A tre anni dal terremoto il centro storico della città, tra i più importanti del nostro Paese, è ancora lì, fermo e inagibile come il primo giorno. Eppure si poteva almeno in parte ripararlo e renderlo di nuovo vivibile. Invece è stata scelta la strada delle "new town" e la ricostruzione non è mai partita. Ora c'è il piano e ci sono anche dei soldi, ma siamo ai preliminari
Documenti, interviste, video: http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/04/03/news/l_aquila-32687073/
Otto miliardi intrappolati nella burocrazia. Così la ricostruzione è ferma al 2009
Francesco Erbani
La strada per far rinascere L'Aquila e i comuni vicini è ancora lunga. Poco più della metà degli abitanti sono tornati nelle loro case. Il Comune ha finalmente approvato il piano, obbligatorio per legge, che detta la via per il recupero degli edifici. Un documento che divide gli esperti, mentre in molti mettono in dubbio quanto fatto fino ad ora: "Già nel 2009 si poteva riparare immediatamente le case che avevano subito piccoli danni e far rientrare gli sfollati nelle loro abitazioni". Invece, si scelse la via delle 'New town' volute da Silvio Berlusconi. Oggi quartieri desolati, sganciati dal resto della città.
I miliardi rimbalzano come palline in un box di plastica. E il tintinnio dovrebbe alleviare la tristezza di questo terzo anniversario del terremoto (6 aprile 2009: morirono 309 persone a L'Aquila e in una cinquantina di comuni abruzzesi). Dovrebbe, ma non è aria. Nella città di Collemaggio, delle Anime Sante, della Casa dello studente sbriciolata sui corpi di otto ragazzi, si fanno i conti. Sono 27 mila le persone, su 45 mila sfollati, che ancora non sono tornate nelle proprie case. Diecimila di queste vivono con un misero contributo mensile e si arrangiano da parenti e amici oppure pagano un affitto quasi da strozzo all'Aquila o altrove. Gran parte di quelle 27 mila persone abitavano nel centro storico, dove ha resistito il solo Raffaele Colapietra, lo storico ottantenne che non ha mai lasciato, con il suo piccolo esercito di gatti, la palazzina grigia sotto il Castello. "Adesso dovrò trasferirmi anch'io, qui cominciano dei lavori e vado in affitto", dice il professore. E i gatti? "Verranno con me". Un altro paio di famiglie, oltre ai gatti, fanno compagnia a Colapietra in tutto il centro storico. Per il resto c'era il deserto subito dopo il 6 aprile e tuttora c'è il deserto. C'erano le transenne e ci sono le transenne. C'era un silenzio cupo, rotto dallo scalpiccìo dei calcinacci sotto le scarpe. E c'è ancora.
Stanziati oltre dieci miliardi. Altri conti calano sugli aquilani. Le cifre fioccano: stando a una relazione stilata dal ministro Fabrizio Barca, che ora coordina gli interventi del governo, i soldi finora stanziati ammontano a 10,6 miliardi: 2,9 sono stati spesi per l'emergenza (833 milioni solo per i 4.500 appartamenti del progetto C. a. s. e., le cosiddette new town che ospitarono 15 mila persone, un terzo dei senzatetto aquilani); 7,7 miliardi, si legge sempre nella relazione, dovrebbero coprire i costi per la ricostruzione dell'Aquila e degli altri paesi colpiti.
I passi verso la ricostruzione. Ma basteranno? Il tintinnio dei miliardi diventa un tonfo sordo. La ricostruzione dei soli edifici privati nel centro storico dell'Aquila dovrebbe costare 3 miliardi e 800 milioni. Un altro miliardo e mezzo è necessario invece per i centri storici delle cinquanta frazioni disseminate nel vasto territorio comunale. Queste cifre sono contenute nel Piano di ricostruzione da poco approvato dal Comune. È un passo significativo, traccia il disegno futuro della città. Ma di esso si è parlato poco. Il documento urbanistico, realizzato da architetti comunali guidati da Chiara Santoro e da un gruppo di consulenti capeggiato da Daniele Iacovone, dovrebbe fissare le procedure perché il cuore dell'Aquila torni a battere come prima del terremoto. O addirittura meglio. Ma su quel documento, che ancora attende il parere definitivo del Commissario di governo, il presidente della Regione Gianni Chiodi, si addensano anche polemiche. Il criterio ispiratore è nella formula "dov'era, com'era". Una formula che prevede, però, di ridurre l'altezza di edifici costruiti dopo gli anni Cinquanta, edifici senza alcuna qualità e fra i più danneggiati dal sisma (ma i proprietari sembrano restii ad accogliere l'invito del Comune a spostarsi altrove). Alcune iniziative destano le proteste di Italia Nostra: almeno tre parcheggi interrati e multipiano, uno dei quali accanto alla scalinata che fronteggia la spettacolare facciata di San Bernardino.
Il Piano di ricostruzione è un obbligo di legge. Andava fatto. È stato imposto a tutti i comuni del cratere dal Commissario e dai suoi consulenti, la Struttura tecnica di missione, che però ha impiegato oltre un anno solo per elaborare le "linee guida". Ma nella faticosa gestazione del Piano si racchiude il paradosso tragico di una città che tre anni dopo il sisma ancora discute di come ricostruire il suo centro. Già il vecchio Piano regolatore della città, approvato nel 1975, conteneva infatti le norme che avrebbero consentito da subito di avviare restauri e ristrutturazioni. Ne è convinto lo stesso Iacovone: "L'80 per cento degli interventi che prevediamo ora sono conformi a quel piano di quasi quarant'anni fa".
Si è perso un mucchio di tempo. Si avvicinano le elezioni amministrative e chissà quanto se ne perderà ancora, andando indietro come i gamberi, mentre ogni giorno che trascorre infligge altre ferite ai preziosi edifici e rende asfittica la vita di una città senza più un centro. I finanziamenti coprono integralmente solo la prima casa, mentre nel centro storico ci sono molte seconde case che rischiano di restare abbandonate. Inoltre il contributo di 1.270 euro a metro quadro è uguale per edifici del 1960 e del XVIII secolo (un rimborso maggiorato è previsto solo per i palazzi vincolati).
I dubbi sul progetto voluto da Berlusconi. Su una cosa concordano architetti e urbanisti di diverso orientamento. È un altro paradosso, ma è così: il centro storico dell'Aquila, la città bellissima ora abitata da fantasmi, transennata, imbullonata nelle impalcature, non è stata rasa al suolo, è inabitata e inabitabile, ma non distrutta. "I crolli nella parte antica non superano il 2 per cento del totale", stima Iacovone. Le polemiche recano il suono delle cose dette tre anni fa. Quando l'urbanista Vezio De Lucia, il Comitatus Aquilanus e altri sostennero che invece del progetto C. a. s. e., occorreva sistemare provvisoriamente i senzatetto e avviare la riparazione di quel che si poteva riparare nel centro storico, che già a settembre del 2009 poteva accogliere i proprietari delle case che non avevano subito danni gravissimi: il 25 per cento degli edifici. Si scelse, invece, la strada dettata da Silvio Berlusconi e Guido Bertolaso.
A tre anni dal terremoto siamo ancora ai preliminari. Nelle aree periferiche si lavora, anche disordinatamente e perfino ignorando prescrizioni antisismiche. "Ma è qui che ci vorrebbe una corretta pianificazione urbanistica, qui dove il territorio è stato sconvolto dalle new town. Eppure di questa pianificazione non c'è traccia", insiste De Lucia. "Non si capisce come questi desolati quartieri si legheranno fra loro e con il centro della città", aggiunge l'urbanista.
Lo studio Ocse. E invece per il centro storico si discute come se fossimo all'indomani del sisma. E si affollano documenti di varia natura. A metà marzo è stato presentato nei laboratori del Gran Sasso, uno studio realizzato dall'Ocse e dall'Università di Groningen, in Olanda. L'indagine, di cui ha scritto su Repubblica Riccardo Luna, sarà completata a dicembre (è stata finanziata dall'allora capo dipartimento dell'Economia, Fabrizio Barca, ora ministro, da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria). Compaiono indicazioni serissime sulla rinascita economica dell'Aquila e del cratere, sui settori che andranno sviluppati (la cultura, l'ambiente, le tecnologie). Ma ci sono alcuni passaggi che inquietano sia De Lucia che Iacovone: si auspica "un rinnovamento urbanistico" e la possibilità di modificare senza limiti l'interno degli edifici, salvaguardando, ma anche "migliorando", solo le facciate storiche. E per questo si suggerisce un concorso internazionale di architettura. Incalza Iacovone, preoccupato che si perda altro tempo: "Che cosa fare nel centro storico lo sappiamo bene, sono competenze che noi italiani abbiamo reinventato e insegnato al resto del mondo fin dagli anni Sessanta. Si devono fare progetti di restauro, di risanamento e di ripristino. Si può decidere che cosa salvare e che cosa no. Ma non si deve disegnare un tracciato urbano, quello c'è già da settecento anni. E poi questi palazzi settecenteschi sono costruiti intorno a dei vuoti, a dei pregiatissimi chiostri, non possiamo svuotarli ancora. E per farci che cosa? Dei falsi?".
Primo. Occorre affermare con forza la funzione civile e costituzionale del patrimonio. Occorre dire che il patrimonio non è un lusso per i ricchi né è un mezzo per intrattenersi nel “tempo libero”, ma al contrario serve all’aumento della cultura ed è un importante strumento per la rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e per l’attuazione piena dell’eguaglianza costituzionale. E occorre anche dire che, dunque, il suo fine non è quello di produrre reddito. Che, cioè, il patrimonio storico e artistico della nazione non è il petrolio d’Italia.
Secondo. Il patrimonio di proprietà pubblica deve essere mantenuto con denaro pubblico: esattamente come le scuole o gli ospedali pubblici. Fatti salvi i principi generali di competenza (per cui vedi il punto 7) potranno ammettersi al più concorsi privati di finanziamenti, di controllata finalizzazione costituzionale. Il patrimonio di proprietà pubblica deve rimanere tale: e sono dunque inammissibili le alienazioni di sue parti a privati. Esso non deve essere privatizzato nemmeno moralmente o culturalmente attraverso prestiti, noleggi, appalti gestionali esclusivi o cessioni temporanee che di fatto ne sottraggono alla collettività il governo, immancabilmente socializzandone le perdite (in termine di conservazione e di degrado culturale) e privatizzandone gli eventuali utili.
Terzo. Il patrimonio appartiene alla nazione italiana (e in un senso più lato esso è un bene comune all’intera umanità), e anzi la rappresenta e la struttura non meno della lingua. È per questo che il sistema di tutela deve rimanere nazionale e statale, e non può essere regionalizzato o localizzato.
Quarto. Il patrimonio è proprietà di ogni cittadino (non pro quota, ma per intero) senza differenze di credo religioso. Il patrimonio, cioè, è laico: ed è tale anche quello religioso e sacro. In altre parole, al significato sacro delle grandi chiese monumentali italiane si è sovrapposto un significato costituzionale e civile che, non negando il primo, impedisce alla gerarchia ecclesiastica di disporre a suo arbitrio di tali porzioni del patrimonio stesso.
Quinto. Il patrimonio che abbiamo ereditato dalle generazioni passate e che dobbiamo trasmettere a quelle future (e del quale dobbiamo render conto a tutta l’umanità) deve rimanere affidato ad una rete di tutelache obbedisca alla Costituzione, alla legge, alla scienza e alla coscienza, e non può cadere nella disponibilità delle autorità politiche che decidono a maggioranza. Ogni forma del plebiscitarismo ormai largamente invalso nel Paese appare, infatti, particolarmente pericolosa se applicata al patrimonio.
Sesto. Il patrimonio storico e artistico italiano è coesteso e fuso all’ambiente e va tutelato, conosciuto e comunicato nella sua dimensione organica e continua. È inaccettabile ogni politica culturale che si concentri sui cosiddetti capolavori “assoluti” (cioè, letteralmente, “sciolti”: da ogni rete di rapporti significanti) per espiantarli e forzarli in percorsi espositivi dal valore conoscitivo nullo. In altre parole, in Italia gli eventi stanno uccidendo i monumenti: e occorre, dunque, una drastica inversione di rotta. Nella stragrande maggioranza, le mostre di arte antica sono pure operazioni di marketing che strumentalizzano le opere, ignorano la ricerca e promuovono una ricezione passiva calcata sul modello televisivo: la discussione e l’adozione di un codice etico – e innanzitutto di una severa moratoria – per le mostre appare dunque urgentissima.
Settimo. È vitale affidare la tutela materiale e morale del patrimonio a figure professionali di sperimentata competenza tecnica e culturale. A seconda dei vari ruoli, esse sono quelle degli storici dell’arte, degli archeologi, degli architetti, dei restauratori diplomati dall’ICR e dall’OPD. Non ha invece alcuna identità specifica (né sul piano intellettuale, né su quello professionale) la figura del cosiddetto “operatore dei Beni culturali”.
Ottavo. Occorre dunque mettere radicalmente in discussione l’invenzione dei corsi e delle facoltà di Beni culturali. Non solo la loro esistenza è intenibile sul piano intellettuale (qual è infatti lo statuto epistemologico dei cosiddetti Beni culturali?), ma sostituendo agli storici dell’arte-umanisti figure di “esperti” o “tecnici” tali corsi e facoltà pongono le premesse per l’azzeramento della tutela e dell’attribuzione di senso culturale al patrimonio stesso. Occorre invece ribadire con forza che la funzione primaria degli storici dell’arte come umanisti è quella di favorire “la riappropriazione critica degli spazi pubblici e dei beni comuni”. Combattere, cioè, perché il tessuto storico delle nostre città torni ad essere lo strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, e sfugga all’alternativa tra la distruzione e la trasformazione in un parco di intrattenimento a pagamento.
Nono. È necessario restituire dignità e utilità intellettuali alla presenza della storia dell’arte sui media italiani: che attualmente è dilagante, quanto mortificante. Chi può dire di aver appreso, tramite un giornale italiano, qualcosa circa l’attualità della ricerca storico-artistica? Quale saggio, idea, prospettiva scientifica, scuola di pensiero ha potuto trovare uno spazio per presentarsi al grande pubblico? Il novanta per cento degli articoli che trattano di storia dell’arte si occupa di mostre essendone, di fatto, una pubblicità più o meno occulta: gli sponsor comprano sempre più spesso intere pagine dei grandi quotidiani italiani in cui pubblicare stralci del catalogo accanto ad interventi promozionali di noti storici dell’arte. La storia dell’arte rappresenta, di fatto, il fronte più avanzato della mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto.
Decimo. Il fronte più importante nella battaglia per la salvezza del patrimonio storico e artistico italiano è quello che passa nella scuola. È vitale difendere e anzi ampliare l’asfittico spazio concesso negli orari scolastici a quella “storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole aver coscienza intera della propria nazione” (la citazione è da Roberto Longhi).
Chi davvero ha a cuore il futuro delle opere d’arte, e della natura e della storia che le hanno generate – cioè chi ha a cuore il futuro del nostro Paese , deve lottare perché le prossime generazioni escano dall’ analfabetismo figurativo che ha afflitto quelle precedenti, e che ha sempre reso cieca la classe dirigente della Repubblica.
* Tq è un movimento di lavoratrici e lavoratori della conoscenza trenta-quarantenni
Quel decalogo per evitare il marketing culturale
Salvatore Settis – la Repubblica, 5 aprile 2012 (m.p.g.)
La demeritocrazia che da decenni governa il destino, e il declino, di un’Italia assai distratta ha regole di ferro. Fra queste: avanti i mediocri, quelli bravi si arrangeranno all´estero; meglio rifriggere banalità condivise, pensare è noioso; largo ai vecchi, i giovani possono aspettare. Perciò leggendo il manifesto TQ "sul patrimonio storico-artistico della nazione italiana" (da oggi disponibile integralmente sul loro sito, n.d.r.) c’è di che stupirsi. Giovani di trenta-quarant’anni che hanno scelto per parlare d’Italia la prospettiva della loro generazione; anzi, i «non pochi storici dell´arte che hanno deciso di aderire a TQ» che convincono gli altri a firmare un manifesto come questo; addirittura, un testo che non ricicla sciocchezze sui "beni culturali" come "petrolio d’Italia", da "sfruttare" fino ad esaurirlo come fosse un combustibile, ma proclama che «il fine del nostro patrimonio non è di produrre reddito», ma di esercitare un’alta funzione civile, di «rappresentare e strutturare, non meno della lingua», la comunità nazionale.
Si sente vibrare molta indignazione e non poca speranza, nelle parole dei TQ. Indignazione (altra singolarità) rivolta in primo luogo verso la corporazione stessa degli storici dell’arte, corresponsabili dell’«inesorabile degrado del ruolo della storia dell’arte nel discorso pubblico italiano», di aver trasformato la loro disciplina in «un fiorente settore dell’industria dell´intrattenimento» prestandosi alla «mutazione mediatica del dibattito culturale in marketing occulto» di mostre ed eventi, anzi dei loro sponsor. Speranza, invece, nella nascosta forza di una disciplina ancora capace di trovare in se stessa le ragioni di un forte ruolo civile, la dignità di una disciplina umanistica, lo status di «sapere critico, strumento di riscatto morale, di liberazione culturale e di crescita umana».
Quello degli storici dell’arte, suggerisce il "manifesto TQ", non è il silenzio degli innocenti. Infatti essi non tacciono, anzi sono impegnati in un vano chiacchiericcio intorno a mostre spesso inutili o dannose, ad attribuzioni implausibili, a "scoperte" mediatiche che rallegrano sindaci e assessori, ma reggono lo spazio di un mattino. Stanno alla larga invece (con pochissime eccezioni) da temi scottanti come il degrado della tutela, la prevaricazione dell’effimero (le mostre) sul permanente (musei e monumenti), la morte annunciata del Ministero dei Beni culturali per mancanza di fondi e di turn over, ma anche per l´espediente, già troppe volte ripetuto, di una sede vacante non di nome, ma di fatto.
Il decalogo che conclude il "manifesto TQ" parte da affermazioni di principio, ma contiene anche importanti proposte. Sua stella polare è l’art. 9 della Costituzione, che congiunge la promozione della cultura e della ricerca con la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Ma dobbiamo constatare, scrive amaramente il manifesto, che oggi «la Repubblica né promuove né tutela». Per invertire la rotta, occorre che gli storici dell´arte si impegnino a rilanciare il ruolo della disciplina nella società. Occorre che «la funzione civile e costituzionale del patrimonio» diventi, come in passato, cardine della cultura e della vita della polis: poiché il patrimonio italiano, «coesteso e fuso all’ambiente» e al paesaggio, ne costituisce la più alta cifra simbolica, deposito di memorie e laboratorio del futuro.
Occorre rafforzare e non smantellare il sistema pubblico della tutela, mantenendolo in capo allo Stato per assicurare, secondo Costituzione, identità di criteri in tutto il territorio nazionale. Occorre agire sulla scuola, «ampliando l’asfittico spazio concesso a quella storia dell´arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione», come scrisse Roberto Longhi. Occorre «mettere radicalmente in discussione i corsi di Beni Culturali», che hanno provocato un pericoloso divorzio della storia dell’arte da altre discipline umanistiche. Occorre, insomma, porre rimedio all’«analfabetismo figurativo che ha afflitto le generazioni precedenti e ha sempre reso cieca la classe dirigente della Repubblica».
E´ importante che siano i giovani di TQ a rimettere con determinazione sul tavolo temi come questi. Per chi ha orecchi da intendere, essi dovrebbero servire da contraltare al banale economicismo che considera sinonimi "valorizzazione" e "sfruttamento", e nel patrimonio vede non una risorsa etica e civile, ma un salvadanaio da svuotare. Discorso contrario non solo alla Costituzione e a una secolare tradizione civile e giuridica, ma anche a una concezione meno stantia dei meccanismi socio-economici. Dalle elaborate misurazioni di due economisti americani, David Throsby e Arjo Klamer, risulta che il patrimonio culturale ha due componenti: una è il valore monetario, ma assai più importante è la componente immateriale o valoriale, per definizione fuori mercato.
Dalla conservazione del patrimonio e dalla sua conoscenza derivano benefici stabili per la società nel suo complesso, che accrescendo la coscienza civica e il senso di coesione dei cittadini finiscono col tradursi anche in sviluppo economico. In senso analogo ha argomentato Amartya Sen, pensando alla sua India dove il recupero di storia e arte è andato di pari passo con l’eccezionale rilancio economico. Ma queste idee di innovativi economisti del sec. XXI mostrano, come meglio non si potrebbe, quanto fosse lungimirante la nostra Costituzione del 1948: l’art. 9, infatti, sancisce «la primarietà del valore estetico-culturale», che non può essere «subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici», e pertanto dev’essere «capace di influire profondamente sull’ordine economico-sociale», come ha ripetutamente affermato la Corte Costituzionale. Toccherà ai trenta-quarantenni, ma anche a quelli ancor più giovani, mostrare che i Costituenti avevano ragione.
Oltre un decennio è passato, e ancora in Italia si inveisce contro un articolo dello Statuto dei lavoratori che incendia gli animi come se possedesse vizi ferali, da cui deriverebbero tutti i mali. Possibile che in piena recessione, con la disoccupazione giovanile salita al 32 per cento, l'infelicità e il malessere dipendano in modo così totale dalla tutela giuridica del lavoratore allontanato per falsi motivi economici, contemplata nell´articolo 18? Possibile che i pochi casi di reintegrazione dei licenziati (un migliaio in 10 anni) siano a tal punto distruttivi della ripresa, della stabilità economica, della reputazione esterna, dell'interesse di investitori stranieri? Neppure la Confindustria pare crederci, tanto che il nuovo presidente, Squinzi, considera la burocrazia ben più devastante dell´articolo 18 («Non è l´articolo a fermare lo sviluppo»). Né si può abusare dell´Europa: la lettera della Bce non parla nei dettagli dell´articolo, ma di una «revisione delle norme che regolano assunzione e licenziamento (...), stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro». Le autorità europee sono «indifferenti alle classi» (class-indifferent), ha detto un economista greco, Yanis Varoufakis: fissano obiettivi, non come raggiungerli.
Se i detrattori dell´articolo 18 sono così rigidi vuol dire che dietro la loro battaglia c´è un´ideologia forte, restia alle confutazioni. C´era in Berlusconi, ma c´è anche in quello che Ezio Mauro chiama «integralismo accademico». Una norma dello Statuto diventa sineddoche, cioè la parte che spiega il tutto: come quando si dice vela e s´intende nave. Si dice articolo 18 ma s´intende la filosofia, la genealogia, la storia dell´incandescente articolo. Con questa filosofia e questa storia si regolano i conti, e più precisamente con alcuni principi base della socialdemocrazia: lo Statuto dei lavoratori del ´70, e la concertazione praticata nei primi ´90 tra governi, imprenditori, sindacati.
Ambedue sono la riposta che la nostra classe dirigente seppe dare al ribellismo sociale, nonché al terrorismo. Ambedue generarono un Patto sociale permanente che in Italia era inconsueto, che consentì ai sindacati di preferire le riforme alla rivoluzione o ai particolarismi rivendicativi. Che li spinse a unirsi, a rendersi autonomi dai partiti. Che diede loro un´inedita padronanza di sé, del destino nazionale (Amartya Sen parla di empowerment, di potere su di sé dato agli emarginati, perché diventino cittadini responsabili).
Tutto questo è socialdemocrazia, non comunismo o consociativismo: anche se da noi il nome era altro. Chi se la prende con tale patrimonio trucca un po´ le carte. La crisi del 2007-2008 non sembra passata da queste parti, intaccando vecchi dogmi e anatemi: per molti resta una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che prodigiosamente colpevolizza non i mercati poco imbrigliati, ma le riforme socialdemocratiche e la carta d´identità dell´Europa postbellica che è stata la creazione (non a caso concepita durante la guerra) del Welfare. È così che alcune parole decadono, annerite: la concertazione, il consenso o dialogo sociale. Perfino dialettica è parola invisa a chi, certo d´avere scienza infusa, non vede che il conflitto di idee e progetti è sale della democrazia.
Vale dunque la pena ripensare gli anni ´70-´90, che produssero la variante socialdemocratica italiana che è il patto sociale permanente. Lo Statuto dei lavoratori, divenuto legge nel ‘70, viene approvato dal Senato il giorno dopo Piazza Fontana. La concertazione e la politica dei redditi furono perfezionate da Amato e Ciampi nel ´92 e ´93, quando un sistema politico infettato dalla corruzione e tanto più vulnerabile al terrorismo venne messo in riga da Mani Pulite. Salvaguardare la coesione sociale d´un Paese così provato era prioritario, e per ottenerla fu inventata non una democrazia più autoritaria ma più plurale, che del conflitto sapesse far tesoro «coinvolgendo (sono parole di Gino Giugni, ministro del lavoro di Ciampi) una platea di soggetti assai più ampia di quella uscita dal voto».
Sin dal ‘94 Berlusconi mise in questione tale eredità. La concertazione divenne il nemico, come testimonia il Libro Bianco sul lavoro presentato nel 2001 dal ministro del Welfare Maroni: la codecisione doveva finire, soppiantata da mere consultazioni. Che il bersaglio non fosse il comunismo ma la socialdemocrazia è attestato dalla biografia di Giugni: è nel partito socialdemocratico di Saragat che il padre della concertazione si fece le ossa. In un libro-intervista del 2003, Giugni disse che con lo Statuto dei lavoratori «la Costituzione entrò in fabbrica», e che la concertazione rese la democrazia più plurale, efficace: «Perché ci sia intesa bisogna partire dalla diversità», scrisse, aggiungendo che la critica della concertazione in nome delle prerogative sovrane del Parlamento era infondata, anche quando veniva da economisti illustri come Mario Monti (Giugni, La lunga marcia della concertazione, Mulino).
Gino Giugni fu gambizzato nell´83 dalle Br. Altri economisti a lui vicini, riformatori del diritto del lavoro, furono assassinati (Tarantelli, D´Antona, Biagi). Tutti erano fautori della concertazione. Ricordiamo quel che disse D´Antona, sull´articolo 18 e la reintegrazione dell´operaio licenziato per fittizi motivi economici: «Il superamento delle forme più rigide di garantismo può portare a rivedere in cosa consiste un licenziamento legittimo, ma non a sottoporre a revisione i rimedi che si offrono nei confronti dei licenziamenti non rispondenti a tale requisito». Il regolamento dei conti non è finito, con un´epoca che vide congiungersi concertazione, lotta alla corruzione, antimafia. Noi commemoriamo Falcone e Borsellino, e Tarantelli, D´Antona, Biagi. Ma volentieri ne dimentichiamo i metodi e le fedi.
Dicono che l´articolo 18 non ha da essere tabù, e certo i difetti non mancano: i processi sterminati sono fonte d´incertezza. Ma i tabù sono materia combustibile, non si spengono senza pericolo. Ci deve essere una ragione per cui all´articolo s´aggrappa anche chi - precario, disoccupato - non ne usufruisce. Anche chi, col tristo nome di esodato, non ha più lavoro e non ancora pensione. Esistono tabù civilizzatori, eretti contro future derive. I tabù non sono idoli, feticci. È colma di tabù, l´Europa uscita da guerre e dittature che fecero strame di antichi divieti (non ucciderai, non negherai giustizia alla vedova e all´orfano, ai deboli e diversi). Per Hitler era tabù intollerabile anche il Decalogo.
Gli economisti neo-liberali che denunciano mercati troppo regolati hanno forse in mente una società perfetta, che funziona senza lentezze né dubbi. Si dicono ispirati da Adam Smith. Ma Smith teorizzò la mano invisibile che in un libero mercato trasforma l´interesse egoista in pubblica virtù, restando il filosofo morale che era. In quanto tale se la prese con gli ideologi, chiamati «uomini animati da spirito di sistema». L´uomo di sistema, scrive nella Teoria dei sentimenti morali, «tende a essere molto saggio nel suo giudizio e spesso è talmente innamorato della presunta bellezza del suo progetto ideale di governo, che non riesce a tollerare la minima deviazione da esso. Sembra ritenere di poter sistemare i membri di una grande società con la stessa facilità con cui sistema i pezzi su una scacchiera.(...) Nella grande scacchiera della società umana ogni singolo pezzo ha un principio di moto autonomo, del tutto diverso da quello che la legislazione può decidere di imporgli».
Forse vale la pena rileggere Smith il moralizzatore, oltre che l´economista: l´avversario di tutti coloro che «inebriati dalla bellezza immaginaria di sistemi ideali» si lasciano ingannare dai loro stessi sofismi, e alla società chiedono troppo, non ottenendo nulla.
Siamo in tanti – curiosi di sapere come andrà a finire – a seguire con attenzione le poche notizie che filtrano sulla revisione del piano paesaggistico regionale. Molti i pregiudizi dopo le dichiarazioni di guerra al Ppr e la mano pesante usata nell'approvazione di leggi (piano-casa e sul golf) rintuzzate dal governo Berlusconi – nientemeno ! – e dal governo Monti. Non è servito il prologo “Sardegna nuove idee” pensato per sollevare una cortina fumogena, e neppure le acrobazie dei pubblicitari sono rassicuranti. Siamo e saremo molto diffidenti. Capita spesso di sentirlo: “io non sono razzista, sono pacifista, non sono omofobo, ma...” ed è quel “ma” che dice tutto, ben più di ogni premessa.
Chi ha letto i comunicati di Cappellacci è avvertito: sa che c'è di mezzo il linguaggio doppio della politica e che l' espressione “coniugare ambiente e sviluppo” – uffa – lascia ampi gradi di libertà ed è tutt'altro che tranquillizzante. Colpisce ora il nuovo corso affidato all'assessore all'urbanistica che annuncia il gran finale. I toni sono a tratti così apertamente distanti dagli antefatti da sembrare il frutto di un ravvedimento profondo. Ma occorre leggere bene, tra le righe. Nel sito della Regione, in una nota del 27 febbraio, si giura fedeltà ai nostri valori, e «di tutelarne le peculiarità storiche modulandole con la modernità e le innovazioni tecnologiche legate al sistema edilizio». Molto disinvolta l'investitura dell'edilizia chiamata a modulare la storia, ma aspettate. In un'altra nota – La Nuova Sardegna del 21 marzo – dopo la solita tiritera ecco il “ma”, anzi due “ma”. Dichiara l'assessore «che il punto di partenza è la tutela dell'ambiente e del paesaggio ma (primo “ma”) non in modo conservativo assoluto ma (secondo “ma”) con una politica di valorizzazione e fruizione del territorio anche in una logica di sviluppo economico». Chiarissimo: la tutela indifferibile – secondo il Ppr – per ampie categorie di beni paesaggistici dovrà assecondare il mercato.
Sono però passati tre anni dalla notifica sull'avvio della revisione del Ppr e nulla si è visto di concreto. Nel frattempo il movimento che si oppone a questa idea ha ottenuto risultati insperati che la politica dovrebbe valorizzare. Una serie di provvedimenti – su Tuvixeddu e di recente su Capo Malfatano – dimostra la impudenza e insieme la debolezza delle argomentazioni di chi in questi anni ha pensato di dare la spallata ad ogni vincolo paesaggistico. Ma non sarà facile sbarazzarsi di principi confermati in numerose sentenze di tribunali amministrativi. E le mediazioni al ribasso non saranno possibili (anche questo ce lo chiede l'Europa!).
Il governo del territorio è stato principale argomento di scontro in Sardegna e occorre riconoscere che il tempo comincia a dare torto agli “ambientalisti col ma”, anzi con sequele di “ma” (sedicenti ambientalisti che ci mettono poco ad accettare in riva al mare o ai bordi di un complesso archeologico ignobili speculazioni edilizie). Ricordiamolo tenendo nello sfondo le proposte di visita del Fai a beni paesaggistici che fortunatamente resistono, che affiorano dove non ti immagini ma rischiano di essere travolti o resi irriconoscibili.
Con tutte queste risorse patrimoniali, con queste figure resistenti occorre confrontarsi, sapendo che da come si tratta il territorio oggi dipende il modo con cui ci presenteremo alle generazioni future. Serve a questo punto un confronto netto, possibilmente senza preamboli ingannevoli. Cosa sottintendono i “ma” lo abbiamo capito, più o meno.
Sulla base delle informazioni in nostro possesso in merito alle intenzioni di modifica del Piano di Governo del Territorio da parte della nuova Giunta, il Piano che ci si avvia a discutere in Consiglio mostra significativi miglioramenti su temi importanti (la tutela del Parco Sud, la riduzione del dimensionamento del piano, l’incremento della residenza sociale, l’eliminazione di alcuni ambiti di trasformazione irrealistici e di alcune infrastrutture stradali dannose). Purtuttavia, esso contiene ancora elementi di possibile criticità, in particolare per quanto riguarda la tutela della città esistente, che riteniamo possibile correggere in fase di approvazione.
Il nuovo Piano conserva inoltre i gravi vizi di fondo derivanti dall’impostazione data dalla precedente amministrazione; alcuni dei quali è impossibile emendare in questa fase, ma che riteniamo necessario sinteticamente evidenziare in vista di una prossima, indispensabile, revisione generale del PGT.
Comprendiamo molto bene la difficoltà della situazione ed i vincoli sui tempi; abbiamo tuttavia molti dubbi sulla possibilità di procedere all’approvazione del Piano senza ripubblicazione; e riteniamo francamente inaccettabile non aver potuto prendere visione del documento completo emendato dalla Giunta, tavole comprese, in tempo utile. Uno strano modo di procedere che darà la stura prevedibilmente a un severo contenzioso.
ALCUNE CORREZIONI CHE RITENIAMO IMPORTANTE APPORTARE IN FASE DI APPROVAZIONE DEL PIANO
Piano delle regole – Norme tecniche di attuazione
1) art. 4.6 - Definizione di S.L.P: La definizione di Superficie Lorda di Pavimento, parametro fondamentale per la determinazione del carico urbanistico, è affetta da una serie di esclusioni già oggi rilevante (porticati, androni, spazi comuni, spazi privati ad uso pubblico, ecc.), tale da raddoppiare e più la superficie effettivamente realizzata rispetto a quella assentita. Al fine di limitare gli effetti di densificazione incontrollata e snaturamento tipologico della città si richiede di:
− (punto 4.6.m) inserire nel computo della S.L.P gli edifici adibiti a servizi, ad eccezione solo di quelli pubblici su aree pubbliche . Si chiede inoltre di verificare e correggere il testo delle norme al fine comunque di evitare l’attribuzione di ulteriore capacità edificatoria trasferibile a tutte le aree occupate da servizi privati, trattate come se fossero inedificate; o addirittura lo spostamento su nuove localizzazioni dei servizi esistenti, con riuso delle volumetrie per funzioni urbane private. Ove prevalesse tale interpretazione o formulazione della norma l’effetto sarebbe inevitabilmente quello di un diluvio di intasamenti, sopralzi e densificazioni destinato ad abbattersi dovunque nel tessuto urbano esistente, e soprattutto nella sua parte centrale più appetibile.
− punto 4.6.h) inserire nel computo della S.L.P i box per autoveicoli realizzati fuori terra, almeno per una quota pari al 50% della loro superficie oltre il primo piano f.t.; scopo di tale proposta di modifica è di mettere un freno alla realizzazione di garage all’interno degli edifici esistenti e al trasferimento della volumetria abitativa in nuovi edifici realizzati nei cortili;
− Si richiede inoltre di valutare l’opportunità di introdurre un limite massimo (indicativamente 150%), al rapporto tra l’effettivo sviluppo della superficie lorda di pavimento di tutti i piani agibili e la S.L.P. convenzionalmente definita; oltre tale limite detta superficie dovrebbe concorrere al calcolo della S.L.P. convenzionale.
2) Modificare l’articolo 7 comma 5 delle Norme di attuazione del Piano delle regole, limitando la trasferibilità dei diritti edificatori a porzioni omogenee del territorio comunale, che dovranno essere definite, in modo da prevenire abnormi processi di addensamento centrale.
3) Gli ambiti di trasformazione urbana (ATU) comprendono alcune aree che costituiscono opportunità uniche di riconformazione e riqualificazione della città. Soprattutto Bovisa/Farini/Lugano, Piazza d’armi/ Perrucchetti/Ospedale militare e gli scali di Porta Romana/Vigentina e Porta Genova/San Cristoforo, devono diventare grandi aree pubbliche di verde naturale ed attrezzato. La loro estensione può infatti permettere a centinaia di migliaia di milanesi di conquistare per la prima volta la fruizione diretta di grandi spazi a parco. Viceversa le densità edilizie ipotizzate, benché ridotte, non permetterebbero di raggiungere tale obbiettivo. Riteniamo che nessun eventuale ritorno economico per il Comune giustifichi il sacrificio delle ultime grandi opportunità di penetrazione di verde nella città, per di più su aree già di proprietà pubblica. Si chiede pertanto un ridimensionamento insediativo assai più consistente su dette aree, riducendo (indicativamente e mediamente) a meno della metà le nuove edificazioni proposte, ed incrementando almeno del cinquanta per cento il verde. In alternativa il piano potrebbe contenere un semplice rinvio di ogni determinazione quantitativa sulle aree ad una successiva precisazione, contestuale a quella degli aspetti qualitativi e convenzionali. Si chiede inoltre che le procedure attuative su queste aree siano affiancate da un costante processo di partecipazione dei cittadini, compresa l’eventualità di indizione di referendum consultivi sui progetti. Per quanto riguarda lo scalo Farini si richiede l’impegno a prevedere il ripristino del giardino all’italiana del 1500 di Villa Simonetta, gravemente mutilato con la realizzazione dello scalo ferroviario (per l’attuazione di questo importante progetto è sufficiente aggiungere un’area di circa 7000 mq all’attuale superficie del giardino)
4) art. 10.4 - Edilizia bioclimatica e risparmio energetico Si ritiene che il premio volumetrico del 15% per interventi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo finalizzato al miglioramento energetico sia incompatibile con la definizione di interventi conservativi. Si richiede quindi che
− sia chiarito in modo esplicito che il premio sarà concesso in modo graduale in base alla verifica del rispetto di soglie elevate di prestazione energetica che saranno definite nel regolamento edilizio (nel comma 4 il riferimento al regolamento edilizio è generico)
− l’eventuale utilizzo di detto premio sul fabbricato stesso dovrà essere oggetto di un progetto di ristrutturazione edilizia soggetto alle relative procedure autorizzative e regole morfologiche e tipologiche.
5) art. 11 - Attuazione del piano:
Si ritiene necessario rafforzare il controllo pubblico sugli interventi che possono influire significativamente sulla forma e sulla qualità della città esistente, in modo particolare di quella storica. Si richiede pertanto che siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata:
− la realizzazione di interventi che superano l’indice fondiario di 7 mc/mq(art. 11.3.1.c)
− l’utilizzo di diritti perequati e benefici volumetrici nei NAF (art. 11.3.1.d)
6) art. 13 – Disciplina ( Nuclei di antica formazione -NAF) – Si richiede che: Siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata:
− gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 13.3.c e 13.3.3d
− gli interventi di cui all’art. 13.4.
7) art. 15 – Disciplina ( Ambiti contraddistinti da un disegno urbano riconoscibile - ADR) - Si richiede che:siano soggetti a Piano attuativo e non a modalità diretta convenzionata i casi di cui all’art.15.7
8) Art 18 (e Documento di Piano). Si propone di integrare la Carta di sensibilità del paesaggio corredandola di schede che evidenzino i caratteri paesaggistici irrinunciabili di cui tenere conto nella progettazione degli interventi e nella formulazione dei pareri da parte della Commissione per il Paesaggio, il cui ruolo risulterà fondamentale per la reale gestione del paesaggio. Tale integrazione dovrà essere proposta o in sede di controdeduzione o, al più tardi, in forma di variante da adottarsi immediatamente dopo l’entrata in vigore del piano. Inoltre si ritiene necessario che nei nuclei di antica formazione l’apparato conoscitivo non si limiti all’aspetto descrittivo, ma individui i caratteri irrinunciabili e fornisca indirizzi di gestione, richiamati nella normativa. L’apparato conoscitivo dovrà essere esteso progressivamente non solo per singoli edifici ma dovrà individuare in tutto il territorio anche ambiti e contesti a caratterizzazione unitaria per configurazione o rappresentatività dello sviluppo storico della città; anche tale integrazione dovrà essere effettuata al più tardi in forma di variante da adottarsi immediatamente dopo l’entrata in vigore del piano.
9) Miglioramenti si ritiene possano anche essere apportati alla definizione delle quote e delle modalità attuative del social housing, per garantirne l’effettiva rilevanza sociale e la concreta realizzazione, in quanto la sola cessione delle aree appare del tutto insufficiente nell’attuale contesto di mancanza di finanziamenti pubblici per la costruzione.
10) Si evidenzia infine una generale scarsa intelligibilità della normativa, che genera frequenti dubbi interpretativi; ne conseguono gravi rischi nella fase di applicazione del piano. Italia Nostra è disponibile a dettagliare ulteriormente tale considerazione di carattere generale.
ALCUNI IMPEGNI DA ASSUMERE PER UN PROSSIMO ADEGUAMENTO DEL PIANO
Il Pgt di Milano ha un limite di origine difficilmente correggibile in sede di controdeduzioni: aver completamente trascurato i rapporti con l’hinterland, dove vive tre quarti della popolazione metropolitana. Chiediamo perciò che sia esplicitato l’impegno ad attivare rapidamente un processo di consultazione metropolitana sistematica per definire scelte urbanistiche e di investimento condivise a livello di area vasta. L’avvio di tale processo, e la riserva su future modifiche del piano per effetto della sua più estesa ottica territoriale dovrebbe essere esplicitati, anche ai fini degli effetti giuridici, negli elaborati fondamentali del Piano ed in particolare nelle Norme del Documento di Piano
Lo stralcio, in fase di controdeduzioni, di gran parte delle scelte infrastrutturali, e il loro rinvio in sede di pianificazione di settore non consente la verifica di coerenza tra sviluppo del sistema insediativo e di quello infrastrutturale, che dovrebbe invece costituire la base essenziale di qualsiasi piano. Inoltre mette in forse la garanzia di un adeguato supporto di infrastrutture rare alla competitività del sistema territoriale, particolarmente grave nel momento in cui si affacciano ipotesi di privatizzazione di aziende strategiche, come la SEA. E’ dunque essenziale che le scelte infrastrutturali principali vengano reintrodotte nel PGT e non rinviate e demandate al Piano urbano della mobilità (PUM), almeno nei loro lineamenti essenziali, eventualmente mediante una variante al PGT da adottare subito dopo l’approvazione del Piano
Alla positiva notizia dell’intenzione della Giunta di cancellare le potenzialità edificatorie degli Ambiti di trasformazione di interesse pubblico generale (ATIPG) e degli Ambiti di trasformazione periurbani (ATPU), dovrebbero accompagnarsi indicazioni specifiche per le aree del Parco sud interessate dai futuri PCU (Piani di cintura urbana). Si chiede che il PGT contenga precise dichiarazione degli intenti del Comune di Milano per ciascuna di queste aree, da sottoporre poi al confronto e alla verifica con i profili di tutela di competenza del Parco Sud, ovvero che tali indirizzi siano precisati mediante una variante da adottare subito dopo l’approvazione del Piano.
Il tema della riqualificazione delle periferie e del recupero di molte aree della città che presentano problemi di degrado non era adeguatamente affrontato nel piano adottato. Anche su questo punto si chiede di avviare, immediatamente dopo l’approvazione, un apposito processo di specificazione del Piano.
Appare opportuno che gli interventi per l’Expo non viaggino su strade separate da quelle della pianificazione urbanistica e della tutela ambientale. In particolare suscita dubbi di sostenibilità ambientale ed economica l’ipotizzata nuova Via d’acqua, rispetto alla quale pare assai più significativa la riqualificazione ed il recupero delle vie d’acqua storiche.
Milano, 28 marzo 2012
Le nuove rilevazioni dal satellite ci fanno scoprire un po’ meno verdi del previsto: addio alla regione da cartolina
«Appena il 4,2% del territorio toscano coperto da cemento». Il dato dietro cui amava ripararsi l'ex assessore regionale all'urbanistica Riccardo Conti, in risposta alle critiche provenienti da quanti lui stesso definiva come "retrogadi difensori di una Toscana da cartolina", adesso viene demolito dai risultati di una nuova analisi realizzata dall'ufficio tecnico dell'assessorato regionale all'urbanistica targato Anna Marson. La Toscana coperta di cemento non è il 4,2% del totale della superficie bensì il 9,11% - come ha detto l’assessore Marson. La provincie più cementificate risultano Prato e Livorno (12% del territorio). Un ettaro ogni dieci è urbanizzato. La precedente elaborazione, basata su immagini satellitari del progetto europeo Corine Land Rover, che prevedeva una superficie minima delle celle su cui poter calcolare la presenza di cemento pari a 25 ettari ciascuna, aveva escluso infatti tutte le costruzioni isolate. Adesso ci sono i mezzi per fare una rilevazione più precisa. Ed è quello che ha fatto la Regione grazie a una convenzione con Agea, l'agenzia governativa per le erogazioni in agricoltura: la superficie minima cartografabile scende da 25 a 4 ettari per cella. «Le fotografie - ha spiegato l’assessore - di maggior dettaglio hanno portato a un ribaltamento della precedente immagine spesso utilizzata per dire come la Toscana risultasse fra le regioni più virtuose d'Italia».
Tradotto in termini assoluti, risultano così cementificati 209 mila 476 ettari di territorio su un totale di 2 milioni 300 mila ettari di superficie complessiva regionale. Numeri che ben testimoniano l'avanzata di cemento, che, nonostante una popolazione resa stabile soltanto dal flusso migratorio, è proceduta a tappe forzate nel corso degli ultimi anni.
Il nuovo "Rapporto sul Territorio", presentato giovedì scorso dall'Irpet, offre poi bene l'idea di come questa colata sia tutt'altro che prossima dal ritenersi conclusa: dando un'occhiata alle percentuali di consumo dei metri quadri edificabili presenti all'interno dei regolamenti urbanistici, i piani che aggiornano ogni cinque anni le previsioni di crescita edilizia all'interno delle singoli realtà comunali, si scopre infatti ci sono amministrazioni comunali veloci come il vento a costruire: tanto per fare alcuni esempi, i Comuni di Chiesina Uzzanese e Calci hanno già autorizzato il consumo del 100% dei metri quadri edificabili previsti dai rispettivi piani strutturali. Leggermente inferiore la percentuale di autorizzazioni prevista a Fauglia, in provincia di Pisa, ferma al 96,5% dei metri quadri complessivamente edificabili. La Toscana, vista dall’alto, si scopre un po’ più grigia.
Abbiamo più volte sostenuto che la valutazioni effettuate sulla base del Corine sono fortemente sottostimate, proprio per l'ampiezza della dimensione base della ricognizione. Affinare quel metodo raggiungendo dimensioni più ridotte della cellula dimostra che l'errore non è affatto marginale: oltre il 100%!
Immaginiamo che succederà quando si arriverà ad analisi ancora più puntuali. E, soprattutto, che succederà al territorio e ai suoi abitanti se non cesseranno le politiche di totale autonomia dei comuni nel governo del territori, anche quando essi utilizzano i suoli come uno strumento per lo "sviluppo", cioè come un modo di spalmare l'edificabilità ottenendo in cambio qualche briciola di "oneri di urbanizzazione".
Titolo originale: Reclaiming the suburbs – Rescuing shopping malls – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Gli uffici centrali della Rackspace traboccavano. Nel 2007 la compagnia, che offre servizi di cloud-computing e per la rete, aveva più di mille dipendenti in centro a San Antonio. C’era gente fin nei corridoi e negli atri accampata su tavolini pieghevoli. Spesso per discutere con persone di altre divisioni si doveva cambiare edificio o organizzarsi attorno alle trombe degli ascensori. Ma anche così quando uno dei fondatori, Graham Weston, ha proposto di traslocare in un centro commerciale, c’è stato parecchio scetticismo. Un centro commerciale vuoto, dentro a un quartiere periferico, Windcrest, reso piuttosto tenebroso anche da quell’enorme cadavere lungo la superstrada.
Ma costruirsi una sede nuova avrebbe comunque richiesto parecchi anni, e l’occasione era economica. “I centri commerciali non li vuole più nessuno” spiega John Engates, responsabile settore tecnologie. Ma uno spazio così la Rackspace, e altre imprese, lo possono considerare anche come una pagina tutta da scrivere. Nel 2008 si aprivano I nuovi uffici, e si vinceva anche un premio per la riqualificazione. Adesso ci stanno più di 3.000 persone, con programmi per assumerne altre varie centinaia entro fine anno. Certo esistono ancora tantissimi centri commerciali a scatola chiusa frequentatissimi. Dopo qualche anno di astinenza, tornano i clienti. A febbraio secondo il Dipartimento del Commercio le vendite sono cresciute dell’1% rispetto a gennaio: più del previsto, e un atteso segnale di ripresa.
Ma c’erano parecchi complessi già nei guai prima della recessione, e sicuramente non sarà la ripresa a farli resuscitare. Il settore commerciale in America ha probabilmente costruito troppo, e nel quarto trimestre del 2011, secondo la National Association of Realtors, il 16,9% degli spazi non era utilizzato. I mall sono molto vulnerabili perché sono dei sistemi: se chiude il grande negozio attrattore o certi spazi restano a lungo inutilizzati ne risente presto tutto quanto. Molti sono stati realizzati nell’era eroica del modello e iniziano ad apparire del tutto improponibili. La nuova moda sono gli interventi a funzioni miste, o quelli all’aperto che sembrano un quartiere commerciale urbano. In certe città la gente inizia anche a ritornare nei vecchi distretti centrali, come da anni sognavano gli urbanisti.
Ma se gli americani tornano nei negozi, non tornano nei centri commerciali, il che lascia parecchie aree piene di scatoloni vuoti: contenitori di degrado circondati da ettari di asfalto bollente. Qualcuno diventa una superficie ideale da ricoprire di graffiti. Qualcun altro viene demolito. Ma altri ancora per fortuna trovano nuove funzioni. Ad esempio introducendo usi diversi e vari. Nel Natick, complesso di fascia superiore a Boston, si sono realizzati appartamenti in condominio. Altra idea è quella di attività diverse dal solito. Un pezzo di centro commerciale a Cleveland, Ohio, è stato destinato a verde coperto a orti, un modello che si potrebbe ripetere in tante città a sperimentare agricoltura urbana. Scuole a università sono altri possibili inquilini. La University of the Incarnate Word ha affittato alcuni spazi di un altro mall a San Antonio. Vanderbilt, in Tennessee, ha ceduto superfici a una struttura sanitaria; ai pazienti vengono anche dati dei buoni da spendere per uno spuntino nell’area ristorazione mentre aspettano il turno. Centinaia di studenti delle superiori a Joplin, Missouri, seguono le lezioni in un centro commerciale convertito, dopo che l’istituto è stato distrutto da un tornado l’estate scorsa.
Si tratta di attività più solide dei soliti negozi, che non dipendono dal passaggio. Ma convertire a nuove funzioni richiede spese, e sperimentazione. La Rackspace, per quanto la riguarda, ha investito più di cento milioni nel rifacimento degli spazi. Si sono ritagliate finestre nelle pareti, costruiti lucernari. I dipendenti si perdevano, e così le sale riunione si sono organizzate tematicamente anziché numerandole. Chi arriva nello spazio giochi poi si orienta. Ferve il dibattito interno sul conservare o no le fontane. Allan Nelson, responsabile di gestione, teme che poi qualche “Racker” entusiasta voglia fari un tuffo.
Spazi tanto contraddittori stimolano riflessioni innovative. Luoghi di incontro lungo i passaggi, delimitati dalle ex vetrine dei negozi. Una ex ribalta dei camion è stata convertita a sala presentazioni, e sollevando la grande saracinesca si può partecipare anche da fuori. Si può anche uscire dal proprio ufficio continuando a lavorare al tavolo del bar, o passare al chiosco risorse umane, o giocare a nascondino nel percorso voltato. “Non credo che lo vedano più come centro commerciale” commenta Engates. Forse qualcuno lo prenderà ad esempio.
C'erano tre grandi progetti per il 2015 a Milano. L'Expo, la Grande Brera e la Città della salute. L'Expo va avanti, anche se il taglio dei fondi ne ha ridimensionato in parte le ambizioni. La Grande Brera sopravvive, anche se è difficile immaginare con 23 milioni di veder conclusa un'operazione che ne costa più di 100. La Città della salute è su un binario morto: tramontata l'ipotesi del polo pubblico d'avanguardia con ospedale Sacco, Istituto dei tumori e Neurologico Besta, si è sciolto il consorzio, con i costi a carico del contribuente per un milione e mezzo di euro.
Prendiamo quest'ultimo caso per capire come mai è nata e poi sfumata un'operazione da più di 600 milioni destinata a rafforzare i primati di Milano nella sanità, settore in cui la città è all'avanguardia sia nel pubblico che nel privato. E facciamoci un paio di domande, visto che di Città della salute ancora si parla, da realizzare all'interno dell'area Falck di Sesto San Giovanni o nella piazza d'Armi della caserma Perrucchetti a Milano.La prima: il progetto, sia pure ridimensionato, resta una necessità per pazienti e operatori della sanità? La seconda: perché la discussione su un nuovo ospedale si fa sull'area, su questo o quel terreno, e non sulla funzione, sul luogo ideale, sull'esigenza di cambiare in meglio una struttura che si occupa di malati? In sostanza: se si deve costruire un nuovo ospedale si faccia perché serve e nel posto più idoneo, evitando il sospetto di favorire questo o quel costruttore.
Istituto dei tumori e Neurologico Besta per quello che rappresentano nella sanità milanese e nazionale meritano un altro tipo di approccio: se l'esigenza è quella di fare un salto qualitativo anche nelle strutture (la qualità delle cure è indiscussa) si spieghi meglio la questione alla città che da anni assiste a un'infinita partita di Monopoli: un giorno spunta il capannone dell'ex Maserati, un altro la Bovisa, poi Rogoredo, Santa Giulia, via Ripamonti, Sesto, una caserma, la Bicocca. Non si ripeta quel che è successo con la Città della salute: si va, non si va, ci sono i soldi, no, lo Stato si tira indietro, la Regione si divide sul coordinamento dei lavori, il Comune non garantisce il collegamento con il metrò... Il progetto Città della salute, nonostante i mille dubbi su uno spostamento da una parte all'altra di Milano, era valido perché aveva una peculiarità: creava un polo scientifico e didattico unico in Italia. Sarà così anche con il nuovo (eventuale) trasloco a Sesto o nella caserma Perrucchetti?
È questa la domanda da fare a Regione e Comune. L'istituto di via Venezian, dove è nata l'oncologia italiana, ha bisogno di una nuova sede o basta ammodernare quella esistente? Il centro neurologico Besta, ospitato in una struttura vecchia e fatiscente, deve essere ricostruito altrove o si può ampliare sui terreni vicini? Il braccio di ferro che la politica ha avviato sulle due diverse destinazioni sembra più una lotta di campanile che una disputa su funzioni, costi e servizi, per dare risposte adeguate ai cittadini. Ai grandi progetti serve una grande e onesta regia: un investimento di 330 milioni la richiede, Milano se l'aspetta.
Non solo archeologi. E neanche solo architetti. Per salvare Pompei arriverà anche un prefetto. Avrà il compito di vigilare che vengano ben spesi i tanti soldi che l'Europa ha destinato per il restauro e la salvaguardia del sito. E di assicurare che sui 105 milioni appena approvati dalla Commissione di Bruxelles non possa mettere le mani la camorra.
Si conosce anche il suo nome: Fernando Guida, attualmente viceprefetto, responsabile dell'ufficio che al ministero dell'Interno si occupa dello scioglimento dei consigli comunali condizionati dalla criminalità.
L'annuncio verrà dato giovedì prossimo a Napoli in un incontro al quale parteciperanno tre ministri, Lorenzo Ornaghi, Fabrizio Barca e Anna Maria Cancellieri, oltre al prefetto del capoluogo campano, Andrea De Martino, e alla Soprintendente Teresa Cinquantaquattro. La quale, però, assicura di non sapere nulla della decisione. E cade letteralmente dalle nuvole. "Giovedì firmerò con il prefetto di Napoli un protocollo d'intesa sulla legalità", dice Cinquantaquattro, "ma di prefetti ad hoc per Pompei nessuno mi ha mai detto niente". La voce di un prefetto che controllasse gare d'appalto, procedure di assegnazione dei fondi e sicurezza dei cantieri circolava da tempo. Si era parlato anche di un coordinamento fra alti funzionari. Ma la conferma che l'orientamento sia invece quello di designare un prefetto con competenze specifiche su Pompei arriva da fonti molto autorevoli del governo. Troppi appetiti potrebbero scatenarsi intorno a quei soldi e l'Europa non tollererebbe che su una questione del genere la camorra possa prevalere. Quando alcuni mesi fa ha visitato Pompei, il Commissario europeo Johannes Hahn è stato esplicito: eserciteremo un monitoraggio costante sul modo in cui verranno spesi i soldi.
La Soprintendenza di Napoli e Pompei è stata tenuta fuori dalla decisione. E non è questione di poco conto, visto che sarà comunque quell'ufficio a dirigere i restauri e a gestire gli appalti. L'esclusione della Soprintendenza pesa anche per l'esperienza del passato. Nel sito archeologico si sono infatti succeduti prima una serie di direttori amministrativi, definiti anche city manager, e poi alcuni commissari. Il primo commissario fu proprio un prefetto, Renato Profili, al quale è succeduto Marcello Fiori, che proveniva dalla Protezione civile e le cui iniziative hanno lasciato una scia di polemiche e di inchieste giudiziarie. Fra questi funzionari e la Soprintendenza i rapporti non sono mai stati semplici. L'allora soprintendente Piero Guzzo arrivò al punto di presentare le dimissioni per i contrasti insanabili con il direttore amministrativo Luigi Crimaco.
Ora la partita è delicatissima. E lo sblocco dei fondi, già annunciato nei mesi scorsi, non scioglie i nodi, che invece si aggrovigliano. Pompei vive in una condizione di perenne emergenza. Gran parte di via dell'Abbondanza, sulla quale si affacciano le domus colpite da crolli, è chiusa. E in questa zona persiste il pericolo che cedano i muri sui quali preme un terrapieno. Nel frattempo prosegue lo stillicidio di danni alle strutture e di distacchi di intonaco. Nelle scorse settimane sono stati messi a punto cinque bandi di gara per altrettanti progetti di restauro. Ma il ministro Ornaghi, in visita agli scavi, ha detto che i primi cantieri si apriranno soltanto in autunno. A Pompei sono arrivati anche nuovi funzionari, sia archeologi che architetti. Ma il loro inserimento non è stato semplice, a causa del fatto che pochi di essi avevano approfondite conoscenze del sito.
Mentre Pompei rischia di perdere pezzi ogni giorno che passa, fioccano i progetti nelle aree fuori dello scavo. L'ultimo è patrocinato dal sindaco Claudio D'Angelo. È una specie di archeo-park, la ricostruzione fedele di alcuni edifici pompeiani, il foro, le terme, le domus. Una Pompei finta, una patacca estesa su oltre un chilometro quadrato nella zona a nord del sito, verso il Vesuvio, una zona che nel rapporto stilato tempo fa dall'Unesco veniva indicata come assolutamente inedificabile. D'Alessio è andato anche in America a raccogliere fondi (sembra ci vogliano 15 milioni). Così se Pompei crolla è pronto il suo clone.
Filippomaria Pontani è nato a Padova nel 1976. Ha studiato filologia classica alla Normale di Pisa, e ora la insegna all'Università di Venezia. Marino Massimo De Caro è nato a Bari nel 1973. Ha studiato economia e giurisprudenza all'Università di Siena, ed è diventato vicepresidente esecutivo di Avelar Energia. E’ balzato agli onori delle cronache per i rapporti con Dell'Utri: tra commerci di libri antichi e partecipazione in affari petroliferi venezuelani. In un paese normale, questi due coetanei avrebbero, a questo punto della loro vita, scarse possibilità di incontrarsi. Nel nostro, invece, si sono conosciuti a Napoli pochi giorni fa. Perché? Perché De Caro dirige, da qualche mese, la Biblioteca dei Girolamini. In qualunque paese del mondo occidentale, un istituto culturale dell'importanza dei Girolamini sarebbe guidato da un bibliotecario superqualificato.
Ma noi preferiamo spedire nei call center i più brillanti addottorati in paleografia o biblioteconomia, e affidare i Girolamini al protagonista di alcuni illuminanti paragrafi dell'appena uscito Sottobosco. Berlusconiani, Dalemiani, Centristi uniti nel nome degli affari, di Ferruccio Sansa e Claudio Gatti (Chiarelettere 2012). Ne cito un solo passaggio: " Il 27 dicembre 2007 De Caro si lamenta di un capitano dei carabinieri del Nucleo del patrimonio artistico di Monza che lo sta "scocciando" per un libro acquistato in un'asta pubblica in Svizzera. E’ indagato per ricettazione, spiega, e la cosa ha bloccato la sua nomina a console onorario del Congo perché il ministero degli Esteri non sta concedendo il nullaosta. Il 24 gennaio 2008 De Caro ritorna sulla questione con Micciché, il quale promette di aiutarlo: "Stai tranquillo che Aldo ti segue. Devo mandare una persona a Milano... dalla giudice". Il 17 luglio 2009 De Caro potrà finalmente rilassarsi perché il sostituto procuratore di Milano Maria Letizia Mannella, "rilevato che l'incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche", chiede il non luogo a procedere. In altre parole, visto che l'oggetto della presunta ricettazione è scomparso e che le tre persone coinvolte si accusano a vicenda, la pm finisce con l'archiviare il tutto.
A nominare De Caro direttore è stata la Congregazione dell'Oratorio, cui sono affidati il Monumento Nazionale e la Biblioteca Statale dei Girolamini. Ma passa ogni voglia di farne carico all'ingenuità di quei buoni padri, quando si apprende che "il dott. Marino Massimo de Caro è stato chiamato a collaborare con il Ministero dei Beni Culturali dal Ministro Giancarlo Galan in data 15 aprile 2011 in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura, dell'editoria nonché delle tematiche connesse all'attuazione della normativa concernente l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e al loro corretto inserimento nel paesaggio. Il Ministro Lorenzo Ornaghi in data 15 dicembre 2011 ha confermato l'incarico al dott. Marino Massimo de Caro, come ha fatto con altri consiglieri del Ministro Galan, in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura e dell'editoria" (così una comunicazione dell'Ufficio stampa Mibac). Impresa della cultura: forse si allude ad iniziative come quelle promosse da De Caro a Napoli, vale a dire invitare a parlare il responsabile stampa della prelatura dell'Opus Dei, o profanare la tomba di Giovan Battista Vico nella speranza di trovarne le ossa. Davvero Ornaghi ricaverà preziosi consigli da questo prezioso consigliere.
Il professor Pontani, per studiare un prezioso codice del '400 testimone in parte unico di opere di Gemisto Pletone, ha dovuto per mesi faticosamente concordare un appuntamento (solo altri 5 studiosi, stando al blocco delle richieste, sono arrivati a consultare manoscritti negli ultimi 6 mesi). Dieci anni fa, invece, tutto era stato semplice e lineare, e soprattutto - mi scrive Pontani - "non si vedevano pile di libri del '600 gettate in terra". Mercoledì anche io ho visitato la Biblioteca, dove mi ero recato nell'ingenua speranza di concordare l'accesso all'archivio di un mio allievo, dottorando della Federico II. E lì non solo ho appreso che il tetto pericolante non consente l'ingresso all'archivio (che però non viene, curiosamente, messo in sicurezza), ma ho avuto la stessa esperienza di Pontani: quella di trovarmi in una biblioteca esposta ad un grave pericolo, e popolata da presenze incongrue (la più innocua essendo quella di un pastore tedesco che dissemina ossi ed escrementi nelle sale monumentali). Si tratta di un nuovo, triste episodio della travagliatissima storia recente del meraviglioso complesso oratoriano conficcato nel cuore di Napoli.
Nel 1962 due padri Filippini vennero condannati a quattro anni per l'incredibile saccheggio degli arredi della chiesa e del convento: un tesoro di oreficerie, arredi, paramenti allora valutato un miliardo di lire. Oltre ad una grande quantità di libri. E proprio quelle razzie di volumi (che l'attuale conservatore padre Sandro Marzano mi ha detto esser continuate fino al 2007: ma con quali denunce?) potrebbero essere invocate per fornire alibi alla deriva attuale. Alla fine degli anni settanta, dopo una lenta rinascita, Gerardo Marotta ottenne dal governo di collocare nel convento la sede delle attività e dei libri dell'Istituto di studi filosofici. Sarebbe stato troppo bello: come scrisse Luigi Firpo in un commovente articolo uscito sulla "Stampa" nel 1981, "ci si è messo di mezzo il terremoto". Trasformato in un ricovero per gli sfollati di un palazzo vicino, il complesso dei Girolamini vide la sua sorte segnata per altri decenni. Fino ad oggi, quando torna di terribile attualità l'invocazione con cui Firpo chiudeva il suo articolo: "si allontanino i cattivi custodi, e si dia credito e spazio alla Napoli seria e civile che chiede per sé e per tutti noi un meno avvilente destino".
Non c'è solo la Torino-Lione. Il governo è in procinto di decidere su un certo numero di grandi opere. L'attenzione mediatica è concentrata sul tunnel della Val di Susa, ma c'è il forte rischio che anche questi altri interventi possano rivelarsi, nel complesso, un cattivo affare per il paese e per gli equilibri di finanza pubblica del prossimo ventennio. È urgente un ripensamento che porti a scegliere progetti meno costosi, più rapidamente realizzabili e perciò più utili alla crescita.
Un certo numero di grandi opere, oltre la Torino-Lione, attende una decisione del governo. L’attenzione mediatica è concentrata sul tunnel della Val di Susa, ma è forte il rischio che queste altre opere possano rivelarsi, nel complesso, un affare non migliore per il paese e per gli equilibri di finanza pubblica del prossimo ventennio. (1)
IL CATALOGO (BREVE) È QUESTO
Alcune opere sono già state finanziate in parte, altre hanno passato la cruciale soglia dell’approvazione del Cipe. (2) Vale la pena riflettere sulle maggiori. Si tratta del tunnel ferroviario del Brennero, della linea ferroviaria Milano-Genova (nota come “terzo valico”, essendocene già due, e sottoutilizzati), la linea alta velocità Milano-Verona, le nuove linee ferroviarie Napoli-Bari e Palermo-Catania, tecnicamente non ad alta velocità, ma con costi unitari del tutto paragonabili, e il miglioramento in asse della linea Salerno-Reggio Calabria (forse la più sensata). Il costo totale preventivato supera i 27 miliardi di euro. Va segnalato che i preventivi non hanno avuto una verifica “terza”, come sarebbe auspicabile, dato l’ovvio e storicamente verificato incentivo per i promotori dei grandi progetti a sottostimarne abbondantemente i costi. Vi è anche una forte intesa politica “bipartisan” per la nuova linea Venezia-Trieste, mentre non è chiaro al momento il destino del ponte sullo stretto di Messina.
SOMIGLIANZE
Quali caratteristiche hanno in comune questi progetti? Sommariamente si può dire così:
Non sono stati resi pubblici i piani finanziari: cioè non è noto quanto sarà a carico dei contribuenti e quanto a carico degli utenti. La cosa non sembra irrilevante in un periodo di grande scarsità delle risorse pubbliche.
Non sono in generale note analisi costi-benefici comparative delle opere, finalizzate a determinare una scala trasparente di priorità.
I finanziamenti non sono “blindati” fino a garantire il termine dell’opera. La normativa recente che consente di realizzarle “per lotti costruttivi”, invece che “per lotti funzionali” (vedi "Grandi opere, un pezzo per volta", e "A volte ritornano, i lotti non funzionali), rende possibili cantieri di durata infinita, come già spesso è accaduto per opere analoghe.
Si tratta di opere ferroviarie, ed è noto che la “disponibilità a pagare” degli utenti per la ferrovia è molto bassa, tanto che in generale se si impongono tariffe che prevedano un recupero anche parziale dell’investimento, la domanda, già spesso debole, tende a scomparire integralmente. Questo aspetto, su cui qui non è possibile dilungarsi, rende problematica la scelta, in presenza di risorse scarse.
I benefici ambientali del modo ferroviario non sono discutibili. Ma non è così in caso di linee nuove: le emissioni climalteranti “da cantiere” rendono il saldo ambientale molto problematico. (3)
Il contenuto occupazionale e anticiclico di tali opere appare modestissimo: si tratta di tecnologie “capital-intensive” (solo il 25 per cento dei costi diretti sono di lavoro), e comunque l’impatto occupazionale è lontano nel tempo, data la durata media di realizzazione. (4)
PROGETTO PER PROGETTO
Vediamo ora alcuni aspetti, per quanto frammentari, specifici di alcune di queste opere. La debolezza del quadro informativo di cui si dispone è un problema politico in sé: investimenti pubblici di tale portata dovrebbero essere documentati e comparati in modo trasparente ed esaustivo. Sul “terzo valico” Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs, si è espresso più volte mettendone fortemente in dubbio la priorità, tanto da dover essere duramente ripreso con una lettera al Sole-24Ore dall’ex-ministro Pietro Lunardi. lavoce.info ha dimostrato l'inconsistenza dell’analisi costi-benefici della linea av Milano-Venezia (vedi "E sulla Milano-Venezia i conti non tornano"), presentata con notevolissimo eco mediatico e unanime approvazione politica due anni fa, senza che mai questa dimostrazione sia stata confutata dagli autori dell’analisi. Per il tunnel del Brennero, gli austriaci da tempo esprimono perplessità sulle proprie disponibilità finanziarie. (5) Certo se l’Italia costruisse la propria metà, vi sarebbero rilevanti problemi funzionali per l’opera, in assenza della parte austriaca. Una dimostrazione di inconsistenza è stata proposta da lavoce.info anche per l’analisi costi-benefici presentata da Fs per la linea Napoli-Bari (vedi "E sulla linea Napoli-Bari corre la perdita"). Anche in questo caso, nessuna smentita è pervenuta. Quali conclusioni trarne? Forse vale la pena di sfatare una posizione più volte emersa nei dibattiti pubblici, cioè che le infrastrutture generino nel tempo la domanda che le giustifica: il maggior flop infrastrutturale di questi anni, la linea di alta velocità Milano-Torino, costata 8 miliardi e con una capacità di 330 treni/giorno, ne porta, dopo tre anni dall’entrata in servizio, appena venti. Né si può argomentare che l’avvento del collegamento Torino-Lione ne genererebbe molti di più: le stime ufficiali (ma quelle del progetto completo, non di quello attuale, molto più modesto) parlano di meno di venti treni aggiuntivi.
UN MONDO MIGLIORE
Purtroppo, la debolezza della domanda ferroviaria (non dell’offerta, si badi) non è forse il problema maggiore. Che sta nei cantieri infiniti, consentiti dall’attuale normativa. Per ragioni di consenso si rischia di avere moltissime opere non finite in tempi ragionevoli, con costi economici stratosferici. Si pensi all’esempio del progetto alta velocità, trascinatosi in media per dieci anni invece dei cinque fisiologici: su un costo complessivo di 32 miliardi, il costo-opportunità perduto delle risorse pubbliche (usando il valore standard europeo del saggio sociale di sconto del 3,5 per cento) è stato di 3,2 miliardi (questo, ignorando gli altri extra-costi, che hanno reso l’opera non confrontabile con altre simili europee). E l’extra-costo finanziario è ovviamente assai più elevato.
Non sembra proprio il momento di andare avanti con queste logiche, evidentemente proprie di un diversa fase politica ed economica, quando è così urgente rilanciare la crescita del paese. Ecco, la crescita. In molti invocano le grandi opere proprio per rilanciare la crescita. Ammesso che veramente ci sia un nesso forte tra opere pubbliche e crescita, appare difficile contestare che alla crescita servano di più opere socialmente utili e dal costo ragionevole che opere di utilità sociale molto dubbia ed estremamente costose. (6) Altrimenti, tanto varrebbe scavare buche e riempirle: così, almeno, si eviterebbero i probabili effetti pro-ciclici di spese ingenti inevitabilmente prolungate nel tempo.
Anche lasciando da parte i paradossi di Keynes, sarebbe raccomandabile un ripensamento serio finalizzato non necessariamente a spendere meno (anche se non sarebbe disprezzabile, visto che di soldi ce ne son pochi), ma a spendere meglio (maggior utilità sociale di ogni euro speso) e con il traguardo di risultati più vicini nel tempo, per risolvere inefficienze localizzate che sul serio limitano la crescita (si pensi ai collegamenti tra i maggiori porti e interporti e la rete ferroviaria, ai grandi nodi metropolitani ferroviari e stradali). Ma chi avrà il coraggio di dire di no a tanti “sogni nel cassetto” di politici, banche e costruttori locali, soprattutto in vicinanza di elezioni? La risposta che affiora subito alla mente è: il governo tecnico. Speriamo bene.
(1) L'articolo è stato scritto con la collaborazione di Raffaele Grimaldi.
(2) Si vedano le Gazzette ufficiali del 26.4.2011, 10.6.2011, 9.6.2011, 31.12.2011.
(3) Westin J. e Kågeson P. (2012), “Can high speed rail offset its embedded emissions?”, Transportation Research Part D, 17, 1–7
(4) Vedi de Rus, G. e Inglada, V. (1997), “Cost-benefit analysis of the high-speed train in Spain”, The Annals of Regional Science, 31, 175–188.
(5) Si veda Il Sole-24Ore del 20.3.2012
(6) Vedi Di Giacinto V., Micucci G., Montanaro P. (2011), “L’impatto macroeconomico delle infrastrutture: una rassegna della letteratura e un’analisi empirica per l’Italia”, in Banca d’Italia: Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione, 21-56.
La figura chiave di questa storia è il nuovo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini: il ‘professore’ Marino Massimo De Caro, che incontro assorto nel maneggio dei volumi più pregiati della collezione, tra pile di libri preziosi incongruamente poggiate sul pavimento, lattine vuote di Coca cola che troneggiano sugli antichi banconi, un’avvenente ragazza ucraina a condividerne l’alloggio conventuale.
La biblioteca (pubblica fin dal Seicento e ora statale: 150.000 volumi, in massima parte antichi) è una delle più importanti d’Italia. Ma oggi è chiusa. Perché dev’essere riordinata, dice padre Sandro Marsano, il giovane sacerdote oratoriano, che ti accoglie, gentilissimo ed entusiasta, nel meraviglioso complesso secentesco . Perché accadono cose strane, dice invece la gente che abita intorno al convento: che ti parla di auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili della biblioteca.
Comunque stiano le cose, è incredibile che a dirigere uno dei santuari della cultura italiana sia uno degli esemplari più pregiati della fauna del Sottobosco esplorato da Ferruccio Sansa e Claudio Gatti nel libro uscito proprio ieri. Lì De Caro è il mediatore nell’affare del petrolio venezuelano, «uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani». E se i contatti con Massimo D’Alema sono stati preparati dalla sua carriera di portaborse parlamentare in area postcomunista, all’intima amicizia con Marcello Dell’Utri De Caro arriva grazie alla sua passione vera, quella per i libri antichi. Non che si tratti di un interesse culturale, intendiamoci: la cultura, notoriamente, fattura.
De Caro è titolare di una libreria antiquaria a Verona, ma soprattutto è assai attivo nel commercio internazionale: meglio se di alto livello e di memoria corta. In una delle sue conversazioni telefoniche con Aldo Miccichè (ex democristiano, condannato per bancarotta fraudolenta e latitante in Venezuela) intercettate dalla procura di Reggio Calabria, e pubblicate da Sansa e Gatti, De Caro si lamenta perché i carabinieri del Nucleo di tutela per il patrimonio artistico gli stanno addosso per la ricettazione di un prezioso esemplare dell’Hypnerotomachia Poliphili (un incunabolo del 1499) sottratto ad una biblioteca milanese e venduto nel marzo del 2005 alla Mostra del libro antico sponsorizzata da Dell’Utri. L’indagine finirà nel nulla, ma solo perché la Procura di Milano è costretta a chiedere il non luogo a procedere visto che «l’incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche».
Forte di questo curriculum immacolato, De Caro approda al Ministero dell’Agricoltura, come consigliere per le bioenergie di Giancarlo Galan. Ma la svolta surreale avviene quando questi, passando ai Beni culturali, se lo porta dietro e infine lo lascia in eredità al suo remissivo successore Lorenzo Ornaghi, che lo nomina prontamente suo consigliere diretto per l’editoria (e il suo mercato, immaginiamo). Così il ministro del patrimonio del governo supertecnico dei competentissimi professori si fa consigliare da una specie di Lavitola del libro.
Ma quando fai notare a padre Marsano che affidare la preziosissima biblioteca della sua Congregazione a uno come De Caro sarebbe più o meno come mettere un piromane a capo della Forestale, il religioso risponde – non so se candido o diabolico –, che ben altre sono state le insidie patite dai Girolamini, visto che tra il 1960 e il 2007 sarebbero spariti ben 6000 volumi. Sparizioni che nessuno ha curiosamente mai denunciato: e la cui evocazione suona come una colossale assoluzione preventiva. Insomma: cosa succede davvero nella biblioteca dove andava a studiare Giovan Battista Vico? È tutto sotto controllo, o siamo in un film dell’orrore? Girolamini o Girolimoni? La risposta è forse negli ossi di Vico: metafora perfetta di una verità che si sdoppia, tra Pirandello e Sciascia. Vico è il nome del pastore tedesco che gira per le sale monumentali della biblioteca con un immenso osso di prosciutto nelle fauci: quasi Almodóvar. Ma le ossa di Vico sono anche quelle del grandissimo filosofo, che si dice siano state riesumate qualche mese fa nella chiesa dei Girolamini, e che ora sarebbero affidate ai Ris di Parma: per capire se se ne può fare un culto, o un business.
A sciogliere dubbi e metafore varrà solo un’agguerrita ispezione del Ministero dei Beni culturali, o meglio un’indagine dei vecchi amici del direttore, i carabinieri del Nucleo di tutela. Ma se Ornaghi continuerà a farsi consigliare da De Caro e a far finta di non vedere, tra poco sarà davvero impossibile distinguere tra gli ossi di Vico (il cane) e le ossa di Vico (il filosofo). E Napoli morirà ancora un po’.
Elea, la città dei filosofi, è un luogo sacro (etimologicamente: appartenente agli dei) del pensiero e della cultura occidentali. Nota la definizione che Platone assegnò a Parmenide l’eleate: «Padre venerando e terribile della filosofia». Quella città ci consegna un primato e un dovere di salvaguardia nei confronti dell’umanità intera e della nostra stessa identità.
Ma nessun timore l’antico filosofo incute all’assessore regionale Marcello Taglialatela. Del resto la definizione di Platone era riferita alle minacce che il poema di Parmenide e i paradossi di Zenone facevano incombere sulle certezze ingenue del pensare.
Taglialatela invece ha una ben fondata certezza e considera la tutela e la valorizzazione del territorio e del paesaggio intorno all’area archeologica inutile. Memore del paradosso zenoniano che lo spazio non esiste, perché salvaguardarlo? Si deve essere detto l’assessore.
Più della minaccia filosofica potè sull’assessore la pressione di un ceto amministrativo gretto e miope che, non pago di aver disseminato una plaga stupenda di orridi edificati dal bagnasciuga alla collina, ha deciso di portare l’attacco anche all’ultimo miglio.
La legge regionale per Elea-Velia, come quella di Zanotti Bianco per Paestum, apponeva un vincolo di tutela per un chilometro intorno al sito degli scavi e si proponeva l’obbiettivo di una riqualificazione. Per potere offrire ai visitatori e agli stessi abitanti un luogo consono ai valori che lo contraddistinguono e non sfigurato dalla barbarie speculativa che ha già compromesso senza rimedio un tratto di costa cilentana anch’essa dono degli dèi.
Forse anche in questo caso si saranno detti meglio un tutto omogeneo anche se brutto che introdurre la discontinuità dialettica della bellezza.
Solo un pensiero ingenuo poteva ritenere che una legge per i piani paesaggistici avesse come scopo la tutela del paesaggio e la valorizzazione dei siti culturali e storici.
Non aveva fatto i conti con «il padre venerando e terribile» dell’urbanistica campana e con la città degli edificatori che alacremente sanno produrre rovine.
Un pensiero ingenuo che inutilmente si affanna tra studio del passato e progettazione del futuro per consegnare alle generazioni che verranno l’opportunità di una eredità immensa di civiltà. Edificato l’ultimo miglio lo spazio sarà pieno: di una colpa imperdonabile.
Ma perché farsene un cruccio se il tempo non esiste e la memoria à già smarrita?
Il disincanto con cui Monti il tecnico si rivolge dall´estero al Paese malato che gli tocca governare – considerandolo impreparato a comprendere del tutto la terapia da lui somministrata, e però ben allertato contro la malapolitica dei partiti – ormai sta assumendo i tratti di una vera e propria ideologia. Poco importa se il premier la lasci trasparire per passione, per stanchezza o per calcolo: anche i tecnici hanno un cuore e, dunque, un credo. Resta da vedere se tale ideologia tecnica, niente affatto neutrale, risulti adeguata a corrispondere e guidare lo spirito dei tempi, in una società traumatizzata dalla crisi del suo modello di sviluppo. O se invece si riveli anch´essa retaggio di un´epoca travolta da una sequenza di avvenimenti nefasti che non aveva previsto e che ha contribuito a provocare.
Per prima cosa Monti insiste a comunicarci la sua provvisorietà, e non c´è motivo di dubitare che sia sincero. Che sia per modestia o al contrario per supponenza, poco importa, egli si compiace di descriversi quale commissario straordinario a termine: «Sarà fantastico, per me il dopo Monti», scherza. Né difatti ha alcuna intenzione di dimettersi da presidente dell´Università Bocconi, la vera casa cui intende fare ritorno. La forte motivazione implicita in questo annuncio ripetuto è il disinteresse.
Immune da ambizioni personali di carriera che non siano il prestigio "di scuola", egli rivendica di stare al di sopra e al di fuori degli interessi di parte delle rappresentanze sociali e politiche. Sa bene che alla lunga non può esistere governo neutrale rispetto agli interessi in campo, e anche per questo allude continuamente alla sua provvisorietà. Ma non gli basta per essere creduto: anche lui ha una biografia, non viene dal nulla. Ha partecipato da indipendente ai consigli d´amministrazione di grandi aziende; manifesta una convinta lealtà alle istituzioni dell´Unione Europea in cui ha operato per un decennio; ha frequentato da protagonista i think thank del capitalismo finanziario sovranazionale. Un pedigree autorevolissimo che, unitamente al suo percorso accademico, lo connota quale figura cosmopolita organica a un establishment liberale conservatore, che in Italia è sempre rimasto minoritario. La cui pubblicistica da un ventennio raffigura (a torto o a ragione) le rappresentanze sociali e politiche del nostro Paese come cicale, se non addirittura come cavallette.
Qui s´impone il passaggio successivo dell´ideologia montiana o, se volete, l´idea di giustizia sociale di cui è portatore il tecnico di governo. Dovendo "scontentare tutti", almeno in parte, con le sue ricette amare, non basterebbe certo a legittimare cotanta severità il fatto che ci venga richiesta dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea) e dai mercati finanziari. L´italiano Monti, per quanto provvisorio, non può presentarsi a noi come il "podestà forestiero" di cui nell´agosto scorso aveva paventato l´avvento.
Ecco allora l´autorappresentazione di sé come portatore di un interesse mai rappresentato al tavolo delle trattative con le parti sociali: i giovani, i nostri figli, i nostri nipoti, addirittura le generazioni future. Prima d´ora solo la cultura ambientalista si era concepita come portavoce lungimirante dei non ancora nati, dentro le controversie del presente. Declinata in prosa tecnica, tale ambiziosa pretesa di redistribuzione intergenerazionale cambia decisamente di segno; com´è apparso chiaro nelle motivazioni pubbliche che hanno accompagnato il varo della riforma delle pensioni, prima, e del mercato del lavoro, poi.
Retrocessa in subordine, o addirittura liquidata come obsoleta la contraddizione fra capitale e lavoro, negata ogni funzione progressiva alla lotta di classe, il tecnico di governo assume come impegno prioritario il superamento di una presunta contrapposizione fra adulti "iper-garantiti" (parole testuali di Monti) e giovani precari. Riecheggia uno slogan di vent´anni fa, "Meno ai padri, più ai figli". Come se nel frattempo non avessimo verificato che, già ben prima della recessione, i padri hanno cominciato a perdere cospicue quote di reddito e posti di lavoro; mentre la flessibilità ha generalizzato la precarietà dei figli. Qui davvero l´ideologia offusca e mistifica il riconoscimento della vita reale, fino all´accusa rivolta ai sindacati di praticare niente meno che l´"apartheid" dei non garantiti. In una lettera aperta a sostegno della modifica dell´articolo 18, promossa da studenti della Bocconi e pubblicata con risalto dal Corriere della Sera il 21 febbraio scorso, leggiamo addirittura: "I nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie a un dispetto generazionale". Bambagia? Davvero è questa la rappresentazione del lavoro dipendente in Italia che si studia nelle aule dell´ateneo del presidente del Consiglio? Corredata magari dal rimprovero ai giovani che aspirano alla monotonia del posto fisso?
Ben si comprende, in una tale visione culturale, che la negazione del reintegro per i licenziamenti economici (anche se immotivati) venga considerata un "principio-base" irrinunciabile dal capo del governo. Così come si capisce la sintonia con le scelte di Sergio Marchionne in materia di libertà d´investimenti e rifiuto della concertazione. La stessa "politica dei redditi" concordata fra le parti sociali, auspicata mezzo secolo fa da La Malfa e in seguito messa in atto da Ciampi, viene liquidata come un ferrovecchio.
Mario Monti non è paragonabile a Margaret Thatcher, come ci ha ben spiegato ieri John Lloyd. Ma l´afflato pedagogico con cui si propone di cambiare la mentalità degli italiani per sottrarli a un destino di declino e sottosviluppo, sconfina ben oltre la tecnica: che lo si voglia o no, è biopolitica. Ha certo la forza sufficiente per tenere a bada gli attuali partiti gravemente screditati; ma al cospetto del malessere sociale rischia di manifestarsi come ideologia a sua volta anacronistica. Non a caso il presidente Napolitano si prodiga nel tentativo di attutirne gli effetti di provocazione. Padri e figli potrebbero indispettirsi all´unisono.
Anche Giorgio Napolitano ha aderito al “manifesto per la cultura” del Sole 24 ore. E nel messaggio inviato in occasione della XX Giornata Fai di Primavera, il Capo dello Stato non solo ha sposato la linea di fondo del “manifesto” (quella, tautologica, per cui la ‘cultura fattura’), ma ne ha esplicitato e radicalizzato il nucleo più controverso. «Se vogliamo più sviluppo economico, ma anche più occupazione – ha scritto il Presidente – bisogna saper valorizzare, sfruttare fino in fondo la risorsa della cultura e del patrimonio storico-artistico».
Sfruttare fino in fondo il patrimonio storico-artistico: difficile trovare una formulazione più estrema della cosiddetta dottrina del petrolio d’Italia, o dei giacimenti culturali, nata nell’Italia craxiana degli anni ottanta del secolo scorso. Ed è anche difficile trovare un’accezione del verbo ‘sfruttare’ che, per quanto metaforica, sia compatibile con la funzione costituzionale del patrimonio (che è quella di produrre non sviluppo economico, ma cultura). Secondo il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, sfruttare vuol dire «privare un terreno degli elementi nutritivi», «usare un giacimento minerario in modo da ricavarne il massimo profitto economico», «depredare una regione delle sue risorse naturali», «usare in modo esclusivo», «vivere alle spalle di qualcuno», «usare o abusare di qualcuno o qualcosa». Ciascuna di queste accezioni richiama alla nostra mente centinaia di aggressioni, morali e materiali, al patrimonio storico e artistico della nazione perpetrate in nome della sua messa a reddito. Ed anche l’accezione meno negativa («ricavare il massimo profitto da ciò che si ha a disposizione») è davvero poco edificante, se accostata, non so, a Michelangelo o alla Valle dei Templi.
Con questo messaggio, Napolitano ribalta dunque la dottrina quirinalizia sul patrimonio, che nel 2003 era stata messa a punto (su frequenze, quelle, perfettamente costituzionali) dal filologo classico ed economista Carlo Azeglio Ciampi: «La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la “primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici” e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità».
Lo «sfruttare fino in fondo» di Napolitano converte il patrimonio in un mezzo piegato al fine del reddito, e dunque smentisce questo illuminatissimo discorso, precipitandoci in un mercatismo senza se e senza ma che appare perfettamente in linea con la politica del governo che il Capo dello Stato sta, virtualmente, guidando.
«Fino a quando gli oggetti dell’istruzione pubblica verranno considerati come gioielli, come diamanti dei quali non si gode se non per il prezzo del loro valore?». Lo scrive Antoine Quatremère de Quincy. Nel 1796.
Si chiama Lara, il suo nome è scritto in argento e nero, chi ha voluto omaggiarla ha scelto un luogo nobilissimo: il sepolcro a Piramide sull'Appia Antica, tomba che potrebbe essere riferita alla gens Quintilia. Lì, alla base del monumento funerario, qualcuno ha disegnato lo scarabocchio: sarebbe una firma da writer sul muro di un palazzo, sul monumento è solo una deturpazione. «Una delle tante, così numerose che non riusciamo neanche a tenerle tutte sotto controllo», racconta Rita Paris, direttore dell'Appia Antica per la soprintendenza speciale ai beni archeologici. La strada continua ad essere, soprattutto nella prima parte fino alla tenuta di Capo di Bove, uno splendido monumento a cielo aperto. Ma percorrendola tutta si scopre che, ogni giorno, la Regina Viarum combatte una battaglia ardua contro degrado e abbandono. Una quantità enorme di sacchi pieni di spazzatura sono abbandonati a ridosso di un antico muretto . «Quello che a qualcuno è sembrato un luogo dove poggiare immondizia è l'ustrino - spiega Bartolomeo Mazzotta, archeologo della Soprintendenza -, il luogo dove si facevano i fuochi funerari, ovvero le cremazioni nel periodo tardo repubblicano». Siamo poco lontano dai tumuli degli Grazi e dei Curiazi, un luogo leggendario per la storia di Roma, forse quel muretto ha accolto qualche caduto della storica battaglia. La passeggiata continua, l'Appia è più selvaggia, ci sono meno ville, la sensazione di camminare in un luogo prezioso aumenta, ci sono le statue funerarie e, sotto, ci sono ancora i tronchi abbattuti dalla nevicata del 3 febbraio.
Arrivati a Casal Rotondo, lo sguardo si ferma sul mausoleo di Cotta: una quinta scenografica curva costruita dai restauratori nell'800, dove sono apposti frammenti del vicino monumento. Ma ci sono tanti vuoti tra un reperto e l'altro: furti di maschere funerarie ed incisioni. «Tutte queste ruberie sono avvenute negli anni - continua Paris - perché non si è ancora capito che l'Appia Antica è bene comune da proteggere davvero, altrimenti gli atti di vandalismo e i furti continueranno. E un posto speciale, che merita un provvedimento normativo speciale, così come è accaduto in passato». Allora i ministri venivano a passeggiare sull'Appia Antica per verificare l'opera del grande restauratore Canina, «sessanta carrozze al giorno dal novembre a giugno nel i868», narrano le cronache del tempo. Ora invece ben altri frequentatori si muovono tra il tempio di Ercole e la tomba di Galieno: giovani prostituti e uomini alla ricerca di incontri, che avvengono all'interno di sepolcri dell'età augustea. Una cella funeraria molto ben conservata ospita tra l'immondizia amori occasionali: basta entrare nel cunicolo, ignorare odori, materassi sporchi e altre bruttezze per osservare il soffitto, le nicchie che ospitavano defunti. «E realizzata in opus reticolato, potrebbe essere di eta augustea», spiega Mazzotta. Più in là c'è un gesso di Padre Pio: il santo è stato incollato dentro un antico sepolcro.
Titolo originale: Planning for the future – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si tratta, semplicemente, della più radicale revisione del sistema urbanistico che si sia mai vista. Dopo mesi di dibattito e migliaia di occasioni di consultazione pubblica, abbondanza di critiche sui media e scontri politici, alla fine il governo ha approvato il nuovo National Planning Policy Framework (NPPF). Le leggi urbanistiche di solito non sono un argomento troppo appassionante, ma il forte coinvolgimento dell’opinione pubblica dimostra quanto si tenga al nostro territorio, e si comprenda il ruolo fondamentale delle scelte pubbliche nella sua organizzazione. Attraverso tutto il percorso di dibattito, la Campaign to Protect Rural England si è sempre espresso a favore di una forte regolamentazione, esprimendo le proprie riserve quando la prima stesura del documento non riconosceva il valore intrinseco del territorio rurale, che per il 52% della superficie non è specificamente tutelato in quanto rilevante. Quanti fra noi hanno partecipato a questa immersione urbanistica totale degli ultimi mesi erano naturalmente molto curiosi di capire come si sarebbe riusciti all’interno del NPPF a condensare le precedenti 1.000 pagine in sole 50.
La buona notizia è che a quanto pare il governo ha ascoltato noi della CPRE, insieme alle altre associazioni ambientaliste, inserendo nella stesura finale alcune modifiche ai punti che ci avevano lasciato perplessi, ad esempio una definizione più chiara di sviluppo sostenibile, o il valore intrinseco attribuito al territorio rurale in quanto tale; ma l’orientamento governativo esplicitamente favorevole alla crescita fa sì che si debba restare vigilanti, perché tale crescita non si traduca in danni al territorio delle campagne.
La nostra posizione
“Ci rassicura che il ministro Greg Clark abbia riconosciuto il valore intrinseco delle campagne “sia quando sono specificamente tutelate che quando non lo sono” e che siano stati inseriti nel documento i cinque principi della Strategia nazionale di Sviluppo Sostenibile” ha dichiarato il responsabile esecutivo CPRE, Shaun Spiers. “Per noi si tratta di questioni essenziali. E siamo compiaciuti che il ministro abbia ascoltato tutte le critiche che corrispondevano alle nostre”. Nelle sezioni CPRE di tutto il paese si sono studiate le nuove norme. Nel collegio elettorale di David Cameron in Oxfordshire, la responsabile locale Helen Marshall sembra accogliere favorevolmente il nuovo Planning Framework. “Greg Clark sembra averci ascoltati, ma la vera verifica sarà nell’attuazione pratica. Se la formulazione attuale si rivela troppo vaga e aperta alle interpretazioni, se ne potrebbero anche vanificare le buone intenzioni, rallentando ogni cosa”.
Roger Smith, vicepresidente CPRE per il West Sussex, si unisce a questi dubbi nella sua nota. “Credo non si debba essere troppo ottimisti sul NPPF, e aspettare di verificare in dettaglio. Avrei preferito veder definito meglio cosa sia sviluppo sostenibile, soprattutto esplicitando come ciò si traduce in pratica”. Helen sottolinea come le scadenze nella redazione dei piani metteranno in difficoltà le amministrazioni. Il periodo intermedio sarà complicate per i governi locali qui nella zona di Oxford: oggi sono solo il 20% del totale ad avere strumenti adeguati. Gli altri si trovano a qualche punto dell’iter, e potrebbero o meno concluderlo entro la scadenza prefissata di dodici mesi. Naturalmente faremo di tutto per avere degli ottimi piani, ma non è detto che le decisioni affrettate siano le migliori”. Roger resta convinto che il NPPF difficilmente raggiungerà gli obiettivi per le case economiche. “Se si costruisce eccezionalmente poco non è per colpa delle decisioni urbanistiche burocratizzate: sono semplicemente le imprese che ci mettono troppo, anche se i permessi già ci sono. E poi riducono le percentuali di abitazioni economiche negli interventi, fino al solo 20% o 30%. Col nuovo documento non cambierà nulla per questo problema”.
Un territorio straordinario
Poco prima della pubblicazione del nuovo NPPF, il primo ministro David Cameron aveva pubblicamente apprezzato l’idea urbanistica di fondo di uno dei fondatori CPRE, Sir Patrick Abercrombie, quando in un discorso all’Istituto di Ingegneria Civile affermava di voler emulare l’ideale di Abercrombie, di un territorio ordinato. Vale però la pena ricordare che Abercrombie era fortemente critico rispetto ai rischi di un approccio pubblico troppo attento ai vantaggi economici, quando osservava: “Occorre riflettere seriamente su come in periodi di difficoltà finanziarie sia sempre la bellezza ad essere sacrificata sull’altare del vantaggio immediato”. Ce lo dirà solo il tempo, se questo nuovo orientamento urbanistico, tanto a lungo atteso, sia in grado di tutelare davvero, oppure sacrificare, la bellezza delle campagne. Non c’è bisogno di ripetere che la CPRE a partire dai prossimi giorni continuerà sia nell’esame particolareggiato del NPPF, sia nel lavoro sull’urbanistica insieme a organi governativi, amministrazioni locali e abitanti, per difendere ciò che anche Greg Clark ha giustamente definito “il nostro territorio straordinario”.
Uno sguardo al National Planning Policy Framework: Verde (passi avanti/buono), Giallo (non cambia nulla/cautela), Rosso (non ci siamo/attenzione):
Verde – Valore intrinseco:Uno degli aspetti più dubbi della prima bozza di NPPF era l’omissione di tutto quanto riguardava il valore intrinseco del territorio rurale, anche quando non si tratta di aree specificamente individuate. Il ministro Greg Clark ha confermato che adesso si riconoscono valore e bellezza intrinseca delle campagne “specificamente tutelate e non”. Certo non vuol dire che lì non si può affatto trasformare nulla, ma sottolinea almeno che in prima istanza non si costruisca su spazi aperti.
Verde – Piani comunali:Il documento sottolinea chiaramente come tutte le decisioni sulle trasformazioni debbano essere in linea con piani e programmi locali, salvo particolari e motivate eccezioni. Ottimo anche che il governo abbia accettato di concedere alle amministrazioni il tempo di aggiornare i propri piani prima dell’entrata in vigore dell’orientamento “preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili”, anche se in parecchi casi sarà una sfida rispettare la scadenza dei dodici mesi.
Verde – Inquinamento luminoso e silenzio: buona cosa aver inserito la lotta delle amministrazioni locali all’inquinamento luminoso attraverso la progettazione e i controlli. Speriamo che ora aumentino i limiti agli effetti dell’illuminazione artificiale sulla qualità spaziale, nei luoghi che devono restare normalmente al buio e ambienti naturali. E per la prima volta in un documento nazionale si tutela la tranquillità dei luoghi. Siamo del tutto favorevoli a questa scelta che contribuisce alla salute e alla qualità della vita.
Giallo – Sviluppo sostenibile:osservavano in molti come nella prima bozza di NPPF si sostenesse uno “sviluppo sostenibile” a tutti i costi, senza però spiegare chiaramente cosa si voleva dire. Nella versione finale si entra di più nei particolari, facendo riferimento alla Strategia nazionale per lo Sviluppo Sostenibile in cinque punti, e Greg Clark in parlamento ha ripetuto più volte come tra gli elementi chiave dei progetti sostenibili ci siano società e ambiente. Ma non esiste ancora chiarezza sufficiente su cosa possa significare in pratica questa sostenibilità, e mancano limiti ambientali specifici.
Giallo – Recupero di superfici dismesse:la bozza non comprendeva le precedenti indicazioni sulla priorità di trasformazione per le superfici già urbanizzate, quindi accogliamo favorevolmente che nel documento finale si riconosca in modo esplicito questa priorità. Ma nel nuovo NPPF non si prescrive sempre, come accadeva, la trasformazione delle superfici dismesse prima di considerare gli spazi aperti.
Rosso – Ambiente contro crescita?Se il governo ha eliminato tutte le affermazioni allarmanti della prima bozza di NPPF, come il famigerato “SI preliminare” alle trasformazioni sostenibili, si continua comunque ad assegnare “peso significativo” agli aspetti di crescita economica, il che implica considerare regole certe un ostacolo a questa crescita. Un aspetto con cui la CPRE ha da sempre polemizzato, visto che i nostri studi confermano quanto una attenta pianificazione, lungi dall’impedire sviluppo, apporti notevoli e duraturi vantaggi economici di lungo termine.
Rosso – Emergenza case: nel documento si mantiene l’orientamento sbagliato a chiedere che siano messe a disposizione attraverso i piani superfici sufficienti su un arco di cinque anni a realizzare case “immediatamente”, più un’altra quota del 5-20% “cuscinetto” in base ai programmi locali. Non si tratta di un’idea nuova, e la quota cuscinetto potrebbe spingere le amministrazioni a costruire a costi inferiori su zone agricole.
scaricabile qui di seguito la versione finale del National Planning Policy Framework così come proposta dal Ministero per le Aree Urbane; il dibattito precedente, compresa la bozza preliminare e relative polemiche, è stato seguito con una certa puntualità nei mesi scorsi, e se ne può trovare ampia documentazione anche in italiano su queste pagine (f.b.)
C'è qualcosa che zoppica molto, nel giudizio che il Premier dà dell'Italia, della sua preparazione ad accettare le volontà del governo. Sostiene Mario Monti che "se il Paese non è pronto" lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici. Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l'Europa, come promette, o percepisce solo l'austerità sollecitata in agosto dall'Unione?
In realtà l'Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l'Europa diversa che si vuol costruire, la democrazia da rifondare a casa ma anche fuori: lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro.
È qui che manca prontezza: nei governi, non nei Paesi. Che manca il riformismo autentico: quello che non cambia le cose con rivoluzioni, ma le cambia pur sempre. La modifica dell'articolo 18 e altre misure d'austerità hanno senso se inserite in una mutazione al tempo stesso economica, democratica, geopolitica. Se non son parte di un New Deal nazionale ed europeo, secernono solo recessione, regressione, e quei chicchi di furore che secondo Steinbeck marchiarono la Depressione negli anni '30.
Al Premier vorrei domandare: è per un New Deal che sta a Palazzo Chigi, o per certificare che la crisi economico-democratica è gestibile da platoniche, oligarchiche Repubbliche di esperti-filosofi che la sanno più lunga? Una risposta a simili interrogativi
ci preparerebbe un po'. Non basta dire: noi abbiamo filosofie sui giovani e il futuro che nessuno possiede.
Urge quel che chiedono da tempo i federalisti; quel che il 10 marzo hanno invocato tanti cittadini e movimenti europei, in un appello (firmato anche da Jacques Delors) uscito in Italia e Germania: un'Europa politica, un'assemblea costituente che ne faciliti la metamorfosi. Incuriosisce che l'assemblea costituente attragga anche oppositori di sinistra (ne ha parlato Sabina Guzzanti, in Uno Due Tre Stella).
È segno che ovunque c'è oggi sete di un'agorà europea: di uno spazio di discussione-deliberazione su quel che deve divenire l'Unione, se non vuol degenerare in matrigna sorvegliante dei conti. È una sete ignota ai partiti, al governo, ai sindacati. La Cgil ad esempio non ha firmato l'appello federalista, ritenendolo troppo favorevole al Patto fiscale. Non vede che anche il fiscal compact è doppio: ha senso se è il gradino di una scala, è stasi in assenza di scala.
Nella stessa trappola può cadere Bersani, se condivide queste cecità. Senza un'Europa politica e democratica, che non si limiti a coordinare recessioni nazionali ma fabbrichi essa stessa crescita, il Pd è in un imbuto micidiale: come sabbia scivolosa, le sue forze si esauriranno. Per un partito vicino ai deboli e ai poveri, questi sono tempi bui. Gli mancano le parole, per dire quel che tocca comunque vivere, con o senza articolo 18: il taglio dei redditi, l'insicurezza del lavoro.
Per decenni i progressisti hanno parlato di riformismo senza approfondirlo, e ora la parola tocca ripensarla, non farla coincidere solo con austerità, ineguaglianza. "Nessun nemico a sinistra", era l'antico motto. Oggi a sinistra s'affollano partiti, movimenti, e puoi denunciare l'antipolitica ma gli elettori non se ne curano, delusi come sono. Tuttavia, proprio la trasmissione di Sabina Guzzanti conferma che c'è, tra i delusi, un residuo di speranza, una sete che si può dissetare, se si vuole. Una domanda che implora più Europa. Che nella corruzione di tutti i partiti fiuta la temibile morte della politica.
Il vero problema è che manca terribilmente l'aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (non sempre male d'altronde: nel piano Fornero ci sono molti progressi per i precari). Le stanze sono piccole, strette, e l'essenziale resta dietro la porta. L'essenziale è l'Europa: l'ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. La dottrina tedesca che ingiunge "l'ordine in casa" prima di tentare forme politiche transnazionali è conficcata nelle menti: anche in quella di Monti. La crisi mostra l'inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo - già sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente - le sinistre storiche sono in un vicolo cieco.
Dicono alcuni che la democrazia svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma "individui sparpagliati, che semplicemente 'si conoscono'" (Corriere 12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore. Dimentica, l'autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il demos (popolo) riteneva impuro.
Il Partito democratico, ma anche lo strano governo dei Saggi, sembra dar ragione a questa tesi, per nulla controcorrente. È la tesi dominante invece - ha la forza dello status quo - ed è anche la più facile, perché inventare un diverso ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le sinistre storiche professano sempre, osservano di rado.
Le torsioni del Pd, e dei socialisti in Francia, confermano l'infermità di partiti chiusi nelle case nazionali, che l'Unione la sognano soltanto. Quando esigono "più Europa" (al vertice parigino tra sinistre francesi, tedesche, italiane) non osano neppure parlare di governo federale: pudibondi, prediligono la vacua parola governance.
Solo attraverso un governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non la possiedono più.
Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per un'altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune. Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che superino l'automobile individuale.
Il Pd ha più patemi delle destre, abituate a custodire i fittizi troni nazionali delegando le sovranità perdute a incontrollate lobby finanziarie (un'abitudine contratta nei rapporti con la Chiesa). Le sinistre hanno una visione più laica e ambiziosa della politica, e il loro disinteresse per l'Europa federale è inane: non ci sarà vero progresso, senza vera democrazia europea. Nei vertici di maggioranza con Monti di Europa politica non si parla: come se non fosse la prima emergenza, l'ossigeno che ci evita l'asfissia. Monti ritiene che "non c'è bisogno" di Stati Uniti d'Europa. I suoi ministri raccomandano, svogliati, "piccoli passi".
Come ricordano alcuni deputati, in un'interrogazione alla Camera presentata dal prodiano Sandro Gozzi, non è questa la linea fissata dal Parlamento. La mozione del 25 gennaio esige che il governo acceleri, in parallelo con Patto fiscale, un "processo costituente verso un'unione politica dei popoli europei", metta "al centro della riflessione politica europea le politiche dello sviluppo e della crescita", proponga il ricorso a eurobond e project bond come "strumenti innovativi di finanziamento allo sviluppo". Non s'intravvede prontezza governativa, in materia.
Ulrich Beck ha dato un nome all'indolenza dei politici nazionali. La chiama l'"errore del bruco". L'umanità-bruco vive la condizione della crisalide, "ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare". Non è la prima volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell'800 stava per finire la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l'alternativa si materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi.
La sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.
Ferruccio de Bortoli in un suo editoriale sul Corriere della Sera di sabato ritiene che il rischio che le imprese usino la riforma dell'art. 18 per liberarsi anche dei lavoratori scomodi (come ho sostenuto sul manifesto) oltre che di quelli anziani o logorati dal lavoro (come ipotizzato lo stesso giorno dal prof. Mariucci su l'Unità) rispecchi «una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro». Poi si chiede se le minacce dei capi a cui facevo riferimento nel mio articolo del giorno prima - «Appena passa l'abolizione dell'art. 18 siete fuori!» - rappresentino effettivamente «il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio». Rispondo: forse non in tutte; ma in molte aziende certamente sì. Altrimenti non si capirebbe come mai decine di migliaia di lavoratori abbiano risposto immediatamente, superando spesso anche le divisioni sindacali, alla dichiarazione di sciopero di Fiom e Cgil.
Questo è sicuramente il clima che si respira negli stabilimenti Fiat, dove una sentenza di appello ha sancito che il licenziamento di tre operai, iscritti o delegati della Fiom, è stata una rappresaglia antisindacale. Da mesi poi si ripetono, su giornali e talk show, denunce del fatto che dalle riassunzioni nello stabilimento Fiat di Pomigliano sono stati esclusi completamente gli iscritti alla Fiom. È noto che le rappresentanze della Fiom sono state "espulse" da tutti gli stabilimenti Fiat. Ma c'è di più: il manifesto ha riportato, senza essere smentito né denunciato, che le celle di vetro dei capireparto che sorvegliano gli operai nello stabilimento di Pomigliano - e che tanto sono piaciute al prof. Pietro Ichino, in visita guidata alla fabbrica (una visita di tipo "sovietico") - sono state usate a fine turno per «processare» e umiliare di fronte ai loro compagni gli operai che non reggevano i nuovi ritmi di lavoro, facendogli gridare «sono un uomo di merda».
Risultano anche numerose le pressioni su mogli di operai Fiom in cassa integrazione perché inducano i mariti ad abbandonare l'organizzazione se vogliono tornare in fabbrica. Di fronte a notizie del genere il direttore di un giornale avrebbe forse dovuto affidare a un suo inviato un'inchiesta sul posto. Non se ne ha notizia. Ferruccio de Bortoli si è dimostrato spesso attento alle discriminazioni razziali del passato. Colpisce la sua disattenzione per le discriminazioni del presente verso i lavoratori. Sono episodi isolati? No. Nella competizione per la nomina del nuovo Presidente di Confindustria, il candidato perdente Bombassei è stato apertamente appoggiato dall'amministratore delegato della Fiat e lo ha ricambiato dicendo che condivideva le scelte nelle relazioni sindacali. Ha perso solo per pochi voti: non dice niente questo sul clima che aleggia in molte aziende? E se così non fosse, perché mai verrebbe data tanta importanza all'art. 18?
L'accusa di estremismo che De Bortoli mi rivolge ha una spiegazione chiara nell'elzeviro di un altro ex autorevole direttore del Corriere dedicato al segretario della Fiom (Repubblica, 22.3). Che «non accetta - per Piero Ottone - il mondo come è: un mondo dominato dalle leggi economiche della domanda e dell'offerta, e manipolato come sempre da personaggi poco raccomandabili: ieri i padroni delle ferriere; oggi i banchieri (con qualche Marchionne sparso qua e la)... Al centro del suo universo, quello in cui crede, campeggia il lavoratori, col pieno diritto, sacro e inviolabile, a un posto equamente retribuito, a una paga che gli consenta di mantenere se stesso e la sua famiglia, a una pensione quando non dovrà più lavorare». E ancora: «A me sembra - aggiunge Ottone - che l'impostazione sindacale di Landini, che parte dai principi (repubblica imperniata sul lavoro, diritto di ogni cittadino al lavoro) piuttosto che dalle leggi naturali (domanda, offerta, libero scambio) appartenga alla cultura di sinistra di quegli anni ormai lontani: che sia una scheggia di quel sindacalismo... figlio dell'estremismo di sinistra». E allora? La verità è che la lotta di classe «novecentesca», esecrata da entrambi i giornalisti, è più viva che mai. È quella del capitale contro il lavoro raccontata da Luciano Gallino nel suo ultimo libro, che non è mai venuta meno. Ogni tanto, e si spera in crescendo, c'è anche quella dei lavoratori contro il capitale.
Il governo Monti è indubbiamente conservatore e di destra. Ma lo è in modo netto, ben leggibile e – per riprendere un termine caro allo stesso Monti – “rigoroso”. Dal trovarsi di fronte a un personaggio e a un governo siffatti, chi vuole contribuire alla costruzione di una sinistra in Italia può trarre il non piccolo vantaggio di sapere senza equivoci con chi e con che cosa ha a che fare.
Di Mario Monti si legge fra l’altro in “Wikipedia”: «E’ stato, tra il 2005 e il 2008, il primo presidente del “Bruege”, un comitato di analisi delle politiche economiche (think-tank), nato a Bruxelles nel 2005. Nel 2010 è inoltre divenuto presidente europeo della Commissione Trilaterale, un gruppo di interesse di orientamento neo-liberista fondato 1973 da David Rockefeller e membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg […]. Tra il 2005 e il 2011 è stato International advisor per Goldman Sachs e precisamente membro del Research Advisory Council del Goldman Sachs Global Market Institute, presieduto dalla economista statunitense Abby Joseph Coen. E’ stato advisor anche della Coca Cola Company. Nel 2010, su incarico del Presidente della Commissione Europea Barroso, ha redatto un libro bianco (Rapporto sul futuro del mercato) contenente misure considerate necessarie per il completamento del mercato unico europeo».
Dal sito ufficiale della Presidenza del Consiglio, si può trarre il testo integrale del documento: “Governo Monti – Attività dei primi 100 giorni”. Man mano che ci si addentra nella lettura di questo pur relativamente sintetico documento, risulta chiara – al di là di ogni apparente dipendenza da necessità oggettive – l’ispirazione conservatrice delle varie iniziative, decisioni o previsioni del governo Monti. In un buon dizionario della lingua italiana [Francesco Sabatini e Vittorio Coletti, ed. Rizzoli Larousse, 2003], trovo infatti definito come conservatore «chi favorisce il perdurare dello stato di cose esistente, specialmente in campo sociale, economico, politico, etico, del costume», nonché, in politica, «chi sostiene l’ordine costituito, opponendosi alle tendenze progressiste e riformiste». Ma il “perdurare dallo stato di cose esistente” è un obiettivo che ci può proporre in vari modi e a partire da situazioni diverse. Ci si può limitare a difenderlo dalle critiche teoriche e a preservarlo dai mutamenti pratici da parte di chi non lo accetta, oppure sobbarcarsi al compito, più impegnativo, di ristabilirne il “rigore” (è questa infatti una parola ricorrente nel linguaggio montiano), messo in forse da politiche precedenti non perché progressiste o riformiste, ma semplicemente perché pasticcione, equivoche, elettoralistiche, illusioniste, sfacciatamente personalistiche, come era con tutta evidenza il caso dei governi italiani presieduti, nel corso di un ventennio e con qualche intervallo, dal ben noto venditore di fumo.
Non lontano da “conservatore” è, nello stesso dizionario, uno dei significati – quello più legato ad eventi della storia moderna – della locuzione “di destra”. Fondamentalmente conservatore, chiaramente collocato a destra è senza dubbio il governo Monti. Perché allora questa rivista on-line, in cui la parola “sinistra” è ben leggibile anche nel nome, dà spazio al documento in questione (astenendosi però, non essendo questa l’occasione, dall’entrare nel merito dei molteplici provvedimenti ivi sintetizzati)? E perché, più generalmente parlando, ritiene che nella formazione e nell’opera svolta dal governo Monti – insediato dal presidente della Repubblica attraverso un’operazione tatticamente splendida - siano da vedere dei fatti molto utili appunto alla costituzione di una sinistra in Italia? Principalmente perché, in un’Europa in cui le destre prevalgono in larga misura, avere alla fine anche in Italia un governo seriamente e nettamente conservatore, offre un chiaro termine di confronto a chiunque voglia dare il contributo che può affinché sussista, anche in Italia, una sinistra che sia tale e con cui, in quanto tale, si sia obbligati a fare i conti. Abbiamo di fronte, oramai, una destra non più melmosa massa informe e maleodorante, ma inequivocabile e tagliente, e queste sono le cose che è decisa a fare, in buon misura riuscendovi. “Hic Rhodus, hic salta”: quali indirizzi politici, quali orientamenti economici e sociali vogliamo metterci in grado di proporre come realistica e reale alternativa?
L'articolo è scritto dallo staff della rivista online Il picchio a sinistra
Dopo il freno alle residenze secondarie, in Svizzera continua la battaglia contro la cementificazione del paesaggio. Il parlamento ha approvato una modifica legislativa volta a ridurre la superficie edificabile. Una risposta a un'iniziativa che chiede una moratoria di 20 anni. È per proteggere le zone di montagna dall'invasione del cemento che il popolo svizzero ha accolto l'11 marzo un'iniziativa popolare per limitare la costruzione di residenze secondarie. Malgrado l'opposizione degli ambienti economici e dei partiti di destra, le città e i cantoni di pianura hanno dato un segnale chiaro a favore di una maggiore protezione del territorio. La proliferazione di nuove case non concerne però soltanto i villaggi di montagna, ma anche la pianura. Il turista potrebbe confondere la Svizzera con un enorme cantiere. Ovunque, o quasi, le casette monofamiliari o le grandi palazzine proliferano come funghi.
Una semplice impressione? Non proprio. Le cifre dell'Ufficio federale di statistica parlano di 67'750 nuovi edifici costruiti nel 2011, ossia il 2% in più del 2010. E dal 2004, sono circa 10'000 le case unifamiliari sbucate ogni anno. Questa abbondanza di costruzioni si spiega in gran parte con un livello storicamente basso dei tassi ipotecari in Svizzera. Talmente basso che il rimborso di un credito si avvera spesso meno oneroso di un affitto. «Ci sono diversi fattori che favoriscono questo boom edilizio. Tra gli altri, una legislazione che permette di utilizzare i risparmi previsti per la pensione per comprare una casa o un appartamento. A questo si aggiunge il fatto che la politica degli alloggi non è sufficientemente attiva in Svizzera. Molte persone costruiscono perché non trovano un'altra soluzione», spiega il professor Pierre-Alain Rumley, responsabile della cattedra di pianificazione del territorio e d'urbanismo all'università di Neuchâtel.
Una decina di campi di calcio
Da diversi anni ormai le associazioni ambientaliste denunciano una cementificazione del paesaggio. Ricordano che la superficie rosicchiata ogni giorno dalle nuove costruzioni corrisponde all'equivalente di dodici campi di calcio. Per frenare il fenomeno, nel 2007 hanno lanciato l'iniziativa popolare "Spazio per l'uomo e la natura". I promotori chiedono che la superficie totale delle zone edificabili non venga aumentata per un periodo di 20 anni. Per Philippe Roch, ex direttore dell'Ufficio federale dell'ambiente e membro del comitato che ha lanciato l'iniziativa, bisogna agire con urgenza. «È da 40 anni che si sente ripetere che ogni secondo viene rovinato un metro quadrato di territorio. Ma la situazione non è cambiata. Al contrario, il livello di distruzione è molto più alto».
Il consiglio federale (governo svizzero) e il parlamento respingono l'iniziativa, ritenuta troppo estrema e poco flessibile. Propongono invece un contro-progetto indiretto, sotto forma di revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio. La nuova legge prevede che le zone edificabili vengano definite in modo da rispondere al fabbisogno stimato per i prossimi 15 anni. Le aree edificabili già esistenti, sovradimensionate o mal situate, potrebbero perfino essere ridotte. Un'altra misura chiave della nuova normativa riguarda la tassazione. I proprietari, il cui terreno aumenta di valore in seguito a un cambiamento di destinazione, dovranno versare un'imposta del 20% sul valore aggiunto, come minimo. Il denaro raccolto servirà a finanziare nuovi azzonamenti.
Terreno sufficiente
La popolazione svizzera ha quasi raggiunto la soglia di 8 milioni di abitanti. Non è rischioso ridurre l'area edificabile? Non forzatamente. «In Svizzera ci sono attualmente 58'000 ettari sui quali non è stato costruito», ha ricordato il deputato liberale radicale Jacques Bourgeois durante il dibattito parlamentare. Pierre-Alain Rumley conferma: «Negli anni Settanta molti terreni sono stati resi edificabili e oggi possiamo contare su questa eredità. Da allora inoltre ci sono state anche delle estensioni di queste zone». Questo non significa però che non si registrino delle carenze. «Teoricamente c'è sufficiente spazio per la costruzione. Se si prende in considerazione unicamente la quantità di terreni a disposizione, c'è di che soddisfare il fabbisogno per i prossimi trent'anni. Ma esiste un problema di tesorizzazione di una parte importante di lotti che i proprietari non vogliono né vendere né edificare».
Per le associazioni ambientaliste, la soluzione passa da un'utilizzazione più efficiente degli spazi, che in termine tecnico viene definita "densificazione". «La popolazione svizzera aumenta di 70'000 persone ogni anno, ma non si tratta di disperderle chissà dove, precisa Philippe Roch. Cerchiamo di aumentare la densità nelle città e di costruire degli stabili più gradevoli. Prima di agire sulla crescita, bisogna cercare di organizzare la vita in modo da conservare un massimo di spazio e qualità di vita». Anche il professor Rumley ritiene che la densificazione sia uno degli aspetti chiave del problema, ma non per forza in città. «Negli agglomerati urbani questo processo ha già avuto luogo. Bisognerebbe poter aumentare la densità degli insediamenti nelle regioni suburbane. Si potrebbe perfino immaginare di sfruttare meglio le zone occupate da case unifamiliari, diminuire le zone con delle parcelle e cercare di farci stare una seconda costruzione, per esempio per una coppia senza figli».
Probabile ritiro dell'iniziativa
Depositata alla Cancelleria federale nell'agosto del 2008, l'iniziativa "Spazio per l'uomo e la natura" potrebbe non essere sottoposta a voto popolare. «Se il parlamento approverà la revisione della Legge federale sulla pianificazione del territorio, l'iniziativa sarà ritirata», ha dichiarato Otto Sieber, segretario centrale di Pro Natura e presidente del comitato promotore. Tra coloro che hanno lanciato l'iniziativa ci sono però anche voci più prudenti. «Chi mi garantisce che si cambierà davvero atteggiamento, dal momento in cui lo Stato federale non ha finora dimostrato una chiara volontà d'agire e i cantoni se ne infischiano, si chiede Philippe Roch. È importante che il popolo possa dire la sua, così almeno le autorità dovranno rispettare il suo volere». Il senatore ecologista Luc Recordon non è così categorico e ritiene che il contro-progetto abbia molti vantaggi. È tuttavia fuori questione ritirare l'iniziativa prima che il termine per l'inoltre di un referendum contro il contro-progetto sia scaduto. Anche se il senatore dubita che gli oppositori vogliano chiamare il popolo alle urne dopo l'adozione dell'iniziativa sulle residenze secondarie…
NEL momento in cui inizia un'altra fase decisiva per l'articolo 18, è evidente che il suo esito avrà conseguenze sia sul mercato del lavoro che sul profilo del governo guidato da Mario Monti. In primo luogo, a cosa possono aprire realmente la via le modifiche di cui si discute? Superati gli sbarramenti di bandiera, da tempo il confronto è in buona sostanza sulla portata di esse e, quindi, è essenziale un'analisi equilibrata dei possibili scenari. Certo, non siamo negli anni Cinquanta e non sono immaginabili licenziamenti di massa per rappresaglia ma non andrebbero sottovalutati i rischi impliciti nelle parole. I confini fra discriminazioni antisindacali, ragioni disciplinari e motivi economici si sono mostrati talora molto labili, e Sergio Marchionne ci ha ricordato spesso quel personaggio di Lewis Carroll che in Alice nel Paese delle Meraviglie dice: «Quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere se lo puoi fare, cerca di obiettare Alice: «Bisogna vedere chi comanda... è tutto qua», le risponde Humpty Dumpty. La limitata applicazione attuale dell'articolo 18, infine, appare una buona ragione per mantenerlo, non per abbandonarlo: la sua stessa esistenza contribuisce infatti a disincentivare licenziamenti arbitrari.
Diamo comunque per certo che gli anni Cinquanta non si possano ripresentare: sono altrettanto lontani però gli anni Settanta, quando un forte potere sindacale poteva sin abusare in qualche caso delle norme introdotte dallo Statuto dei lavoratori. Si compirono anche errori gravi in nome della "classe operaia" (basti pensare all'accordo del 1975 sulla contingenza) ma da allora essa è quasi scomparsa dall'orizzonte culturale del Paese: ed è merito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aver richiamato l'attenzione sin dall'inizio del suo mandato sui drammi delle morti sul lavoro e su quel che esse significano per una nazione civile.
La realtà ci parla da tempo, insomma, di un lavoro di fabbrica quantitativamente ridotto e insidiato su più versanti, e periodicamente riscopriamo che il potere d'acquisto dei salari è fortemente diminuito. Nel 1992 e nel 1993 fu preziosa la responsabilità con cui i dirigenti sindacali siglarono accordi impegnativi e talora dolorosi, sfidando anche le contestazioni aspre della propria base: il coraggio politico di Bruno Trentin, ad esempio, non andrebbe mai dimenticato. Proprio per questo, c'è da chiedersi se a quella generosa disponibilità dei sindacati operai abbiano corrisposto comportamenti analoghi di altri settori e strati sociali, e la riposta non è confortante.
Il confliggere ha certo anche carattere simbolico (comeè inevitabile, sul terreno dei diritti) ma riguarda al tempo stesso aspetti di rilievo: per il mondo del lavoro e per il profilo stesso di questo governo, indubbiamente il migliore che il Paese abbia avuto da anni. E un Paese oppresso, e quasi travolto, dalle macerie di una pessima politica, ha un bisogno estremo di una "pedagogia per il futuro" e di indicazioni limpide sul terreno della equità sociale. Su quest'ultimo aspetto, su cui il presidente del Consiglio Mario Monti si è impegnato sin dall'avvio,i segnali che sono venuti non sono univoci e hanno sollevato più di un dubbio.
Hanno lasciato un sapore amaro, inutile nasconderlo, alcune "non scelte" sul terreno delle liberalizzazioni. E in una difficile emergenza nazionale, che ha portato a interventi molto incisivi sulle pensioni, è difficile comprendere i passi indietro in materia di commissioni bancarie, taxi o farmacie. Per questo le preoccupazioni sono oggi legittime ed è fondata l'esigenza che le modifiche all'articolo 18 siano molto più attente. Sembra comprenderlo anche il nuovo presidente della Confindustria ed è un segnale confortante, così come sarebbero importanti ulteriori avvicinamenti fra le organizzazioni sindacali.
Il confronto in corso non riguarda dunque, da tempo, un "potere di veto" corporativo, che si è manifestato semmai in altri e ben diversi settori, ma la capacità del governo di costruire prospettive riconoscibili: prospettive capaci di non sacrificare i settori più deboli e di ribadire che proprio le crisi economichee politiche rendono preziosi i diritti. Senza questa forte ed esplicita direzione di marcia perderebbe molto valore quella estensione delle norme a tutti i lavoratori che è stata invece importante e che non sarebbe giusto ignorare. Le scelte del governo Monti, infine, sono destinate a influire anche sul "dopo Monti", ed è importante il modo con cui il centrosinistra e lo stesso Terzo polo lo aiutano: anche opponendosi con decisione, quando è necessario, a scelte non sufficientemente equilibrate. Non sufficientemente coerenti con quel progetto di ricostruzione generale, non solo economica, cui il governo e il Paese sono chiamati.
Appartamenti vista lava
Paolo Biondani - L'Espresso, 30 marzo 2012
Più cemento per tutti. Perfino nella “zona rossa” a massimo rischio di catastrofiche eruzioni del Vesuvio. E meno limiti alle speculazioni edilizie in tutta la Campania. Compresi i paesi-gioiello della Costiera Amalfitana, i pochi finora risparmiati dal saccheggio sistematico del territorio. La giunta regionale della Campania ha varato il primo marzo scorso una grande riforma della pianificazione urbanistica che, secondo autorevoli esperti, rappresenta «il più grave stravolgimento mai tentato» delle norme destinate a difendere ciò che resta di uno dei paesaggi più belli del mondo. Il disegno di legge-cornice, approvato dall’esecutivo di centrodestra presieduto dall’ex socialista Stefano Caldoro e sostenuto anche dai fedelissimi dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino, ha un titolo rassicurante: “Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”.
Nei primi 14 articoli, la giunta proclama di voler finalmente applicare anche in Campania la “Convenzione europea del Paesaggio”, firmata a Firenze nel 2000 e ratificata dall’Italia nel 2006, tre anni dopo l’ultimo condono edilizio berlusconiano. Il problema è che l’articolo 15, che chiude la riforma con una raffica di «abrogazioni», rade al suolo sei leggi urbanistiche e ne stravolge altre due. Il diavolo si nasconde in dettagli come questo: nella «legge numero 21 del 2003», recita la riforma, bisogna «sostituire le parole “incrementi di edificazione” con “nuova edificazione” ». Cosa significa? «Vuol dire che cadono i vincoli perfino nei 18 Comuni ad “alto rischio vulcanico”, quelli più vicini al Vesuvio», spiega uno dei primi giuristi che si sono accorti del trucco, Carlo Iannello, professore di diritto pubblico all’università di Napoli e neo- consigliere comunale con la lista De Magistris. «La legge del 2003 vieta qualsiasi aumento di cubatura, anzi incentiva l’esodo della popolazione verso zone meno pericolose. Con la legge Caldoro, invece, resterebbero bandite solo le “nuove” costruzioni, ma non gli “incrementi” delle migliaia di abitazioni già esistenti: in pratica è un nuovo, gigantesco piano-casa sotto il Vesuvio».
Nei 18 comuni da Ercolano a Pompei vivono oltre 550 mila abitanti. Qui, in caso di eruzione, dovrebbe scattare un “piano nazionale di emergenza”, che ha come riferimento “l’esplosione” vesuviana del 1631. Nella zona rossa, che è la più pericolosa, è prevista l’evacuazione totale. Per evitare un’ecatombe, insomma, è necessario che più di mezzo milione di persone vengano sgomberate da una superficie di 226 chilometri quadrati in tempi rapidi, subito dopo il primo allarme degli scienziati. Con lo stop al cemento (e gli incentivi all’esodo) la legge del 2003 puntava proprio a ridurre il numero di residenti per evitare il caos. Ma ora la giunta Caldoro fa dietrofront. E non è finita.
Il piano casa sul Vesuvio è solo la più vulcanica tra le tante novità previste dalla deregulation urbanistica. Sempre nell’ultimo articolo, i berlusconiani campani hanno inserito una liberalizzazione del cemento che riguarda tutta la Costiera Amalfitana, la Penisola Sorrentina e i Monti Lattari. Terre ancora incantevoli, finora protette da un’apposita legge del 1987. Che, se passerà la riforma Caldoro-Cosentino, verrà cancellata. Insieme ai vincoli previsti da altre leggi, ad esempio, per salvare dal cemento l’antica città greco-romana di Elea (oggi Velia). A quel punto le speculazioni edilizie avranno come unico limite un futuro Piano Paesaggistico, che ancora non esiste: lo potrà scrivere direttamente la giunta campana, senza bisogno di farlo approvare (e neppure discutere) dal consiglio regionale. E se dovesse sopravvivere qualche residuo vincolo, ogni municipio sarà libero di azzerarlo: il solito articolo 15 prevede infatti che in tutte le zone agricole da Amalfi a Sorrento qualsiasi tutela potrà essere «disapplicata» con «uno strumento urbanistico comunale». In pratica gli speculatori potranno limitarsi a convincere e magari a pagare (e i camorristi a intimidire) solo i politici del Comune, senza più rischi di trovare ostacoli in provincia, regione o ministero.
E con la caduta delle regole superiori, le soprintendenze non avranno più armi neppure per contrastare le richieste di condoni. Tutto questo in una regione devastata dal tasso di abusivismo più alto d’Europa: 20 fabbricati illegali ogni 100 abitanti. L’assessore regionale all’Urbanistica, Marcello Taglialatela, ha illustrato l’obiettivo del nuovo piano con parole a suo modo oneste: «Non ci saranno più divieti in assoluto, si valuterà cosa costruire area per area». Ormai promossa dalla giunta, la riforma ora attende solo il voto del consiglio regionale, dove il centrodestra ha una maggioranza di stampo bielorusso insidiabile solo da eventuali faide interne.
Contro un disegno così “pericoloso” si stanno mobilitando intellettuali, associazioni antimafia e politici come l’ex sindaco di Ercolano Nino Daniele. E i presidenti nazionali di Italia Nostra, Legambiente e Fai, Alessandra Mottola Molfino, Vittorio Dezza Cogliati e Ilaria Borletti Buitoni, insieme a Vittorio Emiliani e a urbanisti come Edoardo Salzano, sono i primi firmatari di un appello al ministro della Cultura, Lorenzo Ornaghi, per «fermare, in nome della Costituzione, il più grave assalto sinora tentato al paesaggio della Campania».
"Difendiamo la legge per Velia"
Ottavio Lucarelli intervista a Giuseppina Bisogno– la Repubblica, ed. Napoli, 24 marzo 2012
«Una legge utile, non solo per proteggere tutta l’area che circonda il sito archeologico di Velia, ma anche per eliminare una serie di abusi realizzati negli anni in quella stessa zona limitrofa agli scavi». Giuseppina Bisogno, direttore responsabile del Parco archeologico di Velia, patrimonio dell´Unesco, valuta così la legge del febbraio 2005 che sarà cancellata se il consiglio regionale approverà il disegno di legge sui piani paesistici presentato dalla giunta e in discussione in questi giorni in commissione urbanistica.
«Una legge utile, non solo per proteggere tutta l’area che circonda il sito archeologico di Velia, ma anche per eliminare una serie di abusi realizzati negli anni in quella stessa zona limitrofa agli scavi». Giuseppina Bisogno, direttore archeologo responsabile del Parco di Velia, patrimonio dell´Unesco, valuta così la legge del febbraio 2005 che sarà cancellata se il consiglio regionale approverà il disegno di legge sui piani paesistici presentato dalla giunta. L’assessore all’Urbanistica Marcello Taglialatela ha sottolineato che le norme del 2005 sono in realtà già recepite nella legge che due anni fa ha istituito il Parco del Cilento, ma l’allarme tra gli ambientalisti rimane.
Direttore, cosa rischia il Parco di Velia se quella legge sarà abrogata?
«Ci sarà una minore tutela nell´area che circonda il sito. La legge del 2005, che ha creato una fascia di rispetto, è infatti importante perché prevede l’eliminazione di baracche e di altri abusi al di fuori dell´area archeologica. Una legge che non nacque per caso, ma partì sulla base di una raccolta di firme particolarmente prestigiose. Velia è infatti oasi di pace, un parco all´interno del parco del Cilento».
Un sito che è anche un presidio di legalità?
«Non c’è dubbio. I turisti che lo visitano sono attratti dall’archeologia ma anche dalla particolare bellezza del sito che non a caso ha attratto prima i greci e poi i romani».
Turisti che sono in aumento negli ultimi anni?
«Sì, nel 2011 abbiamo avuto trentaquattromila visitatori rispetto ai ventinovemila dell´anno precedente. Un Parco, è bene ricordarlo, aperto 365 giorni l´anno».
Un Parco che fonde archeologia e cultura?
«Con molti appuntamenti importanti. Due riguardano la filosofia. In estate, inoltre, ospitiamo Velia tetro, una rassegna sempre più prestigiosa, a cui ha partecipato anche Massimo Cacciari».
Recentemente avete riaperto la Porta Rosa?
«Sì, è stata riaperta ad agosto dello scorso anno dopo un intervento di consolidamento del costone che sovrasta la strada greca di Porta Rosa. Un risultato importante».
Velia, assessore torni indietro
Fausto Martino* – la Repubblica, ed. Napoli, 24 marzo 2012
L’area archeologica non correrebbe alcun rischio dall’abrogazione di quella legge che - varata nel 2005 - era nata per arginare il magma edilizio che la stava soffocando. «Non è mai stata attuata e finanziata», incalza l’assessore, quindi va abrogata. Deduzione ineccepibile. Un colpo alla nuca e via. Sembra di vederlo - infastidito dalle critiche - armeggiare con cartine e fotocopie per dimostrare che, dopotutto, la legge sarebbe soltanto un inutile doppione di quanto previsto dalla normativa del Parco del Cilento. Dunque, da eliminare. Ma ci crede davvero?
Eppure Taglialatela non può ignorare che il piano del Parco, rivolto ad altre tutele, ha solo genericamente registrato l’esistenza della legge per Velia. Non ne ha mutuato - né avrebbe potuto - i meccanismi di pianificazione, né le potenzialità conformative, né i vincoli temporanei, né tantomeno le previsioni finanziarie. E, di sicuro, non gli sarà sfuggita la vicenda, tipicamente nostrana, di piccoli ostruzionismi, ambiguità e colpevoli inadempienze, queste ultime ascrivibili anche ai suoi uffici, che ha sinora ostacolato la piena operatività della legge e, con essa, l´avvio dell´auspicato processo di riqualificazione.
Va eliminata per questo? Trionfo della logica. Fosse davvero un inutile duplicato, nessuno ci avrebbe neanche pensato, e sarebbe rimasta lì a dormire, insieme a Parmenide e Zenone, come accade per numerose norme regionali. La legge deve essere abrogata, non per la sua incompleta attuazione ma, paradossalmente, proprio a causa dei benefici effetti che ha prodotto, arrestando la bulimia cementifera dilagante anche nella piana di Velia. E va cancellata anche perché oggi impedisce la produzione, a ridosso dell’antica Elea, di metastasi da Piano casa, altra logica protezione del territorio targata Tagliatatela, fonte inesauribile di grimaldelli normativi utili a scardinare tutele e programmazione. Ed è per gli stessi motivi che il ddl sopprime - ovunque appena possibile - il Put della Costa Amalfitana e rimuove il divieto di incrementare il carico urbanistico dalle zone a rischio vulcanico, peraltro con formulazioni normative di esemplare cripticità.
Non ce ne voglia l’assessore, ma abbiamo capito che il suo ddl ripulisce - nelle more dell’approvazione del piano paesistico regionale - quei pochi dispositivi di tutela che hanno contrastato, fino ad oggi, la devastazione di immense ricchezze culturali e storiche in Campania.
*L’autore è dirigente della soprintendenza di Salerno
Piani paesistici, bagarre sul disegno di legge
Ottavio Lucarelli - la Repubblica, ed. Napoli, 23 marzo 2012
Le associazioni ambientaliste rilanciano la denuncia di incostituzionalità. Nella commissione urbanistica del Consiglio regionale, intanto, parte tra i veleni la maratona sul disegno di legge per i Piani paesistici firmato dall´assessore Marcello Taglialatela. Una battaglia su più fronti. Gli ambientalisti, guidati dal presidente di Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino, puntano il dito sulla cancellazione di alcune leggi, prima tra tutte quella a tutela dell’area che circonda il sito archeologico di Velia. Gli ambientalisti insistono nonostante Taglialatela abbia spiegato nei giorni scorsi che la stessa tutela è contenuta all’interno della legge che ha istituito tre anni fa il Parco nazionale del Cilento. Italia dei Valori e Partito democratico, in aggiunta, contestano la richiesta da parte del centrodestra di consegnare alla giunta una delega per potere, successivamente all’approvazione del disegno di legge, decidere autonomamente sulle modifiche ai piani urbanistici territoriali. In questo caso il ruolo della commissione urbanistica sarebbe limitato a un semplice parere. Scelta contestata da Pd e Idv e anche dagli ambientalisti che la censurano definendo "giuridicamente antidemocratica" la sottrazione della materia urbanistica al confronto pubblico in aula tra le forze politiche.
Un no alla delega è arrivato ieri in commissione urbanistica, durante le prime audizioni sul disegno di legge Taglialatela, da parte di Nicola Marazzo dell’Italia dei valori: «Il nostro no è netto e in aula ci batteremo perché non passi la delega alla giunta sulla delicata materia urbanistica, un terreno in cui non si possono espropriare le prerogative dell’assemblea». D’accordo Mario Casillo del Partito democratico: «Una legge sui piani paesistici era certamente necessaria, tanto è vero che il lavoro lo aveva avviato la precedente amministrazione di centrosinistra. Detto questo, non è però possibile che la giunta firmi le varianti urbanistiche senza passare per il Consiglio. È vero che oggi c’è un’eccessiva rigidità e che occorrono anche tre anni per varare piccoli interventi, ma non possiamo passare all’eccesso opposto. Bisogna avere, inoltre, grande attenzione al ridisegno delle zone oggi vincolate. C’è il rischio che intere aree della penisola sorrentina, della costiera amalfitana o dell'isola di Ischia, con le norme proposte dalla giunta, non abbiano più tutela».
Titolo originale: Heathrow expansion an environmental disaster, warns Boris Johnson
Boris Johnson, attuale sindaco e di nuovo candidato per il partito Conservatore, ritiene che l’ampliamento dell’aeroporto di Heathrow sarebbe “un disastro ambientale” un po’ come “cercare di spillare una birra media nel boccale della piccola”. Johnson, che cercherà di essere rieletto a maggio, chiarisce la sua opposizione alla terza pista di Heathrow, ribadendo che “con me sindaco non si costruirà mai". Parla proprio quando sia David Cameron che George Osborne [primo ministro e ministro dell’Economia n.d.t.] dovrebbero intervenire sui programmi a lungo termine per l’aeroporto, e fra i timori che i suoi problemi stiano soffocando la ripresa economica. “Heathrow rappresenta certamente il futuro come grande aeroporto britannico. Ma non possiamo ampliarlo all’infinito, in un contenitore che infinito non è” continua Johnson. "La terza pista è un disastro ambientale. Significa un enorme incremento negli aerei che sorvolano Londra, intollerabile traffico e scarichi: non si farà finché sono sindaco. È giusto che il governo esamini tutte le possibili soluzioni per aumentare la capacità dei trasporti aerei, salvo con quella terza pista. E aspetto di confrontarmi con Justine Greening (ministro dei Trasporti) durante l’estate".
Questa marcia indietro di Johnson su Heathrow potrebbe risultare imbarazzante per qualcuno che come lui si presenta all’elezione a sindaco “unico candidato in grado di trattare al meglio per Londra con Downing Street". Perché Johnson si è certo opposto alla terza pista, ma ha sostenuto negli ultimi quattro anni la realizzazione di un nuovo hub aeroportuale nell’estuario del Tamigi, presentandola come soluzione economica per il territorio del sud est. Il governo conferma che si studierà la questione, ma Johnson dichiara al Guardian che nonostante il suo impegno, “al contrario di quanto si crede io non sono affatto legato a doppio filo con qualche lontano arcipelago nell’estuario del Tamigi" [l’aeroporto dovrebbe realizzarsi su un sistema di isole, secondo il progetto dello studio Foster n.d.t.]. Johnson si dichiara aperto all’incremento della capacità aeroportuale in vari casi, come Gatwick o Stansted. Ma il ministro Justine Greening ha già escluso queste possibilità in parlamento. Il candidato laburista a sindaco Ken Livingstone si oppone a qualunque incremento delle capacità nell’area della Grande Londra, senza escludere un ampliamento a Stansted se il mondo economico dimostrerà l’effettiva necessità di nuovi voli. Ha invece sottolineato le grandi potenzialità del nodo ferroviario “Crossrail 2-3” per aumentare i servizi di trasporto a Londra.
postilla
Proviamo a spostarci anche un po' oltre le questioni specifiche, elettorali e non, londinesi. Giusto in questi giorni sui giornali italiani, variamente mescolato alle crisi politiche e di potere delle varie Lega o Comunione e Liberazione, risalta fuori il caso di Malpensa, col progetto di terza pista ancora vivo mentre pare invece morto e sepolto il traffico aeroportuale, tornato verso il city airport di Linate, forse grazie anche alle prospettive di Expo e relativi interventi infrastrutturali. E non passa giorno senza che non si parli, in qualche angolo della penisola, degli incredibili svarioni inanellati dall’approccio localista a un tema per propria natura per niente locale, come il trasporto aereo e la rete integrata delle infrastrutture, per non parlare di quella parallela dell’approvvigionamento energetico: i carburanti, come vengono prodotti (col land grabbing nei casi migliori?), quanto contribuiscono alle emissioni ecc. Ecco: forse un maggior sbilanciamento verso questo tipo di approccio sistemico, anziché la solita indignazione per mazzette o ecomostri tascabili, magari aiuterebbe. Se non altro l’esempio di Heathrow un po’ insegna (f.b.)