L’occasione era ghiotta: uno degli uomini più ricchi della città voleva costruirsi una cappella gentilizia, e aveva messo gli occhi sulla loro chiesa. Francesco Feroni era un nuovo ricco: da buon fiorentino aveva scelto di fare il mercante, e l’aveva fatto con grandissima determinazione (perfino troppa: non disdegnava neanche il mercato degli schiavi), trasferendosi ad Amsterdam e mettendo insieme una fortuna.
Nel 1673 si era sentito abbastanza ricco da poter tornare in patria, dove il denaro gli ottenne il titolo marchionale e un ruolo di spicco sulla scena pubblica del granducato di Toscana, che, sotto Cosimo III, si avviava ad un quieto, irreversibile tramonto. In questa storia di successo non poteva mancare una cappella familiare, un luogo in teoria dedicato al riposo eterno, ma in verità assai più utile per rafforzare, legittimare e perpetuare il potere e il prestigio terreni.
Il neomarchese Feroni era così lanciato verso questo traguardo che aveva pensato di comprarsi nientemeno che la Cappella Brancacci, pronto a distruggere gli affreschi di Masaccio, Masolino, e Filippino Lippi.
Da parte loro, i frati non avevano obiezioni: «per acquistarsi un benefattore di quella portata – racconta un loro confratello vissuto qualche decennio più tardi – nulla sarìa calso più non veder quei mostacci, con zimarre e mantelloni all’antica abbigliati».
Mentre già si pensava di demolire la culla della pittura rinascimentale, sorse spontanea quella che le fonti definiscono «una lega di difesa contro il minacciato vandalismo», una sorta di Italia Nostra del tardo Seicento, che coinvolse l’Accademia del Disegno e quindi convinse la granduchessa madre Vittoria della Rovere a dare «ordine espresso che non si toccassero tali dipinture». Il Feroni provò a replicare che egli «avria fatte segare con ogni diligenza le mura del primo ordine, ove sono le pitture più insigni, e gli artefici assicuravano di poterne venire a capo senza il minimo detrimento di cotali pitture». «Ma tant’è – continua il frate – la granduchessa, ferma qual salidissima colonna nel suo impegno, non volle a verun patto che le mura e le pitture della cappella fosser toccate». A quel punto, il Feroni e il suo denaro si arresero: e noi oggi abbiamo ancora la Cappella Brancacci.
Lo schema ci dovrebbe esser familiare: un patrimonio da mettere a reddito; uno sponsor disinvolto che è disposto a pagare, ma vuol piegare quel patrimonio al proprio interesse; un’opinione pubblica che insorge; il potere politico che, alla fine, interviene e salva il patrimonio. Ma oggi, oltre trecento anni dopo i fatti del Carmine, il rischio è che l’opinione pubblica non trovi più un potere politico disposto a difendere i beni comuni.
La retorica dominante sottomette, infatti, la cultura all’economia: il manifesto del giornale di Confindustria propone il fortunatissimo slogan «Niente cultura, niente sviluppo».
È un modello pericoloso, perché trasmette l’idea che la cultura non sia un fine in sé, ma un mezzo (nobile quanto si vuole) per raggiungere un fine più alto: in ultima analisi, quello del denaro. E se il patrimonio storico e artistico diventa un mezzo, le conseguenze non possono che essere quelle tratte dal marchese Feroni.
Si parla molto di ‘nuovo mecenatismo’: ma il mecenate è un donatore che non chiede nulla in cambio del proprio dono, se non la gloria e la riconoscenza della comunità. E di questi mecenati non c’è una grande abbondanza, come dimostra l’imbarazzante fuggi-fuggi di fronte alla proposta di adottare il restauro di un monumento, lodevolmente lanciata dal Comune di Firenze. Ci sono piuttosto degli sponsor, che calcolano con grande attenzione il ricavo economico dei loro investimenti sul patrimonio: e per ottenere un ricavo adeguato in tempi commercialmente utili, il bene (che sia il Colosseo, il Fondaco dei Tedeschi a Venezia o il Salone dei Cinquecento a Firenze) rischia di essere compromesso, moralmente o perfino materialmente.
La presidente di ConfCultura Patrizia Asproni si è detta scandalizzata che «oggi i privati che gestiscono i servizi museali, e quindi la loro valorizzazione economica, non controllano l’orario di apertura del museo, né il prezzo del biglietto. È evidente che queste restrizioni impediscono fortemente la libertà e la capacità di fare impresa e la conseguente messa a reddito del bene».
La signora Asproni sembra non ricordare che, secondo l’articolo nove della nostra Costituzione, il fine di quel bene non è la produzione di reddito (privato), ma di cultura (pubblica). Ed è per questo che è lo Stato, e non un privato in cerca di lucro, a dover mantenere quel patrimonio: e lo potrebbe fare destinando ad esso anche solo il 5% dell’attuale evasione fiscale.
Perché è certo giusto ricordare che la cultura è una condizione essenziale per lo sviluppo: ma è fatale dimenticare che lo scopo vero della cultura è quello di sottrarre almeno una minima parte della nostra vita al dominio del denaro e del mercato, e di farci così rimanere esseri umani. Quando non lo saremo più, nessuno sviluppo economico potrà salvarci.
Fra gli addetti ai lavori, o alle macerie, dei beni culturali e paesaggistici gira da giorni una vignetta col ministro Lorenzo Ornaghi accompagnato da una scritta: “Chi l’ha visto? Scomparso dopo l’8 settembre”. L’8 settembre del governo Berlusconi, di ministri alla Bondi che al Collegio Romano non c’era quasi mai o alla Galan la cui impresa più memorabile rimane la candidatura di Giorgio Malgara, amico caro del Cavaliere, alla presidenza della Biennale di Venezia, sonoramente bocciata da una marea di firme, veneziane, nazionali e internazionali, per la riconferma di Paolo Baratta.
Il professor Ornaghi al Collegio Romano ci sta dalla mattina alla sera, fino a notte. Però da più parti gli viene chiesto di non lasciar fare tutto al capo di gabinetto, l’onnipotente e onnipresente Salvo Nastasi o al sottosegretario Roberto Cecchi. Ma, per ora, Ornaghi non dà segni di vita. Un’occasione ora ce l’ha ed è rappresentata da Arcus SpA che Corrado Passera ministro di molte cose fra cui le Infrastrutture e soprattutto il suo vice-ministro Mario Ciaccia (un tempo a capo di Arcus) paiono decisi a cancellare. E che Ornaghi per ora non difende, in un fragoroso, monastico silenzio. Premetto che Arcus – anche da me attaccata in passato per le infinite pratiche clientelari – così come è stata non va proprio. Ma il dato delle sue origini, e cioè finanziare opere di restauro dei beni culturali e paesaggistici attraverso il 3 o il 5 per cento sugli appalti delle grandi opere, mi è sembrato e mi sembra utile. Più che mai oggi che il MiBAC è alla canna del gas e non riesce più a far fronte ad impegni di mera sopravvivenza, a cominciare (voglio sottolinearlo) dai settori che meno “fanno notizia”, cioè gli archivi e le biblioteche storiche, ormai agonizzanti o sottoposti a tagli mortali. Per risalire poi ai siti e alle aree archeologiche sempre meno difese, ai musei minacciati di chiusura, alla continua smagliatura della tutela del paesaggio esposto a ferite: cito il caso più recente, davanti alla già devastata piana di Scalea in Calabria, campo di marte di n’drangheta e camorra, si è deciso di costruire un altro porto da oltre 500 posti-barca, un’altra opera inutile che infliggerà il colpo mortale alla povera Scalea già vistosamente imbruttita da asfalto&cemento. Come gran parte, ahimè, della Calabria.
Ma torniamo ad Arcus SpA presieduta, dal 2010, dall’ambasciatore Ludovico Ortona che conosco come persona di qualità. Essa è stata, sin dagli inizi, stravolta nelle sue nobili funzioni originarie, da ministri alla Lunardi che destinò circa un quarto dei fondi di allora, a “Parma capitale della musica”, cioè al suo collegio elettorale. O alla Matteoli che pure convogliò il flusso dei finanziamenti sulla propria area di influenza archeopolitica. Non a caso ho citato due ministri delle Infrastrutture. I loro colleghi dei Beni culturali hanno contato sempre pochino nella partita per il riparto dei fondi. Oppure hanno delegato – nel caso di Bondi – loro rappresentanti, come l’archeologa padovana Elisabetta Ghedini, sorella dell’avvocato del Cavaliere.
In mezzo a questa pioggia di denari regolata da rubinetti assai più politico-clientelari che tecnico-scientifici, sono state finanziate anche opere degne come il restauro di Villa Adriana a Tivoli o del Bosco di San Francesco a cura del FAI, della Galleria Sabauda di Torino, della chiesa di Santa Cecilia a Roma, ecc. Per dire quanto possa essere importante mantenere questo flusso di fondi (197 milioni per il triennio 2009-2112), dando ovviamente ad esso regole e priorità di scelta inattaccabili, citerò soltanto un caso: quello del centenario della morte del più moderno dei grandi poeti italiani fra ‘800 e ‘900, Giovanni Pascoli. L’altro giorno si è letto che per il Comitato pascoliano di San Mauro non c’è un solo euro ministeriale, mentre Arcus ha già destinato 700.000 euro al restauro e alla catalogazione delle carte di Pascoli esistenti presso l’archivio di Castelvecchio di Barga dove visse negli ultimi anni. Senza i fondi Arcus, nulla si sarebbe fatto per il poeta nel 2012. Da sprofondare.
Insomma, Arcus va rivista, dalla testa ai piedi, riducendo a 3 componenti il suo consiglio e rafforzando il raccordo tecnico-scientifico col MiBAC. Fra l’altro ci sarà da qualche parte il progetto di riforma che Paolo Baratta fu incaricato di redigere per il ministro Rutelli. Abolendo Arcus, tout court, non si risparmia un euro (essa si finanzia coi grandi appalti), ma si toglie altra acqua al già assetato, morente settore dei restauri. Vuol dare, per favore, un segno di vita e di “resistenza” il ministro Ornaghi dicendo cosa vuol fare o non fare? Essere “tecnici” non vuol dire essere muti.
Il primo di marzo 2012 la Giunta regionale della Campania ha adottato il disegno di legge “Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”. Si tratta di un pericoloso stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio.
Un provvedimento che avrà conseguenze gravissime su un territorio fragilissimo già martoriato da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che nonostante tutto conserva ancora aree preziosissime.
Esplicitamente dichiarata la finalità: limitare i vincoli che gravano sul territorio per rilanciare il settore edilizio, e allo stesso tempo risolvere il problema dell’abusivismo con lo stravolgimento dei principi di legalità di sanzione e riparazione.
Ancora una volta, nel nome di un modello economico arcaico e dissipatore, si tenta l’assalto – forse definitivo – al paese dove fioriscono i limoni.
Non tutela del paesaggio, quindi, ma piuttosto una nuova puntata della discutibile avventura intrapresa con il piano casa, attraverso la quale viene sancita la rinuncia dei poteri pubblici al diritto/dovere di esercitare la sovranità territoriale nell’interesse generale.
Il disegno di legge adottato in Campania è incostituzionale, perché attraverso di esso la Regione si appropria surrettiziamente di competenze di tutela del paesaggio che l’articolo 117 della Costituzione mette esclusivamente in capo allo Stato.
E’ illegittimo perché modifica unilateralmente la pianificazione vigente, a partire dal Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentina Amalfitana e ignora platealmente i procedimenti di copianificazione prescritti dal Codice.
E’ giuridicamente pericoloso e antidemocratico, perché prevede che l’approvazione del futuro Piano paesaggistico regionale – lo strumento forse più importante di governo del territorio – non avvenga in consiglio regionale, con il contributo di tutte le rappresentanze politiche, ma in Giunta Regionale, addirittura con il meccanismo del silenzio assenso.
La Campania, risorsa preziosa della Repubblica, ha bisogno non di avventure arrischiate, quanto di un governo del territorio che si fondi sulla più rigorosa tutela dei suoi paesaggi, patrimonio comune dell’Italia, dell’Europa e dell’umanità.
Le Associazioni che sottoscrivono questo appello, si rivolgono in primo luogo ai cittadini e a tutte le istituzioni e associazioni culturali campane che hanno a cuore la difesa del loro territorio, affinché richiedano con forza il ritiro di un provvedimento illegittimo e dannoso: in un momento storico particolare che impone a tutti noi assunzione di responsabilità e rispetto della legalità
sarebbe gravissimo che un’intera regione fosse consegnata ad un destino di degrado generalizzato del proprio territorio e dei principi democratici.
Al Ministro Ornaghi, in particolare, le Associazioni firmatarie richiedono un’immediata denuncia dell’illegittimità del provvedimento della regione Campania rispetto all’art. 9 della Costituzione e al vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Edoardo Salzano – Direttore eddyburg
Vittorio Emiliani – Presidente Comitato per la Bellezza
Alessandra Mottola Molfino – Presidente nazionale Italia Nostra
Vittorio Cogliati Dezza – Presidente nazionale Legambiente
Ilaria Borletti Buitoni – Presidente Fai
Carlo Alberto Pinelli – Presidente Mountain Wilderness Italia
ART.18, MONTI CI PENSI SU
di Valentino Parlato
Se Mario Monti, che ritengo persona attenta ai fatti, avesse potuto vedere di persona la grande manifestazione della Fiom a Roma, sicuramente avrebbe riconsiderato alcuni suoi attuali orientamenti. Lo penso perché la manifestazione di ieri è andata ben oltre la Fiom e i lavoratori della metalmeccanica.
Ieri a Roma c'era l'unità d'Italia. Nord e Sud insieme, capoluoghi di regione e piccoli comuni. Rilevante e importante la presenza di lavoratrici. C'era l'Italia con le sue memorie storiche e la volontà di sostenere la democrazia in questo difficile e pericoloso stato di crisi. Dalle crisi - è storia - sono facili e possibili le uscite a destra. In Italia lo sappiamo. Ebbene, la manifestazione di ieri era la testimonianza di quanto la democrazia sia essenziale al mondo del lavoro, alle persone che lavorano «sotto padrone» e che solo nella democrazia piena hanno la garanzia dei loro diritti e della dignità umana.
Una grande manifestazione di democrazia dalla quale non ci si può distaccare (come ha fatto il Pd, con il pretesto della Tav e cedendo alle esigenze della politica politicante) senza indebolire se stessi, senza far crescere il rifiuto della politica, oggi assai diffuso nel nostro paese. Il Presidente Giorgio Napolitano ha detto che la riforma del lavoro va realizzata, ma tenendo fermi il rispetto dei diritti e della dignità del lavoro, che sono - aggiungo io - il fondamento sostanziale della democrazia.
La nostra Costituzione afferma che siamo una Repubblica «fondata sul lavoro». Nell'attuale confronto sulla «riforma del lavoro», va data grande attenzione anche agli aspetti simbolici. E vengo all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, sul quale siamo a uno scontro fondamentalmente ideologico, simbolico, a cui anche il Presidente Napolitano dovrebbe prestare più attenzione. Un industriale come Carlo De Benedetti ha detto che l'art. 18 non gli è mai servito nella gestione d'impresa. Cancellare l'art. 18 oggi non serve affatto agli imprenditori. Cancellarlo è solo dare uno schiaffo in faccia a chi lavora e ai sindacati tutti, dire loro che debbono piegare la schiena davanti al padrone.
La grande e democratica manifestazione di ieri dovrebbe dare uno scatto di intelligenza all'attuale governo. La sua rinuncia alla cancellazione dell'articolo 18 (ripeto, di nessuna sostanza nella gestione d'impresa) sarebbe un gesto di grande acume politico. Il governo potrebbe dire: proprio perché sono forte e ho consenso non voglio cancellare l'articolo 18.
La grande manifestazione di ieri, la sua portata nazionale e democratica, dovrebbe indurre a qualche riflessione l'attuale governo e dire chiaramente che non ne vuole più la cancellazione. Ove facesse questa scelta ne uscirebbe anche rafforzato rispetto ai ricatti e alle minacce che stanno emergendo dal mondo della politica. Monti non ha detto a caso di temere l'allargarsi dello spread tra i partiti. Si faccia raccontare bene la manifestazione di ieri e ci pensi.
SCIOPERARE, UN GESTO RISCHIOSO ALLA FIAT
di Loris Campetti
Una bellissima giornata di sole e di speranza, complici il clima romano e una marea operaia che da tutto lo stivale e le isole è tornata a occupare la capitale con le sue bandiere rosse e le sue rivendicazioni. In fondo, si potrebbe pensare, non è una novità. Ciclicamente la Fiom riempie Roma di colore e contenuti politici: capita ogni tre o quattro anni e ogni volta è insieme una prova di forza e mostra una capacità di aggregare intorno a sé donne, uomini, movimenti, figure sociali che, almeno apparentemente, con la Fiom non avrebbero molto a che fare.
E invece lo sciopero generale di ieri per i diritti, i contratti e la democrazia e la grande manifestazione a Roma contengono molte novità. Scioperare oggi alla Fiat e nelle fabbriche metalmeccaniche rappresenta un gesto coraggioso perché rischioso. Il fatto è - lo dicevano i tanti striscioni e cartelli esibiti ieri in corteo - che oggi in Italia c'è meno democrazia che negli ultimi sessant'anni. Se non si firma un accordo o un contratto con cui vengono cancellati i diritti fondamentali dei lavoratori si è fuori dalle fabbriche, la Fiom non ha più agibilità sindacale, non può avere delegati né convocare assemblee. Solo fuori dai cancelli si può invitare allo sciopero, le catene di montaggio sono off limits. Addirittura, a Pomigliano a cui Marchionne ha cambiato nome per poter licenziare tutti e riassumere solo quelli con il cappello in mano, nessun operaio iscritto alla Fiom è stato riammesso al lavoro, perché sono stati marchiati a fuoco. Pensate cosa voglia dire in queste condizioni, forse normali nelle dittature ma impensabili nel cuore dell'Europa, convincere gli operai a scioperare contro i novelli padroni delle ferriere con il rischio di essere a loro volta marchiati a fuoco. Loro che non hanno più neanche il diritto di eleggere i propri rappresentanti, di votare accordi e contratti che modificano le condizioni di vita e di lavoro, addirittura di scioperare contro la nuova organizzazione del lavoro o di mangiare a un'ora normale e non a fine turno. Di andare a pisciare quando gli scappa.
Eppure in tantissimi, tra quelli che non sono stati licenziati, o messi in cassa integrazione o peggio in mobilità, oppure «esodati» e cioè senza salario e senza pensione, hanno scioperato poi si sono infilati in un pullman per atrraversare l'Italia perché i treni speciali sono stati aboliti dalla Ferrovie, solo l'alta velocità per pochi benestanti può correre sulle rotaie. Sono arrivati a Roma per dire no a Marchionne e a chiunque sostenga leggi antioperaie e antidemocratiche, o pretenda di smontare lo Statuto dei lavoratori e la Costituzione. Per questo i più applauditi sul palco di piazza San Giovanni, insieme a Landini, sono stati Nina di Mirafiori, Ciro di Pomigliano e Giovanni di Melfi, simboli, delegati alla Fiat non riconosciuti dalla Fiat perché per Marchionne, e per chi tace lungo quasi tutto l'arco costituzionale, la Fiom deve morire. O piegarsi.
Pensa, dicono i compagni di Melfi, i nostri delegati non riconosciuti e licenziati hanno vinto anche il processo d'appello, la Fiat è stata condannata grazie all'art. 18 a riassumerli ma si rifiuta di rispettare la sentenza, li paga ma li lascia a casa. E in questa situazione, «il Pd non viene a manifestare con noi perché c'è la Val di Susa? Ma cosa è diventata l'Italia, dov'è finita la sinistra?».
Sta solo in questo la differenza tra il 2012 e gli anni Cinquanta: allora c'era il Pci di Pugno e Garavini, oggi c'è il Pd che promuove a responsabile del lavoro e della Fiat a Torino l'ex segretario nazionale del Sida, il sindacato giallo inventato da Valletta. L'attacco alla democrazia si può declinare in tante lingue diverse: quella degli operai incatenati; quella dei giovani senza diritto allo studio, al reddito e a un lavoro che non sia di merda; quella dei beni comuni violati e mercificati; quella di chi non vuole finire sotto un treno che corre troppo veloce travolgendo ogni presidio; quella di chi aveva raggiunto il diritto alla pensione e non glie la danno o di quelli che ce l'hanno ma glie la sterilizzano o che temono di non avercela mai. Quando il mercato detta legge la democrazia viene rottamata a scuola, in fabbrica, nelle edicole. Per questo studenti, precari, pensionati, popolo No Tav e attivisti dell'acqua e dei beni comuni, lavoratori dello spettacolo in tempi in cui «The show must go off», ieri sfilavano per le strade di Roma insieme alle tute blu: hanno capito che il nemico è comune, è il pensiero unico e loro non cantano nel coro. Non si limitano a difendersi e a resistere, pretendono di orientare l'uscita dalla crisi con regole diverse da quelle che l'hanno provocata. Vogliono un diverso modello di sviluppo, socialmente e ambientalmente compatibile.
La festa per la cacciata di Berlusconi, diventato scomodo anche per la cupola finanziaria che impasta il mondo come una pizza margherita, è finita in fretta. Ora ci sono i bocconiani che terminano il lavoro sporco avviato da chi li ha preceduti, aggiungendo ingiustizie a ingiustizie e i metalmeccanici hanno smesso in fretta di festeggiare. Chi si accontenta della facciata riverniciata non viene capito dai terribili metalmeccanici e dai loro appestati amici montanari che tanto spaventano Bersani. Così tutti devono farsi una ragione per i pochi, rispettosi fischi raccolti dal segretario nazionale della Cgil che è intervenuto dal palco con un atteggiamento decisamente più comprensivo nei confronti dei Monti boys: figurarsi se chi ha osato scioperare e manifestare anche sotto Prodi si può tirare indietro quando c'è da prendersela con Monti, Fornero, Passera e compagnia fischiando. Questi centomila o ancora di più - chi se ne frega quanti, come dice Landini se li conti qualcun altro, la polizia, la Fiat, Monti, Alemanno e anche Bersani - non portano rispetto per chi non li tratta con rispetto. E si incazzano anche per l'assenza di una sponda politica e forse proprio per questo diventano un riferimento per i tanti che vivono le stesse condizioni. Oltre alla rappresentanza, a questi terribili metalmeccanici vogliono togliere con l'attacco al pluralismo informativo persino la rappresentazione, il diritto a veder raccontate le loro battaglie. Sarà per questo che ieri il manifesto è stato accolto in piazza con tanto affetto. Perché lo sciopero generale di ieri della Fiom per i diritti, i contratti e la democrazia e la grande manifestazione a Roma contengono molte novità
«Sono gli effetti di un regolamento urbano edilizio (Rue n. d. r.) che di fatto permette tutto» chiosa lapidario Pierluigi Cervellati, più volte inascoltato difensore del decoro estetico del centro e promotore negli anni ‘90 di una campagna contro il proliferare degli abbaini sui tetti della città antica.
Significa che ci sono norme più permissive?
«Col nuovo Rue, approvato nel 2008 da Cofferati e dall’ex assessore all´Urbanistica nonché attuale sindaco Virginio Merola, giostrando bene, si può fare quasi tutto. Dico di più: l’architetto che collaborò con Merola oggi è l’assessore competente, vale a dire Silvia Gabellini».
Cos’è che adesso è consentito e prima non lo era?
«Prenda il palazzo di piazza Otto agosto risalente alla fine del Settecento abbattuto recentemente: è una vicenda sconcertante. Si trattava di un edificio storico abitato che è stato spazzato via per costruire al suo posto un albergo e un garage sotterraneo senza peraltro curarsi più di tanto dei reperti archeologici venuti alla luce. È un esempio di svuotamento del centro con espulsione degli abitanti che ottiene due effetti: rende necessario edificare all’esterno del centro alimentando il volano del cemento e fornisce soldi ai Comuni perché i restauri non si pagano, ma le ristrutturazioni sì».
E le Soprintendenze? Come mai non intervengono?
«Oggi le Soprintendenze spingono per realizzare cose moderne, ma non si capisce perché si debbano fare nel centro storico. Quest’ultimo è così diventato la palestra di giovani architetti piuttosto ignoranti e poco documentati che realizzano o trasformano edifici con gusto perlomeno discutibile. E per fortuna che c’è la crisi perché appena il mercato immobiliare ricomincerà a tirare, le conseguenze saranno devastanti».
Non solo sui tetti?
«Già adesso il centro storico è afflitto dal dilagante effetto supermercato tanto che si sta banalizzando in un’alluvione di ‘store’ e grandi magazzini. In definitiva, è in atto una lenta e tuttavia grande trasformazione che muterà il volto della città storica facendole perdere la sua caratterizzazione. Ma mi chiedo: cancellato tutto ciò, cosa resterà?»
Un processo che parte con Cofferati-Merola o la cosa viene da più da lontano?
«Già in epoca Vitali qualche modifica fu apportata da Laura Grassi, in parte rimediata da Ugo Mazza. Poi la giunta Guazzaloca allentò ulteriormente i vincoli fino al Rue approvato nel 2008 che avrà un effetto disastroso».
La parola alle nostre
Conferenze di produzione
di Guido Viale
I numeri del prof. Monti sono quelli del mago Otelma. Mettiamo noi in campo un progetto nuovo, credibile di sviluppo economico e sociale
Immaginiamo il prof. Monti travestito da studente (ovviamente fuori corso) che si presenta a un esame di economia alla Bocconi, di cui è stato anche Rettore; e che alla domanda: «Quando si presenta un'analisi costi benefici?» risponde «Dopo l'approvazione del progetto». Bocciato (sia Monti che il progetto) senza se e senza ma. Eppure è proprio questo che ha sostenuto Monti, vestito (e non travestito) da Presidente del Consiglio. Ma non è la sola insensatezza che ha detto sul Tav: c'è anche la promessa di viaggiare da Milano a Parigi in 4 ore (cioè, ad almeno 400 km/h tra Torino e Lione compresi i 57 e più chilometri di galleria); e l'improvvisa trasformazione in low-cost (a basso costo) dell'opera: grazie al rinvio sine die dei lavori per le tratte fuori galleria (ma chi ha detto che la Commissione Europea sia disposta a cofinanziare un affare simile?). Con questi assi nella manica il governo Monti ha annunciato una grande campagna di informazione (e di repressione) sul Tav. Complimenti!
Lo scontro sul Tav porta alla luce la vera natura di questo governo; un consesso di presunti tecnici che però non sa confrontarsi con quei 360 tecnici veri - praticamente tutti quelli che in Italia hanno una competenza in materia - che hanno chiesto un ripensamento su un progetto tanto inutile. D'altronde, per averne una conferma, basta pensare ai numeri di Monti sui futuri effetti dei primi decreti del Governo: PIL +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti +18 (e quando mai? Mai). Neanche il mago Otelma...
Il governo Monti ha sì una politica economica: quella di riportare in pari il bilancio a suon di tasse, tagli al welfare e svendita dei servizi pubblici (la polpa: il saccheggio dei beni comuni). E di affidare la cosiddetta crescita a qualche liberalizzazione pasticciata e marginale e al finanziamento di alcune Grandi Opere incluse nella legge obiettivo, senza neanche un criterio per definirne le priorità: il Tav Torino-Lione è l'emblema di questo modo di fare. Ma quello che al governo Monti è inviso e del tutto estraneo è il concetto stesso di politica industriale (che cosa, con che cosa, per chi, come e dove produrre). Cioè l'idea che per fare fronte alla crisi, alla disoccupazione, al degrado ambientale e sociale, ai cambiamenti climatici (a cui Monti non ha mai fatto nemmeno cenno: sono cose che per lui non esistono) occorra intervenire sia dal lato dell'offerta (promuovendo produzioni e soprattutto riconversioni produttive di imprese altrimenti votate alla sparizione), sia dal lato della domanda: creando o sostenendo il mercato delle produzioni che hanno un futuro. In entrambi i casi si tratta di settori decisivi per la riconversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi, ma anche per difendere l'occupazione; per creare e sostenere impieghi di qualità, per valorizzare gli studi altrimenti sprecati di centinaia di migliaia di giovani senza prospettive e le competenze difficilmente recuperabili di lavoratori anziani o solo maturi espulsi dalle imprese insieme al loro bagaglio di esperienza.
I settori decisivi in questo processo sono quelli delle fonti rinnovabili, dell'efficienza energetica, dell'agricoltura e dell'industria alimentare ecologiche e di prossimità, del riciclo totale di scarti e rifiuti, della salvaguardia degli assetti idrogeologici, del recupero edilizio, della mobilità sostenibile e flessibile. Ma innanzitutto è essenziale un recupero di democrazia. Non è possibile - dicevano i sindacati firmatari del diktat di Pomigliano - difendere i diritti in fabbrica senza le fabbriche. Giusto. Ma è vero anche, e soprattutto, l'inverso: senza democrazia in fabbrica e nel paese le fabbriche scompaiono.
E infatti, mentre il governo e partiti che lo appoggiano si impuntano sul Tav, facendone la bandiera di un approccio senza futuro ai problemi dell'economia, dei territori e della convivenza, Marchionne fa capire (ammiccando e negando, come si conviene a chi procede per gradi su un cammino già tracciato) che trasferirà negli Usa la direzione e quel che resta del "cervello" della Fiat; che chiuderà uno a uno i suoi stabilimenti e che trasformerà in "fabbriche cacciavite" per il mercato americano (se, e solo se, laggiù la bonanza dura) gli impianti che restano; che dovranno comunque competere con quelli di Polonia, Turchia, Serbia e Brasile, dove i salari sono al minimo vitale, l'ambiente è alla mercé del profitto e lo Stato ci mette un mucchio di soldi. Poi vanno alla malora due dei gruppi residui del sistema industriale italiano (Finmeccanica e Fincantieri) travolti da ruberie impunite e da un'assoluta mancanza di progettualità. Chiudono a un ritmo sempre più rapido migliaia di fabbriche e di imprese piccole e medie, di cui nessuno parla, aggiungendo centinaia di migliaia di disoccupati a quelli già per strada e a quelli a cui sta scadendo la cassa integrazione.
Per questo lo scontro in atto sul Tav è l'emblema di un conflitto che riguarda tutto il paese e che mette una di fronte all'altra, da un lato, una politica economica rovinosa e inconcludente, che abbina uno spreco indecoroso di risorse pubbliche a un'avarizia distruttiva nella spesa per il sostegno al reddito, per l'istruzione, la cultura, la ricerca, i servizi pubblici. E dall'altro lato, la volontà di salvaguardare e valorizzare le competenze e la qualità delle risorse umane e del territorio che quella politica sta condannando a un esito greco.
Per questo la partecipazione del movimento NoTav alla manifestazione della Fiom di oggi non è un fatto marginale: è il riconoscimento della connessione indissolubile tra la lotta dei metalmeccanici - e di tutto il mondo del lavoro sotto attacco - e quella della Valsusa - e di tutti i territori su cui ha messo le mani la speculazione. Ma è anche la conferma di una estraneità ormai consumata tra l'universo politico e istituzionale italiano e tutto il resto della cittadinanza attiva di questo paese: dei suoi problemi, delle sue sofferenze, delle sue aspettative; e soprattutto dei progressi nella costruzione di un'alternativa concreta.
Ma a chi compete mettere in campo un progetto realistico di politica industriale, orientata alla conversione ecologica e innanzitutto alla riconversione produttiva delle imprese condannate a morte? Se il governo e i partiti che lo sostengono non dimostrano alcuna volontà, o capacità, o anche solo una vaga idea, di una impresa del genere, bisogna cominciare, e seriamente, dal basso: lavorando alla convocazione, in ogni territorio dove se ne presenti la possibilità, a partire da quelli - e sono ormai la maggioranza - dove la crisi sta mettendo alle corde un'intera comunità, di una serie di "conferenze di produzione". Comitati, movimenti, sindacati, associazioni, imprese pubbliche, private, cooperative o sociali, professioni e amministrazioni locali. Per mettere in campo idee, progetti, condizioni di fattibilità e promuovere la conversione ecologica del proprio territorio.
Certo, tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare; ma se non si comincia a dire - dopo aver studiato il problema (e nei territori le competenze tecniche per farlo certo non mancano) e dopo aver messo in chiaro le divergenze ed eventualmente separato le strade - a dirlo tutti insieme, resteremo per sempre nelle mani dei fautori del Tav.
Invece bisogna tradurre quelle idee e quei progetti in piattaforme rivendicative dettagliate nei confronti del governo - di qualsiasi governo - e poi esigere che su quei progetti vengano impegnati i fondi dispersi nelle Grandi opere, nelle spese militari, nei tesoretti della politica, nei contributi a pioggia questo e quello (e sono tanti!). Che cosa si farà alla Fiat quando Marchionne avrà abbandonato Mirafiori, o Pomigliano, o entrambi? Aspetteremo un produttore fantasma di Suv come a Termini Imerese o all'Irisbus? Non si può mettere in campo una produzione di microcogeneratori, come quelli che alla Fiat erano stati inventati quarant'anni fa e che la Volkswagen si è messa a produrre e a collocare l'anno scorso? Oppure produrre pompe di calore, rotori eolici, impianti solari termodinamici e simili (tutte cose per le quali non è difficile ricostruire un'impiantistica e un knowhow adeguati)? E che cosa si farà in Fincantieri quando la Costa non ordinerà più altri gerontocomi da crociera e lo Stato cesserà di far costruire navi da guerra? Non c'è forse un grande bisogno di trasferire su mare larga parte del trasporto di lunga percorrenza, costoso e inquinante, che corre da un capo all'altro della penisola? O di mettere in cantiere una produzione di pale eoliche di altura (due proposte che la Fiom aveva tentato di lanciare nel luglio scorso, senza che un solo sindaco, una sola associazione, e persino un solo sindacalista dei cantieri sotto scacco mostrasse il minimo interesse per la questione)?
E che cosa si può fare per risanare Finmeccanica? Concentrarsi sull'industria delle armi e svendere l'unica fabbrica di quei treni di cui c'è un disperato bisogno? E come rinnovare il parco dei mezzi pubblici? Di esempi se ne possono fare mille, ma fare proposte non tocca a me. Ma nemmeno solo alla Fiom, né solo agli operai delle fabbriche in crisi. E' alla convocazione delle conferenze di produzione che va lanciata la sfida (www.guidoviale.it)
Plano: incredibile che il mio partito non ci sia
«Il Pd deve almeno ascoltarci»
Daniela Preziosi intervista il presidente della comunità montana
Sandro Plano è il presidente della comunità montana Val di Susa e Val Sangone. È stato per due volte sindaco di Susa, è un ex dc, è fra i fondatori del Pd del Piemonte, è tutt'ora iscritto al Pd. Anche se nei confronti di quelli come lui il partito locale propone un'ineffabile campagna di 'detesseramento'. Al congresso ha votato per Bersani, che definisce «capace e intelligente». Plano oggi porterà, dal palco della Fiom, una testimonianza dalla Val di Susa. Alla fine di un corteo che i dirigenti nazionali del suo partito, anche quelli più vicini alla Fiom, diserteranno. Per non sfilare - e qui siamo in pieno Pirandello - accanto ai militanti No Tav. Come Plano. .
Presidente, perché ha ancora voglia di avere la tessera del Pd?
«È il mio partito. Sono orgogliosamente ancora iscritto.»
Vogliono 'detesserarla'. Ma che significa?
«Ufficialmente non ci hanno comunicato ancora niente. A noi iscritti Pd contrari al Tav hanno tentato di espellerci, ma per fortuna abbiamo un codice etico e uno statuto che non lo permette. Allora hanno provato a non rinnovarci le tessere. E anche qui non ce l'hanno fatta. Ma è una barzelletta. Non è una cosa seria.»
Alcuni dirigenti nazionali del suo partito, che volevano essere presenti al corteo Fiom, hanno deciso di non sfilare perché alla manifestazione ci saranno i No Tav, cioè voi.
«Sono del Pd con convinzione. Credo che i nostri valori siano il lavoro, la Costituzione, la democrazia - anche quella in fabbrica - la sanità e la scuola pubbliche. Sono dalla parte degli operai, degli impiegati, dei piccoli artigiani, non da quella delle banche e dei grandi industriali. Quindi sto dalla parte della Fiom.»
Ma i suoi dirigenti solidali con la Fiom ritengono incoerente sfilare con quelli come lei.
«È una cosa brutta. Io, a torto o a ragione esprimo i problemi di una comunità. Come minimo dovrebbero aver voglia di ascoltarci.
Forse temono un corteo 'movimentato'?
«Non credo. Comunque sanno che condanno la violenza. Ma la violenza, in questo momento, c'è da tutte le parti, ed è sintomo di una politica che non dà risposte. Ricorrere ai metodi forti è prendere un'aspirina per una gamba rotta.»
Qualche giorno fa i No Tav hanno occupato simbolicamente la sede Pd, il suo partito. Lei cosa direbbe oggi a Bersani?
«Lui è il segretario nazionale, io l'amministratore di una microvalle, non voglio perdere il senso delle proporzioni. Però vorrei dirgli che noi riteniamo che i problemi dell'Italia siano altri. Lui? Vorrei dirgli che fin qui qualche autocritica abbiamo già dovuto farla: ci siamo fatti trascinare sui referendum, sulle primarie le stiamo buscando. Forse qualche ripensamento sul partito va fatto. Non possiamo continuare ad essere additati come gli amici delle banche.»
Il governo ha reso pubblico un documento in 14 punti che contesta la 'controinformazione' del movimento. Lo ha letto?
«Potrei ribattere punto per punto. Ci sono mezze verità, vaghe promesse e vere bugie. Come il fatto che i comuni contrari all'opera siano solo due: falso, non c'è una sola delibera di un comune che dice sì. E invece ce n'è 23 che hanno detto no. Dicono che ci saranno 6mila nuovi posti di lavoro. Ma i nostri operai, impiegati e precari della scuola a spasso li ricollocheremo in miniera? Il traffico fra Italia e Francia è in calo, lo dice persino Marchionne. Ma allora a che serve la nuova linea? Come politico locale, più che delle 1500 persone che vanno ogni giorno da Torino a Lione, mi devo preoccupare per il trasporto quotidiano di migliaia di pendolari.»
I comuni che lei rappresenta chiedono la convocazione di un tavolo dei partiti. Perché?
«Siamo in una situazione di stallo. Il governo vuole andare avanti, i movimenti non vogliono permetterlo. Non contestiamo il diritto di andare avanti al governo. Ma diciamo si deve fare chiarezza. E un'analisi tecnica più attenta. Se ci dimostreranno che le ragioni ci sono, ne prenderemo atto. Una riflessione sull'utilità dell'opera, e una marcia indietro, c'è già stata, e infatti siamo passati da un progetto faraonico a quello che loro stessi chiamano low-cost. Si tratta di capire, in questo momento storico, in piena crisi, la ragione di queste grandi opere.»
Ma i partiti, a parte l'Idv e la sinistra fuori dal parlamento, sono pro Tav. A che serve un tavolo con loro?
«In questi giorni abbiamo visto in tv molti parlamentari che ammettono di non saperne un granché. Votino quello che vogliono, è legittimo. Ma saperne un po' di più dovrebbe interessare anche loro. »
Ma il governo ha già deciso che andrà avanti.
«Ripeto, ha il pieno diritto democratico di fare quello che crede. Ma noi abbiamo il diritto democratico di dire che è sbagliato. Il governo è tornato sui suoi passi sul Ponte sullo Stretto di Messina, sull'Olimpiadi di Roma, sul nucleare, sull'acqua. Può ancora ripensarci.»
Prove di dialogo col peggior sordo
di Luca Fazio
Ventitré sindaci della Val Susa scrivono una lettera ai segretari dei partiti per chiedere un tavolo istituzionale «partendo da posizioni non precostituite»
Sono davvero ostinati questi valsusini. Tutti gli chiudono le porte in faccia, da ultimo anche il presidente Napolitano, ma loro non hanno nessuna intenzione di mollare. La politica sembra aver già deciso, ma loro perseverano nel chiedere quel dialogo che in realtà non c'è mai stato. Anche a costo di passare per quelli che non ci sentono, perché in effetti sono anni che gli amministratori della Val di Susa chiedono un tavolo istituzionale per entrare nel merito del Tav. Con pazienza, l'hanno fatto di nuovo. Ventitre sindaci, rappresentati da Sandro Plano, presidente della Comunità montana Val di Susa e Val Sangone, hanno preso carta e penna rivolgendosi ancora una volta ai segretari delle forze politiche - viene da pensare che il primo destinatario sia Pierluigi Bersani. Si dicono «preoccupati del degenerare dell'ordine pubblico sul proprio territorio» e ritengono che «un confronto vero possa essere strumento di ammortizzazione del conflitto, facendolo entrare in un alveo fisiologico». E per questo, concludono i sindaci, le forze politiche dovrebbero «adoperarsi per l'apertura immediata di un tavolo istituzionale che permetta un confronto vero nel merito dell'opera, partendo da posizioni non precostituite». Detta così, sembrerebbe un appello fuori tempo massimo.
Ma sono anche tosti questi valsusini. Ogni giorno, anche quando non mettono in piedi il casino pacifico che tanto allarma l'accoppiata media & politica, sono in grado di impartire a tutti una lezione su come si resiste a un sopruso negli anni - e sono tanti i «movimenti» che in tutta Italia si stanno aggrappando alla Val di Susa per tornare a fare politica. Anche ieri, nella giornata in cui il governo ha lanciato la sua offensiva-spot per magnificare il Tav con una velina da distribuire ai giornali, i valsusini non sono rimasti con le mani in mano.
A Susa, per esempio, dove sta di casa Gemma Amprino, una sindaca pro Tav (sono ventitre quelli contro e non due come mente il governo), un centinaio di donne si sono presentate al municipio con in mano un mazzo di mimose speciali. Dei mazzolini di lacrimogeni dipinti di giallo. «Abbiamo deciso di consegnare al sindaco quest'opera d'arte - hanno spiegato le valsusine - dicendole che è la mimosa della valle di Susa e che è quello che le donne No Tav ricevono da mesi dalle forze dell'ordine». La sindaca ha anche ricevuto un mazzolino filo governativo di fiori metallici composti dai reticolati che da mesi ingabbiano la valle. In prima fila c'era anche una signora di San Giuliano che abita in una casa che verrà abbattuta dalle ruspe.
A Chiomonte, invece, davanti all'ingresso del cantiere presidiato dalla polizia, è andata in scena una vera e propria prova di forza. Una lettura non stop di 24 ore del libro 150 ragioni No Tav scritto da Mario Cavargna, presidente dell'associazione Pro Natura. I valsusini si sono alternati al megafono notte e giorno, e non per il beneficio di qualche telecamera, con un obiettivo ben preciso: «Siccome non l'hanno capito, spieghiamoglielo bene». Chissà, magari la prossima volta il reading lo organizzeranno davanti al Quirinale.
Il coordinamento dei Comitati, dopo la manifestazione della Fiom di oggi, nei prossimi giorni si riunirà con un dilemma quasi impossibile da sciogliere, e che non riguarda solo la lotta in Val di Susa. Come si resiste a un potere impermeabile che non vuole sentire ragioni e si appresta ad usare le maniere forti? Puntando sull'alleanza con gli altri movimenti, suggerisce qualcuno, anche se lontano dalla Val di Susa non sarà facile incontrare tanta determinazione disposta a durare nel tempo. L'incredibile muro opposto dal presidente Giorgio Napolitano è scoraggiante, eppure - lo dimostra proprio la lettera dei 23 sindaci - ci sono ancora voci ragionevoli che invitano alla discussione. E che non si fanno abbindolare dalle «compensazioni» promesse dal governo Monti (soldi in cambio del consenso). «Questo - ha spiegato uno dei 23 sindaci a Radio Popolare - è proprio il modo più vecchio per far approvare i lavori. Se l'opera è utile per il territorio non ha bisogno di compensazioni, la compensazione è nell'opera stessa».
Purtroppo il confronto ragionevole ormai sembra essere stato bandito da ogni discorso pubblico che riguarda il Tav. A fare notizia, tanto per non lasciare sguarnito il capitolo ordine pubblico, ieri è stata una scritta di solidarietà con i No Tav tracciata su un muro della Statale di Milano. A firmarla anche una stella a cinque punte (come tutte le stelle che si rispettano disegnate fin dai tempi dell'asilo) e poco ci mancava che scattasse la solita manfrina sulle brigate rosse e i tempi cupi che potrebbero tornare. Come se di questo presente fatto di mimose e lacrimogeni ci sia solo da rallegrarsi.
Ci sarebbero molte ragioni per non prendere sul serio il manifesto «per una costituente della cultura» lanciato dal giornale di Confindustria: prima tra tutte «una determinata opacità, oscillante tra convenzionale deferenza per le competenze umanistiche e indifferenza o fatale estraneità al tema» (così, perfettamente, Michele Dantini sul “Manifesto”).
Tra gli stessi firmatari molti confessano (ovviamente in privato) di trovare il testo irrilevante («Me l’hanno chiesto, son cose che passano come acqua»), mentre altri raccontano di esser stati inclusi a loro insaputa, o addirittura dopo un diniego. Ma la solenne adesione dei ministri Passera, Profumo e Ornaghi e il successo che il “manifesto” sta riscuotendo nel paese più conformista del mondo, significano che esso ha interpretato nel modo più rassicurante un’opinione diffusa.
Al famoso “la cultura non si mangia” di Giulio Tremonti, il giornale di Confindustria oppone un discorso che vuol essere «strettamente economico»: “la cultura si mangia eccome”.
Niente di nuovo: è questo il dogma fondante del trentennale pensiero unico sul patrimonio culturale, per cui «le risorse non si avranno mai semplicemente sulla base del valore etico-estetico della conservazione, [ma] solo nella misura in cui il bene culturale viene concepito come convenienza economica» (Gianni De Michelis, 1985). Su questo dogma si fonda l’industria culturale che sta trasformando il patrimonio storico e artistico della nazione italiana in una disneyland che forma non cittadini consapevoli, ma spettatori passivi e clienti fedeli.
È a questo dogma che dobbiamo la privatizzazione progressiva delle città storiche (Venezia su tutte), e un’economia dei beni culturali che si riduce al parassitario drenaggio di risorse pubbliche in tasche private, socializzando le perdite (l’usura materiale e morale dei pochi “capolavori” redditizi) e privatizzando gli utili, senza creare posti di lavoro, ma sfruttando un vasto precariato intellettuale.
È grazie a questo dogma che prosperano le strapotenti società di servizi museali, che lavorano grazie a un opaco sistema di concessioni e che stanno fagocitando antiche istituzioni culturali e cambiando in senso commerciale la stessa politica del Ministero per i Beni culturali.
È in omaggio a questo dogma che la storia dell’arte è mutata da disciplina umanistica in “scienza dei beni culturali” (e infine in una sorta di escort intellettuale), e che le terze pagine dei quotidiani si sono convertite in inserzioni a pagamento. Appare, insomma, realizzata la profezia di Bernard Berenson, che già nel 1941 intravide un mondo «retto da biologi ed economisti dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico». Di tutto ciò il manifesto confindustriale non si occupa, preferendo affermare genericamente che «la cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo».
Naturalmente questo è vero, ed è giusto dire che anche dal punto di vista strettamente economico investire in cultura “paga”. Ma il pericolo principale di questa stagione è la debolezza dello Stato e la voracità con cui i privati declinano la valorizzazione (leggi monetizzazione) del patrimonio. E che il manifesto del Sole non intenda per nulla smarcarsi da questa linea dominante, induce a crederlo il nome del primo firmatario, quell’Andrea Carandini che è un guru del rapporto pubblico-privato nei beni culturali, visto che è riuscito ad autoerogarsi fondi pubblici per restaurare il castello di famiglia chiuso al pubblico.
Né tranquillizza il fatto che il “manifesto” fosse accompagnato da un articolo di fondo del sottosegretario Roberto Cecchi, artefice del più smaccato trionfo degli interessi privati in seno al Mibac (dal caso clamoroso del finto Michelangelo alla svendita del Colosseo a Diego della Valle). Induce, infine, a più di un dubbio la sede stessa in cui il “manifesto” è comparso, quel Domenicale che da anni pratica (almeno nelle pagine di storia dell’arte) un elegante cedimento delle ragioni culturali a quelle economiche, con lo sdoganamento di “eventi” impresentabili e di “scoperte” improbabili.
Un meccanismo approdato a una filiera completa: 24 Ore Cultura produce le mostre (per esempio l’ennesima su Artemisia Gentileschi), Motta (dello stesso gruppo) ne stampa i cataloghi, il «Domenicale» le vende con una pubblicità martellante. Dopo il pirotecnico lancio iniziale, il «Domenicale» ha dedicato ad Artemisia altre quattro pagine, con foto di Piero Chiambretti che visita la mostra e con l’immancabile sfruttamento intensivo della condizione femminile di Artemisia (stupro incluso). Così, una mostra mediocre che si apre con la commercialissima trovata di un letto sfatto che si tinge del rosso della verginità violata di Artemisia si trova a essere la mostra più pompata della storia italiana recente.
È forse pensando a questo tipo di esiti che il “manifesto” consiglia l’«acquisizione di pratiche creative, e non solo lo studio della storia dell’arte»? Più che un programma per il futuro, la santificazione del presente. La risposta vera a quanti affermano che la “cultura non si mangia” è, innanzitutto, che «non di solo pane vive l’uomo»: la nostra civiltà non si è mai basata solo su un «discorso strettamente economico», e la cultura è una delle pochissime possibilità di orientare le nostre vite fuori del dominio del mercato e del denaro. Il punto non è «niente cultura, niente sviluppo», ma: lo sviluppo non ci servirà a nulla, se non rimaniamo esseri umani. Perché è a questo che serve la cultura.
Sarebbe stato assai meglio se, invece del fumoso e conformista “manifesto” confindustriale, gli intellettuali italiani avessero sottoscritto una dichiarazione antiretorica e pragmatica come quella pronunciata, qualche anno fa, da uno dei massimi storici dell’arte del Novecento, Ernst Gombrich: «Se crediamo in un’istruzione per l’umanità, allora dobbiamo rivedere le nostre priorità e occuparci di quei giovani che, oltre a giovarsene personalmente, possono far progredire le discipline umanistiche e le scienze, le quali dovranno vivere più a lungo di noi se vogliamo che la nostra civiltà si tramandi. Sarebbe pura follia dare per scontata una cosa simile. Si sa che le civiltà muoiono.
Coloro che tengono i cordoni della borsa amano ripetere che “chi paga il pifferaio sceglie la musica”. Non dimentichiamo che in una società tutta volta alla tecnica non c’è posto per i pifferai, e che quando chiederanno musica si scontreranno con un silenzio ottuso. E se i pifferai spariscono, può darsi che non li risentiremo mai».
La cinquecentesca, aragonese Torre Talao domina la piana di Scalea. Il mare l’ha circondata per secoli, trasformandola in baluardo contro le incursioni dei pirati saraceni. Ma il pericolo ora viene da terra: progetti megagalattici, un porto turistico con barriere a mare alte 6 metri e con strutture che si allargheranno sino a trasformare completamente il litorale, con un impatto disastroso sull’ambiente. Ci sarà un'altra torre, stavolta tutta di cemento, che minaccia di oscurare quella antica e che controllerà un porto da 510 posti barca, più yachting club, centro commerciale e attrezzature di servizio.
Tutto sembra fatto e ormai deciso. C’è stata una gara nel 2007 ,indetta dal Comune di Scalea e la società che l’ha vinta, subito ha ampliato il progetto originario (che prevedeva un porto con poco più di 300 barche e una concessione di 30 anni), raddoppiando in sostanza il numero degli attracchi e portando a 90 gli anni della concessione. Per rendere affascinante la nuova struttura, che scaverà la terra attorno al promontorio, trasformandolo in un’isola circondata dal mare e che avrà ai fianchi le dighe di cemento, i progettisti si sono rifatti alle immagini del luogo (come si presentava la Torre agli inizi del ‘900).
Che fine faranno le grotte del periodo paleolitico, scavate da archeologi dalla metà dell’Ottocento e che, sino al 1970, hanno restituito tanti oggetti lavorati dall’uomo di Neandertal abitatore di quel promontorio 30-40 mila anni fa? Lo scavo e la rimozione di quella terra che ha occluso e conservato parte di quei documenti primordiali, le cancellerà annullando la stessa memoria storica: uno scempio incredibile. Com’è avvenuto dalla seconda metà del ‘900, quando la speculazione edilizia (pesantemente condizionata da ndrangheta e camorra) ha cementificato e stravolto la piana degli oliveti e degli agrumeti, facendo nascere un’altra città, con palazzoni enormi di cemento,una sorta di “Scampia 2”che si anima solo d’estate, portando la popolazione da 10.000 a 100.000 persone, senza fogne né discariche adeguate, così quasi tutto finisce nel mare.
Il nuovo porto turistico peggiorerà la situazione rischiando di far la fine di altre mastodontiche infrastrutture portuali rimaste incompiute o abbandonate per mancanza di richieste di attracco. Un grido d’allarme è stato lanciato nei giorni scorsi dai cittadini di Scalea nel Convegno promosso dall’Associazione “Scalea 2020”: nell’Italia del Sud , su ogni 100 posti solo un terzo viene utilizzato e in Calabria, nel tratto di costa (100 Km.) Praia–Vibo Valentia, la Regione ha approvato un sistema di 13 porti e approdi turistici con un’offerta di ben 5.000 posti barca che coprirà ampiamente, da solo, la richiesta rischiando di rendere inutile il megaporto di Scalea.
Non solo (ed è questo il dato allarmante emerso dal Convegno) in Calabria sono stati realizzati, nell’ultimo trentennio, molti porti turistici, lontani dai grandi bacini d’utenza e pertanto poco sicuri, mal collegati, poveri di infrastrutture e di servizi. Porti che non hanno mai prodotto la ricchezza annunciata. Ed un po’ lo scenario che si prospetta anche per Scalea, con la sua torre aragonese, la Torre Talao “recintata e circondata (avverte l’Associazione Scalea 2020) da un desolato, spoglio parcheggio di barche o, peggio ancora, da uno squallido e deserto cantiere abbandonato”.
Il Comitato per la Bellezza fa appello al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, alle Soprintendenze calabresi, a quanti ancora possono intervenire affinché venga scongiurato questo nuovo pesantissimo sfregio alla costa calabra, con un megaporto che si annuncia come l’ennesima colata di cemento: un autentico suicidio, anche sul piano turistico, in realtà.
Per il Comitato per la Bellezza: Vittorio Emiliani, Vezio De Lucia, Luigi Manconi, Paolo Berdini, Fernando Ferrigno
Cosa può fare un comune cittadino per difendere il «volto amato della Patria», e cioè l’ambiente e il paesaggio italiani? Per esempio può firmare e diffondere l’appello (promosso da Italia Nostra ed Eddyburg, e sottoscritto dal Comitato per la Bellezza, Legambiente, Fai e Mountain Wilderness) contro il disegno di legge approvato il 1° marzo dalla Regione Campania.
«Si tratta del più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio.
Un provvedimento che avrà conseguenze gravissime su un territorio fragilissimo già martoriato da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che nonostante tutto conserva ancora aree preziosissime.
Esplicitamente dichiarata la finalità: limitare i vincoli che gravano sul territorio per rilanciare il settore edilizio, e allo stesso tempo risolvere il problema dell’abusivismo con lo stravolgimento dei principi di legalità di sanzione e riparazione. […] Non tutela del paesaggio, quindi, ma piuttosto una nuova puntata della discutibile avventura intrapresa con il piano casa, attraverso la quale viene sancita la rinuncia dei poteri pubblici al diritto/dovere di esercitare la sovranità territoriale nell’interesse generale.
Il disegno di legge adottato in Campania è incostituzionale, perché attraverso di esso la Regione si appropria surrettiziamente di competenze di tutela del paesaggio che l’articolo 117 della Costituzione mette esclusivamente in capo allo Stato. È illegittimo perché modifica unilateralmente la pianificazione vigente, a partire dal Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentina Amalfitana e ignora platealmente i procedimenti di copianificazione prescritti dal Codice […]».
Se non vogliamo affogare nel cemento, questa battaglia potrebbe essere l’ultimo salvagente.
Rito stanco o necessità? Ecco perché questa data può avere significato solo se evolve la società: dai diritti alle nuove regole contro lo stalking - Nonostante la vestissero di giallo, colore disimpegnato, era una ricorrenza "rossa" legata al movimento operaio - Il tema della violenza si accende in occasione di delitti atroci, ma poi sprofonda nel buio e l´interesse vive meno di un rametto di mimosa
Che odio, la mimosa: non profuma, avvizzisce in tempi record e dissemina pallini e pelucchi gialli dappertutto. Tanto è emozionante vederla fiorire sul suo albero come una macchia di luce nel paesaggio, tanto è triste trovarla intrappolata nel cellophane sui banchetti o nei vasi vicino alla cassa dei supermercati. Ridotta a un "brand", venduta per un giorno a prezzi irragionevoli, la mimosa rappresenta bene tutto ciò che nell´8 marzo è da buttare, dagli orpelli del marketing a quanto di rituale e di stantio, come ogni celebrazione, si porta dietro. E pensare che nel 1946 le rappresentanti romane dell´Unione Donne Italiane la scelsero quasi per caso, e soprattutto per risparmiare. Le rose, invocate insieme al pane nei cortei delle femministe americane a partire dal 1908, erano troppo costose; in cerca di un simbolo diverso dallo storico garofano rosso per caratterizzare in modo immediato la festa delle donne, si risolsero per questa fioritura di stagione, assai comune tra Roma e i Castelli: accessibile, allegra e a costo zero.
Nonostante la vestissero di giallo, colore politicamente disimpegnato, l´8 marzo era una festa decisamente "rossa", legata a doppio filo al movimento operaio. Dopo una prima edizione solo statunitense, la Festa della donna nacque ufficialmente nel 1910 a Copenhagen, con una mozione presentata da Clara Zetkin alla II Conferenza internazionale socialista: per promuovere la causa del voto alle donne e «l´intera questione femminile espressa dalla concezione socialista». Meno chiaro da dove esca la data dell´8 marzo. Nel saggio 8 marzo. Storie miti riti della giornata internazionale della donna, le studiose Tilde Capomazza e Marisa Ombra precisano che fu fissata solo nel 1921, alla seconda Conferenza delle donne comuniste di Mosca, in memoria della grande manifestazione delle operaie contro lo zarismo che si era svolta in quella data nel 1917. A partire dagli anni Cinquanta, tuttavia, si diffondono vulgate che "cancellano" la genesi moscovita, legando l´8 marzo al vivace movimento statunitense d´inizio secolo per i diritti delle lavoratrici, e in particolare – nella tradizione del "martirologio" (in palese analogia con il Primo Maggio, anniversario dei "martiri di Chicago") – al tragico incendio del marzo 1911 alla Triangle Shirt Waist Company di New York, in cui morirono orribilmente 146 operai, di cui ben 129 erano donne giovanissime: non poterono mettersi in salvo perché i padroni le tenevano chiuse a chiave nei capannoni per evitare che si allontanassero. L´incendio in realtà ebbe luogo a fine marzo, ma nella pubblicistica divenne il mito fondativo della giornata della donna: forse anche, suggeriscono Ombra e Capomazza, per attenuare i caratteri sovietici e comunisti della ricorrenza. Un dato è certo: l´8 marzo, comunque l´abbiano scelto, nasce come festa delle donne lavoratrici. Nei decenni ha perso gran parte di questo carattere "sindacale". Eppure, il lavoro femminile continua a essere un campo di abusi e sperequazioni. Se la mimosa si può tranquillamente cestinare, vale invece la pena di rinverdire questo spirito delle origini. Tanto più oggi: nel pieno
delle difficili trattative sulla riforma del lavoro, nel paese in cui, per la nostra vergogna, a un secolo esatto dall´incendio della fabbrica di camicie newyorkese, cinque donne sono morte nel crollo di un laboratorio di confezioni a Barletta, dove lavoravano in nero per 4 euro l´ora, ben venga un 8 marzo vintage, la cui agenda rimetta al centro la tutela delle lavoratrici. «Le nostre mimose sono progetti di legge», affermava la senatrice socialista Elena Marinucci nel 1980. A fine febbraio ha cominciato a circolare l´appello di 14 donne che chiedevano il ripristino della legge contro la piaga delle lettere di dimissioni in bianco di cui si abusa per licenziare le donne in caso di gravidanza, cancellata dall´ultimo governo Berlusconi: perché, per cominciare, come prima "mimosa di legge" non ci restituite la legge 188/2007?
A partire dagli anni Settanta, l´8 marzo si trasforma profondamente, ingloba le istanze del femminismo e smette di essere una festa solo di sinistra. Cresce, si allarga e, secondo alcune, si annacqua: arrivano le prime denunce dalle femministe più agguerrite che ne invocano l´abolizione. Parallelamente, nel 1975 la ricorrenza dell´8 marzo ottiene dalle Nazioni Unite la consacrazione ecumenica. Proprio un richiamo dell´Onu ci indica l´altro grande tema da porre in agenda per l´8 marzo: la violenza. Dopo una missione conoscitiva in Italia lo scorso gennaio, la relatrice speciale dell´Onu per la violenza contro le donne, Rashida Manjoo, ha espresso allarme per la pervasività della violenza domestica, quasi mai denunciata e spesso nemmeno percepita come reato, e la crescita dei femminicidi per mano del partner o di un ex dal partner o da un ex: dalle 101 donne uccise nel 2006 si sale alle 127 del 2010.
La nostra settimana della Festa della donna è cominciata con due episodi atroci: a Brescia un uomo ha ucciso la ex compagna, sua figlia e i rispettivi partner; un altro, nel veronese, ha strangolato la moglie perché sospettava lo tradisse. Il tema della violenza sulle donne si accende come un bengala in occasione di delitti atroci come questi e poi sprofonda nuovamente nel buio. L´interesse pubblico vive meno di un rametto di mimosa. Se la festa dell´8 marzo garantisce un giorno in più di attenzione a questa tragedia che si consuma nel silenzio, basta già questo a giustificare la sua sopravvivenza.
La base leghista, che anche ieri mandava messaggi di solidarietà al suo «grande» Davide Boni, è ancora pronta a giurare che il presidente del consiglio regionale lombardo sia «vittima di una campagna d'odio mediatico-politica». Ma le parole dei pubblici ministeri, con il condizionale d'obbligo, dicono invece che dalle indagini per il giro di tangenti che coinvolge Boni «emergerebbe un sistema Pdl-Lega». Sistema che lega l'inchiesta a carico dell'esponente del Carroccio a quella che portò all'arresto dell'altro membro dell'ufficio di presidenza del consiglio regionale lombardo, il pidiellino Franco Nicoli Cristiani.
In pratica secondo i pm Lega e Pdl, politicamente alleati, erano complici di un sistema illegale che dall'alto della giunta di Roberto Formigoni diramava i suoi tentacoli in tutto il territorio lombardo. Del resto non è l'iscrizione nel registro degli indagati di Boni a sancire la fine della «diversità dagli altri partiti» della Lega.
La storia del Carroccio è puntellata da episodi che, già da anni, dimostrano che la Lega, al netto delle parole urlate per acchiappare consensi, ha fatto proprie le ambizioni della vecchia politica: l'utilizzo spregiudicato dei posti di potere, sistematicamente occupati.
A Cassano d'Adda, il paese che con l'inchiesta sul suo Pgt ha fatto saltare il tappo, uno dei protagonisti della locale tangentopoli è Marco Paoletti, assessore leghista in paese e consigliere provinciale a Milano. In provincia di Brescia, a Castel Mella, lo scorso anno furono arrestati l'assessore leghista ai lavori pubblici e il capo dell'ufficio tecnico, a sua volta assessore del Carroccio nel vicino comune di Rodengo Saiano. I reati contestati riguardavano delle irregolarità nella concessione di permessi per la costruzione di centri commerciali. Perché è nel settore urbanistico e del territorio che il sistema agisce. Non è un caso che Boni è stato, nella precedente giunta regionale, assessore all'urbanistica, e che i reati che gli vengono contestati riguardano proprio quegli anni.
Come riguardano l'urbanistica altri avvenimenti che, anche se non hanno portato all'iscrizione nel registro degli indagati esponenti del Carroccio, dimostrano la loro complicità. Nella Brianza dei capannoni in due comuni simbolo come Desio e Giussano, gli esponenti locali del Carroccio furono convinti a non opporsi a mega progetti di centri commerciali voluti dal Pdl. A occuparsi di questo compito, il consigliere regionale Massimiliano Romeo, nominato nelle intercettazioni di Massimo Ponzoni, Pdl, anche lui ex assessore formigoniano, finito in manette qualche tempo fa, definito «quello che sta convincendo la Lega a dare il via libera al progetto». A Bolgarello, in provincia di Pavia, grande sponsor della costruzione di un mega centro commerciale è stato Angelo Ciocca, consigliere regionale lombardo. Anche in questo caso non indagato, ma nell'inchiesta «Infinito», quella sulla 'ndrangheta al Nord, ci sono intercettazioni che lo dipingono vicino al direttore dell'Asl pavese Chiriaco, a sua volta vicino ai boss della locale della ndrangheta. E ancora, a Monza, il sindaco leghista Marco Mariani proprio in questi giorni sta facendo fare un tour de force ai suoi consiglieri per approvare in tempi utili la variante del Pgt che permetterà la cementificazione di un'area verde del territorio comunale, la «Cascinazza». Guarda caso, di proprietà di società riconducibili, come scatole cinesi, a Paolo Berlusconi.
A tutto questo si aggiunga che due attuali assessori regionali leghisti, Monica Rizzi e Daniele Belotti, sono indagati per vari reati. Chissà se qualcuno definirà ancora la Lega partito anti-sistema.
Titolo originale: The best and worst places to be a woman – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Più di metà della popolazione mondiale svegliandosi giovedì mattina – è la 101a Giornata Internazionale della Donna – dovrà scegliere tra i festeggiamenti o la tristezza. Una donna inglese per esempio probabilmente dovrà aspettare almeno quattordici elezioni nazionali prima che alla Camera dei Comuni si arrivi al medesimo numero di rappresentanti maschi. Però in Quatar una donna ha sei volte di più la probabilità di studiare all’Università, rispetto al suo vicino di casa maschio. Il divario globale uomo-donna non si presta a definizioni semplici. Nell’85% dei paesi le condizioni femminili negli ultimo sei anni sono migliorate, ci dice il World Economic Forum, ma è ancora parecchia la strada da fare. E aggiunge un rapporto Oxfam: “Da Londra a Lahore permane la diseguaglianza fra uomo e donna. Il nostro giornale ha provato a verificare dove in vari modi è meglio esserlo, donna, oggi.
Il posto migliore in assoluto: l’Islanda
È l’Islanda ad avere il massimo livello di eguaglianza fra uomini e donne, fra politica, istruzione, occupazione e altri indicatori. Il Regno Unito è al sedicesimo posto, in discesa rispetto al 2010. Ultimo lo Yemen, e l’Afghanistan il più pericoloso.
Se fate politica: il Ruanda
Il Ruanda è l’unico paese in cui le donne sono maggioranza in parlamento. 45 su 80. La Gran Bretagna è quarantacinquesima, alle spalle del Pakistan e degli Emirati Arabi Uniti. Ma c’è anche di peggio: in Arabia Saudita, Yemen, Qatar, Oman e Belize, non c’è nessuna donna parlamentare.
Per diventare mamme: la Norvegia
Se siete una mamma dovete andare in Norvegia, bassissimo rischio di morte per parto – un caso ogni 7.600 – e servizi di altissimo livello per tutte. Il Regno Unito sta al tredicesimo posto. All’ultimo l’Afghanistan, dove una donna rischia di morire di parto 200 volte di più di quanto non rischi con bombe o proiettili vaganti.
Per imparare a leggere e scrivere: Lesotho
In Lesotho ci sono più donne alfabetizzate che uomini, 95% contro 83%. In questo caso la Gran Bretagna è ventunesima. Ultima l’Etiopia, dove sa leggere e scrivere il 18% delle donne, contro il 42% degli uomini.
Volete essere ai vertici dello Stato? Sri Lanka
Le donne governano lo Sri Lanka da 23 anni. Qui il Regno Unito sta al settimo posto, mentre esistono decine di paesi che non hanno mai avuto una donna alla massima responsabilità.
Per una donna che coltiva le arti: Svezia
Il Consiglio Svedese delle Arti promuove l’iniziativa delle pari opportunità nel settore. L’Istituto Cinematografico Svedese distribuisce in modo equo i finanziamenti fra uomini e donne, ci sono anche quote per la produzione. In Gran Bretagna le registe sono solo il 6%, e il 12% le sceneggiatrici.
Donne top manager: Thailandia
Si trova in Thailandia la percentuale massima di dirigenti donne, col 45%. Il Regno Unito è fuori dalle prime venti posizioni, col solo 23% nei ruoli di massima responsabilità. Ultimo il Giappone, con l’8%.
Per partorire: Grecia
Per partorire andate in Grecia, che è il posto in assoluto più sicuro del mondo: solo una morte ogni 31.800. Tredicesima la Gran Bretagna, ma all’ultimo posto sta lo stato più giovane del mondo, il Sud Sudan, dove esistono solo 20 levatrici in tutto il paese.
Per partecipare allo sviluppo economico: Bahamas
Partecipazione femminile all’economia e allo sviluppo stanno al primo posto nelle Bahamas. Il Regno Unito è solo trentatreesimo. Nelle Bahamas gli ultimi sei anni hanno visto ridursi il divario di genere del 91%, mentre nel paese ultimo di questa classifica, lo Yemen, la riduzione è stata solo del 32% nel medesimo periodo.
Se volete fare la giornalista: Caraibi
La regione dei Caraibi è l’area col più elevato tasso di presenza femminile nel giornalismo stampato, televisivo e radiofonico, con 45%. La peggiore è l’Africa, dove solo il 30% delle storie viene raccontato da donne. In Europa siamo al 35% in media, in Gran Bretagna nei quotidiani nazionali sono donne circa il 9% delle giornaliste.
Per il diritto di maternità responsabile: Svezia
In Svezia si può abortire senza alcuna restrizione o vincoli fino a diciotto settimane dall’inizio della gravidanza. Da questo punto di vista fra i paesi peggiori ci sono El Salvador, le Filippine e il Nicaragua, con l’interruzione di gravidanza completamente vietata. Per le donne britanniche l’aborto è possibile sino alle 24 settimane, con il consenso di due medici.
Per le lavoratrici: Burundi
Il Burundi nell’Africa sub-sahariana è al primo posto per la partecipazione femminile alla forza lavoro, l’unico paese in cui le donne superano gli uomini, 92% contro 88%. Il Regno Unito si colloca al 47° posto. All’ultimo il Pakistan, dove i lavoratori sono quattro volte le lavoratrici.
Volete guadagnare? Lussemburgo
Il Lussemburgo fa a gara con la Norvegia per la prima posizione in termini di reddito femminile stimato. Lì con un tetto di 40.000 dollari uomini e donne guadagnano uguale. Gran Bretagna ventitreesima, e in coda l’Arabia Saudita, dove le donne guadagnano 7.157 dollari contro i 36.727 degli uomini.
Per andare all’università: Qatar
In Qatar ci sono sei donne iscritte ai corsi di terzo livello per ogni uomo. Resta il dubbio sulla possibilità che questo investimento in istruzione possa condurre poi a una maggiore integrazione economica. Il Regno Unito è al trentottesimo posto, ultimo il Ciad, dove gli iscritti maschi sono il triplo delle iscritte.
Per vivere più a lungo: Giappone
Le donne in Giappone possono aspettarsi di vivere più a lungo degli uomini, in media 87 anni contro 80. In coda il Lesotho con un’aspettativa di soli 48 anni, ma lì neppure gli uomini fanno molto meglio, on soli due anni in più. In Gran Bretagna l’aspettativa di vita ha raggiunto il suo massimo a 78 anni per i maschi e 82 per le donne. Col divario inferiore nell’Unione Europea.
Molto tempo libero: Danimarca
Le donne in Danimarca hanno molto tempo per sé, e sono obbligate a svolgere quotidianamente solo 57 minuti di lavoro non pagato più degli uomini, il caso migliore dell’Ocse. Le donne britanniche hanno due ore occupate più dei loro colleghi maschi. Va ancora peggio per le messicane, con quattro ore e venti minuti di lavoro non pagato più degli uomini.
Se siete un’atleta: Stati Uniti
Cinque delle più pagate dieci professioniste dello sport nel 2011 erano statunitensi. Il paese che si classifica peggio, l’Arabia Saudita, non ha mai mandato una donna alle Olimpiadi e proibisce le pratiche sportive femminili nelle scuole pubbliche. Le donne britanniche coprono solo lo 0,5% del mercato delle sponsorizzazioni sportive fra gennaio 2010 e agosto 2011.
Per lasciare il marito: Guam
L’isola di Guam in Micronesia ha il più elevato tasso di divorzi del mondo, il Guatemala il minimo. In Inghilterra e Galles fra il 2009 e il 2010 c’è stato un incremento del 4,9%.
Per guidare l’automobile: India
Nuova Delhi è il posto migliore per la donna che volesse irrompere nel mondo ancora prevalentemente maschile dei tassi. Una Ong della capitale indiana promuove una iniziativa di formazione per radiotaxi esclusivamente femminili. Il peggior paese del mondo per guidare è l’Arabia Saudita, l’unico dove alle donne sia vietato.
Se cercate un lavoro altamente qualificato: Giamaica
In Giamaico c’è la più alta percentuale di donne che occupano posizioni lavorative di alta specializzazione, come rappresentanza politica, funzionarie dirigenti pubbliche e private. Sul totale degli impieghi di questo tipo il 60% è coperto da donne. La Gran Bretagna si classifica al trentacinquesimo posto nel panorama globale, lo Yemen all’ultimo: lì le donne con lavori altamente qualificati sono solo il 2%.
CASI
“Ci occupiamo soprattutto di madri e figli”
Kristbjorg Magnusdottir, 42anni, levatrice islandese, abita nel miglior posto del mondo per essere donna. Ha quattro figli, da tre a sedici anni,e si ritiene fortunate di essere nata in un paese che sostiene l’indipendenza femminile e il lavoro delle donne
“Ci sono molte occasioni: fino a vent’anni la scuola pubblica gratuita, un ottimo sistema sanitario e per mamme e figli. Soprattutto c’è una solida etica del lavoro. Parecchie le mamme single lavoratrici, molto inserite e rispettate dalla comunità”.
“Sono parlamentare, qui siamo la maggioranza”
Connie Bwiza Sekamana, 33 anni, parlamentare in Ruanda, l’unico paese del mondo dove le donne sono la maggioranza delle elette. Quando ha cominciato a fare politica erano solo il 12%, ma grazie anche alle sue lotte è stato introdotto un minimo del 30 di donne nella costituzione approvata dopo il genocidio
“Mi sentivo investita di un compito particolare: dare voce alle donne che erano state particolarmente vittime del genocidio. Qui è il luogo dove si approvano le leggi, e le donne sono molto istruite. Possiamo sollevare questioni che le riguardano, a avere ascolto tanto quanto gli uomini”.
“Ci sono ancora troppe donne che muoiono inutilmente di parto”
Joy Kenyi, 38, anni quattro figli, vive in Sud Sudan, paese più giovane del mondo e anche quello dove è più rischioso partorire. La signora Kenyi lavora con l’ Unicef ed è specializzata nella maternità. Dopo aver sperimentato un primo parto traumatico, ha contribuito a un progetto di moto-ambulanze che possano trasportare le donne in centri di assistenza
“Vediamo donne che muoiono senza motivo nel corso di una gravidanza, 16 al giorno. L’80% dei parti avviene in casa. Oggi abbiamo 75 moto che possono trasportare le donne con qualche complicazione presso le strutture. Se in tanti paesi non si muore di parto, perché dovrebbe succedere in Sud Sudan?”
“Più donne ai vertici”
Zoë van Zwanenberg, 59 anni, di Dunbar, East Lothian, è l’unica donna che dirige un ente nazionale nel settore artistico. Presidente del Balletto Scozzese da sette anni, giudica “sorprendente” che siano così poche le colleghe al vertice di enti simili del Regno Unito, a prendere le massime decisioni
“Le persone che presiedono dovrebbero avere una grande esperienza nel settore, ma poi sono relativamente poche le donne importanti. I criteri usati dovrebbero essere relativi solo alla capacità di essere decise, pronte a scelte anche difficili, pronte a combattere, ma in realtà non avviene così”
“Oggi abbiamo un’istruzione migliore”
Mamokete Sebatane, 65 anni, è un’insegnante con problemi visivi del Lesotho, l’unico paese nell’Africa sub-sahariana che ha risolto il divario di genere riguardo all’alfabetizzazione. In quarant’anni di esperienza la signora Sebatane ha dovuto superare una doppia discriminazione, quella di essere donna e di avere problemi con la vista
“I genitori preferivano mandare i figli a studiare invece che le figlie, dovendo pagare la scuola. Adesso l’istruzione dell’obbligo è gratuita. Studiano più bambine e diventano più indipendenti e fiduciose. Ne sono molto fiera”
“Per una rete di donne nel mondo”
Noorjahan Akbar, 21 anni, divide il proprio tempo fra l’Afghanistan, il luogo più pericoloso per una donna, e gli Stati Uniti dove lavora. La Akbarè co-fondatrice di Young Women for Change, associazione per l’eguaglianza di genere. L’anno scorso ha organizzato la prima manifestazione contro le molestie sessuali sulle donne Afghane
“Ogni volta che torno in Afghanistan resto sconvolta. Mi molestano quattro o cinque volte al giorno, anche per strada; ed è la realtà quotidiana delle donne afghane. Ma non mi arrendo, non rinuncio, per me e per tutte le altre, che si meritano di meglio. Voglio creare un internet café femminile a Kabul, dove possano incontrare donne da tutto il mondo”
L’immagine della Milano ladrona, sorridente e impunita, ha fatto il giro d’Italia. È l’istantanea dell’ufficio di presidenza della regione Lombardia, con 4 componenti su 5 indagati. O arrestati per malaffare. Per la par condicio due del Pdl, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni, uno del Pd, Filippo Penati, e l’ultimo della Lega, Davide Boni. Mettici pure quattro ex assessori di Formigoni al centro di altrettanti scandali, i già citati Nicoli Cristiani e Ponzoni, più Guido Bombarda e l’ineffabile Piergianni Prosperini. Infine otto consiglieri lombardi sotto inchiesta per una gamma di reati che spazia dalla corruzione alla truffa al favoreggiamento di prostituzione, nel caso di Nicole Minetti. E ti domandi: ma come può una delle regioni più ricche e civili d’Europa a sopportare questa vergogna?
Una tale montagna di scandali non s’era mai vista in Italia, se non nel consiglio regionale della Calabria, che le commissioni antimafia dipingono come il braccio politico della ‘ndrangheta. Ma qui non siamo nella terra di Cetto Laqualunque. Siamo nella capitale del laborioso Nord che sfida la recessione, nella culla del montismo come nuovo costume amministrativo, europeista, poliglotta, competente, rigoroso e un tantino moralista. E allora non ti spieghi la calma piatta, l’indolenza «terrona» con cui la grande Milano accoglie le storiacce della nuova Tangentopoli, vent’anni dopo. Queste tangentone a botte di 300 mila euro in contanti, che sarebbero finite nella tasche del ras lombardo della Lega, Davide Boni, fanno impallidire la madre di tutte le mazzette, i 37 milioncini di lire che il 17 febbraio del 1992 Mario Chiesa cercò di affogare nel cesso dell’ufficio, mentre i carabinieri bussavano alle porte del Pio Albergo Trivulzio. Sorprende la faccia di tolla dei dirigenti leghisti, da Umberto Bossi in giù, che una settimana fa chiedevano la testa di Formigoni «perché non si può andare avanti con un arresto al giorno» e oggi, pizzicato uno dei loro, urlano al complotto politico e affidano la difesa del buon nome del movimento, con un certo grado di crudeltà, al tesoriere Francesco Belsito. Figura incredibile per definizione, noto alle cronache per essersi taroccato nell’ordine la patente di guida mai ottenuta, il diploma di perito e ben due lauree fasulle (una a Londra, l’altra a Malta), non che per aver investito l’anno scorso un terzo del rimborso elettorale della Lega (22 milioni di euro) in una fantomatica banca della Tanzania. Uno insomma al cui confronto il Vincenzo Balzamo tesoriere del Psi di Craxi, e morto di crepacuore pochi mesi dopo Mani Pulite, trasfigura nel ricordo in icona risorgimentale.
Ma il mistero più fitto, o se volete la faccia di tolla più resistente, ha un solo nome: Roberto Formigoni. Il dominus assoluto del ventennio lombardo, da Tangentopoli a Tangentopoli 2, il presidentissimo al quarto mandato, è ancora lì, al centesimo scandalo, barricato nella faraonesca e inutile nuova sede, a recitare la scena del palo della banda dell’Ortica. Il campionario di alibi del presidenza allarga ogni volta i confini del ridicolo. Gli arrestano gli assessori nei settori chiave della regione, sanità, urbanistica, ambiente, e lui non sapeva. Si presenta in consiglio regionale per «mettere la mano sul fuoco per Piergianni Prosperini» il giorno stesso in cui il «Prospero» decide di patteggiare coi magistrati. La Minetti? «Chi se l’immaginava? Me l’ha presentata Don Verzè!». Il caso Boni? «Quale caso? Vedremo. La regione è una casa di vetro. Nel caso ci fosse un caso, ci costituiremo parte civile». Non esistono un «sistema Sesto» o un «sistema Lega» o un «sistema bonifiche», ma soltanto un enorme «sistema Formigoni» (o «sistema CL») che sovrasta e alimenta un arcipelago vastissimo e consociativo di interessi, dove nessuno ha interesse a far saltare il banco del Pirellone. Non la maggioranza politica, ma neppure le opposizioni, che infatti o si schierano contro le elezioni anticipate, come l’Udc, o le chiedono molto timidamente, come il Pd. Non Cl, certo, ma neppure le coop rosse. Non gli industriali o le banche, ma nemmeno i sindacati. Il fatto è che se la Tangentopoli di vent’anni fa era comunque qualcosa di razionale, una specie di escrescenza malavitosa di un’economia ancora sana, un «pizzo» carpito nel grasso della crescita produttiva, con la seconda Tangentopoli si è andati molto oltre. Qui il sistema delle tangenti ha creato ex novo un’economia virtuale che non ha alcun collegamento con il mercato e si fonda sul consumo del territorio. In altri termini, cemento, cemento e ancora cemento.
In vent’anni in Lombardia la popolazione è rimasta ferma, ma le aree urbanizzate sono cresciute del 20 per cento. I cantieri nascono come funghi. Regione e comuni concedono licenze per centinaia di milioni di metri cubi, sulla base di stime demografiche che farebbero ridere uno studente del primo anno di Sociologia. Con tutti gli scandali in corso, il comune di Sesto San Giovanni ha appena riavviato la pratica dell’ex area Falck, nell’ipotesi di una crescita della popolazione da 80 a 100 mila nei prossimi dieci anni. Ma Sesto non ha raggiunto i centomila abitanti neppure quando era la Stalingrado d’Italia, con fabbriche che occupavano decine di migliaia di operai. Perché dovrebbe crescere ora che sono tutte chiuse?
Malpensa è l’aeroporto più in crisi d’Europa, perde viaggiatori, merci, scali, compagnie, è l’hub di nessuno. La risposta? Il progetto di una terza pista, distruggendo mezzo Parco del Ticino. Un altro esempio, le autostrade. Con la benzina a due euro e l’industria dell’auto al disastro, un investimento geniale. Lo stesso Expo del 2015 è diventato un enigma. Il progetto originario di Stefano Boeri e Carlo Petrini, un Expo leggero ed ecologico, un grande orto permanente dell’agroalimentare, aveva un senso. Il nuovo progetto, l’ennesima fiera tecnologica, nasce vecchio, superato e un po’ ridicolo. Qui girano le tangenti. E i soldi dei risparmiatori che le banche, grandi e piccole, continuano a pompare nei gruppi immobiliari. Basta presentare un progetto qualsiasi. Perfino Danilo Coppola, il furbetto del quartierino finito in galera e poi in coma per tentato suicidio in carcere, condannato a sei anni per bancarotta fraudolenta, ha appena ottenuto dal Banco Popolare un finanziamento di 180 milioni per il progetto di Porta Vittoria. Roma ladrona gli aveva voltato le spalle, ha ricominciato da Milano.
Mi ha fatto male, sinceramente, vedere il Presidente Napolitano a Torino, così blindato dentro e fuori. Senza la solita cornice di folla, in una piazza circondata da uno sproporzionato schieramento di polizia. Chiuso nel suo no al dialogo con i sindaci ribelli della Val di Susa (che pur rimangono l'espressione principe della rappresentanza popolare sul territorio) in nome di un indiscutibile ma fuori luogo nell'occasione «rifiuto della violenza», e tuttavia fotografato in Piazza Castello con alla destra il Governatore del Piemonte, considerato tra gli uomini della Lega più vicini al "capo" che appena il giorno prima aveva minacciato la vita del Presidente del Consiglio a nome di «tutto il nord» (sic!).
Considero quel rifiuto un atto politicamente miope, umanamente ingeneroso, culturalmente incomprensibile. Un gesto simbolico che non aiuta nella difficile soluzione del problema, confermando l'immagine sempre più diffusa di una crescente distanza, per usare un eufemismo, tra istituzioni e popolo. Di un'incapacità di ascolto fattasi ormai programmatica, e di un'autoreferenzialita irriducibile, tetragona, del ceto politico (anche ai rari livelli di eccellenza) paragonabile per certi versi a quella delle corti di ancien regime alla vigilia delle rivoluzioni moderne.
Eppure un minimo non dico di umiltà (difficile chiedere oggi umiltà a un politico di professione) ma di equanimità, imporrebbe di tributare alcuni significativi riconoscimenti alla gente della Val di Susa che si è opposta in questi ultimi vent'anni all' Alta Velocità. Per esempio oggi tutti riconoscono l'assurdità e l'insostenibilità economica e ambientale del primo progetto (quello che, sulla sinistra orografica della Valle, avrebbe dovuto forare, tra l'altro, il monte Musiné pieno di amianto e veleni con un costo complessivo di quasi 25 miliardi di euro). Quasi nessuno ricorda, però, che se quel progetto sconsiderato è stato fermato lo si deve ai "fatti di Venaus", dell'inverno 2005. E a quel gruppo di anziani montanari valsusini, picchiati a sangue, una notte, da un manipolo di agenti armati di ruspe e manganelli. Solo dopo quell'evento nacque l'oggi tanto celebrato Osservatorio, che almeno nella sua prima fase ha tentato di ricucire un dialogo.
Allo stesso modo nessuno, in alto, riconosce che il "secondo progetto" (partorito da quell'Osservatorio dopo l'epurazione della componente critica), oggi abbandonato per la sua conclamata insostenibilità finanziaria, era stato osteggiato, per quell'esatta ragione, proprio da quei comitati e quei sindaci che oggi si vuol far passare per visionari e prevenuti. Perché non dare loro, ora, un qualche credito quando sollevano obiezioni anche al terzo progetto, il cosiddetto low cost, visto che sui primi due ci avevano azzeccato? Perché non ascoltare almeno le loro osservazioni? Tanto più che intorno ai primi due progetti, oggi giustamente abbandonati, si erano schierati a suo tempo, entusiasticamente e come un sol uomo, tutti i decisori pubblici di allora - presidente della regione, sindaco di Torino, capo della provincia -, mai sfiorati da nessun dubbio. Pronti a «tirare dritto per la loro strada, anche se la strada non c'e», come recita una brutta pubblicità automobilistica.
Aggiungiamo ancora che la promessa, avanzata ieri, di attivare forme di controllo sistematico contro le infiltrazioni mafiose nei cantieri e negli appalti delle Grandi opere, arriva solo dopo la settimana di passione della Valle. Nessuno (nessuno!) dei tanti politici e amministratori fautori della retorica della legalità aveva mosso un solo passo concreto in questa direzione. C'e voluta la tragedia di Luca Abbà per arrivare a questo doveroso (anche se tardivo) provvedimento, per ripristinare un minimo di legalità nella jungla degli appalti sponsorizzati dalla politica.
Per questo il "gran rifiuto" di Torino suona così ingeneroso. E inopportuno, io credo, anche dal punto di vista di un freddo realismo politico. Il TAV non può essere ridotto a questione di ordine pubblico, come va ripetendo ormai fino alla noia chiunque abbia un minimo di buon senso. Su quel terreno il problema non ha soluzione: vent'anni di cantieri in un territorio militarizzato sono un incubo che nessuno può accettare. E dunque quei sindaci "diversi", che tuttavia condividono un comune sentire con i loro amministrati, sono una risorsa da non sprecare. Restano un sia pur tenue canale di comunicazione tra alto e basso. Non possono essere tenuti fuori dalla porta. Se non con un cavalierato (come meriterebbero) per lo meno con un'udienza devono pur essere riconosciuti.
Le mani della ‘ndrangheta sui cantieri Tav: la denuncia di Roberto Saviano è un grido d´allarme che costringe a ricondurre sul piano suo proprio, quello degli affari, ogni discorso sull´alta velocità. Gli affari sporchissimi (delle mafie) e quelli, si suppone puliti, delle imprese e delle banche.
Ma che vi siano fra gli uni e gli altri intrecci e convergenze di interessi non occorre dimostrare. La storia del riciclaggio di denaro sporco di tutte le mafie, in Italia e fuori, semplicemente non esisterebbe, se non si fosse trovata ogni volta l´impresa "pulita" ma disponibile a trasformare capitali sporchi in condominii, alberghi, autostrade.
Lo scontro pro e contro il progetto Tav in Val di Susa (ma anche altrove, come nel "passante" di Firenze) non si deve svolgere dunque solo sulla fattibilità dei percorsi o i volumi del traffico. Altrettanto importante è chi partecipa agli appalti, e se quel che intende guadagnare corrisponde alla legalità e al pubblico interesse. Ha troppa fretta chi considera i paladini pro-Tav come moderni alfieri dello Sviluppo, bollando i loro oppositori come arcaici cultori del Ristagno. Il volume degli affari qui in ballo (compresi quelli delle mafie) è tale che sulla stessa parola "sviluppo" pesa un gigantesco equivoco. Per sviluppo, infatti, dovremmo intendere il beneficio che deriverà al Paese e ai cittadini da una "grande opera" dopo che sia stata eseguita e sia entrata in funzione. Sempre più spesso, invece, si tende a considerare "sviluppo" l´opera stessa, la mera mobilitazione di banche e imprese, capitali (pubblici) e manodopera. Sterile progetto, se la "grande opera" si rivelasse inutile o producesse guasti ambientali e sociali.
La linea Tav già realizzata fra Bologna e Firenze è certo un vantaggio per chi la usa, ma ha provocato la morte di 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti, inquinando con sostanze tossiche 24 corsi d´acqua. I responsabili delle imprese, condannati per disastro ambientale dal Tribunale di Firenze, sono stati poi assolti in appello: insomma, la strage ambientale c´è stata, ma nessuno è colpevole. Era possibile evitare lo scempio? Secondo Il Sole-24 ore, il costo per chilometro delle linee Tav in Italia è il quadruplo che in Francia: quanto di questo enorme divario si poteva spendere per salvare agricoltura e ambiente? Quanto, invece, hanno incassato le imprese interessate, e come lo stanno reinvestendo? Quale sviluppo, e a vantaggio di chi, hanno innescato quegli utili, mentre si devastavano valli e fiumi? Il loro reinvestimento sta contribuendo a risolvere la crisi senza dirottarne il costo sui più deboli e più giovani?
Tramontata ogni ipotesi di project financing sui progetti Tav, la Corte dei conti ha osservato che l´assenza di «una realistica analisi dinamica della copertura economica», ha provocato «un onere rilevantissimo per la finanza pubblica», a causa di «specifici comportamenti del management delle società in questione», nella «penombra che ha circondato importanti negoziazioni», con «decisioni irrazionali o immotivate» che hanno «inciso direttamente o indirettamente sul patrimonio pubblico». Nonostante questo, si è tirato diritto, sulla base di una «connotazione chiaramente apodittica». Anche in Val di Susa, pur senza un´attendibile analisi costi-benefici, la Tav è considerato ineluttabile. Ma il progetto ha oltre vent´anni, le previsioni di traffico su cui si basava si sono rivelate erronee e hanno obbligato a destinarlo principalmente al traffico merci, la condivisione dei costi con la Francia è svantaggiosa. Eppure su questi ed altri motivi di perplessità, a quel che pare, è vietato discutere. Si parla, per un futuro più o meno remoto, di consultazioni con le popolazioni del luogo: un obbligo della convenzione di Aarhus, ratificata dall´Italia nel 2001 ma finora disattesa. Ma più che alle convenzioni internazionali si dà peso agli impegni con le imprese, a costo di darvi corso manu militari.
In un racconto di Mario Soldati, Il berretto di cuoio (1967), il protagonista, Aduo, è «lo scemo del villaggio», che però «non era affatto uno scemo», era anzi «aperto, simpaticissimo, intelligente». Ma non lavorava, non aveva un mestiere; un caso, dicevano i medici, «di sviluppo arrestato». Finché, affascinato dal cantiere dell´autostrada Torino-Piacenza, scatta la scintilla: assunto come guardiano, «lavorò per dieci», senza limiti di tempo, dall´alba a notte fonda»; sempre «scrutando con rapide occhiate» i lavori dell´autostrada, felice e attonito, con «lo sguardo che avrebbe potuto avere un assoluto responsabile, unico appaltatore, unico progettista, unico azionista dell´autostrada». Quando l´autostrada è finita, il tracollo: Aduo non può vivere senza, non mangia e non beve, viene ricoverato. Una specie di "complesso di Aduo" sembra aver preso alla gola troppi italiani, che non sanno immaginare altro sviluppo che la cementificazione del suolo. Distraendoci da altri investimenti più lungimiranti e produttivi, questo modello di crescita alla cieca è, come quello di Aduo, uno "sviluppo arrestato" che inceppa il Paese.
Una risposta autoritaria non è accettabile. È necessaria una discussione aperta e radicale, tanto più in tempi di contenimento della spesa pubblica. È giusto spendere per la Tav, quando sono allo sfascio ferrovie minori e treni notturni, anche internazionali? Non sarebbe meglio potenziare le strutture esistenti, a cominciare dalla cintura ferroviaria di Torino? È meglio costruire nuove grandi opere o arrestare il degrado dei servizi sociali e della scuola? Viene prima la difesa del paesaggio, dell´agricoltura e dell´ambiente o la (presunta) convenienza economica della Tav?
Unica bussola per rispondere a queste domande, la Costituzione consacra la tutela del paesaggio e dell´ambiente: «La primarietà del valore estetico-culturale», anzi, non può essere «subordinata ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev´essere «capace di influire profondamente sull´ordine economico-sociale» (Corte Costituzionale, 151/1986). I portatori (sani?) del "complesso di Aduo" dicono il contrario: che le ragioni economiche sovrastano i principi del bene comune. Un "governo tecnico" dovrebbe avere la forza di aprire sul tema un vero tavolo di confronto. Parlare di "campagne d´informazione" a una direzione, il cui esito si dia per scontato, non ha nulla di "tecnico". Sarebbe un gesto politico: e non è di questa politica che il Paese ha bisogno.
Al ministero chiamano Lorenzo Ornaghi "professore Ponzio" e non solo perché ha governato, almeno sino ad oggi lavandosene le mani, la più scandalosa delle emergenze, i Beni Culturali, immenso e immensamente malandato patrimonio dell´identità italiana.
Ma anche perché «siamo ai piedi di Pilato» è la realistica e simpatica espressione popolare ed evangelica che egli stesso usò con i colleghi della Cattolica quando seppe che non gli avrebbero dato la Pubblica Istruzione.
Vi entrò dunque da «tecnico serio, ma senza competenza» mi dice una imprenditrice veneta del restauro. E infatti «non so cosa significa Beni Culturali» confessò il giorno del giuramento al Quirinale. Lo sfogo fu preso come scaramanzia e come viatico, un cuscinetto di ironia tra se e sé, e uno spazio di libertà tra sé e quel difficile mondo sottosopra.
Professore di Scienza della Politica e Rettore magnifico di lunga esperienza, Ornaghi era infatti molto bene attrezzato a studiare, capire e affrontare, e con nuovi codici magari, i Beni Culturali senza la sgangherata inefficienza di Bondi, che negava i crolli di Pompei e maltrattava la cultura viva e la cultura morta, e senza le polemiche sopra le righe della meteora Galan.
Ornaghi sembrava persino finalmente libero dalla politica politicante, come fu soltanto il rimpianto Alberto Ronchey tanti anni fa. E dunque sembrava perfetto per una legge quadro sull’architettura, per una nuova normativa sul cinema, per una ristrutturazione della lirica, per mettere a punto un piano di guerra che, come quello di Befera contro gli evasori, scovi e insegua uno per uno i tombaroli che da Cerveteri ad Aidone, da Palestrina ad Aquileia rovinano le nostre rovine e derubano gli italiani. «Forza Ornaghi!» pensammo dunque quando lo nominarono. E invece: chi l’ha visto?
Brianzolo, 64 anni, cattolicissimo e scapolo, cappotto nero da prete, poco meno di due pacchetti di "Camel light" al giorno, una voluta somiglianza con il suo maestro morale don Giussani, compiaciuto della parola "Padania" in onore dell´altro suo maestro Gianfranco Miglio, il ministro ha esordito presentando un pio libro di Maurizio Lupi, riceve tutti i giorni Buttiglione e Quagliariello e insieme fanno combaciare asole e bottoni di una nuova ipotetica Dc, combatte «la dittatura relativista della cultura laicista»…
È insomma molto attivo nella militanza ciellina, ma non ha preparato piani di riscossa per Pompei dove continuano quei minicrolli che sono la rivolta delle pietre contro l’incuria che viene certo da lontano ma costò al povero Bondi l’eccessiva fama mondiale di killer of Pompei’s ruins.
Il progetto Pompei coinvolge almeno tre ministri (anche gli Interni, in funzione anticamorra) perché l´Europa ci chiede garanzie per il finanziamento già stanziato e mai erogato di 105 milioni. Ma Pompei è come lo spread, è un impegno che il nostro ministro deve prendere con il mondo, simbolicamente lì è l’Italia intera che rischia il default. Per un ministro dei Beni Culturali che ama il suo Paese, Pompei è il Luogo Comune nel senso del più comune dei luoghi, vestigia e simbolo della civiltà occidentale, valore identitario e tuttavia senza nazionalità, il capolinea di tutte le strade del mondo: salvarlo significa salvare il mondo.
Da sola Pompei vale un ministero, una carriera, una vita. E invece Ornaghi si comporta come un Bondi con molta più cultura che però, in questo caso, diventa un’aggravante.
Ha scritto autorevoli saggi sulle élite pubblicati dal Mulino, parla correntemente inglese, francese e tedesco, è un cultore di musica classica, appassionato di storia di Milano e di società milanese, e non solo in senso alto: la sua prima lettura al mattino sono le pagine dei necrologi.
Perché l’innamorato di Milano non dice una parola sulla sciagurata paralisi della Grande Brera, commissariata e dimenticata? E tace pure sul Palazzo del cinema di Venezia dove al primo scavo, trenta milioni di euro per 3,10 metri di profondità, hanno trovato, sotto una pineta, quel demonio dell’amianto e non c’è esorcista che possa andare avanti né tornare indietro su una superficie di 10mila metri quadrati, mentre l’impresa (la Sacaim) è finita in amministrazione controllata, e c’è ancora in carica un commissario, come del resto all’Aquila, un sub commissario, vice di Bertolaso. E i collaudatori erano quelli della cricca, e forse si farà solo un auditorium, ma un po’ più in là … Questo sì è cinema! In quel buco di Venezia c’è la fantasia della scuola napoletana, è il buco dei magliari d’Italia. Vuole parlarne, signor ministro?
Ornaghi dirige il traffico e controlla gli affari delegando al solito capo di gabinetto Salvo Nastasi, amico più di Letta che di Bisignani, genero di Gianni Minoli, e commissario ovunque e per tutte le stagioni: dal San Carlo di Napoli al Maggio Fiorentino…
Sin dai tempi di Urbani, Nastasi è l’avvolgente potenza invisibile dei Beni Culturali, come l’imam occulto degli sciiti. E infatti Ornaghi, via Nastasi-Letta, costretto dalle reazioni dell’intera città di Venezia, ha confermato Paolo Baratta alla presidenza della Biennale. E però poi gli ha mandato, come guastatore nel consiglio di amministrazione, il presidente della Fondazione Roma Emmanuele Emanuele, vecchio notabile del parastato e del Circolo della caccia, gran protettore di Vittorio Sgarbi, premio letterario Mondello per le poesie raccolte in "Le molte terre" e "Un Lungo cammino", già premiato a Tor di Nona. Pittoresco e manovriero, ha esordito annunziando che è lui l´unico a rappresentare sia il ministero sia l’albo d’oro della nobiltà, e tra Baratta e Ornaghi è cominciata un’agra corrispondenza… Perché?
A Nastasi si contrappone il sottosegretario Roberto Cecchi, più cauto ma non meno avido di supplenza. Già funzionario del ministero, a lui si devono il pasticcio del Colosseo affidato a Della Valle e il famoso malaffare del crocifisso erroneamente attribuito a Michelangelo: tre milioni che un rinvio a giudizio della Corte dei conti ha censurato; sarebbero bastati trecentomila mila euro. Ebbene, il ministro non ha né difeso né cacciato il suo sottosegretario: "professore Ponzio", appunto.
E non dice nulla sul Centro del libro, una struttura agile ma costosa che non ha mai cominciato a lavorare: forse non sarebbe inutile, ma così sicuramente lo è. E ancora: dopo la tragedia della Concordia al Giglio tutti si aspettavano una parola di Ornaghi per bloccare il passaggio delle grandi navi da crociera a Venezia: entrano dalla bocca di porto di Malamocco e poi si inoltrano nella laguna raggiungendo Riva degli Schiavoni che costeggiano sino a imboccare il bacino di San Marco, davanti al Palazzo Ducale, per poi giungere alla stazione marittima attraversando il canale della Giudecca. Neanche Marinetti, il quale nella sua devastazione, voleva asfaltare Venezia, era arrivato a immaginare le navi della follia. Dice Dante: Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo/ gridando: ‘Guai a voi anime prave!’ Gli ignavi, appunto.
Presentando il disegno di legge sul paesaggio adottato dalla Giunta regionale, con apprezzabile sincerità l’Assessore Taglialatela ha dichiarato che la finalità è quella di sfrondare i troppi vincoli che gravano sul territorio, di dare slancio al settore edilizio, di offrire una soluzione all’abusivismo esistente. E’ bene dirlo con franchezza: tutto questo non c’entra proprio niente con il paesaggio. Piuttosto, si tratta di una nuova puntata dell’avventura intrapresa dalla Regione con il piano casa, il discutibile provvedimento di deregulation varato su istigazione del precedente governo nazionale.
Noi pensiamo che non sia questa la strada da percorrere. Riteniamo che per proteggere e mantenere in vita i paesaggi della Campania, già martoriati da decenni di illegalità, di abusivismo, di incuria, ma che costituiscono ancora nonostante tutto la vera ricchezza della nostra regione, occorra altro. Più che indebolire i vincoli, c’è bisogno di un serio investimento nelle attività di manutenzione, cura e controllo di un territorio e di un ecosistema tra i più fragili e pericolosi del mondo. All’opposto, il disegno di legge dà il via libera al piano casa anche nelle zone rosse, a più elevato rischio vulcanico.
Quello di cui c’è bisogno in Campania è una efficace politica per arrestare il consumo di suolo, che viaggia a ritmi vertiginosi, distruggendo irreversibilmente il residuo capitale di fertilità, biodiversità e bellezza di Campania felix. In tutta Europa e nel resto del Paese la conservazione delle terre è diventata priorità assoluta, ma a questo tema il disegno di legge non dedica purtroppo neanche un rigo. All’opposto, il disegno di legge interviene direttamente sul Piano urbanistico territoriale della Penisola Sorrentino-Amalfitana, ristabilendo la supremazia, nelle aree agricole ritenute “non rilevanti sotto l’aspetto paesaggistico”, delle previsioni di quei piani comunali che al PUT avrebbero dovuto invece adeguarsi vent’anni fa. Il rovesciamento di prospettiva è evidente.
Se le finalità di fondo sono queste, è inutile poi parlare di approcci sofisticati di contabilità ambientale, come l’ecoconto, che sono stati pensati e che vengono applicati in contesti molto differenti dal nostro, e che appaiono nel disegno di legge come il pretenzioso e inefficace orpello di un lavoro approssimativo, venuto male.
Sull’abusivismo, poi, la soluzione prospettata dal disegno di legge non si basa sul principio sacrosanto di sanzione e riparazione, né su serie politiche di prevenzione, quanto piuttosto su una modifica in corsa delle regole, sulla base di una singolare interpretazione del principio di legalità. A ciò si aggiungono gli infortuni comunicativi, perché le dichiarazioni fatte in sede di presentazione del provvedimento (“Non ci saranno più divieti in assoluto, né vincoli astratti; non si può pensare di far ricorso alle ruspe per tutte le violazioni né di sanare ogni abuso pagando”) saranno interpretate, nel contesto sociale e territoriale regionale, come un allarmante segnale di via libera anche per il futuro.
Quello che ci preoccupa in questa vicenda è il silenzio dello Stato, cui la costituzione (art. 117) assegna la competenza esclusiva in materia di tutela del paesaggio, e che secondo il Codice del 2004, è chiamato a cooperare con le regioni per la definizione delle nuove discipline e politiche del paesaggio. La sensazione è che la Direzione regionale stia subendo l’iniziativa regionale, con un esercizio francamente debole delle proprie prerogative. Vedremo nei prossimi giorni se questo timore è fondato. In ultimo, il disegno regionale sul paesaggio prevede che l’approvazione del futuro Piano paesaggistico regionale non avvenga in consiglio regionale, con il contributo di tutte le rappresentanze politiche, ma in commissione consiliare, addirittura con il meccanismo del silenzio assenso. Non ci sembra questo il modo migliore, in termini di garanzie democratiche e di partecipazione, per fornire la Campania di quello che sarà probabilmente lo strumento più importante di governo del territorio.
Le associazioni firmatarie credono che non sia questa la legge della quale la nostra Regione ha bisogno. Si tratta di un provvedimento inutile, per molti versi dannoso, con aspetti sostanziali di incostituzionalità, e che indirizza alla comunità regionale un messaggio sbagliato, quello della relatività delle regole. Occorre invece, come sta avvenendo per l’evasione fiscale, una rivoluzione copernicana. Occorre ribadire con fermezza che alcune cose non si possono fare perché –proprio come l’evasione fiscale - danneggiano l’intera collettività. Chi consuma il territorio impoverisce anche te. Di questo c’è bisogno in Campania. Su questi temi siamo disposti a collaborare.
Reffaella Di Leo, Presidente Italia Nostra Campania
Michele Buonomo, Presidente Legambiente Campania
Alessandro Gatto, Presidente WWF Campania
«Sono monumenti noti e la valutazione è positiva, ma ormai la trattativa è ferma - dichiara la direttrice dell’Appia Rita Paris - Da oltre un anno i proprietari si sono aperti alla vendita. Hanno scritto più volte al ministero, ma non ci sono stati riscontri».
Ora la preoccupazione è perderli del tutto: «Nel caso del mausoleo degli Equinozi, i Passarelli venderebbero alla Soprintendenza il monumento con un terreno e un casalino che potrebbe essere riconvertito in punto servizi. Ma di fronte all’arenarsi della trattativa, il rischio è che vendano ad altri l’intera proprietà».
Eppure per entrambi i monumenti, vincolati da anni, si stimerebbe un valore d’acquisto entro il milione. Non che il ministero trascuri del tutto l’Appia, che nell’ambito della gestione commissariale ha ricevuto 3,4 milioni per quattro interventi, tra cui il restauro di Santa Maria Nova dove a primavera 2013 aprirà il grande centro d’accoglienza turistica; inoltre, da domani parte il restauro del tratto antico del IV Miglio.
Ma sul destino della Regina Viarum mancano svolte decisive, come dimostra la mancata definizione del Parco archeologico.
A giugno, l’allora ministro Galan aveva preso l’impegno di istituirlo.
«Ma da allora non c’è stata nessuna svolta, e manca ancora una legge speciale che riconosca l’Appia come unico museo archeologico all´aperto, non solo come un parco regionale», lamenta Paris.
Un piccolo traguardo l’Appia l’ha portato a casa, con la delibera sulla delocalizzazione delle attività abusive. «Sono zone in cui gli abusi non sono stati mai perseguiti - commenta la Paris - Dire, però, che l’Appia torna ai cittadini è esagerato».
La Ztl speciale dell'Appia Antica
Maria Rosaria Spadaccino – 6 marzo 2012
Cominciano i lavori per il restauro del basolato romano sull'Appia Antica, all'altezza del Forte Appio. «Con l'apertura del cantiere - spiega Rita Paris, della soprintendenza speciale per i beni archeologici- bisogna proteggere definitivamente la strada da macchine e vandali. In accordo con residenti si deve pensare ad una sbarra, a telecamere o ad una soluzione come la Ztl. La via deve tornare ad essere un monumento». Per Andrea Catarci, presidente del XI municipio, «il progetto è assolutamente condivisibile».
Sta per rifarsi bella l'Appia Antica: giovedì iniziano i lavori di restauro del basolato romano all'altezza del Forte appio. Un cantiere, della soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma, che fa tornare l'attenzione su uno dei comprensori archeologici più importanti del mondo.
«Un'area che continua ad essere violata - spiega Rita Paris, direttrice dell'Appia Antica per la soprintendenza - per questo stiamo pensando di proteggerla in maniera definitiva come merita un grande monumento. Dobbiamo solo studiare il modo più adatto alla fruizione della strada da parte di residenti e turisti». Si pensa ad una sbarra con citofono, a telecamere, o ad una disciplina simile a quella della Ztl che regola il centro di Roma. La chiusura partirebbe dal civico 195 fino a via delle Capanne di Marino, circa 7 chilometri di demanio statale.
«Bisogna che torni la coscienza che l'Appia è un monumento. Lo Stato ha lavorato negli anni passati ad una poderosa opera di valorizzazione delle scoperte archeologiche - spiega Paris - così sono tornati a tutti noi complessi come Cecilia Metella, il palazzo dei Quintili e Capo di Bove. Ma tutto questo deve anche essere tutelato». I basoli, lastroni di pietra lavica con cui venne realizzata la strada, scoperti con i lavori del Giubileo del 2000 necessitano ormai di un intervento: sono mal posizionati, sconnessi. Il traffico continuo li sta danneggiando, basta camminarci sopra per notare che oscillano, sono malridotti e poco lontano da loro ineleganti cestini per la raccolta dell'immondizia deturpano la bellezza del luogo.
Le opere di restauro per questo cantiere finanziato dalla soprintendenza costano 350mila euro. È una goccia per uno dei comprensori archeologici più grandi del mondo: 80 ettari in consegna allo stato che deve occuparsi della valorizzazione e della tutela.
«Sarebbe utile pensare ad un consorzio di tutte le parti coinvolte - commenta Paris - la soprintendenza non farà nulla che limiti la libertà dei residenti, possiamo anche pensare ad una chiusura a tratti, lasciando aperte le strade di passaggio. La via deve esser viva e fruibile, ma questo nuovo cantiere di restauro non può diventare come la tela di Penelope».
E intanto proprio ieri è arrivato un altro allarme che riguarda la Regina Viarum: la chiusura domenicale (l'unica prevista da un'ordinanza comunale) da parte dei vigili urbani non è più garantita. «I tagli all'organico - spiega Andrea Catarci, presidente dell'XI municipio - rendono impossibile la chiusura domenicale al traffico privato».
E se a questo si aggiunge che non esiste più la navetta che portava sull'Appia Antica da piazzale Numa Pompilio si comprende quanta poca cura sia riservata alla strada. «Il progetto della chiusura della via per garantirne la tutela è assolutamente condivisibile - commenta Catarci - bisogna assolutamente trovare il modo per proteggere un tale patrimonio».
La manutenzione e l’abitudine alla bellezza
Rosario Salamone – 7 marzo 2012
Succede sempre così, della bellezza in cui vivi te ne accorgi quando qualcuno te la vuole sottrarre. La questione è che a Roma la bellezza si è stratificata nel tempo con un provvidenziale disordine, tra demolizioni maldestre e sopravvivenze miracolose. Così il lascito architettonico e archeologico che ci sta davanti agli occhi, quello che funziona per il mondo come una calamita universale, ha, per certi versi, mitridatizzato i romani. L'abitudine a ingerire quotidiane piccole dosi di bellezza sembra un che di dovuto, di naturale. Percepiamo la luce, l'ombra delle piazze, echi materiali di tanta eternità, però la manutenzione, il decoro del patrimonio, sembrano usciti dalle cure quotidiane della politica e dei cittadini.
La notizia dell'avvio del restauro di un tratto dell'Appia Antica è di quelle che bucano l'aria come un jet che rompe il muro del suono. L'idea lineare della salvaguardia di un patrimonio viario, con tutti i manufatti che ne fanno sponda, ha un valore aggiunto in sé. Significa rimettersi in cammino, come Città, come Paese. A piedi, con le salmerie essenziali del tempo di crisi che stiamo vivendo, fa sempre bene. Mettere bene i piedi in terra, nella città che ha insegnato a tutti l'arte di costruire le strade, come disse Raymond Chevallier, osservando la forza dei basalti, le lastre di lava resistente e duratura, a cui si ispirarono gli ingegneri romani vedendo la colata che si spingeva fino a Capo di Bove. La bellezza sovrumana dei pini e dei cipressi, gli alberi «pizzuti» che svettano nell'aria tanto quanto le loro radici perpendicolari che evitano di svellere le tombe, giù in basso (katà kumbas). Ottorino Respighi dedicò un poema sinfonico agli alberi così tipici del paesaggio della capitale, «I pini di Roma». In uno dei movimenti strinse un'alleanza tra le ombre architettoniche di una catacomba e l'ombra odorosa degli alberi, perché la Roma delle vie consolari è un mescolarsi continuo di presenze da vivere nella scenografia della bellezza e rimando storico assiduo.
Da chi ha il compito istituzionale di tutelare opere e paesaggi, in questo caso Rita Paris, dobbiamo attenderci lavoro, coraggio e un certo gusto per l'andare in controtendenza. Il senso dello Stato, l'attaccamento alle istituzioni, si coltivano attraverso lo studio e la messa in cantiere di azioni volte a salvaguardare i beni della civiltà di cui siamo testimoni ed eredi. Se la casa di famiglia - la famiglia è la collettività - si sta coprendo di ortiche e le travi scricchiolano, occorre mettere mano al restauro, presto e bene. Work in progress. Lavori in corso: curare il passato è l'essenza del presente e del futuro.
La Fiom lancia la giornata di venerdì. In ballo la difesa dei diritti violati, un modello di sviluppo non energivoro e l'agibilità democratica in Italia In piazza ci saranno anche studenti, precari, pensionati. E la Valsusa, perché il sindacato è da sempre anti-Tav
La Fiom ha scritto a tutti i parlamentari ed europarlamentari italiani invitandoli a partecipare alla manifestazione del 9 Marzo sulla base della denuncia di una palese violazione dei diritti costituzionali attuata ai danni dei lavoratori metalmeccanici messa in atto, innanzitutto, dalla Fiat. Se il Gotha del Partito democratico ha deciso di non partecipare, vuol dire che non riconosce o più semplicemente accetta questa violazione. Per carità, non è cosi, precisa il gruppo dirigente del partito: il Pd dà forfait perché sul palco della Fiom ci saranno rappresentanti del movimento No Tav. I quali, com'è noto, sono politicamente sieropositivi.
Casualmente, chi prenderà la parola per spiegare le ragioni del valsusini sarà il presidente della Comunità montana, addirittura iscritto al Pd. Questo è quanto ha precisato Maurizio Landini ai giornalisti, aggiungendo che l'opposizione della Fiom al Tav, al Ponte sullo stretto, al nucleare è di antica data, convinta e condivisa nell'organizzazione. Un'opposizione motivata dalla necessità di investire fondi pubblici e privati per attivare lavoro finalizzato a costruire un diverso modello di sviluppo, socialmente e ambientalmente compatibile, non energivoro. Punto.
Venerdì i metalmeccanici si riprenderanno le strade e le piazze del centro di Roma con un unico, grandissimo corteo. Con loro ci saranno gli studenti che chiedono una scuola pubblica e un lavoro, i precari che chiedono stabilità e un reddito di cittadinanza, ambientalisti, intellettuali che difendono la cultura, operatori di un'informazione sempre più monopolizzata che invece difendono la pluralità. Ci saranno pensionati e lavoratori di tutte le categorie Cgil che non sono disposti a veder manomesso l'articolo 18. Tutte persone che sanno che l'attacco ai metalmeccanici, se non sarà fermato, sarà un apripista per ridurre l'agibilità democratica di tutti i cittadini.
Se è vero, come tutti i sondaggisti ci spiegano, che intorno al governo Monti c'è un consenso grandissimo nel paese, la stessa cosa dovrebbe valere in casa metalmeccanica, incalza un giornalista. Sbagliato, risponde il segretario della Fiom, raccontando come in tutte le assemblee operaie le critiche alle politiche governative si moltiplichino. Vogliamo parlare di pensioni? Uno schiaffo a chi ha lavorato una vita e non gli basta ancora, uno sberleffo ai giovani che vedono sempre più distante la possibilità di uscire da una condizione di precari o peggio disoccupati. Vogliamo parlare di art. 18 e della libertà di licenziamento, in nome dei giovani naturalmente? Vogliamo parlare della crescita delle diseguaglianze sociali, della sterilizzazione del testo unico di sicurezza?
Insomma. Dice Landini, la Fiom è stata con la Cgil l'unica organizzazione sindacale che si è battuta contro il governo Berlusconi, «e lo rivendichiamo». Ciò non impedisce agli operai metalmeccanici di giudicare e criticare il governo dei tecnici con la stessa libertà e autonomia esercitate ai tempi di Berlusconi o di Prodi. Insomma, la manifestazione di venerdì si annuncia quanto mai pepata e potrebbe diventare un punto di riferimento per i soggetti più colpiti dalla crisi.
Dal palco di piazza San Giovanni parleranno gli operai dei grandi gruppi, alternati da interventi di intellettuali, attori, rappresentanti dei movimenti e dell'associazionismo, dei beni comuni. È la democrazia il tema che unisce. Si parlerà molto dell'assassinio della democrazia in atto alla Fiat, naturalmente, di diritti e contratti negati. Si chiederà al governo, direttamente al presidente Monti, di convocare Marchionne e impegnarsi a impedire la fuga dell'auto dall'Italia.
Serve un piano straordinario per un'occupazione pulita e compatibile con i diritti dei lavoratori e dell'ambiente, insiste Landini. A questo scopo devono essere attivati investimenti pubblici e privati. L'Italia ha bisogno di tutto, tranne delle grandi opere inutili e dannose. Oltre settecento pullman arriveranno a Roma, i treni sono interdetti alla Fiom come a chiunque non faccia parte della minoranza della popolazione che si sta accaparrando tutta la ricchezza. Un ex segretario della Cgil trasporti è diventato lo strumento per distruggere un servizio pubblico, mettendo la pietra tombale su una storia di mezzo secolo di treni speciali «democratici». Prezzo pieno, oppure tutti a piedi, o in pullman. Gli affari sono affari, la democrazia non è più compatibile con il mercato.
Ma il 9 Marzo non ci sarà solo una grande manifestazione, ci sarà lo sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici. Uno sforzo straordinario per chi ha ancora un lavoro, sia pure precario, sottopagato, a rischio. Uno sforzo, quello delle tute blu, un atto di generosità nei confronti di noi tutti.
Adriano Sofri (La Repubblica del 3 marzo) solleva una questione che va al di là del caso Tav. Riflette su chi debba decidere in casi come questo. Ma la tesi secondo cui serve fare valere l'opinione locale attraverso qualcosa di simile a una consultazione referendaria ha il suo pericoloso rovescio. Rischia, senza precisazioni, di dare argomenti a chi non ha a cuore il bene comune: a chi fa speculazione sul paesaggio e ha fondate ragioni per preferire che sia assegnata l'esclusiva del governo del territorio a chi lo abita.
Agli abitanti della Val di Susa mi sento vicinissimo. Non solo giudico le loro ragioni fondate, ma penso che con un po' più di tempo potrebbero convincere tanti altri che non stanno da quelle parti. Sono anche portato a credere che un sondaggio tra i residenti avrebbe possibilità di sconfiggere la Tav (non ricordo che un referendum in loco sia stato evocato dai contrari al ponte tra Scilla e Cariddi).
Devo insomma notare, ed è questo il punto, che ci sono intollerabili trasformazioni di luoghi bellissimi che si compiono con il gradimento pressoché totale e decisivo delle popolazioni residenti. Si pensi al solido consenso di cui godono localmente i villaggi turistici che passano per fortunate occasioni di crescita economica (ignobili speculazioni nella maggior parte dei casi, vantaggio di pochissimi e a discapito di risorse naturali e delle generazioni future).
Lo constatiamo da tempo in Sardegna. Da mezzo secolo il territorio dell'isola è eroso soprattutto per scelte dei comuni, a volte di comuni molto piccoli che rivendicano il diritto a scegliere in casa loro e che non sopportano le intromissioni. Non sono mancate manifestazioni per CostaSmeralda2 con il sindaco in testa al corteo. Così chilometri e chilometri di coste e campagne sono stati compromessi per il deliberato di amministratori eletti da qualche centinaio di persone. Troppo pochi, si converrà, rispetto al valore di beni che appartengono ad una comunità assai più vasta.
Le case al mare non hanno l'impatto duro di una discarica o di una montagna che ti si spacca sotto gli occhi. Il danno è subdolo e progressivo, avvertito oltre una certa soglia, quando è irreversibile. L'Italia brutta e inquinata e dissestata è soprattutto il prodotto di questo consenso locale (vogliamo considerare le complicità, luogo per luogo, data a schiere di abusivi?)
Il dibattito sul piano paesaggistico ha evidenziato in Sardegna molte contrarietà perché sottrae potere decisionale ai comuni su beni appartenenti a un più ampio sodalizio. Ecco, la necessità richiamata da Sofri di conoscere il parere dei valligiani («un elemento in più, e non dei minori, per regolarsi»), ha una sua logica. Ma senza il pregiudizio in agguato che lo sguardo da vicino sia quello più utile a capire. Perché sempre di più abbiamo bisogno di sguardi da diversa distanza: solo attenzioni molteplici e concorrenti ci possono aiutare nella battaglia per la difesa di ciò che resta del paesaggio italiano.
«Soldi spesi finora? Chi lo sa…». Basta la risposta di Fabrizio Barca, il ministro delegato al problema, a dare il quadro, agghiacciante, di come è messa l'Aquila quasi tre anni dopo il terremoto del 2009. Nel rimpallo di responsabilità ed emergenze, dopo gli squilli di tromba iniziali, s'è perso il conto. Un numero solo è fisso: lo zero. Quartieri storici restaurati: zero. Palazzetti antichi restaurati: zero. Chiese restaurate: zero. Peggio: prima che fossero rimosse le macerie (zero!), è stata rimossa l'Aquila. Dalla coscienza stessa dell'Italia.Il Ministero dei Beni Culturali di Mario Serio e quello odierno.
È ancora tutto lì, fermo. Le gonne appese alle grucce degli armadi spalancati nelle case sventrate, i libri caduti da scaffali in bilico sul vuoto, le canottiere che, stese ad asciugare su fili rimasti miracolosamente tesi, sventolano su montagne di detriti e incartamenti burocratici. Decine e decine di ordinanze, delibere, disposizioni, puntualizzazioni, rettifiche e precisazioni che ammucchiate l'una sull'altra hanno fatto un groviglio più insensato e abnorme di certe spropositate impalcature di tubi innocenti e snodi e raccordi che a volte, più che un'opera di messa in sicurezza, sembrano l'opera cervellotica di un artista d'avanguardia. Ti avventuri per le strade immaginandoti un frastuono di martelli pneumatici e ruspe e betoniere e bracci di gru che sollevano cataste e carriole che schizzano febbrili su e giù per le tavole inclinate. Zero. O quasi zero. Tutto bloccato. Paralizzato. Morto. Come un anno fa, come due anni fa, come tre anni fa. Come quando la protesta del popolo delle carriole venne asfissiata tra commi, virgole e codicilli.
«Noi sottoscritti ufficiali di Pg... riferiamo di aver proceduto, alle ore 10.20 circa odierne, in corso Federico II, di fronte al cinema Massimo, al sequestro di quanto in oggetto indicato perché utilizzato dal nominato in oggetto per una manifestazione non preavvisata...». Trattavasi di «una carriola in pessimo stato di conservazione con contenitore in ferro di colore blu con legatura in ferro sotto il contenitore e cerchio ruota di colore viola» oltre a «una pala con manico in legno».
Sinceramente: se lo Stato italiano avesse affrontato il problema della ricostruzione con lo stesso zelo impiegato nel reprimere l'esasperazione sacrosanta degli aquilani, saremmo a questo punto, trentacinque mesi dopo? Quaranta persone che quel giorno entrarono nella zona rossa per portare via provocatoriamente le macerie sono ancora indagate. Quanti soldi sono stati spesi per questo procedimento giudiziario surreale, oltre al tempo gettato inutilmente per compilare verbali e riempire i magazzini di grotteschi corpi di reato? Boh!
Si sa quanto fu speso per gli accappatoi dei Grandi nei tre giorni del G8: 24.420 euro. Quanto per ciascuna delle «60 penne in edizione unica» di Museovivo: 433 euro per un totale di 26.000. Quanto per 45 ciotoline portacenere in argento con incisioni prodotte da Bulgari per i capi di Stato: 22.500 euro, cioè 500 a ciotolina. Quanto per la preziosa consulenza artistica di Mario Catalano, lo scenografo di Colpo grosso chiamato a dare un tocco di classe, diciamo così, al summit: 92 mila euro. Quanto è stato speso in tutto, però, come detto, non lo sanno ancora neanche gli esperti («Avremo le idee chiare a metà marzo», confida Barca) messi all'opera da Monti.
Intanto il cuore antico dell'Aquila agonizza. E con L'Aquila agonizzano i cuori antichi di Onna e Camarda e gli altri centri annientati dalla botta del 6 aprile 2009. Ridotti via via, dopo le fanfare efficientiste del primo intervento («Nessuno al mondo è stato mai così veloce nei soccorsi!») a un problema «locale». Degli abruzzesi. E non una scommessa «nazionale». Collettiva. Sulla quale si gioca la capacità stessa dello Stato di dimostrarsi all'altezza. In grado di sanare le ferite prima che vadano in putrefazione. Chiusa la fase dell'emergenza l'Abruzzo è piombato nel dimenticatoio. Come se la costruzione a tempo di record e al prezzo stratosferico di 2.700 euro al metro quadro dei Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili, le famose C.a.s.e. dove sono state trasportate 12.999 persone, avesse risolto tutto. «Adesso tocca agli enti locali», disse Berlusconi. E dopo il G8 e la passeggiata con Obama non si è praticamente più visto. Rarissime pure le apparizioni di altri politici. Mentre il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci metteva come al solito una pezza: tre visite.
Cos'è rimasto, spenti i riflettori, di quella generosa esibizione muscolare sulla capacità di «fare bene, fare in fretta»? Le cose fatte nei primi mesi. La riluttanza di Giulio Tremonti ad aprire i cordoni della borsa. L'addio di Guido Bertolaso. La disaffezione del Cavaliere che, osannato dalle tivù amiche per le prime case donate a fedeli in delirio, si è via via disinteressato del centro storico, che secondo la «leader delle carriole» Giusi Pitari avrebbe visto «solo due volte, nei primi due giorni».
Resta una rissa continua, estenuante, sul cosa fare «dopo». Travasata via via nelle campagne elettorali per le provinciali, per le europee e oggi per le comunali. Di qua la destra, di là la sinistra. Di qua il governatore berlusconiano Giovanni Chiodi, commissario straordinario per la ricostruzione, di là il sindaco democratico del capoluogo (ora ricandidato dopo le primarie) Massimo Cialente.
Il primo picchia sul secondo: «Lo stallo è frutto della saldatura di interessi locali, dai professionisti alle imprese, che hanno sbarrato la porta a competenze esterne. Avevo raccolto le disponibilità di un trust di cervelli bipartisan, da Paolo Leon a Vittorio Magnago Lampugnani, ma non li hanno voluti. Un atto di arroganza. Il fatto è che la politica locale non ha esercitato la leadership».
Il secondo, che fino al momento in cui fece sbattere la porta era vicecommissario, spara sul primo: «A parte il fatto che lui sta a Teramo, a Roma o da altre parti e all'Aquila lo vediamo raramente, è stato un muro di gomma». Un esempio? «La ricostruzione degli alloggi periferici. Per sei mesi si è dovuto attendere il prezziario regionale, con il risultato che nessuno ha potuto presentare i progetti». E mostra una lettera spedita a Chiodi per sollecitare un contributo di 630 mila euro destinato a Paganica: «È un mese e mezzo che lo tiene fermo sul tavolo. Gli ho scritto: "Questi non sono i tempi di un commissario ma i tempi, forse, di un piantone"».
Veleni. Che sgocciolano su tanti episodi. Come quei 3 milioni di euro stanziati dall'ex ministro Mara Carfagna per un centro antiviolenza, che invece sarebbero stati dirottati un po' per i lavori della Curia e un po' per la struttura della consigliera di parità della Regione. O ancora i due milioni messi a disposizione dall'ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni per un centro giovani, milioni che secondo il sindaco sarebbero chissà come evaporati.
Per non dire delle chiacchiere intorno a una struttura nuova di zecca tirata su mentre tanti edifici d'arte sono ancora in macerie: il San Donato Golf Hotel a Santi di Preturo, pochi chilometri dal capoluogo. Sessanta ettari di parco in una valletta verde, quattro stelle, conference center, centro benessere... Inaugurato a ottobre con la benedizione di Gianni Letta, ha scritto abruzzo24ore.tv, «è meglio noto come l'hotel di Cicchetti». Vale a dire Antonio Cicchetti, ex direttore amministrativo della Cattolica di Milano, uomo con aderenze vaticane, stimatissimo da Chiodi e Letta nonché vicecommissario alla ricostruzione.
Ma il resort è qualcosa di più d'un albergo di famiglia. Nella società che lo gestisce, la Rio Forcella spa, troviamo parenti, medici di grido, uomini d'affari. E molti costruttori: il presidente dell'Associazione imprese edili romane Eugenio Batelli, Erasmo Cinque, la famiglia barese Degennaro... Ma anche la Cicolani calcestruzzi, fra i fornitori di materiali per il post terremoto e una serie di imprenditori locali. Come il consuocero di Cicchetti, Walter Frezza, e suo fratello Armido, i cui nomi sono nell'elenco delle ditte impegnate nel progetto C.a.s.e. e nei puntellamenti al centro dell'Aquila: per un totale di 23 milioni. Appalti, va detto, aggiudicati prima della nomina di Cicchetti. Però... Né sembra più elegante la presenza, tra i soci del resort, dell'ex vicepresidente della Corte d'appello aquilana Gianlorenzo Piccioli, nominato un anno fa da Chiodi consulente (60 mila euro) del commissariato.
L'intoppo più grosso però, come dicevamo, è il groviglio di norme, leggi e regolamenti. Gianfranco Ruggeri, titolare di uno studio di ingegneria, li ha contati: 70 ordinanze della Presidenza del Consiglio, 41 disposizioni della Protezione civile, 96 decreti del commissario. Più 606 (seicentosei!) atti emanati dal Comune dell'Aquila. Senza contare una copiosa produzione di circolari interne. Massa tale che a volte una regola pare in plateale contraddizione con l'altra. Un delirio.
Non bastasse, c'è la «filiera». Una specie di cordata para-pubblica che gestisce le istruttorie. I progetti si presentano a Fintecna, società del Tesoro. Poi vanno a Reluis: la Rete laboratori universitari di ingegneria sismica, coordinata dalla Federico II di Napoli. Quindi al Cineas, consorzio di cui fanno parte 46 soggetti, dal Politecnico di Milano a compagnie assicurative quali Generali e Zurich, che si occupa dell'analisi economica delle pratiche. A quel punto il percorso per avere il contributo erogato dal Comune è completo. Teoricamente, però. Nella sostanza non capita quasi mai al primo colpo. E la pratica rimbalza dentro la filiera come una pallina da flipper.
La Cineas ha valutate positivamente 4.163 delle 8.722 pratiche per le abitazioni periferiche? Ebbene, il Comune ha emesso contributi per sole 2.472 di loro, a causa di vari motivi. Per esempio il fatto che ben 1.138 riguardano singoli appartamenti, ma siccome manca la pratica condominiale a chiudere il cerchio, il finanziamento non può scattare. E nemmeno i lavori. Perché allora non prevedere una pratica unica per ogni condominio? Misteri...
Il risultato di tanti impicci è paradossale: in una città da ricostruire i costruttori mettono gli operai in cassa integrazione e licenziano i dipendenti. E quello che doveva essere il motore della ripresa è fermo. L'opposto esatto di quanto accadde in Friuli, esempio accanitamente ignorato a partire dal coinvolgimento dei cittadini. Il Friuli si risollevò per tappe: prima in piedi le fabbriche, poi le case, poi le chiese. Qui le fabbriche non hanno visto un euro, il miliardo promesso per rilanciare le attività è rimasto in cassa e l'economia è allo stremo. Si è preferita la strada della Protezione civile, del commissario, degli effetti speciali assicurati dalle C.a.s.e. spuntate come funghi dopo il sisma. Quelle con le «lenzuola cifrate e una torta gelato con lo spumante nel frigorifero». Peccato che adesso, dopo le fanfare e i tagli dei nastri, stiano saltando fuori anche le magagne. Alcune ditte che le hanno costruite sono fallite e non si sa chi deve risolvere certi guai. Come a Colle Brincioni, dove dopo le nevicate di febbraio si è dovuta puntellare una scala.
Sarebbe ingeneroso dire che sia stato tutto un fallimento. Ma dopo la fase dell'emergenza serviva un colpo di reni degno di questo Paese. E quello no, non c'è stato. A tre anni dal terremoto ci sono ancora 9.779 aquilani in «autonoma sistemazione». Persone che hanno perduto la casa e si sono arrangiate. Qualcuno di loro magari pregusta un appetitoso minicondono per le casette che hanno potuto costruire nel giardino dell'abitazione crollata. Nelle aree del terremoto ce ne sono la bellezza di quattromila. Ma è una magra consolazione. Anzi, rischiano alla lunga di essere, con l'attesa sanatoria, una ferita in più nella immagine della città antica da ricostruire.
Per le «autonome sistemazioni» lo Stato continua a pagare 100 mila euro al giorno. Una quarantina di milioni l'anno, a cui bisogna aggiungere la spesa per i 383 abruzzesi ancora in alberghi o «strutture temporanee» come la caserma delle Fiamme Gialle di Coppito, dove sono in 147. Il tutto va a sommarsi al totale, come dicevamo ignoto, sborsato finora. Una cifra nella quale ci sono i costi delle famose C.a.s.e. (808 milioni), dei Map, i Moduli abitativi provvisori che ospitano fra L'Aquila e gli altri Comuni ben 7.186 persone (231 milioni), dei Musp, i Moduli a uso scolastico provvisorio (81 milioni) e dei Mep, Moduli ecclesiastici provvisori (736 mila euro). Ma anche dei puntellamenti dei centri storici: solo per L'Aquila 152 milioni. Più i soldi per la prima emergenza (608 milioni) e i contributi già erogati per la ricostruzione delle case private: un miliardo e 109 milioni. Nonché i compensi della «filiera»: altri 40 milioni l'anno. E le opere pubbliche, le tasse non pagate, i costi delle strutture commissariali e dei consulenti... Il conto è salatissimo, ed è destinato a crescere esponenzialmente. Basta dire che per le sole abitazioni periferiche si dovrebbero spendere 1.524 milioni. E almeno il doppio per quelle del centro. Poi le chiese, le fabbriche, i ponti, le strade...
Ma L'Aquila vale il prezzo. Qualunque prezzo. È inaccettabile che si vada avanti così, navigando a vista, mentre uno dei centri storici più belli d'Italia si sbriciola, popolato soltanto di rari operai ai quali fanno compagnia ancora più rari cani randagi. Case disabitate, chiese vuote, negozi chiusi. Non si può accettare che il terremoto diventi solo il pretesto per far circolare del denaro, foraggiando una burocrazia inefficiente e strapagata, stormi di consulenti famelici, campioni del mondo di varianti in corso d'opera e revisioni prezzi, con l'unico obiettivo di impedire che la giostra infernale si fermi.
Un secolo e mezzo fa, scrivono Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise nello studio Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni, la nuova Italia savoiarda commise un errore storico ignorando la tragedia del sisma catastrofico avvenuto nel 1857 in Basilicata ai tempi in cui era sotto i Borboni: «La sfida delle ricostruzioni fu forse una delle prime perse dal nuovo regno». Se lo ricordi, Mario Monti: la rinascita dell'Aquila è una sfida anche per lui.
In molti ricordano come una doccia fredda le parole che Napolitano pronunciò durante una visita a Venezia nel 2007: “Pare anche a me incontestabile l’importanza – in una visione unitaria responsabile delle priorità da osservare e delle scelte da compiere sul piano nazionale, in materia di grandi opere e di trasporti – del corridoio autostradale Civitavecchia-Venezia come naturale integrazione del corridoio europeo numero 5 da Lisbona a Kiev. Il progetto, anche come project financing, che è stato apprestato, merita una tempestiva valutazione di impatto ambientale, cui consegua senza indugio un avvio dei lavori”.
Insomma, anche la Mestre-Civitavecchia ottenne l’appoggio del Capo dello Stato addirittura con un invito alla valutazione di impatto ambientale e l’indicazione che doveva conseguirne l’avvio dei lavori. Mattia Donadel dei Cat, Comitati Ambiente e Territorio del Veneto, non nasconde la sua perplessità: “A Torino il presidente della Repubblica ha fatto un richiamo al rispetto della legge. Ci chiediamo se ci sia altrettanta attenzione alle regole da parte di chi realizza i grandi progetti”.
La Mestre-Civitavecchia sembrava destinata a restare nei cassetti, complice la crisi economica. Ma ecco che, con l’arrivo del governo Monti, ritorna sulla cresta dell’onda. Nelle prossime settimane il Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) dovrebbe approvare il progetto preliminare. Donadel spiega: “L’autostrada ha già superato l’esame della Via, la Valutazione di Impatto Ambientale. Ma il comitato ha chiesto che diversi punti siano riesaminati. Secondo noi, questo vuol dire che l’opera, con le necessarie modifiche, dovrebbe ripassare l’esame della Via. Invece, approderà lo stesso al Cipe. Questo significa rispettare le regole come chiede Napolitano?”, si domandano i Cat.
La Mestre-Civitavecchia toccherebbe mezza Italia: si parte dal Veneto, sfiorando Laguna di Venezia e Riviera del Brenta. Poi giù a due passi dal Delta del Po, attraversando l’Emilia Romagna, toccando Marche e Toscana, in alcune tra le zone più belle del Paese. Siamo a una manciata di chilometri dalla Valmarecchia cantata dal poeta Tonino Guerra. Quindi l’Umbria. Qui, secondo uno studio del Wwf, 37 siti archeologici sarebbero a meno di mezzo chilometro dall’autostrada. Tanto che il Wwf sostiene: “Il progetto, almeno nel tratto umbro, non pare conforme alla legge Galasso”. Ma i comitati indicano un altro elemento che lega la Tav con la Mestre-Civitavecchia: l’appoggio bipartisan dei partiti. Il progetto, come ha scritto Il Sole 24 Ore, è firmato da Vito Bonsignore che guida una cordata di imprese. Bonsignore è un eurodeputato Pdl noto per la sua fortuna imprenditoriale. Il suo nome ricorreva nelle intercettazioni Antonveneta: una in particolare tra Massimo D’Alema e Giovanni Consorte (numero uno di Unipol, travolto dallo scandalo).
E il centrosinistra? Pierluigi Bersani ha guidato l’Associazione Nuova Romea che si batte per l'opera. Il 28 ottobre 2008, il segretario Pd ha presentato un’interrogazione alla Camera. Un atto che pare preso con il “taglia incolla” da un dossier della Fondazione Nord-Est di Confindustria (ammesso che non sia accaduto il contrario). Bersani spiega: “La vecchia Romea ha un tasso di mortalità di 97,22 morti ogni mille incidenti… In cinque anni si contano 5.950 feriti e 37 persone che hanno perso la vita. È la strada più pericolosa d'Italia”. I comitati replicano: “Vero, ma perché costruire un’autostrada invece di renderla più sicura? Con quei 10 miliardi si potrebbe risolvere il problema della sicurezza stradale in tutta Italia”.
Caro presidente Monti, l’8 gennaio a Che tempo che fa le ho donato una copia del mio libro Prepariamoci e Lei, squisitamente, mi ha stretto la mano e detto “Ne abbiamo bisogno”. Un mese dopo assieme ad alcune centinaia di docenti di atenei italiani, ricercatori e professionisti (inclusi Vincenzo Balzani, Luciano Gallino, Alberto Magnaghi, Salvatore Settis) firmavo un appello per sollecitare una Sua riconsiderazione delle argomentazioni tecnico-economiche a supporto della linea ad alta capacità Torino-Lione, che da anni risultano non convincenti. A tutt’oggi non solo non è giunto un Suo cenno di considerazione, quanto piuttosto la perentoria affermazione che i dati sono definitivi e invarianti, le decisioni sono assunte, il progetto deve andare avanti anche manu militari. Non mi aspettavo una tale chiusura, ora fonte di una profonda spaccatura in una parte del mondo intellettuale e scientifico italiano.
Il dialogo, soprattutto tra rappresentanti dell’ambito della ricerca usi ad argomentare secondo il metodo scientifico, non si dovrebbe mai negare nei paesi democratici, a maggior ragione allorché la controversia assume vaste proporzioni coinvolgendo l’ordine pubblico e sollevando una quantità di dubbi, ambiguità e contraddizioni che invitano a un’ulteriore dose di prudenza e approfondito riesame. Ciò non è purtroppo avvenuto, ed è motivo di profonda frustrazione da parte di molti di noi. A nulla è servita la lucida presa di posizione di Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino, già membro dell’Osservatorio tecnico, sui vizi procedurali del processo decisionale tanto difeso come il migliore possibile, a nulla la precisazione di Monica Frassoni dei Verdi europei sulla labile politica comunitaria dei trasporti ancora tutta da consolidare e sbandierata invece come patto d’acciaio da rispettare senza se e senza ma. L’elenco di atti e studi incongruenti, unito a un insopportabile tasso di menzogne mediatiche, è così lungo che da solo basterebbe a fermare, vieppiù in questo momento di crisi, ogni decisione su questo fronte, a favore di altre priorità che non pongono dubbi di sorta: ammodernamento della rete ferroviaria esistente, cura del dissesto idrogeologico, riqualificazione energetica degli edifici, arresto del consumo di suolo, riduzione dei rifiuti, restauro del patrimonio culturale, estensione capillare della connettività Internet, garanzie di assistenza sanitaria e didattica pubblica, per perseguire le quali non si sono mai visti blindati e manganelli! Un mito aleggia sopra quel tunnel impedendo a politici, giornalisti e cittadini di alzare il velo e chiedersi come stanno veramente le cose, anche in Francia dove i lavori non sono affatto iniziati. È forse il mito futurista della velocità sferragliante, peraltro sorpassato dall’aereo e dal bit, unito all’illusione che da quel buco, e solo tra vent’anni, defluiscano da ovest prosperità e progresso? Eppure già oggi chiunque voglia andare a Parigi o alle Maldive lo può fare quando e come desidera! Ma la mancanza di quel tunnel sotto il massiccio dell’Ambin, infrastruttura rigida e obsoleta nelle sue finalità, foriera di debiti insanabili come dimostrato dalla Corte dei Conti su progetti analoghi, vorace di energia e prodiga di emissioni climalteranti, sembra privi tutti di un talismano viscerale. Personalmente, come ricercatore e giornalista, il rifiuto a discutere l’estrema complessità di questo progetto, mi avvilisce, e mi annienta come cittadino. Faccio mia l’accurata analisi sociologica di Marco Revelli confermando che in me il patto civile con lo Stato sta andando in frantumi. La fiducia nelle istituzioni, da me sempre onorata – dal servizio militare (alpino, ovviamente!) al pagamento delle imposte – sta venendo meno e ora un grande vuoto alberga in me. Non resta che un grido di disperazione di fronte a tanto disprezzo e a tanta arrogante violenza fisica e ancor più psicologica esercitata dalle istituzioni su una comunità. Violenza silente, della quale non si parla mai perché offuscata dalle sassaiole, ma dimostrata in questi casi dai lavori del geografo Francesco Vallerani e dagli psicologi Roberto Mazza dell’Università di Pisa e Ugo Morelli dell’ateneo bergamasco. Quel grido chiede ascolto, e ovviamente discussione argomentata e rigorosa. Invece ci si sente dire: rispettiamo chi ha posizioni contrarie, ma andiamo avanti lo stesso con le ruspe, applicando “un mix di dissuasione e repressione”. Ma allora a cosa serve esprimere posizioni contrarie se non vengono discusse le ragioni del no? Mauro Corona la chiama “democratura”. Al liceo, Silvio Geuna, medaglia d’argento al valor militare, ci diceva che alla sua età avanzata aveva solo il ruolo di plasmare i valori della futura classe dirigente. Oggi a 46 anni, noto che il mio futuro continua a essere determinato da anziani signori con idee molto diverse dalle mie e quindi dichiaro fallito l’investimento culturale e civile su di me da parte della nazione.
Peggio ancora si sentono i giovani ricercatori della generazione che mi segue che vedono sbarrate le possibilità di indirizzare il loro futuro in direzioni differenti da quelle oggi dominanti e perniciose. Come diventerà dunque la nostra società che annienta i germi di riflessione sull’avvenire proprio quando l’instabilità epocale alla quale andiamo incontro richiederebbe il massimo della cooperazione di saperi e proposte non convenzionali? Avremo quel buco, forse, tra tanti anni, ma che ne sarà del resto attorno? Il governatore Cota si è chiesto da dove prendono i soldi i No-Tav: da migliaia di ore di lavoro volontario, sottratto a svago e famiglia, si chiama partecipazione civile. Con molta amarezza rifletto dunque se sia utile impegnarsi per la difesa dei beni comuni o se sia meglio spendere la propria esistenza in occupazioni più divertenti. Se arriverò a quell’ultima conclusione, restituirò la mia qualifica di cittadino e opererò soltanto per mio bieco interesse.