Presentando il disegno di legge sul paesaggio adottato dalla Giunta regionale, con apprezzabile sincerità l’Assessore Taglialatela ha dichiarato che la finalità è quella di sfrondare i troppi vincoli che gravano sul territorio, di dare slancio al settore edilizio, di offrire una soluzione all’abusivismo esistente. E’ bene dirlo con franchezza: tutto questo non c’entra proprio niente con il paesaggio. Piuttosto, si tratta di una nuova puntata dell’avventura intrapresa dalla Regione con il piano casa, il discutibile provvedimento di deregulation varato su istigazione del precedente governo nazionale.
Noi pensiamo che non sia questa la strada da percorrere. Riteniamo che per proteggere e mantenere in vita i paesaggi della Campania, già martoriati da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che costituiscono ancora nonostante tutto la vera ricchezza della nostra regione, occorra altro. Più che indebolire i vincoli, c’è bisogno di un serio investimento nelle attività di manutenzione, cura e controllo di un territorio e di un ecosistema tra i più fragili e pericolosi del mondo. All’opposto, il disegno di legge dà il via libera al piano casa anche nelle zone rosse, a più elevato rischio vulcanico.
Quello di cui c’è bisogno in Campania è una efficace politica per arrestare il consumo di suolo, che viaggia a ritmi vertiginosi, distruggendo irreversibilmente il residuo capitale di fertilità, biodiversità e bellezza di Campania felix. In tutta Europa e nel resto del Paese la conservazione delle terre è diventata priorità assoluta, ma a questo tema il disegno di legge non dedica purtroppo neanche un rigo. All’opposto, il disegno di legge interviene direttamente sul Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentino-Amalfitana, ristabilendo la supremazia, nelle aree agricole ritenute “non rilevanti sotto l’aspetto paesaggistico”, delle previsioni di quei piani comunali che al PUT avrebbero dovuto invece adeguarsi vent’anni fa. Il rovesciamento di prospettiva è evidente.
Se le finalità di fondo sono queste, è inutile poi parlare di approcci sofisticati di contabilità ambientale, come l’ecoconto, che sono stati pensati e che vengono applicati in contesti molto differenti dal nostro, e che appaiono nel disegno di legge come il pretenzioso e inefficace orpello di un lavoro approssimativo, venuto male.
Sull’abusivismo, poi, la soluzione prospettata dal disegno di legge non si basa sul principio sacrosanto di sanzione e riparazione, né su serie politiche di prevenzione, quanto piuttosto su una modifica in corsa delle regole, sulla base di una singolare interpretazione del principio di legalità. A ciò si aggiungono gli infortuni comunicativi, perché le dichiarazioni fatte in sede di presentazione del provvedimento (“Non ci saranno più divieti in assoluto, né vincoli astratti; non si può pensare di far ricorso alle ruspe per tutte le violazioni né di sanare ogni abuso pagando”) saranno interpretate, nel contesto sociale e territoriale regionale, come un allarmante segnale di via libera anche per il futuro.
Quello che ci preoccupa in questa vicenda è il silenzio dello Stato, cui la costituzione (art. 117) assegna la competenza esclusiva in materia di tutela del paesaggio, e che secondo il Codice del 2004, è chiamato a cooperare con le regioni per la definizione delle nuove discipline e politiche del paesaggio. La sensazione è che la Direzione regionale stia subendo l’iniziativa regionale, con un esercizio francamente debole delle proprie prerogative. Vedremo nei prossimi giorni se questo timore è fondato. In ultimo, il disegno regionale sul paesaggio prevede che l’approvazione del futuro Piano paesaggistico regionale non avvenga in consiglio regionale, con il contributo di tutte le rappresentanze politiche, ma in commissione consiliare, addirittura con il meccanismo del silenzio assenso. Non ci sembra questo il modo migliore, in termini di garanzie democratiche e di partecipazione, per fornire la Campania di quello che sarà probabilmente lo strumento più importante di governo del territorio.
Le associazioni firmatarie credono che non sia questa la legge della quale la nostra Regione ha bisogno. Si tratta di un provvedimento inutile, per molti versi dannoso, con aspetti sostanziali di incostituzionalità, e che indirizza alla comunità regionale un messaggio sbagliato, quello della relatività delle regole. Occorre invece, come sta avvenendo per l’evasione fiscale, una rivoluzione copernicana. Occorre ribadire con fermezza che alcune cose non si possono fare perché –proprio come l’evasione fiscale - danneggiano l’intera collettività. Chi consuma il territorio impoverisce anche te. Di questo c’è bisogno in Campania. Su questi temi siamo disposti a collaborare.
Reffaella Di Leo, Presidente Italia Nostra Campania
Michele Buonomo, Presidente Legambiente Campania
Alessandro Gatto, Presidente WWF Campania
«Sono monumenti noti e la valutazione è positiva, ma ormai la trattativa è ferma - dichiara la direttrice dell’Appia Rita Paris - Da oltre un anno i proprietari si sono aperti alla vendita. Hanno scritto più volte al ministero, ma non ci sono stati riscontri».
Ora la preoccupazione è perderli del tutto: «Nel caso del mausoleo degli Equinozi, i Passarelli venderebbero alla Soprintendenza il monumento con un terreno e un casalino che potrebbe essere riconvertito in punto servizi. Ma di fronte all’arenarsi della trattativa, il rischio è che vendano ad altri l’intera proprietà».
Eppure per entrambi i monumenti, vincolati da anni, si stimerebbe un valore d’acquisto entro il milione. Non che il ministero trascuri del tutto l’Appia, che nell’ambito della gestione commissariale ha ricevuto 3,4 milioni per quattro interventi, tra cui il restauro di Santa Maria Nova dove a primavera 2013 aprirà il grande centro d’accoglienza turistica; inoltre, da domani parte il restauro del tratto antico del IV Miglio.
Ma sul destino della Regina Viarum mancano svolte decisive, come dimostra la mancata definizione del Parco archeologico.
A giugno, l’allora ministro Galan aveva preso l’impegno di istituirlo.
«Ma da allora non c’è stata nessuna svolta, e manca ancora una legge speciale che riconosca l’Appia come unico museo archeologico all´aperto, non solo come un parco regionale», lamenta Paris.
Un piccolo traguardo l’Appia l’ha portato a casa, con la delibera sulla delocalizzazione delle attività abusive. «Sono zone in cui gli abusi non sono stati mai perseguiti - commenta la Paris - Dire, però, che l’Appia torna ai cittadini è esagerato».
La Ztl speciale dell'Appia Antica
Maria Rosaria Spadaccino – 6 marzo 2012
Cominciano i lavori per il restauro del basolato romano sull'Appia Antica, all'altezza del Forte Appio. «Con l'apertura del cantiere - spiega Rita Paris, della soprintendenza speciale per i beni archeologici- bisogna proteggere definitivamente la strada da macchine e vandali. In accordo con residenti si deve pensare ad una sbarra, a telecamere o ad una soluzione come la Ztl. La via deve tornare ad essere un monumento». Per Andrea Catarci, presidente del XI municipio, «il progetto è assolutamente condivisibile».
Sta per rifarsi bella l'Appia Antica: giovedì iniziano i lavori di restauro del basolato romano all'altezza del Forte appio. Un cantiere, della soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, che fa tornare l'attenzione su uno dei comprensori archeologici più importanti del mondo.
«Un'area che continua ad essere violata - spiega Rita Paris, direttrice dell'Appia Antica per la soprintendenza - per questo stiamo pensando di proteggerla in maniera definitiva come merita un grande monumento. Dobbiamo solo studiare il modo più adatto alla fruizione della strada da parte di residenti e turisti». Si pensa ad una sbarra con citofono, a telecamere, o ad una disciplina simile a quella della Ztl che regola il centro di Roma. La chiusura partirebbe dal civico 195 fino a via delle Capanne di Marino, circa 7 chilometri di demanio statale.
«Bisogna che torni la coscienza che l'Appia è un monumento. Lo Stato ha lavorato negli anni passati ad una poderosa opera di valorizzazione delle scoperte archeologiche - spiega Paris - così sono tornati a tutti noi complessi come Cecilia Metella, il palazzo dei Quintili e Capo di Bove. Ma tutto questo deve anche essere tutelato». I basoli, lastroni di pietra lavica con cui venne realizzata la strada, scoperti con i lavori del Giubileo del 2000 necessitano ormai di un intervento: sono mal posizionati, sconnessi. Il traffico continuo li sta danneggiando, basta camminarci sopra per notare che oscillano, sono malridotti e poco lontano da loro ineleganti cestini per la raccolta dell'immondizia deturpano la bellezza del luogo.
Le opere di restauro per questo cantiere finanziato dalla soprintendenza costano 350mila euro. È una goccia per uno dei comprensori archeologici più grandi del mondo: 80 ettari in consegna allo stato che deve occuparsi della valorizzazione e della tutela.
«Sarebbe utile pensare ad un consorzio di tutte le parti coinvolte - commenta Paris - la soprintendenza non farà nulla che limiti la libertà dei residenti, possiamo anche pensare ad una chiusura a tratti, lasciando aperte le strade di passaggio. La via deve esser viva e fruibile, ma questo nuovo cantiere di restauro non può diventare come la tela di Penelope».
E intanto proprio ieri è arrivato un altro allarme che riguarda la Regina Viarum: la chiusura domenicale (l'unica prevista da un'ordinanza comunale) da parte dei vigili urbani non è più garantita. «I tagli all'organico - spiega Andrea Catarci, presidente dell'XI municipio - rendono impossibile la chiusura domenicale al traffico privato».
E se a questo si aggiunge che non esiste più la navetta che portava sull'Appia Antica da piazzale Numa Pompilio si comprende quanta poca cura sia riservata alla strada. «Il progetto della chiusura della via per garantirne la tutela è assolutamente condivisibile - commenta Catarci - bisogna assolutamente trovare il modo per proteggere un tale patrimonio».
La manutenzione e l’abitudine alla bellezza
Rosario Salamone – 7 marzo 2012
Succede sempre così, della bellezza in cui vivi te ne accorgi quando qualcuno te la vuole sottrarre. La questione è che a Roma la bellezza si è stratificata nel tempo con un provvidenziale disordine, tra demolizioni maldestre e sopravvivenze miracolose. Così il lascito architettonico e archeologico che ci sta davanti agli occhi, quello che funziona per il mondo come una calamita universale, ha, per certi versi, mitridatizzato i romani. L'abitudine a ingerire quotidiane piccole dosi di bellezza sembra un che di dovuto, di naturale. Percepiamo la luce, l'ombra delle piazze, echi materiali di tanta eternità, però la manutenzione, il decoro del patrimonio, sembrano usciti dalle cure quotidiane della politica e dei cittadini.
La notizia dell'avvio del restauro di un tratto dell'Appia Antica è di quelle che bucano l'aria come un jet che rompe il muro del suono. L'idea lineare della salvaguardia di un patrimonio viario, con tutti i manufatti che ne fanno sponda, ha un valore aggiunto in sé. Significa rimettersi in cammino, come Città, come Paese. A piedi, con le salmerie essenziali del tempo di crisi che stiamo vivendo, fa sempre bene. Mettere bene i piedi in terra, nella città che ha insegnato a tutti l'arte di costruire le strade, come disse Raymond Chevallier, osservando la forza dei basalti, le lastre di lava resistente e duratura, a cui si ispirarono gli ingegneri romani vedendo la colata che si spingeva fino a Capo di Bove. La bellezza sovrumana dei pini e dei cipressi, gli alberi «pizzuti» che svettano nell'aria tanto quanto le loro radici perpendicolari che evitano di svellere le tombe, giù in basso (katà kumbas). Ottorino Respighi dedicò un poema sinfonico agli alberi così tipici del paesaggio della capitale, «I pini di Roma». In uno dei movimenti strinse un'alleanza tra le ombre architettoniche di una catacomba e l'ombra odorosa degli alberi, perché la Roma delle vie consolari è un mescolarsi continuo di presenze da vivere nella scenografia della bellezza e rimando storico assiduo.
Da chi ha il compito istituzionale di tutelare opere e paesaggi, in questo caso Rita Paris, dobbiamo attenderci lavoro, coraggio e un certo gusto per l'andare in controtendenza. Il senso dello Stato, l'attaccamento alle istituzioni, si coltivano attraverso lo studio e la messa in cantiere di azioni volte a salvaguardare i beni della civiltà di cui siamo testimoni ed eredi. Se la casa di famiglia - la famiglia è la collettività - si sta coprendo di ortiche e le travi scricchiolano, occorre mettere mano al restauro, presto e bene. Work in progress. Lavori in corso: curare il passato è l'essenza del presente e del futuro.
Siamo in provincia di Monza, nel cuore di quella Brianza che con l'hinterland napoletano è il territorio più urbanizzato d'Italia. E che ha rischiato di "mangiarsi" tutto il terreno agricolo con un Pgt ispirato dalla criminalità organizzata. Finché un'inchiesta ha travolto giunta e consiglio comunaliA Desio, provincia di Monza, cuore di quella Brianza che dopo l'hinterland napoletano è il territorio più urbanizzato in Italia, hanno imparato che cosa vuol dire avere la 'ndrangheta che fa l'urbanista. E ora provano a cambiare strada. E a fermare il consumo di suolo che qui si è mangiato quasi il 70 per cento dello spazio (secondo una proiezione, se si continuasse a costruire a questi ritmi, nel 2080 non ci sarebbe più un centimetro quadrato per l'agricoltura). E a bloccare l'abusivismo edilizio, che ha raggiunto livelli da regioni meridionali - oltre 700 le domande di condono (sono 900 a Monza che ha tre volte gli abitanti di Desio), più di 100 le ordinanze di demolizione. E soprattutto a impedire che la regia neanche tanto occulta dell'urbanistica cittadina resti nelle mani delle cosche o comunque preda della più sfacciata corruzione, così come hanno accertato due inchieste della magistratura, l'operazione Infinito sulla penetrazione della 'ndrangheta in Lombardia (luglio 2010) e quella che alcune settimane fa ha mandato in galera o ai domiciliari l'ex assessore regionale Massimo Ponzoni (Pdl), il vicepresidente della giunta provinciale di Monza, Antonino Brambilla, e Rosario Perri, capo dell'Ufficio tecnico del comune di Desio e poi anche lui assessore alla Provincia brianzola (entrambi del Pdl).
Ci sta provando a invertire la rotta un ingegnere di quarant'anni, Roberto Corti, da maggio scorso sindaco Pd di Desio, dopo che il consiglio comunale venne sciolto travolto dall'inchiesta contro le cosche insediate in Lombardia condotta da Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone (centodieci le condanne a oltre mille anni di carcere). Saltano centri commerciali e insediamenti industriali, interi quartieri di palazzine e villette vengono cancellati. Svaniscono centinaia di migliaia di metri cubi di cemento che già fruttavano, a chi aveva ottenuto l'edificabilità, decine di milioni di euro.
Desio, 40mila abitanti, è il primo comune della Lombardia la cui giunta si sia dimessa perché investita da un ciclone antimafia. La 'ndrangheta era saldamente installata in città, hanno accertato i giudici, e controllava consiglieri, assessori e dirigenti comunali. E soprattutto dettava le regole di una crescita edilizia smodata, dissipatoria, all'insegna dello spreco di suolo agricolo, che ora, appena usciti dall'abitato, è invaso da una enorme quantità di lottizzazioni, di recinzioni, piccole e grandi ulcerazioni di un paesaggio puntellato da sfasciacarrozze, laminatoi, depositi di laterizi, stabilimenti in abbandono, discariche e attraversato da strade sterrate sulle quali si affacciano minacciose telecamere a circuito chiuso. La conferma che il territorio fosse solo un'occasione per accumulare rendite è venuta da una costola dell'inchiesta milanese e reggina, stavolta guidata dalla Procura di Monza che, con l'arresto di Ponzoni (brillante recordman di preferenze, astro nascente del Pdl lombardo), ha rivelato come dietro tutte le più recenti operazioni immobiliari di Desio vi fosse corruzione: tu mi paghi e io ti regalo edificabilità, cambi di destinazione d'uso, ti consento di saccheggiare come credi quel che resta del suolo agricolo e ti faccio anche uno sconto sugli oneri che dovresti versare al comune. Ponzoni, Brambilla e Perri incassavano tangenti o altre utilità - questa l'accusa dei magistrati - e lasciavano mano libera a chi squassava un territorio già martoriato.
Il Pgt della città (il Piano di governo del territorio, che ha preso il posto del vecchio Piano regolatore) era il catasto in cui si riversavano tutte queste operazioni. Così sostiene la magistratura inquirente che, pur non rilevando estremi penali, censura con asprezza gli autori di quel documento, redatto sotto l'egida del Politecnico di Milano: i professori Maria Cristina Treu e Carlo Peraboni. Appena insediato, dopo aver battuto al ballottaggio il candidato leghista, e prima ancora che i giudici svelassero la corruzione dell'urbanistica, Corti ha chiamato un altro professore del Politecnico milanese, Arturo Lanzani, poco più che cinquantenne e con una vasta bibliografia sui temi della "città diffusa" e del paesaggio, e gli ha chiesto di affiancare le strutture comunali, nel frattempo bonificate (al posto di Perri, finito ai domiciliari, è arrivato Luigi Fregoni, che vantava l'esperienza in un altro comune lombardo inquinato dalla 'ndrangheta, Buccinasco), per scrivere un nuovo Pgt. Regista politico dell'operazione è Daniele Cassanmagnago, architetto, di Sinistra ecologia e libertà.
Il nuovo Pgt prende forma in questi giorni. Ma una prima variante ha già annullato gran parte delle previsioni edificatorie. Lanzani, che lavora con il Comune senza alcun compenso, Fregoni e Cassanmagnago hanno disegnato sulla mappa di Desio un perimetro rosso oltre il quale la città non deve andare: sono cancellati il 10 per cento di superficie urbanizzata prevista dal vecchio Pgt, oltre un milione quattrocentomila metri quadrati che già qualcuno sognava coperti di cemento. Stando ai calcoli compiuti dai consulenti della Procura di Monza, i terreni di quattro Atr, cioè aree di trasformazione, valevano 8 milioni 660 mila euro prima del Pgt, ma schizzavano a 62 milioni 270 mila euro dopo l'approvazione del Pgt. Tutte plusvalenze sfumate, garantite non dal costruito, ma dalla semplice concessione (comperata) di edificabilità. Annullato il centro commerciale Pam, l'ennesimo nel giro di pochi chilometri, oltre 100mila metri quadrati di superficie, contro il quale si era espressa anche la Provincia di Milano (allora quella di Monza non era ancora istituita). Annullata una lottizzazione per 45mila metri cubi (case, strutture commerciali e industriali) in una delle zone più pregiate di Desio, di fronte a un edificio seicentesco, la Cascina San Giuseppe, e a Villa Buttafava, tipica residenza brianzola fra XVII e XVIII secolo. Annullati altri insediamenti più piccoli, tutti disposti "a morbillo", dice Lanzani, in piena zona agricola.
Quella adottata da Corti è una scelta in controtendenza. I comuni sono assetati di oneri derivanti dalle concessioni edilizie. Anche se cominciano a essere numerosi i sindaci che si impegnano per la "crescita zero" (ne è un esempio Domenico Finiguerra, primo cittadino di Cassinetta di Lugagnano, a sud di Milano). A Desio il contesto criminale rilevato dall'inchiesta di Ilda Boccassini e Giuseppe Pignatone e confermato dall'ordinanza di custodia cautelare di Monza rende tutto più delicato e rischioso. "Paura? E perché dovrei?", replica Corti. "In tanti mi chiedono se ho la scorta, ma il problema non investe il singolo, è tutta l'amministrazione che si muove in questa direzione. E poi le forze dell'ordine vigilano con efficienza. Il prefetto è molto sensibile".
Qui si racconta, però, la grande influenza di cui godeva Perri, "da collegare altresì ai suoi rapporti con esponenti della cosca di 'ndrangheta di Desio". Perri, inoltre, aveva anche nascosto, arrotolati nei tubi dell'acqua di casa, circa 600mila euro. Su Ponzoni alle elezioni regionali del 2005 confluiscono i voti veicolati dalla 'ndrangheta, annotano i magistrati, ed è lo stesso consigliere e poi assessore all'Ambiente nella giunta Formigoni, ad ammetterlo in una telefonata intercettata. E ancora un paio di mesi fa un cinquantenne con qualche precedente penale è stato ucciso nella sua azienda di rottamazione. Aveva anche una sfarzosa villa abusiva. "Qui la 'ndrangheta mi sembra che si comporti come gli animali colpiti che si leccano le ferite. Forse tornerà a farsi sentire per le prossime elezioni, ma sullo stop al consumo di suolo noi non arretriamo", dice Corti.
Vince la Italcementi, perdono i comitati di cittadini. E vince l'Ente Parco dei Colli Euganei, schierato con i cementieri contro gli ambientalisti. Il Consiglio di Stato, ribaltando la sentenza del Tar, ha benedetto il nuovo progetto del cementificio di Monselice, nel cuore del Parco dei Colli Euganei, in Veneto. E lo ha fatto con una motivazione originale e destinata a far discutere: il cementificio migliora il paesaggio e la ciminiera alta 89 metri non è un pugno negli occhi - come sostengono gli oppositori - ma un pregevole elemento architettonico.
Scrivono i giudici: "il progetto comporta modifiche positive sotto il profilo paesaggistico (...); adotta soluzioni volte a mitigarne la percezione delle sagome (...), idonee a ridurne l’impatto visivo; realizza un elemento verticale – la discussa torre di 89 metri – il cui sviluppo si accompagna a una qualità architettonica apprezzabile, in linea con le tendenze dell’architettura contemporanea che attribuiscono alle strutture verticali ad elevato contenuto tecnologico la funzione di riqualificare i siti nei luoghi deteriorati (...)".
Prima dell'istituzione del Parco, quarant'anni fa i Colli Euganei erano "colline senza pace": una groviera di cave (un'ottantina) e tre cementifici. La salvezza dei Colli, chiesta dal comitato locale, diventò un caso nazionale grazie agli articoli di denuncia di Paolo Monelli sul "Corriere della Sera" e di Gigi Ghirotti su "La Stampa". La legge del 1971 ha messo all'indice le cave (oggi ne restano solo cinque). E i cementifici? Secondo gli ambientalisti vanno ritenuti "incompatibili con le finalità del Parco" e dismessi, ma la chiusura non è mai stata decisa e quindi continuano a operare. Tanto che la Italcementi, quinto produttore mondiale, ha presentato un progetto di "revamping" (ristrutturazione) dell'impianto di Monselice, con nuove tecnologie e un grande camino in mezzo ai pendii che ispirarono poeti e pittori.
E qui sta il punto: il cementificio rinnovato non si può fare perché è una nuova costruzione e il Parco non lo consente, sostengono ambientalisti e Tar. Si può fare, spiegano Italcementi ed enti locali, perché il progetto "modifica sostanzialmente" il cementificio esistente ma non ne fa nascere uno nuovo. Anzi migliora la situazione anche dal punto di vista ambientale. Questa tesi è stata accolta dal Consiglio di Stato.
Questione chiusa? I comitati non mollano e studiano la prossima mossa. La Italcementi li ha anche citati in tribunale chiedendo un risarcimento danni di 200 mila euro. Dunque la guerra continua. E i Colli Euganei si riscoprono ancora "senza pace".
ACCUSE IN BELLAVISTA
L’imprenditore fermato mentre era dal sindaco. I pm: illeciti nella costruzione del porto di Imperia. Indagato Scajola
di Ferruccio Sansa
Doveva incontrare il sindaco di Imperia. Ma ad accoglierlo ha trovato anche la Polizia Postale che lo ha arrestato. Parabola amara per Francesco Bellavista Caltagirone, patriota della cordata Alitalia: anni fa nel Ponente ligure era visto come il salvatore, l’uomo che aveva realizzato il porto voluto da Claudio Scajola. Ieri è uscito dal Comune in compagnia degli investigatori. Un terremoto per il regno di Scajola, “u ministru” come continuano a chiamarlo qui. Un epilogo, però, non inatteso: il porto di Imperia da due anni è sotto inchiesta, con costi lievitati da 80 a 200 milioni.
Insieme con Caltagirone Bellavista è finito in prigione Carlo Conti, ex direttore della Porto d’Imperia spa (pubblico-privata) considerato vicino a Scajola. L’accusa per entrambi è truffa aggravata. Indagati anche Paolo Calzia, già direttore generale del Comune di Imperia, Delia Merlonghi, legale rappresentante di Acquamare (società di Caltagirone), Domenico Gandolfo, ex direttore della Porto di Imperia e Beatrice Cozzi Parodi. Sì, la compagna dell’immobiliarista, soprannominata “nostra signora dei porticcioli” perché impegnata da sola o con Caltagirone nella realizzazione e nella gestione di 5 scali imperiesi. Uno scandalo che mette in discussione il sistema di porticcioli che hanno ricoperto le coste liguri di moli e cemento, con la benedizione di centrodestra e spesso centrosinistra.
Truffa aggravata, quindi. Si tratta della pista finanziaria della più ampia inchiesta sul porto che vede indagato in un altro filone anche Scajola. Secondo i pm imperiesi, l’ex ministro sarebbe tra gli ispiratori di un’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta (per l’aggiudicazione non ci fu bando di gara). Ma questa è un’altra storia. Al centro dell’ordinanza che ha portato agli arresti di ieri c’è il contratto di permuta con cui le società costruttrici in cambio della realizzazione del porto hanno ottenuto la concessione su gran parte delle opere. Lasciando, sostiene l’accusa, il socio pubblico a becco quasi asciutto: secondo gli accordi, ricostruiscono Polizia Postale e Finanza, i privati avrebbero ottenuto il 70% dell’opera. Alla società Porto di Imperia spa (di cui il Comune detiene appena un terzo) sarebbe rimasto il restante 30%.
Racconta Beppe Zagarella (Pd), una delle poche voci critiche: “Le società realizzatrici hanno ottenuto l’85% della parte residenziale del progetto, alla Porto di Imperia sono restati i capannoni per la cantieristica e una discoteca. Poi c’è il porto: ai privati sarebbe andato il grosso dei posti barca, mentre al pubblico restano i moli per le imbarcazioni in transito e quelli per la nautica sociale”. Non basta: i pm si sono anche concentrati sui costi del megaprogetto . Si è passati da 80 a 200 milioni. C’è poi il capitolo legato al mutuo da 140 milioni ottenuto dalle società realizzatrici (oggetto di polemiche politiche, ma non ancora di formale indagine). Ricorda Zagarella: “Finora le rate non sono state pagate. Gli istituti hanno concesso una proroga”. Il finanziamento è garantito con un’ipoteca da 280 milioni, ma i creditori cominciano a essere impazienti. Tra le banche interessate all’operazione la parte del leone spetta alla Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (Carige). L’opposizione ricorda che il vicepresidente è Alessandro Scajola, fratello dell’esponente Pdl, mentre nella fondazione siede Pietro Isnardi (consuocero di Alessandro Scajola). Il vice-presidente è Pierluigi Vinai, uomo stimato dagli Scajola e appena scelto come candidato sindaco del centrodestra a Genova.
È il 2003 quando le cronache cominciano a parlare del porto. Mancano ancora anni all’aggiudicazione della concessione, ma Caltagirone Bellavista già vola sopra Imperia in elicottero sognando affari. Con lui ci sono Claudio Scajola e Gianpiero Fiorani che in Liguria sogna di reinvestire i soldi delle sue operazioni finanziarie. Alla fine ecco il via libera: 1440 posti barca più capannoni e residenze. Presto, però, cominciano i guai: i costi crescono, le magistrature indagano. Oltre alla Procura di Imperia c’è anche quella di Sanremo che teme il coinvolgimento di imprese in odore di ‘ndrangheta nei subappalti per la bonifica e il movimento terra dei porti di Imperia e Ventimiglia (inchieste, va sottolineato, alle quali Caltagirone Bellavista, Cozzi, Scajola e le persone citate in questo articolo sono estranei).
Ma chi osa avanzare perplessità viene messo a tacere. Come Claudio Porchia, all’epoca segretario Cgil di Imperia: “Tu sei il capo di un gruppo parassitario che non conta un tubo e non prende un voto”, replica Scajola.
Adesso l’aria sembra cambiata. E l’eco dell’inchiesta arriva in mezza Italia. Perché le società di Caltagirone Bellavista dominano il mercato dei porticcioli. Dal litorale laziale, Civitavecchia e Fiumicino, ancora con benedizione bipartisan, alla Sicilia (Siracusa). Ma per il futuro si parla di Toscana e Dalmazia.
L’AMICO DI FIORANI
MATTONE, SALOTTI E INCHIESTE
di Stefano Feltri
Per lui Maria Angiolillo, l’animatrice del salotto romano più ambito, era “Amica. Sorella. Compagna”, come fece scrivere nel suo necrologio. Perché Francesco Bellavista Caltagirone (doppio cognome perché nato illegittimo da Ignazio Caltagirone e poi riconosciuto), 73 anni, arrestato ieri a Imperia, è molte cose, ma soprattutto è un uomo di relazioni. É più facile ricostruire la sua rete di relazioni che l’assetto proprietario del suo gruppo, l’Acqua Marcia, che si perde tra Lussemburgo e Malta, dove c’è l’ultima scatola, l’oscura Ignazio Caltagirone Trust.
Le sue donne sono tante, decisivo un matrimonio con Rita Rovelli, figlia del finanziere Nino. Le sue frequentazioni sono molte: Marcello Dell’Utri, Sergio D’Antoni, Marcello Pera, l’ex comandante della Finanza Roberto Speciale, l'ex presidente di Confcommercio Sergio Billè. E ovviamente Claudio Scajola. Fino a qualche anno fa prestava i suoi aerei privati a Gianpiero Fiorani, fino al 2005 arrembante banchiere della Popolare di Lodi. Nei primi mesi dell’anno dei “furbetti del quartierino” Bellavista usa una società delle Isole Vergini, la Maryland, per aiutare l’amico Fiorani: finanziato dalla Popolare di Lodi, rastrella azioni di Antonveneta (che la Bpl stava scalando), all’insaputa dei piccoli azionisti e della Consob. Con il più famoso cugino Francesco Gaetano Caltagirone, immobiliarista , editore e finanziere, non è in rapporti. E l’Ingegnere, come si fa chiamare il Caltagirone potente, è assai infastidito dall’omonimia.
Anche perché il gruppo Acqua Marcia non se la passa affatto bene da alcuni anni. Nel 2009 i debiti ammontavano già a 650 milioni, troppi a fronte di un fatturato di 260. Nel giro di due anni i debiti salgono ancora fino a 900 milioni. E Bellavista discute con le 16 banche creditrici, con l’intermediazione di Rothschild, un piano di cessioni per ripianare almeno parte dell’indebitamento. L’eterogeneo gruppo Acqua Marcia ora rischia lo spezzatino. Si parla della cessione del settore turistico-alberghiero e dei servizi aeroportuali.
Quando nel 1994 Bellavista rileva la “Società dell’Acqua Pia Antica Marcia”, questa è soprattutto un’azienda immobiliare con una lunga storia. Recita il sito web: “Con oltre 140 anni di storia l’Acqua Marcia rappresenta oggi la più antica società immobiliare italiana, una società non solo di costruttori ma anche di realizzatori di grande opere e di interventi di recupero e riqualificazione di complessi industriali di pregio storico”. Negli anni diversifica, pur mantenendo una presenza solida nell’immobiliare, tra Milano, Roma e il Veneto. A Milano la magistratura ha sequestrato un’area di 300 mila metri quadri di proprietà dell’Acqua Marcia e della Residenza Parchi Bisceglie. Quei terreni, dove si stavano costruendo alcuni palazzi, erano niente altro che una discarica bonificata (secondo l'accusa) solo in parte.
Bellavista controlla alcuni degli alberghi più esclusivi d’Italia, in Sicilia: Villa Igiea e Des Palmes, a Palermo, il San Domenico a Taormina, l’Excelsior di Catania. Il Molino Stucky di Venezia è il pezzo pregiato della lista visto che, come si legge sul sito, è “il più grande albergo 5 stelle della laguna”. Me è nelle infrastrutture che Bellavista è più attivo: oltre al porto di Imperia, affare per il quale è stato arrestato ieri, ci sono i lavori per la costruzione dei porti di Fiumicino e Siracusa. E poi il business dei servizi di terra in aeroporto, con le controllate Ata Handling e Ali: dalla gestione dell’aeroporto privato di Linate a Malpensa, Bologna, Catania, Venezia. Comprensibile che un imprenditore così esposto verso la politica e interessato al settore aereo nel 2008 venga incluso da Bruno Ermolli tra i patrioti dell’Alitalia: un gettone quasi simbolico, l’1,77 per cento. Giusto per esserci, nonostante i debiti.
Caro Signor Presidente, mi permetta di appellarla così, forte del fatto che sono tra i molti italiani che hanno tirato un sospiro di sollievo quando si è formato il suo Governo.
Proprio per le grandi speranze di rinnovamento del costume politico che Lei ha saputo suscitare sono rimasta fortemente delusa dalla Sua dichiarazione a proposito della Linea ferroviaria Torino-Lione: il Governo tirerà diritto sul progetto così com’è. Un atteggiamento che, forse al di là delle intenzioni, trasforma la vicenda nel simbolo della difesa dell’autorità delle Stato contro il variegato insieme degli oppositori, accomunati, a parte la diversa propensione alla violenza, dal fatto di non comprendere l’assoluta strategicità dell’opera per non staccarci, ancorché “dolcemente”, dall’Europa.
E’ proprio una questione mal posta. Ai tempi della firma del primo trattato italo-francese, nel 2000-2001, svolgevo per il Ministero dell’ambiente la funzione di responsabile del Gruppo di Lavoro “Ambiente e territorio”, uno dei tre GdL (gli altri due riguardavano gli aspetti ingegneristici e gli aspetti economico finanziari) che dovevano integrare la Commissione Intergovernativa al fine di fornire ai due Stati un parere sulla fattibilità della linea. Dal Rapporto consegnato nel 2000 nacque il trattato italo-francese firmato nel 2001 per parte italiana dall’allora Ministro dei trasporti on. Bersani. Le preoccupazioni circa l’inutilità del quadruplicamento ad alta velocità erano ben presenti in quel Rapporto dove le stime indipendenti mostravano la debolezza della domanda passeggeri e merci e l’insussistenza della sottrazione di traffico alla strada. Il traffico merci “catturato” dalla nuova linea era infatti già ferroviario e sarebbe stato sottratto ai valichi svizzeri. Il Rapporto concludeva che la linea era certamente fattibile dal punto di vista ingegneristico, presentava notevolissimi ma non irresolvibili problemi di impatto ambientale da affrontare insieme alla popolazione locale, ma avrebbe avuto bisogno, per essere utile, di una nuova politica dei trasporti fortemente contro tendenziale. Una politica normativa e tariffaria prima che infrastrutturale, rivolta alla strada prima ancora che alla ferrovia, senza la quale l’ingentissimo investimento si sarebbe tradotto in un ingentissimo spreco di denaro. La formula diplomatica assunta per scongiurare tale concreto pericolo fu di stabilire che la nuova linea avrebbe dovuto essere realizzata “quando fosse stata satura la linea esistente”.
Non solo oggi non sussistono segni di saturazione, ma neppure sussiste alcun segno di quella nuova politica, mentre sono ben chiari i guasti che il Governo precedente al Suo ha messo in campo con la Legge Obiettivo e le sue svelte modalità di decisione degli investimenti infrastrutturali. La Legge Obiettivo ha trasformato il paese in un immenso campo di scorribanda per cordate di interessi mosse dal puro scopo di accaparrarsi risorse pubbliche. Un numero imbarazzante di infrastrutture (oltre 300) è stato etichettato come “opera di preminente interesse nazionale” e come tale ha ricevuto incaute promesse di finanziamento da parte del CIPE. Si tratta di una impressionante congerie di infrastrutture prive di qualunque disegno “di sistema” nazionale, di qualunque valutazione d’insieme, di qualunque ordine di priorità. Come stupirsi se ciascuna di esse dà luogo ad opposizioni, comitati, resistenze più o meno accese?
Con la Legge Obiettivo lo Stato ha dato prova di voler rinunciare al suo compito istituzionale di definire una prospettiva condivisa di “bene comune”, da costruire insieme alle Regioni e alle collettività locali, da cui far discendere una accettabile ripartizione delle risorse scarse. Un quadro di senso nel quale dovrebbero essere bilanciate le legittime aspirazioni delle diverse aree del paese, le riforme per la rimozione delle incrostazioni monopolistiche ancor oggi dominanti, le lunghe distanze, con eque condizioni di accessibilità per il Nord e per il Sud, e le brevi distanze con il miglioramento delle condizioni di vita dei pendolari e dei trasporti per le città e le aree metropolitane. Compresa quella realizzazione dei servizi ferroviari regionali in cui davvero abbiamo decenni di ritardo rispetto agli altri paesi d’Europa. Sono tutti problemi stra-noti, ma che ad oggi non hanno trovato alcuna risposta da parte di uno Stato che ha rinunciato a qualunque funzione programmatica, affidando alla iniziativa del “promotore” di turno e ai suoi interessi aziendali le proposte infrastrutturali, le logiche territoriali, le conseguenze anche sociali delle opere proposte. Tutto a spese nostre.
Oggi la situazione è ancora più grave, come dimostra la Sua presenza al Governo. Oggi occorre valutare e stabilire un ordine di priorità. Se le cose da fare sono tante e le risorse sono poche occorre che lo Stato riprenda in mano un vero Piano dei trasporti, costruito e condiviso con le Regioni, con un coinvolgimento “vero” delle collettività locali, che sono assai più attente, informate e ragionevoli di quanto si voglia far credere. Un Piano di politiche e di regole, oltre che di infrastrutture, capace di dar corpo insieme ad obiettivi di funzionamento del sistema dei trasporti, di competitività, di equità territoriale e di sostenibilità ambientale. Su questi obiettivi si potranno coinvolgere anche interessi privati, ma in base ad un Piano che giustifichi l’interesse collettivo del fare. Poi, con una capacità progettuale adeguata, con gli strumenti di valutazione economica, finanziaria ed ambientale troveremo le soluzioni migliori. Ma solo dopo aver messo in ordine di priorità le cose da fare. Temo che in quell’elenco la nuova linea ferroviaria Torino-Lione occuperà un posto molto basso.
E’ opinione largamente condivisa che la revisione degli sciagurati meccanismi della Legge Obiettivo debba necessariamente far parte di un Governo serio come quello da Lei promessoci. Mi permetto dunque di sperare che il Suo Governo possa e voglia rapidamente avviare strategie di valutazione e revisione anche delle opere già iscritte negli elenchi della Legge Obiettivo, in modo da costruire il quadro di priorità oggi indispensabile. Tale ripensamento dovrebbe riguardare, ovviamente, anche la Torino-Lione: un progetto di cui al momento è deciso qualche sondaggio, ma siamo ben lontani dalla ratifica parlamentare dell’Accordo, da una attendibile stima dei costi e dall’assegnazione degli appalti. Dunque c’è ancora molto spazio per riconsiderare le cose alla luce del nuovo quadro programmatico. Non volendo abbandonare la speranza che il suo Governo saprà tener fede alla asserita volontà di far bene nell’interesse del paese Le auguro buon lavoro e Le porgo i miei più rispettosi saluti.
La legge marziale dell'1%
di Paolo Cacciari
Non servono solo ai finanziamenti o alle infrastrutture ma a un'idea puramente militare e di classe della politica - Per 300mila passeggeri Tav già spesi 98 miliardi, per 2.600.000 pendolari solo 4.
Si fa fatica ad usare le parole quando a prevalere è l'irragionevole. E' già stato scritto che sulla vicenda del progetto Tav c'è una asimmetria delle forze in campo (massmediatiche, politiche, militari) tale per cui le argomentazioni razionali vengono totalmente sommerse, annullate, violentate. Ciò è accaduto perché si è prodotto uno scarto tra la cosa in sé e il significato che le viene attribuito dai promotori.
Il Tav va fatto a prescindere. Va fatto per tautologia: perché è stato deciso di farlo. Va fatto perché si deve fare. Va fatto «per il bene dei nostri figli». Va fatto a qualsiasi costo, in senso proprio: a costo di svuotare ancora di più le casse dello stato e di passare sui territori e sui corpi degli abitanti. Non è poi una grande novità, è ciò che succede con le grandi dighe in Cina, con gli impianti petroliferi in Nigeria, con la messa a coltura industriale delle terre in Africa, con gli espropri in India, con il disboscamento dell'Amazzonia... Ovunque il progresso termo-industriale avanza, contadini, indigeni, abitanti vengono espropriati, umiliati, impoveriti, spinti a resistenze disperate, indotti al suicidio.
La pervicacia con cui il «partito unico del progresso» sostiene certi mega investimenti non contempla contraddittori alla pari sulla base di confronti tra progetti alternativi, non contano le argomentazioni concrete: quanto costa, chi lo paga, chi lo ripaga, quali le ricadute economiche, quali i danni ambientali, quali devono essere le priorità degli investimenti nel campo dei trasporti e, in generale, della spesa pubblica. Tutte queste domande appaiono ininfluenti e banali, sollevate da pedanti spaccaballe, di fronte alla magnificenza della Grande Opera. Le grandi opere «trainano», ci mettono in relazione con l'Europa e il Futuro.
Che senso ha invocare ad ogni piè sospinto «austerità» e tagli alla spesa pubblica e poi inneggiare a un'opera che indebiterà ogni anno, per decenni quanto una manovra finanziaria (non dimentichiamo che la Tav Spa era tecnicamente fallita già nel 2006 e che i libri in tribunale non furono portati solo per un regalo di 13 milioni di euro di Di Pietro e Padoa Schioppa nella finanziaria del 2007)? Che senso ha costruire una nuova linea se quella esistente potrebbe sopportare il doppio, il triplo della domanda esistente? Che senso ha raccontare bugie sugli impatti ambientali alla gente che vive sul posto quando non vi è neppure una Via? Che senso ha modificare le leggi, abrogare i diritti costituzionali, sospendere le regole democratiche e militarizzare un'area geografica per realizzare un cantiere edile? Nessuno, ovviamente.
La questione è un'altra. In gioco non c'è una linea ferroviaria, non c'è un gruzzolo di quattrini, non c'è nemmeno la vivibilità di una valle: c'è il principio d'autorità giocato su una ben definita scala di valori. Forse che quando si va alla guerra ci si chiede quanto costerà, quanto terreno verrà bruciato, quanti dovranno morire? La posta in palio è la vittoria. In gioco c'è l'insindacabilità delle istituzioni statali puntata su valori-simboli del nostro tempo, inculcati nella testa della gente: la tecnologia, la velocità, il lusso.
Quando Eugenio Scalfari (la Repubblica del 4 marzo) non si sa spiegare come la «gioventù» possa «odiare la velocità» è pervaso da una estetica futurista che fa un po' ridere nel pieno della crisi epocale che sta vivendo l'occidente industriale. Non si accorge che in realtà sta sponsorizzando tecnologie a dir poco «mature», velocità taroccate e lussi per parvenu. Ai fautori delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo «casereccio» (dei De Benedetti e dei Caltagirone, dei Montezemolo e della LegaCoop...) non rimane molto con cui alimentare l'idolatria della crescita infinita, la passione produttivistica e consumatrice, l'ossessione del fare privo di senso e di utilità sociale.
Chi viaggia in Tav ha una saletta riservata in ogni Grande Stazione, ha il biglietto rimborsato dalla ditta, dal giornale, dall'amministrazione. Chi viaggia nelle «frecce» paga; quindi pensa di potersi permettere benefìci che altri non hanno. Pensa che gli altri si debbano fare da parte per lasciarlo passare, perché il suo tempo vale più di quello degli altri. Lui è al vertice della piramide sociale. E' l'1% della carne trasportata ogni giorno dalle ferrovie (per la precisione 300mila passeggeri usano il treno per le tratte a lunga percorrenza servite dall'alta velocità, contro i 2 milioni 600 mila che usano i treni a breve percorrenza, sotto i cinquanta chilometri), ma può pretendere il 99% degli investimenti ferroviari. Le cifre vere non sono poi così distanti: per i treni ad alta velocità sono stati spesi 98 miliardi contro i 4 miliardi per tutto il resto della rete. Chi può usare le «frecce» è l'ideal-tipo umano vincente, colui che ha il diritto (sancito dal denaro necessario per comprare un biglietto) di pretendere di viaggiare comodo. Poco importa se nuoce al prossimo o se la sua libertà di movimento rovina la vita ai valsusini (e non solo). Lui può attingere quanto gli pare alle casse dello stato, perché è lui che le riempie. Lo stato è suo.
Se le cose stanno così, se in corso c'è una guerra di principio (cioè; su quali sono i valori morali e le gerarchie sociali da rispettare), ho l'impressione che alle opposizioni del Tav non sia sufficiente vincere il confronto sul merito dell'opera in sé (questo è già stato vinto), ma anche sul significato che ha assunto nel discorso politico comune.
Il «modello Tav-Grandi Opere» (istituzionalizzato dalla Legge Obiettivo e realizzato con gli «affidamenti negoziali» e il «dialogo competitivo» tra oligopoli imprenditoriali e concessionari compiacenti) non è solo una modalità con cui si presenta «l'economia della truffa» (per usare una vecchia espressione di Galbraith), ma un modello politico-sociale compiuto, invasivo, performante tutte le relazioni di potere e le forme di organizzazione della società. La «dichiarazione di interesse pubblico» con cui le screditate e compromesse autorità pubbliche centrali (governi e parlamenti) auto-certificano gli interessi delle imprese e delle banche come «bene generale» e cercano così di metterlo al riparo dalle contestazioni delle popolazioni, si è trasformata in una «dichiarazione di guerra», in sospensione dei diritti individuali e costituzionali, in legge marziale.
I No Tav non chiedono solo un altro modello di mobilità, di uso del territorio e della spesa pubblica, ma anche altre modalità decisionali, trasparenti e partecipate, un altro modello di democrazia.
Gli effetti collaterali dell'alta velocità
diPaolo Berdini
Quando negli anni ’90 si decise la realizzazione dell’alta velocità ferroviaria tra Firenze e Bologna i sindaci del Mugello -in prevalenza contrari alla grande opera- furono piegati sulla base dello slogan «da Roma si arriverà in tre ore a Milano. L’economia ripartirà: chi è contro si oppone al progresso». Il professor Monti nella sua conferenza stampa di venerdì scorso non ha dunque inventato nulla quando si chiede retoricamente se c’è qualche primitivo (i valsusini, ovviamente) che vuole impedire di arrivare da Torino a Parigi in quattro ore.
Purtroppo per lui, i venti anni trascorsi hanno reso esplicito l’imbroglio che è stato perpetrato ai danni delle popolazioni del Mugello e dell’intero paese. E’ infatti vero che oggi si impiegano tre ore per collegare le due maggiori città italiane, ma con tre gravissime conseguenze. La prima riguarda il fiume di soldi speso per raggiungere l’obiettivo: oltre 50 miliardi di euro che hanno tolto risorse preziose al resto della rete ferroviaria nazionale e allo stesso sistema del welfare.
La seconda riguarda lo scempio ambientale dell’intero Mugello. 28 fiumi, per oltre 57 chilometri di percorso, cancellati, 37 sorgenti disseccate, 3 acquedotti fuori uso, popolazione che si rifornisce con autobotti. Il movimento no-tav della val di Susa lo richiama in continuazione, ma a che vale la sua voce contro quella dei responsabili di quella vicenda, e cioè il consorzio Cavet in cui erano rappresentati Impregilo, Generali, Banca Popolare di Milano, Fondiaria Sai, Autostrade e l’immancabile cooperativa? Nulla: sono infatti essi a controllare la grande informazione.
Ma ancora più importante è la terza conseguenza. Chi si opponeva all’avventura Tav criticava alla radice il modello territoriale che si voleva perseguire. Era infatti chiaro che privilegiando il collegamento tra le aree urbane forti del centro nord si lasciava indietro tutto il resto. Un’intera nazione non può competere sullo scacchiere internazionale se si limita a potenziare le aree già forti: così incrementa gli squilibri territoriali. Un mese fa una nevicata abbondante non ha scalfito il funzionamento della linea tra Roma e Milano, ma la rete nazionale si è bloccata proprio in conseguenza dei tagli di spesa causati dall’emorragia di finanziamenti spesi per quella grande opera.
Nella stessa conferenza stampa, il presidente del Consiglio ha anche utilizzato l’immagine di un paese le cui possibilità di collegamento con l’Europa dipendono niente meno che dalla Torino Lione. Qualche giorno fa in sede di conversione del “Decreto Monti”, è stata reintrodotta la possibilità di eseguire direttamente le opere di urbanizzazione da parte del titolare del permesso di costruire. Fino ad un importo di 4 milioni e 845 mila euro i proprietari immobiliari potranno realizzare opere pubbliche derogando dall’obbligo della gara di evidenza pubblica come nell’Europa civile. L’Ance ha salutato con giubilo la norma e viene naturale una domanda.
Restiamo ancorati all’Europa se sperperiamo altri 18 miliardi di euro devastando la val di Susa o se ripristiniamo le regole di trasparenza della spesa pubblica che vengono calpestate quotidianamente per soddisfare gli appetiti dei poteri forti? Ci aspettiamo una risposta anche breve. Che potrebbe essere argomentata in sua vece dal sottosegretario Catricalà che ieri è entrato pesantemente nella partita o, ancora in sua vece, dall’ex sottosegretario Gianni Letta.
«L 'America è laland of the free: la terra degli uomini liberi. Che devono essere liberi anche da tutte le ingerenze di uno Stato che pretende di dirci cosa mangiare, a quale finanziaria chiedere il mutuo; e che ora vorrebbe stabilire anche quale auto dobbiamo comprare», scandisce il candidato repubblicano Rick Santorum davanti ai Christian Warrior, i combattenti cristiani della Dayton Christian School di Miamiburg, in Ohio. Ovazione di centinaia di famiglie e anche di studenti conservatori che di ambientalismo e auto elettriche, evidentemente, non vogliono sentir parlare.
Perché è di questo che parla Santorum in quest'infuocata vigilia delle primarie (l'Ohio vota oggi): mentre, infatti, in Europa la stampa dei motori incorona Auto dell'Anno la Chevrolet Volt (chiamata nella Ue «Ampere» e venduta col marchio Opel), negli Usa la General Motors annuncia la sospensione della sua produzione perché i piazzali sono pieni di queste vetture elettriche invendute. Uno smacco per Barack Obama che solo una settimana fa, incontrando gli operai dell'Uaw, il sindacato dell'auto, nel giorno delle primarie repubblicane in Michigan — lo Stato delle «big three» di Detroit — aveva parlato del veicolo elettrico della GM come dell'auto dell'avvenire: «Comprerò una "Volt" fra cinque anni, quando non sarò più presidente».
Un sogno infranto dopo appena quattro giorni: la sospensione della produzione dovrebbe durare poche settimane, ma il licenziamento dei 1.300 dipendenti della linea di montaggio è permanente e per adesso non c'è niente che faccia pensare che il pubblico americano si stia affezionando alla «Volt» e alla «Leaf», l'altra vettura tutta elettrica, prodotta dalla Nissan. Certo, sulla «Volt» pesa il sospetto che le batterie abbiano una pericolosa tendenza a prendere fuoco, ma sono problemi emersi nelle ultime settimane, mentre le vendite hanno deluso già l'anno scorso: 7.700 vetture assorbite dal mercato di 320 milioni di abitanti invece delle previste 15 mila. Poco meglio ha fatto la «Leaf»: 9.674 esemplari venduti negli Usa nel 2011.
«Government Motors ha fatto flop» titolano, soddisfatti, i giornali e i siti di destra rinfacciando al presidente Usa non solo il salvataggio del gruppo di Detroit da parte del governo federale (che è ancora suo azionista), ma anche il massiccio sostegno dato allo sviluppo dei modelli elettrici coi soldi dei contribuenti. Mentre nell'Europa della «coscienza ecologista» per il secondo anno consecutivo si premia l'auto elettrica (l'anno scorso era toccato alla «Leaf»), in America questi prodotti non sfondano, nonostante un incentivo di 7.500 dollari per ogni veicolo venduto e i 250 milioni di dollari spesi dal governo solo per sostenere lo sviluppo delle batterie della «Volt».
Quelli che in Europa sono considerati lungimiranti investimenti sul futuro, qui passano per manifestazioni di dirigismo energetico messe a carico del «taxpayer». Un punto di vista sostenuto con veemenza dai conservatori che vedono pericoli di «Stato balia» dappertutto, anche nella pressione perché le industrie alimentari riducano sale e zuccheri nelle bibite e merendine per i ragazzi. Ma il fastidio per la fallimentare incentivazione dell'auto elettrica si va estendendo oltre i confini repubblicani.
Altri produttori quest'anno metteranno sul mercato vetture elettriche. E «Leaf» e «Volt», magari, si riprenderanno. Forse è solo una tecnologia non ancora matura. Ma la Casa Bianca ha già dovuto frenare: i criteri per la concessione degli incentivi sono divenuti più restrittivi (troppo per la Chrysler di Marchionne che li ha rifiutati), mentre alla Fisker, un nuovo entrato nel mercato, le sovvenzioni sono state negate perché ha mancato gli obiettivi di produzione e vendita che aveva fissato.
Forse il vero "sogno infranto" non è quello dell'auto elettrica, ma quello di una informazione meno trasandata e potenzialmente fuoriviante. Aiuterebbe un pochino se il nostro inviato in prima linea nella land of free ricordasse il dibattito, pure vivissimo e molto free anche da quelle parti, sul modello di mobilità e sostenibilità in cui si inserisce, o si dovrebbe inserire, l’automobile che funziona senza bruciare localmente petrolio e farcene respirare i fumi. Forse però è chiedere troppo, sia a Santorum che a Gaggi, e allora ricordiamolo qui: come tutte le soluzioni da tecnologo specialista, anche quella dell’auto elettrica non ha né capo né coda avulsa da un sistema organizzativo e sociale, non basta mettere una batteria sotto il cofano. Esattamente come per tutte le altre innovazioni, specie quando comportano grandi investimenti, bisogna partire da un’idea più generale, o almeno tenerla ben in mente in tutti i passaggi intermedi. Anche senza arrivare all’idea di città e di convivenza (che è la vera leva su cui batte e ribatte il reazionario Santorum, e Gaggi lo sa benissimo ma ci ritiene troppo scemi per capirlo) sottesa alle critiche radicali ad alcuni evidenti difetti della situazione attuale, è ovvio come la nuova auto sia solo UNO dei componenti di una mobilità integrata, innanzitutto non più auto-centrica. E poi allontanarsi dal monopolio del modello proprietario diffuso, che forse fa tanto comodo al mercato nei suoi assetti attuali, ma ha fatto e continua a fare un sacco di danni al pianeta e allo spreco di risorse non rinnovabili. Ancora una volta, forse, la “colpa” principale davanti a certe indebite semplificazioni del nostro giornalismo è di chi le cose le sa, e quando parla si spiega male, più per trasandatezza che per vere intenzioni perverse (f.b.)
Quello in atto in Valle di Susa è un autentico «scontro di civiltà»: la manifestazione di due modi contrapposti e paradigmatici di concepire e di vivere i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l'attività economica, la cultura, il diritto, la politica. Per questo esso suscita tanta violenza da parte dello stato - inaudita, per un contesto che ufficialmente non è in guerra - e tanta determinazione - inattesa, per chi non ne comprende la dinamica - da parte di un'intera comunità. Quale che sia l'esito, a breve e sul lungo periodo, di questo confronto impari, è bene che tutte le persone di buona volontà si rendano conto della posta in gioco: può essere di grande aiuto per gli abitanti della Valle di Susa; ma soprattutto di grande aiuto per le battaglie di tutti noi.
Da una parte c'è una comunità, che non è certo il retaggio di un passato remoto, che si è andata consolidando nel corso di 23 anni di contrapposizione a un progetto distruttivo e insensato, dopo aver subito e sperimentato per i precedenti 10 anni gli effetti devastanti di un'altra Grande Opera: l'A32 Torino-Bardonecchia.
Gli ingredienti di questo nuovo modo di fare comunità sono molti. Innanzitutto la trasparenza, cioè l'informazione: puntuale, tempestiva, diffusa e soprattutto non menzognera, sulle caratteristiche del progetto. Un'informazione che non ha mai nascosto né distorto le tesi contrarie, ma anzi le ha divulgate (a differenza dei sostenitori del Tav), supportata da robuste analisi tecniche ed economiche: gli esperti firmatari di un appello al governo Monti perché receda dalle decisioni sul Tav Torino-Lione sono più di 360; significativo il fatto che un Governo di cosiddetti «tecnici» il parere dei tecnici veri non lo voglia neppure ascoltare. Poi c'è stata un'opera capillare di divulgazione con il passaparola - forse il più potente ed efficace degli strumenti di informazione - ma anche con scritti, col web (i siti del movimento sono molti e sempre aggiornati) e col sostegno di alcune radio; ma senza mai avere accesso - in 23 anni! - alla stampa e alle tv nazionali, se non per esserne denigrati.
Secondo, il confronto: il movimento non ha mai esitato a misurarsi con le tesi avverse: nei dibattiti pubblici - quando è stato possibile - nelle istituzioni; nelle campagne elettorali; nelle amministrazioni; nel finto «Osservatorio» messo in piedi dal precedente governo e diretto dall'architetto Virano, che non ha mai avuto il mandato di mettere in discussione l'opera ma solo quella di imporne comunque la realizzazione. Strana concezione della mediazione! La stessa del ministro Cancellieri: «Discutiamo; ma il progetto va comunque avanti». E di che si discute, allora? Grottesca poi - ma è solo l'ultimo episodio della serie - è la fuga congiunta da incontro con una delegazione del parlamento europeo del sindaco di Torino e dei presidenti di provincia e regione Piemonte il 10 febbraio scorso. Ma ne risentiremo parlare.
Il terzo elemento è il conflitto: non avrebbe mai raggiunto una simile dimensione e determinazione se l'informazione non avesse avuto tanta profondità e diffusione. Ma sono le dure prove a cui è stata sottoposta la popolazione ad aver cementato tra tutti i membri della cittadinanza attiva della valle rapporti di fiducia reciproca così stretti e solidi.
Il quarto elemento è l'organizzazione, strumento fondamentale della partecipazione popolare: i presìdi, numerosi, sempre attivi e frequentati, nonostante le molteplici distruzioni di origine sia poliziesca che malavitosa; le frequenti manifestazioni; i blocchi stradali; le centinaia di dibattiti (non solo sul Tav; anzi, sempre di più su problemi di attualità politica e culturale nazionale e globale) che vedono sale affollate in paesi e cittadine di poche centinaia o poche migliaia di abitanti; la presentazione e il successo di molte liste civiche; la rete fittissima di contatti personali nella valle; il sostegno che il movimento ha saputo raccogliere e promuovere su tutto il territorio nazionale: Fiom, centri sociali, rete dei Comuni per i beni comuni, movimento degli studenti, associazioni civiche e ambientaliste, mondo della cultura, forze politiche (ma solo quelle extraparlamentari); ecc.
La scorsa estate si è svolto a Bussoleno il primo convegno internazionale dei movimenti che si oppongono alle Grandi Opere, con la partecipazione di una decina di organizzazioni europee impegnate in battaglie analoghe: un momento di elaborazione sul ruolo di questi progetti nel funzionamento del capitalismo odierno e un contributo sostanziale alla comprensione del presente. Infine quel processo ha restituito peso e ruolo a un sentimento sociale (o «morale», come avrebbe detto Adam Smith) che è il cemento di ogni prospettiva di cambiamento: l'amore; per il proprio territorio, per i propri vicini, per il paese tutto; per i propri compagni di lotta e la propria storia; per le trasformazioni che questa lotta ha indotto in tutti e in ciascuno; persino per i propri avversari, anche i più violenti. Non a caso Marco Bruno, il manifestante NoTav messo alla berlina da stampa e televisioni nazionali per il dileggio di cui ha fatto oggetto un carabiniere in assetto di guerra (ma, come è ovvio, lo ha fatto per farlo riflettere sul ruolo odioso che lo Stato italiano gli ha assegnato) ha concluso il suo monologo con questa frase, registrata ma censurata: «comunque vi vogliamo bene lo stesso».
E i risultati? Rispetto all'obiettivo di bloccare quel progetto assurdo, zero. O, meglio, il ritardo di vent'anni (per ora) del suo avvio. Ma quella lotta ha prodotto e diffuso tra tutti gli abitanti della valle saperi importanti; un processo di acculturazione (basta sentire con quanta proprietà e capacità di affrontare questioni complesse si esprimono; e poi metterla a confronto con i vaniloqui dei politici e degli esperti che frequentano i talkshow); una riflessione collettiva sulle ragioni del proprio agire. Ha creato uno spazio pubblico di socialità e di confronto in ogni comune della valle. Ha permesso di rivitalizzare una parte importante delle proprie tradizioni. Ha unito giovani, adulti, anziani e bambini, donne - soprattutto - e uomini in attività condivise che non hanno uguale nelle società di oggi. Ha allargato gli orizzonti di tutti sul paese, sul mondo, sulla politica, sull'economia (altro che «nimby»! Il «Grande Cortile» della Valle di Susa ha spalancato porte e finestre sul mondo e sul futuro di tutti). Ha creato e consolidato una rete di collegamenti formidabile. Ha ridato senso alla politica, all'autogoverno, alla partecipazione: per lo meno a livello locale. Ha aiutato tutti a sentirsi più autonomi, più sicuri di sé, più cittadini di una società da rifondare. Infine, e non avrebbe potuto accadere che in un contesto come questo, ha messo in moto un movimento di gestione etica e ambientale delle imprese, riunite in un'associazione, «Etinomia», che conta in valle già 140 adesioni, e che rappresenta la dimostrazione pratica di come la riconquista di spazi pubblici autogestiti sia la condizione di un'autentica conversione ecologica.
E dall'altra parte? Schierati contro il movimento NoTav ci sono la cultura, l'economia, la metafisica e la violenza delle Grandi Opere: la forma di organizzazione più matura raggiunta (finora) del capitalismo finanziario: la «fabbrica» che non c'è più, divisa in strati e dispersa in miriadi di frantumi. Le caratteristiche di questo modello sociale, che ritroviamo tutte nel progetto Torino-Lione, sono state esemplarmente enucleate da Ivan Cicconi ne Il Libro nero dell'alta velocità (Koiné; 2011) e qui mi limito a richiamarle per sommi capi. La «Grande Opera» è innanzitutto un intervento completamente slegato dal territorio su cui insiste, indifferente alle sue sorti prima, durante e soprattutto dopo la fine dei lavori, quando, compiuti o incompiuti che siano, li abbandona lasciando dietro di sé il disastro. Non è importante che sia utile o redditizia. Col Tav Milano-Torino dovevano correre, su una linea dedicata ed esclusiva, 120 coppie di treni al giorno; ne passano 9: quasi sempre vuoti. L'importante è che la «Grande Opera» si faccia e che alla fine lo stato paghi. E' una grande consumatrice di risorse a perdere: suolo, materiali, energia, denaro (ma non di lavoro, comunque temporaneo e per lo più precario, che a lavori conclusi viene abbandonato a se stesso insieme al territorio). Per questo ha bisogno di grandi società di gestione e di grandi finanziamenti, cioè del coinvolgimento diretto di banche e alta finanza (il ministro Corrado Passera ne sa qualcosa); non per assumersi l'onere della spesa, ma solo per fare da schermo temporaneo a un finanziamento che alla fine ricadrà sul bilancio pubblico E' il modello del project financing , l'apogeo dell'economia finanziaria che ci ha portato alla crisi, inaugurato trent'anni fa dall'Eurotunnel sotto la Manica. Quanto al Tav, le tratte Torino-Milano-Roma-Salerno dovevano essere finanziate almeno per metà dai privati; il loro costo, lievitato nel corso del tempo da 6 a 51 miliardi di euro (ma molti costi sono ancora sommersi e, una volta completate le tratte in progetto, supereranno i 100 miliardi) è stato interamente messo a carico dello Stato (cioè del debito pubblico). Ma per il Tav in Valle di Susa non si parla più di project financing : la fretta è tale che si dà inizio ai lavori senza sapere dove prendere i soldi. Si aspettano quelli dell'UE, che forse non verranno mai, spacciando questa attesa per un impegno «imposto dall'Europa».
Ma perché quei costi sono quattro volte quelli di tratte equivalenti in Francia o in Spagna? E' il «Grande Segreto» delle nostre «Grandi Opere»: il subappalto. Le Ferrovie dello stato hanno affidato - in house , cioè senza gara - la realizzazione dell'intero progetto a Tav Spa, sua filiazione diretta. TavSpa, sempre senza gara, ha affidato il progetto a tre General contractor (le tre maggiori società italiane all'epoca: 1991), tra cui Fiat. Fiat ha fatto il progetto della Torino-Milano e ne ha affidato la realizzazione a un consorzio della sua - allora - controllata Impregilo (quella dei rifiuti in Campania e del disastro ambientale in Mugello). Impregilo ha diviso i lavori in lotti e li ha affidati, senza gara, a una serie di consorzi di cui lei stessa è capofila; e questi hanno affidato a loro volta le forniture e le attività operative a una miriade di ditte minori, attraverso cui hanno fatto il loro ingresso nella «Grande Opera» sia il lavoro nero che la 'ndrangheta: la stessa, ben insediata a Bardonecchia, che da tempo aspetta l'inizio dei lavori sulla Torino-Lione e ha già ampiamente contrattato (vedi l'inchiesta giudiziaria Minotauro) il voto di scambio con i principali partiti della Regione. I lavori che all'ultima ditta della catena vengono pagati 10 Fiat li fattura a TavSpA a 100. La differenza è l'intermediazione dei diversi anelli della catena, tra cui non mancano partiti e amministrazioni locali. Ecco che cos'è la «crescita» affidata alle «Grandi Opere». Ed ecco perché per imporre una soluzione del genere occorre occupare militarmente il territorio. E perché ci vuole un Governo «tecnico». Così Monti è il benvenuto.
Sugli aspetti economici e funzionali del bucone nella Val di Susa segnaliamo due artico di uno studioso certamente non tacciabile di filo-ambientaismo o di ostilità al neoliberismo, Marco Ponti: un articolo del dicembre 2010 e uno del giugno 2011
Leggete qua. “L’inefficienza e la tolleranza degli Enti locali nel controllo del territorio e l’abusivismo dilagante e talora irresponsabile contribuiscono a determinare, oltre la distruzione di un patrimonio naturale unico al mondo, risorsa essenziale per attività economiche, investimenti e occupazione, le conseguenze disastrose che puntualmente si sono verificate anche nello scorso anno”. Non è un leader ambientalista, ma, giusto ieri, il presidente del Tar della Campania Infelix, Antonio Guida. E sapete quali sono i Comuni dove più si ricorre al Tar a difesa degli abusi edilizi? I più belli (o ex belli): Sorrento, Ischia, fra un crollo e l’altro, e Capri. Una follia suicida.
Constatato che l’abusivismo edilizio – lasciato galoppare – rappresenta “un dramma sociale”, la Giunta regionale di centrodestra ha varato il 1° marzo una legge (che vorrebbe magari far approvare in commissione…) con cui procede ad una sorta di condono mascherato travolgendo subito le norme e i vincoli vigenti. Il governatore Caldoro non usa toni sfumati: “Per gli abusi edilizi esistenti, la mia linea è chiara: riaprire i termini del condono 2003”. Questa però è materia del governo. Lui, intanto, “allenta i vincoli” (ci siamo capiti), abroga in gran fretta il Piano della Penisola sorrentina-amalfitana, e affida i controlli edilizi ai Comuni responsabili di aver avallato un disastro paesaggistico mai visto, alla cui testa c’è la camorra. Ci aveva provato Berlusconi, nel maggio scorso a fare della Campania una “zona franca” proponendo di bloccare per un semestre le ruspe anti-abusi. Il Cavaliere voleva così “valutare con serenità il problema campano”. La legalità poteva ben attendere.
Ora, la Campania, insieme a Calabria, Sicilia e Puglia, totalizza gran parte dell’abusivismo edilizio nazionale. Secondo Legambiente, dal 1950 al 2008, essa è stata fra le regioni più colpite da eventi franosi, con 431 vittime, e da inondazioni, con altre 211 vittime (fonte, Cnr-Irpi). “In un territorio così fragile in soli dieci anni sono state realizzate 60.000 case abusive, 6.000 ogni anno, 16 al giorno”. A Casalnuovo, 15 Km da Napoli, l’inviato di Ambiente Italia (Rai3), Igor Staglianò, “scoprì” nel 2007 ben 124 edifici (500 appartamenti) del tutto abusivi. Il sindaco Antonio Manna, berlusconiano, commentò: “C’ero passato in macchina, ma c’era ancora l’erba alta…” Eppure nel suo Comune si devono conoscere un po’ tutti visto che la densità per Kmq è di quasi 6.400 persone. Invece ci volle un satellite, il Marsec, messo in piedi da un gruppo di giovani sostenuti dall’allora presidente della Provincia di Benevento, Carmine Nardone, e utilizzato dalla Regione Campania. Ci sarà ancora? Al governatore campano Stefano Caldoro (Pdl) non deve risultare granché simpatico.
Torniamo alla sua bella legge “in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio”. Avete già capito: tutela, ma, insieme, valorizzazione. Imbruttendo, dissipando il paesaggio, ci si riesce meglio. Per questo Caldoro si prende competenze non sue: la tutela del paesaggio è dello Stato. La Regione, anziché impossessarsene e ridurla a tappetino, avrebbe dovuto co-pianificare col Ministero per i Beni Culturali realizzando i sospirati piani paesaggistici. Il MiBAC, con Bondi e Galan, non ha mosso paglia. E con Ornaghi? Mistero. In una delle rare interviste ha parlato del piano-casa, non dei piani paesaggistici già in grave ritardo. Eppure, a differenza di Bondi che non c’era mai, sta al Collegio Romano dall’alba fino a notte. E allora batta un colpo. L’imbarbarimento avanza, invade il Belpaese. Con mafia, camorra, n’drangheta.
Rischio amianto e rischio radiazioni”. È scritto nero su bianco nella delibera del Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) che di fatto dà il via al progetto della Lione-Torino [nato come “alta velocità” per i passeggeri, trasformato in “alta capacità” per le merci, che non ci sono – n.d.r.]. Nelle carte allegate ai progetti della società Ltf. E in tanti studi universitari, come quelli del Politecnico di Torino.
Per affrontare tutti i nodi legati al Tav non bisogna guardare soltanto a valle, dove si consumano gli scontri, le polemiche. Bisogna alzare lo sguardo e guardare la roccia che domina la valle, quella pietra che le trivelle dovrebbero penetrare per 57 chilometri. È una terra fine, rossastra, perché contiene ferro. Ma non solo. La Val Susa è terra di amianto. E di uranio.
Se ne sono accorti gli ingegneri che, in vista delle Olimpiadi invernali del 2006, cominciarono a scavare per realizzare la pista di bob a Salice e dovettero fermarsi per colpa di quel maledetto minerale: l’amianto. Niente da fare. Stessa sorte quando si trattò di scavare una galleria per la circonvallazione di Claviere, al confine con la Francia: di nuovo amianto. Di nuovo uno stop per le ruspe. E anche la cava di pietra di Trana (vicino a Giaveno) fu bloccata quando ci si accorse che oltre alla pietra la montagna sputava fuori amianto.
“Un bel guaio, soprattutto, in una valle ventosa come la nostra dove le polveri rischiano di sollevarsi e arrivare lontano, di infilarsi nei polmoni della gente”, racconta il meteorologo Luca Mercalli, da sempre contrario al Tav. Un problema noto da decenni. Ma che gli stessi ingegneri impegnati negli studi del progetto hanno sollevato. Soprattutto quando hanno analizzato la zona dove sbucherebbe il tunnel, non lontana dagli abitati: “Gli studi precedenti hanno messo in evidenza come in alcuni campioni di roccia prelevati in superficie siano state riconosciute mineralizzazioni contenenti amianto con caratteristiche asbestiformi”. Si parla di una zona superficiale di ampia circa cinquecento metri.
Da anni in valle si sta cercando di monitorare i casi di mesotelioma, ma studi compiuti su solide basi scientifiche non ci sono. La delibera del Cipe contiene oltre 220 osservazioni che dovranno essere rispettati da chi realizzerà l’opera. Ben nove riguardano il “rischio amianto”. Si chiede un “efficace controllo sulla dispersione di fibre connessa all’attività” di cantiere. Un monitoraggio indipendente, chiede il Cipe, compiuto da un ente terzo. Se verranno superati i valori previsti, avverte senza mezzi termini il Cipe, “dovranno essere interrotte le attività lavorative”. Ancora: in presenza di amianto, vietato l’uso di esplosivi. Il progetto definitivo del tunnel dovrà adottare adeguate misure per proteggere i lavoratori e per lavorare il materiale.
Insomma, elementi di cautela per gli abitanti, ma anche per chi lavora nei cantieri. Ma non c’è soltanto l’amianto. Nella delibera del Cipe si parla anche di presenza di uranio. Non è una novità: nel 1977 l’Agip chiese l’autorizzazione per compiere sondaggi in nove comuni della valle convinta di poter estrarre il minerale: ecco Venaus, Chiomonte e altri comuni interessati dai lavori per la Lione-Torino. Amianto e uranio, ma il pericolo è stato adeguatamente affrontato? I tecnici di Ltf sono convinti di sì: “Con le più avanzate tecniche di scavo si possono lavorare sia l’amianto che l’uranio senza rischi per la popolazione. Mentre si scava si annaffia costantemente l’amianto in modo da rendere impossibile una sua dispersione nell’aria. Poi si utilizzano imballaggi stagni caricati su camion anch’essi annaffiati e lavati”. Ma dove sarebbero smaltiti i materiali pericolosi? “Noi li metteremo dove ci indicheranno, garantendo la massima sicurezza, nell’interesse anche dei nostri lavoratori”.
Ecco l’altra preoccupazione dei No Tav: “Le zone di smaltimento non sono ancora state individuate. Non è un dettaglio. E poi servono zone sicure al cento per cento, al riparo anche dai rischi idrogeologici”.
Facciamo un passo indietro. La decisione del Parlamento europeo e del Consiglio (884/2004) prescrive che all'atto della pianificazione e della realizzazione dei progetti «gli stati membri devono tenere conto della tutela dell'ambiente, effettuando... valutazioni d'impatto ambientale dei progetti comuni da attuare». Più sotto, all'articolo 10 si prevede un «ruolo importante nel traffico ferroviario di passeggeri su lunghe distanze» e inoltre di agevolare « il trasporto delle merci attraverso l'individuazione e lo sviluppo di grandi assi riservati al trasporto merci o destinati in via prioritaria ai convogli merci».
Quello che c'è davvero, sotto la montagna, nessuno dei grandi democratici che strillano, se l'è chiesto. La prospettiva è di scavare 16 milioni di metri cubi di roccia. Solo per la parte italiana. A conti fatti è il volume di una città da 250 mila abitanti. Una nuova città, la seconda del Piemonte, tutta di rifiuti e cresciuta poco alla volta, nel corso di 10 anni e più. Anche l'acqua dei monti se ne andrà. Inoltre vi sono altre montagne da bucare, per fare la ferrovia nuova. Per esempio il Musinè, con una roccia satura di amianto. Quante centinaia di tonnellate di amianto verranno alla luce? Le si manderanno, eventualmente, tutte a Casale Monferrato, dove sono già abituati?
Il cenno al «ruolo importante...dei passeggeri» sembra una presa in giro. Il traffico passeggeri è sempre più modesto, già da prima della crisi. Modesto al punto di far fare, come si usa dire, una «capriola» al progetto e cambiare il Tav nel Tac dell'Alta capacità o Traffico merci. Qui sorge il dubbio che i francesi non siano neppure stati avvertiti. In ogni caso il Traffico merci, quello per il quale si fa l'opera, era nel 2006 di 6 milioni di tonnellate anno (mt/a) contro i 16 ipotizzati. Nel 2010 il piano era di 20 mt/a, mentre la dura realtà è stata di 2,6 mt/a.
C'è almeno un altro punto da ricordare; nell'allegato III al punto 6 si descrive il famoso asse ferroviario Lione-Budapest-Frontiera ucraina, quello che dovrebbe passare dalla galleria del Moncenisio, quella nuova. È prevista una tratta Torino-Venezia, ma dov'è il decisivo collegamento Milano-Venezia? La tratta Verona-Padova non è neppure stata appaltata. Lungi da noi la volontà di puntare il dito su quelle operose popolazioni, ma è proprio così. La Tav tra Lione o Parigi e Milano, via Torino invece c'è già ed è gestita - tra l'altro - dalle ferrovie francesi. Il viaggio dura forse mezzora o anche un'ora più passando più in alto, ma il viaggio si fa. Invece il cosiddetto corridoio 5 non esiste, senza il collegamento veneto. Certo è più facile, almeno sulla carta, fare i prepotenti con i valsusini che risolvere i nodi, politici ed economici del ricco Nord-est.
Adesso facciamo un passo avanti. Ministri, capi della polizia e personaggi dei grandi partiti sono sconcertati per la diffusione della sindrome Tav in buona parte d'Italia. La spiegazione corrente è quella dell'anarcosindacalismo, ma è piuttosto una spiegazione di comodo, in attesa di trovarne un'altra, più sensata; o di non trovarne affatto e passare alla fase di repressione, senza se e senza ma.
I più ingenui tra i detentori del potere credono davvero di insegnare la democrazia a un pugno di riottosi. Solo che i numeri della protesta non tornano e neppure la geografia. L'influenza valsusina, se di questo si tratta, è ormai molto diffusa. A riflettere bene, la democrazia della maggioranza che fa quello che vuole, perché ha i voti in parlamento, è quella cara a Silvio Berlusconi, il presidente di prima. Allora gli dicevamo che democrazia è qualcosa di più complesso, per esempio il diritto di una minoranza di non essere messa a tacere, ma di ottenere che le leggi - tutte le leggi - vengano rispettate. Non solo quelle che la maggioranza ha fatto a proprio favore, o a favore degli amici.
C'è anche un altro spezzone di verità e giustizia, forse difficile da acquisire da parte di chi non fa neppure un tentativo in quella direzione. I giovani e i meno giovani che stanno dalla parte dei valsusini sono convinti assertori della necessità di cambiare modello - e subito - nel nostro paese e in Europa, se si voglia garantire un futuro accettabile a tutti.
Il modello ha molti nomi. Sul nostro giornale prevale ormai la formula «Conversione ecologica» cui tutti si sentono partecipi e tutti collaborano, cercando di cambiare la società, il sistema produttivo, le priorità. Il lavoro. Un treno ad Alta velocità (o alta capacità che sia) che si sovrappone a uno esistente, buca le montagne, riempie di polveri nocive la pianura, blocca miliardi su miliardi, silura altre iniziative necessarie, crea le condizioni di appalti fuori controllo, urta con scelte drammaticamente diverse sul sistema dei trasporti, nazionale e locale, non fa parte della conversione ecologica e neppure dell'insieme di verità e giustizia che compone la democrazia che vogliamo.
Lido, prosciolti dal gip Lihard, Antinori, Pinarello e Salzano Non hanno diffamato Est Capital ma espresso giudizi
Progetti miliardari, polemiche e battaglie anche legali. La «cementificazione» del Lido ha trovato spazio in questi anni sui principali media nazionali ed esteri. Nel mirino i progetti affidati con i poteri del commissario straordinario alla finanziaria Est Capital. Deserto il primo bando, il secondo bando dell’orttobre 2010 era stato vinto proprio dalla società presieduta da Mossetto. Non più soltanto l’ospedale al Mare, ma anche la darsena e gli stabilimenti balneari (cordata con le società Mantovani, Condotte e Fincosit) e poi gli appartamenti nell’ex Forte di Malamocco, il restauro di Des Bains ed Excelsior. Progetti approvati ma per il momento non ancora decollati.
«E’ sicuramente diritto dei cittadini e delle associazioni ambientaliste in cui si riconoscono, esprimere valutazioni critiche, anche pesantemente critiche, in ordine all’operato della Pubblica amministrazione, specie quando coinvolgono il diritto alla salute e alla tutela dell’ambiente». Con questa motivazione il giudice per le indagini preliminari del Tribunale Giuliana Galasso ha disposto l’archiviazione della denuncia-querela per diffamazione intentata dalla società finanziaria Est Capital contro le associazioni ambientaliste del Lido e i loro portavoce Federico Antinori, Salvatore Lihard e William Pinarello e contro l’urbanista Edoardo Salzano autore del pamphlet «Lo scandalo del Lido».
La società presieduta da Gianfranco Mossetto, che ha vinto la gara per i progetti del nuovo Ospedale al Mare, si era sentita diffamata da alcune espressioni usate dai comitati e riportate dai giornali. In particolare aveva offeso gli imprenditori l’uso dell’aggettivo «anomala» riferito alla procedura utilizzata per la gara. Alla busta principale – quella per l’ex Ospedale – erano state aggiunte due buste supplementari, riguardanti le offerte per la darsena e il nuovo stabilimento balneare. Il giudice cita nell’ordinanza di archiviazione le dichiarazioni rese a verbale da Luigi Bassetto, vicedirettore generale del Comune che aveva condotto la trattativa. «Era la prima volta che accadeva», ha ammesso Bassetto. Dunque, l’utilizzo del termine «procedura anomala» non può essere considerato diffamatorio. «Una prassi che dunque ben può apparire anomala», scrive il giudice nel suo provvedimento, «e comunque in lingua italiana tra i sinonimi di anomalo non vi è illecito». Dunque, libertà di critica. E un principio che provoca soddisfazione tra i comitati.
«Non si poteva certo dire che quella procedura fosse normale», dice Lihard, «ma è singolare come il bando seguente sia stato riformulato non più come vendita dell’Ospedale ma con tre interventi. Comunque è stata riconoscita la libertà di critica. E questa la consideriamo una vittoria». L’attività del coordinamento, hanno precisato i legali della difesa, non è mai stata volta alla denigrazione della società Est Capital ma al merito dei problemi. «Continueremo con questo spirito», dice Lihard, «sperando non arrivino altre denunce. Si tratterebbe in tal caso di veri atti di intimidazione».
In merito alla vicenda del Fondaco dei Tedeschi si legge che la società Edizione del gruppo Benetton “ha dato mandato ai propri legali di valutare se iniziative, dichiarazioni e affermazioni (...) possano essere ritenute lesive della propria onorabilità e immagine, così come foriere di danni anche in relazione alle negoziazioni in corso con partners per l’iniziativa imprenditoriale che s’intende riservare al progetto”. Se la citazione del passo riportato dalla stampa è letterale – ma nessuna smentita finora è apparsa – il comunicato della proprietà si configura come un tentativo di intimidazione di chiunque osi avanzare una qualsivoglia critica al progetto, col malcelato intento, di manzoniana memoria, di “sopire, troncare ... troncare, sopire” il dibattito in corso.
È invece giusto e legittimo – oltre che, a questo punto, doveroso – esprimere opinioni e critiche su un’ipotesi progettuale che, sia pure valutabile sulla scorta delle poche informazioni e dello scarno materiale grafico reperibile in rete e sui giornali, presenta drastiche criticità. A tal proposito, sia detto per inciso, il nostro primo cittadino non ha tutti i torti quando lamenta che della questione si parla spesso senza conoscerne termini e vicende. A questo, però, è facile rimediare. Qualche ora di lavoro di un impiegato comunale dovrebbe essere sufficiente per scansionare e pubblicare sul sito del Comune un apposito dossier, che ovviamente non si pretende completo: basterebbero le relazioni progettuali e i grafici dello stato di fatto e di progetto, anche a scala non dettagliata, con le relative tavole di confronto delle demolizioni/nuove opere, accompagnati dalle convenzioni e pareri in merito emessi dall’amministrazione comunale e dall’ufficio di tutela.
Le criticità del progetto, in aperto contrasto con le vigenti leggi e regolamenti in materia edilizia, sono di evidenza palmare: la demolizione di un’intera falda del tetto per ricavare una terrazza affacciata sul Canal Grande, ad esempio, accompagnata dall’innalzamento di qualche metro del tetto centrale in metallo e vetro di fattura ottocentesca e delle falde rivolte sul cortile, trasformate in superfici piane (forse per ricavare un’ulteriore ampia area praticabile di affaccio sulla città?). O la collocazione di scale mobili nel cortile interno, che violerebbero, stravolgendoli, spazialità e valori formali dello straordinaria architettura, oltre che comportare la demolizione di membrature laterizie cinquecentesche e di bancali lapidei colmi (se ne sono accorti i progettisti?) di graffiti: nomi, sigle, segni distintivi di mercatura, simboli religiosi, scacchiere per il gioco, ecc., incisi nel corso dei secoli dai mercanti della nazione tedesca. O ancora l’eliminazione del velario presente nel cortile, sostituito da un nuovo solaio praticabile ad uso pubblico, che comporterebbe un aggravio di carico tale da produrre dissesti certi sulle esili membrature dei loggiati sovrapposti e sicuramente foriero – in questo si è facili profeti – di opere di rafforzamento delle fondazioni tanto imponenti quanto invasive.
Tutti interventi (e forse altri ancora, ma rimaniamo in attesa di conoscere meglio il progetto) che condurrebbero ad alterazioni e trasformazioni inaccettabili di una delle più importanti e significative architetture del Rinascimento veneziano, eretta con il contributo progettuale del grande trattatista e architetto fra’ Giocondo. La variante ‘riduttiva’ di progetto che pare essere stata presentata nei giorni scorsi all’esame degli uffici competenti non attenua minimamente tali criticità: la diminuzione dell’ampiezza della terrazza, con l’installazione di una falda mobile (peraltro rimpiazzata, pare, dall’improvvisa apparizione di un “pontile” sull’acqua di vastissime dimensioni destinato ad accogliere i tavolini di un bar) sarebbe comunque stravolgente e il rendere sollevabile una delle scale mobili non attenuerebbe minimamente il loro impatto sul cortile. E tutto il resto?
“Riteniamo che il progetto non può essere ulteriormente modificato. Non è possibile sconvolgere il piano dell’architetto Rem Koolhas che invece va valorizzato” ha dichiarato la proprietà alla stampa. Si è forse sparato cento per ottenere cinquanta (o, meglio, novantanove)? Non lo crediamo: sarebbe un atteggiamento più confacente allo stile di un magliaro levantino che a quello di un grande gruppo industriale che si è finora distinto nella promozione di lodevoli iniziative culturali.
Per fortuna, è proprio il caso di dirlo, che c’è la Soprintendenza. L’ente di tutela non potrà certo autorizzare opere confliggenti innanzitutto con i dettami della Carta del Restauro di Venezia, che possono anche essere ignorati dai progettisti e dai committenti, ma che dal Ministero sono stati a suo tempo resi prescrittivi per i funzionari dei Beni Culturali. Carta che all’art. 6 recita: “la conservazione dei monumenti è sempre favorita dalla loro utilizzazione in funzioni utili alla società: una tale destinazione è augurabile, ma non deve alterare la distribuzione e l’aspetto dell’edificio. Gli adattamenti pretesi dalla evoluzione degli usi e costumi devono dunque essere contenuti entro questi limiti”, o che all’art. 13 ricorda che “le aggiunte non possono essere tollerate se non rispettano tutte le parti interessanti dell’edificio, il suo ambiente tradizionale, l’equilibrio del suo complesso ed i rapporti con l’ambiente circostante”.
Opere, oltretutto, in conflitto – e una legge dello stato dovrebbe valere anche per l’amministrazione locale – con le disposizioni della Legge Speciale per Venezia, che nel suo Decreto d’attuazione n° 791 del 1973 all’art. 2 prescrive che gli interventi di restauro debbono garantire “la conservazione della totalità degli assetti costruttivi tipologici e formali” delle fabbriche, assicurare la conservazione “delle coperture a tetto ed a terrazza che debbono restare alla stessa quota”, ed essere tra l’altro volti al ripristino del “sistema degli spazi liberi esterni ed interni che formano parte integrante dell’edificio”. Nessuno, si crede, invoca la liberazione del cortile del Fondaco dall’attuale copertura per restituirlo alla sua primitiva condizione, ma è difficile riconoscere nel solaio proposto sulla sua sommità una sia pur tenue aderenza alle norme. Norme che non possono in alcun caso derogarsi in cambio dei benefici pubblici che si otterrebbero se il progetto venisse realizzato.
Benefici dubbi, peraltro, se è vero quanto riportato dalla stampa. Vantaggi che non possono che considerarsi risibili se posti in termini di garanzia di accesso per il pubblico agli spazi del Fondaco (dato che è presupposto ovvio per ogni destinazione di carattere commerciale), di minima utilità, se intesi come possibilità d’uso concessa al Comune per propri eventi o iniziative (poiché per tali attività non mancano certo altri luoghi in città; quali spazi, oltretutto, e per quanti giorni?), deprimenti se constano nella concessione all’uso di qualche bagno anche a chi non farà alcun acquisto, umilianti infine, se consistenti in una somma di denaro, qualunque ne sia l’importo, che in ogni caso verrebbe incassata dalla municipalità in conseguenza del cambio di destinazione d’uso. Aumenti delle superfici utili, scale mobili, terrazze panoramiche sui tetti e sull’acqua (tutte dotazioni che di certo produrrebbero vantaggi non trascurabili per un centro commerciale collocato nel cuore di una città come Venezia, ma di sicuro effetto dirompente per l’edificio del Fondaco) non potranno essere realizzate? Proprietà e progettista se ne facciano una ragione: la legge non lo consente.
L'autore, docente di Restauro all'Università IUAV di Venezia, è stato per molti anni funzionario e dirigente della Sovrintendenza veneziana.
A Napoli, duecento lavoratori del patrimonio culturale protestano contro la loro condizione precaria, e chiedono di essere stabilizzati: «Senza di noi –dicono – il Museo Nazionale Archeologico sarà costretto a chiudere». Davvero un brusco ritorno alla realtà, dopo la retorica stantia e nebulosa del cosiddetto ‘manifesto per la cultura’ lanciato in pompa magna dal supplemento culturale del quotidiano di Confindustria.
A trent’anni dalla nascita della ‘dottrina del petrolio d’Italia’ fondata da Gianni De Michelis, siamo ancora in piena ideologia dei giacimenti culturali: guardiamo al patrimonio come a qualcosa da sfruttare per ricavarne la massima rendita possibile. La conseguenza è un’economia dei beni culturali essenzialmente parassitaria, ben simboleggiata dalle strapotenti società di servizi che lavorano grazie a un sistema di concessioni a dir poco opaco, e che stanno cambiando radicalmente in senso commerciale la stessa politica culturale del Ministero per i Beni culturali.
Questo sistematico drenaggio delle risorse pubbliche verso tasche private non ha neanche la legittimazione della creazione di posti di lavoro: tutto si basa su un cinico sfruttamento di lavoratori precari, spesso anche molto qualificati (come gli storici dell’arte e gli archeologi che escono dai dottorati delle università italiane).
Se vogliamo davvero aprire una riflessione sui rapporti tra pubblico e privato nel mondo dei beni culturali, il punto di partenza non può essere la fantasiosa celebrazione delle magnifiche sorti e progressive di un nuovo mecenatismo italiano (di cui, francamente, non si vede traccia), ma una seria analisi della sorte dei duecento precari di Napoli.
Mentre sulla scena internazionale si afferma una «nuova forma di colonialismo il cui dominio non si fonda più sugli eserciti ma sul debito» (Gad Lerner), in Italia prende piede un neofeudalesimo che fa leva sul dissesto degli enti locali e sulla debolezza dello Stato per costruire zone di potere privato sottratte allo spirito e alla lettera della Costituzione.
E, come sempre nella storia, il patrimonio artistico è il luogo in cui tutto questo acquista un’evidenza simbolica. Benetton ‘regala’ sei milioni di euro al Comune di Venezia in cambio delle concessioni che gli consentiranno di stravolgere lo storico Fondaco dei Tedeschi, a Rialto; la ditta Essebiesse dona 50.000 euro all’anno alla Soprintendenza Archeologica di Campobasso, che l’ha autorizzata a piazzare un impianto eolico sull’intatta Sepino; il National Geographic ‘compra’ con nemmeno duecentomila euro il diritto di ‘bucare’ gli affreschi di Giorgio Vasari a Palazzo Vecchio a Firenze, per cercare spettacolarmente un inesistente Leonard. Poteva mancare, in tutto questo, un serraglio di animali esotici mantenuti a caro prezzo per la delizia dei nuovi feudatari? Certo che no: e infatti è a Trieste, nel fiabesco parco del Castello asburgico di Miramare.
Qui, dal 2005, alcune delle serre antiche del parco ospitano un allevamento di rarissimi e delicatissimi colibrì appositamente importati dal Perù. Senza un progetto scientifico, ma grazie ad una serie incredibile di appoggi politici, un privato cittadino è riuscito ad imporre ad un sito monumentale statale un serraglio, peraltro abusivo, che non ha nulla a che fare con l’identità storica di Miramare, né tantomeno con i compiti istituzionali del Ministero per i Beni culturali. E questo sarebbe ancora niente: mantenere il clima necessario ai delicati uccellini costa una fortuna in gas e luce, oltre ad una colossale quantità d’acqua, che è stata procurata con allacci illegali al sistema idrico, e che ha finito per infiltrarsi nel terreno compromettendo la salute dei pini storici del parco. Il tutto è culminato nell’incendio che, l’8 novembre del 2011, ha distrutto parte delle serre antiche di Miramare.
Il fatto che (nel gennaio 2011) a fianco dei colibrì sia sceso in campo Berlusconi in persona (alla schiusa dell’ennesimo uovo triestino il «Corriere della Sera» salmodiò che «al neonato verrà dato il nome di Silvio, per l’impegno preso da Berlusconi a salvare» i minuscoli pennuti) – oltre ad un variopinto schieramento di volti noti che va da Margherita Hack a Laura Pausini, da Piero Angela a Maurizio Gasparri – ha consigliato ai prudentissimi vertici del Mibac di schierarsi dalla parte degli uccellini abusivi, lasciando del tutto solo il soprintendente del Friuli, Luca Caburlotto (insediatosi nel maggio 2010), il quale continua a battersi, con coraggio esemplare, per la legalità e il buon senso, e dunque per la rimozione dei colibrì da Miramare.
Con le biblioteche e gli archivi sull’orlo della chiusura per mancanza di fondi, con la pioggia che entra dai lucernari di Brera, con Pompei che si sgretola, il Ministero per i Beni e le Attività culturali usa oltre 400.000 euro per coprire danni e debiti del colibrì Silvio e dei suoi simpatici colleghi volatili.
Insomma – parafrasando Flaiano –, come sempre la situazione del patrimonio storico e artistico italiano è grave, anzi gravissima. Ma certo non è seria.
Parlando lunedì in Consiglio comunale, Matteo Renzi ha rilanciato la vecchia idea di ripristinare l’antica pavimentazione in cotto di Piazza della Signoria a Firenze, annullando i due secoli di storia che hanno storicizzato le pietre volute dai Lorena. Non è un caso isolato: con cadenza regolare, Renzi prende un tema della storia dell’arte fiorentina e lo brandisce come una clava mediatica. Ha cominciato con la rivendicazione della proprietà comunale del David di Michelangelo, ha continuato con l’idea di costruire la facciata di San Lorenzo secondo i progetti dello stesso Michelangelo, quindi si è gettato a capofitto nella tragicomica ricerca della Battaglia di Anghiari di Leonardo.
Il movente politico è trasparente: usare il patrimonio storico e artistico della città come una potentissima arma di distrazione di massa. In tutto questo c’è una buona dose di cinismo, perché Renzi sa benissimo che Piazza della Signoria non tornerà mai al cotto (ipotesi già bocciata, in passato, dal ministero per i Beni culturali), che la facciata di Michelangelo non si farà, che la Battaglia di Anghiari non si troverà: ma ciò che conta è l’effetto notizia. Ma sono i presupposti culturali di questa strategia a far cadere le braccia. Innanzitutto, non c’è niente di nuovo: l’indubbia abilità mediatica di Renzi proietta su un palcoscenico globale i peggiori vizi della Firenzina abituata a vivere sullo sciacallaggio del passato. In questo momento, la Provincia di Firenze promuove una grottesca campagna di scavo per cercare le ossa della Gioconda (intesa come Lisa Gherardini), mentre si raccolgono firme per indurre il Louvre a prestare a Firenze la stessa Gioconda (intesa come quadro, o meglio come feticcio). L’arcivescovo, e neocardinale, Giuseppe Betori usa una pala del giovane Giotto come merce di scambio nella propria promozione personale, e la Confindustria fiorentina sostiene Florens, manifestazione culminata nel collocamento di un’oscena copia in vetroresina del David su un castelletto di tubi piazzato su uno dei contrafforti del Duomo, in un penoso tentativo di mimare la collocazione originaria della statua.
Ma ciò che colpisce veramente è il disprezzo per la cultura che traspare dalle parole e dagli atti del sindaco, che è ora anche assessore alla Cultura. Quando i più importanti storici dell’arte di tutto il mondo gli hanno chiesto di smettere di bucare gli affreschi di Vasari per cercare il Leonardo fantasma, Renzi ha risposto con una newsletter piena di insulti verso questi “presunti scienziati”, accusandoli di non essere “stupiti dal mistero” a causa di un “pregiudizio ideologico”. Non siamo al “culturame”, ma poco ci manca. Per Renzi la cultura è quella di Voyager, il programma tv di Roberto Giacobbo: complotti e misteri, templari e santi graal. Evasione, vaghezza misticheggiante, suggestione a buon mercato. Proponendo di riportare Piazza della Signoria alla pavimentazione tardogotica egli sfoglia il libro della storia come se fosse il book di un chirurgo estetico. Un libro dei sogni che non serve più a crescere e ad aver presa sulla realtà, e dunque a imparare come cambiare il mondo, ma – al contrario – a cancellare le tracce del tempo e a rimanere eternamente immaturi. Non uno strumento per formare cittadini consapevoli dotati di senso critico, ma un mezzo per plasmare un pubblico passivo, destinatario perfetto di una martellante propaganda che invita non a pensare, ma a sognare. Si dice che Silvio Berlusconi si compiaccia da tempo di questo nipotino ideologico: è sempre più difficile dargli torto.
Decreto contro le grandi navi in dirittura d’arrivo. Ma il rischio è che «in assenza di alternative» la situazione rimanga quella di oggi. Il decreto annunciato nelle ore successive alla tragedia dal ministro per l’Ambiente Corrado Clini è stato «congelato» in attesa del concerto del ministro per le Infrastrutture Corrado Passera. Dal testo originario è sparito il limite di passaggio per le navi troppo grandi. O meglio, si pensa a una deroga senza limiti di tempo «finché non saranno previsti percorsi alternativi». Un’ipotesi che ha mobilitato i comitati. «Occorre mettere una data», dicono, «altrimenti si rischia che tutto rimanga com’è». Polemica aperta, anche perché il disegno di legge messo a punto dal senatore Felice Casson prevede invece l’esclusione dalle rotte delle navi da crociera dei siti ambientali pregiati. Venezia naturalmente è uno di questi.
Intanto fa discutere l’uscita del professor Luigi D’Alpaos, ingegnere idraulico di chiara fama, che l’altra sera in sala San Leonardo, davanti a una folla straripante, ha bocciato come «pericolosa per la sopravvivenza della laguna» l’idea di di scavare un nuovo canale, il Contorta Sant’Angelo, per far arrivare le grandi navi alla Marittima da Malamocco e non più dal Lido. Un’ipotesi invece già avviata dall’Autorità portuale, dal Magistrato alle Acque con il consenso del Comune e del governo.
«La straordinaria partecipazione dell’altra sera», dice il portavoce del Comitato Silvio Testa, «dimostra che i veneziani vogliono decidere sulle scelte che riguardano il loro futuro. Le autorità svolgono un servizio pro tempore al servizio del popolo, non sono boiardi svincolati da ogni dovere di trasparenza». «Ci dica dunque il Magistrato alle Acque», continua il rappresentante del Comitato, «a chi è stato affidato lo studio per il nuovo canale, quanto costerà e quali sono le domande poste. E come sia possibile escludere riflessi negativi sulla laguna dopo le pesanti parole sentite l’altra sera da uno dei massimi esperti di idrodinamnica lagunare, l’ingegnere Luigi D’Alpaos». Le alternative vanno trovate, dunque. Ma il canale, secondo il Comitato, sarebbe un rimedio peggiore del male.
Con gli ultimi provvedimenti, il profilo del governo "tecnico" si è ormai chiaramente definito e le caratteristiche dei suoi interventi rappresentano anche una messa in mora (una sfida?) per un mondo "politico" che non riesce a trovare una sua misura di fronte ad una novità che si conferma sempre più profonda. E i partiti devono fronteggiare anche una ineludibile questione: antipolitica o altrapolitica? Infatti, la lunga ondata antipolitica, alimentata ogni giorno da scandali e debolezze del sistema dei partiti, non può occultare il fatto che l´Italia sia pure un Paese pieno di politica, reattivo in forme né populiste né qualunquiste. Ma quest´altra politica viene temuta dai partiti, che magari ne parlano e poi la tengono lontana, la trascurano, continuano ad abbandonarsi all´esorcismo del "non cedere ai movimenti", formula divenuta ormai l´emblema dell´immobilismo e dell´autoreferenzialità. Così stando le cose, potranno i partiti realizzare quel mutamento che tanti invocano come indispensabile?
Nella sua lezione all´università di Bologna, il presidente della Repubblica ha associato la fiducia nel governo Monti ad un invito ai partiti ad "autorinnovarsi", a realizzare una "riqualificazione culturale e programmatica". E il presidente del Consiglio ha parlato di un compimento del suo mandato che restituirà l´iniziativa appunto ai partiti. Ma quali dovrebbero essere le condizioni perché, rigenerati, i partiti possano di nuovo guadagnare quella fiducia dell´opinione pubblica che oggi appare perduta? E quali i temi con i quali cimentarsi per l´auspicato ritorno ad una seria elaborazione culturale, per mettere a punto programmi non raffazzonati? Comincio con l´indicarne tre: i diritti fondamentali; i servizi pubblici; i limiti alla libertà d´iniziativa economica privata.
Non li scelgo a caso. Dietro ciascuno di questi temi si trovano soggetti reali, iniziative concrete. Molti comuni e gruppi si adoperano ogni giorno perché trovino effettivo riconoscimento i diritti degli immigrati, delle coppie di fatto, di quanti vogliono liberamente decidere sulla fine della loro vita. La questione dei servizi è simboleggiata dal servizio idrico, dall´acqua come bene comune: l´Italia è l´epicentro di un largo movimento, che ha visto ventisette milioni di elettori votare contro la privatizzazione dell´acqua, che produce analisi sempre più accurate, che ha visto convenire a Napoli e Roma rappresentanti da molti Paesi, che è all´origine di una rete di comuni europei e di iniziative popolari rivolte alla Commissione di Bruxelles. Altrettanto intensa è la discussione intorno ai limiti del mercato, accesissima intorno ai temi del lavoro e che vede l´inquietante tentativo di cancellare l´articolo 41 della Costituzione che congiunge il decreto berlusconiano di luglio e il decreto "Cresci Italia", ponendo il problema se sia ancora possibile in economia una politica "costituzionale". Questa è l´altra politica. E ciascuno di questi temi pone la questione di quale idea di società debba oggi sostenere l´azione politica.
E i partiti? Silenziosi o diffidenti, timorosi della loro ombra. Si pensi a quel che è avvenuto a Milano, dove una meritoria iniziativa del sindaco riguardante le coppie di persone dello stesso sesso ha provocato sconcertanti reazioni di rigetto all´interno dello stesso Pd, dove evidentemente si ignora che una sentenza della Corte costituzionale ha affermato che queste persone hanno un diritto fondamentale a veder riconosciuta la loro condizione. La questione non può essere considerata minore o locale, poiché rivela come all´interno di quel partito non vi sia una elaborazione programmatica riconoscibile, si è paralizzati dall´irrisolto rapporto tra le diverse forze che hanno dato origine al Pd e che troppe volte fanno emergere tentazioni integraliste e incapacità di altri settori del partito di definire una posizione netta proprio sui diritti fondamentali delle persone. Non diversa è la condizione del Pdl, prigioniero di fondamentalismi figli soprattutto d´una stagione d´un collateralismo strumentale, quando il partito si presentava come il portavoce della gerarchia vaticana.
Stanno così nascendo due circuiti: quello, talora discutibile ma dinamico, dell´altra politica e quello congelato del sistema dei partiti. Quest´ultimo si chiude sempre più in se stesso, rifiuta il dialogo, e ne paga i prezzi. Quando le condizioni istituzionali rendono inevitabile il contatto tra i due circuiti, infatti, è quasi sempre quello dell´altra politica a prevalere. Lo dimostra, per il Pd, l´esperienza negativa di primarie e elezioni, da Milano a Cagliari, da Napoli all´ultimo episodio di Genova.
Davvero si può credere che da questa difficoltà politica si possa uscire con espedienti procedurali o accentuando il controllo partitico sulle candidature alle primarie? Il nodo è altrove, e riguarda la necessità di prendere atto non solo dell´esistenza di nuovi attori politici, ma delle realtà che sono capaci di rappresentare. Proprio qui, nella perdita di capacità rappresentativa, ha una sua radice profonda la crisi dei partiti.
L´esistenza di circuiti politici diversi, che s´intersecano e configgono, non è esperienza soltanto italiana. Ricordo solo il rapporto tra sfera politica e blogsfera, che ha conosciuto momenti di tensione negli Stati Uniti. L´intelligenza politica ha consentito ad Obama di rendersi conto che la novità di Internet non era tecnologica, ma incideva sulla qualità della politica. E così, attraverso una accorta connessione dei due circuiti, ha pure costruito il suo successo elettorale. Ma i partiti italiani rimangono arretrati, le ricerche serie mostrano la povertà del loro uso delle risorse della Rete. Qui si riflette una più generale debolezza: l´incapacità di confrontarsi con il cambiamento radicale imposto dalla rivoluzione scientifica e tecnologica, che giunge a configurare nuove antropologie, individua dinamiche e spazi inediti. Anche, per certi versi soprattutto, su questo terreno si deve compiere la "riqualificazione" dei partiti.
Ma chi dev´essere protagonista di questo processo? Possono farcela le attuali oligarchie, logorate in mille modi, responsabili del loro discredito per non aver voluto comprendere che l´abbandono d´una rigorosa etica pubblica avrebbe fatto dilagare la corruzione, che ci assedia e che ha già destrutturato la società italiana? La costituzione di un governo tecnico si rivela anche come un diverso modo di selezione del ceto politico. È rivelatrice la mossa di indicare in Corrado Passera un possibile leader del centrodestra. È questa la strada o la riqualificazione deve riguardare non solo cultura e programmi, ma pure la capacità dei partiti di modificare i criteri di selezione e legittimazione democratica al loro interno, in un contesto di rinnovata moralità civile?
Corridoi europei, strategie di trasporti, il tunnel più lungo del mondo. La Lione-Torino (ecco il vero nome, non è una linea ad Alta Velocità) è questo. Ma anche un affare da miliardi su cui puntano molti occhi. Normale, ma siamo in Italia dove le inchieste per l’Alta Velocità non si contano. E siamo in Val di Susa, territorio ad alta penetrazione della ‘Ndrangheta (Bardonecchia fu il primo comune del Nord sciolto per mafia).
L’aperitivo era stato servito nel 2005 quando la Procura di Torino indagò l’allora viceministro delle Infrastrutture, Ugo Martinat, numero due di Pietro Lunardi (sponsor dell’opera). L’accusa: turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Oggetto: gli appalti, tra l’altro, per la galleria di Venaus (opera preliminare della Torino-Lione). Emersero consulenze a imprese vicine a personaggi di governo, contatti con politici e imprenditori di primo piano: il processo di primo grado si è concluso con 8 condanne tra cui Giuseppe Cerutti, presidente della Sitaf, la società dell'autostrada del Frejus, e Paolo Comastri, direttore generale di Ltf (Lyon Turin Ferroviaire, la società madre della Tav, controllata con quote del 50% dall’italiana Rfi e dall’omologa francese Rff). Martinat e l’imprenditore Marcellino Gavio nel frattempo sono morti.
Il boccone grosso degli appalti è ancora nel piatto: parliamo del tunnel di 57 chilometri tra Francia e Italia. Fonti Ltf raccontano: “Nel 2012 sarà ultimato il progetto, nel 2013 toccherà alle procedure autorizzative e nel 2014 ci sarà la gara. I lavori partiranno entro il 2014”. Valore: 8,5 miliardi se passerà l’ipotesi “minimalista”, fino a 20 miliardi in caso di completamento dell’opera.
I giochi sono ancora da fare, ma i grandi costruttori stanno già elaborando le loro strategie. Così anche le imprese minori destinatarie di ambiti subappalti milionari, sottoposti a controlli meno stringenti.
La prima fetta, però, è aggiudicata: “Sono 93 milioni per la galleria esplorativa”, racconta François Pellettier di Ltf. Aggiunge: “L’opera sarà realizzata da Cmc”. La Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna è un colosso del settore, con un fatturato di 805 milioni e 8.500 persone. Cmc è uno dei fiori all’occhiello del mondo cooperativo dei costruttori una volta detti “rossi”. Un’impresa che in portfolio vanta grandi progetti nei cinque continenti, ma anche opere contestate come il Quadrilatero autostradale delle Marche e la base Dal Molin di Vicenza. Un’industria leader, non solo in Italia; potente, in passato guidata da un signore del cemento: Lorenzo Panzavolta, poi passato al gruppo Ferruzzi e quindi toccato da Mani Pulite.
Cmc è finita nel mirino dei No Tav che avanzano domande maliziose: “Le cooperative per tradizione sono vicine a una parte politica, forse anche per questo il centrosinistra sponsorizza la Tav?”. Ma Cmc ha conquistato appalti a Singapore dove i partiti italiani non mettono becco. E non c’entra sicuramente nulla che, come ricordano i No Tav, “Cmc risulti tra gli inserzionisti della rivista Italianieuropei della fondazione di Massimo D’Alema”.
L’appalto da 93 milioni ha dato vita a numerosi subappalti, ambìti dalle società della valle. Una in particolare, la Italcostruzioni, che si occupa delle recinzioni dei cantieri odiate dai manifestanti. E l’impresa è finita nel mirino dei No Tav: “Sono stato aggredito, mi hanno spaccato un braccio. I nostri mezzi sono stati bruciati”, racconta Ferdinando Lazzaro, che pur senza cariche è una delle figure chiave della società (“ho una consulenza”).
Anche Italcostruzioni ha una storia da raccontare. Negli anni ’70, il capostipite Benedetto Lazzaro, emigrato dalla Sicilia e vicino alla Dc, fonda una piccola impresa che presto diventa un impero in valle. Racconta il nipote Ferdinando: “Abbiamo lavorato duro”. Guai giudiziari? Le cronache parlano di inchieste per problemi fiscali: “Mio padre fu chiamato in causa in un’indagine sul caporalato, ma venne assolto”. Tutto qui? “No, nel 2002 insieme a decine di imprenditori locali sono stato arrestato in un’inchiesta detta ‘appaltopoli’. Emerse una rete non per ‘truccare’, diciamo per ‘tenere’ gli appalti. Fui condannato a 8 mesi per turbativa d’asta”. Ma la famiglia Lazzaro va per la sua strada. E nasce Italcoge: “Alla guida c’era mia sorella Laura. Insieme con un’altra società abbiamo ottenuto un primo subappalto da 2 milioni per i cantieri Tav”. Ed ecco un intoppo: “Italcoge è fallita. Non eravamo stati pagati per lavori sulla Salerno-Reggio”, racconta Lazzaro. Italcoge fallisce nell’agosto 2011, ma i suoi camion lavorano per la Tav. Com’è possibile? “È nata una nuova società”. Chi sono gli amministratori? Non più le sorelle Lazzaro, ma “i loro mariti”, conferma Lazzaro. Stessa famiglia, stessi uffici, stesso stemma. Perfino stessi mezzi: “Li abbiamo affittati dal fallimento”. Di più: “Italcostruzioni, nata sulle ceneri di Italcoge, dopo il fallimento ha ottenuto un altro appalto da due milioni per la Tav”. Notizie di cronaca sostengono che tra i vostri dipendenti vi sarebbe stato il capo della “locale” della ‘Ndrangheta di Cuorgné? “Falso. Mai conosciuto”, assicura Lazzaro. Aggiunge: “La mia famiglia non ha niente a che fare con ambienti criminali. Non siamo mai stati indagati per questo, non ci possono accusare solo perché siamo siciliani”. Domanda: non le sembra, però, singolare che dopo una condanna per turbativa d’asta e un fallimento la società che fa riferimento alla vostra famiglia continui a ottenere appalti per la Tav? “No, noi lavoriamo bene. Ma qui chi tocca la Tav è come morto”.
Senza la disordinata invasione europea la malattia sarebbe rimasta circoscritta - Negli anni ´30 Kinshasa era piena di avventurieri e fu il ground zero dell´incubazione
Tutto è nato da una scimmia. Uno scimpanzé. Il pantroglodytes troglodytes. Un cacciatore bantu nel sudest del Camerun cattura e uccide un esemplare. Lo scuoia, lo macella, lo cucina e se lo mangia. Scene normali nella foresta più interna e isolata dell´Africa centrale. Il primo contagio del virus Hiv è avvenuto così. Con il sangue infetto. È storia nota. Dopo anni di dibattiti e tesi contrapposte la scienza ha decretato una prima verità. Quello che non si riusciva ancora a capire è in che modo il contagio abbia raggiunto i centri abitati, poi le città, le metropoli, gli Stati, i continenti, fino a trasformare l´Aids nella più spaventosa pandemia del secolo scorso. Un giornalista del Washington Post e un ricercatore statunitense lo hanno scoperto. O meglio: sostengono, indicando una serie di prove, che la responsabilità ricade su quel grande dinamismo economico e commerciale che spinse le vecchie potenze europee a colonizzare l´Africa all´inizio del Novecento. Una conclusione che offre al quotidiano statunitense lo spunto per titolare: «Kinshasa, il ground zero dell´Aids».
La tesi del libro ("Tinderbox") è suggestiva. Mette insieme una serie di elementi che ricercatori ed esperti avevano sottolineato nell´itinerario del virus, senza riuscire però a tracciare la linea che li univa. Se la corsa all´Africa fosse stata gestita con più oculatezza, se il Belgio di re Leopoldo II, assieme a Francia, Gran Bretagna, Portogallo e Germania, non avessero spedito in quelle terre inospitali frotte di avventurieri ignoranti e senza scrupoli, il contagio sarebbe stato contenuto e forse non avrebbe mai varcato i confini della giungla. Bramosia di ricchezza, desiderio di conquista. Le colpe originarie sono dei colonialisti. Colpe vere, quelle che hanno prodotto 40 milioni di sieropositivi al mondo, di cui 30 solo in Africa, e ucciso altri 25 milioni di uomini, donne e bambini.
Il povero e ignaro cacciatore bantu fu infettato dallo scimpanzé. Tornò al villaggio e lì, probabilmente per decenni, il virus dell´Aids rimase in silenzio. Nel vecchio Continente si moriva di tubercolosi, di diarrea, di malaria, di fame. L´Hiv, almeno fino al 1980, era sconosciuto. Ma la nascita delle automobili e quindi degli pneumatici, ai primi del secolo scorso, spinse i Grandi dell´Europa a cercare nuove piantagioni di caucciù di cui l´Africa occidentale e centrale è ricchissima. Gli esploratori, ma soprattutto gli avventurieri arruolati dalle società belghe, si rivelarono spietati caporali. Venivano pagati a seconda dei chili di gomma che riuscivano a raccogliere dagli alberi. Un lavoro che facevano svolgere agli indigeni: erano i soli a conoscere i segreti e i pericoli della foresta. Erano schiavi. Se il raccolto era basso venivano puniti con l´evirazione: un modo barbaro di umiliarli e destinarli all´isolamento.
Questo esercito di uomini, spesso criminali salvati dal carcere ma utilissimi per il lavoro sporco, attirò un indotto di taverne, postriboli, case da gioco, bar. Le foreste erano meno isolate, i contatti più frequenti, soprattutto quelli sessuali. L´Aids, misterioso e sconosciuto, aveva la strada spianata. Si è scoperto che il primo caso di virus Hiv-M2 è stato individuato nel 1959, nel sangue di un uomo che viveva a Kinshasa. Era dello stesso tipo del Siv, il virus dell´immunodeficienza delle scimmie. Si stima che il primo contagio risalga almeno al 1931.
Altri studiosi si spingono fino a indicare il 1908. È l´anno che segna la nascita delle prime grandi città della conquista coloniale. Kinshasa era già un centro che vibrava di attività. «Era piena di gente, frenetica, allegra, carica di energie e di speranze», ricordano gli autori del libro. «Una comunità dove le vecchie regole venivano messe da parte di fronte al nuovo commercio che arricchiva tutti». Fu l´inizio della fine. Solo più tardi si scoprirono a San Francisco i casi dei cinque gay infettati. Kinshasa è stata la culla: per mezzo secolo ha protetto e diffuso il più ostinato, mutante, subdolo nemico dell´uomo. Un nemico diventato oggi quella bomba che condiziona le economie africane. E il Sudafrica guida la classifica del contagio, con 5,3 milioni di sieropositivi.
Parlando dell´austerità che si impone a Atene, e delle riforme strutturali necessarie al ritorno della crescita, il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi è ricorso a un´immagine forte. In un´intervista al Wall Street Journal, il 23 febbraio, ha detto che quel che si profila in Grecia è un Nuovo Mondo. L´immagine è forte, e singolare, perché di Nuovi Mondi nessuno osa più molto parlare: tanti ne sono stati promessi, e le cose non sono andate bene.
Generalmente quando si annunciano Nuovi Mondi se ne seppelliscono di vecchi, o perché falliti o perché malgovernati. Goethe, ad esempio, era convinto che la Rivoluzione francese non avrebbe spazzato via i monarchi come «vecchie scope», se questi fossero stati veri monarchi. Lo stesso si può dire oggi dell´Europa, che versa in condizioni ancora peggiori di quei re: la corona non l´ha persa; non l´ha mai pienamente avuta. Non esiste un impero europeo che governi il caos. Non esistono partiti europeisti che si battano contro l´impotente potenza dei nazionalismi, letale per l´Unione. Proviamo dunque a vederlo e pensarlo, il Nuovo Mondo proposto non solo a Atene ma a tutti noi.
È un mondo che abolirà il vecchio regime, e ci libererà dei sepolcri imbiancati dentro cui giacciono divinità ancora onorate, ma ormai finite: «All´esterno paiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume», di ipocrisia e iniquità. Tra questi sepolcri viene additato il Welfare: cioè quel sistema di protezione universale dai rischi della malattia, del lavoro, della vecchiaia, conosciuto in Europa dopo il ‘45. «Lo Stato sociale è morto», annuncia il governatore della Bce, perché perde senso se non copre tutti i cittadini e se il lavoro resta duale: da una parte i giovani costretti alla flessibilità, dall´altra i protetti con salari basati sull´anzianità e non sulla produttività.
Naturalmente c´è del vero, nella denuncia del sepolcro-idolo. Lo Stato sociale fallisce, a partire dal momento in cui non mantiene più la parola. Ma perché dire che come promessa è morto, gone? Perché nessun accenno al fatto che, essendo un patrimonio essenziale dell´Europa, va riorganizzato, ma non ucciso? Possibile che debba emergere da un certificato di decesso il mirabile nuovo mondo che vedremo dopo austerità e liberalizzazioni? Il brave new world di Huxley - ricordiamocelo - è una distopia, un´utopia tutta negativa.
In realtà sono decenni che lo Stato sociale è sotto attacco, quasi fosse un lusso ormai insano. Più fondamentalmente è sotto attacco lo Stato: considerato esso stesso un rischio, da politici ed economisti abituati a nutrirsi di dottrine antistataliste. Su quel che accadrà di qui al Nuovo Mondo non ci si sofferma. Parole come povertà, penuria, declino demografico scompaiono, sostituite dal pulito, clinico eufemismo: «Ci sarà una contrazione». Torna in auge perfino la famosa certezza esibita dalla Thatcher: «Non c´è alternativa». Anche quest´affermazione è leggermente stupefacente, perché l´univoca ideologia inglese e americana degli anni ‘80 è finita infelicemente. Il mercato-padrone, che da solo si equilibra, s´è infranto nel 2007-2008. Oppure no?
Quel che conta è sapere cosa muore, e cosa si mette nel vuoto che resta. Muore quel che gli europei appresero nella crisi degli anni ‘30, e in due guerre. La prima cosa che scoprirono fu l´unione europea, il No alle rovinose sovranità assolute degli Stati-nazione. La seconda fu il Welfare, il No alla povertà che aveva colpito le genti negli anni ‘30, gettandole nelle dittature e nelle guerre. Si tratta di due polizze d´assicurazione, offerte ai popoli per far fronte ai sinistri del passato, e tra esse c´è un nesso. Basti ricordare che il principale ideatore del Welfare, William Beveridge, fu anche militante dell´Europa federale.
Come si tiene insieme una società? Come si scongiurano le guerre, civili o tra Stati? La duplice risposta europea (Unione e Welfare) fu data per evitare che la questione della povertà divenisse di nuovo mortifera. Lo Stato sociale che Beveridge propose nel 1942 su richiesta di Churchill fu voluto all´inizio da un liberale e un conservatore. Toccò al Premier laburista Attlee, nel dopoguerra, metterlo in pratica. Come disse Churchill, l´aspirazione era di «proteggere l´individuo dalla culla alla tomba». Secondo Michel Foucault, il Welfare nasce come patto di guerra. Alle persone «che avevano attraversato una crisi economica e sociale gravissima», i governanti dissero in sostanza: «Ora vi chiediamo di farvi uccidere, ma vi promettiamo che, una volta fatto questo, conserverete il posto di lavoro sino alla fine dei vostri giorni» (Foucault, Nascita della biopolitica). Cinque erano i «giganti» che Beveridge riteneva nemici della Ricostruzione postbellica: Bisogno, Malattia, Ignoranza, Squallore, Ozio. Tutti insieme andavano abbattuti.
Quali sono i giganti contro cui oggi combattiamo, per ricostruirci? A sentire chi ci governa non sono quelli evocati da Beveridge. Non sono il disgregarsi della convivenza civile, la miseria, il crollo della democrazia. Sono la non-attuazione dell´austerità, l´«immediata reazione negativa» dei mercati. Perfino il voto democratico si tramuta in rischio, e infatti si diffida delle elezioni greche di aprile, e forse anche delle italiane. L´unico gigante che impaura è l´ozio, la pigrizia figlia del Welfare. L´essere umano non è guardato con apprensione: è guatato con sospetto, e sul sospetto non si edificano polizze né patti.
Per la verità anche Foucault denunciò la «coppia infernale sicurezza sociale-dipendenza», negli anni ‘80. Di fronte a una «domanda infinita», s´ergeva (e andava riconosciuta) la finitudine del Welfare. La sua finitudine, i suoi limiti: non la sua morte. Nato come contrappeso a processi economici selvaggi, come correttivo degli effetti distruttori del mercato sulla società, era assurdo gettarlo via. Altrimenti crescita e benessere dipendevano solo da concorrenza e privatizzazioni: un´ennesima utopia, lo si era visto negli anni ‘30-40. La crisi di oggi ci riporta a quegli anni di presa di coscienza sull´orlo del disastro. È il patto di guerra che stavolta manca, in Europa. È la memoria di quel che escogitarono uomini come Keynes, Beveridge, Roosevelt. È significativo che mentre l´Europa dimentica, l´America tenti - assai timidamente con Obama - di resuscitare Roosevelt e il New Deal.
Ci sono momenti nella vicenda europea dei debiti sovrani in cui si ha l´impressione, netta, che sulla pelle dei greci si stia compiendo un esperimento neo-liberista, una sorta di regolamento dei conti con Keynes, Beveridge, Roosevelt. Si vuol capire sin dove regge un paese, se impoverito e sfrondato di Stato sociale. È la tesi di Michael Hudson, economista dell´Università di Missouri a Kansas City: «La crisi greca è usata come esperimento di laboratorio, per vedere fino a che punto la finanza può spingere verso il basso i salari e privatizzare il settore pubblico. È come nutrire sempre meno un cavallo per vedere se sarà più efficiente, fino a quando le gambe gli si piegano e muore».
Con decenni di ritardo, molti economisti e politici sembrano riesumare l´illusione del 1989, quando Francis Fukuyama dichiarò finita la Storia. I patti sociali del dopoguerra non servono, ora che è naufragato lo stimolo che fu il comunismo. Quel che prevale è una sorta di spirito anti-conciliare: allo stesso modo in cui la Chiesa disattende sovente la sua stessa dottrina sociale (meno in Europa, più in America), gli Stati affossano la giustizia sociale offerta in pegno nel buio della guerra. Pensano di poter fare l´Europa così, sognando di sospendere lo Stato sociale e l´agorà democratica con le sue sempre possibili alternative. Non riusciranno, perché un´Europa siffatta è costruzione vana, dietro la quale non ci sono più comunità di uomini, ma cavalli dalle gambe spezzate.
Mentre un giovane uomo agonizza fra la vita e la morte in una camera di ospedale, né i lavori fasulli volti ad ingannare l'Europa né il dispositivo mediatico volto ad ingannare il paese hanno il buon gusto di arrestarsi almeno per un po' a riflettere. Il buon senso indica dove stia la responsabilità per la caduta di Luca Abbà. Da una parte duemila agenti armati ed equipaggiati di tutto punto, pronti ad ogni violenza di Stato pur di imporre il dispositivo della legalità illegale, che occupano manu militari, al di fuori da qualunque ritualità giuridica ed ordine costituzionale, ingenti appezzamenti di proprietà privata e comune. Dall'altra, non più di una ventina di coraggiosi militanti No Tav che gli apparati repressivi dello Stato volevano, ancora una volta, schedare ed umiliare, come già avvenuto a Torino in stazione sabato sera. Sabato sera gli apparati repressivi dovevano offrire a quelli mediatici qualche immagine di scontro dopo il bellissimo corteo Bussoleno-Susa ed è per questo che hanno impedito a chi voleva semplicemente scendere da un treno di farlo liberamente, costruendo un pretesto per cariche del tutto gratuite.
Che cosa volevano offrire lunedì mattina gli apparati repressivi a quelli mediatici? Forse solo un inseguimento assurdo, condotto da un rambo da strapazzo, vittima a sua volta di quell'ideologia poliziesca che in questo paese post-fascista porta il capo della polizia a guadagnare il doppio del presidente Obama e quasi dieci volte il suo omologo francese! La caduta di Luca Abbà, "evento" effettivamente offerto al carrozzone mediatico, per un giurista va considerato quanto meno causato da una "condotta" posta in essere con "dolo eventuale". L'esito potenzialmente infausto se non direttamente voluto è stato (e da molto tempo) certamente accettato, forse da qualcuno perfino desiderato, per poter accusare i cattivi maestri (così ha fatto l'ex Fronte della Gioventù e oggi deputato Pdl Agostino Ghiglia) o per continuare a descrivere con tono tetro un movimento che dalla pratica del No Tav come bene comune trae invece alta legittimazione di popolo per un modello di sviluppo nuovamente sintonico con la nostra Costituzione, nata appunto dalla Resistenza.
Tuttavia, me lo si lasci dire senza alcuna superbia accademica, Ghiglia non è un mio "pari" mentre purtroppo lo è Carlo Galli che su Repubblica pubblica un fondo che ho dovuto leggere due volte, incredulo che un maestro che ho sempre ammirato potesse far da grancassa per un tale insieme di banalità, luoghi comuni (termine che utilizzo qui nella invalsa accezione negativa) e falsità (riprodotte nelle schede offerte in altra parte dello stesso giornale). Secondo l'autorevole politologo, il governo tecnico dovrebbe proprio ora indossare i panni della politica per dire chiaramente ad un popolo disorientato che "indietro non si torna!" rispetto a decisioni prese in sede parlamentare e di trattati internazionali. Indietro non si torna, in particolare, per non ledere la dignità d'Italia rispetto all'Europa che, generosamente, finanzierebbe l'opera. Siamo al giolittiano "ca custa lon ca custa" (in piemontese, parlato anche in Val Susa: costi tutto ciò che deve costare, inclusi i caduti) inciso sulla ferrovia Asmara-Massaua da un Italia coloniale che appunto non doveva perdere la faccia con le potenze rivali nella corsa al saccheggio dell' Africa!
Chi a differenza di Galli conosce la questione da vicino anche dal punto di vista giuridico potrà forse ammettere l'esistenza di tale volontà Parlamentare mentre semplicemente non è vero che esistano due «trattati internazionali» che ci vincolerebbero al Tav. L'ultimo accordo sottoscritto con la Francia un paio di settimane orsono non solo singolarmente dichiara al primo articolo di non essere un protocollo di intesa. I civilisti direbbero che non è neppure un "contratto preliminare" ma una mera "puntuazione", priva di valore vincolante e comunque in attesa di ratifica parlamentare. Se è vero che soltanto i cretini non cambiano mai idea sarebbe forse il caso che la "politica" invocata da Galli riflettesse sul fatto che la "decisione" fu "presa" oltre vent'anni fa in un momento nel quale sicuramente le condizioni economiche erano meno drammatiche di adesso ed in cui soprattutto si ignoravano ancora interamente gli immensi costi economici, politici umani e sociali che tale grande opera inutile avrebbe inflitto alla società, non certo soltanto Valsusina, ma italiana tutta.
La verità è che, come avviene sempre nei casi delle grandi opere che espongono la collettività a spese e rischi ingenti, una scelta politica ponderata avviene in modo graduale, adattandosi alle contingenze che variano nel tempo. La buona politica, quella che non si pone al soldo degli interessi ingentissimi che le grandi opere generano, accompagna le scelte nel corso di questi lunghi processi, registrando con umiltà e rispetto le nuove conoscenze acquisite.
Accusare cripticamente il movimento No Tav di leghismo, non dire che le grandi opere generano comparativamente assai pochi posti di lavoro, utilizzare un linguaggio ambiguo sui costi, facendo intendere che il grosso dello sforzo lo farà l'Europa, tacere delle illegalità create cambiando il progetto in corso senza addivenire a nuove gare d'appalto, costituisce una strategia argomentativa che ha come unico scopo l'appoggio ad un'ideologia dominante già fin troppo letale. Il popolo che si è raccolto intorno al movimento No Tav è quello dei beni comuni, che vuole ridiscutere alla luce di questa alternativa di sistema sul se e non soltanto sul come di ogni grande opera che si vuole intraprendere. Galli, che cita la Grecia, dovrebbe sapere che la trappola del debito scatta proprio inducendo gli Stati a grandi spese insostenibili, costruendo dolosamente come decisioni già prese progetti di cui occorre discutere a fondo, soprattutto dato il mutare delle circostanze.
La Tav non è stata mai decisa definitivamente né dalla Francia né dall'Italia né dall'Europa. Non è questione di democrazia. Non è onesto né degno di uno studioso della fama di Galli, occultare questa realtà, scomoda soltanto per gli affaristi e gli apparati mediatici che da anni li sostengono.
La Repubblica, 28 febbraio 2012
Il dovere della politica
di Carlo Galli
LA POLITICA, assieme all´angoscia per la sorte di Luca Abbà, bussa alle porte della Valsusa. E attraverso il conflitto, il rischio, la violenza, sembra voler presentare un conto sgradito e inaspettato – in ogni caso molto caro – a un governo "tecnico", che trae la propria legittimità materiale e contingente dal farsi portatore di istanze "oggettive", di imperativi sistemici decisi da poteri diversi dalla sovranità del popolo italiano. Ed è invece evidente che la politica non si lascia sostituire dalla tecnica, e che al governo Monti, e al ministro Passera, spettano ora misure politiche in senso proprio. Nell´ambito dell´ordine pubblico, in primo luogo, ma soprattutto – e ciò ha valore ancora più apertamente politico – nell´ambito di una franca chiarificazione davanti al Paese di che cosa sia in gioco, ora, intorno alla vicenda della Tav.
Si tratta di una partita di grande spessore. La linea ad Alta Velocità che deve unire Torino e Lione è già stata approvata da due parlamenti nazionali, quello italiano e quello francese, e da due Trattati internazionali. È una struttura strategica che viene finanziata con denaro europeo: è una fonte di lavoro per migliaia di operai e tecnici: è una promessa di sviluppo per il complesso del Paese. Il tracciato è stato modificato da un Osservatorio a cui hanno partecipato i territori, che ha discusso per tre anni. È, insomma, una partita a più livelli – europeo, nazionale, locale – in cui la politica si è messa in gioco attraverso procedure democratiche, sia partecipative sia rappresentative: in cui lo sviluppo economico e le sue esigenze è stato mediato, interpretato, incanalato, sui binari della politica.
Ora, a questa politica – imperfetta, ma non truffaldina – se ne oppone un´altra, fatta anche di violenza (i fatti dell´estate scorsa) a cui non possono non seguire azioni della magistratura, com´è normale in uno Stato di diritto. E questa politica che si oppone alla politica democratica non è solo violenza, certo, ma neppure la ripudia apertamente. Ma soprattutto è una politica che sta trasformando la Val di Susa, e i disagi dei suoi abitanti, in uno spazio politico che vuole essere alternativo rispetto all´assetto della politica contemporanea.
Accanto all´ambiguità delle forze politiche di centrosinistra che a Roma approvano la Tav e nei territori vi si schierano contro, per ottenere consenso – e questa è la pratica, non nuova né rivoluzionaria, dell´opportunismo politico – , c´è infatti la lotta dei territori contro un modello di sviluppo e che sconvolge gli equilibri della vita collettiva locale – e questa è la pretesa dell´ecologismo in una sola vallata, peraltro oggi certamente non "vergine" – ; c´è, poi, la spregiudicatezza delle forze di sinistra, che paiono volere abbracciare ogni causa per tentare di rientrare in gioco, assecondando ogni protesta contro le contraddizioni del capitalismo traballante, che oscilla fra il gigantismo e la crisi – contraddizioni che ci sono, certo, ma che in questo caso hanno pesato meno delle affermazioni e delle procedure della democrazia, che troppo disinvoltamente vengono considerate carta straccia.
E c´è, accanto a queste, un´altra prospettiva, ancora più radicale. Quella di fare della Val di Susa il punto di coagulo di tutte le forze – in realtà delle debolezze, delle disperazioni, della mancanza di fantasia, della sfiducia nella democrazia – che non vogliono il riequilibrio dell´Italia, il suo rientro nella normalità, e che puntano su una situazione "greca" per innescare un conflitto delegittimante; che vogliono fare della Val di Susa l´incubatoio di altre rivolte nel Paese, che dimostrino l´impopolarità delle politiche che il governo sta attuando, con il consenso della stragrande maggioranza del Parlamento.
Alla strategia dell´emergenza, alla retorica dell´iperbole che vede ovunque omicidi di Stato (o del Capitale, o della Grande Finanza), a questa contrapposizione fra maggioranza legale e minoranze ultra-conflittuali, è quanto mai opportuno che il governo apertamente opponga la forza tranquilla di una democrazia "normale": non una risposta reazionaria, quindi, e neppure burocratica, ma una risposta politica che spieghi al Paese che ciò che è stato democraticamente deciso va mantenuto; che l´Italia sta oggi in un contesto europeo con pieno diritto e piena dignità e che non vuole sottrarsi agli impegni liberamente assunti e ratificati, che i nostri partner stanno già eseguendo; che la contestazione del modello di sviluppo è, ovviamente, sempre lecita, ma non può bloccare il funzionamento di quella stessa politica democratica che l´ha resa possibile; che non si può, mentre si discute "come" fare una cosa, tornare a mettere in dubbio "se" farla; che c´è una radicale differenza fra violenza, da una parte, e conflitto politico, dall´altra; che l´Italia non vuole essere la Grecia (con tutto il rispetto per un Paese in una situazione ben più difficile della nostra).
Sono, queste, considerazioni politiche che spettano al governo, insieme alle azioni che ne conseguono; ma altre se ne possono aggiungere. Ovvero, che si può anche scommettere contro l´Italia (lo fa la Lega, ad esempio) ma che questa posizione non fornisce particolari credenziali di affidabilità né di acume, e che da forze di sinistra che si candidano a governare questo Paese ci si attendono comportamenti più equilibrati. Che, giocando contro la democrazia per inseguire ogni estremismo, la sinistra non esce dalla propria crisi ma la dimostra e la aggrava. E che, insomma, dalla Val di Susa viene lanciata una sfida che non può essere ignorata: la sfida delle responsabilità e della maturità di tutti, ciascuno per la sua parte.
Non avevamo pubblicato l'articolo di Carlo Galli perchè ci sembrava singolarmente (dato il consueto rigore dell'Autore) disinformato, e meramente ripetitivo di luoghi comuni che in modo convincente erano stati smentiti da argomentate e documentate analisi, riprese da eddyburg (e.s.)