poi saranno lottizzazioni di casette e edifici isolati a colonizzare la Francia delle valli e delle coste, delle pianure e dei boschi. Le identità locali cancellate, confini comunali che sfumano l’uno nell’altro. Le insegne dei supermercati a sconciare gli ingressi in qualunque centro abitato. Non c’è più campagna e non ci sarà mai città, né urbano né rurale.
Suolo: “Una risorsa non rinnovabile”
Sicuro, il progetto di legge esclude tutte le zone tutelate in quanto patrimonio naturale, o classificate come bene storico. Ma anche escluse queste aree salvaguardate, quali effetti ci saranno sul paesaggio? Si rallenterà o accelererà il degrado? Che tipo di situazione si vuole affrontare? Su quali principi ci si basa? A quest’ultima domanda il ministro delegato per la casa Benoist Apparu ha una risposta semplice: “Non vogliamo più consumare spazi naturali, non possiamo più continuare a coprire superfici agricole, ma vogliamo costruire case, quindi occorre densificare”.
Densificare: la parola d’ordine è vaga. Da dieci anni fa litigare tutti contro tutti nel paese. Salvo qualche urbanista, tutti reclamano “spazio”. Spazi verdi nelle città, abbattere le torri nelle periferie, migliorare il traffico per avvicinarle al centro, ampliare i quartieri … “Oggi tutti possono constatare le devastazioni del paradosso francese, abbiamo consumato molto più territorio degli altri, ma c’è tragica carenza di alloggi”, spiega il paesaggista Bertrand Folléa. Si "artificializzano" da 60.000 a 70.000 ettari l’anno, praticamente tutti terreni agricoli. L’equivalente delle superficie di un Dipartimento ogni sette anni. Per fare un confronto, la Germania consuma 20-30.000 ettari. I francesi vogliono la casetta unifamiliare? Si è fatta la scelta della dispersione urbana, dimenticandosi che il territorio è una risorsa non rinnovabile”. Per cercare di capire come ci si è arrivati, Bertrand Folléa propone alcune spiegazioni. Innanzitutto “il mito del castello familiare”. “Si è cercato di democratizzare il modello borghese, senza capire che cambiandone la scala si cambiava anche il modello”. “Poi un’organizzazione urbana ereditata dal medio evo. Nuclei di villaggio molto densi e definiti, tutt’attorno le terre agricole che danno da mangiare alle famiglie. Nel momento in cui l’agricoltura diventa meno essenziale,si costruisce su questi terreni in modo rado..."
Michel Lussault, professore di geografia urbana all'Ècole normale supérieure di Lione, va un po’ più in là,indicando una "cultura nazionale urbano-scettica, il mito campagnolo”."In Italia, la città è ovunque. Anche il centro più piccolo ha caratteri urbani. In Francia succede il contrario, e anche alcune grandi città sono campagnole. Tutto è villaggizzato. Pensiamo ai nostri presidenti, tutti immediatamente ad affermare il proprio legame di villaggio”. Il suo collega all’Ècole, lo storico Jean-Luc Pinol, ci aggiunge la qualità “mortifera” che da tanto tempo si attribuisce alle città: “La densità determinava la trasmissione dei miasmi, e si invidiava Londra che con le sue case di tre piani, tanto meno densa di Parigi. D'altra parte Parigi nel corso del XX secolo ha continuato a diminuire di popolazione, passando da tre a due milioni di abitanti. Tra le due guerre si sono costruite villette nella cintura interna, spesso a basso costo. Poi sono arrivate le città dormitorio, poi i grands ensembles. Alla fine le lottizzazioni realizzate fuori dalla città".
Un insediamento a misura d’automobile
L'architetto e urbanista David Mangin ha analizzato in modo approfondito quest’ultimo fenomeno nel suo libro La Ville franchisée. Vecchi miti, tradizione, storia, tutto è stato trascinato via dalla rivoluzione tecnologica con l’avvento del'automobile.“Tutto è cambiato: modelli di vita, modelli edilizi, organizzazione urbana, ma anche economia, servizi, e naturalmente il paesaggio". Incaricato dalla città di Nizza di riorganizzare la pianura del Var,ne ha rilevato l’organizzazione spaziale. "Più del 40 % di questo straordinario paesaggio è occupato dalle macchine: ci sono i parcheggi dell’aeroporto o dei supermercati, i noleggi, i garage, gli sfasciacarrozze. Non ha senso”. Certo si tratta di una situazione estrema. Ma accade ovunque, anche se in modo meno spettacolare, in base alla medesima logica.
Un intero territorio riorganizzato in funzione dell’auto. A partire dalla rete stradale. La maglia delle arterie veloci che secondo Charles Pasqua, ministro per la pianificazione del territorio dal 1986 al 1988, doveva assicurare a tutti “al massimo venti minuti per arrivare in autostrada”. Poi le casette unifamiliari, che da trent’anni rappresentano i due terzi degli alloggi costruiti."I grands ensembles hanno fallito, ma le amministrazioni dovevano salvare scuole e servizi, e così si sono realizzati delle specie di grands ensembles in orizzontale, monofunzionali. I genitori portano i figli a scuola in macchina, e poi la usano per andare a comprare il pane. È del tutto anti-ecologico e però ci si sente vicini alla natura ... Il tutto con la benedizione dei pubblici poteri che volevano allontanarsi dal modello delle abitazioni collettive".
Terzo anello della catena, la grande distribuzione. Terreni a buon mercato, bacini di popolazione cresciuti: “I grandi marchi hanno visto l’occasione, secondo il modello importato dagli Stati Uniti: niente parcheggi niente affari. E hanno calcolato la superficie per la sosta sul traffico della vigilia di Natale. Con le tangenziali, le grandi superfici commerciali sono in effetti molto accessibili per tutti. Hanno svuotato i centri, sfigurato gli ingressi alle città, aperto alla costruzione di nuove case … che attirano altre superfici commerciali. Un circolo vizioso, per però va bene a molti. Ivi compresi i contadini, dato che il prezzo di un terreno agricolo esplode quando diventa edificabile. Cosa che vale in tutto il paese. Piante calcoli e foto alla mano, David Mangin lo dimostra: attorno a Dinan, Bretagna, così come a Chalon-sur-Saône, in Borgogna, fra glia ni ’60 e gli anni ’90 l’ambiente urbano ha sostituito quello rurale.
La casetta “con un piccolo giardino attorno”
Tutta colpa della casetta unifamiliare? L’economista e direttore di ricerca al CNRS, Vincent Renard, ribatte deciso: "non mi piace questo disprezzo, questo razzismo contro chi si è costruito una casa. Il problema non è la casa, ma il sistema".Jean Attali, filosofo e professore di urbanistica all'Ècole nationale d'architecture Parigi-Malaquais, rincara la dose : "Quando gli amici architetti criticano la casetta unifamiliare, si dimenticano di citare un aspetto di questa critica, ovvero che quello delle casette è un mercato che li scavalca. In Francia non è obbligatorio ricorrere a un architetto sotto i 170 m2. Sono sempre un po’ a disagio quando li ascolto prendere in giro le casette individuali". Anche David Mangin aggiusta il tiro: “Non si tratta della casetta individuale, ma del lavaggio del cervello che i promotori hanno fatto a tutti i francesi, secondo cui l’unica soluzione possibile è quella casa peripatetica: isolata, su un poggio, con un piccolo giardino tutt’attorno".
Continua l'urbanista Philippe Panerai:"Anche olandesi e inglesi hanno fatto la scelta della casa individuale, ma nel contesto di un’altra storia, di un’altra organizzazione. Gli olandesi avevano strappato la terra al mare, e non potevano certo sprecarla; gli inglesi attraverso un prodotto industriale standardizzato, e senza la proprietà della terra. Quindi le case sono state realizzate fianco a fianco, col giardino sul retro, una soluzione molto più economica in termini di spazio". Risparmiare spazio. Cosa un tempo sconosciuta in Francia, l’idea a poco a poco si è fatta strada. Prima nelle riflessioni dei ricercatori e dei paesaggisti. Poi, dopo dieci anni, nelle sedi di dibattito istituzionale, come le convenzioni sull’ambiente alla Grenelle o il concorso Grand Paris. "Si è presa coscienza degli aspetti economici, sociali, ambientali della dispersione urbana”, specifica Jean Attali. “In termini di mobilità, saturazione dei trasporti collettivi, congestione, danni all’ambiente. Anche da parte degli abitanti, che sognano un modo di vivere migliore, vicino alla natura, e che oggi ne scoprono aspetti negativi".
Vincent Renard continua su questo tema: "Si è assorbito il contraccolpo della politica dei grands ensembles, ma non ancora quello delle lottizzazioni. Con la crisi economica e l’aumento dei prezzi dei carburanti, che è solo cominciato, scatta la trappola. Qualcuno se ne sta accorgendo ".
"Soprattutto, i prezzi troppo alti hanno bloccato il sistema e interessano tutti” dice David Mangin. “Finché la cosa interessava solo i più poveri non ci badava nessuno. Oggi anche le fasce superiori faticano a trovar casa per i figli. E si spera in una presa di coscienza..."
Densificare
Gli urbanisti propongono i propri modelli. Qualcuno auspica un ritorno alla città tradizionale e alla mobilità pedonale, altri ipotizzano nuovi sistemi di circolazione per una “città fluida”. Secondo il pensiero dell’olandese Rem Koolhass, altri ancora chiedono di liberarsi da ogni vincolo e far ricorso al genio dell’architetto per ricostruire la città. Infine, che chi come Bertrand Folléa insieme alla compagna Claire Gautier cerca di inventare una “città sostenibile”. Complessivamente emerge comunque una convinzione, quasi una parola d’ordine: bisogna densificare. Densificare i centri, dove ci sarebbe tanto spazio in cui costruire. Fabbriche, caserme, ospedali, trovano oggi nuove funzioni. "Dopo vent’anni hanno demolito la biscotteria Lu di Nantes” osserva Jean-Christophe Bailly, professore all'Ecole nationale supérieure de la nature et du paysage di Blois. “E ci dovrebbero fare il parcheggio di un supermercato, magari un po’ di verde? Il comune ha scelto di farci un polo artistico, Le Lieu unique. Non tutto è perduto".Densificare anche i grands ensembles"perché contrariamente a quanto si pensa di solito quei quartieri sono a bassa densità, a causa delle norme sulle distanze fra edifici, sui parcheggi, su quegli pseudo spazi verdi”.
Piuttosto che cedere alla moda di distruggere semplicemente torri e stecche, architetti e urbanisti propongono di sostituirle con unità più piccolo, introdurre attività commerciali e studi professionali. A Rennes, Grenoble o Strasburgo si è intrapresa questa strada. Densificare e riqualificare rapidamente le città per risparmiare spazio, o sfruttare nuove tecniche più sicure per edificare in aree a rischio inondazione. "Però le soluzioni semplici non esistono” avverte David Mangin. “Il capannone che si vuole demolire per costruirci case magari è una attività importante per la città. SI tratta sempre di operazioni complesse, delicate, lunghe, che richiedono compromessi".
Il ruolo degli abitanti
E in tutto questo dove si colloca il 30 % tanto caro a Sarkozy? Una scelta “elettorale”, "brutale", "demagogica", sostengono in coro tutti i nostri interlocutori. "Potrebbe avere qualche senso in una logica di revisione del sistema di pianificazione, imponendo ai terreni il loro valore reale, delegando la responsabilità delle trasformazioni alle associazioni intercomunali e non ai municipi”sospira l'economista Vincent Renard. “Ma in questo modo è assurda". Tutti riconoscono alla proposta due meriti: quello di mettere il dito su una piaga della nostra epoca, ciò che il geografo Michel Lussault chiama “la proceduralizzazione della città, l’insieme di leggi, regolamenti, vincoli, che finiscono per soffocare ogni dinamica urbana. E anche il merito di porre la questione del ruolo dei singoli cittadini nella costruzione della città. La loro capacità di inventare ciò che poi a distanza di secoli potrà apparire pittoresco. Ma anche il diritto a riflettere, concepire, decidere sui modi dell’abitare.
Prosegue Michel Lussault: "Ieri la città-rete, oggi quella sostenibile, densificata, senza emissioni, si tratta di modelli che lasciano fuori gli abitanti. Non dobbiamo mai dimenticarci che sono i francesi ad aver scelto in tutta autonomia la città poco densa, grazie alle automobili e con la benedizione delle autorità. E non solo per il rifiuto di una certa composizione sociale, ma anche sfuggendo ai problemi della densità mal concepita. Perché oggi possa riuscire l’idea della densificazione, perché non sia vissuta come una sofferenza, occorre ripensare le forme architettoniche". La torre Bois-le-Prêtre, a Parigi (nel diciassettesimo arrondissement), riqualificata da Lacaton et Vassal, dimostra che si tratta di un obiettivo raggiungibile. Ma si può essere più ambiziosi. Invitando architetti, urbanisti, sociologi, giuristi, economisti, a cambiare natura: "Non devono più pensarsi come dei domatori che entrano nell’area a spiegare alle belve che è sbagliato ruggire, ma come levatrici di un processo di autocostruzione".
In altre parole, "Vanno riviste le forme della democrazia urbana. Non il genere di democrazia partecipativa che è diventato la foglia di fico della nostra incapacità di far evolvere la città. È l’insieme delle procedure che va rivisto, dalle concessioni edilizie ai piani urbanistici. Lo si fa nei contesti di scarsa presenza del potere pubblico, che siano le baraccopoli dell’India, dell’America del Sud, o anche negli Stati Uniti, come a Seattle. Ma anche in paesi di tradizione democratica, dalla Svizzera alla Scandinavia”.
È un progetto da candidato alle elezioni presidenziali? "Direi piuttosto un progetto per il nuovo millennio " , conclude il professore con un sorriso.
Qui il testo del progetto di legge approvato dall'Assemblea nazionale
Il comma 16 dell’articolo 29 del D. L. 29 dicembre 2011, n.216, Proroga di termini previsti da disposizioni legislative, ha spostato in avanti di un anno (al 31 dicembre 2012) l’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili destinati ad abitazione. La proroga degli sfratti fu chiesta dai sindacati degli inquilini per evitare che famiglie a basso reddito e in condizioni di particolare di disagio sociale restassero senza una casa. Date le particolari situazioni di difficoltà familiari che devono verificarsi affinché essa possa essere applicata, questa norma non avrà un impatto quantitativamente significativo.
I sindacati chiesero anche la sospensione degli sfratti per i "morosi incolpevole" , come possono essere definiti gli inquilini che smettono di pagare l'affitto a causa di una riduzione di reddito per la perdita del posto di lavoro o per la collocazione in cassa integrazione (se lavoratori dipendenti) o per la cessazione dell’attività (se lavoratori autonomi). Il governo non esaudì la richiesta dei sindacati, anche se con l’avanzare della crisi economica e dell’occupazione cresce il numero di famiglie che ha perduto o sta perdendo la casa. Ma un’estensione della sospensione degli sfratti ai morosi incolpevoli può essere proposta senza una sua eccessiva (nonché temporanea) gravosità sui conti pubblici.
I beneficiari della proroga
La proroga si applica solo agli inquilini per i quali ricorrono le condizioni oggettive e soggettive definite dalla legge 9/2007. Le abitazioni devono essere localizzate nei comuni capoluoghi di provincia e in quelli o ad essi confinanti con più di 10.000 abitanti oppure classificati ad alta ten-sione abitativa; gli inquilini devono avere un reddito imponibile annuo familiare non superiore a 27.000 euro ed avere nel proprio nucleo un ultrasessantacinquenne, un malato terminale, un por-tatore di handicap invalido almeno al 66% oppure figli fiscalmente a carico. La proroga si applica solo ai casi di finita locazione dell'immobile, con esclusione degli sfratti per morosità; durante il periodo di sospensione di esecuzione dello sfratto l'inquilino deve corrispondere il canone maggiorato del 20%.
Il numero di inquilini sfrattati che versa in condizioni di così grave disagio non è (fortunatamente) eccessivamente elevato: la relazione tecnica alla norma che introduce la nuova proroga li stima in 1.300. Poiché è previsto che i proprietari degli immobili non dichiarino al fisco, durante il periodo di sospensione, il reddito da canone, la stessa relazione tecnica stima, nel 2013, minore entrate per 3,38 milioni di euro, con un costo fiscale unitario per sospensione di 2.600 euro. Con un'aliquota Irpef media del 33%, questo risparmio d'imposta unitario lo si ottiene applicandolo ad un cannone medio 9.300 euro all'anno circa (circa il 40% di ciò che resta di un imponibile di 27.000 euro dopo l'Irpef). Tra l'incremento di canone, pagato dall'inquilino durante il periodo di sospensione dello sfratto, e lo sconto fiscale, il proprietario viene "risarcito" con una premio di circa 4.500 euro su base annua per il ritardo con il quale è costretto ad entrare in possesso del suo immobile.
La crescita degli sfratti per morosità
Nel 2010 (ultimo anno per il quale si dispone del dato rilevato dal ministero dell'interno) sono stati emessi circa 65 mila provvedimenti di sfratto. Nel 2008, invertendo la tendenza alla contra-zione del fenomeno che aveva caratterizzato i tre anni precedenti, il numero di provvedimenti emessi superò le 52 mila unità, con un aumento di quasi un quinto rispetto all'anno precedente; nel 2009 divennerò circa 61.500 (+17,6%). Questo aumento numerico è interamente spiegato dalla crescita del numero di sfratti per morosità: da 33.500 del 2007 si passa ai 41.000 circa del 2008 per crescere a 51.600 nel 2009 e superare i 56.000 del 2010. Dalla fine del regime contrat-tuale dell’equo canone la morosità è sempre stata la causa relativamente prevalente di sfratto. Nella media del triennio 2008-2010 il mancato pagamento dei canoni ha motivato l’83% del nu-mero totale di sfratti, contro il 75% del triennio precedente. In alcune delle province più indu-strializzate questa percentuale ha superato, nel 2010, il 90%: Brescia e Vicenza quasi il 95%, Modena il 94%, Torino il 92% . I sindacati degli inquilini collegano l'aumento del numero delle famiglie che ha smesso di pagare l'affitto all'aggravarsi della crisi economica e occupazionale, con conseguente crescita di quella che essi classificano come morosità incolpevole.
Un’ipotesi di lavoro
Possiamo formulare un’ipotesi finanziariamente non velleitaria per una temporanea sospensione dell’esecuzione degli sfratti dei morosi incolpevoli. Il loro numero può essere quantificato nell'intero aumento del numero di sfratti per morosità del triennio 2008-2010: per approssima-zione in media 7.000 all'anno, che possono diventare 10.000 con il perdurare della crisi; ipotiz-ziamo che il canone medio sia di 8.000 euro, che diventano 6.320 euro netti nel caso di tassazione con cedolare secca 21%.
Condizione necessaria per la sospensione dello sfratto è che il proprietario riceva il canone al netto dell’imposta e che il nucleo familiare moroso si impegni a pagarlo. Poiché il moroso incol-pevole non è in grado di pagare il canone, deve farlo lo Stato al suo posto (almeno come antici-pazione); per non più di due anni, in modo da contenere il rischio che scatti la trappola della po-vertà. L'intervento potrebbe essere previsto in via sperimentale per cinque anni (la nottata dovrà pur passare!). Per aiutare 10.000 famiglie ogni anno (50.000 nel quinquennio), l’onere per il bi-lancio statale sarebbe di 63,2 milioni di euro il primo (e il sesto) anno e di 126,4 a partire dal se-condo fino al quinto.
Cifra non trascurabile, ma sopportabile per il bilancio statale se spalmata nel tempo. Ai proprie-tari degli alloggi andrebbe riconosciuto per cinque anni un credito d'imposta pari ad un quinto dell'importo del canone spettante al netto dell'imposta (cioè 1.264 euro), con una perdita di getti-to che cresce progressivamente in ragione annua di 12,64 milioni di euro l'anno, fino a raggiungere il massimo di 63,2 milioni il quinto anno dall'avvio dell'intervento, riprendendo successivamente a calare fino a tornare a 12,64 milioni al nono anno dall’inizio dell’intervento. Il costo complessivo dell’intervento, ripartito su 9 anni (e non su 5), sarebbe relativamente contenuto nei primi, che sono quelli più prossimi in cui il bilancio statale continuerà ad accusare maggiori sofferenze.
Il proprietario dell’immobile riceve in cinque anni l'importo netto del canone che avrebbero diritto di ricevere in un anno, ma conserva un inquilino che fino a quel momento aveva corrisposto puntualmente l’affitto, e che, superato il momento di difficoltà riprenderà, verosimilmente, a far-lo.
La perdita di gettito che il bilancio statale deve sopportare potrebbe essere temporanea e recupe-rabile. I beneficiari della sospensione degli sfratti, dovrebbero, infatti, impegnarsi a restituire allo stato gli importi anticipati. Ogni nucleo familiare inizierebbe a farlo dal momento in cui recupera il suo livello di reddito di pre-morosità, rinunciando alle detrazione Irpef che il vigente regime di tassazione dei redditi accorda ai diversi tipi di redditi da lavoro. Questa rinuncia dovrebbe pro-trarsi per il numero di anni necessari a saldare quello che diverrebbe un “debito d’imposta”, e impegnare tutti i membri maggiorenni del nucleo familiare.
Solo di progetti, burocrazia e trivellazioni è già costato 300 milioni di euro. E ormai è evidente che non si farà più, anche perché la Ue l'ha tolto dai suoi programmi. Eppure esiste ancora una società pubblica che paga stipendi e butta via risorse: chiudiamola, subito
Caro presidente Monti, la questione del Ponte sullo Stretto di Messina si è trasformata, in quarant'anni, in una trista saga gotica. In soli tre anni un Paese povero come il Portogallo ha costruito il ponte sul Tago lungo 17,2 chilometri, il più lungo d'Europa.
Il ponte sullo Stretto, con Berlusconi e i colpevoli cedimenti della sinistra, è divenuto un simbolo araldico delle prospere sorti e progressive del Paese di Cuccagna. Gli argomenti di chi è contrario a questa impresa faraonica sono di natura tecnica, ambientale ed economica. Un gruppo di lavoro di 30 esperti e docenti universitari delle più diverse discipline ha scritto un rapporto di 245 pagine di osservazioni al progetto definitivo, che le è stato inviato lo scorso 27 novembre. Sostenuto da tutte le associazioni ambientaliste. L'Unione europea, intanto, ha cancellato il ponte dall'elenco delle opere da finanziare entro il 2030.
La Società Stretto di Messina ha ingoiato come un'idrovora, non acqua, ma oltre 200 milioni di euro secondo la Corte dei conti dal 1986 al 2008. Negli anni trascorsi da allora, seguendo accurate valutazioni, si arriva a una cifra che rasenta i 300 milioni: lo documenta l'inchiesta su "La Repubblica" di Giuseppe Baldessaro e Attilio Bolzoni. Con questo fiume di soldi si sono elaborati progetti in permanente aggiornamento, si sono fatte trivellazioni, si è creata una struttura di gestione (tecnici e burocrazia annessa) che fa impallidire il Pentagono. Daniele Ialacqua di Legambiente questa storia "tragicomica" l'ha raccontata in un libro con acribia.
L'area dello Stretto è, per plurisecolare esperienza, quella a più alto rischio, sotto il profilo sismico e geologico, del Mediterraneo. Si dice che il ponte sarebbe contributo essenziale al rilancio economico del Mezzogiorno: a mio avviso l'unica grande opera da intraprendere, non solo nel Mezzogiorno ma nell'intero Paese, è porre mano allo stato di endemico sfacelo delle montagne e delle colline, dei fiumi e delle coste, del degrado urbano ed edilizio che, con drammatica periodicità, arreca danni incalcolabili e semina vittime.
Il Paese ha bisogno di una sistematica politica del suolo e di una minuziosa protezione delle aree a rischio. Che non è solo tutela del paesaggio, ma difesa delle popolazioni che vivono in aree il cui assetto geomorfologico fa tremare appena piove o nevica. Queste opere in soccorso dell'ambiente necessitano di un programma organico: per finanziarlo si richiedono risorse ingenti, con investimenti pluriennali che riparino lentamente lo stato di decomposizione del Belpaese.
A che cosa serve citare i vilipesi articoli della Costituzione? Con vantaggi per l'occupazione incomparabilmente più convenienti e necessari confronto a qualunque investimento in grandi opere infrastrutturali. Chiamare a progettare i servizi un archistar come Daniel Libeskind è la classica manovra diversiva.
Al governo, caro Monti, non si chiede solo di bloccare l'insensata ambizione di costruire il ponte, si chiede che si avviino le necessarie procedure per sciogliere la Società Ponte di Messina a totale capitale pubblico (consociata Eurolink, con capofila Impregilo): vero vaso di Pandora, immobile e vorace, dal cui coperchio - una volta sollevato - non è prevedibile cosa potrà uscire.
Dinanzi all´ordine di rimuovere le bacheche che espongono l´Unità, sulle prime uno pensa che Fiat abbia deciso di estromettere la democrazia dai suoi stabilimenti. Un segno non da poco. Il cammino era già tracciato con i contratti ferrei di Pomigliano e Mirafiori, il licenziamento di alcuni operai che avrebbero disturbato la produzione a Melfi, infine l´esclusione della Fiom dai reparti. Ora si aggiunge il divieto di esporre un quotidiano. Il che fa pensare ad altro. Infatti la democrazia non è morta sempre con un gran botto. In diversi casi è morta anche a piccoli passi, compiuti nelle fabbriche, nelle scuole, in piccole città, fino a che ci si è accorti che era scomparsa in un intero Paese. Per questo motivo il segnale che arriva da Bologna e altrove preoccupa sotto il profilo politico più che sotto quello delle relazioni industriali.
D´altra parte è possibile che Fiat non abbia affatto intrapreso i passi anzidetti per cancellare la democrazia industriale. Magari ha già deciso di lasciare l´Italia, come parrebbe anche dai contraddittori annunci circa i modelli da costruire o forse no nel quadro del fantomatico piano Fabbrica Italia e dai milioni di ore di CIG a Torino e Pomigliano. E vuol mostrare che vi è costretta perché con la Fiom non si ragiona, troppi osano criticare il Piano che non c´è mentre gli americani lo ammirano, e qualcuno pretendeva pure di esporre nei suoi impianti un quotidiano che in un angolo reca tuttora la scritta "fondato da Antonio Gramsci nel 1924".
ABUSI edilizi, discariche, muretti, dighe e ponticelli fuorilegge, frane mai messe in sicurezza. Perfino orti, pollai, campetti da bocce. Mille irregolarità. È quanto emerge dal dossier della commissione speciale del Comune sull’alluvione del 4 novembre scorso, chiamata a rispondere sulle cause dell’esondazione del Fereggiano, che ha causato sei vittime, e gli straripamenti del Bisagno e dello Sturla. I tecnici in questi tre mesi hanno condotto sopralluoghi, fotografato anomalie ed elaborato una mappatura del disastro.
La relazione è pronta: verrà discussa in consiglio comunale per studiare come intervenire, quali sono gli oneri economici e per valutare soprattutto quali sono le violazioni di natura penale da segnalare alla magistratura che indaga per disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Il gruppo di lavoro, composto da tecnici del Comune (un geologo, un ispettore dell’edilizia privata e un tecnico per ogni municipio interessato), della Provincia, di Aster e Mediterranea delle Acque, ha iniziato le indagini venti giorni dopo la tragedia. Le conclusioni, confermano quello che era nell’aria e che aveva appurato la magistratura: nel torrente Bisagno, Fereggiano e Sturla sono disseminate decine di costruzioni di cemento e capannoni di lamiera. «Un’anomalia incredibile perché si trovano non solo lungo gli argini, ma anche sugli alvei», è scritto. In particolare, le irregolarità maggiori, esattamente 569, sono state rilevate lungo il bacino del Bisagno e dei suoi affluenti.
Ci sono fasce crollate e mai rimesse a posto, abusi edilizi, garage, box in lamiera, in generale è stata censita la costruzione abusiva di “immobili in alveo o comunque di ingombro al deflusso delle acque”. Al settimo punto del rapporto viene indicata la “presenza di discariche abusive”, soprattutto lungo il bacino del Fereggiano, del rio Novare e del rio Noce, dove sono state censite 261 situazioni a rischio. La commissione mette in evidenza come gli alvei siano “imbrigliati” da muretti costruiti in passato per rallentare l’acqua e che con la trasformazione idrografica, ad esempio del Bisagno, formano una strozzatura. Gli argini dei torrenti sono in condizioni pessime, certamente non adeguati per contenere un eccezionale flusso d’acqua, anche “per via della vegetazione”: solo per il bacino dello Sturla, le irregolarità accertate sono 169. Il monitoraggio, mette quindi in evidenza una situazione critica, ad alto rischio, su cui sta indagando anche la procura.
L’inchiesta è coordinata dal procuratore capo Vincenzo Scolastico, che è affiancato dal pm Luca Scorza Azzarà. Al lavoro anche il primo consulente della procura, il geologo Alfonso Bellini — già perito per l’indagine sull’alluvione di Sestri Ponente del 2010 — che ha effettuato un paio di ricognizioni e sopralluoghi nelle zone più colpite. Il procuratore Scolastico sta poi procedendo a una ricostruzione storica per quanto riguarda sia l’urbanizzazione lungo i corsi d’acqua (a cominciare dal 1928 quando Mussolini ordinò la copertura del Bisagno fino agli ultimi interventi) che la gestione della messa in sicurezza — o meglio della mancata — del Bisagno e dei torrenti esondati, Fereggiano, Noce, Rovare, Puggia e Sturla.
Il filone punta sulle opere non eseguite sui corsi d’acqua ritenuti a rischio dai piani di bacino, disegnati nel 2001: gli interventi sono attuati da Comune e Provincia attraverso programmi triennali, finanziati dallo Stato. Serviranno ancora tre mesi per tirare le conclusioni e scoprire chi è responsabile dell’alluvione, ma una prima risposta grazie al lavoro della commissione è già arrivata: nei tre torrenti sono disseminate decine di costruzioni di cemento e capannoni di lamiera. Per il procuratore capo Vincenzo Scolastico, tra le possibili cause dell’alluvione è che l’onda di piena del Fereggiano sia giunta insieme a quella del Bisagno il quale, gonfio e in quel punto ridotto come larghezza da 98 a 48 metri, non era più in grado di ricevere le acque dell’affluente. Bellini, ha spiegato che il Bisagno sarà in sicurezza quando verrà terminata la copertura allargata, da Brignole alla Foce e quando sarà realizzato lo scolmatore. Ora è nello stesso stato di rischio in cui si trovava nel 1970.
I veneziani. La vicenda del Fontego ha risvegliato la voglia di partecipazione della città nelle decisioni - Il confronto. E’ nell’interesse di tutti trovare un accordo ma bisogna mettere nel conto qualche rinuncia
Ci sono occasioni, a volte inaspettate, in cui un’intera città – anche se impoverita nel suo tessuto sociale e provata da anni di «assalti» speculativi – si risveglia di colpo. E’ il caso del progetto per il nuovo Fontego dei Tedeschi, edificio cinquecentesco sotto il ponte di Rialto. Sono sempre di più i comitati, le associazioni, gli intellettuali, gli esponenti della società, della politica e della cultura che prendono posizione sulla vicenda diventata ormai un simbolo.
Al di là delle questioni tecniche, della terrazza bella o brutta, la questione è una sola: si può concedere all’imprenditore di turno – stavolta tocca a Benetton – di andare in deroga a qualunque regolamento vigente soltanto perché ha messo sul piatto un po’ di soldi? Fino a che punto le deroghe possono diciamo così essere «acquistate», approfittando del fatto che il Comune è all’asciutto, e per far quadrare i conti avrà bisogno di trovare nel 2012 cento milioni di euro? Come spesso succede in questa città il dibattito sta prendendo la via della contrapposizione armata. Da una parte i favorevoli, dall’altra i contrari. In realtà la situazione è molto più fluida, le maggioranze composite e bipartisan. Sarebbe sciocco schierarsi a priori per il mantenimento dello status quo. Il Fondaco dei Tedeschi, un tempo affrescato da Giorgione e Tiziano, è rimasto nell’immaginario dei veneziani come «il palazzo delle Poste». Luogo sociale di incontro nel cuore della città. I veneziani non hanno gradito che le Poste lo abbiano venduto a un privato, trasferendo in sedi molto più scomode i loro servizi. Ma oggi il Fontego è vuoto, ha bisogno di cure e restauri. Se non lo fa il privato, rischia il degrado. Dunque, ben venga l’intervento. E se necessario anche un cambio d’uso. «Per una volta», ha detto fiero Gilberto Benetton, «un grande palazzo non diventerà un albergo». Vero, se pensiamo che negli ultimi 5-6 anni sono quasi un centinaio i palazzi e gli edifici diventati hotel.
Ma c’è un limite. Non si possono concedere per questo «deroghe» che ai comuni mortali sono precluse. Nemmeno se la firma del progetto è quella prestigiosa dell’archistar olandese Rem Koolhaas. E’ l’opinione espressa più volte dall’associazione degli architetti veneziani, da associazioni come i 40X Venezia, Venessia.com, singoli intellettuali e professionisti, lo storico dell’arte Salvatore Settis, il rettore dell’Iuav Amerigo Restucci, l’architetto Mario Piana, per anni vice-soprintendente di Venezia. Nè vale invocare come ha fatto il sindaco Giorgio Orsoni, la polemica contro i «passatisti» che sono contro ogni cambiamento e nulla vogliono innovare.
Il Fontego non sarà mai un edificio «privato», anche se Benetton lo ha acquistato sborsando 53 milioni di euro, prezzo inferiore al valore di mercato proprio perché fino ad oggi il palazzo è vincolato ad uso pubblico. Non si deve certo scoraggiare l’innovazione e l’iniziativa privata. Anche se molte operazioni recenti firmate Benetton – la trasformazione del teatro del Ridotto in ristorante dell’hotel Monaco e del cinema San Marco in negozi, lo sventramento dell’ex Banco di Sicilia a San Salvador per ricavare vetrine anche qui in deroga al regolamento edilizio – hanno provocato negli anni furiose polemiche. Ma un imprenditore che vuole investire – soprattutto se non veneziano come in questo caso – dovrebbe capire che la sensibilità e le richieste di una città vanno rispettate. Che l’operazione potrebbe avere un grande successo – e Benetton acquistare maggiore popolarità – anche con qualche rinuncia agli aspetti più clamorosi come la terrazza, la scala mobile, gli sventramenti. Invece di agitare contratti e far lavorare gli avvocati, gli imprenditori dovrebbero mettersi di nuovo al tavolo per confrontarsi serenamente con una città che in larga parte – non solo le «pseudocontesse» – pretende rispetto anche se mancano i soldi pubblici.
Al sindaco, eletto dalla maggioranza dei veneziani, l’onore e l’onere di ascoltare e di trattare con gli imprenditori – chiunque essi siano – con la forza e la serenità di chi rappresenta il pubblico interesse.
Si sono divorati un intero aeroporto in meno di dieci anni. Una voragine di oltre 92 milioni di euro nel bilancio della società a maggioranza pubblica, ma prima di andarsene hanno abbellito l’ingresso all’aerostazione con diciotto bellissimi olivi, affittati a 3722 euro a chioma. Più di una vacanza natalizia ai tropici con imbarco al Catullo. Totale: 67 mila euro, sottratti alla Avio Handling, società controllata dalla Catullo spa, che controlla gli scali di Verona e di Montichiari di Brescia. La Avio, però, è sull’orlo del fallimento e a novembre dello scorso anno è stata ricapitalizzata con tre milioni di euro, pur di non chiudere, con i dipendenti a rischio licenziamento. Anche alla holding dell’aeroporto non scherzano con i debiti. Dei 92,3 milioni di euro di debiti iscritti a bilancio, 19 sono solo di perdita nell’esercizio 2011, mentre vi sono 50 milioni verso le banche, 21 verso i fornitori, 11,8 milioni tributari, 1,35 milioni verso l’Inps, 7,7 nei confronti di altri. Di quei 50 milioni di euro di debiti verso gli istituti bancari, il Banco Popolare di Verona ha chiesto l’immediato rientro entro marzo di 41 milioni di euro. Se non vengono rinegoziati, la bancarotta è alle porte, i libri finiscono in tribunale.
Pur con un quadro debitorio compromesso, nel 2010, l’allora presidente dello scalo, Fabio Bortolotti, sigla un accordo capestro con Ryanair, togliendo proprio al gemello Montichiari i pochi voli rimasti. Per ogni passeggero che sbarca a Verona, il Catullo verserà alla compagna irlandese 15 euro, cioè il doppio rispetto agli altri scali nazionali e internazionali. Inoltre si aggiungono altre clausole capestro, che impongono un esborso complessivo annuo alla società aeroportuale sui due milioni di euro annuo a favore di Ryanair. L’aumento di passeggeri c’è, ma non risolve il deficit di bilancio. Intanto il procuratore capo di Verona, Giulio Mario Schinaia ha aperto due inchieste: la prima per presunta cattiva gestione, la seconda perché le nuove infrastrutture dell’aeroporto sarebbero prive della Valutazione d’impatto ambientale e delle relative autorizzazioni dell’Enac. La grana più grossa che ha portato al disastro finanziario, parte da un’altra scelta: la costruzione dello scalo di Montichiari alle porte di Brescia, al posto del vecchio aeroporto militare.
Nel 1998 il Catullo di Verona chiude per qualche mese, si inaugura il nuovo aeroporto, spendendo 50 miliardi di lire. Sistemate le piste, gli aerei tornano a Verona e a Montichiari non rimane quasi nulla. Nessun passeggero, tuttavia il personale è al suo posto. Un deserto nella Padania. Già nel 2002 il Montichiari si è mangiato 50 milioni di euro e la voragine si allarga di anno in anno. Nel bilancio 2003, il Montichiari dichiara una perdita pari a 3,8 milioni di euro l’anno. Fino ai 5 milioni di euro l’anno negli anni successivi. Per un po’ le floride casse del Catullo di Verona, in perenne crescita per numero di passeggeri, sopporta le perdite, poi si opta per artefici di bilancio. Come nel bilancio 2006, quando si dichiara ufficialmente un attivo di 236 mila euro, si registrano minori costi per 1,7 milioni di euro, invece aumentano i debiti verso i fornitori e si ricorre sempre più spesso a nuovi prestiti. La perdita reale 2006 per il Catullo, si fa trapelare dalla società, sia vicina ai 3 milioni di euro.
Quell’anno l’esposizione verso le banche è di 15,5 milioni di euro e 22,5 milioni di euro sono i debiti verso i fornitori. Nessuno, tuttavia, dice nulla. Mentre i consiglieri del cda si spartiscono 267 mila euro l’anno di emolumenti, come nel 2010. In una società controllata da enti pubblici, i cui consiglieri sono nominati da Province e Comuni, in particolare di Verona e Trento, che detengono una quota rilevante del pacchetto azionario. Le continue ricapitalizzazioni non hanno sanato i conti in rosso. Mentre Brescia è sempre rimasta alla porta fino a poco fa, quando ha sottoscritto un aumento di responsabilità societaria per il rilancio di Montichiari,conunapartecipazionedel25%diquote nella società unica Aeroporti del Garda, alla quale fanno capo i due scali. I soci bresciani finora non hanno aperto il portafogli e Verona gli ha intimato di pagare la loro quota di debiti. Intanto l’aeroporto di Brescia perde 20 mila euro al giorno, 600 mila al mese, 8 milioni di deficit l’anno.
Su questo sito già diversi anni fa si era seguita la vicenda di un fantomatico neo-hub intercontinentale padano: padano sia per la collocazione geografica che per la coloritura diciamo così politica. Ovvero la fusione a freddo dei due campi di Montichiari e Ghedi, che si trascinavano appresso scalo TAV, infiniti lavori stradali, massiccio decentramento funzionale (funzioni dal superfluo al decisamente comico allo squisitamente virtuale)dal centro di Brescia. Sempre che queste funzioni siano mai esistite, naturalmente. Il tutto, con previsioni di passeggeri da far tremare tutta la megalopoli, a fronte di una crisi nera dell’altro hub padano, quella Malpensa da sempre fiore all’occhiello della lobby lagaiolo-gallaratese. C’era del marcio in padania, e la puzza si sentiva da lontano, solo dando una scorsa al grandioso progetto. Adesso, eccoli qui, magari a dire “ma noi non potevamo sapere”. Invece è meglio ricordarsi, dando un’occhiata per nulla storica almeno al nostro primo reportage completo, quello seriosamente intitolato Hub? Burp!. (f.b.)
Un'opposizione politica alla politiche dei tecnici, della Bce e del Fmi viene per ora soprattutto espressa dalla destra populista europea: un insieme di partiti già saldamente insediati nelle istituzioni politiche, che hanno un accesso privilegiato al dibattito pubblico e ai media
La crisi economica avviata con il collasso finanziario del 2008-2009 sta rapidamente cambiando gli scenari della democrazia in Europa. Per fronteggiare gli effetti della crisi si attribuiscono sempre più funzioni di governo ai "tecnici", che inevitabilmente ridimensionano non solo il ruolo e la visibilità dei partiti, ma anche i poteri e i diritti politici dei cittadini. Governi guidati da tecnici sono al lavoro in Italia e in Grecia, sostenuti da coalizioni politiche trasversali. Ma ancora più importante è il ruolo della "troika" formata da Commissione europea, Bce e Fmi che svolge un ruolo da "supergoverno", commissariando di fatto le politiche economiche e sociali dei paesi più in difficoltà dell'Eurozona. L'intervento del "tecnico" Mario Draghi ha poi esplicitato un progetto di trasformazione epocale del Vecchio continente, con l'archiviazione del "modello europeo" soprattutto per le protezioni sociali e i diritti del lavoro. Tutto questo avviene mentre, al di là dell'atlantico, il "politico" Obama è accusato di voler trasformare gli Stati Uniti imitando il modello europeo.
Da dove nasce il potere dei tecnici? Il loro punto di forza è quello di poter imporre anche politiche impopolari, perché non hanno la necessità di conquistare il consenso elettorale. Possono d'altra parte contare sulle debolezze e la poca credibilità dei partiti: per affrontare i problemi posti dalla crisi economica l'opinione pubblica sembra più disposta ad affidarsi a una élite di tecnici piuttosto che alle tradizionali élite politiche. Si sta anche affermando un "retorica dei tecnici", ripetuta come un mantra da Monti, da Draghi e dalla Fornero: l'idea di agire nell'interesse delle future generazioni, soprattutto dei giovani che sperimentano sempre più la disoccupazione e il precariato. Una retorica che non solo è smentita da tutti gli economisti più seri, ma che ha scarsissima credibilità presso i giovani. In Italia il consenso per il governo dei tecnici è elevato soprattutto fra gli anziani e i pensionati, mentre è molto più limitato nelle giovani generazioni; è molto forte fra gli imprenditori e i liberi professionisti mentre si riduce drasticamente tra i disoccupati.
Come ci si può opporre al potere dei "tecnici" e al rigido paradigma neoliberista di cui diventano esecutori? Il dissenso si manifesta soprattutto nella "piazza", come dimostrano le ripetute mobilitazioni che si sono registrare in Grecia, Spagna, Portogallo e (in misura per ora limitata) in Italia. Le mobilitazioni hanno però molte difficoltà ad incidere sui processi in corso perché prive di una rappresentanza politica. Emerge così un diffuso senso di impotenza dei cittadini, una percezione di espropriazione della sovranità popolare, che si lega spesso con la perdita delle sovranità nazionale. Una opposizione politica alla politiche dei tecnici, della Bce e del Fmi viene per ora soprattutto espressa dalla destra populista europea: un insieme di partiti già saldamente insediati nelle istituzioni politiche, che hanno un accesso privilegiato al dibattito pubblico e ai media. Queste formazioni hanno avuto successo negli ultimi venti anni soprattutto gestendo l'antipolitica e denunciando le minacce ai diritti e al benessere delle comunità nazionali attribuite agli immigrati. Oggi appare ancora più facile una gestione politica populista della proteste perché da una parte viene messa in discussione la sovranità popolare e dall'altra si ridimensionano i sistemi di welfare locali, chiedendo allo stesso "popolo" di pagare i costi per risanare i bilanci statali e fronteggiare i collassi delle banche.
La destra populista europea gestisce le tensioni sociali contrapponendosi non solo al ceto politico nazionale ma anche alle oligarchie economiche e finanziarie che dominano a livello internazionale. La polemica contro gli effetti della globalizzazione e della crisi economica è strettamente intrecciata a quella contro l'Unione Europea: si rifiuta ogni tipo di solidarietà per gli stati in difficoltà, e si sottolineano i vantaggi di un possibile abbandono dell'Euro. In alternativa alle pratiche della democrazia partecipativa, le formazioni populiste valorizzano una sorta di democrazia plebiscitaria, di fatto realizzata chiedendo un pronunciamento con il voto per i loro leader come interpreti dell'autentica volontà popolare.
I principali partiti di centrosinistra europei appaiono oggi in gravi difficoltà: non sono più in grado di gestire i problemi e le nuove domande prodotte dalla crisi perché dovrebbero rimettere in discussione il paradigma di "neoliberismo temperato" su cui si sono posizionati negli ultimi venti anni.
I partiti europei di centrodestra si muovono in modo molto diverso: di fronte alle scadenza elettorali cercano di recuperare alcune idee e soprattutto la retorica della destra populista. Viene in parte rimessa in discussione la divisione del lavoro che si era realizzata di fatto in diversi paesi europei: i partiti di centrodestra gestivano le politiche neoliberiste mentre i partiti populisti davano espressione alle insicurezze e alle domande di protezione dei ceti popolari. In Francia Sarkozy cerca di presentarsi come "presidente del popolo" prendendo le distanze dalle élite economiche che erano state favorite dalla sua politica fiscale. Chiede un affidamento plebiscitario alla sua persona per salvare la nazione dalla "catastrofe" e al tempo stesso manda precisi segnali all'elettorato del Front National con la promessa di frenare l'immigrazione, di escludere i matrimoni omosessuali e di riformare la politica riducendo il numero dei parlamentari.
In Germania, per riconquistare popolarità, la Merkel cerca di presentarsi come la paladina del "popolo tedesco" riducendo al minimo la solidarietà nell'ambito dell'Unione. La Grecia e gli stati in difficoltà vengono offerti ai cittadini tedeschi come possibili capri espiatori per l'indignazione e la rabbia popolare. Una strategia nel contesto dell'Eurozona molto simile a quella che la Lega ha praticato in Italia. Il Carroccio ha cercato di gestire il malcontento crescente delle regioni del Nord rilanciando le polemiche contro le responsabilità delle popolazioni del mezzogiorno, presentando la secessione come l'unica via per portare la Padania fuori dalle difficoltà economiche.
Alla fine il partito trasversale animato dai politici casertani si è imposto. L’aeroporto di Grazzanise s’ha da fare. Lo afferma il consiglio regionale della Campania che ieri ha approvato due risoluzioni, una del Pd e una del Pdl, che in sostanza chiedono al Governo Monti di riconfermare la riconversione dell’ex aeroporto militare in aeroporto internazionale. Costerebbe almeno un miliardo di euro e sarebbe il terzo in meno di cento chilometri, insieme a quelli di Napoli Capodichino e Salerno Pontecagnano (per quest’ultimo meno di 50 passeggeri al giorno). Ma a dispetto dei dati sul traffico aereo, degli studi che scoraggerebbero un’impresa dalle spese titaniche e dell’alto rischio di infiltrazioni camorristiche negli appalti, centro-destra e centrosinistra campani sono sostanzialmente uniti nel promuovere la realizzazione dell’opera.
Vi. Iu.
Di questi tempi accade spesso che buone iniziative, spesso elaborate in anni migliori, vengano ripresentate in una logica, e per motivi, cattivi o pessimi. I media distratti, o complici con i nuovi presentatori, le ignorano o le lodano, quelli critici ne presentano solo il lato scandalistico, che è quello dell’attualità. Ci vogliamo sforzare – quando ne abbiamo gli elementi – non tanto di separare il grano dal loglio quanto di raccontare lo spessore e le “buone ragioni” iniziali di certe iniziative. Per evitare che con l’acqua sporca si getti anche il bambino, e che il modo arraffone con cui esse vengono riproposte le cancelli del tutto e per sempre. E’ il caso della proposta dell’aeroporto campano di Grazzanise.
La trasformazione dell’aeroporto militare di Grazzanise in aeroporto civile non è una novità, se ne parla da almeno quarant’anni. Da quando, nel piano regolatore di Napoli, si decise di dismettere l’aeroporto di Capodichino e di sostituirlo con quello di Grazzanise. A Capodichino, al posto dell’aeroporto, il piano regolatore, quello del 1972 e quello del 2004, prevedono un parco di nuovo impianto, una specie di grande central parck a servizio della sterminata e disastrata area metropolitana. Grazzanise, perciò, non sarebbe il terzo aeroporto della Campania in 100 chilometri come scrivono il Corriere della sera, Il Corriere del Mezzogiorno e il Fatto quotidiano, ma dovrebbe essere l’unico, Pontecagnano sarebbe giusto chiuderlo. Ma, come al solito, i piani regolatori, tamquam non essent. Devo aggiungere che Capodichino è fra i più pericolosi aeroporti del mondo, gli aerei in atterraggio sfiorano la reggia di Capodimonte (in alternativa, il Vesuvio), credo che sia l’unico aeroporto del mondo limitrofo a un centro storico, con un impatto acustico infernale sugli attigui quartieri fittamente abitati, che inutilmente protestano. Un parco pubblico al posto di un aeroporto è una cosa inconcepibile per la cultura politica italiana che ha l’horror vacui. Lo hanno fatto i tedeschi a Monaco, ma non sono questi gli esempi tedeschi che interessano. Infine, Grazzanise è già aeroporto e non ci sarebbe se non un limitatissimo consumo aggiuntivo di spazio aperto (ampiamente compensato dalla trasformazione a parco di Capodichino), è molto ben connesso alla rete su ferro, potrebbe addirittura essere l’unico aeroporto d’Italia connesso alla rete dell’alta velocità (che i geni delle FFSS hanno concepito alternativa al trasporto aereo e non integrata, come in Francia, Germania, eccetera).
Dispiace che Sergio Rizzo, sempre attento e ben documentato, queste cose non le sappia e dia conto solo di quanti intendono arraffare di tutto di più, Capodichino più Grazzanise più Pontecagnano. (v.d.l.)
Avvocatura civica al lavoro. L’associazione: «Ci sono cose che non si vendono». Lunedì il parere sul progetto e la terrazza
Il sindaco Orsoni querela Italia Nostra. Non siamo ancora in Tribunale, ma poco ci manca. Perché ieri mattina il primo cittadino ha dato mandato all’avvocatura civica di valutare se «esistano gli estremi» per presentare una querela per diffamazione ai danni dell’associazione per la tutela del territorio. Al sindaco non sono piaciute le critiche di Italia Nostra sull’operazione Fontego. E il fatto che l’associazione abbia presentato alla Procura un esposto firmato dalla presidente nazionale Alessandra Mottola Molfino.
Un atto che ha provocato l’apertura di un’inchiesta conoscitiva da parte della Procura. Da qui l’irritata reazione del sindaco: «Sono stanco delle pseudo contesse che hanno una visione passatista della città», aveva dichiarato poche ore prima. Ieri la presidente nazionale di Italia Nostra gli ha replicato per le rime. «Non sono una contessa ma una storica dell’arte e museologa», ha detto, «e forse il passatista è lui, sindaco pro tempore che rincorre progetti vecchi perché come negli anni Sessanta vede nella modernizzazione la salvezza di Venezia senza vedere la sua modernità. Vuole essere ricordato come il sindaco che ha venduto palazzi e rilasciato permessi edilizi in cambio di donazioni? Nessuno le ha mai detto che ci sono cose che non si vendono mai e per nessuna ragione?»
Polemica rovente, che interessa sempre di più gli avvocati. Anche Fondazione property, la Finanziaria del gruppo Benetton che ha acquistato il Fontego dalle Poste italiane spa e ora vuole trasformarlo in centro commerciale minaccia querele. Ma le critiche non si placano. Giornali di mezzo mondo parlano della trasformazione del cinquecentesco palazzo dello Scarpagnino, un tempo affrescato da Giorgione e Tiziano, in centro commerciale con terrazza sul tetto, scale mobili e ristorante panoramico nel lucernario. Progetto dell’arcgistar olandese Rem Koolhaas, presentato alla Biennale del 2010. Benetton ha versato sei milioni di euro in cambio della Variante urbanistica che trasforma la destinazione d’uso dello storico edificio da pubblico a commerciale. I primi atti sono già stati avviati. Ma adesso il progetto, se otterrà i pareri favorevoli, dovrà andare al voto del Consiglio comunale.
E la polemica non si placa. Nei prossimi giorni, probabilmente lunedì, la Soprintendenza consegnerà il suo parere alla Direzione regionale dei Beni ambientali e poi al Comune. Come annunciato è possibile anche che il parere debba passare per il ministero. Nulla si sa sul contenuto della relazione che sarà firmata dalla soprintendente Renata Codello. Ma su alcuni punti del nuovo progetto, depositato nei giorni scorsi negli uffici di palazzo Ducale e dell’Edilizia privata, le perplessità aumentano.
La nuova versione del progetto prevede sempre la terrazza «a vasca», anche se le sue dimensioni sono più contenute rispetto ai disegni originali. La soluzione adottata è quella di realizzare la terrazza con copertura «semovente», ripristinando di notte o in caso di pioggia, la conformazione originaria del coperto. Resta la scala mobile, anche questa nel mirino di Italia Nostra perché per realizzarla dovrebbero essere demolite alcune parti interne di edificio. E la copertura con pavimento trasparente del lucernario, rialzato per ricavarne ristorante e spazi panoramici, anche qui demolendo il tetto rifatto negli anni Trenta. L’iter è appena all’inizio, nonostante nella convenzione firmata da Comune e Benetton sia scritto che «i pareri dovranno arrivare entro la fine di febbraio». Ma la situazione a questo punto, si complica. E il progetto per essere approvato dovrà con ogni probabilità essere ancora modificato.
1 Una costituente per la cultura
Cultura e ricerca sono capisaldi della nostra Carta fondamentale. L'articolo 9 della Costituzione «promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Sono temi intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi economico. Niente cultura, niente sviluppo. "Cultura" significa educazione, ricerca, conoscenza; "sviluppo" anche tutela del paesaggio.
2 Strategie di lungo periodo
Se vogliamo ritornare a crescere, se vogliamo ricominciare a costruire un'idea di cultura sopra le macerie che somigliano a quelle su cui è nato il risveglio dell'Italia nel dopoguerra, dobbiamo pensare a un'ottica di medio-lungo periodo in cui lo sviluppo passi obbligatoriamente per la valorizzazione delle culture, puntando sulla capacità di guidare il cambiamento. Cultura e ricerca innescano l'innovazione, e creano occupazione, producono progresso e sviluppo.
3 Cooperazione tra i ministeri
Oggi si impone un radicale cambiamento di marcia. Porre la reale funzione di sviluppo della cultura al centro delle scelte del Governo, significa che strategia e scelte operative devono essere condivise dal ministro dei Beni Culturali con quello dello Sviluppo, del Welfare, della Istruzione e ricerca, degli Esteri e con il premier. Il ministero dei Beni Culturali e del paesaggio dovrebbe agire in coordinazione con quelli dell'Ambiente e del Turismo.
4 L'arte a scuola e la cultura scientifica
L'azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi, dalle elementari all'Università, lo studio dell'arte e della storia per rendere i giovani i custodi del nostro patrimonio, e per poter fare in modo che essi ne traggano alimento per il futuro. Per studio dell'arte si intende l'acquisizione di pratiche creative e non solo lo studio della storia dell'arte. Ciò non significa rinunciare alla cultura scientifica, ma anche assecondare la creatività.
5 Pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale
Una cultura del merito deve attraversare tutte le fasi educative, formando i cittadini all'accettazione di regole per la valutazione di ricercatori e progetti di studio. La complementarità pubblico/privato, che implica l'intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa. Provvedimenti legislativi a sostegno dei privati vanno sostenuti con sgravi fiscali: queste misure presentano anche equità fiscale.
L’atto di citazione notificato dalla Procura della Corte dei Conti a Cristina Acidini (e, insieme a lei, all’attuale sottosegretario Roberto Cecchi, e ai membri del comitato di storia dell’arte del Mibac) costituisce una prima, provvisoria, conclusione della lunga querelle sul Crocifisso cosiddetto ‘di Michelangelo’. Una conclusione che dà torto alla soprintendente di Firenze, senza se e senza ma.
La procura chiede che Cristina Acidini, per aver reso il parere di congruità del prezzo d’acquisto pubblico dell’opera «abdicando alla propria posizione di garanzia circa la correttezza dell’acquisto e il corretto impiego delle risorse del bilancio ministeriale», sia condannata al pagamento di 600.000 euro «per il danno erariale subito dal Ministero».
La richiesta di condanna assimila la posizione dell’Acidini a quella, apicale, di Cecchi – a cui è richiesta la stessa cifra per aver disposto l’acquisto con una serie di «gravi omissioni» –, perché il punto focale di tutta l’inchiesta è la determinazione del prezzo. «La spesa pubblica sostenuta per l’acquisto del crocifisso Gallino ha una dimensione economica irragionevole che, quindi, rappresenta un danno per il pubblico erario», scrive il procuratore: interpellato dai magistrati contabili, Donald Johnston (responsabile internazionale della scultura per Christie’s) ha infatti stimato l’opera in 85.000 euro, il che vuol dire che gli imputati hanno gettato dalla finestra 3.165.000 euro dei cittadini italiani.
Ma i passaggi che colpiscono di più sono quelli in cui la Corte constata che «non è stato avviato il confronto tra gli studiosi» (e che «se tale elementare precauzione fosse stata adottata, sicuramente l’amministrazione» non avrebbe patito un simile danno), e che «attualmente il crocifisso è collocato in magazzino e non fruibile al pubblico».
Chiusura, in tutti i sensi, dunque: chiusura al dibattito, chiusura dell’opera in cassaforte. È questa la linea seguita dalla soprintendente in questi tre anni di polemiche: l’indisponibilità ad accettare il confronto, il tentativo di delegittimare gli interlocutori critici gridando (o meglio sussurrando) al complotto, e financo la sottomissione dell’esposizione delle opere ad una strategia che non ha certo nulla a che fare con l’interesse pubblico. Come si fa, infatti, ad affermare contemporaneamente che il Cristo è di Michelangelo e a lasciarlo per due anni in un deposito, per non meglio precisate disposizioni ministeriali (impartite, magari, dal coimputato Cecchi)?
Pochi giorni fa, Antonio Paolucci ha difeso con sdegno i confini della storia dell’arte, dichiarando di non vedere «come un giudice contabile possa esprimersi su un’analisi storico-artistica». Senza volerlo, l’ex ministro dei Beni culturali ha emesso la diagnosi più esatta dello stato attuale della storia dell’arte: una disciplina letteralmente ‘irresponsabile’. Un mondo autoreferenziale governato da un piccolo gruppo di persone: un gruppo che si ritiene un élite, ma che troppo spesso assomiglia più ad una casta, o addirittura ad una cricca. Tale degenerazione non riguarda solo una disciplina accademica, ma investe la tutela e la gestione del patrimonio storico e artistico della nazione. E questo, in una città come Firenze, vuol dire che l’irresponsabilità della storia dell’arte diventa un problema di tutti.
Il processo che si apre a Roma il 10 maggio potrebbe far cambiare molte cose.
Il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale, firma, a nome di tutta l´associazione Libertà e Giustizia, il primo manifesto del dopo-Berlusconi. Un modo per celebrare i dieci anni di vita di L&g e «per progettare l’avvenire».
Nel suo documento, professore, lei sembra non accodarsi alla Monti-mania. Perché?
«Perché l’atteggiamento acritico è in ogni caso, Monti e non Monti, non consono alla democrazia che è un regime per definizione critico, dove tutti pensano con la propria testa ed è escluso il culto della personalità. Tempo fa in un librettino, trattando del processo di Gesù - uno scandalo della democrazia - si è contrapposta la democrazia dogmatica e la democrazia populista alla democrazia critica. Quest’ultima è la versione liberale della democrazia. Quindi, con tutto il rispetto per le fatiche del governo tecnico e con la speranza che si ripone nell’operazione Monti, la rinuncia alla politica, alla lunga, mi pare un pericolo».
Siamo alla democrazia sospesa?
«Il governo tecnico di Mario Monti è probabilmente il meglio che il tempo presente ci può offrire. Ma occorre riportare in onore la politica. Certo, i partiti attuali offrono un pessimo spettacolo. L’esecutivo deve fronteggiare altri interlocutori: lobby, associazioni, sindacati. Le forze politiche sono ridotte al mugugno o al mugolio. La ripresa della democrazia e della politica però ha bisogno di partiti rinnovati. Sono l’unico strumento che conosciamo per unificare la società e tenerla insieme».
Sbaglia allora chi a destra e a sinistra invoca Monti a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni del 2013?
«Assistiamo a due fenomeni contemporaneamente. Da una parte al tentativo di impadronirsi del fenomeno Monti; dall’altra al desiderio di nascondere dietro ai tecnici la propria impotenza politica. Ma questo è un problema. In generale, siamo di fronte ad eventi che devono farci riflettere. Le istituzioni europee, mesi fa, hanno imposto alla Grecia di non fare un referendum e ora sembra che vogliano imporre a quel paese di non votare ad aprile. In Italia sento ipotesi di rinvio delle elezioni amministrative. E nessuno osa dire che a qualcuno piacerebbe rinviare pure le politiche del 2013. Siamo tutti impazziti?».
Vede per noi un rischio Grecia non solo economico ma anche democratico?
«Non vedo, ma temo. Consideriamo che l’articolo 11 della Costituzione, su cui si basa la nostra adesione alla Ue, consente rinunce alla nostra sovranità solo in condizioni di parità con gli altri Stati e solo a favore di istituzioni sovranazionali che operino per la giustizia tra le nazioni, non per favorire le operazioni di investitori - spesso speculatori - che operano sui mercati finanziari. Limitazioni della sovranità sì ma non a occhi chiusi. L’arduo doppio compito del governo è salvarci dalla bancarotta e salvare la sovranità nazionale. Per questa seconda parte la tecnica non basta: occorre la politica».
Perché Leg non vuole che questo Parlamento faccia le riforme costituzionali? La riduzione del numero dei parlamentari come si realizza?
«Prima si deve andare a votare, poi si mette mano alle riforme istituzionali con un Parlamento nuovo. Quella per la riduzione del numero dei parlamentari è una battaglia giusta ma tutto sommato marginale. Come si diceva una volta? I problemi sono ben altri. Aggiungo: la revisione della Costituzione, quando è autoriforma della politica, risulta molto difficile. Un antico testo anonimo firmato "il vecchio oligarca" - "La costituzione degli ateniesi" - sosteneva che la democrazia degenera senza avere le energie per autoriformarsi. È come il barone di Munchausen che cade nelle sabbie mobili e vuole tirarsi fuori aggrappandosi ai codini della parrucca. Tragicamente quel testo dice che alla fine la democrazia può solo essere abbattuta. Ho ritegno a dirlo. Allora diciamo così: la sfida della nostra classe politica è dimostrare che il vecchio oligarca aveva torto».
E il Porcellum con quale formula va spazzato via?
«Esistono tante idee di giustizia elettorale, come la chiamo io. È giusto il proporzionale, lo è il sistema uninominale dove si elegge il migliore, lo è anche il maggioritario che premia il più forte per permettergli di governare. Sono tutti sistemi che hanno una logica chiara. L´elettore sa come viene usato il suo voto. L’unica cosa che i partiti non dovrebbero fare sono i pasticci cioè mescolare sistemi eterogenei solo per soddisfare il loro interesse».
Voi proponete di sottoporre comunque a referendum eventuali riforme istituzionali. Anche se il Parlamento le approva con la maggioranza di due terzi. Ma è contro la Costituzione.
«La nostra richiesta nasce in un contesto di democrazia rappresentativa debole e delegittimata. All’assemblea costituente si disse: se c’è una maggioranza tanto ampia non c’è bisogno di interpellare i cittadini. Ma la premessa qual era? Che quei partiti rappresentassero davvero il popolo italiano. Oggi viviamo una crisi della rappresentanza. Quel presupposto è diventato fragile. Sarebbe buona cosa avere comunque un voto popolare. Che o tolga di mezzo la riforma o la legittimi in maniera solenne».
Come se la caverà Libertà e giustizia senza Berlusconi?
«Possiamo riempire due armadi con l’attività svolta in dieci anni. L’armadio di Berlusconi resta aperto per quel che si dice essere il "berlusconismo", qualcosa di più pervasivo del suo fondatore. Ci sono decine di leggi ad personam che andrebbero riviste. E non solo: la condanna della Corte di Strasburgo per la politica anti-immigrati non dice niente? Il secondo armadio è il futuro della politica. Ci dicono: cosa proponete oltre a manifestare esigenze e bisogni? Ma, diciamo noi, la risposta tocca alla classe dirigente proporre, è lì per questo. Noi manifestiamo esigenze. Una proposta che ci pare fondamentale, però l’abbiamo: la politica si apra alla società civile. Che non è il salotto buono, ma sono cittadini di ogni età, ceto sociale, professione che dedicano tempo, competenza, denaro ad attività d’interesse pubblico per pura dedizione al bene comune. Abbiamo bisogno di altre facce, d’altre energie, d’altri carismi. Soprattutto, di parole nuove. Non vede che quelle di oggi sono solo ripetizioni?»
Ho iniziato a scrivere sul manifesto nel dicembre dell'88 con una riflessione sull'illusione della via giudiziaria alla sconfitta di Cosa nostra, indotta dalle condanne in primo grado del maxiprocesso ma sfatata dalla costante espansione del potere delle varie mafie dalle tradizionali regioni di insediamento all'intero Paese. Oggi, a distanza di tanto tempo e a venti anni dalle stragi del '92, quel giudizio è riconfermato da una miriade di inchieste giudiziarie.
A dispetto dei tanti trionfalismi sparsi a piene mani, specie in questi ultimi anni, dalla propaganda della destra berlusconiana e dai suoi principali cantori, gli ex ministri dell'interno e della giustizia Maroni e Alfano. Cade quest'anno anche il ventennale di Mani pulite con un'analoga similitudine sulla mancata rivoluzione legalitaria e sul peggioramento dello stato di corruzione politico-istituzionale. Sarebbe, però, sbagliato e profondamente ingiusto spingere queste constatazioni fino al paradosso di giudicare inutili o addirittura controproducenti quelle due stagioni, dell'antimafia e dell'anticorruzione, dato che proprio da esse discende un insegnamento che molti condividono: se si è fatto allora, si può fare anche oggi.
Avvicinandosi le celebrazioni in memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e dei tanti uomini e donne delle scorte, è bene mettere un argine al probabile fiume di retorica che si abbatterà su di noi e, alla luce degli insegnamenti del passato, cercare di ragionare con più serietà sul presente. Nell'opera di contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione, sia i metodi di indagine di Falcone e dei giudici milanesi che la legge Rognoni-La Torre per la confisca dei patrimoni illeciti, hanno fatto scuola in Italia e all'estero: basta leggersi la convenzione Onu sul crimine transazionale e corruzione sottoscritta a Palermo nel dicembre 2000. Qui da noi nei campi della giustizia e delle forze dell'ordine oggi possiamo contare, nonostante qualche inevitabile area grigia, sull'impegno indiscusso di questi settori della repressione.
Qualsiasi persona di buon senso si chiede però, e dovrebbero chiederselo anche Maroni e Alfano, come mai, a fronte dei tanti latitanti catturati, delle tante condanne, dei tanti patrimoni confiscati, dai tanti 41-bis, le mafie continuino a spadroneggiare e ad espandersi in modo impressionante nel resto del Paese, di pari passo all'espandersi della corruzione politica-istituzionale e dei latrocini di stato che, statisticamente parlando, hanno ricacciato nell'angolo le stagioni esaltanti dell'antimafia e di "mani pulite". Valgono per tutte le chiare considerazioni di Gherardo Colombo sulla adesione "culturale" di larghi strati della nostra società ad un sistema di illiceità diffusa che la repressione penale da sola non potrà mai sconfiggere. Repressione dovuta, senza dubbio, ma alla lunga inefficace se non si combatte con la dovuta determinazione questa deriva "culturale" che è la vera palla al piede del Paese e che il potere berlusconiano ha reso sempre più pesante con pensieri, legislazione e opere, proponendo un modello accattivante e, purtroppo, trasversalmente imitato.
Almeno sul piano della praticabilità, c'è però differenza tra i due tipi di repressione. Il vero contrasto alla mafia ebbe inizio nel luglio del 1982 con il rapporto di polizia giudiziaria contro Michele Greco più 160, mentre quello contro la corruzione è del 1992, con l'arresto di Mario Chiesa. Con una differenza non da poco: quest'ultimo "confessò" per poi, uscito dal carcere, andarsene come tutti i suoi simili tranquillamente in giro per la città, mentre i testimoni e i collaboratori di mafia venivano, e vengono, ammazzati a decine, per non parlare della mattanza di giudici, carabinieri, poliziotti, politici, religiosi, militanti antimafia, imprenditori ed altri della specie.
In questo intreccio tra mafie e corruzione la politica ha avuto e continua ad avere un ruolo "pedagogico" devastante, scaricando il contrasto all'illegalità su reati minori o inventati e, quindi, sulle fasce più deboli ed emarginate della società ed aiutando i potenti a continuare indisturbati nei loro affari di mafia e corruzione. Il carcere come tortura, la Bossi-Fini, la Giovanardi, la ex Cirielli, i reati di clandestinità da una parte, la impunità da prescrizione abbreviata, la corruzione agevolata con le opere pubbliche o i servizi nelle amministrazioni a qualunque livello, lo scudo per un riciclaggio più facile, l'evasione fiscale lodata dall'altra. Certo, per i mafiosi e i corrotti arrestati è prudente non muovere un dito (come dimostra la stabilizzazione del 41bis), ma per quelli rimasti fuori la piena operatività è assicurata proprio da un sistema di illiceità diffusa dentro il quale guazzano politica e malaffare: chi è dentro è dentro, ma chi è fuori può continuare ad agire indisturbato.
Il problema torna ad essere quello di una immoralità politica che è refrattaria all'opinione pubblica e non riesce a trovare sanzione nelle leggi. Molti i quesiti. È mai possibile che nei tanti casi di corruzione, finanziamento illecito o reati vari contro la pubblica amministrazione il problema sia solo quello della prescrizione del reato e che, cancellato il processo, si riacquisti la verginità politica? È ammissibile un sistema di controlli che consente a due amministrazioni regionali, in bilico per presunti brogli nella presentazione delle liste, di durare fino ad un giudizio che potrebbe arrivare a legislatura conclusa? È così difficile, per un governo seppur tecnico-bancario, ripristinare il falso in bilancio o abrogare la ex Cirielli e la prescrizione abbreviata, il reato di clandestinità o la Giovanardi, introdurre il reato di tortura che ci impone una convenzione internazionale e che lo stato surrettiziamente consuma in danno dei detenuti costretti ad una vita disumana? Uno stato di diritto dovrebbe modificare le leggi che riempiono le carceri di emarginati e svuotarli di detenuti che non riesce ad ospitare con un minimo di decenza, magari con provvedimenti di clemenza previsti dalla Costituzione.
Speriamo che questo governo non vada in giro a celebrare ricorrenze con le solite giaculatorie sul sacrificio dei giudici, sulla vittoriosa lotta alle mafie e alla illegalità e ciarpame simile, mentre mafiosi e corrotti impazzano su tutto il territorio: sarebbe un buon segno di discontinuità con il ventennio berlusconiano.
Dipende da noi. Si chiama così la nuova campagna di Libertà e Giustizia, l'associazione di cultura politica, presieduta da Sandra Bonsanti, che da dieci anni si impegna per dare voce alla società civile. Il manifesto, che pubblicato su Repubblica.it e sul sito di LeG 1porta la firma di Gustavo Zagrebelsky, il costituzionalista che firma, per la terza volta, un appello dell'associazione. E lo fa in un momento in cui il fondersi della crisi economica con quella istituzionale, potrebbe essere fatale al Paese.
Punto di partenza la riforma della legge elettorale che deve essere fatta "nell'interesse primario dei cittadini". E certamente non da un parlamento "screditato". Perché "non c'è speranza di avere buoni frutti se l'albero è malato". "Il nostro è un appello ultimativo ai partiti, alle tante brave persone che ne fanno parte - dice Sandra Bonsanti - Sappiamo che la strada è stretta, non facile e non vogliamo che si disperdano energie in sterili tentativi di fare nuovi partiti".
Dipende da noi fare in modo che la politica sia più dignitosa e rispettata.
Anche e soprattutto in questi giorni in cui la sua credibilità è ai minimi. Giorni in cui il concetto di "casta" è diventato un mantra. Giorni in cui alla guida del paese c'è un governo "tecnico" alle prese con un risanamento difficile e carico di sacrifici. In questa fase carica di incognite sarebbe sbagliato delegare. Piuttosto è il momento di darsi da fare. Perché il rischio che l'Italia non regga una crisi economica e una istituzionale è reale.
Se non ora quando, si potrebbe dire. Sono "tempi nuovi e incerti" in cui "speranza e preoccupazione s'intrecciano". La posta in gioco è alta. C'è un governo tecnico, "segno di tempi di debolezza della politica e d'inettitudine dei partiti politici". Non si tratta, dice l'associazione, di fare di tutt'erba un fascio. Ma di dire, con chiarezza, che "il sistema politico e la sua classe dirigente hanno fallito, arretrando di fronte alle loro responsabilità". A un passo dal baratro la cura Monti è apparsa l'unica possibile. Ma questo non significa adesione fideistica alle mosse dei Professori. "Perché la medicina che guarisce può diventare il veleno che uccide - si legge nel manifesto di LeG - Il nostro governo è tecnico-esecutivo per le decisioni rese necessarie dal malgoverno del passato e dalla pressione di eventi maturati altrove, in sedi democraticamente incontrollabili, ma è altamente politico per l'incidenza delle sue misure sulla vita dei cittadini. Dire "tecnico", significa privare la politica della libertà. LeG non può ignorare che la tecnica esercita anch'essa una forza ideologica che può diventare anti-politica. Allora, quello che inizialmente è farmaco diventa veleno: senza politica, non ci può essere libertà e democrazia; senza democrazia, alla fine ci aspettano soluzioni basate non sul libero consenso ma sull'imposizione".
Medica o veleno, dunque? La risposta non è affidata al destino, ma, continua LeG "dipende da noi". Per questo serve "un'opera di riconciliazione nazionale con la politica". Soprattutto dopo aver assistito al "tradimento" di una classe dirigente "che ha reso la politica un'attività non solo non attrattiva ma addirittura repulsiva e di aver respinto nell'apatia soprattutto le generazioni più giovani, proprio quelle dove si trova la riserva potenziale di moralità e impegno politico di cui il nostro stanco Paese ha bisogno". Dipende da noi. E se da un punto si deve partire è quello della lotta alla corruzione. Anche in questo caso non lasciandosi andare alla facile generalizzazione sui politici che rubano tutti ma dando libero sfogo alla "dissociazione e alla denuncia". "Le tante persone che, nei partiti e nella pubblica amministrazione avvertono la nobiltà della loro attività, escano allo scoperto, ripuliscano le loro stanze, si rifiutino di avallare, anche solo col silenzio, il degrado della politica. La legge sui partiti è una necessità di cui si parla da troppo tempo. Oggi, gli scandali quotidiani, l'hanno resa urgente. "Subito la legge ecc.", si è detto. Ma possiamo crederci, se prima non cambiano coloro che la legge dovrebbero farla?"
Ed è questo l'altro punto fermo. A dispetto dei propositi riformatori delle istituzioni, "l'auto-riforma si è dimostrata finora un'auto-illusione". Servono i fatti. Per questo LeG chiede di conoscere "se i contatti e gli accordi preliminari che si vanno stringendo tra partiti mirano a corazzare il sistema politico esistente, chiudendolo su se stesso, oppure se finalmente si avverte l'esigenza di aprirlo alle istanze diffuse dei cittadini, d'ogni ceto e d'ogni orientamento politico". Ed ancora: "Se la "società politica" ritiene di fare a meno della tanto disprezzata "società civile", oppure se ritiene di dover mettersi in discussione; se pensa che sia legittima la sua pretesa di difendersi dai controlli, oppure se sia disposta alla trasparenza e alla responsabilità; se il governo sia un problema di mera efficienza decisionale, oppure se la questione sia come, che cosa decidere e con quale consenso; se si vuole una democrazia decidente a scapito d'una democrazia partecipativa". Domande che attendono risposte.
Infine la riforma elettorale. Priorità assoluta. Una nuova legge che deve essere pensata non nell'interesse dei partiti ma dei cittadini "che possano controllare com'è utilizzato il loro voto ed entrare in rapporto con i loro rappresentanti, senza interessate distorsioni". Per questo, LeG chiede che il giudizio sulle riforme passi attraverso un referendum "come difesa d'una democrazia aperta contro i possibili tentativi d'ulteriore involuzione autoreferenziale dell'attuale sistema politico".
ROMA — Troppi partiti in lizza a livello locale: così i tecnici del Viminale addolciscono il ridimensionamento previsto per i Consigli provinciali dal decreto salva Italia che, prima di Natale, aveva inventato l'elezione di secondo grado e, forse un po' frettolosamente, aveva anche limitato a dieci il numero massimo degli eletti in questi organismi. Per cui, ora, le assemblee provinciali elette non più dai cittadini — ma dai sindaci e dai consiglieri comunali di quel territorio — vengono agganciate a tre categorie territoriali, a seconda delle rispettive popolazioni: «Quelle con più di 700 mila abitanti, aventi 16 consiglieri; quelle con popolazione da 300 mila a 700 mila abitanti, con 12 consiglieri; quelle sotto i 300 mila abitanti con 10 consiglieri».
È questa la novità sostanziale del disegno di legge del ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, che oggi entra in Consiglio dei ministri per l'esame preliminare. I tempi di approvazione in Parlamento saranno comunque stretti perché a maggio, qualora la legge non fosse ancora approvata, ben sei Consigli provinciali in scadenza saranno commissariati dai prefetti. Non si poteva cancellare le Province senza mettere mano alla Costituzione e così si è pensato di «sterilizzarle» con il voto di secondo grado: dopo tanti anni di competizioni territoriali anche appassionate, i cittadini-elettori verranno sostituiti dai sindaci-elettori e dai consiglieri comunali-elettori. Solo a questi ultimi, infatti, spetterà il diritto di voto attivo per le assemblee provinciali.
La cura dimagrante prevista dal governo Monti, dunque, è più leggera. Si continua comunque sulla strada aperta l'estate scorsa dal governo Berlusconi — i consigli grandi passarono da 45 a 18 eletti, i piccoli da 36 a 10 — tuttavia i tecnici del ministero dell'Interno si sono resi conto che più di tanto non si poteva tagliare. Al Viminale — dove l'ufficio elettorale conosce bene lo sviluppo storico delle dinamiche politiche territoriali — si sono accorti che la quota massima della rappresentanza provinciale fissata a dieci consiglieri rischiava di compromettere quei delicati equilibri a livello locale.
Tanto da far scrivere nella relazione tecnica di accompagno del disegno di legge Cancellieri che oggi entra in Consiglio dei ministri per l'esame «in via preliminare: «Il limite massimo di dieci consiglieri già fissato per il Consiglio provinciale dall'articolo 23, comma 16, decreto legge 8 dicembre 2011 numero 201, risulta oggettivamente esiguo e, per tale motivo, in alcuni casi potrebbe addirittura comportare la mancata presenza di numerose forze politiche all'interno del Consiglio provinciale, ivi comprese le (diverse) minoranze».
La nuova legge, tuttavia, si riferisce solo alle Regioni a Statuto ordinario perché per quelle a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Province autonome di Trento e Bolzano, Valle d'Aosta) è riconosciuta la «potestà legislativa esclusiva in materia di autonomie locali». Quindi, si tratta di 86 Consigli provinciali in via di ridimensionamento: 22 grandi (per un totale di 352 consiglieri), 37 medi (444 consiglieri), 27 piccoli (270 consiglieri). In totale gli eletti saranno, con il meccanismo di secondo grado, 1.066 ed è confermato che presteranno un servizio civico a titolo gratuito fatto salvo il rimborso spese.
Il ddl Cancellieri, nelle intenzioni del governo, dovrebbe essere approvato in Parlamento entro i primi di maggio perché, per il 6 e il 20 di quel mese, sono già state sospese le elezioni per il rinnovo dei Consigli provinciali di Vicenza, Ancona, Como, Belluno, Genova e La Spezia. Così, se la nuova normativa («Modalità di elezione del Consiglio provinciale e del presidente della Provincia...») non sarà vigente a fine primavera, in quei capoluoghi arriverà un commissario prefettizio: «E non sarebbe un bel segnale per la democrazia dato dal governo Monti», commenta il presidente dell'Upi (Unione delle Province italiane) Giuseppe Castiglione. C'è da aggiungere che l'annunciato commissariamento è stato impugnato, perché incostituzionale, da quattro Regioni (Piemonte, Lazio, Veneto e Molise).
Invece, con il ddl Cancellieri, anche nei 6 Consigli provinciali in scadenza a maggio la parola passerebbe ai consiglieri comunali e ai sindaci del territorio, che eleggerebbero con il sistema proporzionale e due preferenze il Consiglio provinciale. A sua volta, gli eletti sarebbero chiamati a votare, con il metodo del ballottaggio, il presidente della Provincia.
In realtà, l'Upi ha tentato fino all'ultimo di frenare il corso del decreto perché, conferma Castiglione — che poi è presidente della Provincia di Catania ed anche esponente del Pdl molto vicino ad Angelino Alfano — «qui si sta stravolgendo uno strumento della democrazia». Si spiega meglio il presidente dell'Upi: «I prefetti che hanno scritto la norma non considerano un fatto importante, perché oggi i consiglieri provinciali vengono eletti dal popolo e domani saranno chiamati a comporre una piccola casta. Invece l'Upi ha elaborato una vera proposta di riforma che immagina un nuovo assetto istituzionale dei territori con la nascita delle città metropolitane, la riduzione delle Province, la conseguente riduzione degli uffici periferici dello Stato e l'eliminazione degli enti strumentali. Una riforma che produrrebbe risparmi per 5 miliardi».
postilla
Da quel poco che si riesce a capire, paiono concretizzarsi i peggiori rischi anticipati dal tono delle urla piuttosto scomposte di certa “pubblica opinione” qualche mese fa: ovvero una sedicente riforma contabile, che taglia subito sul versante democratico, promette di tagliare su quello economico, e punta tutto su una improbabile riconquistata efficienza aziendalista per il resto. Possibile che nessuno si ricordi dei comprensori? Usciti da un dibattito smisuratamente lungo nel tempo, parevano avere tutte le caratteristiche territoriali di equilibrio geografico, socioeconomico, di rappresentanza. Si scelse (sciaguratamente) una forma di elezione di secondo grado, e quella fu in pratica la loro sentenza di morte: nel giro di una manciata di anni, questi organismi nati da un dibattito durato generazioni furono spazzati via, lasciando campo libero alla stravaganti rivendicazioni localistiche e clientelari che ci hanno portato al sistema delle province attuale. Ma forse, citando il solito Giulio Andreotti, a pensar male si indovina sempre, e il simil-comprensorio attuale è progettato esattamente per dissolversi come il suo antenato anni ’70, lasciando il campo a un bell’organismo “tecnico” con un consiglio di amministrazione al posto di un consiglio provinciale. Per il nostro bene, naturalmente (f.b.)
Lo spartiacque della Fiom
di Valentino Parlato
Le crisi sono una cosa seria e costringono a prove di verità. Il 9 di marzo ci sarà lo sciopero generale dei metalmeccanici della Fiom. Uno sciopero contro la crisi e l’offensiva sui licenziamenti. Bene. Nel Pd c’è discussione sul che fare: sostenere e farsi parte attiva di questo sciopero o stare a guardare? Questo dilemma (diciamo dilemma, ma è importante scelta politica) pare che divida il Partito democratico, che non vorrebbe cancellare o ridurre il suo sostegno al governo Monti. Ma, c’è da chiedersi, sostenere e partecipare allo sciopero della Fiom sarebbe un tradire l’impegno assunto con il governo Monti?
Certamente la situazione è difficile, ma se si sostiene il governo Monti per uscire dalla crisi, bisognerebbe anche sostenere lo sciopero dei metalmeccanici investiti dalla crisi. Lo sciopero del 9 marzo della Fiom è diventato un serio discrimine della politica del Pd, il quale per liberarsi di Berlusconi ha ben accettato il governo Monti, ma non potrebbe consentire a Monti di fare quel che Berlusconi non è riuscito a fare.
Insomma la questione è fortemente politica e non solo sociale. Il Pd deve assumere una posizione chiara a sostegno dello sciopero dei metalmeccanici, che sono stati, storicamente, un’avanguardia del nostro movimento operaio. Il Pd non può fare finta di niente o dire: io non c’ero.
L’attesa di una posizione chiara e forte interessa i democratici italiani, che per esperienza sanno che sempre nel passato la Fiom è stata un’avanguardia non solo del movimento operaio, ma della democrazia. Nella grave e difficile situazione del nostro paese non solo i lavoratori, ma tutti i cittadini si aspettano (hanno il diritto di aspettarsi) una risposta forte da parte del gruppo dirigente del Pd. Far finta di niente ridurrebbe al niente che resta della democrazia italiana.
Fornero va avanti e il Pd è nei guai
di Daniela Preziosi
La ministra: farò una buona riforma con l'art. 18, e comunque la farò. Bersani: serve l'accordo. Nuovo caso Fassina: chiede alla segreteria se deve andare al corteo Fiom «Non è un problema solo mio» Se il partito autorizza il dirigente, c'è il rischio di una reazione a catena che porta dritta al congresso
Contro un pezzo del suo partito e contro i 'tecnici': è un doppio braccio di ferro, quello del segretario Pd Bersani. Sulla riforma del mercato del lavoro, il governo va avanti come un caterpillar e rischia di schiacciare il Pd. Ieri la ministra Fornero ha risposto a quel «vedremo» che il leader democratico aveva pronunciato sul voto a un'eventuale riforma non condivisa da tutte parti sociali (leggasi sindacati, leggasi Cgil). «Penso che anche il Pd possa votare una buona riforma», ha detto, «ma se ci sarà accordo solo su una riforma che il governo non giudica buona, il governo si assumerà la responsabilità di andare avanti e il parlamento si assumerà la responsabilità di appoggiarlo o meno». Una minaccia, neanche tanto sobria.
Bersani, che domani presenterà il suo tour nei distretti «del lavoro e dell'impresa», finge gesuiticamente di non capire, ma in pratica restituisce la pariglia: «Dice bene Fornero: il Pd appoggerà una buona riforma. Naturalmente la valuteremo confrontandola con le nostre proposte. Quel che ci vuole è un buon accordo perché i mesi difficili che abbiamo davanti devono essere affrontati con il cambiamento, con l'innovazione e con la coesione sociale».
Ma il buon accordo sembra inarrivabile. Il governo, pressato dall'Europa, dal Pdl, da Confindustria, vuole portare a casa una riforma a qualsiasi costo. Toccando «il santuario» dell'art.18, non foss'altro per un fatto simbolico. L'uscita di Veltroni e compagni, che dall'interno del Pd si sono detti d'accordo, è servita a segnalare che il partito non è compatto. L'ala dei sì ad ogni costo, alla Camera, comincia a contarsi.
Nel Pd del resto ormai lo show down difficilmente potrà essere rimandato a lungo. Ieri Stefano Fassina, messo di nuovo sulla graticola per l'annuncio della sua partecipazione alla manifestazione della Fiom il 9 marzo, ha fatto una contromossa arditissima. Ha chiesto alla segreteria di decidere sulla sua partecipazione al corteo. Respingendo tutte le accuse: la manifestazione, «contrariamente a quanto affermato da tanti poco informati, non ha come obiettivo il governo Monti» ma Marchionne. « Il punto fondamentale è la negazione della democrazia negli stabilimenti Fiat e, aspetto altrettanto grave, la discriminazione degli iscritti Fiom dalle ri-assunzioni a Pomigliano». Quindi «partecipare, senza aderire in coerenza con il principio di autonomia tra partiti politici e forze sociali, non vuole dire sottoscrivere le singole rivendicazioni proposte dagli organizzatori. Vuol dire dimostrare sensibilità politica verso le drammatiche condizioni di milioni di lavoratori e lavoratrici e verso i problemi acuti di democrazia nel nostro Paese». Ma dato il «delicatissimo» passaggio e la polemica delle minoranze interne, meglio che la segreteria si assuma la responsabilità.
Gli è subito planato accanto Matteo Orfini, altro giovane della segreteria abituato, come Fassina, a partecipare ai cortei Fiom. Che rincara la dose: «Non si può non vedere come questo sciopero cada in un momento molto particolare della vicenda Fiat: il piano Fabbrica Italia, con i suoi 20 miliardi di investimenti promessi, è scomparso dai radar. La sfida di Marchionne si rivela ogni giorno di più per quello che è: un tentativo, peraltro fallimentare, di competere sulla riduzione dei costi e dei diritti». «Oggi siamo alla rappresaglia, con il rifiuto di assumere chi ha la tessera Fiom. A dividerci non è il giudizio sul governo Monti. Il punto è quale collocazione abbiamo in mente per l'Italia nella competizione internazionale, se sotto sotto non crediamo invece di dovere accettare come un destino ineluttabile una sorta di retrocessione dell'Italia nel mondo».
I liberal Pd di Enzo Bianco, che già qualche mese fa avevano chiesto le dimissioni di Fassina tornano alla carica. Ma Fassina stavolta vuole mettere un punto. «Voglio capire se il rapporto con i lavoratori, e quindi la presenza alle loro manifestazioni, sono un problema personale o del partito». Ma è domanda ad altissimo rischio. Una risposta netta è tutto quello che il segretario ha evitato di fare fin qui. Per scongiurare una reazione a catena nel partito che porta dritti a un congresso anticipato.
In molti, anche dell'ex maggioranza bersaniana, sono sbilanciati verso un 'montismo' senza se e senza ma. I veltroniani, i cattolici di Fioroni, ma Enrico Letta, vicesegretario. E D'Alema. Che da giorni dice che «contro questo governo non si prepara il dopo», intendendo le alleanze. Figuriamoci il prima, cioè figuriamoci se è in discussione l'appoggio a Monti. d.p.
Maurizio Landini
«Questi sono toni autoritari»
intervista di Francesco Piccioni
La sensazione – tra le sortite dei ministri e l’irruzione di Marchionne su Confindustria – è che si stia stringendo un cappio intorno alla condizione del lavoro e anche alla democrazia. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, sta preparando uno sciopero generale dei metalmeccanici che ha in piattaforma anche le scelte del governo, a partire dall’art. 18.
Hai sentito le parole di Fornero?
Penso che queste affermazioni del ministro del lavoro e di Monti, che indicano la volontà di fare una riforma del mercato del lavoro anche senza il consenso delle parti sociali, o addirittura dei partiti che sostengono il governo, assumono preoccupanti toni autoritari. Riforme che vogliono durare nel tempo debbono essere costruite con il consenso dei soggetti che sono coinvolti. Non c’è coesione sociale senza un vero processo democratico. Nel merito: in questa fase, il problema è creare nuovi posti di lavoro. Trovo non accettabile e sbagliata l’idea di cancellare la cassa integrazione straordinaria (cigs) che è, e rimane, l’istituto utile per favorire processi di riorganizzione industriale senza aprire ai licenziamenti collettivi.
Chi finanzia la Cig?
In generale è pagata con i contributi di lavoratori e imprese, non dallo stato. La possibilità di estendere gli ammortizzatori sociali – una nostra richiesta importante – si realizza se tutte le imprese e i loro dipendenti, di qualsiasi dimensione e settore, pagano un contributo per averla. Questa ossessione di considerare come problema ineludibile la modifica del diritto a essere reintegrati nel lavoro quando si è ingiustamente licenziati, è un altro tema che non c’entra nulla con la riduzione della precarietà e il creare nuovi posti di lavoro.
L’art. 18 divide anche Confindustria: Bombassei con Marchionne contro Squinzi.
Penso di non sbagliarmi se dico che la maggioranza degli imprenditori ritiene che il problema non sia l’art. 18. È una bugia pura dire che in Italia non c’è la possibilità di riorganizzare le imprese perché non si può ridurre in modo concordato il personale. La imprese non assumono perché non hanno da lavorare. Come si superano i ritardi del paese? C’è un problema di infrastrutture, un livello di corruzione altissimo, di illegalità e di evasione fiscale senza paragoni, un atteggiamento delle banche che non aiuta chi vuol fare impresa. È questo che sconsiglia gli investitori dal venire in Italia, non l’art. 18. Chi vuole abolirlo, non solo punta a licenziamenti individuali facili, ma soprattutto vuole modificare il sistema di relazioni sindacale. L’idea è cancellare la contrattazione collettiva come mediazione sociale tra impresa e lavoro.
Perché un Presidente di Confindustria dovrebbe dire «vogliamo licenziare solo ladri e fannulloni»?
Le trovo sinceramente affermazioni inaccettabili e irrispettose per la persone al lavoro. Descrivono un’idea piuttosto sballata delle relazioni sindacali e del lavoro.
Com’è il clima in cui state preparando lo sciopero del 9 marzo?
Tra i metalmeccanici stiamo riscontrando un consenso diffuso. Contro le scelte della Fiat, certo. Ma c’è anche un crescente dissenso sulle scelte di politica economica del governo. A partire dalla riforma delle pensioni, che viene percepita come una cosa contro l’occupazione giovanile, e che non tiene conto della diversità tra i vari lavori. E si pone un problema di democrazia. Chiediamo che il governo cancelli l’art. 8 della «manovra Sacconi» (che permette accordi ind eroga a contratti e leggi, ndr) e faccia una riforma che riduca davvero la precarietà, estendendo tutele e regole a tutti. C’è bisogno di un piano straordinario di investimenti, pubblici e privati, per cambiare il modello di svluppo. Non solo Fiat non sta più investendo in Italia. Grandi gruppi, persino pubblici come Finmeccanica, dicono di voler dismettere produzioni nell’energia civile o nei trasporti. Su questo c’è un vuoto preoccupante di iniziativa da parte del governo.
C’è una relazione col tipo di ricchezze denunciate da tutti i ministri attuali?
Da una lettura dei loro redditi mi colpisce il fatto che ci siano investimenti solo in operazioni immobiliari o finanziarie. Dà l’idea che in questi anni si è imposta una scarsa attenzione a investire su attività «reali». Dimostrano la necessità di un cambiamento culturale: svalorizzazione del lavoro e forza della finanza hanno portato molte persone a svalorizzare il ruolo dell’attività manifatturiera. Questo influisce sul tipo di logica con cui si guarda al «bene comune» del paese.
C’è consenso anche fuori dalle tute blu?
La difesa di un lavoro con diritti, la democrazia sui posti di lavoro, il superamento della precarietà, parlano a tutti, non solo a noi, Ci sono riscontri molto positivi con studenti, precari e movimenti costruiti in questi anni su una diversa idea di uscita dalla crisi. Da quello per l’acqua a molti altri soggett. Prevedo una grande manifestazione, il 9. Trovo invece preoccupante che un governo – eletto in Parlamento, ma non con un voto popolare – possa avere un atteggiamento vero il Parlamento o i partiti tipo «o fate come dico io, o ve ne assumete la responsabilità». C’è un problema anche per il governo, di rispetto delle regole della democrazia nel nostro paese.
Il welfare del Quirinale
di Antonio Di Stasi
L’ultimo intervento del Presidente della Repubblica sulla necessità di «mettere in piedi un sistema di welfare e sicurezza sociale diverso» fa sorgere una domanda: l’attivismo e il contenuto delle affermazioni del Presidente della Repubblica sono rispettose del ruolo che la Costituzione prevede per il capo dello Stato? Anche chi non ha una cultura giuridica da costituzionalista avverte l’originalità del comportamento di Napolitano rispetto a consolidati precedenti di astensione dall’intervento diretto nelle questioni politiche e di governo, tanto che, nell’ultimo anno, hanno lasciato quantomeno perplessi sia i suoi interventi a favore della guerra in Libia, sia la nomina di Monti a Senatore a vita prima di dargli l’incarico di Capo del Governo.
Di fronte al «fragore» degli episodi appena richiamati sembrerebbero poca cosa le ultime affermazioni relative al welfare. In realtà, con esse Napolitano asseconda chi vuol colpire il cuore dello Stato sociale e distruggere il valore primo della Legge fondamentale della Repubblica che connota in senso sociale il nostro Stato (come quelli tedesco, francese, portoghese, et altri). Il «lavoro» è valore fondante della Costituzione (artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 37, 38 della Costituzione) ed è posto, nello stesso momento, quale elemento di inclusione sociale, di dignità e architrave del sistema di sicurezza sociale. Toccare i diritti del lavoro significa tradire il principio cardine dell’intera architettura costituzionale e, dunque, della civiltà democratica e sociale che la Repubblica ha espresso dalla Resistenza ad oggi.
Se infatti la priorità, come afferma la ministra Fornero e come riecheggia il Presidente Napolitano – in un concerto di dichiarazioni in cui non sfugge certamente la «paternità» – è sostituire il sistema di sicurezza sociale precedente (costruito intorno alla difesa e al mantenimento del lavoro) con un sistema «nuovo», «moderno», è evidente come questo sistema non abbia più il proprio baricentro nel lavoro, ma in qualcosa di altro.
E allora Napolitano quando parla di «sistema di welfare e di sicurezza sociale diverso» cosa ci vuole dire? Ancora una volta lo capiamo bene sia dagli ultimi provvedimenti in materia di innalzamento dell’età pensionabile, di abbassamento dei diritti previdenziali, di totale abolizione della pensioni di anzianità, di blocco della rivalutazione delle pensioni, e sia dalle dichiarazioni della ministra Fornero che vuole rendere i lavoratori giovani più precari toccando l’art. 18 ed eliminare la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. Ecco cosa si prospetta con la riforma del welfare e la riforma degli ammortizzatori sociali: la tutela del lavoro non è più una priorità e il lavoro non è più diritto esso stesso; si preferisce tornare alla liberale assicurazione contro la disoccupazione involontaria piuttosto che utilizzare la molto più recente Cigs per mantenere intatta la capacità di un gruppo di lavoratori e non disperdere la loro professionalità.
In questa furia restauratrice non c’è nulla di nuovo ed i diritti dovrebbero lasciare il posto ad ottocentesce (altro che moderne) «gentili concessioni». Un’idea già contenuta nel Libro Bianco del 2001, ad opera dell’allora ministro Maroni, secondo cui le tutele andrebbero spostate dal rapporto di lavoro al «mercato» e con il passaggio da diritti soggettivi a mere aspettative rimesse a unilaterali vincoli economici. Intendere l’equità secondo il principio che «chi già più ha più deve continuare ad avere» e non attraverso il principio della pari dignità sociale attraverso l’essere lavoratore significa tradire nel più profondo la Carta costituzionale. Di questo il Presidente della Repubblica deve rendersi conto.
Caro direttore, bene, adesso sappiamo che se il prodotto Fiat non vende bene è anche colpa di Annozero, di Corrado Formigli e della Rai, condannati dal tribunale di Torino a pagare un risarcimento danni esemplare: 5 milioni di euro oltre rivalutazione monetaria dal dicembre 2010 ed interessi. L'oggetto del contendere è la valutazione di velocità di tre modelli di automobili, uno dei quali Fiat, che viene dalla stessa pubblicizzato con la frase «born to race».
Ci siamo occupati anche noi dell'industria automobilistica torinese, le testimonianze più importanti non sono state raccolte a Torino, perché Torino «è» la Fiat. Non entro nel merito della sentenza, se il giudice ha condannato, avrà le sue ragioni. Se la Rai e Formigli faranno appello, in quella sede potranno senz'altro chiedere la rivisitazione integrale della questione. Mi limito a considerare due aspetti. Il primo: la perizia affidata dal tribunale ad un collegio di esperti composto dal professor Francesco Profumo, dal professor Federico Cheli e dal professor Salvatore Vicari. Profumo, oggi ministro, al momento del conferimento dell'incarico era rettore del Politecnico di Torino. La difesa di Formigli ha obiettato che il Politecnico di Torino viene finanziato dalla Fiat (nel 2011 Fiat e Politecnico hanno rinnovato fino al 2014 l'accordo di collaborazione che ha permesso, alla fine degli anni Novanta, di istituire il corso di laurea in ingegneria dell'autoveicolo). Dal curriculum del professor Cheli emerge che: «Da anni è responsabile di una serie di contratti di ricerca tra il Politecnico di Milano e, tra le altre, le società Pirelli Pneumatici, Bridgestone, Centro Ricerche Fiat, Ferrari Auto, Fiat Auto». Salvatore Vicari, docente alla Bocconi, è stato nel consiglio d'amministrazione della Valdani-Vicari & Associati. Dentro la Valdani-Vicari troviamo l'ex direttore generale di Teksid France (gruppo siderurgico fondato da Fiat). Dalla Valdani Vicari invece proviene l'attuale tax senior specialist di Fiat Services. È possibile domandarsi se nella loro valutazione ci sia imparzialità?
Secondo aspetto: la quantificazione del danno. Per il tribunale il servizio di Formigli ha compromesso la reputazione progettuale e commerciale dell'automobile in questione. Tradotto in euro: 1.750.000 danni patrimoniali, 3.250.000 per l'offesa arrecata a una società composta da un assai rilevante numero di persone. Pochi giorni fa, sempre a Torino, nella sentenza Eternit il tribunale condanna due dirigenti a 16 anni di reclusione per disastro doloso e omissioni di misure infortunistiche, e ai responsabili civili impone il risarcimento di 30 mila euro ad ogni famiglia che ha avuto un morto in casa per amianto. Il tribunale civile di Milano, nel 2011, ha aggiornato le tabelle che fissano i danni per perdita parentale. La morte di un figlio, di un genitore, della moglie o di un marito viene liquidata con tetto massimo di 308.700 euro. Per la perdita di un fratello o di un nipote il tetto massimo è di 134.040. Ben altra cifra dovranno pagare la Rai e Formigli per aver accusato una vettura di essere meno veloce di un'altra. Un'informazione considerata incompleta. Va ricordato inoltre che Formigli aveva invitato, invano, i vertici al confronto.
La sentenza del tribunale di Torino costituisce un monito molto duro verso il diritto di critica (che in questo caso non è stato preso in considerazione), e che lascerà il segno, poiché difficilmente un editore si assumerà il rischio di sostenere simili cifre. Non risulta invece che sia mai stata emessa condanna esemplare nei confronti di coloro che ti portano in tribunale senza motivo. Per loro il rischio massimo, oltre la doverosa condanna alle spese, è solo una piccola multa, mille euro, per aver disturbato il giudice.
Il professor Andrea Carandini, a 75 anni, conosce l’arte della mediazione ma non sempre la professa. Dal padre, fondatore del Partito Radicale, il presidente del consiglio superiore dei Beni culturali ha ereditato la passione per le scelte definitive e le rotture traumatiche. È per questo (ma non solo) che stamattina Carandini potrebbe dimettersi dalla carica. Non ha certezze di essere rinominato e intuisce che Ornaghi aspiri al repulisti. Al rinnovo delle cariche. Alla discontinuità con la vecchia gestione. Carandini è alle corde. Se da un lato nella sua posizione non scorge inopportunità o conflitto di interesse a far richiedere al Mibac dalla casa di produzione della figlia Amalia quasi 40.000 euro per un (premiato) documentario: Looters of Gods regolarmente finanziato nel 2009 come “progetto speciale”, dall’altro valuta le mosse pubbliche come nessun altro. E questo, in mancanza di meglio, potrebbe essere l’istante adatto al beau geste.
Lo scandalo del Castello di famiglia a Torre in Pietra, restaurato con quasi 300 mila euro erogati dallo stesso Consiglio (ed ermeticamente chiuso al pubblico in opposizione alla legge) è solo uno dei problemi di un’istituzione che Carandini presiede con piglio militare e che rischia di trasformarsi da organo di indirizzo culturale a cabina di regia per gestire i ricchi appalti del ministero. In ogni caso, l’aria che spira attorno alle riunioni del Consiglio è pessima. Il 18 novembre, ad esempio, la seduta fu quasi interamente dedicata alla comparazione di due proposte alternative per Pompei. Per il restauro ballano 105 milioni di euro della Commissione europea. Soldi da investire. A metà novembre Carandini demolì radicalmente l’offerta di Carmine Gambardella (preside ad Architettura nella Seconda Università di Napoli), che voleva offrire gratuitamente al Mibac un progetto elaborato da uno spin off di quattro atenei campani, con importanti università internazionali. Carandini affermò che questo progetto “non è certamente in grado di svolgere il lavoro” voluto dal Mibac. Più violente le critiche a Gambardella di un altro componente del Consiglio, Paolo Portoghesi, l’architetto preferito da Bettino Craxi. Nel verbale del consesso, l’invettiva di Portoghesi sfiora l’insulto: “Chi vive nel mondo dell’architettura, quando sente parlare di questo personaggio non può che esprimere molti dubbi ed è giusto avere dedicato una seduta a valutare il primato di una proposta seria di fronte a una proposta che è soltanto espressione di questo presenzialismo, tipico di persone giovani come Gambardella”. Di fronte a questa mazzata baronal-gerontocratica Carandini quasi si commuove: “Ringrazio moltissimo per la sincerità e la chiarezza”. E di chi è, allora, il progetto alternativo, quello ‘serio’? Ma di Roberto Cecchi, allora onnipotente segretario generale del Mibac, già assai discusso, ma non piegato dal caso del finto Michelangelo esploso clamorosamente in questi giorni. Per Carandini, Cecchi si colloca un gradino sotto Winckelmann: egli avrebbe aperto nientemeno che una “terza era dell’archeologia” basata sulla ricomposizione con l’architettura. Dice Carandini: “Questa applicazione ha avuto solo una possibilità di sperimentazione , attraverso il lavoro dell’architetto Cecchi a Roma, che è andato molto bene. Quindi è una sperimentazione recente che è necessario trapiantare a Pompei”. Ma, sempre al Mibac, fanno notare che più che una ricomposizione tra l’architettura e l’archeologia, essa appaia come una cordata dell’architetto (Cecchi) e dell’archeologo (Carandini).
E che il fine del secondo sarebbe quello di riuscire finalmente a piazzare a Pompei un prodotto che non è mai riuscito a vendere a Roma. Nell’aprile 2008 infatti il Mibac firmò un protocollo di intesa con la cattedra di Archeologia classica della Sapienza. Quest’ultima avrebbe ceduto alla Soprintendenza di Roma un brevetto informatico per realizzare il “sistema informativo territoriale archeologico per il centro storico e il suburbio di Roma”. Non una cessione a tinte filantropiche da ambito pubblico a pubblica soprintendenza. Niente di gratuito. La cessione sarebbe dovuta avvenire “alle condizioni di mercato”, da definire in un accordo separato. E la meraviglia non si quieta. Il brevetto (ottenuto grazie a ricerche finanziate dall’università) non era intestato alla Sapienza, bensì “ai professori Andrea Carandini e Paolo Carafa”. In quel momento Carandini era il coordinatore nazionale della Commissione paritetica per la realizzazione del Sistema Informativo Archeologico delle città italiane e dei loro territori. Insomma, uno strepitoso modello di rapporto pubblico-privato: il superconsulente accademico vende al ministero il proprio brevetto. Ma il piano alla Totò-truffa non andò in porto per la sollevazione dei funzionari della Soprintendenza di Roma, che trovavano scandaloso comprare da un privato ciò che si poteva avere gratuitamente. Carandini – ormai presidente del Consiglio superiore – ha cercato nuovamente di piazzare il suo progetto dopo il crollo di Pompei, proponendo di realizzare un sistema informatico (che per altro la Soprintendenza già possiede) basato sul suo famoso brevetto. Ma la Direzione generale per l’Archeologia riuscì a fermare anche questo secondo tentativo, e fu a questo punto che Carandini pensò di inserirlo nel progetto milionario di Cecchi per Pompei discusso nella seduta del 18 novembre. Sull’ultimo Giornale del’arte Carandini lancia una “strategia del fare” basata su due pilastri: “L’intervento dei privati” e “l’informatica”. L’editoriale si intitola ‘L’ombelico è qui’. Appunto.
Mentre il sidaco Zedda dà segnali che indicano un positivo recepimento delle critiche alle incertezze dimostrate sulla questione Tvixeddu-Tuvumannu, l’autorevole consigliere comunale PD Andrea Scano, presidente della commissione urbanistica, emana una fatwa che avremmo forse inserito nel nostro “stupidario”. Gli ha replicato il nostro opinionista Giorgio Todde, il cui intervento avremmo inserito, coe di consueto, nelle “opinioni”. Mediando tra le due collocazioni inseriamo entrambi i pezzi in una cartella più neutrale.
Non siamo cementificatori
di Andrea Scano
Alcuni hanno interpretato la complessa e intricata vicenda di Tuvixeddu in una maniera che oserei dire mistica. O forse, meglio ancora, manichea. Per costoro esistono due principi opposti: la Luce e le Tenebre. La Verità e la Menzogna. Ovviamente, costoro sono assolutamente certi di essere portatori di Luce e Verità. Ai loro occhi gli altri, i diversi, appaiono soltanto demolitori di stadi, costruttori di inutili opere (quali i campus universitari…) e cementificatori senza scrupoli.
Questi personaggi sono vittime di un’ossessione: spararla grossa per produrre effetti sensazionali. Perdono così il contatto con la realtà (che molto più frequentemente è fatta di sfumature, possibilità, gradazioni di luce e colore). E perdono, conseguentemente, la possibilità di incidere sulla realtà stessa. Ma non importa: se la filosofia è “Ciò che non è sensazionale non è reale”, allora ogni iperbole è valida, ogni estremizzazione è giustificata. Francamente mi viene difficile pensare al sindaco Zedda, alla sua giunta e a noi consiglieri di maggioranza, come a una congrega di cementificatori che, armati di ruspe e betoniere, si apprestano a devastare ciò che rimane di Cagliari. Forse qualcuno degli Apostoli della Luce si sarebbe aspettato soluzioni pronte in tempi rapidissimi su tutti i “grandi temi” che riguardano la città: metropolitana-piano centro storico-lungomare Poetto-raccolta differenziata-baretti-anfiteatro-housing sociale-Molentargius-periferie-stadio-Tuvixeddu-adeguamento PUC a PPR tutto e subito. La Luce che si impone con forza e immediatezza sulle Tenebre… Mi dispiace deluderli: ci stiamo lavorando, ma occorreranno tempo, pazienza e disponibilità a qualche compromesso. Purtroppo chi ha un approccio di tipo dogmatico, da Verità Assoluta, non è interessato a risolvere concretamente i problemi. E’ appagato dal poter ribadire in maniera intransigente la propria posizione di principio. Che, ai suoi occhi, appare come l’unica connotata da caratteristiche di Verità e di Luce.
Si parla tanto dell’adeguamento del PUC al PPR. E’ necessario e doveroso farlo. Ma con questo adeguamento non sarà possibile ottenere per magia “zero metri cubi di cemento e un parco pubblico gratis subito”. Piacerebbe tanto anche a noi, ma la realtà è diversa. Nella realtà ci dovrà essere un accordo tra comune, regione, soprintendenza. In una cornice costituita da legittimi interessi pubblici e da interessi, altrettanto legittimi, dei privati.
Mettere insieme tutte queste istanze per produrre un risultato (e non chiacchiere) comporta la disponibilità a porsi da un altro punto di vista. E’ necessario rinunciare a tutte quelle “lettere maiuscole” per riuscire a leggere una realtà fatta di luci e ombre (scritte con lettera minuscola); luci e ombre che spesso si mischiano e confondono. Per risolvere i problemi concreti servono volontà, capacità e coraggio. Anche il coraggio di togliersi l’elmetto, quando è necessario.
Compromesso e Mediazione
di Giorgio Todde
La Giunta insonorizzata che governa Cagliari commenta con parole frugali e prudenti la propria azione. Non sappiamo quindi – speriamo di no - se abbia affidato un messaggio in bottiglia al Consigliere Andrea Scano sulla Nuova del 20 febbraio e neppure a chi quest’ultimo si rivolgesse con il suo elaborato. Mancava il destinatario.
Ne abbiamo, comunque, apprezzato la forma. Non abbiamo potuto apprezzare i contenuti perché, per quanto li abbiamo cercati, non ne abbiamo trovato.
Nel sermone contro “mistici” e “manichei” il Consigliere dimentica il proprio periodo mistico quando se la prendeva “col sindaco Emilio Floris per essersi schierato coi costruttori”. Reclama il solito “lasciate lavorare il centravanti”. E le altre sparate le affidiamo alla misericordia del lettore.
C’è un’unica parola che non fa sorridere nella sua omelia: la parola “compromesso”. L’abbiamo sentita troppe volte e mette paura.
Ma il Consigliere trascura ogni cenno al merito delle questioni sollevate da questo giornale. E al merito noi ci atteniamo.
Il Consigliere non ha potuto trovare nello scritto del 6 febbraio sulla Nuova una parola che non fosse sostenuta da un solido argomentare, anche giuridico. Provi a smentire. E non nell’etere, ma sulla carta stampata.
Cosa racconta, il Consigliere, del parcheggio sotto le mura? Del progetto del Campus? Nessuno è contro un Campus, ma quel progetto è un mostro. E cosa argomenta sulla delibera Tuvixeddu, attesa in Consiglio da un’opposizione entusiasta? E’ la delibera ad aver destato preoccupazione e non l’intervento apparso sulla Nuova.
Nella delibera è detto chiaro che l’area di tutela integrale può consistere nel solo francobollo della necropoli e del catino, già tutelati dal ’96. Che si possa ridurre il raggio della tutela a meno di cento metri dalla necropoli. Che si deve ottemperare al Piano urbanistico comunale il quale prevedeva 270.000 metri cubi per l’impresa e 120.000 di servizi. E cosa significa questo, se non che si può costruire a ridosso della necropoli?.
Che sulla questione Tuvixeddu occorra una mediazione appare ovvio anche a un bimbo e tutti prendiamo atto delle dichiarazioni confortanti del Sindaco sull’inedificabilità dei due colli. Tanto più che i Tribunali hanno ormai chiarito quasi tutto, salvo certi aspetti penali. Ora si deve agire, sì, ma nella direzione indicata dalle sentenze e sarà necessaria una sapiente mediazione, forti delle “posizioni” conquistate.
Siamo contenti di avere un piano di utilizzo del Poetto non più terra (nera) di nessuno, contenti che non si faccia il parcheggio rovinoso in via Roma, che si rimuovano i tavolacci dall’anfiteatro. Assai contenti dell’annunciato adeguamento del nostro Piano urbanistico al Piano paesaggistico. E vedremo come si dipanerà.
Ma – tralasciando delibera, parcheggi, vuoti urbani, successi e intenzioni – oggi vediamo Tuvixeddu malconcio. Il bianco dei colli contaminato, il fascino dei luoghi sfumato, sepolture intercettate da fioriere faraoniche, un avvilente snaturamento del sito che fa rimpiangere quello che avremmo dovuto conservare e che continuiamo a cancellare. A Tuvixeddu si deve vedere Tuvixeddu e non lo smisurato progetto del Parco. Ci aspettavamo una “mano” diversa, un’altra attenzione e la modifica di quel progetto. E’ ipocrita piangere Lilliu – anche lui “mistico-manicheo” della tutela integrale – e ignorare la sua lezione trasformando una necropoli in giardinetto.
L’esercizio della critica non è un agguato. Noi sosteniamo la Giunta anche con la critica e non predicando il funesto compromesso universale. Quanto alle idee del Consigliere Scano continueremo a cercarle nei suoi scritti. Prima o poi le troveremo. Per ora sentiamo nelle sue parole le stesse intonazioni, ma più scortesi, di chi lo ha preceduto al governo cittadino. Sarà questa la continuità.