Al Ministro per i Beni Culturali, prof. Lorenzo Ornaghi
Gentile signor Ministro,
Le scriviamo a proposito dello stranissimo e increscioso affare che riguarda l’attuale direzione della Biblioteca Nazionale dei Girolamini a Napoli, una delle biblioteche storiche più gloriose d’Italia, nata dalla passione culturale della congregazione di San Filippo Neri. Per volontà di Giovan Battista Vico, in essa confluirono i libri di Giuseppe Valletta: pegno vivo di una stagione in cui Napoli era un crocevia del pensiero filosofico europeo e vera capitale della Respublica literaria universale.
Dopo le enormi perdite e trasformazioni di altri fondi librari avutesi nell’Ottocento, Napoli possiede ormai quest’unico esempio particolare di biblioteca pubblica di origine preunitaria, magnificamente coerente nell’architettura e nelle raccolte in essa ospitate: un organismo che un tempo si affiancava perfettamente alle biblioteche universitarie e alla Nazionale, così come avveniva e avviene in altre antiche capitali italiane, dove però le analoghe biblioteche di origine conventuale, principesca o erudita sono state meno decimate, e svolgono tuttora una funzione preziosissima (si pensi all’Angelica, alla Casanatense, alla Corsiniana e alla Vallicelliana di Roma, o alla Laurenziana, alla Marucelliana e alla Moreniana di Firenze).
Purtroppo le conseguenze drammatiche, mai piante a sufficienza, del terremoto del 1980, hanno contribuito massicciamente a far uscire i Girolamini dall’orizzonte culturale, e prim’ancora dal vissuto quotidiano, della cittadinanza napoletana, con i suoi numerosissimi intellettuali, studiosi e studenti. E ciò spiega perché, nella distrazione ormai consolidatasi, sia cominciata una vicenda come quella che è adesso in corso, e che siamo qui a denunciarLe.
Le chiediamo come sia possibile che la direzione dei Girolamini sia stata affidata dai padri filippini, con l’avallo del Ministero che ne è ultimo responsabile, a un uomo (Marino Massimo De Caro) che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo. E perché questa scelta sia stata fatta in un Paese e in un’epoca affollati fino all’inverosimile di espertissimi paleografi, codicologi, filologi, storici del libro, storici dell’editoria, bibliotecari, archivisti, usciti dalle migliori scuole universitarie e ministeriali, e finiti sulle strade della disoccupazione o della sotto-occupazione (call centers, pizzerie, servizi di custodia).
Le chiediamo inoltre di spiegarci come mai Marino Massimo De Caro, sebbene del tutto estraneo al mondo della biblioteconomia e della funzione pubblica, abbia avuto e abbia comunque curiose implicazioni con i libri, che lo portano tuttavia nel mondo del commercio, facendo emergere fin qui – sempre e soltanto – episodi degni di essere vagliati non da una commissione di concorso, ma dalle autorità giudiziarie (sia pure con l’auspicio dell’innocenza).
Le chiediamo inoltre come mai una figura dai trascorsi così poco chiari e poco chiariti sia stata messa a capo di un istituto che oggi come non mai ha bisogno, tutt’al contrario, non solo di una guida ferrea e irreprensibile, ma di un rappresentante – ben facile da trovare – che respinga ad anni-luce da sé i sospetti di ogni collegamento con quelle gravissime perdite più o meno recenti del loro patrimonio librario che i padri filippini per primi denunciano in questi mesi.
Le chiediamo infine, nel riconsiderare con molta attenzione la scelta di Marino Massimo De Caro come direttore dei Gerolamini (nonché come Suo consigliere personale), di voler creare una commissione pubblica d’inchiesta sull’amministrazione passata e recente di questa biblioteca, prima che la memoria storica dei Gerolamini rimanga affidata soltanto a una maestosa architettura ferita e umiliata, tragicamente solitaria nel cuore di una rete mondiale di traffici rapaci.
Francesco Caglioti, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Dipartimento di Discipline Storiche
Per sottoscrivere la petizione, inviate una mail con nome, cognome e istituzione di appartenenza all’indirizzo: lettera.gerolamini@libero.it
Deportare 13.000 aquilani nelle New Town volute dalla Protezione Militare di Guido Bertolaso e Silvio Berlusconi è costato 833 milioni di euro. Quasi un miliardo per costruire diciannove insediamenti chiamati C.A.S.E (“complessi antisismici sostenibili ecocompatibili”): non-luoghi senza forma, socialmente insostenibili (non hanno centri di aggregazione, né servizi, né identità) e ambientalmente devastanti. In questo sprawl di cemento (che ha distrutto per sempre una gran quantità di terreno agricolo) bambini di tre anni sanno cos’è una C.A.S.A., ma non sanno cos’è una città: futuri non-cittadini, perfetti per la non-società immaginata da B.
Come ha efficacemente scritto l’antropologo culturale aquilano Antonello Ciccozzi, “il lato oscuro di questa (ri)fondazione veicolata da un’emergenza rimanda a un sistema di finalità in cui i propositi sociali di aiuto umanitario paiono spesso eccessivamente contaminati da complessi d’interesse votati a usare la catastrofe anche come pretesto per praticare strategie nazionali di profitto economico (nelle abbondanti plusvalenze consentite da certe scelte) e di propaganda politica (nell’aurea taumaturgica ottenuta attraverso la spettacolarizzazione dell’opera)”. Ma la cosa veramente diabolica è che la città in cui quei bambini avrebbero potuto crescere non è (ancora) morta. A tre anni dal devastante terremoto del 6 aprile 2009, L’Aquila appare come un laboratorio dove applicare e sperimentare le peggiori tendenze del pensiero e della prassi nazionali in fatto di città e di paesaggio: il meraviglioso ed estesissimo centro monumentale rantola a qualche chilometro dall’insensato (ma assai lucrativo) scempio paesaggistico e sociale delle C.A.S.E.
Se si eccettua il meritorio restauro della Fontana delle Novantanove Cannelle (pagato dal FAI), nulla è stato fatto: nessun cantiere è in funzione, nessuna pietra è stata ricollocata e le tante chiese monumentali sono spesso ancora a cielo aperto, o sono protette da ridicoli teli, e dunque in preda alla pioggia e alla neve.
Perché? Mancanza di soldi? No: per la ricostruzione sono già disponibili quasi 8 miliardi di euro su quasi 11 stanziati dal governo (così la relazione del ministro Fabrizio Barca, presentata il 18 marzo). La verità è che la sovrapposizione dei poteri commissariali a quelli ordinari, e un getto continuo di ‘grida’ contraddittorie, hanno portato a una surreale paralisi. Come oggi denuncia Italia Nostra, solo “con molto ritardo ci si è resi conto che le ordinanze e le altre normative elaborate all'indomani del sisma hanno immobilizzato la ricostruzione”.
A gettare ombra sul futuro della ricostruzione del centro storico, c’è tuttavia anche una prospettiva che si affaccia nelle righe in cui Barca auspica “una modernizzazione e una funzionalizzazione del centro a nuovi modi di vivere, mestieri e professioni”. Il riferimento è al cosiddetto progetto per “L’Aquila Smart City”, uno studio dell’Ocse e dell’Università olandese di Groeningen finanziato dal ministero dello Sviluppo economico che propone (oltre a molte cose del tutto condivisibili) di poter cambiare la destinazione d’uso degli edifici, permettendo ai proprietari “di modificare la struttura interna delle loro proprietà (in parte o in totalità) ...conservando e migliorando allo stesso tempo le facciate storiche degli edifici”. Italia Nostra ha chiesto di accantonare questa “incauta proposta”, e Vezio De Lucia – uno dei più importanti urbanisti italiani – ha scritto che un’idea del genere rinnega la migliore scienza italiana del recupero del tessuto antico delle nostre città, per cui (almeno dalla Carta di Gubbio, del 1960) “i centri storici sono un organismo unitario, tutto d’importanza monumentale, dove non è possibile distinguere, come si faceva prima, gli edifici di pregio (destinati alla conservazione), dal tessuto edilizio di base”.
Il rischio è che qualcuno pensi di trasformare L’Aquila in una specie di set cinematografico, o di Disneyland antiquariale, fatto di facciate e gusci pseudo-antichi che ospitano servizi turistici in mano a potenti holding. Si tratterebbe di fare a L’Aquila in un colpo solo ciò che un lento processo sta facendo a Venezia: deportare i cittadini in periferie abbrutenti e mettere a reddito centri monumentali progressivamente falsificati. Ma basta vedere lo struggente documentario Radici. L’Aquila di cemento di Luca Cococcetta, o anche solo guardare in faccia gli aquilani, per comprendere che una prospettiva del genere equivarrebbe al suicidio del nostro Paese: il paesaggio e il tessuto monumentale italiani non sono qualcosa di cui possiamo sbarazzarci impunemente. Sono la forma stessa della nostra convivenza, della nostra identità individuale e collettiva, del nostro progetto sul futuro. È anche per questo che gli aquilani devono poter tornare a vivere nel cuore della loro città: per far capire a tutti gli italiani a cosa servono, davvero, la nostra natura e la nostra storia.
Land grabbing è il nome molto "british" per definire il fenomeno delle terre nel Sud del mondo che i paesi delle economie ricche o emergenti si accaparrano, per pochi spiccioli: in termini economici, un investimento; in termini sociali, un disastro. Questo terzo millennio annovera ormai una serie di minacce all'agricoltura e, conseguentemente al paesaggio, da cui nessuno può sentirsi al sicuro. Perché se ancora non si fosse capito, ciò che minaccia la nostra agricoltura minaccia il territorio, la sicurezza di chi lo abita, la sostenibilità della nostra vita sulla terra, la bellezza e in definitiva la nostra stessa esistenza.
Ci sono tre fenomeni che in Italia stanno esercitando un'azione combinata che porta dritto a fenomeni simili al land grabbing, che strappano la terra a chi la coltiva per consegnarla a chi specula. Il primo di questi tre attori è la Pac (Politica Agricola Comune) in vigore fino alla fine del prossimo anno. Un sistema di diritti a ricevere sovvenzioni dall'Unione Europea che vengono erogati in base al valore della produzione aziendale non attuale, ma del triennio 2000-2002. Questo significa che aziende che producevano generi un tempo molto sovvenzionati dall'Ue (tabacco, barbabietola da zucchero, riso, solo per fare alcuni esempi) si trovano con una disponibilità finanziaria annuale ingente. E sebbene questo meccanismo sia stato pensato nobilmente, per favorire l'uscita «morbida» dal regime dell'aiuto alla produzione per entrare nell'economia di mercato, in questo interludio sta creando guasti.
Nei Comuni delle Alpi sono in corso in questo periodo le trattative per assegnare i pascoli alpini, che da secoli i pastori transumanti, che svernano in pianura e salgono alle malghe d'estate, mantengono e curano impedendone la riconquista al bosco, garantendone la sopravvivenza della ricca flora e prevenendone il dissesto idrogeologico.
Spesso sono trattative fatte guardandosi negli occhi, ma quando il Comune deve fare cassa e nonè attento ad aspetti diversi da quello economico, si procede ad aste con busta chiusa. Questo fa già lievitare i prezzi per i pastori, ma tutto sommato resta un percorso fisiologico. Quando però la busta sigillata è quella di un allevatore intensivo di pianura (che non porterà mai i capi in montagna, però riesce a far apparire più grande la sua azienda e può così ingrassare ancora più animali, perché in teoria ha più terra su cui smaltirne il letame) o di un land grabber di casa nostra che può investire i proventi di una Pac divenuta strumento d'iniquità, tutto si complica. I prezzi dei pascoli lievitano, anche di dieci volte. I pastori per non restare senza terra si prestano ad andare senza contratto a mangiare l'erba che lo speculatore si è accaparrato. Nei casi limite, ma già documentati, lo speculatore minaccia di fare la propria offerta ed estorce il pizzo dai pastori in cambio del proprio impegno a restare fuori dall'asta.
Il secondo fenomeno estremamente minacciosoè quello delle agroenergie. Manco a dirlo, anche qui come per la Pac la questione consiste nell'assenza di misura e della distorsione speculativa che gli incentivi statali possono determinare. La produzione di biogas è un modo razionale di sfruttare i reflui zootecnici (liquami), ricavandone energia. Tuttavia, quando invece che ad allevatori che danno vita ad un impianto che serva alle loro aziende assistiamo a proposte che vengono da società di capitali, che vorrebbero realizzare impianti molto grandi, in aree lontane da ogni esigenza di smaltimento reflui, con la conseguenza di far girare decine di camion al giorno carichi di deiezioni animali, già ci troviamo assai meno d'accordo. Se per di più, asserviti al fine di produrre biogas, migliaia di ettari agricoli sono dedicati a colture che non sfameranno mai nessuno (perché per fare il biogas i vegetali sono meglio delle deiezioni) ma finiranno nei digestori per produrre più energia e far lievitare i profitti, allora siamo proprio contro. Spero sia chiaro: non si può essere contro il biogas, ma si deve essere contro questo suo uso, che invece di contribuire a risolvere un problema ambientale, lo moltiplica e ci innesta su anche una logica di puro profitto.
Così, ancora una volta, scopriamo che è la concorrenza tra quanto può spendere il contadino e lo speculatore a fare la differenza. E se pensiamo che questa diversa capacità di spesa la determinano l'Ue e lo Stato italiano, francamente ci arrabbiamo. Perché gli aiuti servono se garantiscono un reddito che non faccia dei contadini dei paria, ma non possono servire alla speculazione di chi sfrutta la terra senza riguardo per la fertilità e la destinazione alimentare. E il terzo fattore di land grabbing conferma questa analisi: l'uso delle campagne per scopi non agricoli infetta il tessuto delle campagne e distorce la concorrenza. Quando un comune autorizza l'ennesima nuova cava, l'ennesimo ampliamento residenziale, l'ennesima «area produttiva», che riempie le campagne di capannoni vuoti circondati dai rovi, non solo sta rincorrendo uno stile di sviluppo che appartiene già al passato. Sta determinando una perdurante alterazione delle dinamiche dei prezzi della terra, che mortifica chi vuole onestamente vivere di agricoltura: se vuoi affittare la terra, ma il cavatore di ghiaia può offrire dieci volte l'importo di un canone equo, come potrai spuntarla a meno di trovare un proprietario filantropo? Abbiamo il dovere di esigere dallo Stato, in tutte le sue componenti, e dall'Unione Europea di cui siamo parte, un'attenzione senza precedenti agli effetti distorsivi di cui possono essere oggetto strumenti necessari come gli aiuti agli agricoltori, gli incentivi alle energie verdi, i piani regolatori. E questo, anche se pensiamo che le attività di speculatori, finanzieri e predoni del territorio non ci riguardino. Perché, come avrebbe detto De André, se anche ci sentiamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.
Da qualche decennio il racconto su Costa Smeralda si replica a traino della prima compiaciuta versione dei fatti: la favola del principe venuto per caso dal mare, che si innamora della Sardegna e via dicendo, che inorgoglisce i sardi ai quali il cuore batte forte se gli dici che l'isola è bella e ospitale.
E' forte il patto per non rompere l'incantesimo. Si sorvola sugli aspetti che possono guastare l' aura aristocratica, già messa a dura prova da mediocri billionaire. Meglio non fare troppo caso alla prosa dei bilanci: anche se Costa Smeralda come tutte le imprese si basa sui conti, che o tornano o non tornano. E che scompaiono sovrastati dal mito avvincente della vacanza (com'è in molta letteratura tra Otto e Novecento che ha come scenario i luoghi di villeggiatura). I conti sono da sempre dettagli marginali nelle rappresentazioni di Costa Smeralda. E i passaggi di mano – da Aga Khan a ITT, Starwood, a Colony Capital di Tom Barrack – sono abilmente presentati come normali avvicendamenti tra ricchi nella amministrazione della leggenda: i debiti ereditati sono il giusto fardello per chi assume il prestigioso compito. Non importa se chi lascia si dimentica di spiegare in modo circostanziato il bilancio in rosso.
E' antipatico – lo so – ricordare che Karim Aga Khan è stato costretto ad abdicare per un buco notevole nei conti, come hanno scritto i giornali all'epoca. Se ha perso il controllo di Costa Smeralda è perché Ciga Immobiliare era gravata da uno scoperto di molte centinaia di miliardi di lire, per cui il patrimonio è passato in maggioranza a ITT Sheraton con l'assistenza di Mediobanca. Nello sfondo la protesta dei soci Fimpar contro la gestione dell'impresa, culminata nella infuocata assemblea di Milano del febbraio 1994.
Parlarne non toglie nulla ai meriti del principe e ai bei ricordi, e l'appello accorato “Aga Khan ritorna”, rilanciato ciclicamente, è immemore – occorre dirlo – e per molti versi incomprensibile. Come il titolo “Sardus Pater” che la Regione gli ha consegnato l'anno scorso in una cornice surreale.
Tom Barrack esce oggi di scena con oltre 200 milioni di euro di debiti (e nessuno gli chiede di restare). L'emiro del Qatar Al Thani subentra, e soddisfa – pare – l'attesa di continuità almeno sul piano simbolico. Nuovo giro senza un chiarimento, non un piano industriale, per dirla con il linguaggio sindacale, ma neppure una lettera d'intenti, per ora. Alle istituzioni locali basta sapere che il nuovo padrone è uno degli uomini più ricchi del pianeta, confermando la tradizione; mentre c'è chi ricorda che il presidente della Regione Cappellacci è stato in Qatar con l'ex ministro degli Esteri nel novembre 2010.
La cifra da versare non è poca cosa, nonostante la solidità dell'emiro che difficilmente compra Costa Smeralda per amore, specie se si considera che il valore stimato del patrimonio è circa tre volte il debito accumulato. Una valutazione che si capirà col tempo: se e in che misura hanno influito gli ottimi indicatori sul ricavo medio per camera venduta e le voci sulle destinazioni urbanistiche che interpretano annunci, sentenze, impugnative del governo.
Sarebbe insomma interessante sapere se e come è stato rassicurato l'emiro che si impegna a ricapitalizzare. E da chi. E se per caso sia entrata nella trattativa la solita ipotesi di riavviare il ciclo edilizio nei 23mila ettari di proprietà. Se si disponesse di un' analisi del bilancio previsionale dell'impresa, svolta da specialisti, potremmo capire il senso del nuovo corso, che immaginiamo stia, grosso modo, tra buone intenzioni di potenziamento della ricettività e confuse promesse di modifiche del Ppr; quindi con il solito rischio che si chieda al paesaggio sardo di sacrificarsi per aiutare l'investimento del Qatar.
Titolo originale: How location spotting can help spruce up the city– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Un posto diventa più abitabile quanto più è riconoscibile? È una teoria che il gruppo di ricerca della Cambridge University e della brasiliana Universidade Federal de Minas Gerais vuole verificare. Attraverso Urbanopticon: un gioco che mette alla prova la immediata identificazione delle vie di Londra, scelte a caso da Google Street View e proposte agli utenti per capire se sanno dove sono (strada, o quartiere, o fermata del metro) esclusivamente guardando edifici, insegne ecc.
L’esempio che mostriamo (si vede la colonna di Nelson sullo sfondo) è sicuramente facile, ma salvo forse per i tassisti londinesi, capire se una via si trova a Brent o a Croydon può dimostrarsi complicato. Daniele Quercia è uno dei ricercatori del gruppo di Cambridge che lavora al progetto: "Vogliamo verificare i presupposti di chi progetta quegli spazi. L’idea è di capire attraverso una grande quantità di osservatori quali aree risultano più identificabili".
Perché è importante? "Abbiamo dei dati che ci mostrano quali aree siano socialmente più povere, o no. Possiamo provare a mettere in relazione questo aspetto con quello della riconoscibilità. Una volta fatto questo, si capisce il rapporto fra i due aspetti. Che deve essere tenuto in conto da chi progetta gli spazi urbani, per concepirli in modo diverso da come accade oggi". La vera efficacia di Urbanopticon per I progettisti futuri, dipende però da quante più persone lo usano. Iniziate voi andando a urbanopticon.org
Risale a più di dieci anni fa un articolo di Paul Krugman - uno dei più profetici - sul collasso della compagnia energetica Enron. La Grande Crisi che traversiamo fu preceduta da quel primo cupo segnale, e in esso l´economista vide, sul New York Times del 29 gennaio 2002, la forma delle cose future. Quella storia di finta gloria mischiata a frode era ben più decisiva dell’assalto al Trade Center, che l’11 settembre 2001 aveva seminato morte e offeso la potenza Usa. «Un grande evento - era scritto - cambia ogni cosa solo se cambia il modo in cui vedi te stesso. L´attacco terrorista non poteva farlo, perché di esso fummo vittime più che perpetratori. L´11 settembre ci insegnò molto sul wahabismo, ma non molto sull´americanismo».
La vicenda Enron mise fine all´età di innocenza del capitalismo, svelando le sregolatezze e il lassismo in cui era precipitato. I sacerdoti di quell´età erano prigionieri di dogmi, e nessuna domanda dura scalfiva la convinzione che questo fosse il migliore dei mondi possibili. Fu come il terremoto di Lisbona, che nel 1755 costrinse la filosofia europea ad abbandonare (grazie a Voltaire, a Kant) l´ottimistica fede nella Provvidenza. Nell´immediato non uccise come l´11 settembre, ma siccome non esiste sacerdote senza sacrifici cruenti anche questo presto cambiò: fra il 2007 e oggi la crisi ha cominciato ad avere i suoi morti, sotto forma di suicidi. Sono iniziati in Francia, nel 2007-2008. Ora quest´infelicità estrema, impotente, lambisce Grecia e Italia, colpite dalla recessione e da misure che rendono disperante il rapporto fra l´uomo e il lavoro, l´uomo e la propria vecchiaia, l´uomo e la libertà. Senza lavoro, senza la possibilità di adempiere gli obblighi che più contano (verso i propri figli, la propria dignità) la stessa libertà politica s´appanna: diventi un emigrante clandestino in patria, un trapiantato.
Suicidi di questo tipo non sono patologie intime, dislocazioni dell´anima che nella morte cerca un suo metodo. In Francia, in Grecia, in Italia, sono tutti legati alla crisi. Sono commessi da pensionati, lavoratori, imprenditori presi nella gabbia di debiti, mutui non rimborsabili, aziende fallite. È significativo che quasi tutti si immolino in piazza o nei posti di lavoro, lasciando lettere-testamenti che dicono l´indicibile scelta. Dimitris Christoulas, il pensionato che il 4 aprile s´è tolto la vita in Syntagma Square - la piazza delle proteste - scrive che il governo, ribattezzato «governo collaborazionista di Tsolakoglou» in ricordo del Premier che nel ´41-42 aprì le porte ai nazisti, «ha annientato la mia capacità di sopravvivenza, basata su una pensione dignitosa cui avevo contribuito per 35 anni». Christoulas non vuol «mettersi a pescare nella spazzatura» di che sostentarsi, e avverte: i giovani derubati di futuro impiccheranno i responsabili come fecero gli italiani a Piazzale Loreto con Mussolini. «Vista la mia età avanzata, non posso reagire in modo attivo. Ma se un mio concittadino afferrasse un Kalashnikov, sarei pronto a stare al suo fianco». Le statistiche sui primi cinque mesi del 2011 certificano un incremento di suicidi del 40 per cento, rispetto allo stesso periodo del 2010.
Disastri simili accadono in Italia. La Cgia, Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, annuncia che nel 2008-2010 i suicidi sono cresciuti del 24,6%: sono usciti dal mondo imprenditori, lavoratori dipendenti, pensionati. Nel 2008 i suicidi economici sono 150, nel 2010 sono 187. C´è un «effetto imitazione», spiega la Cgia, ma il termine è lenitivo. Ci si consolò così nel 2008, quando si uccisero 24 dipendenti di Telecom-Francia (una prima avvisaglia era venuta l´anno prima da Renault: tre suicidi in 4 mesi). Il motivo sociale venne sottovalutato, come nel 2002 si sottovalutò il crollo di Enron, rovinoso per i fondi pensione di migliaia di lavoratori. Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, parla di «perdita di sicurezza, solitudine, disperazione, ribellione contro un mondo che si sta rivelando cinico, inospitale». Governi, giornalisti, economisti dovrebbero smettere le sacerdotali litanie sulla «resistenza al cambiamento». Fa parte del loro mestiere provare a capire le segrete molle dell´uomo, non solo dei bilanci. Il suicida è un indignato che naufraga perché non riconosciuto, non visto.
Anche su questo Krugman fu veggente, nel 2002: «Per chi non è direttamente implicato - gran parte dei politici non lo è - non conta quel che ha fatto, ma quel che fa». Mancò infatti ogni esame critico del passato, del consenso a tante sregolatezze. Un decennio è passato, e l´ottusa reazione del ministro del Tesoro di Bush, Paul O´Neill, fa tuttora scuola: «Le imprese vengono e vanno. È il genio del capitalismo». I suicidi in Grecia o Italia sono una ribellione contro il fatalismo di questa definizione - genio - che vede nel capitalismo una forza di natura, contro cui nulla si può se non cader fuori dalla giostra impazzita. Un falso profeta, Samuel Huntington, predisse nel ´92 prossimi scontri tra le civiltà. Lo scontro è dentro le civiltà: la nostra. I suicidi ne sono il sintomo. Chi non ci crede vada all´Aquila. Salvatore Settis ha visto una Pompei del XXI secolo ( Repubblica 7-4). Le rovine del terremoto sono restate tali e quali, come in un racconto di fantascienza. Chi ha detto che il capitalismo è movimento?
Il suicidio studiato nell´800 da Emile Durkheim è l´autoaffondamento del cittadino cui sono strappati non solo i diritti ma gli obblighi stessi della cittadinanza: la libera sottomissione alla necessità del lavoro, il sentirsi parte di una società, di un ordine professionale, di un sindacato che includa e integri. A differenza del suicidio intimista, o dell´immolazione altruista, Durkheim lo chiama suicidio anomico. La sua radice è nell´anomia: nello svanire di norme che ogni crisi comporta. Nell´impunità di cui godono gli iniziati che di norme fanno a meno.
In quest´anomia viviamo, senza più gli avvocati dell´individuo che sono stati i sindacati, gli ordini professionali, le chiese, i partiti. La corruzione di questi ultimi è una manna, per chi vuol fare un deserto e chiamarlo pace. Grecia e Italia ne sono malate, e non a caso è qui che il cittadino tramutato in cliente non spera più di essere udito. «Mai gli uomini consentirebbero a limitare i propri desideri se si credessero autorizzati a superare il limite loro assegnato. Ma per le ragioni suddette non possono dettarsi da soli questa legge di giustizia. Dovranno perciò riceverla da una autorità che rispettano e alla quale si inchinano spontaneamente. Soltanto la società, sia direttamente e nel suo insieme, sia mediante uno dei suoi organi è capace di svolgere questa funzione moderatrice, soltanto essa è quel potere morale superiore di cui l´individuo accetta l´autorità. Soltanto essa ha l´autorità necessaria a conferire il diritto e a segnare alle passioni il limite oltre il quale non devono andare». (Durkheim, Il suicidio, 1897).
Della società fanno parte partiti, sindacati, imprenditori, governanti: tutti si sono rivelati incapaci di osservare e dunque imporre le norme, tutti sono portatori di anomia. Per questo leggi e tutele sono così importanti. Diceva nell´800 il cattolico Henri Lacordaire: «Tra il forte e il debole, tra il ricco e il povero, tra il padrone e il servitore: quel che opprime è la libertà, quel che affranca è la legge».
Di legge, di nòmos, hanno bisogno i cittadini greci e italiani, apolidi in patria. Se è vero che viviamo trasformazioni planetarie, urge sapere che esse scatenano sempre un aumento di suicidi: secondo Durkheim anche i boom economici demoralizzano. Dobbiamo infine sapere che Camus aveva ragione: la rivolta è la risposta, l´unica forse, al suicidio (il paese «si salva al piano terra», dice Erri De Luca). Quando è positiva, la rivolta tende a reintrodurre il senso della legge lì dove s’è insediata l’anomia.
La vera fine della Guerra fredda, la pietra tombale sullo scontro tra i due Blocchi, il crollo del Muro ideologico ed economico che ancora divide il mondo globalizzato, è un tunnel sottomarino di 150 chilometri. Il grande sogno accarezzato dallo scienziato russo Dmitry Ivanovich Mendeleyev, suggerito al sedicesimo presidente Usa Abramo Lincoln, infine raccolto dall´economista americano Lyndon La Rouche nel 1987, diventerà una realtà.
Funzionario di poche parole, cresciuto alla rigida scuola sovietica, il capo delle Ferrovie russe Vladimir Yakunin ha annunciato che entro due anni inizieranno i lavori per la più straordinaria impresa di ingegneria di tutti i tempi. Bisognerà attendere il 2030. Ma chi avrà la fortuna, i soldi e il tempo, si potrà godere il privilegio di varcare via terra i confini tra due Continenti finora avversari, ostili e separati da 3,9 chilometri di acque gelide dell´Artico. Il progetto si chiama "World link": una ragnatela di linee ferroviarie che salirà da Istanbul, si unirà a Varsavia e poi, lungo la Transiberiana, raggiungerà la punta estrema della Siberia. Nel piccolo villaggio di Uelen il percorso scenderà a 50 metri di profondità, attraverserà lo stretto di Bering e spunterà dall´altro lato, a Cape Prince of Wales, in Alaska. Federazione Russa e Stati Uniti d´America saranno fisicamente unite da una galleria sottomarina due volte più lunga di quella che lega l´Inghilterra alla Francia attraverso il tunnel della Manica. Nel tubo, del diametro di quasi cento metri, scorreranno la linea di un treno ad alta velocità, un´arteria stradale a doppia corsia per auto e camion. Oltre ai cavi dell´alimentazione elettrica, dell´aria, il fascio di fibre ottiche per le comunicazioni. Ma soprattutto, una pipeline per il greggio della Siberia e un gasdotto capace di rifornire i 48 stati dell´America settentrionale.
Ma è sul commercio che il megaconsorzio di imprese coinvolte nel progetto pensa di ricavare i maggiori introiti. I tecnici si sono messi già al lavoro e hanno tracciato delle stime. Il volume di traffico su rotaia e su gomma dovrebbe garantire almeno un flusso di 100 milioni di tonnellate di merci l´anno. Niente più navi e aerei. Niente più condizionamenti meteorologici. Dei seimila chilometri previsti dal piano, quattromila sorgeranno su territorio russo, duemila su quello dell´Alaska, quindi in casa Usa. Il costo è stratosferico: 65 miliardi di dollari. Ma l´impresa, davvero futurista, già tracciata sulle mappe conservate al ministero delle Infrastrutture a Mosca, ha riscosso l´entusiasmo di 34 nazioni. Cina, in testa. Simbolicamente, la Federazione russa si ritroverà unita a quel lembo di terra ghiacciata che lo zar Alessandro II cedette agli Usa per 7,2 miliardi di dollari: 5 dollari a chilometro quadrato.
Il fascio di asfalto e di ferro si irradierà attraverso due Continenti, i più grandi del mondo. Per i promotori dell´opera davvero titanica si tratta della nuova Via della Seta. Una linea di scambi, di viaggi, di collegamenti che salta le regioni turbolente del Centro Asia e supera, attraverso la rotta artica, gli ostacoli finora frapposti della natura. Quindicimila chilometri da percorrere in modo quasi ininterrotto. Libero dalle frontiere, almeno commerciali; capace di sviluppare regioni isolate, assediate dal freddo e dalla miseria, lontane dai centri pulsanti dell´economia e dello sviluppo.
È da oltre 150 anni che si studia il progetto. Tra slanci improvvisi e interruzioni forzate. Ma la crisi globale della finanza, la necessità di rilanciare gli scambi per rimettere in moto l´economia reale, il disperato bisogno di materie prime, hanno fatto breccia sulle ataviche rivalità. Vladimir Yakunin, il capo delle Ferrovie russe, lo ha ribadito più volte nel corso della conferenza stampa che annunciava l´avvio dei lavori. Si è rivolto ai giornalisti che lo incalzavano con domande piene di dubbi: «Non sono abituato a parlare a vanvera», ha risposto piccato. «C´è stato un via libera ufficiale». Certo, ci vorrà del tempo. I più ottimisti parlano di 15 anni. Ma l´attesa premia. A meno di altre Guerre fredde e Muri divisori.
L'intervista inizia con un'ammissione irrituale, soprattutto se a farla è il più grande architetto italiano nel mondo, Renzo Piano, 75 anni: «Stavolta sono di parte».L'argomento è la costruzione della Città della Salute, il progetto da 330 milioni di euro che prevede di unire l'Istituto dei Tumori e il neurologico Besta, un'idea con ambizioni a livello europeo, su cui s'è aperto di recente un balletto delle aree tra Sesto San Giovanni e il Comune di Milano. La sfida è tra l'ex area Falck (il cui progetto di riqualificazione è firmato proprio dall'archistar) e la piazza d'Armi della caserma Perrucchetti. Ma alla fine di un'ora di chiacchierata, nel suo studio di Punta Nave a Genova, il messaggio di Renzo Piano va al di là di qualsiasi lotta di campanile e si concentra sulle caratteristiche che deve avere un ospedale modello: «Un mix di umanesimo e scienza, da realizzare in periferia e in mezzo al verde».
È un'idea nata undici anni fa, di questi tempi.«Il 21 marzo 2001 ho presentato al Sant'Anna di Roma, insieme con l'allora ministro della Salute Umberto Veronesi, il progetto per un cosiddetto ospedale modello».
Quali sono le linee guida che lo contraddistinguono?«Un ospedale non deve essere solo una macchina con determinate caratteristiche di funzionalità, ma anche un insieme di accorgimenti ambientali che aiutano il malato a stare bene psicologicamente».
In concreto?«Per ogni letto devono essere previsti complessivamente 200 metri quadrati. Per 700 letti, insomma, ci devono essere a disposizione almeno 140 mila metri quadrati di terreno».
I motivi?«Sono almeno due. Il primo: l'edificio ospedaliero vero e proprio deve svilupparsi orizzontalmente, in modo da limitare in altezza il suo numero di piani. L'obiettivo è realizzare una struttura che non sia mai più alta degli alberi che lo circondano. Di qui, il secondo motivo, che rende necessaria la disponibilità di grandi aree: tutt'intorno all'ospedale ci deve essere il verde».
Non è che la sua visione pecca di romanticismo?«Nient'affatto. L'altezza limitata è utile anche per fare funzionare meglio la macchina ospedaliera. È una questione, poi, scientifico-ambientale: il verde fa diminuire almeno di due gradi la temperatura nella calura estiva, l'effetto città si annulla, si respira meglio».
Duecento metri quadrati a disposizione per letto vuol dire un rapporto tra volume edificato e superficie del terreno davvero bassa.«La densità territoriale ideale nel caso di un ospedale è di 0,5 contro una densità territoriale di città come Milano, per avere un termine di confronto, di 5».
Ma un ospedale di solo quattro piani in altezza come dev'essere organizzato?«Il piano terra è dedicato alla vita quotidiana, con gli ambulatori, il day hospital, il front office per chi deve prenotare le visite e ritirare gli esami, i negozi. Al meno 1 c'è la diagnostica, con Tac, risonanze, eccetera. Al meno 2, l'impiantistica. Salendo, il primo e il secondo piano sono dedicati alle degenze, l'ultimo alle sale operatorie e alle cure ad alta intensità, tra cui la rianimazione».
Tutt'intorno, gli alberi.«Sono una condizione fondamentale per fare stare meglio i pazienti e gli operatori sanitari. Di qui l'esigenza di sfruttare le zone periferiche. Un ospedale modello è difficile farlo nel cuore della città proprio per una questione di spazi».
Ecco, allora, che spezza una lancia in favore dell'ex area Falck di Sesto San Giovanni, dove è stato annunciato un parco di 450 mila metri quadrati.«Attenzione, io non voglio innescare alcuna polemica. Penso, però, che la Città della Salute potrebbe essere il primo grande ospedale italiano a essere realizzato sulle linee guida studiate con Veronesi».
Sesto contro Milano?«È una contrapposizione che, a mio avviso, non esiste. Sesto è Milano, lì dove, proprio in quanto periferia, la città può giocarsi il futuro».
Entra in gioco, insomma, il tema della città metropolitana?«Io sono convinto che Milano sarà grande solo se accetterà di essere la grande Milano».
postilla
Per la salute, per la metropoli, niente meglio di un'architettura scintillante?
Qualche anno fa al sottoscritto venne conferito una specie di incarico per organizzare una specie di biblioteca (resto volutamente molto sul vago per non provocare inutili polemiche), a partire dai contenuti tematici naturalmente. La cosa curiosa, che provai spero con qualche successo a spiegare ai “committenti”, è che tutto il loro progetto di fattibilità pur non trascurando il “cosa” mettere in quella collezione, dava un ruolo anche decisionale assolutamente spropositato al “come” e “dove” collocarla. Il tutto nel vuoto quasi pneumatico su entità e qualità dei contenuti. In pratica, per organizzare da zero una biblioteca si dava carta bianca soprattutto a muratori e falegnami, considerandoli competenze assai più importanti, che so, del bibliotecario, dell’operatore culturale ecc.
Lo stesso avviene con queste dannatissime cittadelle, che siano della salute, della moda, dell’innovazione o chissà che altro. Da lustri sul loro contenuto tematico, la domanda sociale,le strategie di gestione, gli obiettivi di sviluppo, nessuno ci dice nulla, o quasi nulla. Si dà per scontata la grande utilità, anzi indispensabilità di ciascuna, fino a sfiorare e superare il ridicolo quando nel caso del Centro Ricerche Biomediche Avanzate di Umberto Veronesi si bollavano come “nemici della ricerca” tutti coloro che dubitavano di una certa localizzazione urbanistica dei metri cubi dentro cui metterla, la ricerca. Anche con quest’altra cittadella però (con buona pace di Renzo Piano o di qualche altro suo collega che sta pensando legittimamente a contenitori alternativi altrove) nessuno parla mai dell’obiettivo salute, ricerca, innovazione … E soprattutto del contestoo generale della città e del territorio, salvo quei riferimenti vaghi, alla dimensione metropolitana, persi dentro alle magnifiche sorti del bel progetto di architettura. Fino al punto da far pensare: che sia tutta una scusa, quella della nostra preziosissima salute? Dubbio quanto mai lecito, si spera (f.b.)
Titolo originale: 'Slum cities' in south Asia need better planning – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La capitale dello Sri Lanka Colombo, cuore economico e amministrativo di questa nazione-isola in piena crescita, si sta rapidamente trasformando in uno slum. Ci sta più del 30% della popolazione totale del paese, ma la metà degli abitanti dell’area metropolitana di Colombo abita lo slum. Certo non una rarità nell’Asia meridionale, questa crescita tumultuosa, dove le grandi metropoli dell’intera regione stanno facendo di tutto per non scoppiare. La capital del Bangladesh, Dacca, ospita il 34% della popolazione nazionale, ed è la città in crescita più veloce dell’intero continente. Circa il 40% dei cittadini di Dacca però sta nello slum. È urbano un quarto dei cittadini del Nepal, si concentra nelle zone urbane il 36% di quelli del Pakistan. In India, si calcola che siano 93 milioni complessivamente coloro che vivono nei quartieri informali, a partire dalla capitale Delhi, e la percentuale è del 60% anche nella scintillante Mumbai.
Indu Weerasooriya, vicedirettore generale della Urban Development Authority dello Sri Lanka, a un recente simposio della Banca Mondiale sulla sostenibilità nelle metropoli della regione ha dichiarato che “Il 43% degli abitanti della Grande Colombo abita in slum e nelle baracche”. Ming Zhang, responsabile di settore per l’acqua alla Banca Mondiale nonché per la gestione dei rischi in Asia meridionale, prevede che la popolazione urbana della regione possa raddoppiare nei prossimi 25 anni. Già oggi uno su quattro abita insediamenti in qualche modo classificabili “informali”, o decisamente slum o baraccopoli nelle zone urbane. Una crescita così rapida a Dacca,secondo il presidente del Centro Studi Urbani di quella città, Nazrul Islam, che una delle attività più lucrose è diventato proprio costruire e affittare nello slum case a palafitte vicino ai corsi d’acqua.
Perché quando ci sono le alluvioni, come a Colombo nel novembre del 2010 e a maggio l’anno scorso, sono le zone più basse dello slum a andare sotto per prime. L’hanno sperimentato in Bangladesh a luglio dell’anno scorso. Gli esperti della regione e quelli della Banca Mondiale concordano sul fatto che si tratti di problemi creati dall’assenza di una adeguata pianificazione. “Se ragionassimo in termini urbanistici, di buona amministrazione e partecipazione, potremmo far molto [per questo problema]" osserva il responsabile finanziario per gli investimenti urbani della banca Abha Joshi-Ghani. Gotabaya Rajapaksa, del ministero per le aree urbane, dichiara all’assise che ilo problema delle alluvioni è soprattutto quello degli insediamenti informali troppo vicini ai corsi d’acqua, canali, bacini, tutto ciò che via via è influenzato dal cambiamento climatico.
In alcune zone di Colombo, come lungo dei tratti del canale Hamilton e affluenti nel nord, gli edifici sono addirittura dentro l’acqua. Secondo Weerasooriya il cambiamento climatico e le più intense precipitazioni piovose hanno esasperato il problema. Joshi-Ghani spiega che città come Colombo vicine alla costa oggi sono anche a rischio per l’erosione. "Nell’Asia meridionale sono parecchie le città costiere minacciate da inondazioni". Grosso problema anche quello dell’acqua potabile in atri centri cime Dacca. Islam sottolinea come il supersfruttamento di due dei quattro fiumi che alimentano la città fiumi ne abbia reso le acque inutilizzabili perché "sono in secca". Gli esperti di cambiamento climatico avvertono dell’urgenza di intervenire rapidamente per le città. "Gran parte di questi luoghi sono cresciuti in modo non pianificato per decenni, bisogna cambiare" giudica Rutu Dave, della Banca Mondiale.
Anche Joshi-Ghani aggiunge come i centri urbani debbano risolvere la questione delle risorse limitate: "Le stiamo sprecando con un uso indiscriminato e inefficiente". Rajapaksa spiega che si è iniziato un grande programma di rilocalizzazione per 70.000 famiglie dei quartieri di Colombo, e anche per liberare i canali, ma "Realizzare abitazioni adeguate per queste popolazioni è un grosso problema, per architetti e urbanisti”. Lo spazio è poco, e si progetta di ricollocare gli abitanti dello slum in edifici a torre. Secondo Joshi-Ghaniva tenuto conto sia del reddito che degli stili di vita attuali degli interessati, uno sconvolgimento potrebbe anche trasformare la soluzione in un nuovo problema. "Molti pensano che le città rendano poveri, mentre invece attraggono poveri convinti di una vita migliore [lì]".
Dave ritiene che stia crescendo la consapevolezza sia delle amministrazioni che dei comuni cittadini, riguardo ai pericoli di una crescita incontrollata. "Sono molto riuscite le campagne nelle scuole. I più giovani sono protagonisti del cambiamento". Ma finché non esiste volontà politica locale e nazionale a sostenere certe decisioni di piano, città come Colombo, Dacca e altre dellaregione dovranno affrontare sempre più caos, che poi si mescola all’ignoranza. "Spaventa di più, che i disastri non badano ai confini, e colpiscono per primi i poveri" conclude Jesse Robredo, ministro per l’interno e le amministrazioni locali delle Filippine, anche lui a Colombo per discutere il problema coi colleghi.
Crisi del mercato - italiano ed europeo - dell'auto, attacco governativo agli incentivi per le energie rinnovabili, movimenti NoTav, No Tem (Tangenziale esterna milanese) ed altri simili: sono fatti da prendere in considerazione insieme. E insieme, anche, a due altri problemi: chi deve tenere insieme quei fatti? E dove?
Di questi tre problemi il più serio è il terzo: perché occorre ricostituire uno spazio pubblico - o molte sedi: una per ciascuno dei territori che sono interessati a quei fatti - dove affrontare la discussione in modo operativo. La soluzione del secondo problema coincide in gran parte con quella del terzo: una volta costituita una sede del genere, la partecipazione di una cittadinanza attiva, e di una schiera di lavoratori che aspettano solo di riprendere in mano il loro destino, è molto più facile: c'è nel paese una spinta alla partecipazione che da anni non si sentiva più (la Valle di Susa insegna). Quanto alla crisi dell'auto, agli incentivi per le rinnovabili e alla resistenza contro le Grandi opere, parlano da sé.
Li possiamo riassumere così. Primo, Marchionne ha lasciato definitivamente cadere il fantasioso progetto «Fabbrica Italia» che avrebbe dovuto triplicare la vendita in Europa di auto prodotte nel nostro paese. Al suo posto ha ridotto ulteriormente di un terzo la produzione italiana e spiegato che bisogna ridurre di un terzo anche la capacità produttiva di tutto il settore in Europa: il che vuol dire chiudere altri due (e forse tre) stabilimenti italiani della Fiat. Lo ha detto - o minacciato - e lo farà. In un'Europa ormai entrata in una recessione che a furia di tagli ai bilanci finirà per coinvolgere anche la Germania - e la Volkswagen - la Fiat non ha alcuna possibilità di recuperare le quote di mercato perse.
Ma che succederà degli stabilimenti dismessi? Si continuerà a chiedere a Marchionne di «tirar fuori» dei nuovi modelli per recuperare lo spazio perduto? Si aspetterà, come a Termini Imerese, un altro Rossignolo che prometta di produrvi un «Suv di lusso», solo per intascare, come ha sempre fatto, un bel po' di milioni pubblici? E si passerà poi la mano alla Dr Motors, perché produca - lì e anche alla Irisbus di Avellino - un «Suv per poveri», senza avere neanche i soldi né il credito per tenere in piedi lo stabilimento di quella capitale europea dell'automobile che è Isernia? Oppure si lascerà andare in malora fabbriche e lavoratori, come a Termini Imerese e a Avellino? Non si può invece mettere in cantiere una produzione che abbia un futuro più certo e un impatto meno devastante dell'automobile, e che sia compatibile con gli impianti, il know how e l'esperienza dei lavoratori della Fiat e dell'indotto?
Secondo, il ministro Passera vuole abolire o ridurre drasticamente gli incentivi per le fonti rinnovabili (che hanno eroso gli incassi degli impianti di termogenerazione) e riempire il paese di trivelle per estrarre altro petrolio e metano (se c'è). La scusa è che quegli incentivi costano troppo (anche se hanno fatto risparmiare parecchio ai consumatori). La realtà è invece che sono stati elargiti a casaccio, senza alcuna programmazione. Sono stati per anni i più alti del mondo (non ce n'era alcun bisogno) e sono finiti in gran parte in mano non a società energetiche, ma a finanziarie, in gran parte estere (che non ne avevano alcun bisogno); e non a coprire fabbisogni energetici di abitazioni e piccole imprese (fotovoltaico) o di comuni e zone industriali (eolico e biomasse) di prossimità.
È vero che con quegli incentivi sono stati finanziati oltre 400mila impianti fotovoltaici; ma quattro quinti della potenza installata è esclusa dallo «scambio sul posto»; cioè l'energia prodotta non è asservita a un fabbisogno locale, ma va tutta in rete: a costi maggiori di quella generata da impianti termici e, per lo più, dopo aver espiantato campi e frutteti per ricoprire intere vallate di assai più redditizi (grazie agli incentivi) pannelli solari. Peggio, il paese si sta riempiendo di impianti a biomassa, alimentati non da residui agroforestali di prossimità, ma da olio di palma importato da Indonesia e Madagascar; o da mais sottratto all'alimentazione umana e animale. Per di più, quasi tutti quegli impianti sono importati, mentre in Italia chiude - e continuerà a chiudere - uno stabilimento metalmeccanico dopo l'altro; perché si è lasciato che fosse il mercato - che è solo, e sempre più, speculazione - a decidere come e dove impiegare i fondi degli incentivi.
Ecco allora una soluzione. I nuovi incentivi devono essere inquadrati in una programmazione energetica nazionale che vincoli la loro concessione a un coinvolgimento diretto di quegli enti locali, Asl comprese, che si faranno carico di promuovere, raccogliere e organizzare la domanda di nuovi impianti sul loro territorio. Una programmazione che preveda anche il coinvolgimento societario degli enti locali nella riconversione delle fabbriche destinate alla dismissione, prima che il processo imbocchi un cammino irreversibile. Se il loro proprietario non sa più che cosa farsene, che ceda gli impianti a chi ha interesse alla loro esistenza e alla loro conversione. Un progetto del genere può riguardare tutte le fonti rinnovabili ma anche misure di risparmio energetico: per esempio produzione di infissi, di regolatori di flusso, di pompe di calore e, soprattutto, di impianti di micro cogenerazione, come quelli che Fiat aveva messo a punto e poi abbandonato quarant'anni fa (il Totem) e che oggi ha ripreso con successo la Volkswagen. Quest'idea vìola le regole del libero mercato? Forse. Comunque la Volkswagen le ha aggirate mettendosi in società con distributori di energia elettrica.
Dunque, si può fare anche in Italia. Cominciando a mettere insieme maestranze e sindacati degli stabilimenti a rischio con le imprese interessate a una generazione energetica locale; e con i loro tecnici, gli esperti della materia (università e centri di ricerca), la cittadinanza attiva e le amministrazioni dei comuni disposti a farsi coinvolgere in un progetto del genere.
Una piattaforma con questi progetti, una volta che siano stati messi a punto in termini generali, potrà essere presentata al governo - questo o il prossimo - ma soprattutto dovrebbe entrare in un programma elettorale e di governo sostenuto dalle forze e dalle istituzioni che vi si riconoscono. Ed essere sostenuta da una mobilitazione generale. In sostanza: si tratta di non delegare al governo la redazione di un piano energetico, ma di elaborarlo dal basso, mobilitando su interessi concreti tutti coloro che possono essere coinvolti e costruendo per questa via le forze per cercare di imporlo con la lotta. Un discorso analogo si potrebbe fare per la mobilità, rimettendo in pista la domanda di autobus, treni locali e traghetti per il trasporto merci lungo le «vie del mare»; o per l'edilizia; o per la salvaguardia del territorio; ecc.
Terzo, qui arriva il tema Tav, Tem e le decine di altri progetti di Grandi Opere in cantiere. Per finanziarle, dopo aver sottratto fondi a pensioni e servizi pubblici locali, Passera ha deciso di dare l'assalto alla Cassa Depositi e Prestiti: una specie di banca, finanziata dai depositi postali, che ha 300 miliardi di risorse utilizzabili. Era stata creata per finanziare gli investimenti degli enti locali; invece è stata privatizzata e oggi il governo conta di utilizzarla per finanziare quelle Grandi Opere devastanti che nessuna banca vuole più finanziare se non ha la certezza che i soldi, alla fine, li metterà lo stato.
La Cassa Depositi e Prestiti è fuori dal perimetro della finanza pubblica e per questo il governo pensa di poterla utilizzare senza aumentare il debito. Impedirglielo con un programma di riconversione produttiva significa impedire un furto a danno dei comuni, evitare ulteriori devastazioni del territorio, salvare occupazione, impianti e know how nelle imprese condannate a morte. È la strada verso la conversione ecologica: in una forma che unisce l'esigenza di mobilitarsi su un programma generale con la sua elaborazione dal basso.
Titolo originale: Urban sprawl link to health concerns – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
L’espansione dispersa di Perth è diventata un rischio per la salute, obbligando migliaia e migliaia di persone a una vita sedentaria e a fare tutto con l’automobile. Una nuova ricerca dell’Università del West Australia, School of Population Health, ha individuato un legame diretto fra obesità e sprawl, rilevando come chi abita nelle fasce suburbane esterne cammini molto meno di chi abita in città. Cresce l’uso dell’auto perché all’aumento di popolazione non riesce a corrispondere un parallelo intervento della pubblica amministrazione in termini di trasporti collettivi, percorsi pedonali, verde pubblico.
L’espansione dispersa di Perth è una delle più rapide in Australia. I dati della scorsa settimana resi noti dall’Ufficio Statistica mostrano come siano soprattutto le circoscrizioni più esterne delle aree di Perth e Melbourne a crescere. Lo studio dell’Università del West Australia, commissionato dalla National Heart Foundation, spiega come allo sprawl corrisponda una ridotta mobilità pedonale, comportamenti in genere sedentari, maggiore uso dell’auto. Recita il rapporto: “Nella metropoli dispersa si trascorre più tempo in automobile. Nella città densa gli spostamenti sono più brevi e ci si può muovere di più a piedi, o usare il mezzo pubblico. Cosa confermata da studi sulle città americane, che mostrano ad esempio come ci siano meno incidenti stradali con vittime nelle città dense rispetto a quelle più disperse".
Il responsabile Heart Foundation per le malattie cardiovascolari, Trevor Shilton spiega quanto chi abita in quartieri ben concepiti sia fisicamente più attivo, abbia tassi di obesità inferiori, e un generale migliore stato di salute. "Perth continua disperdersi e sempre più famiglie trascorrono spropositate quantità di tempo in auto". Pare sia la circoscrizione di Subiaco quella urbanisticamente meglio concepita, con un buon sistema stradale, la ferrovia in trincea, negozi e spazi pubblici. Mentre invece chi sta in altre zone, Duncraig o Greenwood, è costretto a guidare fino agli shopping centre. Il professor Peter Newman, responsabile del Sustainability Policy Institute alla Curtin University, aggiunge che le grandi città come Perth si stanno sempre più dividendo fra un nucleo centrale ben concepito, circondato da un infinito suburbio del tutto auto-dipendente per accedere ai servizi, al lavoro, all’istruzione e tempo libero.
“Ne deriva anche un traffico impossibile, e la gente resta dentro a queste aree senza molto da fare, aumenta la violenza e tutti gli altri segnali di noia e apatia. Il presidente della Local Government Association, Troy Pickard, avverte che tutta la fascia suburbana si sta espandendo a ritmi del tutto insostenibili, e che le pubbliche amministrazioni sono obbligate a contrarre enormi prestiti per le infrastrutture. “Lo sprawl è una vera e propria sfida sia per le amministrazioni locali che per lo Stato in termini di reti idriche, fognarie, elettriche. La sindaco di Wanneroo, Tracey Roberts, racconta come lo sprawl significhi anche costruire in posti dove ci sono solo dune di sabbia. E così “Nelle nostre aree in crescita ci troviamo del tutto senza strade, stazioni, arterie veloci, verde, servizi, scuole, ospedali, e tutto andrebbe realizzato molto in fretta”.
Nelle circoscrizione a nord di Landsdale, ad esempio, gli abitanti stanno ancora chiedendo un servizio di autobus adeguato, un ufficio postale, spazi aperti accessibili. Solo il mese scorso, e dopo tre anni di lotta, hanno ottenuto un percorso pedonale a collegare le nuove abitazioni ai negozi. La presidente del comitato Jessica Stojkovski spiega che pareva assurdo mobilitarsi così a lungo per servizi e infrastrutture che di solito in altri posti si danno per scontate. "C’era un servizio di autobus, che non passava però da dove ci sono davvero le case. Lo spazio pubblico verde, poi, è una specie di boscaglia inadatta a camminarci o a giocare". E così, conclude la Stojkovski, non c’è altra alternativa che salire in macchina: per andare a lavorare, a far spese, a passare il tempo libero.
Nota: il rapporto descritto nell'articolo si inserisce naturalmente in un filone già ampiamente documentato anche su questo sito, ad esempio con gli studi di americani di Howard Frumkin; specificamente per il caso australiano (che evocherebbe invece immagini di salute per antonomasia) ulteriori informazioni scientifiche, links e materiali scaricabili, alla pagina dedicata sul sito della Hearth Foudation. (f.b.)
Al ciclista condannato per il reato di guida in stato di ebbrezza alcolica, non è inflitta la pena accessoria della sospensione della patente.
Così ha disposto la Corte di Cassazione, nella sentenza 19 marzo 2012, n. 10684.
Il caso in oggetto riguardava un uomo condannato dai giudici di merito per essere stato colto con un elevato tasso alcolemico alla guida della propria bicicletta, su cui viaggiava con il figlio minore.
Avverso tale pronuncia di condanna, l’uomo ha proposto ricorso in Cassazione eccependo l'incostituzionalità dell' art. 186 del codice della strada, con riferimento all'art. 3 della Costituzione. In particolare, lo stesso contestava l’applicazione della sospensione della patente per tutti i casi di conduzione di veicoli in stato di ebbrezza alcolica, senza che vi sia una differenziare tra la guida di veicoli a motore e guida di un velocipede.
In realtà, tale censura non assume rilievo, atteso che, la sanzione suddetta non è applicabile alla fattispecie de quo , “in cui la violazione si realizzi ponendosi alla guida di un mezzo per il quale non è prescritta alcuna abilitazione alla guida”.
Per tali ragioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
postilla
Come diverse è stato ribadito su queste pagine in casi simili, di cose legate al consumo di sostanze varie, è vero che l’ubriachezza è pericolosa, ma il vero danno (a parte il mal di testa del giorno dopo eccetera) in fondo lo può fare solo l’impatto della lamiera contro qualcos’altro. Diciamo pure che possa essere accettabile quella semplificazione secondo cui alcol + guida = pericolo = reato. Ma da qui a estendere l’universo delle sanzioni a tutti gli aspetti della mobilità sul territorio ce ne passa. Il tizio andava in bicicletta, e aveva bevuto. Era un pericolo? Magari si, per sé stesso, per la bambina che si portava appresso, per gli altri sulla strada, chissà. Non si sa da dove sia partita tutta la faccenda: era un energumeno sbandante sulla pubblica via? C’era un tutore dell’ordine annoiato e in vena di calcare un po’ la mano sulla discrezionalità della repressione? Non è dato di sapere. Ma estendere la sanzione alla patente di guida, per uno che sta facendo tutt’altro, è un po’ come togliere la patria potestà a chi commette reati finanziari: che c’entrano le due cose? È successo che tutti, in questo e in altri casi, continuano a pensare che la strada sia il mondo dell’automobile, che tutto debba ruotare attorno a quell’oggetto, dalle norme ai comportamenti. Una monumentale sciocchezza, da cui fortunatamente – pare – ci salva il diritto. Per adesso (f.b.)
In Europa e in Italia domina ancora la Treasury View, quel punto di vista del Tesoro britannico che nell'infausto '29 Winston Churchill, allora Cancelliere dello Scacchiere, aveva sostenuto con determinazione: «Quali che ne possano essere i vantaggi politici e sociali, soltanto una assai piccola occupazione addizionale, ma nessuna occupazione addizionale permanente, possono essere create con l'indebitamento pubblico e con la spesa pubblica». L'argomento addotto è che qualsiasi aumento della spesa pubblica sottrae un pari ammontare di risorse agli investimenti privati: se il governo si indebita, allora entra in concorrenza con il settore privato, assorbe risorse che altrimenti avrebbero potuto essere investite dall'industria privata e dunque non si avrà nessun effetto netto sul livello di attività. Oggi non ci si ricorda invece che nel 1936 era uscita la General Theory of Employment, Interest and Money di J. M. Keynes, che della Treasury View e del suo fondamento neoclassico costituisce una critica radicale, con particolare riguardo alle determinanti dell'occupazione.
La Treasury view è corretta soltanto in un caso: quando l'economia è già in una situazione di piena occupazione, così che la spesa pubblica spiazzerebbe gli investimenti privati; si noti però che se ci fosse già la piena occupazione non ci sarebbe bisogno di nessun intervento dello Stato. In una situazione di disoccupazione, soprattutto se la disoccupazione è elevata come è oggi in Italia, lo Stato dovrà invece intervenire e ciò potrà fare indirettamente o direttamente. «Lo Stato dovrà cercare di influenzare la propensione al consumo, in parte mediante l'imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Tuttavia sembra improbabile che l'influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento si dimostrerà l'unico mezzo per consentire di avvicinarci all'occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con l'iniziativa privata».
La teoria neoclassica nega invece che possa esserci bisogno di un intervento diretto dello Stato, perché postula che il sistema economico è in grado di autoregolarsi; e in particolare assume che la flessibilità del mercato del lavoro sia condizione sufficiente per fare aumentare l'occupazione fino al livello della piena occupazione. Questa è l'unica ragione seria, ma analiticamente infondata, per mettere al primo posto dell'agenda del governo la riforma del mercato del lavoro. Così come i provedimenti di liberalizzazione di tutti gli altri mercati e i tagli della spesa pubblica hanno come unica giustificazione razionale, anche questa infondata, la tesi che in tal modo tutti i mercati diventeranno finalmente efficienti e che la spesa pubblica non spiazzerà gli investimenti privati.
Circa il mercato del lavoro - considerato oggi «un tema cruciale e una priorità» - il ragionamento neoclassico si svolge così: A. Se non ci fossero attriti o impedimenti artificiali, sul mercato del lavoro si stabilirebbe un salario (reale) tale che non vi sarebbe disoccupazione involontaria, cioè risulterebbero non occupati soltanto quei lavoratori più pigri e disposti a lavorare soltanto per un salario più elevato di quello di equilibrio. B. Data l'occupazione di equilibrio, risulta determinato il livello della produzione e del reddito, che sarà il livello più elevato possibile, date le risorse disponibili di lavoro e di capitale. C. Sul mercato dei beni, di consumo e di investimento, si determina quel saggio di interesse reale in corrispondenza al quale si ha uguaglianza tra investimenti e risparmio e dunque tra offerta aggregata e domanda aggregata. D. Sull'economia reale (sulla occupazione e sulla produzione) la quantità di moneta non ha nessuna influenza, è neutrale: essa influenza soltanto il livello generale dei prezzi. A ciò si aggiunge che la distribuzione del reddito tra salari e profitti è commisurata alla produttività del lavoro e del capitale, cioè al contributo di ciascun fattore della produzione alla produzione stessa.
Una teoria così fatta è una teoria la cui semplice e seducente conclusione di politica economica è la dottrina del laissez faire; ma conviene ricordare che la massima «laissez faire» è tradizionalmente attribuita al mercante Legendre e a una sua risposta a Colbert, verso la fine del diciassettesimo secolo. «Que faut-il faire pour vous aider?», chiese Colbert. «Nous laisser faire», rispose il mercante: «Lasciate fare a noi». Se questa teoria fosse realistica nei suoi postulati e logicamente ineccepibile, vivremmo nel migliore dei mondi possibili, nel mondo di Pangloss: «Ogni avvenimento è concatenato in questo migliore dei mondi possibile; ché, infine, se non foste stato cacciato per amore di Cunegonda a pedate sul didietro da un bel castello, se non foste passato sotto l'Inquisizione, se non aveste corsa l'America a piedi e non aveste perduti tutti i montoni del bel paese dell'Eldorado, non mangereste qui cedri canditi e pistacchi».
Così purtroppo non è, poiché è difficile contestare che il processo economico si svolge in altro modo, cioè nell'ordine descritto dal dimenticato Keynes; un ordine causale che comincia non dal mercato del lavoro ma dal mercato della moneta, un processo nel quale hanno un ruolo essenziale le aspettative dei consumatori e delle imprese circa un futuro incerto: A. L'equilibrio sul mercato della moneta dipende dallo stato delle aspettative, che influenza la domanda di moneta per il motivo speculativo, nonché dalla quantità di moneta in circolazione. Questo insieme di circostanze determina il livello del tasso di interesse. B. L'ammontare degli investimenti che corrispondono a un certo tasso di interesse dipende a sua volta dalle aspettative. C. Il volume degli investimenti, insieme all'ammontare dei consumi, che dipendono dalla propensione al consumo della collettività, determina il livello del reddito. D. Il livello del reddito determina il livello dell'occupazione.
Si noti che Keynes non ipotizza né il pieno impiego della capacità produttiva né che il livello di occupazione sia quello di pieno impiego. È anzi possibile, anzi normale, che il sistema economico sia bensì in un qualche equilibrio, e che però vi sia disoccupazione involontaria. A fronte di una insufficiente domanda effettiva, e senza un intervento diretto dello Stato, la diminuzione del salario reale conseguente alla massima flessibilità del mercato del lavoro si traduce non in un aumento degli investimenti e della occupazione, ma soltanto in un aumento dei profitti e delle rendite e in uno spostamento di questi redditi verso la speculazione finanziaria.
La legge delega varata ieri dal Consiglio dei ministri per la riforma delle forze armate conferma le anticipazioni delle scorse settimane fatte dal ministro-ammiraglio Di Paola alle Commissioni Difesa di Camera e Senato e dal Consiglio Supremo della Difesa: tagli in 10 anni al personale militare e civile della difesa (33mila addetti in meno) per avere più risorse da destinare alle armi e alle operazioni militari all'estero.
Infatti non si parla complessivamente di tagli alla spesa ma - dice Di Paola - di «bilanciare la spesa militare in senso virtuoso» (cioè meno soldi per gli stipendi e più risorse per le armi) per una riforma da fare, bontà sua, «senza richiedere risorse aggiuntive». E Di Paola ha aggiunto che non si tratta di un intervento «lacrime e sangue»: quelle infatti le versano già operai e pensionati, mentre i generali possono sorridere ancora una volta. I tagli al personale delle Forze Armate sono buona cosa, ma se ne possono fare tranquillamente il doppio e non è necessario aspettare 10 anni per farlo, mentre un operaio a Pomigliano o a Termini Imerese il posto di lavoro lo perde in un giorno.
Mentre si tagliano, massacrandole, le spese agli enti locali, al welfare, al lavoro, alle pensioni dovremmo pure ringraziare il ministro della difesa perchè propugna una riforma «senza chiedere risorse aggiuntive». Ci mancherebbe pure che ne volesse altre di risorse oltre ai 25 miliardi che la Difesa spende ogni anno per le forze armate e ai 10miliardi che si sperpereranno nei prossimi anni per i 90 cacciabombardieri F-35. E mentre su un altro tavolo, quello della Fornero, è l'articolo 18 (quello dello Statuto dei lavoratori) ad essere sotto attacco, sul tavolo del ministro Di Paolo è l'articolo 11 della Costituzione che va a farsi benedire. Cosa hanno a che fare con quegli articoli della Costituzione che dicono che «l'Italia ripudia la guerra come mezzo per dirimere le controversie internazionali» (art. 11) e che compito delle forze armate è la «difesa della patria» (art. 52), i 90 cacciabombardieri d'attacco F35 (arma del primo colpo, il famigerato first strike, capaci inoltre di trasportare ordigni nucleari), fiore all'occhiello del nuovo modello di difesa proposto dal ministro della difesa?
Il bilanciamento della «spesa militare in senso virtuoso» significherà sostanzialmente un aumento della spesa per i sistemi d'arma (come appunto i cacciabombardieri F35, ma anche le fregate Fremm e Orizzonte, i sommerbili U-212) e per le missioni militari all'estero dentro un modello interventista delle forze armate italiane che segue fedelmente la logica e la strategia della Nato. Queste altro non sono che una sorta di «mobilitazione permanente» contro i «nuovi nemici»: Islam, nuove potenze globali (Cina, Russia, India, ecc.), terrorismo internazionale, detentori (da cui dipendiamo) delle materie prime, come il petrolio e il gas. Invece di investire nella prevenzione dei conflitti, nella cooperazione internazionale e nella sicurezza comune, continuiamo ad armarci fino ai denti, per la felicità di Finmeccanica e di tutta l'industria militare italiana.
Più che una riforma, questa è una controriforma. Altro che «grossa innovazione» come l'ha definita il Ministro-Ammiraglio, che più tecnico non si può. È una controriforma perché spenderemo tanti soldi in più per le armi, perchè le nostre forze armate avranno sempre di più un ruolo interventista, perchè saremo a ricasco della Nato e perchè in questo modo l'articolo 11 della Costituzione sarà svuotato di senso, nella forma e nella sostanza. Di Paola e i generali saranno soddisfatti, ma c'è poco da cantar vittoria. Sicuramente non lo fa il paese e non lo fanno le tante persone (operai, pensionati, giovani) che non sanno come far fronte a questa crisi così drammatica. L'unico modo per affrontare «la spesa militare in senso virtuoso» è ridurla, destinando i risparmi al lavoro, al welfare e ai giovani. Il premier Monti, così attento al rigore e alla lotta alle corporazioni, di fronte agli interessi della «casta delle stellette» ha alzato arrendevolmente bandiera bianca. E questo non è un bene per il paese.
I nodi sono giunti al pettine. I due partiti fondativi della "seconda Repubblica" sono attraversati da una crisi probabilmente irreversibile, e i punti di somiglianza sembrano prendere il sopravvento sulle diversità. Non solo e non tanto per gli aspetti più superficiali ed evidenti: la crisi di entrambi è stata progressivamente scandita dal pur differente tracollo dei due padri-padroni che li hanno forgiati e dominati, assolutamente incapaci di porsi il problema del ricambio. Portati a far crollare con sé le colonne del tempio, in un cupio dissolvi che si è arrestato solo sulla soglia della dissoluzione. Erosi da quella stessa antipolitica che ne aveva costituito il discutibile punto di forza e che rivela ora per intero i suoi esiti: l´assenza di democrazia interna, le cricche elevate a sistema, lo strapotere di tesorieri-avventurieri, il familismo da Basso Impero delineano in realtà percorsi paralleli e analoghi. Danno il segnale più visibile di un´involuzione della politica e del Paese, ci costringono a fare i conti con il ventennio di questa sciagurata "seconda Repubblica" e con le sue radici. Ci obbligano, soprattutto, a misurarci con il grande vuoto che si avverte sullo sfondo. Con le sue incognite e con gli enormi problemi che pone: in modo non molto dissimile, a ben vedere, da quel che era avvenuto vent´anni fa.
Sono entrati drasticamente in crisi, infatti, due partiti cui si era rivolta una parte significativa del Paese: in essi aveva fatto confluire alcune delle sue pulsioni peggiori - dall´egoismo proprietario all´intolleranza - ma anche illusioni e paure reali, ricerca di protezione e angoscia per l´urgere dei problemi, bisogno di speranza e rimozione delle inquietudini. L´antipolitica aveva fatto da cemento potente, alimentata da antiche e diffuse inculture e da sostanziali estraneità alla democrazia. Una deriva profonda, che talora sembrò inarrestabile: e che fu poco contrastata da forme di buona politica e da proposte capaci di rispondere in modo credibile alla crisi profonda del Paese. Di costruire un´idea di futuro. È stata questa assenza a permettere il consolidarsi del centro-destra e il suo lungo interagire con le deformazioni culturali più corpose della nostra storia recente.
Ove si ripercorra la storia degli ultimi decenni non è difficile comprendere l´iniziale irrompere della Lega e il successivo trionfo di Berlusconi. Non è difficile neppure cogliere il segreto di un´alleanza che era parsa (ed era) improbabile ma si è rivelata più duratura delle rotture e delle tensioni di superficie. Convivevano in essa, a dirla in breve, sia i peggiori guasti degli anni Ottanta sia l´esasperazione per le loro conseguenze. Vi confluivano cioè egoismi individuali e di ceto, protagonismi privi di regole e valori, disprezzo per lo Stato, indifferenza ai valori collettivi: in sintesi, il prevalere del privato sul pubblico nell´economia e nella politica, nei comportamenti quotidiani e nelle relazioni sociali. E vi era al tempo stesso l´esasperata reazione di fronte agli inevitabili frutti di tutto ciò (il debito pubblico ne era e ne è un concretissimo simbolo). Questo fu il connubio che vinse nel 1994, e uno sguardo agli anni precedenti rende più agevole capire perché quella vittoria sia stata possibile. Rende più chiari, anche, i problemi che stavano sullo sfondo e che rinviano a questioni centrali. Non era certo un´invenzione, ad esempio, la "questione settentrionale", pur nel suo scomposto deflagrare: che risposte ha avuto, e come si presenta ora? Per capire poi meglio, su di un differente versante, altri e connessi nodi che abbiamo di fronte si pensi anche ad un´esperienza molto positiva dell´ultimo ventennio: il grande pregio del primo governo Prodi nel portare il Paese in Europa ma al tempo stesso la sua debolezza nel far comprendere appieno le ragioni ideali e le prospettive di una costruzione europea che imponeva nell´immediato sacrifici pesanti.
Queste questioni sono ancora tutte sul terreno e non è possibile riproporre senza molta convinzione le ricette precedenti: è necessaria un´inversione di marcia radicale e riconoscibile. Capace di ridare fiducia. A questo è chiamato in primo luogo il centrosinistra ma forse è possibile che scendano in campo su questo terreno, pur con diversità di prospettive e di accenti, energie e forze più ampie. Nella speranza, naturalmente, che l´esperienza stessa del governo Monti possa contribuire anche alla nascita di quella "destra normale" che il Paese non ha mai conosciuto e che sarebbe invece preziosa.
Vi è però una questione assolutamente preliminare e drammaticamente urgente, e la prolungata insensibilità e sordità di quel che resta del ceto politico ha effetti ogni giorno più devastanti. Lo squallore della vicenda della Lega, ad esempio, non è riducibile a tesorieri felloni o a miserabili cerchi, a parenti o affini: è l´espressione esasperata di una bancarotta della politica che trae origine dal suo complessivo degradare e dalle scelte che ha compiuto. È difficile descrivere con parole adeguate la truffa compiuta ai danni di un Paese che aveva abolito per via referendaria il finanziamento pubblico. E che ha visto invece crescere a dismisura rimborsi ai partiti concessi senza alcuna documentazione, talmente esorbitanti da autorizzare investimenti in Tanzania e truffaldine dilapidazioni private. Lo ha scritto benissimo Stefano Rodotà su questo giornale prima ancora che l´ultima vicenda deflagrasse: la politica, prima vittima di questo viluppo di corruzione e privilegi, ne è stata complice. E ora non ha più alibi.
Revisione immediata e radicale della legge sui rimborsi elettorali, norme severissime contro la corruzione, riduzione drastica dei costi della politica: come è possibile presentarsi al Paese senza aver compiuto questi passi? Come è possibile lasciar incancrenire la situazione nel momento stesso in cui alla collettività nazionale si impongono invece sacrifici pesantissimi? Il tempo è scaduto, la casa brucia da tempo: ogni ulteriore ritardo è in realtà una corsa verso il baratro.
Ne hanno sempre sentito parlare. Qualcuno ha raccontato loro che è grazie a lei che sono arrivati in quella casa. Aveva un lungo becco e loro erano avvolti in un fagotto. Volavano. Ma certamente la maggioranza tra tutti questi bambini una cicogna, dal vivo, non l'ha mai vista. Ecco qual è la novità per il 2012 al Parco ittico «Paradiso» di Zelo Buon Persico: una grande voliera in costruzione dove allevare le cicogne, per poi liberarle una volta in grado di badare a loro stesse.
E così quest'oasi naturalistica a soli 17 chilometri da Milano si rinnova anno dopo anno, avendo sempre e comunque come attrazione principale la parte ittica, visitabile da un punto di vista decisamente originale e didattico. Una delle particolarità del Parco ittico «Paradiso» sono infatti gli osservatori che, posti sotto il livello dell'acqua, permettono a grandi e piccini di guardare attraverso un vetro i pesci nel loro ambiente naturale. La sensazione è quella di nuotarvi in mezzo.
Nato negli anni 80 come allevamento, il parco di 130 mila metri quadrati è stato poi trasformato in oasi naturalistica, alimentata dalle acque del fiume Adda. Sono stati ricreati molti ambienti fluviali e palustri che oggi ospitano le più disparate specie di acqua dolce. Questa nicchia ecologica è una sorta di ambiente incontaminato, privo di barriere architettoniche, circondato da un bosco di seimila alberi (salici, ontani, olmi, aceri, frassini, pioppi) che può essere attraversato a piedi o in bicicletta muovendosi tra la vasca con i cavedani e quella con i carassi, tra quella con le tinche e quella con gli storioni (ci sono esemplari di storioni tra i più grandi d'Europa. Storioni che raggiungono anche i due metri di lunghezza e valgono migliaia di euro) e da quest'anno anche quella delle anguille.
Non solo, i bambini qui possono scoprire anche «in diretta» come nasce, come cresce e come si nutre un pesce. Questo grazie a «Acqua life», ovvero tre acquari in sequenza che illustrano la vita di un pesce fin dai suoi primi secondi di vita. Acquari che sono a pochi passi dalla grande vasca con poco più di un palmo d'acqua dove nuotano gli storioni albini, che i bambini possono addirittura accarezzare.
Oltre ai pesci, nell'area del grande parco giochi (con scivoli, ponti tibetani sospesi, funi di arrampicata, altalene e aree attrezzate per pic nic) c'è anche un grande recinto con tutti gli animali della fattoria: vitellini, conigli, puledri, asinelli, papere, galline, maialini nani. Ma anche preziosi ungulati come il capriolo e il rarissimo daino nero.Il parco apre alle 9 e chiude alle 17.30 (durante i giorni festivi alle 19). Il biglietto costa 10 euro (gli adulti) e 8 (i ragazzi). C'è anche un sito: www.parcoittico.it
Titolo originale: Turbine scheme provokes wuthering gale of protest – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La frase con cui comincia Jane Eyre – “In quel giorno era impossibile passeggiare” – gli appassionati delle sorelle Brontë l’hanno assaporata chissà quante volte. Ma oggi gli abitanti del villaggio di Haworth, patria della famiglia letteraria, temono che le loro passeggiate possano diventare impossibili a causa di un rischio molto contemporaneo. È esplosa la rabbia davanti al progetto di impianto eolico da 14,5 milioni di euro nel bel mezzo delle “selvagge e meravigliose” brughiere che hanno ispirato le tre sorelle. Thornton Moor a Haworth era fonte di ispirazione sia per Emily, che Charlotte e Anne, che potevano godersi quelle straordinarie vedute durante le frequenti passeggiate dalla casa parrocchiale in cui abitavano. E oggi la Brontë Society e gli abitanti del villaggio sono esterrefatti per il progetto di quattro turbine alte circa cento metri in quel paesaggio, a fare da cornice su entrambi i lati al sentiero turistico Brontë Way.
Il consiglio di Bradford dovrebbe votare sulla proposta di installazione del primo pilone di raccolta dati la prossima settimana, e gli oppositori temono che l’intero piano possa attraversare tutto l’iter autorizzativo entro settembre ed essere realizzato nel giro di un anno. L’area di Thornton Moor è a circa sei chilometri da Haworth, dove le sorelle Brontës passarono quasi tutta la vita. Sally McDonald, che presiede il consiglio direttivo della Brontë Society, spiega: "Le brughiere devono restare intatte per le generazioni future, per le folle dei visitatori che arrivano da tutto il mondo, qui a Haworth e nello Yorkshire, interessati all’opera e al mondo delle Brontë. E siamo preoccupati per questo inquinamento visivo in un’area di interesse storico internazionale. "Haworth è già considerato un paesaggio a rischio. Le Brontë amavano moltissimo questi luoghi e la brughiera ha influenzato profondamente la loro scrittura”.
"Cime tempestose è ambientato in questa area. Quattro turbine alte cento metri sono un impatto visivo enorme. La brughiera … è davvero un luogo selvaggio e meraviglioso. Una parte speciale dello Yorkshire, e attira ogni anno quantità enormi di turisti, anche coloro che vogliono vedere gli sfondi delle opere delle Brontë: lì non mi pare si racconti di piloni eolici”.
Secondo gli oppositori le turbine saranno a meno di settecento metri dalle case del piccolo villaggio di Denholme Gate, dove tutti gli abitanti hanno firmato la petizione. Anthea Orchard, che preside il Thornton Moor Wind farm Action Group, spiega: “Devasta tutto e tutti. Ci saranno danni irreparabili al paesaggio. Cambia il nostro modo di vivere, e lo contrasteremo fino alla fine. Usano come cortina fumogena le energie rinnovabili. Il sentiero della Brontë Way, che collega tutti i luoghi storici delle Brontë, passa propri nel bel mezzo dell’impianto di turbine. Due a sinistra, due a destra. Ci colpisce tutti, siamo spaventati e furiosi. Si vedranno a chilometri di distanza, qui siamo molto in alto”.
Ma Phil Dyke, responsabile per la Banks Renewables, compagnia energetica, replica: “L’impatto visivo del primo pilone sonda a Thornton Moor è molto basso, si tratta di una struttura sottile. Discuteremo con Natural England i particolari per ridurre al minimo gli effetti ecologici”. Il progetto di impianto a Thornton Moor installa una capacità di oltre 8MW, sufficienti a coprire il fabbisogno annuo di 4.500 case.
postilla
Di altri discutibili progetti sulle Cime Tempestose questo sito aveva dato notizia tempo fa, ma oggi si aggiunge un interesse particolare: comunque vada a finire la vicenda, è questo il genere di “posizione preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili ” di cui parla l’appena approvata riforma urbanistica fiore all’occhiello dei Conservatori? Ed è questo il rapporto con le popolazioni locali cercato e sbandierato non molti mesi fa con la Legge sul Localismo? Stiamo freschi! Evidentemente, con tutti i correttivi di contesto del caso, non c’è bisogno della volgare arroganza di certi campioni sviluppisti a senso unico di casa nostra, per combinare guai (f.b.)
Mettiamoci nei panni di un imprenditore straniero, o anche indigeno: ha a disposizione la globalità del mondo per decidere dove investire con maggior profitto i suoi soldi. Perché dovrebbe scegliere l'Italia, in cui l'unica economia che tira e investe è quella criminale? In cui la corruzione pubblica e privata raggiunge vertici da capogiro? In cui le infrastrutture fanno schifo? In cui i tempi della burocrazia e della giustizia sono preistorici? Adesso però gli imprenditori non hanno più alibi, dice gioiosamente la coppia Monti-Fornero, e sapete perché? Perché è stata introdotta la libertà di licenziamento individuale, quelli collettivi c'erano già. E dunque, benvenuti padroni finalmente liberi di fare carne di porco della forza lavoro. Non li liberiamo dalla camorra, dalla corruzione, dai disservizi ma possono sempre liberarsi degli operai. Ce lo chiedono i mercati e l'Europa, ai quali due governi hanno chiesto di chiedercelo.
In Italia non c'è lavoro, la disoccupazione pura e quella (finora, prima della controriforma degli ammortizzatori sociali) camuffata, esplodono mentre crolla il potere d'acquisto di salari e pensioni. Soprattutto piangono i giovani grazie alla riforma pensionistica. Il governo non ha uno straccio di progetto per rilanciare lo sviluppo, persino il peggiore che è quello senza vincoli sociali e ambientali. E cosa fa Monti per sopperire a questo disastro? Cancella un pezzo di democrazia italiana: l'art. 18 dello Statuto. E per fortuna che c'è stata la mediazione di Bersani, sennò che sarebbe successo? La stessa cosa che succede ora, dopo la mediazione. Monti e Fornero sono contenti, la boccia è in buca e se ne vantano a livello globale.
I licenziamenti discriminatori saranno puniti con il reintegro, come prima. Peccato che nessun imprenditore scriva nella lettera di licenziamento che il poveraccio è gay o iscritto alla Fiom, o la poveraccia è incinta. Sì, però adesso varrà per tutti, anche per chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti. Peccato che già prima esistesse una legge di tutela contro le discriminazioni, a prescindere dal numero di dipendenti. Poi ci sono i licenziamenti disciplinari, in cui il reintegro si trasforma in optional nelle mani del giudice che solo in casi eccezionali potrà ordinare al padrone di rimettere al lavoro la persona ingiustamente licenziata, altrimenti si limiterà a imporre un indennizzo di 12-24 mensilità (con lo sconto rispetto al testo iniziale per non disturbare troppo i manovratori). Infine, i licenziamenti per motivi economici: il giudice, che espressamente non potrà indagare sulle ragioni economiche dell'impresa, solo in caso in cui la motivazione sia «manifestamente insussistente» potrà ordinare il reintegro. Ma come farà a dimostrare l'insussistenza senza mettere il naso nell'economia dell'azienda?
Così si passa dalla norma alla eccezionalità. Monti e Fornero rivendicano la loro rivoluzione precisando che il diritto al reintegro non c'è perché sancirebbe una «concezione proprietaria del posto di lavoro». Che invece è di proprietà esclusiva del padrone, e così si torna al proletario di Marx, proprietario solo della sua prole.
Mentre Monti conferma la nostra analisi spiegando come il reintegro diventi altamente improbabile, la segreteria della Cgil plaude al nuovo sistema di regole. Una testimonianza illuminante dell'autonomia del sindacato dalle forze politiche. O almeno della Cgil. La Fiom è di tutt'altro avviso, ma come è noto Landini è quello che tira i gatti morti sul finestrino di Marchionne, e anche di Monti.
La valle del medio Tagliamento, in Friuli, è un posto incantato. Sullo sfondo, le cime delle Alpi Carniche. Più giù, paesi rinati e ricostruiti perfettamente dopo il terremoto: come Gemona, una perla. E poi la valle, con il grande letto del fiume Tagliamento che gira pigro e lento alla ricerca del suo sbocco al mare. È un luogo ancora intatto, riconosciuto unico a livello europeo per ecosistema e aree a vario titolo protette. Tutto ciò ora è in pericolo.
Vogliono costruirci un’autostrada. Una grande arteria a pagamento che unisca Cimpello a Sequals a Gemona. Che colleghi insomma due autostrade già esistenti, la A 28 (Portogruaro-Conegliano) e la A 23 (Palmanova-Udine-Tarvisio, verso l’Austria). Il piano di fattibilità è stato presentato nel 2009 da Autovie Venete e dai costruttori Impregilo e Rizzani De Eccher. Ora in pista resta Impregilo, che vorrebbe costruire l’opera in project financing: il privato progetta e costruisce, poi gestisce l’opera per 50 anni. Prevede di ripagarsi con i pedaggi: 23 mila utenti nel 2015, fino ai 53 mila del 2050. Velocità massima di percorrenza 110 o 130 chilometri all’ora.
Nel 2009 la Regione (con delibera 2.830) ha deciso che l’opera ha il requisito di interesse pubblico. L’autostrada sarà formata da due tronconi: la parte sud (Cimpello-Sequals), dove si tratterebbe di raddoppiare l’attuale superstrada, ora non a pagamento, chiudendo lo svincolo di San Giorgio della Richinvelda e facendo pagare il pedaggio; la parte nord (Sequals-Gemona), tutta da costruire. Questa è la parte da realizzarsi con un tracciato nuovo nella zona paesaggistica della valle del medio Tagliamento, fino all’incanto di Gemona, sito di interesse comunitario. Si oppongono gli abitanti e le organizzazioni ambientaliste della zona, oltre al Movimento Cinque stelle di Udine. Si è formato un comitato che si chiama Arca: Assieme Resistiamo Contro l’Autostrada. Presidente Alberto Durì. Ha già raccolto oltre 3. 500 firme di cittadini che si oppongono al progetto. Cerca di fermarlo, perché ferirebbe l’ambiente e inquinerebbe la valle del medio Tagliamento.
Propone un ragionamento semplice: se davvero ci passeranno i 23 mila motori che diventeranno 53 mila nel 2050, l’inquinamento sarebbe insostenibile. Se queste cifre non fossero raggiunte (cosa possibile), l’opera non si ripagherebbe con i pedaggi e a rimetterci sarebbero comunque i cittadini, perché i debiti dovranno essere ripianati con i soldi pubblici (a pagare sarà la Regione Friuli-Venezia Giulia). E poi, dicono i critici, l’autostrada è sostanzialmente inutile, senza traffico, scollegata dalla viabilità locale e con bassa riduzione dei tempi di percorrenza. Eppure l’assessore regionale alla viabilità e ai trasporti, Riccardo Riccardi, è deciso a portarla a termine, nonostante il parere sfavorevole di alcuni autorevoli tecnici. Sarebbe certamente utile a Impregilo. E ai politici locali: per far girare i soldi. È un piccolo Tav friulano, senza l’attenzione che ha scatenato il Tav piemontese. Superfluo per i collegamenti, dannoso per l’ambiente. Bisogna proprio ferire la valle del Tagliamento?
Si discute tanto, e tanto giustamente, di quanto sia diversa la prospettiva di affermazione di un diritto, rispetto al puro risarcimento monetario di chi ne è stato privato. La cosa si applica naturalmente al posto di lavoro, e anche agli spazi urbani soprattutto quando un proprietario deve rinunciare - in tutto o in parte - alla proprietà per qualche motivo di ordine superiore, o sedicente tale. E quando questo “proprietario” è collettivo? Chi o cosa lo tutela? A quanto pare proprio nulla: pare che valga l’esatto contrario dell’esproprio per pubblica utilità, e qui l’interesse “alto” è quello dell’operatore economico, quello da liquidare con somma da stabilirsi il collettivo. Bene. Anzi mica tanto bene. A Milano c’è un detto, ciapa e porta a ca’, dal senso variabile a seconda dei casi, e quello della Galleria Vittorio Emanuele è proprio un caso studio, il caso studio. Qualcuno vuole “rilanciarla”, la Galleria, con un meccanismo del genere.
I cittadini, e anche tanti altri, da generazioni la chiamano “salotto della città”, perché naturalmente quello spazio già a metà XIX secolo era stato concepito per essere molto più di un gruppo di vie coperte. Il tempo e l’immaginario collettivo hanno fatto il resto. Oggi nella Milano mediamente avara di spazio pubblico, dove piazze vere e proprie all’italiana latitano, i modelli moderni sono al massimo i soliti risicati fra un nodo di traffico e un ritaglio di area pedonale (quando va bene), la Galleria spicca per ruolo diretto e indiretto. Diretto perché appunto funge da salotto, indiretto perché in quel salotto convergono altre stanze e corridoi dell’appartamento collettivo, che altrimenti non avrebbero gran senso da soli. Se si scorre certa stampa internazionale però si scopre che dell’idea di salotto non frega niente a nessuno, quello è, dal concetto originario del progettista attraverso i decenni, un paradigmatico modello ideale di shopping mall. E qui tocca mettersi a pesare le parole, manco si fosse avvocati o giuristi.
Shopping vuol dire, terra terra, far la spesa, e il mall in sé e per sé altro non è che un percorso, un passeggio, magari pure con grande forza simbolica di identità nazionale, vedi quello di Washington, o quello originario di Londra, dove è pure nato in termine “mall”, da una cattiva pronuncia della parola italiana “maglio”. Ma le due parole unite necessariamente evocano il segregato scatolone suburbano. Che c’entra con la Galleria? Mica siamo in mezzo a uno svincolo sotto le insegne un po’ pacchiane! Invece c’entra parecchio, perché il concetto di shopping mall è una formula chimica che non ha affatto bisogno dei prefabbricati o di qualche ettaro di parcheggi per funzionare. Basta un altro ingrediente, molto meno vistoso, e si chiama correntemente management. Ovvero come quello spazio viene gestito, e prima ancora quali poteri sono conferiti a chi lo gestisce. A Milano questi poteri potrebbero cambiare bruscamente, e sorprendentemente. Oppure no: dipende.
Il cambiamento era nell’aria da parecchio. Con la giunta precedente di centrodestra si era arrivati anche, piuttosto spudoratamente, a un bel progetto di sostanziale scatolonizzazione del tutto. Ovvero chiudere materialmente, con la scusa dell’aria condizionata, tutti gli ingressi, e “rilanciare” così gli esercizi commerciali. Lì la differenza coi grandi contenitori suburbani si assottigliava giusto alla mancanza dello svincolo, ma forse col tunnel Linate-Expo l’impagabile duo Moratti-Masseroli pensava di risolvere pure quel problema! Adesso salta fuori che una delle punte di diamante del jet-set fighettone, nientepopodimeno che Versace, ha presentato al comune un suo piano di rilancio e riorganizzazione di tutto quel bendiddio commerciale. Giunta Pisapia-Tabacci un po’ meno spudoratamente incline a inclinarsi in certe direzioni, oggi, ma il dubbio è lecito: che si vuol fare? Che tipo di management dovrebbe imperare dentro le prestigiose arcate del Mengoni, ed estendere i suoi effetti anche fuori? That’s the question.
Si discute proprio in questi giorni ad esempio dell’opportunità o meno della presenza di esercizi fast food, e comunque di attività relativamente “povere” rispetto al potenziale prestigio e ritorno economico di quegli spazi. Spesso si parla di superfici lasciate al degrado, o occupate da enti e associazioni che magari meglio starebbero in altri posti, lasciando campo libero a chi può pagare di più. La collettività ci guadagna, almeno se facciamo i conti solo col borsellino. Ma se facciamo i conti in un altro modo? Viene in mente il caso recentissimo di Zuccotti Park, che ha messo il marchio su una intera stagione di conflitto sociale e culturale. Quella piazza era qualcosa di simile alla Galleria, dal punto di vista del management, anche se il percorso è del tutto opposto. Si tratta del genere di spazi, privati ma aperti alla frequentazione pubblica, faticosamente introdotti nelle norme urbanistiche di New York (e di altre città americane) esattamente per superare le gravi lacune di spazio collettivo determinate da un’urbanistica storicamente disegnata dalle forze del mercato. Detto molto in breve, in cambio di un incremento di cubature il costruttore si impegna a lasciare e mantenere un arretramento dell’edificio rispetto al filo stradale, o altro tipo di organizzazione spaziale, da adibire a luogo di incontro, sosta, eventualmente attrezzato con verde, posti a sedere ecc. È il tipo di luoghi dove l’umanità metropolitana, a volte con risultati sorprendenti, prova in qualche modo a recuperare ciò che la città-macchina del Novecento pare avergli provvisoriamente strappato. Ne ha costruito una vera e propria sinfonia William “Holly” Whyte nel suo commovente documentario The social life of small urban places. (1980). Ma privati erano e privati restano: appunto i meccanismi dello sgombero di Zuccotti Park ci hanno raccontato fin nei particolari come si esercita il management spaziale nei casi di conflitto fra uso collettivo e proprietà privata.
Lo shopping mall è da sempre terreno di scontro per l’equilibrio fra utenza pubblica e spazio privato, al punto che esiste una ricca letteratura sociologica e giuridica a proposito. E in tempi più recenti l’attenzione si è concentrata anche sui processi di cosiddetta “mallizzazione della città”, ovvero quando soprattutto nei progetti di riqualificazione urbana vie e piazze smettono di essere tali, trasformandosi nel corridoio di un centro commerciale, che per esempio può chiudere la domenica, o di notte, e dove per esempio un vigilante privato ha una specie di potere di polizia discrezionale conferito da un management privato. Esistono però molte sfumature possibili, per questo oscillare fra il modello della via o piazza pubblica e il cortile privato aperto discrezionalmente al pubblico tipo Zuccotti Park. E vengono stabilite in sostanza dalla convenzione. Pare che nel caso di Milano (almeno così si capisce dalle prime notizie sui giornali) non venga messa in discussione la proprietà pubblica della Galleria. I potenti mezzi della multinazionale Versace riverseranno le proprie aspettative di valorizzazione sui modi d’uso, sulla gestione dello spazio. E qui potrebbe cascare l’asino, o no.
I casi sono due: reintegro obbligatorio dei cittadini in caso di espulsione, oppure monetizzazione del licenziamento e semplice indennizzo, da calcolarsi a cura dell’Assessore al Bilancio. Forse qui si potrebbe capire meglio l’idea di città della nuova amministrazione.
(di seguito, la notizia)
Rossella Verga, Grandi manovre sul Salotto, Corriere della Sera Milano, 6 aprile 2012
Cogestione pubblico-privato, cessione del 49 per cento delle quote, conferimento dell'immobile a un fondo. I contorni dell'operazione in fase di approfondimento a Palazzo Marino non sono ancora chiari, ma quel che è certo è che il Comune ha ricevuto una proposta di valorizzazione della Galleria dalla Fondazione Altagamma, che riunisce i più grandi nomi della moda e del design made in Italy e di cui è presidente l'onorevole Santo Versace. La notizia anticipata dal quotidiano Milano Finanza è stata confermata ieri dall'assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, e ha lasciato di sasso molti esponenti della maggioranza. «È arrivata una manifestazione di interesse — ha spiegato l'assessore —. Il sindaco si è riservato di approfondire e la prossima settimana incontrerà i vertici di Altagamma».
Cogestione pubblico-privato, cessione del 49 per cento delle quote, conferimento dell'immobile a un fondo. I contorni dell'operazione in fase di approfondimento a Palazzo Marino non sono ancora chiari, ma quel che è certo è che il Comune ha ricevuto una proposta di valorizzazione della Galleria dalla Fondazione Altagamma, che riunisce i più grandi nomi della moda e del design made in Italy e di cui è presidente l'onorevole Santo Versace. La notizia, anticipata dal quotidiano Milano Finanza, è stata confermata ieri dall'assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, e ha lasciato di sasso molti esponenti della maggioranza. «È arrivata una manifestazione di interesse — ha spiegato l'assessore uscendo dalla giunta —. Il sindaco si è riservato di approfondire e la prossima settimana incontrerà i vertici di Altagamma».
Sullo sfondo il Salotto di Milano, valore stimato attorno al miliardo di euro, che potrebbe essere trasformato in una vetrina mondiale di cui il Comune manterrebbe la proprietà con il 51 % del bene (che è inalienabile). Per la cessione delle rimanenti quote, Palazzo Marino avrebbe un incasso previsto di 450 milioni di euro. Più 35 milioni all'anno per gli affitti.
L'idea, accennata da Versace a Tabacci sugli scranni del Parlamento («Siamo vicini di banco alla Camera», ha ricordato scherzosamente l'assessore), è stata riassunta in una lettera datata 15 marzo e protocollata a Palazzo Marino. La Fondazione Altagamma, attraverso il suo segretario generale Armando Branchini, propone al Comune di «realizzare un piano di merchandising che possa coinvolgere l'intera struttura edilizia, compresi i piani superiori attualmente destinati a residenze o uffici e, comunque, sottoutilizzati», per realizzare nel tempo un centro dedicato «a design, arte, cultura, moda, ristorazione e prodotti alimentari». Una vetrina dei prodotti italiani soprattutto per stranieri.
Come? La proposta è quella del «conferimento del cespite a fondo immobiliare gestito da una società di gestione del risparmio». Verrebbe inoltre predisposto un «piano economico finanziario che preveda il mantenimento perpetuo della titolarità della proprietà al Comune attraverso la proprietà della maggioranza delle quote del fondo».Altagamma suggerisce quindi di «classare» la minoranza delle quote del fondo immobiliare (49%) «offrendo prelazione agli attuali conduttori». Incasso previsto per il Comune, appunto, 450 milioni. Nel tempo, inoltre, si propone di «prevedere l'adeguamento dei valori locativi in modo da ottenere per il Comune, a fronte della sua quota di maggioranza, canoni di affitto pari a circa 35 milioni di euro all'anno». Secondo la Fondazione, l'operazione determinerebbe un «volano di sviluppo del turismo finalizzato allo shopping dell'alta gamma italiana nei mercati extracomunitari». Con evidenti ricadute economiche, creazione di posti di lavoro e di servizi.
«Ci sono dei pareri da richiedere alle sovrintendenze — frena l'assessore Tabacci — ma l'idea è che la Galleria sia un bene di somma importanza che deve essere valorizzato al servizio dei milanesi. Non è un'offerta vincolante, è una manifestazione d'interesse». E ancora: «Non siamo un bancomat che deve sempre intervenire per tappare falle e gestire perdite. Bisogna che gli asset siano gestiti al meglio perché la crisi morde». Nessun commento sulle polemiche politiche e le prese di posizione dei consiglieri sulla necessità di garantire in Galleria presenze storiche e attività a prezzi accessibili. «Non vedo cosa ci sia di politico — ha tagliato corto Tabacci — per me ci sono cose serie e cose meno serie. Le botteghe storiche vanno tutelate nelle zone storiche».
Titolo originale: America’s romance with sprawl may be over – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Quasi tre anni dopo la fine ufficiale della recessione, che ha impedito materialmente di trasferirsi devastando con nuove lottizzazioni suburbane, la gente continua però ad evitare le fasce metropolitane più esterne, come confermano le previsioni dell’Ufficio Censimento. Crisi economica e pignoramenti hanno obbligato molti ad abitare in affitto. I costi lievitati dei carburanti hanno reso molto meno attraenti I lunghi percorsi quotidiani. E l’alto tasso di disoccupazione attira verso le concentrazioni di impiego. Il paese esce faticosamente dalla crisi, e a guidare la ripresa ci sono città e periferie consolidate. La crescita di popolazione nelle fasce più esterne si è quasi bloccata del tutto nell’anno statistico chiuso al luglio 2011. Per contro, le circoscrizioni centrali metropolitane crescono più rapidamente del paese nel suo insieme. "Un’ombra si addensa sulle fasce esterne" commenta John McIlwain, responsabile per la casa dell’Urban Land Institute, ente che promuove trasformazioni più sostenibili. "Pignoramenti, edifici invenduti, strade lasciate a metà. Non è certo un bell’ambiente. Fine del sogno".
Le nostre analisi dei dati mostrano che:
• Tranne due – in Michigan la Wayne (Detroit) e in Ohio la Cuyahoga (Cleveland) - tutte le 39 circoscrizioni di contea con popolazione oltre un milione dal 2010 al 2011 crescono.
• Ventotto fra queste grandi contee crescono più rapidamente del paese nel suo insieme, che ha la crescita più lenta dai tempi della Grande Depressione (0,73%). Per le contee invece il tasso è dell’1,3% mediamente (la metà più rapido, l’altra più lento).
Queste 28 — fra cui in California Alameda e Contra Costa, in Florida Broward e Hillsborough, in Texas Harris e Dallas — producono oltre un terzo della crescita totale Usa. Prima della recessione e della bolla edilizia, quando tutti parevano andare verso nuove aree ex agricole, questo contributo era al 27%.
"Si conferma il vantaggio localizzativo della grande città" commenta Robert Lang, professore di Studi urbani all’Università del Nevada di Las Vegas, e autore di Megapolitan America. "È in quel nucleo che sta la nostra forza come paese".
Le contee metropolitane più centrali pesano per il 94% della crescita Usa, contro l’85% prima della recessione.
"Potrebbe essere la fine dell’esurbio come luogo in cui tutti aspirano ad andare per far crescere la famiglia" commenta William Frey, demografo alla Brookings Institution. "Si sono scottati in parecchi. … Gente che comprava la prima casa, immigrati, minoranze, sono stati tutti molto colpiti". Nei periodi di scarsità dei carburanti negli anni ’70 e in quello di crisi del prestito anni '80 erano in molti a prevedere la fine dello sprawl suburbano. Non si è verificata allora, ma le tendenze attuali potrebbero cambiare in modo permanente le tendenze di sviluppo del paese. Chi invecchia e sta per andare in pensione, e la generazione dei Millennials, adolescenti o ventenni, paiono più propensi ad abitare in zone urbane, continua McIlwain. "Non sono certo che vedremo altro sprawl, anche se certe spinte continuano. Le amministrazioni ormai non ce la fanno più nemmeno a fare manutenzione stradale, o dei servizi a rete. … Viviamo nel secolo dell’urbanizzazione". Magari però, aggiunge Lang, "lo sprawl è un po’ il Freddy Krueger della crescita americana. Lo danno sempre per morto, ma poi risorge a nuova vita".
Gianni Rinaldini, Coordinatore nazionale dell’area “la Cgil che vogliamo”, esprime una valutazione molto netta e critica rispetto alla riforma del mercato del lavoro che il governo si appresta a varare. «Di fatto siamo di fronte ad uno svuotamento totale dell’articolo 18. Per una banale ragione: si tratta di un articolo fondato sul diritto alla reintegra sul posto di lavoro di fronte ad un licenziamento senza giusta causa.
Oggi, nella proposta del governo, fatto salvo i licenziamenti discriminatori, peraltro incostituzionali, il reintegro diventa un eccezione e non più la norma perché per i licenziamenti dovuti a ragioni economiche, si è modificata la legge del 1966, precedente allo Statuto e si risolve con una indennità monetaria. Per i licenziamenti dovuti a motivi disciplinari, dopo un lungo percorso che incentiva il lavoratore a concordare l’indennità, il giudice può decidere fra il reintegro o l’indennità. Quindi il reintegro è previsto soltanto in una tipologia nuova che è quella di un licenziamento discriminatorio camuffato da licenziamento economico su cui per altro si afferma che le ragioni economiche sono insindacabili da parte del giudice perché proprie dell’azienda.
Il significato dell’articolo 18 , “il lavoro non è una merce”, viene azzerato. L’attuale impianto - lo ha affermato con chiarezza ieri la Fornero - attiene ad una concezione proprietaria del posto di lavoro. Bisogna darle atto che ha esplicitamente dichiarato il senso profondo della riforma». E sull’intero impianto della proposta cosa pensi? «Una valutazione totalmente negativa nell’intero impianto delle risposte. L’ articolo 18 non è un sovrappiù, attraversa tutti gli altri aspetti della proposta, a partire da fatto che il primo contratto a termine o di somministrazione viene fatto con l’abolizione delle causali. Si badi bene non il primo per il lavoratore, ma per lo stesso padrone. Nelle forme di entrata c’è un allargamento fino al 100% dei dipendenti che possono ritrovarsi con contratti di apprendistato, una situazione non credibile e che serve solo a ridurre i costi per l’impresa. Tutte le altre forme di lavoro precario sono confermate. Sugli ammortizzatori non hanno pensato a nessun processo di universalizzazione, nonostante la crisi, oltre al fatto che anche lì si riducono i tempi per accelerare i licenziamenti.
Il tutto si incrocia in maniera pesantissima con la riforma delle pensioni e con il dramma degli “esodati”. Ti aspetti risposte dalla politica? «Il governo Monti sta applicando la lettera della Bce di agosto. Se uno se la va a rileggere c’è scritto già tutto. Siamo in una situazione farsesca. Tanto valeva che venisse nominato un commissario della Bce al governo. Sarebbe stata una scelta più corretta e senza infingimenti. La politica rappresentata in Parlamento è ingabbiata nel sostegno al governo. Alla fin fine nessuno ha intenzione di aprire un conflitto vero rispetto al governo Monti».
Sul significato del lavoro vedi su eddyburg l’ eddytoriale n. 144
Che cosa alimenta ogni giorno l´antipolitica, la fa crescere, la fa divenire un elemento che struttura la società e il sistema politico, che allontana i cittadini dall´idea stessa di partecipare alle elezioni, come dimostrano rilevazioni e sondaggi? Lo sappiamo, i fatti sono ormai da troppo tempo sotto gli occhi di tutti. E´ un viluppo di corruzione e privilegi, di uso privato di risorse pubbliche e di spudorata impunità, che è divenuto sempre più stringente, che soffoca una democrazia in affanno e ne aggrava una crisi già drammatica. Ed è proprio la politica, vittima di questa deriva, a farsene complice, comportandosi come se non fossimo di fronte ad una emergenza devastante, perché essa stessa ha finito con il radicarsi sul terreno concimato da un finanziamento pubblico ai partiti che ha tradito le sue ragioni ed è divenuto veicolo di nuove opportunità corruttive, di diffusione dell´illegalità.
A questi argomenti, o piuttosto constatazioni, si oppongono risposte indignate e virtuose. Basta con i moralismi, non si può fare d´ogni erba un fascio, non tutti i partiti sono allo stesso modo coinvolti negli scandali, i politici corrotti sono una minoranza. Ma queste sono parole ormai consumate, che suonano false. I politici onesti, i partiti che fanno certificare i loro bilanci non possono limitarsi ad essere i custodi della loro virtù. Essi, più d´ogni altro, hanno il dovere di agire, di pretendere un radicale mutamento, poiché non si può certo chiedere ai corrotti d´essere i protagonisti di una simile stagione.
Questi sono tempi di scoperte quotidiane dei modi fantasiosi in cui viene usato il denaro pubblico destinato ai partiti. Abbiamo conosciuto una nuova figura sociale, quella del tesoriere/faccendiere, sciolto da ogni vincolo, legittimato ad ogni impudicizia, milite ignoto per i leader dei partiti. Da lui si ritraggono, o meglio fingono di ritrarsi, i sodali di ieri. Ladri, pecore nere – questo sarebbero. E la responsabilità penale, come vuole la Costituzione, è e deve rimanere personale, non può contaminare gli altri dirigenti, gli onesti militanti. E così, per l´ennesima volta, viene eluso il nodo della responsabilità politica, che è assai diversa da quella penale, e ci si sottrae all´obbligo di mosse politiche impegnative, che avviino da subito quel tanto di rigenerazione di politica e partiti ancora possibile.
È di ieri la notizia che la commissione sulle retribuzioni di parlamentari e amministratori pubblici, affidata al presidente dell´Istat Enrico Giovannini, si è arresa, ha rimesso il suo mandato e ha invitato la politica a prendersi le sue responsabilità. Dal Governo è venuta la prevedibile risposta burocratica: «Proseguirà la propria azione nell´obiettivo di giungere ad una razionalizzazione dei trattamenti retributivi in carico alle amministrazioni pubbliche». E il Parlamento, e i partiti? Si rendono conto che l´uscita di scena di quella commissione non fa nascere un problema, ma è la caduta di un alibi? Il tempo è scaduto. Una agenda politica responsabile deve avere in cima la questione del finanziamento pubblico. In Parlamento sono state presentate molte proposte di legge, che qui non è possibile discutere nei dettagli. Ma è urgente una risposta immediata, anche nella forma di una disciplina transitoria, che blocchi definitivamente assurdità come il denaro a partiti inesistenti, ridimensioni radicalmente l´ammontare del finanziamento, imponga severissime regole di gestione e sanzioni penali adeguate. Un ceto politico con un minimo rispetto per se stesso, che aspiri ad una sopravvivenza rispettabile, o fa subito questo o è destinato ad essere giustamente sommerso dal discredito.
E tuttavia anche questa mossa non basterebbe in assenza della nuova normativa sulla corruzione, oggi impantanata e per la quale il Governo non ha impiegato un grammo di quella energia spesa nella battaglia ideologica sull´articolo 18, pur sapendo che la corruzione è un vero freno agli investimenti e allo sviluppo. L´invito alla trasparenza del Presidente della Repubblica cade al momento giusto. E dovrebbe indurre ad uscire dagli opposti estremismi che hanno contribuito a far degenerare la questione del finanziamento pubblico. A chi difendeva un finanziamento pubblico senza se e senza ma, infatti, si è opposta la pericolosa suggestione di un finanziamento tutto privato. Certo, un referendum abrogativo del finanziamento pubblico è stato colpevolmente aggirato e sono stati ignorati proprio gli inviti ad abbandonare un sistema che impediva nella sostanza ogni controllo sui bilanci dei partiti (ricordo le accuse di moralismo rivolte negli anni ‘80 a Gustavo Minervini e ai deputati della Sinistra Indipendente che insistevano testardamente su questo tema). Ma una politica tutta affidata solo al contributo dei privati è fatalmente destinata alla dipendenza del potere economico, alla creazione di diseguaglianze.
Questo tema è stato affrontato mille volte, ed è all´origine delle discipline sul finanziamento pubblico esistenti quasi ovunque, accompagnate però anche da limiti severi alle spese elettorali (in Francia Jack Lang perdette il suo seggio all´Assemblea nazionale per aver superato di poco la soglia fissata, mentre in Italia sono state cancellate tutte le pur modeste sanzioni previste dalle leggi). Proprio il costo delle elezioni divora la democrazia, come dimostra il loro vertiginoso accrescersi negli Stati Uniti, dove le nuove opportunità di raccolta di fondi direttamente dai cittadini, rese possibili da Internet, non hanno affatto ridimensionato il potere delle grandi imprese private, favorite da una "liberalizzazione" del finanziamento privato imposta dalla Corte Suprema. Non dimentichiamo che, all´inizio di questo millennio, alcuni senatori americani decisero di non riproporre la loro candidatura, dichiarando che il tempo da dedicare alla ricerca di fondi superava ormai quello dedicato allo svolgimento dei compiti pubblici.
Un filosofo liberale, John Rawls, ha proposto che le campagne elettorali dovrebbero essere finanziate solo da fondi pubblici eguali per tutti i candidati, proprio per neutralizzare il potere del denaro. Pur senza accogliere questo suggerimento ragionevole e radicale, è ovvio che sono necessarie forme di incentivazione fiscale del finanziamento privato, accompagnate però da una totale pubblicità del nome d´ogni finanziatore. E non dimentichiamo, tornando a casa nostra, che il Pdl si fonda su una gigantesca fideiussione concessa da Silvio Berlusconi. Chi altri potrebbe fare lo stesso? E come non concludere che chi paga dall´interno diventa padrone del partito e della sua politica? E non dimentichiamo che l´unica opera di difesa della legalità possibile in questa materia viene, ancora una volta, dalla magistratura. Non a caso la sua affidabilità è grandemente cresciuta presso l´opinione pubblica, mentre precipita quella di Parlamento e partiti.
Il nuovo Consiglio comunale di Milano eletto nel mese di maggio 2011 ha revocato la deliberazione con cui il precedente Consiglio comunale aveva approvato il Piano di Governo del Territorio, deliberazione che però non era stata pubblicata cosicché il PGT non era entrato in vigore; il procedimento è quindi regredito alla decisione sulle osservazioni presentate al piano adottato e alla conseguente approvazione del PGT. Nell’imminenza della ripresa dei lavori del Consiglio comunale sul nuovo strumento urbanistico si intensifica anche il dibattito su un aspetto fondamentale del PGT adottato, quello della perequazione urbanistica, che presenta aspetti problematici ben illustrati da Roberto Camagni, PGT: un uso improprio della perequazione.
In vista del nuovo PGT, Osmi Borsa immobiliare, Azienda speciale della Camera di Commercio di Milano, ha promosso una ricerca (M. De Carli, a cura di, La libera circolazione dei diritti edificatori nel comune di Milano e altrove. Urbanistica, diritto civile, diritto amministrativo, fiscalità, catasto, servizi al mercato, Franco Angeli, 2012) che è stata presentata il 22 marzo 2012, per iniziativa congiunta della stessa Osmi e del Consiglio notarile di Milano, in un convegno dedicato alla “Borsa dei diritti edificatori. Verso un mercato immobiliare trasparente per la circolazione dei diritti”. Il convegno ha mostrato vari problemi connessi alla realizzazione di un vero mercato dei diritti edificatori e la necessità che il dibattito prosegua con molti approfondimenti, previa attenta riflessione sui risultati della ricerca.
In effetti la perequazione prevista dal PGT adottato è profondamente innovativa rispetto ad altre forme di perequazione urbanistica sperimentate già da tempo. Si tratta infatti di una perequazione estesa (quasi all’intero territorio del Comune, più esattamente agli ambiti del Tessuto Urbano Consolidato) o sconfinata, e non limitata a specifici ambiti soggetti a pianificazione attuativa (perequazione di comparto). Si tratta peraltro di una perequazione che poggia su basi normative molto esili: due disposizioni della legge regionale sul governo del territorio e la recente modifica del codice civile che ha assoggettato a trascrizione i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori, comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale (l.r. 12/2005, art. 11, commi 2 e 4; d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106, art. 5, comma 3, che ha modificato l’art. 2643 del codice civile). Per il resto la perequazione si fonda esclusivamente sullo stesso PGT.
Si esaminano qui, sulla sola base della presentazione della ricerca, tre aspetti problematici di un possibile futuro mercato dei diritti edificatori.
Nel convegno è stato rilevato che la mancanza di una specifica disciplina tributaria dei contratti di trasferimento dei diritti edificatori costituisce un serio ostacolo allo sviluppo di un vero mercato. Un’ipotesi è la tassazione di questi contratti con lo stesso regime ordinario dei contratti di compravendita immobiliare, quindi con un’aliquota complessiva dell’undici per cento (otto per cento per l’imposta di registro; due per cento per l’imposta ipotecaria; un per cento per l’imposta catastale). In ogni caso, dopo il richiamo a questa ipotesi che non ha fondamento normativo espresso, è stata avanzata la richiesta di una tassazione con aliquote non espropriative, sia pure senza precisare quando un’aliquota debba essere considerata espropriativa. Al riguardo si osserva che l’aliquota ordinaria dell’Iva è il ventuno per cento, di prossima elevazione al ventitré per cento, e che l’aliquota del primo scaglione dell’Irpef, per i redditi fino a 15.000 euro, è ugualmente il ventitré per cento. Dunque per i due più importanti tributi, rispettivamente sui consumi e sul reddito, con amplissima platea di contribuenti, è stabilita un’aliquota più che doppia rispetto all’attuale tassazione dei contratti immobiliari. Si può osservare inoltre che la base imponibile ha natura assai diversa da quelle dell’Iva e dell’Irpef, trattandosi di operazioni su diritti, ma più esattamente su rendite derivanti dalla pianificazione, senza impiego di capitali e senza alcun concorso del lavoro umano. E poiché il governo attualmente in carica ha inserito tra i suoi obiettivi il contrasto delle rendite (cominciando da tassisti, farmacisti e notai), sembra di doversi attendere che esso, per coerenza, prosegua anche con un’equa tassazione dei contratti di trasferimento dei diritti edificatori.
Un secondo problema chiaramente emerso nel convegno è quella della peculiarità dei diritti edificatori, difficilmente assimilabili ai beni mobili e ai valori mobiliari oggetto di scambio nelle borse. Le aree sono per definizione infungibili, giacché ciascuna di esse ha caratteristiche sue proprie che la contraddistinguono. Il valore dei diritti edificatori dipende molto largamente dalle caratteristiche specifiche delle aree in cui essi vengano sfruttati, cioè dalle caratteristiche delle aree di atterraggio, secondo il lessico ormai diffuso (che induce a parlare simmetricamente di aree di decollo e di volo per il trasferimento dei diritti). Perché si realizzi un mercato dei diritti edificatori veramente trasparente non è sufficiente che il Comune stabilisca la quantità complessiva di diritti edificatori (che dipende dall’indice di utilizzazione territoriale prescelto e dall’estensione complessiva delle aree cui esso viene assegnato), ma occorre valutare anche lo specifico vantaggio per le singole aree di atterraggio. Si dovrebbe quindi escludere l’acquisto di diritti edificatori senza contestuale precisa individuazione delle aree di atterraggio.
Il terzo problema emerso nel convegno è quello della stabilità dei diritti edificatori, premessa indispensabile per lo sviluppo di un vero mercato. Il tema è stato accennato in modo problematico, nella consapevolezza che le decisioni amministrative, comprese quelle relative di pianificazione urbanistica, sono sempre suscettibili di revoca o modificazione per sopraggiunti motivi di pubblico interesse. È stata però anche prospettata in modo deciso, e senza alternative, una soluzione: i diritti edificatori dovrebbero intendersi attribuiti dal PGT a titolo definitivo e quindi, in caso di modifica del sistema perequativo previsto dal PGT, dovrebbero costituire oggetto di espropriazione con corresponsione di indennizzo.
Questa soluzione è molto discutibile. L’indice di utilizzazione territoriale è attribuito dal PGT adottato a titolo gratuito, senza alcun corrispettivo a carico dei proprietari dei terreni. Questi ultimi saranno chiamati a un sacrificio economico solo nel caso in cui decidano di utilizzare effettivamente il diritto edificatorio (proprio o acquistato), in attuazione del normale e civilissimo criterio, stabilito in forma generale trentacinque anni fa dalla legge Bucalossi, per cui ogni attività comportante trasformazione urbanistica e edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri relativi. Nel convegno non è stato chiarito perché mai il Comune dovrebbe garantire, in caso di variazione del PGT, di riacquisire mediante espropriazione, quindi a titolo oneroso e a spese della collettività, diritti edificatori attribuiti a singoli proprietari a titolo gratuito: l’unica giustificazione data è che questa garanzia è indispensabile per far veramente decollare (sempre secondo il lessico aviatorio del tema) il mercato del trasferimento dei diritti edificatori.
Sul punto va ricordato un caposaldo del nostro ordinamento, risalente anch’esso alla legge Bucalossi. Il diritto di proprietà dei suoli legalmente non comprende il diritto di edificarli o lo comprende in misura minima. In assenza di piano urbanistico comunale all’interno dei centri edificati non sono consentite nuove costruzioni, ma solo interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di risanamento conservativo di singole unità immobiliari esistenti; fuori del perimetro dei centri abitati l’indice di densità ammesso per le nuove costruzioni è quello, molto basso, di 0,03 metri cubi per metro quadro. Questa disciplina, oggi contenuta nel testo unico in materia edilizia, è derogabile dalle leggi regionali solo in senso più restrittivo e ha carattere non esclusivamente urbanistico: si tratta di limiti che attengono alla definizione del contenuto del diritto di proprietà e che quindi rientrano nella competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile. Solo la pianificazione urbanistica comunale può creare edificabilità maggiore di quella legale: ma la pianificazione comporta esercizio di poteri pubblici, senza oneri a carico dei proprietari e senza accordi o convenzioni che implichino negoziazione, scambio di consenso tra le parti e quindi stabilità dell’assetto dei conseguenti rapporti.
La pretesa che, in caso di variazione del PGT, i diritti edificatori già attribuiti ma non effettivamente utilizzati costituiscano oggetto di espropriazione con conseguente corresponsione di indennizzo, implica il riconoscimento al Comune del potere di variare in via semplicemente amministrativa il regime del diritto di proprietà che invece è soggetto, per Costituzione, a riserva di legge statale.
D’altra parte la perequazione sconfinata prevista dalla legge regionale sul governo del territorio non è obbligatoria, ma costituisce una semplice facoltà. Il Comune che non abbia fatto ricorso alla perequazione potrà sempre mutare, nel rispetto della disciplina del governo del territorio, le previsioni di edificabilità che non si siano ancora realizzate senza alcun indennizzo; bisognerebbe spiegare perché mai ciò dovrebbe invece essere precluso al Comune che abbia fatto ricorso alla perequazione sconfinata, benché nulla al riguardo sia espressamente stabilito dalla legge.
Il dibattito sulla perequazione certamente proseguirà e probabilmente avrà sviluppi nella legislazione statale non soltanto per gli aspetti fiscali, ma anche per quelli relativi al catasto e all’incidenza dei diritti edificatori sui beni del demanio. Ma si prospetta l’esigenza che in questo dibattito sia recuperato un valore fondamentale e irrinunciabile. La perequazione è soltanto uno strumento volto a creare indifferenza dei proprietari rispetto alle scelte di pianificazione e quindi a evitare indebite pressioni sugli amministratori pubblici. La perequazione peraltro, secondo i modi in cui concretamente regolata dal PGT, non dovrebbe comportare una indebita riduzione del ruolo del Comune nel governo del territorio, non dovrebbe produrre nuove sperequazioni e in ogni caso non deve mutarsi in un fine dell’amministrazione.
Il fine del PGT non è la perequazione, che non può essere compiutamente realizzata in via amministrativa ma richiede invece sicuramente nuova disciplina normativa statale. Il fine del PGT è invece il miglior assetto del territorio comunale per la creazione di un ambiente urbano equilibrato, gradevole, con soddisfacenti rapporti tra spazi edificati privati e spazi pubblici, con un sistema di mobilità adeguato ed efficiente, con una distribuzione delle funzioni che favorisca l’integrazione sociale, con un’adeguata disponibilità di opere di urbanizzazione, e infine, per quanto possibile, con un’architettura di qualità per una città bella.