Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le "Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali" o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata - in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre - perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato "assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce."
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.
L'articolo 44, in discussione al Senato il 28 marzo, indebolisce la legge Urbani del 2004 che definiva "insanabile" qualunque intervento non autorizzato su edifici di valore storico e ambientale. Il nuovo testo prevede invece una parziale depenalizzazione. Le associazioni ambientaliste esortano il Parlamento a disinnescare gli effetti del provvedimento.
Il titolo è rassicurante: “Semplificazioni in materia di interventi di lieve entità”. Ma l’articolo 44 del nuovo decreto legge (semplificazioni e sviluppo), che sarà discusso nuovamente da mercoledì prossimo al Senato, nasconde scappatoie per delitti ambientali: una sorta di condono mascherato che non sembra affatto di lieve entità. Già passato alla Camera indenne, l’articolo 44 – sufficientemente fumoso da sembrare, a prima vista, del tutto innocuo – dovrebbe rendere più semplici gli adempimenti riparatori qualora sia stato commesso un abuso edilizio in aree di particolare valore paesaggistico e su beni di importante valore storico culturale. Ma più che semplificare, l’articolo apre la strada a nuovi abusi che saranno puniti meno severamente
Le modifiche introdotte si riferiscono a una legge dello Stato – innovativa in materia ambientale – che nel 2004 fu firmata dall’allora ministro per i Beni culturali Giuliano Urbani e nella quale il legislatore aveva definito assolutamente inestinguibili e insanabili tutta una serie di abusi che violavano le leggi di tutela del paesaggio, anche urbano, e dei beni culturali di primaria importanza pubblica. In sostanza, se spostare una finestra può adesso costare solo un’ammenda e il piccolo abusivo se la può cavare con una sanzione amministrativa, se mette mano a modifiche non autorizzate di un edificio tutelato per il suo valore culturale – modifica ad esempio la merlatura di un castello – rischia sino a quattro anni di carcere. Che ora potrebbero sparire, se non in casi di estrema gravità.
Di fatto, se un bravo avvocato vi aiuta decifrare la gimcana tra commi, regolamenti e riferimenti giuridici, l’articolo depenalizza tutta una serie di reati che fino ad ora la legge sanzionava anche con il carcere senza la condizionale. “Delitti ambientali” che potrebbero diventare semplici abusi da sanzionare. Il problema non è tanto se si sposta una finestra o si cambia il caminetto di casa propria, ma se si mette mano con operazioni speculative su un castello, un edificio storico, un paesaggio (in molti casi sono vincolate anche le piante di alto fusto). Quel che molti temono è che adesso, con la modifica del Codice urbani, sarà meno rischioso compiere abusi edilizi gravi su beni tutelati e quindi in qualche maniera collettivi anche se, ovviamente, l’ultima parola spetta alle interpretazioni dei tecnici comunali, delle Soprintendenze e, infine, dei magistrati. Non è che la nuova normativa faccia carta straccia della vecchia legge. Ma l’articolino inserito nel decreto “lenzuolo” delle semplificazioni (che dopo il Senato tornerà alla Camera) apre la porta a una nuova stagione di abusi: possibili ecomostri sanzionabili primi col carcere, adesso riparabili col portamonete.
Il mondo degli ambientalisti italiani, ma anche i magistrati che si occupano di tutela ambientale, temono non tanto un colpo di spugna sul passato, ma una nuova era di sfregi all’ambiente, al paesaggio, agli immobili di pregio del Belpaese.
Guido De Maio, presidente titolare della III sezione penale di Cassazione (qui l’intervista a De Maio) esprime la «preoccupazione di coloro che hanno a cuore le sorti del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese». Rosalba Giugni, presidente di MareVivo e una delle prime ambientaliste italiane a essere venuta a conoscenza dell’articolo nascosto nelle pieghe del decreto, aggiunge carne al fuoco: «In un momento in cui i nostri Beni culturali e ambientali sono sotto attacco, un peggioramento della legge o un allentamento della maglia che tiene a bada gli abusi viene visto dal mondo ambientalista con grande timore. Ci auguriamo che ci sia un grande dibattito parlamentare e ci auguriamo un’attenzione particolare da chi ama il nostro maggior gioiello e il nostro maggior bene primario. I paesaggi, i centri storici, le coste e la natura».
Fortunatamente anche qualche parlamentare ci ha fatto caso. Anzi, per la verità uno soltanto in maniera orizzontale. Il senatore dell’Idv Francesco Pardi, che ha presentato, in Commissione Affari costituzionali, un emendamento che chiede la soppressione dell’intero articolo. In cui, secondo il parlamentare, ci sarebbe anche un’eccezione di congruità giuridica della norma che di fatto viola lo spirito del cosiddetto “Codice Urbani” (Codice dei beni culturali e del paesaggio), la legge che ormai quasi dieci anni fa modificò la legislazione sugli abusi rendendola più specifica e nettamente punitiva. Un passo indietro dunque rispetto a quella che allora apparve come invece come un primo deciso passo avanti a tutela del paesaggio in senso lato.
In buona sostanza si tratta di una modifica di alcune parti dell’articolo 181 che prevede ora due distinte ipotesi di reato: la prima (comma 1) è semplicemente una contravvenzione, punita con l’arresto fino a due anni (quindi coperto dalla condizionale) e un’ammenda; l’altra (comma 1-bis), nella quale si sottolinea la gravità dell’abuso su beni vincolati di particolare interesse pubblico (evidentemente non quello di spostare una porta), configura l’azione come un delitto e lo punisce con la reclusione da uno a quattro anni. La gravità riguarda infatti lavori abusivi in aree vincolate o su beni dichiarati di notevole interesse pubblico e che quindi necessitano di maggiori tutele. A tal punto che, secondo la legge attuale, il reato non si estingue nemmeno quando il trasgressore ripristina spontaneamente la situazione precedente all’abuso (abbattendo o risistemando le cose come erano prima).
In attesa che in parlamento si discuta del caso, viene da chiedersi per quale motivo il ministero di Beni culturali, che ha introdotto la modifica nel “lenzuolo” delle semplificazioni, abbia deciso la controversa innovazione. Necessità di cassa? O semplicemente il primo scivolone del professor Lorenzo Ornaghi?
Retroscena. Il segretario accusa il premier di aver disatteso i patti. Ed è furibondo con chi (Letta e Fioroni) dà per scontato il sì alla riforma. D’Alema sferza gli iper-montiani. E nella sala Berlinguer della Camera si arriva allo scontro.
«Il Pd? È un partito finito. Monti ha fregato Bersani. E noi siamo stati dei fessi», dice il deputato Stefano Esposito attraversando nervosamente il Transatlantico.
Lo sfogo del parlamentare torinese, che è un bersaniano doc, offre la rappresentazione plastica di un partito diviso di due tronconi. Che, dopo la svolta del governo sull’articolo 18, hanno le pratiche di divorzio in mano. E che, alla fine dell’iter parlamentare della riforma del welfare, potrebbero davvero prendere due strade diverse. «I patti non erano quelli», prosegue la riflessione di Esposito. «E anche noi, ripeto, siamo stati dei fessi. Ci siamo concentrati sull’attacco a Corrado Passera. Ma non avevamo capito che il vero pericolo sarebbe stata la Fornero».
Tra martedì e ieri, i fedelissimi di Bersani l’hanno ripetuta all’infinito, la storia dei «patti» non rispettati da Monti. E prima di andare a Porta a Porta (troppo tardi per darne conto sul Riformista), il segretario dei Democratici l’ha spiegato privatamente fino allo sfinimento: «Ci era stato garantito che nella riforma dell’articolo 18 sarebbe stata prevista la possibilità del reintegro anche nei casi di licenziamento per motivi economici. Come previsto dal modello tedesco. E io l’avevo assicurato alla Cgil, che avrebbe firmato. Invece...».
Invece, martedì al tramonto, questo comma esce dai radar di Palazzo Chigi. E Monti si precipita in conferenza stampa a dichiarare «chiusa» la questione dell’articolo 18. Aprendo quella resa dei conti che Bersani pensava di poter rinviare a dopo le amministrative.
È furibondo, il leader del Pd. Col governo, certo. Ma anche con chi, come il vicesegretario Enrico Letta e l’ex ministro Beppe Fioroni, aveva già anticipato a caldo il «sì scontato» al provvedimento del governo. «Ai dirigenti del mio partito, specie in passaggi delicati come questo, consiglierei maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni», scandisce Massimo D’Alema inviando - dalle telecamere del Tg3 - un messaggio all’ala iper-montiana del Pd. Non foss’altro perché, nell’analisi del presidente del Copasir, il testo della riforma Fornero «è confuso e pericoloso».
Anche le aree di Dario Franceschini e Rosy Bindi annunciano battaglia. Il capogruppo, che invita il governo a fermarsi, esce a prendere una boccata d’aria del cortile di Montecitorio dopo il voto di fiducia sulle liberalizzazioni. «Il governo sta sottovalutando l’impatto che questa riforma avrà nell’opinione pubblica», dice. «Non vorrei che Monti trascurasse il fatto che gli italiani sono un popolo abituato ad avere una rete di garanzie che non può essere smembrata integralmente», aggiunge.
È l’esatto opposto di quello che pensano lettiani e veltroniani. «Lasciamo perdere l’articolo 18 e insistiamo sulla necessità di estendere le tutele ai precari», sottolinea il deputato-economista Francesco Boccia. «In Parlamento dobbiamo impegnarci a migliorare il testo, puntando ad esempio a estendere il reddito d’inserimento a molte più persone», aggiunge.
Giorgio Napolitano prova a gettare acqua sul fuoco dello scontro tra le forze politiche e sindacali. «Attendiamo di vedere come va giovedì», dice il capo dello Stato dalle Cinque Terre. Ma la guerra tra i «due Pd», nel frattempo, s’è già trasformato in uno psicodramma.
Nella sala di Montecitorio che porta il nome di Enrico Berlinguer, dove di solito si riunisce l’assemblea dei parlamentari del Pd, nel pomeriggio va in scena un seminario a porte chiuse sul lavoro. Era in programma da tempo. Il destino ha voluto che si celebrasse proprio ventiquattr’ore dopo la riunione decisiva di Palazzo Chigi sulla riforma del welfare. «Non è detto che voteremo a favore. Questo provvedimento è un errore», dice il parlamentare Paolo Nerozzi, già uomo-macchina della Cgil. «Anche se dovessero mettere la fiducia, il mio voto non sarebbe scontato», gli fa eco l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano. A favore del tandem Monti-Fornero intervengono invece Tiziano Treu e Pietro Ichino. «Non avete capito. Fatemi spiegare meglio», insiste quest’ultimo nel tentativo di mettere a fuoco i vantaggi che la riforma porterà ai lavoratori italiani. È il momento in cui arrivano le urla. La deputata Teresa Bellanova, arrivata in Parlamento nel 206 dopo trent’anni nel sindacato di Corso d’Italia, perde la pazienza: «Allora, caro Ichino, non è che noi non abbiamo capito. È che non siamo d’accordo né con quello che dici né con la riforma del governo. Te lo vuoi mettere in testa oppure no?». E il fantasma della scissione sembra avvicinarsi. Sempre di più.
Le dichiarazioni del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Lorenzo Ornaghi, sull’intenzione del suo Dicastero di promuovere al più presto una nuova legge quadro sul governo del territorio, trovano pienamente d’accordo l’Istituto Nazionale di Urbanistica. Lo ha detto Federico Oliva, Presidente dell’Inu, commentando quanto detto dal Ministro Ornaghi la settimana scorsa in Senato.
“Negli ultimi anni - spiega Oliva in una nota - l’Inu si è impegnato per l’indispensabile riforma urbanistica, da attuarsi con l’approvazione di una legge sui principi fondamentali del governo del territorio, come vuole la riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001”.
Il Presidente dell’Inu ricorda, oltre a quelli elencati dal Ministro, altri temi che dovranno necessariamente trovare spazio nella nuova legge:
- la riforma del piano, già affrontata da molte Regioni;
- la scelta generalizzata della riqualificazione urbana insieme a quella del contenimento radicale del consumo di suolo;
- la definizione con una normativa dello Stato di strumenti da tempo presenti nelle leggi regionali ma mai consolidati giuridicamente come la perequazione e la compensazione urbanistica;
- una nuova normativa relativa ai diritti edificatori, alla loro trasferibilità e la loro commercializzazione;
- un riordino della fiscalità locale che riporti al loro uso corretto gli oneri di costruzione.
La legge in vigore risale al 1942 ed “è stata giustamente definita obsoleta dal Ministro - aggiunge Oliva. Auspico, a nome di tutto l’Inu, che il Governo presenti rapidamente la proposta di legge annunciata dal Ministro, superando la situazione di empasse che da almeno due legislature ha impedito al Parlamento di approvare i diversi progetti di legge presentati. A tale proposta l’Inu non farà mancare il massimo sostegno possibile, dichiarando la propria disponibilità a collaborare per la migliore definizione della stessa” - conclude Oliva.
Nell’informare sull’intenzione del ministro Ornaghi di proporre al Parlamento una nuova legge urbanistica presentavamo la sua iniziativa con le seguenti parole: «Meglio che dorma, se deve proporre una legge che generalizzi i bonus volumetrici, lo spostamento delle volumetrie, le modifiche a go-go delle destinazioni d'uso». Com’era prevedibile l’INU invece incoraggia Ornaghi ad andar avanti veloce sua strada: non sulle poche iniziative utili che il suo dicastero potrebbe/dovrebbe assumere (rafforzare la pianificazione paesaggistica e aumentare l’attrezzatura del sui ministero per renderlo capace di rappresentare realmente lo Stato nei suoi compiti di tutela), ma su quelle che hanno prodotto e producono la devastazione del territorio nazionale e della sua vivibilità: i diritti edificatori, la loro trasferibilità e la loro commercializzazione.
Era prevedibile; ma a volte quando si formula una previsione resta la speranza che essa non si realizzi. Non è successo, peccato.
Le associazioni chiedono che sia dichiarata l'incostituzionalità della norma: "Siamo di fronte al più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio"
Come nel libro ‘1984‘ di George Orwell, dove il ministero della Pace si occupava di fare la Guerra, le parole sarebbero usate con un significato opposto a quello ufficiale. Per la giunta regionale campana guidata dal Governatore pidiellino Stefano Caldoro (assessore all’Urbanistica il pidiellino Marcello Taglialatela), la delibera appena approvata detterebbe “norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”. Per le principali associazioni culturali e ambientaliste, tra cui Legambiente, Eddyburg, Italia Nostra, Fai – che hanno firmato un comunicato congiunto di condanna del provvedimento – siamo invece di fronte al “più grave stravolgimento sino ad ora tentato della disciplina paesaggistica, così come scritta nella nostra Costituzione, nel Codice dei beni culturali e del paesaggio, nella Convenzione europea del paesaggio”. E chiedono che ne sia dichiarata l’incostituzionalità.
Chi ha ragione? A leggere la norma prodotta dall’esecutivo, ora al vaglio delle commissioni consiliari regionali, le preoccupazioni del mondo ambientalista appaiono fondate. Leggere per credere il primo comma dell’articolo 7, dal suadente titolo “Strumenti per la pianificazione sostenibile”. Un comma che introduce il concetto di ‘ecoconto‘, che “misura l’impoverimento del valore di un determinato territorio, a seguito della sua trasformazione, e ne quantifica la necessaria compensazione per bilanciarne gli effetti”. “E’ una norma pericolosa – sostiene Fausto Martino, architetto della Soprintendenza ed ex assessore comunale all’Urbanistica di Salerno – perché ammette, in via generale e preventiva, che si possa danneggiare il paesaggio dietro pagamento”. Dando licenza di devastare agli imprenditori con molti capitali e pochi scrupoli.
E non sarebbe l’unica miccia della bomba pronta a scoppiare. Nell’articolo 15, attraverso una serie di criptici commi abrogativi di vecchie leggi, decrittabili solo dagli addetti ai lavori, si distruggono a poco a poco alcuni dei principali strumenti di protezione del territorio campano. Consentendo, ad esempio, l’applicazione del piano casa e l’incremento delle volumetrie anche nelle ‘zone rosse’ a rischio eruttivo, alle falde del Vesuvio. E cancellando alcuni Comuni del salernitano, tra cui Cava de’ Tirreni e Sant’Egidio Montalbino, dal sistema di vincoli del piano urbanistico territoriale della costiera sorrentina ed amalfitana, una legge regionale del 1987 che ha funzionato da scudo contro le mire speculative nelle zone ad alta attrattiva turistica della Campania.
La nota degli ambientalisti, prima firmataria la presidente nazionale di Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino, è durissima. Si accusa la giunta campana di aver prodotto un disegno di legge con la finalità dichiarata di “limitare i vincoli che gravano sul territorio per rilanciare il settore edilizio, e allo stesso tempo risolvere il problema dell’abusivismo con lo stravolgimento dei principi di legalità di sanzione e riparazione. Ancora una volta, nel nome di un modello economico arcaico e dissipatore, si tenta l’assalto, forse definitivo, al paese dove fioriscono i limoni”. “Non tutela del paesaggio, quindi – affermano i firmatari dell’appello – ma piuttosto una nuova puntata della discutibile avventura intrapresa con il piano casa, attraverso la quale viene sancita la rinuncia dei poteri pubblici al diritto/dovere di esercitare la sovranità territoriale nell’interesse generale”.
Fa discutere anche la scelta di trasferire la competenza dell’approvazione del futuro piano paesaggistico regionale dal consiglio alla giunta, con la commissione consiliare chiamata a fornire un semplice parere. “Giuridicamente antidemocratico” sostengono le associazioni, preoccupate che uno strumento così importante di tutela e pianificazione venga sottratto al confronto pubblico in aula tra tutte le forze politiche.
Tagliando e ritagliando, l’articolo 15 manderebbe al macero persino la legge regionale che ha costituito la riqualificazione paesistico ambientale dell’antica città di Velia nel Cilento. Una legge approvata all’unanimità nel 2005 su input del consigliere regionale Ds Nino Daniele e su mobilitazione del mondo della cultura, con le adesioni di Francesco Paolo Casavola, Gerardo Marotta, Aldo Masullo, Luciano De Crescenzo, Werner Johannowsky. La cui abrogazione comporterebbe l’addio allo stop alle nuove costruzioni in questa zona.
Su questo punto Taglialatela smentisce nettamente. E in un’intervista a Ottavio Lucarelli sulle pagine napoletane di Repubblica rimanda al mittente le preoccupazioni degli storici: “Non c’è alcun pericolo per Velia. E’ vero, è prevista l’abrogazione della legge di tutela. Ma è anche vero che quella legge non è stata mai attuata e finanziata e che comunque per Velia esistono i vincoli approvati nel 2009 per il piano del Parco del Cilento. E’ inaccettabile essere messi sotto accusa su fatti inesistenti”. E per quanto riguarda le critiche mosse dagli ambientalisti nel merito del ddl, Taglialatela ha replicato così: “Ecoconto potrà anche sembrare una brutta parola, ma è il modo in quale in tutta Europa si determinano le politiche ambientali e paesaggistiche, senza incrementi di volumetrie, individuando una serie di meccanismi compensativi attraverso la delocalizzazione degli interventi da alcune aree ad altre aree, o mettendo a disposizione un’area per riqualificare l’esistente – ha detto l’assessore al fattoquotidiano.it – Quanto alle riflessioni sul ‘costo’ del paesaggio, se chiediamo a un privato un intervento di riqualificazione ambientale, è necessario che il privato abbia un interesse, altrimenti non lo compie. Ma contrariamente a quel che pensano alcuni, non credo che gli imprenditori siano tutti palazzinari speculatori. Al contrario – ha concluso Taglialatela - gli imprenditori chiedono solo di potersi muovere tra regole certe e applicate. Agli ambientalisti va bene questa impostazione o vogliono continuare a dire sempre no a tutto?”.
Titolo originale: Gates, sprawl, and 'walking while black' – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il paese è giustamente inorridito per la tragedia di Sanford, Florida, dove un robusto e armato Vigilante di Quartiere ha inseguito, e poi ucciso a colpi di pistola, un ragazzo mingherlino che era semplicemente uscito a comprarsi delle caramelle. Chi ha sparato, il ventottenne George Zimmerman, dichiara di aver agito per legittima difesa e al momento non è stato fermato. Molti si sono soffermati sulla legge della Florida, troppo permissiva per quanto riguarda le armi da fuoco per difesa personale in qualunque situazione; o sull’indagine assai frettolosa della polizia; magari sugli aspetti razzisti dell’avvenimento. Ma si dimentica un altro fattore: uno spazio mal progettato e segregante.
Gli spari contro il diciassettenne Trayvon Martin avvengono alla Retreat at Twin Lakes, quartiere recintato di 260 case collegato al mondo circostante (o tagliato fuori dal mondo circostante, dipende da come si guarda la cosa) da arterie principali con traffico veloce e edifici commerciali. Il quartiere ha un bassissimo indice di praticabilità pedonale. The Retreat at Twin Lakes sta nel bel mezzo dello sprawl della Florida, dove quasi tutti quelli che possono si spostano in auto. E chi non guida di solito si colloca economicamente ai margini, oppure è un intrepido ragazzino – grande a sufficienza per uscire da solo ma senza auto — che si lancia ad attraversare tutte quelle corsie superando le difficoltà quasi insormontabili per un pedone. E il pedone in un ambiente del genere suscita al massimo pietà, se non automaticamente sospetti, fino al punto estremo che ha portato alla morte di Martin, andato a piedi al negozio a comprarsi Skittles e del tè freddo la sera del 26 febbraio.
Il recinto del quartiere crea una mentalità dell’assedio, dove qualcuno è considerato abitante legittimo e altri degli intrusi, come scrive ad esempio Laurence Aurbach su Pedshed. Il cancello funziona per le automobili, mentre i pedoni possono entrare e uscire abbastanza facilmente scivolando fra i cespugli che dividono il quartiere dalla superstrada. E i pedoni sono una specie abbastanza temuta da alcuni degli abitanti, come raccontava un articolo sul Palm Beach Post. “La nostra è una gated community, ma a piedi si può entrare a rubare quando si vuole” spiegava uno di loro. Poi c’è la crisi economica. The Retreat at Twin Lakes esiste da solo sei anni, ma i valori immobiliari sono crollati di colpo. Così molte case sono state affittate anziché comprate, a “gente da poco o banditi” come spiega al giornale un altro abitante.Oggi nel quartiere c’è una “maggioranza di minoranze”: 49% bianchi anglosassoni, 23% ispanici, 20% afroamericani, 5% asiatici. E la vicenda è così anche un esempio di cosa può accadere quando ci si ritrova insieme a chi si teme di più dalla stessa parte del muro.
Il comportamento di Zimmerman esprime paranoia. Dal gennaio 2011 aveva chiamato il pronto intervento più di quaranta volte, spesso parlando di “comportamenti sospetti” ovvero di qualcuno che aveva lasciato una finestra aperta, o di qualcun altro che osservava una casa. Lo si vedeva girare per il piccolo quartiere col cane, e la sua pistola (regolarmente denunciata) calibro 9, a chiedere conto a chiunque gli apparisse sospetto. Era anche piuttosto esplicito nel considerare comunque sospetti tutti giovani maschi neri, nonostante ce ne fossero parecchi abitanti nello stesso quartiere. Martin è stato ucciso in quanto giovane, nero, e pedone, sufficientemente avventato da attraversare quello spazio inospitale che lo separava dal negozio per comprare dolci.
La vittima avrebbe potuto essere chiunque corrisponde a questa descrizione. Il Palm Beach Post, ancora, racconta di un altro giovane maschio nero, che ha consapevolmente deciso di non camminare mai, a The Retreat at Twin Lakes, perché teme di essere scambiato per un intruso. Spiega il giornale: "Quando vuole camminare, al massimo va fino in centro”. La vicenda non è affatto chiusa. Forse Zimmerman sarà arrestato, la domanda si fa sempre più pressante anche via internet, ben 800.000 firme raccolte a mercoledì. Si chiede di allontanare il capo della polizia di Sanford, o di cambiare la legge statale sulle armi da fuoco per difesa personale. Ma in tutto questo si dimentica un ambiente fisico che discrimina, fra chi guida e chi no, facendone dei sospetti. E sarebbe difficile ambientare una tragedia del genere a un angolo di strada di una città fruibile a piedi.
Non è andata liscia come al solito. Per la prima volta la "sala professori" si è animata di una discussione tutt´altro che accademica. E nemmeno la chiusura delle porte, imposta da Monti, è servita a evitare che qualche urlo arrivasse all´esterno del Consiglio dei ministri. La riforma del lavoro accende anche gli algidi professori di Monti specie se, come nel caso di Fabrizio Barca, hanno alle spalle una storia familiare di sinistra che parte dalla Resistenza
E proprio Barca è il primo a sollevare obiezioni a Fornero, per non aver ancora preparato «un vero articolato» da sottoporre all´esame del Consiglio limitandosi a consegnare quella «bozza generica» già letta alle parti sociali. Un rilievo condiviso anche da Piero Giarda. Ma il problema è anche di merito, in particolare sull´articolo 18. Del resto era stato proprio Barca l´unico ministro a esternare in pubblico, qualche giorno fa, il suo dissenso: «Cosa fa un lavoratore per il quale è stato chiesto il licenziamento per motivi economici se invece ritiene di essere stato discriminato? Come tutelerà il proprio diritto? Penso anche ai lavoratori iscritti alla Fiom. Questa è la domanda cruciale». Barca apre un varco e ci si infilano anche altri. Andrea Riccardi, poi Renato Balduzzi. Il ministro della Salute è l´unico costituzionalista della compagnia e sono due giorni che si arrovella sulla riforma Fornero. Tra le altre cose fa notare che la riscrittura così radicale dell´articolo 18 potrebbe anche confliggere con l´articolo uno della Costituzione, quello che proclama la Repubblica «fondata sul lavoro». «Andiamoci piano», suggerisce Balduzzi.
Il botta e risposta con Fornero si accende, deve intervenire Monti a difendere l´opera «equilibrata» del ministro del lavoro. Il Consiglio si divide tra falchi e colombe, qualcuno reclama ancora il decreto legge. Ma il premier spiega che no, «il decreto sarebbe politicamente una forzatura, anche il capo dello Stato ritiene migliore la strada del disegno di legge». A questo punto, vista la spaccatura, sarebbe stato Corrado Passera a suggerire un rinvio dell´approvazione della riforma a un´altra seduta, «per dare a tutti il tempo di approfondire e arrivare all´unanimità». Una versione smentita dall´interessato. E tuttavia la notizia filtra così. Tanto che Monti avrebbe dovuto agire d´imperio per superare l´impasse. «Se non riusciamo a chiudere oggi la discussione allora è meglio procedere con un voto. Ma io non posso accettare alcuna dilazione: immaginate come titolerebbero domani i giornali internazionali». Dunque la bozza Fornero viene approvata, «salvo intese». E il ministro si può sfogare rivendicando il lavoro svolto, la trattativa estenuante con le parti sociali, le nottate insonni. «Non vi immaginate quello che ho dovuto sopportare», confessa Fornero, che da due settimane è costretta a girare con dieci uomini di scorta. I colleghi applaudono, è l´unico momento in cui la tensione si scioglie. Il ministro dell´Interno, Anna Maria Cancellieri, la proclama «la nostra Giovanna d´Arco». Entrano i commessi con bevande e caffè.
Ma è solo un momento, perché la battaglia si riaccende subito dopo con la delega fiscale. Quando Giarda se la prende con Vittorio Grilli perché il testo ancora non è pronto sembra di rivedere il film degli scontri tra Tremonti e i suoi colleghi, tenuti regolarmente all´oscuro dei provvedimenti fino a un minuto prima della riunione. Il ministro dei rapporti con il Parlamento ce l´ha con Grilli anche per un´altra vicenda. La Ragioneria generale, che dipende dal Tesoro, aveva infatti segnalato la mancanza di coperture per il decreto liberalizzazioni. Ma nessuno dell´Economia, tanto meno Grilli, era andato a spiegare la cosa a Montecitorio, lasciando Giarda a prendersi da solo gli insulti e i pesanti sarcasmi di mezzo Parlamento. Giarda è furibondo e arriva persino a minacciare le dimissioni. Quando Monti lascia prima del tempo la riunione, per andare a cena con Schifani a Milano, dovrebbe essere Giarda a presiedere al suo posto. Ma il ministro se ne va sbattendo la porta e tocca a Piero Gnudi impugnare la campanella del premier. L´elettricità è tanta. Scorre anche sulla linea Catricalà-Patroni Griffi. I due, solitamente tra i più compassati, litigano alzando la voce.
Alla fine, con un rinvio sulla delega fiscale e un´approvazione «salvo intese», il Consiglio più lungo termina. Monti vola a Milano con Fornero per cenare, nella sua abitazione privata, con Renato Schifani e Ferruccio de Bortoli. E al presidente del Senato chiede «una corsia preferenziale» per avere la certezza che la riforma del lavoro sia legge «entro l´estate». Il decreto, reclamato dal Pdl, è stato infatti scartato su pressione di Napolitano. Ma anche Gianfranco Fini, a pranzo giovedì con il premier, aveva sconsigliato a Monti di servirsene per evitare l´accusa di un uso eccessivo della decretazione d´urgenza. «A questo punto - ragiona con i suoi il presidente della Camera - chi ancora oggi chiede il decreto lo fa solo per mettere in difficoltà il governo».
L'azzeramento dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una misura per rendere flessibile il mercato del lavoro, ma per rendere rigidi (fino al parossismo) il regime di fabbrica e la stretta sui ritmi di lavoro. Certamente nei prossimi mesi e anni ci saranno, uno a uno, o, meglio, quattro a quattro ogni quattro mesi, decine di migliaia di licenziamenti individuali per "motivi economici". Sappiamo già chi verrà colpito, perché da qualche mese i capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all'intensificazione del lavoro, annunciando loro che, «appena passa l'abolizione dell'art. 18, sei fuori!».
Così, se alla manifestazione della Fiom del 24 febbraio, su 50 mila partecipanti, almeno 40 mila erano lavoratori e lavoratrici della Fiom, possiamo essere sicuri, con uno scarso margine di errore, che, al ritmo di 12 all'anno per azienda, quei lavoratori verranno espulsi dal loro posto di lavoro ottenendo con il tempo quello che Marchionne ha realizzato in un colpo solo, cambiando nome allo stabilimento di Pomigliano e tenendovi fuori tutti i tesserati Fiom. E lo stesso avverrà con altre migliaia di lavoratori, già ben identificati, nella maggior parte delle aziende di altri settori. Se Barozzino, Pignatelli e La Morte, i tre operai della Sata di Melfi licenziati dalla Fiat per rappresaglia contro uno sciopero, ci hanno messo più di un anno per dimostrare le loro ragioni di fronte ai giudici e, nonostante l'ordine di reintegro, non viene loro concesso di rientrare in fabbrica, possiamo immaginare che cosa succederà con le decine di migliaia di lavoratori già in lista per essere licenziati individualmente "per motivi economici". I quali, per dimostrare di essere stati oggetto di una discriminazione, e non di una esigenza "economica", dovranno andare a cercare tra i loro compagni di lavoro qualcuno disposto a testimoniare in loro favore, sotto la minaccia di entrare così anche lui, nel giro dei successivi quattro mesi, nella lista degli esuberi per motivi "economici".
Così diverse decine di migliaia di lavoratori andranno ad aggiungersi, grazie all'azzeramento dell'articolo 18, all'esercito dei disoccupati senza reddito che i tagli di bilancio, la riforma degli ammortizzatori sociali a costo zero e le crisi aziendali stanno moltiplicando nel nostro paese. Con in più il fatto che, se è quasi impossibile per un giovane trovare oggi un posto di lavoro, per i lavoratori e le lavoratrici di una certa età sarà ancora più difficile, e per quelli usciti dal loro impiego con un licenziamento individuale - cioè con le stimmate di una espulsione discriminatoria - il licenziamento equivarrà all'iscrizione in una lista di proscrizione. È una cosa che le persone di una certa età ricordano bene quando alla Fiat, prima dell'autunno caldo di quarant'anni fa, imperversava il regime imposto da Vittorio Valletta.
Siamo ritornati là; anzi peggio, perché allora l'economia tirava mentre adesso non c'è alcuna speranza di tornare in tempi accettabili a una qualsiasi forma di ripresa della crescita. E soprattutto dell'occupazione. Ma l'uscita dalle aziende di alcune decine di lavoratori con posto fisso non apre certo le porte a nuove assunzioni, come è ovvio a qualsiasi persona che non sia in malafede. Semplicemente chiude per sempre davanti ai lavoratori licenziati le porte di un altro impiego. Perché la domanda di lavoro non c'è e non saranno certo le politiche economiche di Monti e della Bce a crearla (basta vedere quello che la Bce ha combinato in Grecia e in Portogallo, paesi solo di un anno davanti a noi nella corsa verso il disastro). Ma quei lavoratori licenziati non avranno più né cassa integrazione (né ordinaria, né straordinaria, né in deroga), né mobilità, né "scivolo" verso il prepensionamento; solo una modesta somma di denaro e un anno di disoccupazione. Poi si ritroveranno per strada senza reddito e con nessuna possibilità di un nuovo lavoro: nemmeno d un lavoro precario: perché se mai ci sarà da assumere qualcuno in un call-center o in una cooperativa di facchinaggio, non andranno certo ad assumere un 40-50enne licenziato, quando è e sarà pieno di giovani più adatti a lavori del genere. Così, nel giro di qualche anno, assisteremo a questo rovesciamento dei rapporti intergenerazionali: se fino ad oggi molti dei giovani assunti in qualche forma di lavoro precario e intermittente hanno potuto contare sulla casa, la pensione, lo stipendio fisso o qualche altra forma di aiuto da parte dei loro genitori, nei prossimi anni saranno i lavoratori anziani (cioè ultracinquantenni) senza pensione né salario a dover contare sui redditi saltuario dei loro figli precari per sopravvivere.
Ma se questo è il panorama che ci aspetta fuori delle fabbriche e delle aziende, quello che si prospetta al loro interno è anche peggio. Perché là si vivrà sotto il ricatto permanente del licenziamento individuale "per motivi economici"; e se questo potrà colpire solo pochi lavoratori per volta - non più di dodici all'anno per azienda - funzionerà perfettamente da deterrente per tutti gli altri. Perché, con poche eccezioni, le imprese e l'imprenditoria italiana ormai impegnate a difendere i loro sempre più risicati margini di competitività contando esclusivamente sull'intensificazione dei ritmi di lavoro e la compressione dei salari, non hanno certo la cultura aziendale e la lungimiranza per farsi sfuggire un'occasione del genere: non avrebbero insistito tanto per l'abrogazione dell'art. 18. Posto fisso vuol dire accumulo di esperienza, quel patrimonio aziendale - a patto di saperlo e volerlo valorizzare - che tante imprese italiane hanno sacrificato ai vantaggi offerti dall'ingaggio del lavoro precario e malpagato.
L'azzeramento dell'articolo 18 è un invito a continuare su questa strada, perché rinunciare all'esperienza dei lavoratori anziani vuol dire ricominciare ogni volta da capo e mantenersi ai livelli tecnologici più bassi. Così, quello che non sono riusciti a fare Berlusconi, Maroni e Sacconi in 17 anni, Monti lo sta portando a termine in pochi mesi. Il piatto è servito e quello che resta da fare, prima che passi in Parlamento il cosiddetto decreto sul mercato del lavoro - in realtà, sulla disciplina di fabbrica e l'ampliamento dell' "esercito industriale di riserva" - ma anche dopo, se sarà approvato, è continuare ad opporsi senza se e senza ma. La posta in gioco e troppo alta e anche coloro che in azienda non ci sono ancora, non ci sono più, o non ci saranno mai, dovrebbero capirlo e agire di conseguenza. Quale che ne sia l'esito, questa mossa di Monti e Fornero deve diventare per tutti il simbolo dell'ipocrisia, della malafede e della pochezza di questa campagna di governo.
Senatore, componente del Csm oggi presidente dell'Anpi, Smuraglia è autore di numerose opere sul diritto del lavoro. Memoria storica fondamentale per il paese, avverte: "Stiamo tornando indietro"
Partigiano combattente, professore all'Università di Milano, presidente della regione Lombardia, senatore, componente del Csm e oggi presidente nazionale dell'Anpi, Carlo Smuraglia, classe 1923, è soprattutto un maestro del diritto del lavoro. Fondamentale il suo commento allo Statuto dei lavoratori del 1970.
Professore, gli entusiasti di questa annunciata riforma del mercato del lavoro parlano di «fine di un'epoca», l'epoca cioè del «consociativismo». Siamo davvero a un passaggio storico?
Si può parlare di fine di un'epoca ma solo nel senso che si torna indietro. Cancellando a cuor leggero un principio per il quale si è combattuto per anni, e con ragione. L'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è il frutto di una stagione di lotte, ma anche del fallimento della legge sul licenziamenti del luglio 1966. In quella legge si prevedeva, appunto, che anche nel caso di licenziamento ingiustificato riconosciuto come tale dal giudice, il lavoratore aveva diritto esclusivamente al risarcimento economico. La grande novità dell'articolo 18 fu il diritto al reintegro. Oggi torniamo al '66.
Quanto fu difficile l'introduzione del principio dell'articolo 18 nello Statuto dei lavoratori?
Ci fu una discussione accesa in parlamento e ci furono forti pressioni contrarie degli industriali, ma fu soprattutto alla luce dell'esperienza precedente che alla fine il ministro Brodolini accettò il principio.
Ma lo Statuto fu votato da socialisti e democristiani, il Pci e il Psiup si astennero.
Le loro obiezioni erano sulla seconda parte dello Statuto, quella che riguardava la rappresentanza sindacale. Non sul reintegro per il quale si può dire che non ci fossero più dubbi addirittura dagli anni Cinquanta, dal dibattito seguito al famoso licenziamento per motivi politici del dirigente Fiat Battista Santhià. Ci fu un importante convegno nel 1955 in cui molti giuslavoristi introdussero il tema del reintegro e poi la legge del '66 e infine lo Statuto. Ci vollero degli anni e molti scioperi, tornare indietro rispetto a tutto questo significa non capire cosa vuol dire riconsegnare al datore di lavoro la possibilità di licenziare a propria discrezione.
Ma la riforma Fornero prevede ancora il reintegro per il licenziamento discriminatorio.
Mancherebbe, su quello non ci può essere alcun dubbio. Il licenziamento discriminatorio è un atto nullo per un principio giuridico che non dipende neanche dallo Statuto dei lavoratori, ed è evidente che di fronte a un atto nullo resta in vigore la situazione precedente. Naturalmente la riforma di cui parliamo non dice che il datore di lavoro potrà licenziare a suo piacimento, ma temo che gli effetti saranno questi.
Anche nel caso di licenziamento per motivi economici?
Siamo franchi, quando ci sono delle ragioni economiche reali, una crisi aziendale, si tratta sempre di circostanze oggettive. Ma se il datore di lavoro non riesce a provarle e il giudice stabilisce che il licenziamento è infondato, perché mai non si dovrebbe ripristinare il rapporto di lavoro? Torniamo appunto a prima del '66: sarà possibile liberarsi di un lavoratore pagando. L'imprenditore deciderà solo sulla base dei suoi costi e dei suoi benefici. E dovremmo aggiungere un altro problema.
Quale?
In molti casi persino il diritto al reintegro nel posto di lavoro si è dimostrato insufficiente, per cui più che smantellarlo si sarebbe dovuto renderlo effettivo. Pensi alla vicenda dei lavoratori Fiat a Melfi che l'azienda si è rifiutata di far tornare al loro posto e capirà come ancora oggi il principio trovi difficoltà di applicazione.
Chi parla della fine di un'epoca lo fa anche con riferimento alla mancata concertazione, anche questo è un passaggio epocale?
Mi sorprende che tutti quelli che in questi anni hanno riconosciuto la convenienza della concertazione adesso si rallegrino che sia stata stracciata. Secondo me si tratta di un errore di valutazione, soprattutto da parte del governo che non ricaverà nulla di positivo da questa scelta di rottura. Per venire incontro alle indicazioni di una parte molto liberista dell'Europa, rinuncia alla pace sociale.
La Cgil pagherà l'isolamento?
Dieci anni fa hanno riempito la piazza sull'articolo 18, è impossibile che i lavoratori abbiano cambiato idea. È vero che siamo in crisi ma i principi valgono anche in tempo di crisi. Cominciare a smantellarli è pericoloso perché non si sa mai dove si finisce. È un discorso analogo a quello che si fa sulla Costituzione. Si può cambiare, ma non si può nemmeno immaginare di toccare i principi fondamentali. E l'articolo 18 nel sistema del diritto del lavoro equivale al principio di uguaglianza nella Costituzione.
Mai sopito in questi mesi, il malumore di quei sostenitori del Partito democratico che non hanno digerito il sostegno al governo Monti oggi è esploso di fronte all'annunciata riforma del mercato del lavoro. Sulle pagine del segretario Pier Luigi Bersani e, con accenti meno forti, su quella del responsabile economico del partito Stefano Fassina sono comparse oggi decine di messaggi durissimi verso il pacchetto Monti-Fornero ma soprattutto verso il Pd.
«Grazie compagno bersy per quello che fai per noi... ti ripagheremo con gli interessi alle urne», scrive Gianni. «Vergognatevi, siete gli artefici di questa macelleria sociale. Non dite più che lo fate per i nostri figli, non siete degni di dire questa parola avete massacrato anche i padri», dice Pierluigi. «Vergogna», scandisce Diego. «Traditori», rincara Luca. «Non vi voterò mai più», assicura Giovanni. E la pensa così anche Gianni: «Io ho sempre votato Pd ma questa volta se l'articolo 18 verrà modificato no». Duro anche Fabrizio: «Il mio voto lo hai perso...parole soltanto parole la casta unita contro noi lavoratori...vergogna...».
C'è chi se la prende anche con il vicesegretario. «Il fascista Enrico Letta ha già dato il consenso preventivo alla nuova porcata di Monti sponsorizzata da Napolitano», commenta Walter. Non tutti i messaggi si limitano al livore. C'è chi chiede correzioni in parlamento. «Con questa riforma che ha anche aspetti positivi, non vedo nulla che possa incentivare le aziende ad assumere con contratto a tempo indeterminato», spiega Mirco. «Questo governo è più serio del precedente, ma sembra accanirsi contro i lavoratori e i pensionati. Conto sull'azione del PD in parlamento per non svuotare l'art. 18», sottolinea Elvio. Ma da chi ancora crede nel Pd arriva un appello: Bersani tolga la fiducia a Monti. «Perchè non mandate a casa questo governo non eletto di vecchi arroganti? Andiamo a votare, vediamo cosa vogliono davvero i cittadini, o è questo che fa paura?, chiede Isabella. »La misura è colma, ma che ci stiamo a fare ancora in questa coalizione? Basta fuori dobbiamo tornare a navigare in mare aperto«, esorta Lorenzo. »Bersani ...se ci sei batti un colpo! E «stacca la spina».!«, scrive Bruno.
Tra gli elettori del Pd ci sono pochi dubbi: il governo Monti è la continuazione di quello Berlusconi. Una sorta di «Montusconi» autore di una riforma del lavoro che «nemmeno Sacconi e Brunetta...».
L'articolo 18 apre un solco tra gli umori del popolo democratico e il gabinetto Monti. Sui social network, l'appello al segretario Bersani è unanime: «Mandatelo a casa». «Basta far pagare sempre gli stessi», è il refrain a qui dà voce tra gli altri Fabio Viti.
I più allarmati, ovviamente, sono i lavoratori. In decine e decine di commenti, sul profilo Facebook di Bersani e del partito, vengono citati casi di crisi aziendali con il rischio di licenziamenti a breve. La riforma del governo sarebbe la stampella ideale. E i lavoratori, nonostante la posizione critica di Bersani, intestano le nuove norme al Pd stesso. Fabrizio Spinetti accusa i Democratici «di farsi mettere sotto da Alfano e Sacconi. Tirate fuori le p...», è il suo invito. E Andrea Del Bagno avverte che se passa la modifica dell'art.18 «con il vostro appoggio, non voteremo più Pd».
Tanti, tantissimi chiedono di togliere il sostegno a Monti. Luca Alfieri invita Bersani «se veramente vuole riconquistare la fiducia dei suoi elettori a staccare la spina al governo Monti!». «Via da questo governo», taglia netto Walter Giordana. I lavoratori si vedono alla mercè degli imprenditori. Stefano Zovasio contesta le politiche sul lavoro di impronta liberista.
«Per oltre un ventennio ci avete fatto credere che per rilanciare l'economia bisognava essere sottopagati. Risultato: siamo i meno pagati d'Europa e nonostante tutto siamo quelli che crescono di meno... Adesso cosa ci volete far credere? Che per crescere dobbiamo accettare i facili licenziamenti? Dopo cosa ci chiederete? Il C...? Ma fatemi il piacere!».
Molti gli inviti diretti a Pier Luigi Bersani. Come quello di Giorgia Faetti che lo accusa di aver «tergiversato per tutta la durata di questo teatrino sulla modifica dell'articolo 18». L'unica cosa che abbiamo capito, osserva, «è che noi lavoratori e le nostre famiglie siamo caduti in un baratro profondo e siamo diventati precari. La base è contro questo appoggio incondizionato al governo e siamo pronti a darvi battaglia nei luoghi di lavoro. O fate fare delle modifiche. O votate contro. Non ci sono alternative».
Il Giornale
Città della salute, a Veronesi piace Milano
di Luca Fazzo
Ancora quasi un mese per decidere il futuro dell'Istituto dei Tumori e del Neurologico Besta, due eccellenze della sanità milanese alla cerca disperata di una sede più adeguata: ma mentre in Regione il Collegio di vigilanza chiamato a scegliere l'area dove sorgerà la Città della salute (così si chiamerà la unione dei due istituti) si prenderà ancora una pausa di riflessione, nel braccio di ferro sulla scelta della Regione fa irruzione a piedi uniti Umberto Veronesi.Che tecnicamente non ha voce in capitolo, ma quando si parla ditumori parla comunque ex cathedra, per la sua carriera di medico e di ricercatore: e ieri mattina , intervistato dall'agenzia Omnimilano, fa una scelta di campo plateale a favore di una delle due opzioni in gioco. Il nuovo ospedale, come si sa, è conteso tra Milano e Sesto San Giovanni. E Veronesi si schiera apertamente a fianco dei milanesi, ovvero di Giuliano Pisapia: «Io sono milanese e questi due istituti sono una forza per Milano e credo debbano rimanere nella città di Milano, non vedo perché debbano andare in un'altra città».
É lapidario, Veronesi. L'ex ministro della Salute sa bene di affrontare un tema non solo sanitario, anzi: intorno alla nuova sede dei due istituti si gioca una partita soprattutto di urbanistica e di interessi di cassa. Pisapia vuole portarlo alla Perrucchetti, la caserma di via Forze Armate in fase di dismissione; il sindaco sestese Giorgio Oldrini preme per insediare la cittadella nel cuore dell'area Falck, la sterminata distesa abbandonata dove sorgeva l'acciaieria. Entrambi sanno che una struttura di eccellenza come quella nata dalla fusione Tumori-Besta porterà un indotto economico e occupazionale rilevante in due aree problematiche. E quindi remano ognuno dalla sua parte, anche se - in nome anche della comune appartenenza politica - hanno promesso di non farsi sgambetti plateali.
Ma ieri, davanti alla discesa in campo di Veronesi, Oldrini mette da parte la diplomazia: «Non mi è chiaro a che titolo Veronesi intervenga - dice il sindaco di Sesto - visto che non mi risulta che sia un'urbanista. Perch´ un grande ospedale deve per forza avere la sede dentro i confini di Milano? Se ben ricordo, anche l'Istituto europeo di oncologia (diretto da Veronesi, ndr) è praticamente a Opera. E considerare oggi Sesto San Giovanni qualcosa di estraneo alla realtà metropolitana milanese mi sembra un modo abbastanza antico di ragionare». In realtà, nonostante l'endorsement di Veronesi, la sensazione è che Sesto San Giovanni sia in questo momento in vantaggio su Milano come futura sede della Città della salute. Da qui al 20 aprile, i rappresentanti dei due Comuni potranno partecipare ad un tavolo tecnico insieme alla Regione, ed è in quella sede che i rappresentanti dei due Comuni potranno fare valere le loro ragioni. Ma Sesto parte avvantaggiata su due fronti: la disponibilità immediata delle aree, e la loro vicinanza alla stazione ferroviaria e della metropolitana. Mentre la caserma Perrucchetti è a quasi un chilometro dal metrò, e il suo terreno appartiene al ministero della Difesa: «Il ministero ha già dato parere positivo», fa sapere l'assessore all'urbanistica milanese Ada De Cesaris. Ma a quale prezzo i militari siano disposti a cedere i 165mila meri quadri non è stato reso noto.
Alla Regione non interesserà, ma c'è un altro elemento che porta Oldrini a spingere per portare la cittadella a Sesto San Giovanni, e proprio sull'area Falck: ed è il valore simbolico che una vittoria avrebbe per una amministrazione comunale che proprio sulla riqualificazione della vecchia acciaieria è stata accusata di avere incassato tangenti.Vicende che riguardano la giunta prima di Oldrini, quella presieduta da Filippo Penati, e i vecchi proprietari dell'area, la holding di Luigi Zunino: proprio ieri la Procura di Monza ha annunciato la fine delle indagini per corruzione contro Zunino, l'ex assessore Pasqualino Di Leva e altri, in relazione a mazzette sulla Falck. Brutte storie. Ma, se sulla Falck arrivasse la Città della salute, con un lieto fine.
la Repubblica Milano
La cittadella della salute verso l’area Falck di Sesto
di Alessandra Corica
La decisione è rimandata al 20 aprile. Ma le speranze dell’ex cittadella industriale crescono sempre più. Ieri il Collegio di vigilanza dell’accordo di programma della Città della salute ha decretato ufficialmente l’entrata in gara di Sesto San Giovanni per decidere dove il nuovo polo ospedaliero - che nascerà dalla fusione del Sacco, del Besta e dell’Istituto dei tumori - avrà sede. Due le opzioni, tra le quali la commissione nominata dalla Regione deciderà entro un mese: l’ex caserma Perrucchetti o le ex aree Falck.
Tramonta per sempre l’ipotesi di costruire la struttura al quartiere Vialba: ieri il collegio ha revocato l’accordo di programma del 2009 che designava l’area adiacente al Sacco quale nuova sede del polo scientifico. Una decisione dettata soprattutto da ragioni economiche: in questo modo si risparmieranno circa 80 milioni di euro che sarebbero stati necessari per costruire nella zona. E che si sarebbero sommati ai 520 che già di per sé richiede la realizzazione del polo. Un’operazione che, nonostante i numerosi rimandi, per la Regione resta prioritaria: «È un progetto che realizzeremo - ha ribadito su Twitter Roberto Formigoni - non ci rinunceremo per nessuna ragione al mondo». Per arrivare all’individuazione della sede, sarà così avviato un tavolo a cui parteciperanno sia Palazzo Marino sia il comune di Sesto: «Lo scopo - spiega il governatore - è stabilire in tempi rapidi quale sarà la localizzazione dell’intervento, in modo da promuovere e firmare un nuovo accordo di programma».
Da Palazzo Marino fanno sapere che proprio in questi giorni è arrivato il parere positivo del ministero della Difesa (proprietario dell’area della Perrucchetti) per posizionare il polo nella Piazza d’Armi davanti alla caserma. «Il Comune ascolterà tutti i soggetti coinvolti - assicura l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris - per noi è importante che non vadano disperse le risorse economiche messe già in campo». In pole position, però, sembrerebbe l’area ex Falck: non a caso, per la prima volta si parla di un’ubicazione del polo scientifico in area metropolitana e non solo cittadina. «Le aree Falck - dice il sindaco di Sesto Giorgio Oldrini - permetterebbero lo sviluppo di quell’indotto di mezzi di trasporto, parcheggi e alberghi che dovrà accompagnare il nuovo polo». Contrario all’ubicazione a Sesto, invece, l’oncologo ed ex ministro Umberto Veronesi, fondatore dello Ieo: «Questi due istituti - ha detto il professore, riferendosi all’Istituto europeo dei tumori e a quello di via Venezian - sono una forza per Milano e credo debbano rimanervi. Non vedo perché debbano andare in un’altra città».
Corriere della Sera Milano
Città della Salute, nuovo rinvio
di Simona Ravizza
Nuovo rinvio sulla decisione dell'area dove sorgerà la Città della Salute. «La scelta sarà effettuata in tempi brevi, presumibilmente già il prossimo 7 marzo», aveva annunciato il governatore Roberto Formigoni lo scorso febbraio.Ma la partita è complicata e ieri, dopo l'ennesima riunione del Collegio di vigilanza che riunisce i politici e i tecnici interessati, l'attesa presa di posizione non è arrivata. «La riunione, inizialmente prevista per il 7 marzo, era stata rinviata su richiesta del Comune di Milano», ha precisato Formigoni.
Ma per il progetto che mira a riunire l'Istituto dei tumori e il neurologico Besta i giochi sono aperti. Restano, dunque, in campo le ipotesi della piazza d'Armi della Caserma Perrucchetti per Milano (oltre ad altre eventuali soluzioni su cui Palazzo Marino dovesse decidere di lavorare) e l'area ex Falck, proposta dal Comune di Sesto San Giovanni. Sul più importante progetto di edilizia sanitaria della Lombardia, con investimenti previsti per 400 milioni di euro (contro i 520 inizialmente preventivati), sarà avviato un tavolo di lavoro con i Comuni di Milano e Sesto San Giovanni, oltre che con i due ospedali interessati, per stabilire in tempi rapidi quale sarà la localizzazione dell'intervento, in modo da promuovere e firmare un nuovo accordo.
Come già anticipato, l'idea iniziale di ricomprendere anche il Sacco è definitivamente tramontata: «In questa situazione contingente di crisi e stante l'impossibilità di reperire nuove risorse, anche statali — ha sottolineato Formigoni — la Regione non è in grado da sola di far fronte alla realizzazione della Città della Salute in Vialba».Soddisfatto il sindaco di Sesto, Giorgio Oldrini: «Questa decisione è per noi importante per due motivi. È esplicitata l'indicazione di individuare l'ubicazione della Città della Salute all'interno dell'area metropolitana, includendo quindi ufficialmente la nostra città, e invita la nostra amministrazione al gruppo di analisi sulle proposte in campo». La gara con Milano s'annuncia, comunque, dura.
Dai marmi ai camini. La reggia rubata La villa dei Borbone a Carditello
Gian Antonio Stella - Corriere della Sera, 20 marzo 2012
A casa di quale boss sono ora le colonnine dell'altana di Carditello? Quale sicario camorrista si è rubato i cancelli settecenteschi? Quale trafficante di rifiuti tossici si è fottuto i camini e brandelli degli affreschi? Quella che fu la Versailles agreste dei Borbone, appestata dalle vicine discariche, sprofonda in un insultante degrado. Spogliata giorno dopo giorno di quanto ancora conserva di prezioso. Perché i re di Napoli avessero scelto questa campagna a sud dell'antica Capua per costruire la loro meravigliosa villa oggi semiabbandonata, lo dicono le testimonianze di tanti scrittori incantati, a partire da Plinio il Vecchio: «Da qui comincia la celebre Campania Felix, da questo punto hanno inizio i colli pieni di viti...». Un'immagine ripresa secoli dopo da Wolfgang Goethe: «Bisogna vedere questi paesi per comprendere cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra. (...) La regione è totalmente piana e la campagna intensamente e diligentemente coltivata come l'aiuola di un giardino». E poi ancora da Charles Dickens, affascinato dalla «strada piana che si allunga in mezzo a viti tenute a tralci che paiono festoni tirati da un albero all'altro». Istituita da Carlo di Borbone come reggia di caccia perché circondata da boschi popolati da cervi, fagiani, cinghiali, e successivamente trasformata da Ferdinando IV come reggia di campagna nel cuore di una tenuta modello di 2.070 ettari, Carditello fu progettata Francesco Collecini, a lungo braccio destro di Luigi Vanvitelli. Tutto intorno, a perdita d'occhio, campi coltivati bagnati dalle acque dei Regi Lagni.
Passata con l'Unità d'Italia ai Savoia, la tenuta venne via via abbandonata finché, come ha ricostruito sul Corriere del Mezzogiorno l'architetto Gerardo Mazziotti, «nel 1920 gli immobili e l'arredamento passarono dal demanio all'Opera nazionale combattenti e i 2.070 ettari della tenuta furono lottizzati e venduti. Rimasero esclusi il fabbricato centrale e i 15 ettari circostanti» che nel Secondo dopoguerra, dopo essere stati occupati dai nazisti, «entrarono a far parte del patrimonio del Consorzio generale di bonifica del bacino inferiore del Volturno». Via via affogato in un mare di debiti. In larga parte nei confronti del Banco di Napoli il quale, di fatto, ha oggi nelle mani il destino della tenuta. Per qualche anno la reggia, a dire il vero, era tornata a vivere. I responsabili della linea ad Alta Velocità, volendo un ufficio da queste parti, si incapricciarono della splendida dimora borbonica. E dopo un restauro interessato più che altro alla facciata e alle stanze utilizzate dalla Direzione e del tutto indifferente alle cascine, alle stalle, ai magazzini della tenuta che all'intorno si sgretolavano, occuparono il loro pezzo di villa il tempo necessario e poi ciao.
Da quel momento, senza neppure un custode che desse un'occhiata a quel tesoro artistico e architettonico (ne risultano 465 in Provincia, di custodi, concentrati soprattutto alla Reggia di Caserta e all'anfiteatro romano di Capua), è cominciato a Carditello il grande saccheggio. Mentre tutt'intorno, in quella Campania feconda descritta da una Carolina Bonaparte estasiata («Questa è una terra promessa. Nella campagna si vedono festoni di viti attaccati agli alberi con sparsi grappoli di uva assai più belli di quelli che gli ebrei portarono a Mosé...») si ammucchiavano montagne di rifiuti, più o meno puzzolenti e tossici, in discariche illegali allestite dalla camorra o più o meno legali ma spropositate, la reggia è stata giorno dopo giorno cannibalizzata. Tutto, si sono portati via. Tutto. Hanno scalpellato e rubato i camini antichi scampati alla razzia dei nazisti e quelli finto-antichi che avevano preso il loro posto. I pavimenti di cotto. I gradini di marmo di una delle due grandi scalinate centrali. Le acquasantiere della cappella, spaccate durante la rimozione così da lasciare osceni spuntoni che escono dal muro. I simboli in marmo dei Borbone. Pezzi di affreschi di Jacob Philip Hackert e Fedele Fischetti staccati dalle pareti con la stolta e criminale imperizia di analfabeti attirati dall'idea di farsi qualche centinaio di euro vendendo questi ritagli sul mercato nero o a qualche capozona dei Casalesi.
Una rapina quotidiana. Incoraggiata per qualche tempo dalla stupidità della macchina burocratica dei Beni culturali che solo nel 2004 e cioè un anno dopo il pignoramento giudiziario del 2003, si è accorta (incredibile ma vero) di non avere mai messo un vincolo monumentale su questa sontuosa ma ammaccata dimora che i Borbone chiamavano «Real Delizia». E così, di settimana in settimana, sotto gli occhi esterrefatti di quanti amano il nostro patrimonio e devono assistere impotenti alla sua disfatta, la tenuta di Carditello è stata abbandonata a se stessa. Senza uno straccio di manutenzione. Aggredita e divorata dalla vegetazione che fino a poche settimane fa, quando un volontario della Protezione civile, Tommaso Cestrone, si è messo di buzzo buono a mettere un po' di ordine con le ruspe e le seghe elettriche, pareva una selva colombiana. E parallelamente crollava il prezzo con il quale il giudice delegato alla grana, Valerio Colandrea, tentava di trovare un acquirente dopo la rinuncia («troppi soldi, non ce la facciamo») della Regione. Trentacinque milioni di euro nelle intenzioni iniziali della stima, meno una quindicina necessari (allora) per i restauri. Poi sempre meno. Finché non è andata a vuoto, giorni fa, anche l'asta che partiva da una quindicina di milioni. Ovvio.
Chiunque compri, a meno che non sia un ras dei Casalesi in vena di farsi una dimora (magari attraverso un prestanome) che affermi la sua monarchia assoluta sulla zona, sa che ogni camion di cemento, ogni cassetta di piastrelle, ogni tubo di rame rischia di pagare pedaggio alla camorra. Contemporaneamente, infischiandosene delle denunce dei giornali, delle polemiche, delle grida di dolore degli esperti, degli appelli ai ministri, delle petizioni accorate per salvare la reggia come quella di «Orange Revolution», delle sporadiche intemerate delle autorità locali (Emiddio Cimmino, il sindaco del Comune di San Tammaro, ha annunciato giorni fa che entrava in sciopero della fame) il saccheggio è andato avanti. Al punto che solo in questi giorni il custode giudiziario, l'avvocato Luigi Meinardi, ha potuto accorgersi che nonostante avesse fatto murare tuffi i cancelli della villa per arginare almeno in parte la razzia, i vandali mandati forse da qualche boss camorrista deciso a «ingentilire» qualche suo villone sparso in questa ex campagna stuprata dall'edilizia più brutta del Creato, si sono portati via quasi tutto il pavimento e quasi tutte le colonnine che reggevano le balaustre dell'altana che svetta sui campi e le discariche.
Vi chiederete: ma non potevano mettere almeno un sistema d'allarme? L'avevano messo. Ma se lo sono portati via. Come si sono portati via tutto l'impianto elettrico, la centralina, i quadri di comando, i fili passati nelle canaline: tutto. Assolutamente tutto. Al punto che oggi a Carditello non c'è più neppure la luce elettrica. Questa mattina, pare, s'affaccerà da queste parti il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi. A chi l'attende avrebbe fatto sapere di avere una qualche speranzella di trovare una soluzione prima della prossima asta. Vedremo. Ma certo, mai quanto stavolta, come forma di risarcimento, in occasione dei 15o anni dell'Unità, nei confronti del Mezzogiorno anche qui tradito dai Savoia, lo Stato dovrebbe essere presente. Dovrebbe strappare Carditello al degrado, al pattume e alla camorra, restaurarlo e farne di nuovo, come merita, una «delizia». Non è solo una questione di salvaguardia. È una questione d'onore.
Carditello. Dentro la Reggia. Viaggio nell'edificio borbonico sfregiato da un sacco continuo
Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno 21 marzo 2012
Come ha scritto ieri Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», a Carditello è in questione l'onore dello Stato. La devastazione è così totale, così umiliante, così continua da diventare un simbolo dell'umiliazione della legge e della dignità dello Stato: cioè di noi tutti. Non è incuria, né solo rapina: è piuttosto una distruzione volontaria, tenace e pianificata. E sono proprio questi caratteri a collegare il sacco di Carditello alla camorra: oltre al bestiale desiderio di impadronirsi di gradini di marmo, brandelli di affreschi, e mattonelle antiche c'è infatti una volontà di sfregio e di umiliazione simbolica, che sembra voler affermare il pieno dominio dell'anti-Stato sul territorio. Proprio da qui, tuttavia, può venire una paradossale lezione per tutti noi. Siamo ormai abituati a connettere il patrimonio storico e artistico non alla politica, all'educazione civica o alla costruzione di una cittadinanza consapevole, ma invece allo svago, al divertimento, al superfluo.
O, ancora, a considerarlo un pozzo di petrolio: da tutelare solo in quanto si può sfruttare, da curare solo quando sia redditizio. I vandali criminali di Carditello rischiano, invece, di aver capito meglio di noi quale sia il vero ruolo della storia dell'arte e dei monumenti: essi li odiano e li distruggono perché sanno leggerli come noi non sappiamo più fare. Li odiano perché nella bellezza, nell'ordine e nella gratuità della reggia borbonica vedono l'unico segno che ancora connette quel territorio alla civiltà. Ciò che, infatti, rende Carditello uno dei casi più esemplari del suicidio dell'Italia, è il fatto che in quel luogo si intrecciano in un nodo indissolubile la distruzione dell'ambiente (avvelenato capillarmente dai rifiuti tossici che inquinano la catena alimentare, condannandoci), quella del paesaggio (devastato dalla terrificante catena montuosa delle discariche), e quella del patrimonio artistico. Si fatica spesso a spiegare l'unità profonda che lega, storicamente e materialmente, questi tre profili del volto del nostro paese.
Ecco, a mente astratta, diventa concreta: orribilmente concreta. Tutti speriamo che il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi trovi proprio in Carditello l'occasione di imprimere una svolta al suo mandato, fin qui assai opaco. Quasi qualunque decisione sarebbe meglio dell'ignavia :ollettiva dimostrata da tutte le istituzioni che hanno perso la faccia nella vicenda: dal Consorzio di bonifica del Volturno, al Banco di Napoli, alla Soprintendenza di Caserta e allo stesso Mibac. La soluzione potrebbe passare attraverso una sorta di riscatto a spese pubbliche, o attraverso una severa responsabilizza-zione dei privati che di fatto la posseggono: ciò che conta veramente è che lo Stato riaffermi al più presto la propria dignità e il proprio onore. Cioè: la nostra dignità e il nostro onore.
Una delle cose che fa più impressione, visitando Carditello e il suo territorio, e che mentre nessuno monta la guardia alla reggia, l'esercito controlla in modo assai efficiente le vicinissime discariche, apostrofando con durezza i cronisti e gli studiosi che usano le macchine fotografiche per documentare lo scempio. Grandi cartelli gialli avvertono che le fotografie sono proibite perché le discariche sono «di interesse nazionale strategico», e dunque sono protette da «sorveglianza armata». Per noi, insomma, non è Carditello, non è il patrimonio storico e artistico ad essere strategico per il futuro del Paese. Mentre lo sono la monnezza e i suoi criminosi affari. E — come dice il Vangelo — dove è il nostro tesoro, là sarà anche il nostro cuore.
Titolo originale: Solar farms shouldn't sprawl all over agricultural land – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Sono un ambientalista sin dai primi anni ‘70, quando insieme ad altri studenti di quella generazione ho scoperto i problemi ecologici legati al nostro successo economico del dopoguerra. E ho poi passato gran parte della mia vita a servizio dell’ambiente, nei 35 anni al Department of Environmental Protection del New Jersey. Ma mi sono comunque trovato poco tempo fa in una situazione contraddittoria. Si parla da tanto tempo nel paese di ridurre la dipendenza da petrolio come fonte principale di energia. Ne abbiamo trovate “forme pulite” come quelle dal vento, dall’acqua, dal sole. E parrebbe piuttosto semplice rivolgersi a queste, visto che non inquinano e si tratta di fonti naturali disponibili.
Oltre ad essere un ambientalista sono anche un pianificatore regolarmente iscritto all’albo del New Jersey, il che mi consente di testimoniare come esperto davanti alle commissioni urbanistiche. Poco tempo fa un’impresa mi ha chiesto di sostenere la sua richiesta alla commissione locale di realizzare una “fattoria solare” in un terreno agricolo. L’idea è che trattandosi di una superficie disponibile e di dimensioni sufficienti si possono installare molti pannelli a bassi costi e ottenere migliori economie di scala. L’energia solare va benissimo, mi pagano pure benissimo per poche ore di lavoro, e allora dov’è il mio dilemma?
Dal 2011, la PSE&G ha installato progetti di energia solare per circa 46 megawatt in New Jersey (preciso: non è la PSE&G che mi ha chiesto una consulenza) investendo milioni di dollari in “fattorie solari”. Ha anche sistemato dei pannelli su migliaia di pali del telefono in tutto lo stato. Nell’affare dell’energia solare sono entrati in molti altri. Il New Jersey viene considerato in una posizione di vertice a livello nazionale da questo punto di vista. PSE&G, Jersey Central Power and Light sono al terzo e nono posto nel paese, secondo la classifica 2011 della Solar Energy Industries Association. Nonostanete alcune difficoltà il mercato dell’energia solare continua a svilupparsi e di sicuro crescerà per il futuro. Il dilemma non è se diventare più solari o no, ma dove farlo. E usare il termine “fattoria” falsa le cose, perché in fondo si tratta di una schiera di pannelli solari.
Le vere fattorie — quelle agricole — vanno avanti da centinaia di anni nel nostro Stato Giardino. Di sicuro qui non ci sono quelle enormi superfici a colture o allevamenti da latte di altri stati, ma la nostra agricoltura è comunque fiorente e produttiva. Pensando al New Jersey, di sicuro la media degli americani pensa agli svincoli, alle zone industriali, a tutte quelle aree residenziali urbane o suburbane sulla costa. Difficile per chi guarda da fuori immaginare che ci sono anche migliaia e migliaia di ettari agricoli. E purtroppo queste superfici si sono ridotte del 26% negli ultimi trent’anni. Se la scomparsa viene rallentata negli ultimi anni dalla crisi economica della recessione, continua comunque. Tutelare l’ambiente non vuol dire solo acque pulite e aria pura; significa anche proteggere la nostra possibilità di abitare la Terra.
Le aree agricole del New Jersey offrono cibo fresco e di migliore qualità di quello trasportato qui da fuori. Mettere pannelli solari al posto dei campi vuol dire soltanto perdere superfici agricole. E si tratta oltretutto di superfici non permeabili, che aumentano il deflusso e riducono l’assorbimento naturale delle acque piovane. Cosa forse ancora più importante, così si distruggono stili di vita che ci mantengono in contatto con la natura. Quasi tutti i più recenti impianti di pannelli solari sono stati realizzati in zone urbane, là dove la domanda di energia è maggiore. Di norma si costruiscono sugli spazi disponibili, sui tetti, su aree inquinate. Questo tipo di installazioni è da sostenere. Pannelli solari impermeabili là dove si è già impermeabilizzato, come sui tetti, non peggiorano certo il problema della gestione delle acque piovane e del deflusso, cosa che accade invece negli impianti su terreni agricoli o in aree disboscate.
Poi si deve verificare che I pannelli solari non danneggino esteticamente gli ambienti urbani, regolamentando l’installazione attraverso norme urbanistiche, così come oggi si sta discutendo in varie amministrazioni locali, ad esempio a Hoboken o altre municipalità. Magari a qualcuno non piacciono i pannelli sui pali del telefono, ma almeno all’ambiente non fanno male. Dovremmo insieme al settore energetico sfruttare meglio i tetti, magari attraverso forme di contratti d’affitto in cambio di risparmi sulla bolletta. Si potrebbe anche intervenire sugli attuali crediti energetici e ridurre i sostegni a chi ha maggiori impatti. L’energia solare è un fatto positivo che aiuta a ridurre le importazioni di petrolio e l’impatto ambientale. Ma sicuramente io non posso essere favorevole al tipo di “fattoria solare” che mi hanno proposto, ergo ho rinunciato alla consulenza, sperando che tanti altri prendano decisioni simili.
Barry Chalofsky, ha diretto la sezione acque del Dipartimento Tutela Ambientale del New Jersey. Oggi è consulente per la pianificazione territoriale e ambientale Chalofsky & Associates
TUTTI ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell´animo e del crimine. L´occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d´un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna. Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l´ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.
In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa «uccisione-linciaggio in un impulso d´ira incontrollata»), e tale è stato l´attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell´amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l´ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l´assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l´omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus. Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: «Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio», così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell´«era dell´irresponsabilità». È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: «Mai più?». Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l´esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una "follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica". Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente «come un ragno nella sua tela, immobile da mesi». Amok è scritto nei primi anni Venti: un´epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ´14-18, Thomas Mann vedeva l´Europa sommersa da «nervosità estrema».
«L´amok è così – spiega Zweig nel racconto– all´improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada… Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l´orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente… Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato… ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L´ossesso corre senza sentire… finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando». Ci furono opere profetiche, negli anni ´20-´30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell´orrida e precisa visione del presente?
Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest´odio del diverso (dell´ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l´Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L´attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell´isola Utoya, uccise 69 ragazzi.
Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell´America degli odii razziali, in prima linea: l´odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l´Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d´ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino». Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: «Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso». Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d´immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.
Com´è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com´è possibile che l´Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell´aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un´isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l´alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l´etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito «la più grande tragedia dell´Ungheria moderna». Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell´Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell´odio razzista, della banalizzazione del male che s´estende in Europa, della democrazia distrutta.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come «unico contenitore della democrazia», poiché senza di lui non c´è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l´austro-ungarico, l´ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell´ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po´.
Può avere qualche significato politico il fatto che il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, abbia ritenuto di dedicare ai beni comuni - e al movimento da essi ispirato - l'incipit del suo editoriale della domenica. A dire il vero, il «benecomunismo» non è l'unico oggetto della infastidita attenzione di Scalfari. Figurano in un elenco di avversari della «ragione» (o, quantomeno, del «ragionevole»), incarnata nella diade Monti-Fornero: Beppe Grillo, Sabina Guzzanti, gli indecisi, i non votanti, gli indifferenti, e anche «la falange dei corrotti e dei corruttori» e le relative lobby.
Secondo Scalfari, questa compagnia di giro sarebbe tenuta insieme dall'ostilità nei confronti della democrazia rappresentativa, del mercato, della Tav, delle banche, dello spread, sognando, viceversa, di sostituire a tutto questo uno sgangheratissimo e chiaramente irrealizzabile sistema di democrazia diretta sorretto da una deriva antipolitica. La strada da percorrere, viceversa, è quella che stanno percorrendo Monti e Fornero, sia pure con qualche piccola, innocente sbavatura (ad es. non aver tirato le orecchie a Marchionne per aver sbattuto fuori la Fiom dalla Fiat): La strada delle riforme, in primis quella del mercato del lavoro, e del rigore finanziario, l'unica in grado di restituire dignità e prospettiva al Paese, dopo la lunga e infausta parentesi imposta dal Cavaliere.
Non abbiamo titolo per rispondere a nome di Grillo, Guzzanti, degli indecisi e neppure dei corruttori e delle loro lobby. Possiamo dire qualche cosa sui beni comuni, come studiosi, giuristi, militanti nel movimento referendario, qualcuno di noi come amministratore. È un tema che viene da lontano, dalle lotte per l'acqua sviluppatesi in alcuni Paesi dell'America Latina. In Italia esso incrocia un'importante iniziativa di riforma, promossa dal governo Prodi e culminata nel disegno di legge delega messo a punto dalla Commissione Rodotà che riscrive per intero la disciplina codicistica dei beni pubblici e introduce la categoria dei beni comuni, dando ad essi dignità, se non ancora normativa, quanto meno scientifica: e non è certo un caso che, da allora (la Commissione conclude i suoi lavori nel 2008, pochi giorni prima dello scioglimento delle Camere), la riflessione sui beni comuni abbia prodotto qualche innovativa sentenza e preso stabile dimora, sotto forma di monografie, saggi, tesi di dottorato e di laurea, convegni, all'interno della cultura giuridica italiana, da decenni appiattita su una obsoleta contrapposizione fra pubblico e privato.
L'altro grande fatto costituente per il movimento per i beni comuni nostrano è stato il referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali. In questa nuova stagione si inserisce l'avvio del nuovo ciclo di governo progressista di molte città, a cominciare da Napoli, dove i beni comuni danno il nome a un assessorato che si sta impegnando in politiche innovative sia per quel che concerne la gestione dei servizi pubblici, sia per quel che concerne la sperimentazione di forme originali di democrazia diretta e partecipativa che si affiancano, e non si sostituiscono, a quelle della democrazia rappresentativa.
Sull'onda di tutto questo si è sviluppata una spinta alla rivendicazione dei beni comuni (particolarmente significative le diverse occupazioni che a partire dal Teatro Valle sono condotte sotto la bandiera della cultura bene comune) il cui filo unitario è costituito, per un verso, da un netto rifiuto della prospettiva di una integrale mercificazione del mondo e, per altro verso, da una intensa domanda di partecipazione democratica, sin qui mortificata dal micidiale combinato disposto di deriva oligarchica dei partiti e di deriva tecnocratica delle istituzioni. Questa spinta, generosa e talora confusa, ma certo vitale, si è saldata, in alcuni casi, con esperienze di lotta già consolidate, come quella No Tav dove il paradigma dei beni comuni trova espressione esemplare proprio in ragione del forte legame tra una comunità che si autorganizza in forme inedite di partecipazione democratica e un territorio da preservare contro l'ingiustificata violenza di una speculazione finanziaria.
Più democrazia, meno mercato; più partecipazione e più valore d'uso, meno delega e meno valore di scambio: questo, in sintesi, il mondo dei beni comuni che, per dirla con Rodotà, propone un'altra politica capace di sconfiggere l'antipolitica. Si può dissentire: ma quando il dissenso assume le forme della caricatura e dell'aperto dileggio, vuol dire che quelle parole d'ordine cominciano a suscitare inquietudine in quel grande partito trasversale, a cui Repubblica dà voce, per il quale viceversa la parola d'ordine è: non disturbate il manovratore.
Un'ultima notazione. Proprio all'inizio del suo articolo Scalfari, inopinatamente imbossito, si avvale dell'elegante metafora del «dito medio» per descrivere quell'atteggiamento di ostilità a tutte le divinità in cui egli crede. Non possiamo non ricordare al nostro autorevolissimo interlocutore che, nella storia recente dei beni comuni, l'unico «dito medio» (sempre metaforicamente parlando) è quello che governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica continuano ad alzare nei confronti del popolo sovrano dopo aver reintrodotto la disciplina dei servizi pubblici locali abrogata dai referendum. Chissà se Scalfari si sarà mai chiesto quanto questo abbia a che fare con l'agonia di quelle istituzioni repubblicane a cui appare tanto affezionato. Magari ce lo dirà in un prossimo editoriale.
Scavano un tunnel a valle e mettono a rischio una strada a monte. La nuova storia della frana della galleria val di Sambro si potrebbe sintetizzare così. La frana che sta interessando il paesino di Ripoli-Santa Maria Maddalena nel Bolognese, risvegliata dagli scavi per la Variante di valico, ha fatto muovere i piloni della attuale Autostrada del sole, che da Firenze porta al capoluogo emiliano. Lo spostamento di almeno uno dei giganteschi pilastri che reggono il viadotto Piazza, registrato dalla fine di ottobre, è di un centimetro e mezzo. A segnalare il movimento sono stati gli strumenti di monitoraggio piazzati dalla stessa Autostrade per l’Italia, che dopo le proteste dei cittadini ha dovuto monitorare palmo a palmo l’area del paese. Ora a muoversi è anche il gigantesco viadotto.
A confermare la voce che già da alcuni giorni circolava, c’è una lettera di due tecnici della Regione Emilia Romagna, i geologi Marco Pizziolo e Annarita Bernardi, che da tempo si stanno occupando del caso Ripoli. La lettera, indirizzata all’assessore regionale alla difesa del suolo, Paola Gazzolo e resa pubblica oggi dal consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, Andrea Defranceschi, non lascia spazio a dubbi: “La superficie interessata dai movimenti è in aumento – scrivono i due tecnici – i limiti a monte continuano a essere oggetto di particolare attenzione, in quanto presentano segnali di un possibile coinvolgimento di almeno un pilastro dell’autostrada esistente. Analogamente è da tenere sotto particolare attenzione la strada provinciale a monte della stazione ferroviaria”.
Il breve passaggio della relazione è un ennesimo allarme che a questo punto non riguarda più solo i cittadini della frazione di San Benedetto val di Sambro, ma l’incolumità di tutti. Gennarino Tozzi condirettore generale Sviluppo Rete di Autostrade, ancora in una intervista apparsa sabato su Repubblica, negava il movimento del viadotto. “Non mi risulta”. Ora la conferma giunge dai palazzi di viale Aldo Moro. Che emette anche altre “sentenze”: la frana, anche dove gli scavi sono già passati, non si è fermata. Anzi, accelera. Forse è stata favorita anche dalle nevicate degli ultimi mesi che, sciogliendosi, hanno reso più scivoloso il terreno.
Proprio nelle scorse settimane il consiglio regionale emiliano romagnolo aveva votato all’unanimità un documento che chiedeva ad Anas e Autostrade lo stop ai lavori almeno fino alla fine delle indagini, portate avanti dai magistrati di Bologna. Ma per ora gli scavi proseguono e né il prefetto di Bologna, Angelo Tranfaglia, né il sindaco di San Benedetto val di Sambro, Gianluca Stefanini, hanno mosso un dito per bloccarli. Nel frattempo, un’altra famiglia (con una bambina piccola) è stata “de-localizzata”, cioè allontanata dalla propria casa. Papà, mamma e figlia sgomberati nei giorni scorsi vanno così ad aggiungersi all’altra dozzina di persone (sulle 500 totali di Ripoli) già evacuate dalle proprie case.
Intanto, la frana non solo interessa zone sempre più ampie, ha anche ripreso a correre. Come segnalano i tecnici della Regione: “Per quanto riguarda l’area di Santa Maria Maddalena allo stato attuale le velocità del movimento appaiono maggiori rispetto al periodo precedentemente oggetto di rapporto, raggiungendo in alcune aree più prossime agli scavi 1,5 centimetri al mese”. L’area di cui si parla nel rapporto è quella di casa Pellicciari, finora la più colpita dagli scavi che le stanno passando accanto.
I geologi Pizziolo e Bernardi evidenziano come le speranze che i movimenti franosi si fermassero erano risultate troppo ottimistiche: “La tendenza alla stabilizzazione menzionata nel rapporto precedente – si legge nella lettera – non sembra confermata dalle ultime rilevazioni. Sono osservabili infatti nell’ultimo periodo segnali indicanti una possibile accelerazione del movimento”.
Infine, in conclusione, la lettera dei geologi lancia un monito inquietante. “È probabile nel breve termine una prosecuzione delle attuali velocità, per l’effetto combinato delle due canne in avanzamento sia pure nell’incertezza del comportamento che tali fenomeni possono avere e nell’ipotesi che non si verifichino eventi non prevedibili attualmente, come svuotamenti improvvisi di sacche acquifere, precipitazioni intense e prolungate o collassi delle gallerie per motivi costruttivi. Tale deformazione non potrà che produrre un incremento delle deformazioni sui manufatti e sulle infrastrutture con estensione delle lesioni precedenti”. Insomma, per i prossimi mesi allerta massima.
Il primo commento, naturalmente, è proprio di Andrea Defranceschi. “Il documento di cui siamo in possesso è la pietra tombale sulle reiterate bugie che Autostrade ha tentato di propinarci negli ultimi mesi, e che la Regione ha avallato col suo silenzio. I dati e le conclusioni sono chiari: gli spostamenti delle case nelle frazioni Ripoli e Scaramuzza di Santa Maria Maddalena sono dovuti agli scavi. Basta con questa favoletta che fossero danni precedenti”.
Se Parmenide e Zenone avessero avuto la fortuna di conoscere l’onorevole Marcello Taglialatela sicuramente l’avrebbero condotto tra le rovine di Elea, la nobile città della Magna Grecia ora strangolata dall’alluminio anodizzato, dalle targhe fosforescenti, dalle case di mattoni bucati. Se solo avessero avuto questa fortuna avrebbero guidato l’assessore regionale all’Urbanistica a osservare come si sia riusciti a ingoiare persino il loro mare, affrontando le onde col cemento, chiudendo agli occhi e al cuore ogni rispetto per la memoria comune.
Ma Taglialatela di Velia, patrimonio dell’umanità rovinato dagli umani, simbolo della mediocrità di un ceto politico che danza al ritmo del calcestruzzo, ha purtroppo scarsa stima. L’assessore, cugino alla lontana di Attila, ha pensato di segnare la sua presenza alla Regione con un grandioso piano paesistico, opera formidabile di scrittura compulsiva, legge fondamentale nella quale trovano posto tutti i più bei gnè-gnè del mondo. E infatti (e come volete che mancasse all’appello!), è previsto il solito e purtroppo inutile Osservatorio, che dovrà monitorare l’integrità del paesaggio. Dovrà. Futuro del verbo dovere.
Nell’attesa, la legge annuncia la fine dell’unica legge che ha un poco salvaguardato Velia da altro cemento, un provvedimento speciale, approvato all’unanimità dal consiglio regionale nel 2005, che riduceva - seppure in limine mortis – l’appetito agli speculatori. Sei articoli che imponevano lo stop al consumo del suolo e la misericordia collettiva per i resti che ancora restano in vita.
Era una legge di salvaguardia, che ammetteva nella sua drastica misura il default della politica, l’incapacità delle amministrazioni locali di governare lo sviluppo del territorio per colpa delle collusioni e delle corruzioni, dell’ignoranza assoluta e dell’assoluta inconsapevolezza di cosa siano la bellezza e la cultura. E che valore abbia la nostra memoria, quale saldo anche economico produca.
Cosa è cambiato dal 2005 ad oggi? Cosa? Ce lo dica Taglialatela. Ci dica per esempio cosa ne è oggi della magnifica marina di Ascea, dove le concessioni edilizie sono sempre in eruzione malgrado lo zero spaccato imposto sette anni fa. Figurarsi senza quella normativa! Magari, ecco il bel futuro, avremo il suo ottimo Osservatorio che segnalerà nuovi seminterrati di carta, nuovi piani rialzati, nuove serrande di nuove finestre affacciate sulla Porta rosa.
Se solo Taglialatela facesse amicizia con Parmenide e Zenone…
PAVIA — Non sarà la Tav della Lomellina questa ferita profonda che da Est a Ovest taglia (per ora solo sulla carta) la terra del riso, attraversando l'area protetta del Parco del Ticino. Ma contro i 50 chilometri di autostrada (più 32 di svincoli e varianti della viabilità ordinaria) destinati a sconvolgere equilibri già delicati, è cresciuto in questi mesi il dissenso tra cittadini e istituzioni.Il progetto della Broni-Mortara, più elegantemente battezzato «integrazione del sistema infrastrutturale padano», dopo otto anni di gestazione è arrivato alla svolta finale. Lunedì è scaduto il termine per la presentazione delle «osservazioni», e ora la valutazione di impatto ambientale (Via) è all'esame dei ministeri competenti (Ambiente e Beni culturali). Lì si deciderà il futuro dell'opera, ma il parere contrario della Provincia di Pavia (che con la precedente amministrazione era invece favorevole), ha già posto una pesante ipoteca sulla realizzazione dell'autostrada, il cui progetto definitivo è stato approvato nel dicembre scorso dalla Regione.
Sul fronte del no, oltre a diversi Comuni, sono schierati il Coordinamento dei cinque Comitati e Associazioni, con Italia Nostra, Legambiente, WWF, Lipu, La Rondine, Slow Food, Amici di Beppe Grillo e comitato agricoltori.Eppure, all'inizio, l'idea di quest'opera — che aveva come grande sponsor il «faraone» Giancarlo Abelli, ex assessore regionale e sino a qualche mese fa potente luogotenente del Pdl a Pavia — aveva convinto molti. Alla prima conferenza dei servizi, nel 2007, su trenta enti partecipanti solo sei si erano detti contrari. I favorevoli al progetto sono convinti che la Broni-Mortara contribuisca a creare un corridoio Est-Ovest alternativo alla congestionata A4 Torino-Trieste, «colmando nel frattempo carenze infrastrutturali nella Lomellina e nell'Oltrepò». Si sostiene anche che l'opera rientra a livello europeo nel «corridoio 5», collegamento ideale tra Barcellona e Kiev (che in realtà è un tracciato ferroviario). Si parla poi di generici benefici allo sviluppo dell'economia locale. Intanto l'esecuzione dei lavori in project financing(il costo è di oltre un miliardo di euro, messo dalle banche) è stata affidata alla Sabrom, società appositamente costituita, di cui l'Impregilo ha il 40%. Costruirà l'autostrada e l'avrà in concessione per 42 anni.
Dall'altra parte, il fronte del «no» sostiene che si tratta di un collegamento inutile e dannoso. Inutile perché la zona avrebbe eventualmente bisogno di sviluppare la viabilità Nord-Sud e non Est-Ovest, inoltre si inserisce in una provincia che ha già 3200 km di strade, di cui 2000 provinciali (che spesso versano in situazioni disastrose a causa della mancanza di fondi) e 80 di autostrade. E avrebbe bisogna prima di tutti di altre cose, tipo un nuovo ponte della Becca (quello che c'è sta cadendo a pezzi) e migliori collegamenti tra Pavia e l'Oltrepò. «Manca un'analisi costi-benefici», dice Renato Bertoglio di Legambiente. Ma se su i benefici non ci sono certezze, sui danni sì.
Prima di tutto l'intera autostrada sarà realizzata «in rilevato», cioè con un'altezza di almeno 2,5 metri dal piano di campagna (ma in alcuni punti di svincolo arriva sino a 16 metri, come a San Martino Siccomario). Questo comporta la costruzione di terrapieni con materiale di cava per l'astronomico totale di 13 milioni di metri cubi. «È un dato impressionante — dice Legambiente — in una provincia in cui ci sono già 1200 cave dismesse». Il territorio rischia di diventare un'enorme groviera, anche se 4 milioni di metri cubi verranno dal riutilizzo di materiali di demolizione (e si è già visto con la Brebemi, sottolineano gli ambientalisti, i pericoli ambientali che possono correre).
L'autostrada attraverserà più di cento aziende agricole, devastando l'area in cui si trovano le produzioni di riso che fanno del Pavese il principale produttore europeo. E - dicono sempre i contrari - sarà fonte di inquinamento in una zona che già deve fare i conti con pesanti livelli di polveri sottili. A Parona, che è alle prese pure con una contaminazione di diossina dell'aria e del terreno, quest'anno a febbraio si è registrato il record lombardo di PM10 (225 microgrammi). Per il presidente della provincia Daniele Bosone, l'autostrada accorcerebbe di soli 20 km il collegamento A21-A4 già esistente e danneggerebbe in modo irreparabile il reticolo irriguo e le colture risicole. «Regione e Comuni — dice Bosone — devono capire che quest'autostrada non serve, danneggia l'economia del territorio e soprattutto non è sostenibile sotto il profilo ambientale».
(di qualche anno fa la nostra descrizione del tracciato f.b.)
«Essendo io stato assai studioso di queste antiquità, e avendo posto non piccola cura in cercarle minutamente e misurarle con diligenza … penso di aver conseguito qualche notizia dell’architettura antica. Il che, in un punto, mi da grandissimo piacere, per la cognizione di cosa tanto eccellente, e grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato». Così, nel 1519, scriveva Raffaello, rivolgendosi a papa Leone X, che lo aveva incaricato di censire e disegnare le cadenti antichità di Roma. E così possiamo dire ancora noi, dopo mezzo millennio: visitare e conoscere il paesaggio e il patrimonio storico artistico dell’Italia, ci dà, insieme, un grandissimo piacere e un grandissimo dolore.
In alcuni luoghi, tuttavia, c’è spazio solo per il dolore: così nella reggia borbonica di Carditello, che sorge tra Napoli e Caserta.
Quel luogo, un tempo incantato, è oggi precipitato in un inarrestabile gorgo di abbandono e decadenza, che fa apparire surreali ed ipocriti gli intonaci ancora nuovi del corpo centrale della grande fabbrica settecentesca, dovuti ad un effimero e costoso restauro avvenuto una dozzina d’anni fa.
Nelle ultime settimane sono stati sbarbati e rubati i cancelli, le acquasantiere della cappella, i gradini di marmo delle scale (!) e perfino l’intero impianto elettrico. Quel che non si poteva asportare è stato distrutto, e nelle ali fatiscenti che un tempo ospitavano le attività agricole della tenuta è possibile rinvenire di tutto: da cumuli inquietanti di schede elettorali, a mappe e rilievi dell’area, gettati alla rinfusa sotto tetti sfondati. Con un’inversione simbolica, l’abisso si attinge salendo sulla meravigliosa terrazza sommitale: il pavimento di cotto è stato strappato e rubato, mattonella per mattonella, e così i balaustrini di marmo che reggevano i parapetti. La reggia si è, insomma, trasformata in una gigantesca cava di materiali pregiati, che non è difficile immaginare indirizzati verso le oscene ville dei signori della malavita locale.
Né serve alzare lo sguardo verso il panorama: il turbine di gabbiani non segnala il mare, ma la discarica di Maruzzella, criminalmente realizzata su un terreno acquitrinoso in cui il percolato penetra fino alla falda, avvelenando i frutteti circostanti, oggi commoventemente in fiore, e compromettendo per decenni la catena alimentare, e dunque l’uomo.
Così, in questa distruzione simultanea dell’ambiente, del paesaggio, e del patrimonio storico e artistico pare di scorgere davvero «il cadavere della patria», cioè il volto sfigurato dell’Italia.
Sfigurato da chi? Anche qui salgono alle labbra le parole di Raffaello: «Ma perché ci doleremo noi de’ Goti, Vandali e d’altri tali perfidi nemici, se quelli li quali come padri e tutori dovevano difender queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle?». I vandali siamo noi: i ladri italianissimi che ogni notte si infilano nella reggia (in un territorio lasciato in mano alla Camorra), i cittadini che non reagiscono, immemori della loro stessa identità. Ma soprattutto i proprietari, che hanno permesso questo scempio: il Consorzio di Bonifica del Volturno, indebitatosi al punto da farsi pignorare la reggia dal Banco di Napoli. E poi quest’ultimo, e dunque Banca Intesa, che invece di farsi carico di questo straordinario complesso, lo mette all’asta per recuperare il credito. E infine il Ministero per i Beni culturali, che avrebbe avuto tutti gli strumenti per imporre il rispetto della tutela, fino ad arrivare ad un esproprio che avrebbe potuto salvare un patrimonio ormai in gran parte compromesso. Una catena di vandalismo, diretto o indiretto, di cui non si intravede la fine.
Cosa fare, a questo punto? Domani il ministro Ornaghi sarà a Carditello, e presiederà una riunione che dovrebbe decidere la sorte della reggia.
Il Ministero per i Beni culturali potrebbe anche comprarla direttamente. Ma indigna l’idea che lo Stato possa regalare altro denaro pubblico a una proprietà che ha permesso che un bene pubblico fosse devastato. Forse sarebbe più saggio e più equo costringere Banca Intesa (non del tutto sconosciuta al governo Monti) a essere all’altezza di quella magnifica immagine di mecenatismo e sollecitudine per l’interesse pubblico tanto celebrata dalla retorica dominante. Sarebbe, infatti, paradossale che in un momento in cui i cosiddetti ‘mecenati’ acquistano o noleggiano i beni pubblici capaci di produrre reddito, lo Stato sollevasse proprio uno di loro dal peso di un bene assai difficile da valorizzare, e peraltro colpevolmente ridotto al disastro.
Qualunque sarà – se ci sarà – la soluzione, essa non potrà riguardare solo l’edificio monumentale di Carditello, ma dovrà far parte di un piano di rilancio complessivo di un territorio che ora sente di non avere futuro. A quale funzione si può assegnare un edificio che sorge in una zona in cui all’imbrunire non è prudente circolare? Quale prospettiva turistica esiste per un sito in cui, quando il vento tira dalle discariche, l’aria è irrespirabile?
Il miglior lavoro di documentazione e informazione su questo intreccio infernale che divora una delle terre più feconde e belle del mondo è stato fatto dall’eccezionale gruppo di giovani intellettuali napoletani che si riunisce nelle ‘Assise della Città di Napoli e del Mezzogiorno’ e opera attraverso la Società di studi politici di Napoli. Il loro dossier si chiama «Campania chiama Europa». L’Italia, ormai, sembra fuori dal gioco.
Eccolo, dunque. Il Piano di Governo del Territorio rivisto, che attualmente è in esame in Commissione Urbanistica. Così, integrale, con tutti i tecnicismi, non l'ha ancora visto nessuno. A renderlo pubblico su Affaritaliani.it è il capogruppo del Pdl a Palazzo Marino Carlo Masseroli, il papà del Pgt varato dalla Moratti e rivisto dall'assessore De Cesaris insieme alla giunta guidata da Giuliano Pisapia.
(il resto sul sito Affari Italiani)
II ministro Ornaghi ha chiesto di correggere il decreto che assegnava al Comune maggiori competenze: «La tutela spetta allo Stato». Oggi la discussione in Parlamento E’ ancora infuocato il percorso di conversione in legge del decreto su Roma Capitale: il Ministero dei Beni e delle attività culturali (Mibac) negli ultimi giorni ha deciso, finalmente e tardivamente, di prendere posizione contro gli evidenti profili incostituzionali riguardo il patrimonio capitolino. Questa settimana il provvedimento completerà il suo iter in commissione bicamerale per poi approdare in aula, ma l'esito non è affatto scontato. Al centro dello scontro ci sono ora i beni culturali della Capitale: il decreto nella sua versione iniziale assegnava al Comune di Roma funzioni di tutela e valorizzazione, sottraendole al Mibac. Nel primo caso il provvedimento era patentemente anticostituzionale, essendo la tutela assegnata allo Stato dall'articolo 117 della Carta, cosa ribadita nel Codice dei beni culturali del 2004. Per la valorizzazione invece la decisione è assai discutibile: le amministrazioni locali infatti ben di rado hanno svolto appropriatamente questi compiti. A conferma, basterà rammentare alcune luminose iniziative proprio del Comune di Roma: aprile 2009, proiezioni di immagini sulla parete del Foro Traiano per il Natale di Roma, con il filmato della dichiarazione d'entrata in guerra dell'Italia fascista a fianco di Hitler che Benito Mussolini fece il 10 giugno del 1940; dicembre 2010, l'Ara Pacis diventa un autosalone, con il sovrintendente comunale Broccoli che autorizza la presentazione di due city car; ottobre 2011, esibizione di carri armati e blindati al Circo Massimo. E dopo le adunate di forconi e tassisti al Circo Massimo del gennaio 2012, è della settimana scorsa l'ultima proposta: dotare di un patentino comunale i centurioni che affollano i siti di interesse artistico chiedendo soldi ai turisti per farsi fotografare insieme a loro. In una riunione congiunta con i rappresentanti della commissione bicamerale, il ministro Lorenzo Ornaghi e il sottosegretario Roberto Cecchi hanno chiesto di modificare il testo della legge, limitandone gli aspetti incostituzionali sulla tutela e ridimensionando le funzioni di valorizzazione. Un intervento atteso e dovuto, senz'altro positivo nei suoi esiti, anche se permane qualche incongruità. Viene istituita una Conferenza delle sovrintendenze, tra cui quella speciale del Comune di Roma che, si legge all'articolo 4, «può essere chiamata a pronunciarsi in merito al rilascio dei titoli autorizzatori», mentre all'articolo 7 si specifica che Roma Capitale concorre «alla definizione di indirizzi e criteri riguardanti le attività di tutela, pianificazione, recupero, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio». Malgrado la vaghezza degli enunciati, la tutela — e le autorizzazioni fanno parte della tutela — è di stretta competenza dello Stato. E questi cedimenti, che sembrano un contentino per l'amministrazione capitolina, comporteranno un appesantimento burocratico nella funzione di tutela. La Conferenza delle soprintendenze — in realtà una conferenza di servizi si riunisce da oltre vent'anni — nasce infatti con una forte vocazione a diventare un luogo di scambi opachi o una trincea dei veti incrociati, insomma un organismo barocco ma non funzionale. Il testo così modificato oggi sarà nuovamente in discussione alla commissione bicamerale e, nonostante contenga in altre sue parti indubitabili vantaggi per la Capitale — come l'ingresso al Cipe—, dal Comune di Roma si potrebbero alzare le barricate proprio sulle modifiche in materia dei beni culturali. In questo caso i rappresentanti del Pd, tra cui Marco Causi, correlatore della conversione in legge, e di Api, Idv e forse Lega, potrebbero optare per un doppio testo da votare a maggioranza.
Ci sono diverse ragioni per parlare dell'abitabilità di Milano. Il rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà, pubblicato sulCorriere della Seradel 13 Marzo, analizza le città italiane da questo punto di vista osservando, come spesso in queste classifiche, le difficoltà della nostra città. Il problema è che Milano sta cambiando profondamente sotto i nostri occhi e manifesta segnali di crisi proprio sul terreno dell'abitabilità, della vivibilità intesa in senso complessivo. Qualche dato: Milano ha perso dal 1973 a oggi circa 700.000 residenti, che si sono spostati prima nei comuni della provincia, poi nelle province confinanti. La città è diventata il cuore di una vasta regione urbana fortemente integrata. Al contempo ha assorbito oltre 200.000 immigrati provenienti per lo più dai paesi poveri del Sud del mondo e dell'Est Europa. Aveva 1.750.000 abitanti, ne ha oggi poco più di 1.300.000. Chi è rimasto è invecchiato, in famiglie sempre più piccole, mentre i giovani si sono trasferiti. Nello stesso periodo Milano ha affrontato un altro profondo cambiamento: ha perso 250.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero, compensati dalla crescita sostenuta di posizioni nel settore dei servizi. Le case e gli opifici svuotati dalla popolazione residente e dalle industrie si sono riempiti di uffici, di showroom, di popolazioni provvisorie come gli studenti (ce ne sono 190.000 nelle nostre università), di lavoratori temporanei, di immigrati.
Ogni giorno arrivano a Milanocity-usersin auto (ne entrano circa 800.000) in treno (320.000 persone ogni giorno in stazione centrale), in aereo (37 milioni di passeggeri l'anno) e con altri mezzi pubblici. Si stima che la popolazione diurna di Milano sia circa il doppio di quella residente. Da una parte la città dei residenti, invecchiati, un po' impauriti e oppressi da problemi di congestione, inquinamento e abuso nei quartieri della movida, dall'altra la città-piattaforma delle funzioni dinamiche della Milano produttiva fatta di ricerca, finanza, moda, servizi avanzati, svago. Abitata questa da pendolari che faticano a raggiungerla nelle code interminabili di auto, nei treni malandati e nei bus spesso sovraffollati. È nella relazione fra queste due città che si gioca la questione dell'abitabilità: oggi la città-piattaforma schiaccia la città dei residenti. Occuparsi di abitabilità significa non pensare a progetti faraonici ma a ciò che può rendere la città accogliente, viva e in armonia, dando la casa ai giovani, ai lavoratori che fanno funzionare la macchina urbana, alle popolazioni temporanee. È necessario occuparsi degli spazi collettivi e dei luoghi della cultura che consentono l'incontro, del verde urbano, della valorizzazione delle aree agricole e naturali, della qualità dell'aria, delle forme e dei luoghi della mobilità, dei mezzi pubblici, della ciclabilità e di un uso delle auto non invasivo, dei servizi di welfare per la popolazione anziana e per l'accoglienza degli immigrati e delle nuove famiglie, di un decentramento vero di funzioni non marginali.
Il fatto nuovo è che l'abitabilità non è più solo un'esigenza degli abitanti: in un mondo sempre più interconnesso e globale è un fondamentale fattore di attrattività e quindi anche di successo economico.(Sandro Balducci è prorettore del Politecnico)
Nel numero di gennaio-febbraio della rivista Foreign Affairs un articolo di Matthew Kroenig intitolato «È il momento di attaccare l'Iran» spiega perché un attacco è l'opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l'Iran, mentre gli Stati uniti traccheggiano tenendo aperta l'opzione dell'aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni unite, fondamento del diritto internazionale.
Mano a mano che aumentano le tensioni, nell'aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Stati uniti rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla «comunità internazionale» - nome in codice per definire gli alleati degli Stati uniti - le preoccupazioni per l'imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.
I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell'Iran di arricchire l'uranio, opinione condivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati uniti (sondaggio WorldPublicOpinion.org) prima dell'asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all'Iran, come pure l'India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumentà il volume dei suoi commerci con l'Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l'Iran però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l'Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della Brookings Institution e di Zogby International.
I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull'Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po' di tempo, le loro preoccupazioni per l'arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l'armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell'esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è ovvio, è "impiegarle" negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele. Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in «Difesa della Terra santa», un'analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell'Assemblea generale dell'Onu.
Intanto le sanzioni occidentali contro l'Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l'Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l'Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell'Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all'inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni appoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati. Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l'Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere un'invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l'Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione.
Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione. Un'altra accusa dell'Occidente contro l'Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all'aggressione israeliana in Libano e all'occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell'Iran costituiscono minacce intollerabili per l'ordine globale.
L'opinione pubblica concorda con Maoz. L'appoggio all'idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) - Pakistan e India - paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l'aiuto Usa. L'appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele. Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l'obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all'Iran, è molto poca l'attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la «comunità internazionale» la minaccia che l'Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall'unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.
©La Jornada/il manifesto
Il Ministro Ornaghi: limitare il consumo di suolo, riqualificare le città, tutelare il paesaggio
Lo ha annunciato il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Lorenzo Ornaghi, intervenuto in Commissione Territorio, Ambiente, Beni Ambientali del Senato per illustrare gli indirizzi del Governo in tema di tutela del paesaggio.
Ornaghi ha spiegato che la legge urbanistia 1150/1942 è ormai obsoleta e dovrà essere rinnovata affrontando realtà complesse e diversificate, al fine di contenere al massimo il consumo di suolo e di canalizzare le attività edificatorie verso il rinnovamento e la riqualificazione delle città. La nuova legge - ha assicurato il Ministro - sarà messa a punto con l’intesa del Ministro delle infrastrutture e trasporti e con il concerto degli attori istituzionali e degli altri soggetti, anche portatori di interessi diffusi.
Un importante passo verso questa direzione - ha aggiunto il Ministro -, il Governo lo ha già fatto con il Decreto Sviluppo DL 70/2011 che, all’articolo 5, commi da 9 a 14, impone alle Regioni di approvare leggi per la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e la riqualificazione di aree urbane degradate. Le leggi regionali possono assegnare bonus volumetrici, consentire la delocalizzazione di volumetrie in aree diverse, modifiche delle destinazioni d'uso o della sagoma necessarie all’armonizzazione architettonica con gli edifici esistenti.
Tornando al paesaggio, tema centrale dell’intervento in Senato, Ornaghi è partito da un importante dato: le superfici artificiali sono aumentate, in Italia, tra il 1956 ed il 2001, del 500%. In molte zone, a fronte di un decremento demografico, si è paradossalmente verificato un incremento delle superfici urbanizzate. Le cause del fenomeno, per il Ministro, sono molteplici: oltre agli ‘investimenti nel mattone’, vi sono ragioni legate alle esigenze finanziarie degli Enti locali, che sempre più spesso utilizzano l’edificabilità dei suoli come strumento di politica di bilancio.
Il Ministero si impegnerà a promuovere l’emanazione dei nuovi piani paesaggistici previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e ad estendere la pianificazione paesaggistica all’intero territorio regionale, non limitandola ai soli beni direttamente soggetti a vincolo, rendendo quindi il piano paesaggistico uno strumento di pianificazione di area vasta in grado di dettare quantomeno le invarianti dei processi di trasformazione e di canalizzarle verso aree già urbanizzate o comunque artificiali da recuperare e riqualificare, preservando i suoli agricoli e i paesaggi di maggior pregio.
Con i nuovi piani entrerà in vigore la semplificazione introdotta dal DL 70/2011, secondo cui, a determinate condizioni, il parere della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici sarà obbligatorio ma non vincolante e si considererà comunque favorevole decorsi 90 giorni.
Altro spunto di riflessione sono le distorsioni causate dal regime degli indennizzi delle espropriazioni per opere di pubblica utilità: il sistema vigente - ha detto Ornaghi - riconosce il prezzo di mercato per i suoli edificabili o edificati e concede uno sconto, anche più del 40%, nel caso di suoli agricoli, favorendo così il consumo di territorio agricolo. Questa situazione, unita alla maggiore sensibilità dell’opinione pubblica in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio, rende urgente limitare il consumo del suolo che, insieme al fenomeno della dispersione urbana, mette a rischio il paesaggio italiano. Il primo passo, per Ornaghi è un deciso rifiuto del metodo dei condoni edilizi.
Tale approccio - ha chiarito il Ministro - non va inteso come ostacolo per le imprese edili le quali, si sono dimostrate attente, anche attraverso le associazioni di categoria, al recupero delle periferie degradate e delle aree industriali dismesse e al miglioramento dell’efficienza energetica del patrimonio edilizio.