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È troppo semplicistico dire che i mercati sono crollati a causa della semi-vittoria di Hollande. La settimana scorsa erano pure crollati, per qualche altra ragione. È un bel po´ di tempo, almeno da luglio dello scorso anno, che ci siamo abituati a questa volatilità mozzafiato. E ogni volta si cerca ex post di trovare qualche ragione. Ora è la paura del socialismo: chissà, forse gli operatori sui mercati lo temono veramente, magari perché vedono la giustizia sociale come abbinata a nuove tasse, ma io non l´ho mai creduto neanche un momento. I mercati crollano oggi come ieri, e crolleranno ancora chissà quante volte, perché non è stato risolto il problema di una governance europea innanzitutto che esista, nel senso che si crei una struttura centrale in grado di dettare precise linee di azione, e poi che metta al primo posto i problemi della crescita e non dell´austerità a tutti i costi.

Altrimenti viviamo nella schiavitù dei mercati: quando crollano è come se chiedessero austerità, i governi magari ubbidiscono e poi dopo un po´ di tempo i mercati si accorgono che senza crescita le imprese non possono creare ricchezza, e allora i mercati crollano di nuovo. Tutto questo peraltro va nell´interesse degli speculatori: finché ci sarà questa volatilità esisteranno sempre ampie possibilità di guadagni per chi gioca con freddezza e spregiudicatezza sui mercati.

Il problema insomma non è Hollande. Va anche detto che pure Sarkozy negli ultimi tempi ha preso le distanze dalla rigidità della Merkel, l´asse franco-tedesco dava parecchi segnali di scricchiolio. Al punto che ora non so quanto il rinnovato appoggio della Merkel all´attuale presidente possa dirsi benaugurale: ho l´impressione invece che finirà col sottrarre voti a Sarkozy, una specie di consenso avvelenato, perché la Merkel sarà anche stimata dalle classi dirigenti ma non ha più un vasto consenso popolare, tantomeno in Francia. E quello che conta in un´elezione è il voto del popolo.

In ogni caso, Hollande è stato più chiaro e deciso: ha detto senza equivoci che il fiscal compact così com´è non va, e visto che dev´essere ancora ratificato si può, anzi si deve correggere in modo da orientarlo di più verso la crescita. Altrimenti l´Europa andrà a sbattere contro un muro. È questo il vero problema. Altrimenti si andrà avanti con una debolezza strutturale dell´Europa che inquina lo stesso rapporto fra politica e mercati. Il problema va preso molto sul serio. Nel momento in cui ci renderemo conto che i mercati tutelano la politica, sarà già troppo tardi, perché non ci sarà più spazio per la democrazia. E questo la popolazione non potrà mai tollerare in nessuna parte del mondo. Dunque la normalità è che siano i governi a tutelare i mercati. E i mercati a loro volta sanno che sono sottoposti al rischio di non poter sopravvivere senza l´aiuto dei governi. Questa è stata la grande lezione della crisi finanziaria: dire che bisogna cambiare il voto perché sennò si fa dispiacere ai mercati significa aprire una ferita nella democrazia.

(Testo raccolto da Eugenio Occorsio)

L'Accordo di programma è stato approvato nel 2009. La firma al Piano Integrato d'Intervento risale invece ad un anno fa, al 15 aprile 2011. Ora, il progetto per il Cerba è tornato sul tavolo del sindaco Giuliano Pisapia, accompagnato da una lettera del presidente della Fondazione, il professor Umberto Veronesi, anima e testa di questa idea «che porterebbe a Milano il centro di ricerca biomedica più avanzato d'Europa». Il tema è caldo, anche perché in questi ultimi giorni si è dibattuto dell'ubicazione della Città della Salute che invece unirebbe Istituto dei Tumori e Besta (sulle aree ex Falck di Sesto, o come suggerito dal Comune, nella ex caserma Perrucchetti?).

Il progetto del Cerba nasce prima. E, nel frattempo, qualcosa è cambiato: nel senso che i terreni sui quali dovrebbe sorgere questo centro multifunzionale (raggrupperebbe lo Ieo, il Monzino e il Besta) erano originariamente di proprietà della società Im.Co del gruppo Ligresti per la quale i pm hanno appena chiesto il fallimento. Ma, prima ancora dell'intervento del tribunale, si era già deciso di affidare le aree a un fondo di investimento che comprende una serie di banche, tra cui Unicredit, che gestirebbe l'intera operazione finanziaria: a costo zero per gli enti pubblici.

Nel suo studio, il professor Veronesi parla con passione di un progetto «anticipatore dei tempi, visto che in un prossimo futuro la sanità dovrà cambiare molte delle sue politiche e strategie». Anzitutto perché, «abbiamo avuto la rivoluzione del dna, che ci impone una ricerca difficile e costosissima». Poi, perché «stiamo assistendo ad una continua evoluzione della tecnologia anche in campo medico». Infine perché «dobbiamo definire un nuovo rapporto tra medico e paziente, che si deve riflettere anche in un diverso modo di concepire le architetture ospedaliere». Il Cerba potrebbe anticipare i tempi proprio perché riuscirebbe a dare una risposta a tutte queste rivoluzioni. «Unire tre istituti di eccellenza — riassume Veronesi — significa creare un grande centro di ricerca sul Dna che può servire l'oncologia, la cardiologia e la neuroscienza: così, gli apparecchi diagnostici e di cura sarebbero a disposizione di tutti e sarebbe più semplice ammortizzare i costi elevatissimi». Per quanto poi riguarda l'aspetto umano, il disegno del Cerba, elaborato dall'architetto Renzo Piano, abbraccia e traduce in urbanistica la filosofia del «malato al centro» garantendo tra l'altro che metà dei terreni, quindi oltre 300 mila metri quadrati, saranno destinati a parco pubblico.

«Una Città della Salute — incalza il sociologo Guido Martinotti — va sostenuta in tutti i modi. E ci sono almeno tre motivi per cui vedrei bene il progetto Cerba. La prima è che quell'area abbandonata rappresenta oggi una sorta di buco, alla fine della città urbanizzata e prima dello Ieo: certo, è all'interno del Parco sud ma al Parco sud va data qualche funzione urbana, altrimenti finisce degradato, come in questo caso, o mangiato poco alla volta da speculazioni incontrollate». Secondo tema posto da Martinotti è che «questa zona è facilmente accessibile con le auto e i mezzi, al contrario ad esempio di quello che succederebbe se si realizzasse la Città della Salute nel cuore di Milano, dove c'è la Caserma Perrucchetti». Infine, «lo sviluppo delle periferie va equilibrato. Un centro di ricerca a Sesto sovraccaricherebbe il nord Milano, mentre c'è bisogno di qualificare la zona sud della città».

Insiste Veronesi: «Il nostro è un progetto modulare e flessibile, che consentirebbe di riattivare la parte agricola, di valorizzare un'area oggi abbandonata e di rappresentare un'eccellenza per Milano». Quanto ai tre istituti, «ciascuno manterrebbe la propria autonomia giuridica e amministrativa», godendo dei vantaggi della vicinanza: «Avremmo un'unica piattaforma in cui condividere conoscenze e tecnologie, realizzando sinergie e diventando punto di riferimento per i pazienti che qui troveranno le cure migliori e la migliore ricerca».

postilla

Ormai ci restano solo due certezze: 1) il Corriere della Sera non è la Pravda , nel senso che non segue una precisa, granitica, immutabile linea, e 2) il giornalismo di inchiesta, che tallona la notizia e i suoi protagonisti, sta un pochino fuori dalla grande tradizione italo-meneghina. Avevamo salutato con favore l’emergere sulla stampa locale di una “scoperta”, ovvero che il problema della salute, della ricerca scientifica, del ruolo socioeconomico di Milano, era difficile da valutare pensando costantemente al rapporto fra metri quadri, metri cubi, localizzazioni e relative proprietà e interessi. Certo quello poteva essere – le cose vanno anche così – uno dei motori per avviare la macchina, ma la questione non si poteva mortificare in quel modo. E invece rieccoci al punto di partenza, stavolta coinvolgendo oltre al solito Veronesi (detentore del brevetto eccellenza scientifica = scelta dell’area) anche il sociologo Guido Martinotti, che famoso per aver divulgato il concetto dei flussi vaganti di city users metropolitani adesso evidentemente si presta per dichiarazioni à la carte anche sul ruolo della greenbelt (che sarebbe valorizzata costruendoci sopra la famosa eccellenza). Evidentemente travolta dall’entusiasmo, la prosa dell’articolo si spinge a tirar dentro l’allegra compagnia anche l’archistar Renzo Piano, attribuendogli il progetto del Cerba: ma non era dello studio di Stefano Boeri? Basterebbe dare un’occhiatina veloce ai ritagli di qualche anno fa per verificarlo, inclusi quei renderings con la via Ripamonti a sei corsie ma verniciate di verde per non dare nell’occhio, o le colline dell’Oltrepo traslocate per l’occasione a ridosso della Tangenziale. Insomma, parafrasando il Grande Timoniere: grande è la confusione sotto il cielo, e qualcuno ci marcia alla grande. O almeno ci riprova (f.b.)

(per i lettori occasionali del sito: i "ritagli" del dibattito pregresso a cui si riferisce la postilla sono tutti disponibili anche su queste pagine, stessa cartella Milano, a decine: basta sfogliare, miracoli della scienza anche senza metri cubi!)

Entusiasmo, curosità e una coda lunghissima a Porta di Roma per l'attesa inaugurazione del secondo negozio della Mela. Tra le coreografie dei commessi in maglietta blu e la curiosità dei clienti 'normali' del centro commerciale a ridosso di Montesacro che guardano dall'alto della scala mobile il rito della tribù del Mac

Ci sono gli estremisti, i moderati e quelli che "stamo qui pè dà n'occhiata". L'apertura del nuovo Apple store di Porta di Roma, il secondo della capitale dopo quello di Roma est, ha richiamato come di consueto i fan più accaniti della Mela, in coda da ieri pomeriggio con tanto di zaino, sacco a pelo e occhiali da nerd. Poi ci sono i semplici appassionati, in fila 'solò dalle 7 di stamattina , regolarmente armati di iPhone, iPad e iPod e i curiosi, attratti dall'evento e dalla t-shirt data in dono per l'evento.

Alle 9.50 i ragazzi dello Store, con la maglietta blu e la mela bianca sul petto, si schierano davanti all'enorme porta a vetri chiusa. Al di là, i clienti-fan guardano incuriositi. Al via di un regista, anche lui in maglietta di ordinanza blu, parte il ballo: sulle note di una play list scatenata tutti si lanciano in una coreografia degna di 'Saranno famosi', mentre all'esterno il pubblico tiene il tempo, applaude e ammira la mela disegnata sui capelli di uno dei commessi-ballerini.

Poi tutti fuori a 'battere il cinquè e stringere mani, tra applausi, urla e cori da stadio ("Porta de Roma, aprimo Porta de Roma"), sotto lo sguardo divertito e un po' perplesso dei clienti 'normalì del centro commerciale a ridosso di Montesacro, che guardano dall'alto della scala mobile il rito della tribù del Mac. Dieci secondi prima delle 10 parte il count-down e quando si aprono le porte i primi due clienti vengono salutati da una ola di magliette blu.

Il grande Store, più ampio rispetto all'altro di Roma Est, in pochi minuti si riempie di persone di tutte le età. I commessi in doppia fila accolgono i nuovi clienti, e il loro "Ooohhh" di benvenuto andrà avanti per tutta la mattina.

Qui non si parla di cifre. I responsabili della Mela non si sbilanciano in previsioni, nè azzardano confronti con i volumi di affari del ''vecchio'' negozio né spiegano il perché della scelta di aprire i due Store nello stesso 'quadrante est' della capitale. Quello che è certo è che il negozio del centro commerciale Roma est aveva raggiunto un livello di affluenza di pubblico che, forse, cominciava a creare problemi di logistica, in particolare per i servizi di assistenza del Genius bar e dell'area start up. Altro dato certo è che la nuova iniziativa ha dato lavoro ad una novantina di ragazzi. E in un prossimo futuro, ma è un 'si dice', l'altro Store sarebbe destinato ad ampliarsi.

Ma sono problemi che, almeno oggi, non toccano i fan Apple, che emergono dal caos dell'inaugurazione con la faccia soddisfatta e una della mille maglietta-ricordo distribuite in un paio d'ore. Per molti di loro, quel logo della mela morsicata stampato sulla t-shirt, più che un brand è uno stile di vita.

«Solo con questo spirito si esce dalla crisi». Ha ragione Carlo Guglielmi, presidente di Cosmit, nel sottolineare la volontà del settore design di «uscire dalla recessione senza chiedere l'aiuto di nessuno», lavorando per Milano e per tutto il Paese. Il risultato è stato un grandissimo Salone, in grado di attrarre migliaia di aziende e centinaia di migliaia di visitatori da tutto il mondo. La Milano di questi giorni è lontanissima dalla città statica a cui siamo abituati. Internazionale e positiva, aperta e rivolta al futuro: grazie ad aziende e progettisti, buyer e creativi, allestitori e addetti stampa, la Milano del Salone del Mobile sembra farci dimenticare la crisi economica e i suoi devastanti effetti. L'energia positiva che la percorre è la miglior risposta al pessimismo. Senza contare l'indotto legato ai visitatori: lavoro per alberghi, ristoranti e negozi in genere.

Bilancio più che positivo, che ha messo in luce un duplice aspetto: la capacità del settore di affrontare la crisi e la larghissima partecipazione di giovani progettisti e, dunque, di «futuro». Purtroppo, questo miracolo di dinamismo ha vita breve: una settimana. Ma, dato che il design è l'unico settore in cui Milano può vantare un primato internazionale, perché non puntarvi maggiormente, trasformando la città in un perenne festival della creatività? Gli effetti, sull'immagine e sull'economia milanesi, sarebbero immediati. Basterebbero poche e semplici idee, realizzabili grazie alla collaborazione fra settore pubblico e privato. A Milano esiste già una formidabile rete costituita da scuole e università, showroom e negozi, aziende e laboratori artigianali. E non dimentichiamo le fondazioni dedicate a maestri come Franco Albini, Achille Castiglioni e Vico Magistretti, i cui archivi contengono una documentazione in alcuni casi ancora inedita e ricca di sorprese. Una rete che potrebbe essere potenziata, con l'aiuto di Cosmit.

Investimenti sui giovani, con ospitalità periodiche a designer provenienti da vari Paesi, grazie all'amministrazione comunale; scambi con università straniere che facilitino il ricambio generazionale dei creativi; esposizione, in strutture comunali, musei e teatri, di pezzi prestati, a rotazione, dalle varie aziende, che, immaginiamo, sarebbero liete di far conoscere la loro produzione; arredi urbani progettati e realizzati da giovani utilizzando materiali di riciclo; convegni e seminari distribuiti nell'arco dell'anno; una giornata al mese dedicata al design. Milano potrebbe diventare una perenne vetrina, un luogo da cui chiunque si occupi di disegno industriale deve passare. Non soltanto per pochi giorni.

Il design è cambiato. Non esiste più una scuola milanese: il mondo, ora, viene a Milano per far produrre i suoi oggetti. Qui può trovare una qualità e una raffinatezza di esecuzione che non hanno uguali. Proprio questo è l'aspetto su cui puntare per il futuro. Si è sempre cercato di definire Milano in vari modi, dimenticando quella che sarebbe una definizione perfetta: fabbrica di bellezza.

Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» lascia volutamente scoperta la questione del programma perché ne affida l'elaborazione al processo di partecipazione democratica che intende innescare tanto all'interno del «soggetto nuovo» quanto nelle sedi di democrazia sia partecipata che rappresentativa che cerca di promuovere o rinnovare. Tuttavia, poiché «non c'è più tempo» per gli indugi, il problema va affrontato parallelamente al processo di costruzione delle nuove istanze, tenendo presente che l'elaborazione di un programma è un importante momento di autoformazione e di educazione alla cittadinanza. E, quindi, di superamento della dicotomia dirigenti/diretti e anche - forse - di quella privato/politico; ma è anche uno strumento di promozione, di generalizzazione e di collegamento delle lotte che sono all'origine, manifesta o latente, della domanda politica a cui il «Manifesto» intende dare risposta. Bene hanno fatto quindi Lucarelli e Mattei a dare inizio al dibattito sul programma (il manifesto del 17.04). Aggiungo questo mio contributo. Non ci troviamo di fronte a una «tabula rasa»: possiamo contare su una molteplicità di esperienze, di conflitti e di buone pratiche che hanno bisogno soprattutto di aver voce in un contesto più generale: cosa che finora è stata loro negata. Ma i nodi da sciogliere, o da non eludere, tra coloro che si riconoscono o si riconosceranno nel processo che il «Manifesto» intende promuovere sono molti.

Innanzitutto partecipazione vuol dire esercizio o rivendicazione di sovranità, in contrapposizione alla soggezione ai meccanismi di mercato e a quella corsa al ribasso delle condizioni di lavoro, del reddito, del welfare, della salute fisica e mentale che accompagna la globalizzazione. La strada per sottrarsi alla competizione senza tregua imposta dalla globalizzazione non è il protezionismo, bensì la riterritorializzazione dei processi economici: il riavvicinamento, sia fisico («km0») che organizzativo (accordi di programma per la condivisione di oneri e rischio) tra produttori e consumatori (o utilizzatori, o beneficiari) di beni e servizi. La sovranità praticata o rivendicata attraverso processi partecipativi non può né deve arrestarsi alle porte dell'impresa; ma anche in questo ambito non riguarda solo le maestranze nel loro conflitto latente o manifesto con la proprietà e il management, bensì l'intera comunità dei lavoratori, dei consumatori, degli utilizzatori dei beni e dei servizi prodotti, dei cittadini esposti agli impatti ambientali e sociali delle sue attività. La cosiddetta «responsabilità sociale dell'impresa» non può essere affare esclusivo dell'imprenditore o del management; deve essere il risultato di un coinvolgimento di tutti coloro che dell'impresa condividono sorti e conseguenze.

Esercizio di sovranità

Per questo la sovranità esercitata o rivendicata attraverso la democrazia partecipativa, innanzitutto a livello territoriale, attribuisce al governo locale due ruoli irrinunciabili. Primo, «aggregare» o sostenere «aggregazioni» di domanda per favorire il passaggio da modalità individuali di rapporto con il mercato a forme condivise di fruizione o di «consumo». Gli acquisti condivisi (l'esempio più semplice ne sono i Gas, Gruppi di acquisto solidale), oltre alla spinta verso una maggiore territorializzazione, sono anche un potente strumento per scardinare la separazione tra pubblico e privato, tra produzione e consumo, tra ruoli maschili e femminili tradizionalmente ricondotti alla differenza di genere. Secondo, «fare impresa» o, meglio, sostenere il «fare impresa» (sociale, cooperativa, individuale; o semplice associazione; o, quando è il caso, ente di diritto pubblico) della cittadinanza attiva: per sviluppare attività produttive e creare occupazione dove l'«iniziativa privata» non è presente o non interviene in maniera adeguata. La sacrosanta rivendicazione di un reddito di cittadinanza per tutti non può essere separata dalla possibilità di proporre, sottoporre a verifiche collettive e realizzare iniziative imprenditoriali finalizzate a integrare la dotazione produttiva e le opportunità occupazionali di un territorio; perché questa è una componente irrinunciabile della democrazia partecipativa.

Le priorità del processo di ri-territorializzazione sono l'esercizio della sovranità - o la lotta per conquistarla - in alcuni ambiti strategici: energetico, agroalimentare, nella gestione del territorio, in campo culturale e in quello finanziario. La sovranità di un territorio in campo energetico è un portato consequenziale della transizione da un'economia fondata sui combustibili fossili a un'economia basata sulle fonti rinnovabili e sull'efficienza energetica: del passaggio, cioè, dai grandi impianti centralizzati e accentrati in grandi corporation a sistemi energetici differenziati, complementari, distribuiti, decentrati e diffusi sul territorio; più tutto quello che produce efficienza nel campo dell'edilizia, della mobilità, dell'impiantistica, della gestione delle risorse e dei rifiuti e che richiede anch'esso forti livelli di decentramento e di differenziazione.

La sovranità alimentare è consustanziale alla transizione da un'agricoltura monocolturale, industrializzata, interamente basata su input di origine fossile e su un'industria agroalimentare accentrata a livello mondiale a un'agricoltura di prossimità, in rapporto diretto con i consumatori e le loro organizzazioni, ecologica, multicolturale e multifunzionale; e a un'industria agroalimentare ad essa integrata. La sovranità nella gestione del territorio è la rivalutazione dell'ambiente come bene comune, la cui salvaguardia, a beneficio delle generazioni attuali e future, deve coinvolgere ed essere affidata a chi su quel territorio vive e lavora: per preservarlo da usi che ne alterano o distruggono caratteristiche idrogeologiche e potenzialità agronomiche, depurative, estetiche, produttive e insediative. La sovranità culturale non significa chiusura del territorio e delle comunità che lo abitano in identità anacronistiche e fittizie, ma possibilità di ogni territorio di essere un centro di recepimento, di adattamento, di rielaborazione e di diffusione di culture e saperi che i mezzi di comunicazione hanno reso «universali» perché universalmente fruibili e che dovrebbero entrare a far parte di un sistema di educazione permanente. Sovranità finanziaria, infine, significa che ogni territorio deve disporre delle risorse finanziarie necessarie a sostenere il perseguimento di questi obiettivi.

Una transizione partecipata

Non so quanto un approccio del genere, che vuole essere solo un criterio di inquadramento dei problemi, sia condiviso; esso rimanda comunque ad alcuni nodi con cui deve confrontarsi qualsiasi altra impostazione programmatica. Innanzitutto, in un processo imperniato sulla partecipazione come fattore decisivo della transizione verso nuovi assetti sociali (equità) e ambientali (sostenibilità), la definizione di un programma non può limitarsi a un'enunciazione, per quanto articolata, di obiettivi. Centrale è il problema del «chi fa che cosa» ed è evidente - ma il problema non è certo solo italiano - che né alla classe imprenditoriale e manageriale, né alla «casta» politica attuali può essere demandato il compito di darvi attuazione (per questo mi lasciano perplesso le proposte di rifondare l'Iri o cose del genere). Il che non esclude, ma anzi richiede, che da quegli ambiti si riesca a recuperare il maggior numero possibile di soggetti disposti a collaborare con la transizione. Decisivi sono quindi la formazione e il consolidamento di una cittadinanza attiva. La democrazia partecipativa può e deve essere una «scuola» per questo; ma sedi di formazione molto più specifiche sono già in parte molte esperienze pratiche di altraeconomia, di imprese sociali, di gruppi di acquisto, di associazioni e comitati territoriali che si stanno moltiplicando in questi anni. D'altronde è evidente che un programma di respiro generale non può affermarsi, per ora, che «spezzettato» in una molteplicità di iniziative locali. Le situazioni di maggiore crisi - ambientale, territoriale, di governance, ma soprattutto occupazionale (e gli esempi sono infiniti) - sono per forza di cose centri di applicazione privilegiati per la messa a punto dell'articolazione locale di un programma generale, per la sua traduzione in piattaforme rivendicative e in proposte progettuali, per l'auto-formazione e la selezione del personale che dovrà farsene carico, per l'individuazione delle risorse locali su cui fare leva.

È ovvio che la prima e fondamentale fonte di risorse finanziarie deve essere l'azzeramento dell'evasione fiscale e delle spese in armamenti, interventi bellici, Grandi opere e Grandi eventi devastanti; e che altre risorse possono essere reperite nelle tasche dei ricchi (anche se inseguirle nei loro ricettacoli non è semplice). Ma il finanziamento del programma e dei progetti in cui il programma generale si articola richiede comunque che venga spezzata la duplice gabbia (locale ed europea) del patto di stabilità e dei suoi annessi: pareggio di bilancio e fiscal compact. La rinegoziazione del debito pubblico, sotto forma di moratoria o di default selettivo, è l'unica alternativa praticabile al cosiddetto «default disordinato»: cioè alla deriva, per niente graduale, verso il disastro a cui la politica europea sta condannando, uno dietro l'altro, tutti i paesi dell'Unione: partendo dalla Grecia; a seguire con Portogallo, Spagna e Italia; per poi passare alla Francia e arrivare al cuore del continente - la Germania; che non trarrà certo vantaggio dalla disfatta dei suoi partner - e produrre così una catastrofe di dimensioni planetarie; che è probabilmente molto più vicina di quanto ci facciano credere.

Rivendicare, insieme agli altri paesi oggi sotto tiro, una rinegoziazione congiunta del debito è l'unico modo per contrastare il dogma del «non c'è alternativa»: che è il nocciolo delle politiche del governo Monti, dei partiti che lo sostengono, degli altri governi europei avviati verso il disastro. Misure di ordine finanziario a cui si fa spesso riferimento, come la separazione tra banca commerciale e banca d'affari (confinando eventualmente la seconda nel ruolo di bad bank da liquidare), la (ri)-nazionalizzazione dei principali istituti di credito (costava meno ricomprarli che cercare salvarli con i miliardi messi a loro disposizione dalla Bce), l'istituzione degli euro-bond (a condizione, però che finanzino progetti locali e non una nuova ondata di Grandi Opere devastanti), l'introduzione di monete a circolazione locale, parallele e non intercambiabili o sostitutive dell'euro (la cui scomparsa è l'ultima cosa da augurarsi) per alimentare scambi circoscritti a singoli territori, e altro ancora, sono tutte misure subordinate a una rinegoziazione del debito pubblico.

Governare la decrescita

«Ma il default, in qualsiasi forma, è un disastro», ripetono economisti di destra e sinistra. Così nessuno si occupa di come attenuarne gli effetti, se ci si va incontro comunque. Ma esiste, a breve o a lungo termine, un'alternativa? E se c'è, qual è? Una crescita del Pil sufficiente a far fronte agli interessi, al fiscal compact, alle continue ondate speculative, e «poi» anche al finanziamento di un nuovo sviluppo? E con quali prodotti, quale ricerca, quali mercati, quali forze imprenditoriali, quale governance? Su questo punto non ci sono risposte: come se il mercato fosse una macchina che ha solo bisogno di una spinta per rimettersi in moto; e poi andare avanti da sola (devastando, va da sé, l'ambiente). La verità è che l'alternativa tra crescita e decrescita è stata spazzata via dai fatti: la crescita non ci sarà più, per lo meno in questa parte del mondo (e sempre meno, e sempre più devastante, anche nelle altre). Non ci sarà alcun ritorno alla «normalità» di un tempo: perché il mondo di domani, come già quello di oggi, sarà in preda a sconvolgimenti continui, non solo economici e finanziari, ma soprattutto ambientali; e a rischi sempre maggiori di svolte autoritarie. Per questo «non c'è più tempo». Quanto alla decrescita, il problema non è come perseguirla, ma come governarla. E per farlo bisogna mettere al centro le cose che si vogliono e possono fare per stare tutti meglio; o meno peggio. Creando gli strumenti per deciderle e realizzarle insieme.

Titolo originale: The Great Recession: A Slayer of Sprawl – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

La dispersione suburbana, apparentemente inevitabile sparpagliamento di popolazione verso fasce metropolitane sempre più esterne, forse negli Stati Uniti è arrivata alla fine. Se è vero, sarebbe uno dei pochi risultati positivi di questa Grande Recessione e della bolla edilizia.Una analisi del quotidiano USA Today su dati censuari indica come la crescita di abitanti avvenga nelle zone più centrali, nelle circoscrizioni di contea più prossime ai nuclei urbani, mentre quelle verso i margini perdono popolazione dal 2006. Un sorprendente ribaltamento di tendenze, che avviene per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale più di sessant’ani fa. Quello che l’analisi evidenzia in dati dell’ufficio censimento conferma le osservazioni forse meno sistematiche condotte in tutto il paese. I due tipi di zone che appaiono più colpiti dalla crisi e dai pignoramenti sono, decisamente, insediamenti di fascia più esterna e quartieri degradati centrali con popolazione a bassissimo reddito.

Sino al crollo edilizio, erano invece le fasce esterne il luogo dove avveniva la maggior parte delle trasformazioni, dove si trasferivano le famiglie spesso utilizzando finanziamenti sub-prime o altre tipologie rivelatesi poi tossiche. Il crollo ha provocato nuovi quartieri lasciati a metà, spazi vuoti, strade e reti incomplete; case terminate cedute poi in affitto, o tornate a banche e investitori e lasciate vuote.In queste aree non avvengono più trasformazioni, e non è chiaro se e quando quelle lasciate a metà saranno mai terminate. Né si capisce che fine possano fare le case acquisite da banche e investitori, e men che meno se qualcuno costruirà mai nei lotti lasciati vuoti. Anche se quest’anno o il prossimo si stabilizzassero i valori immobiliari, si spera assai poco nel ritorno di un solido mercato della casa, almeno fino a fine decennio. Ciò sta a significare che le fasce suburbane più esterne resteranno in una situazione di stasi per parecchi anni a venire.

Ma l’analisi di USA Today [disponibile in italiano anche su eddyburg] ci mostra solo una anomalia causata dalla recessione, oppure indica un totale ribaltamento nelle modalità di crescita metropolitana? Si può rispondere che esistono ottimi motivi per ritenere superato il paradigma suburbano.Le trasformazioni sono spinte dal mercato, e quello che le ricerche concretamente mostrano è quanto i due gruppi demografici maggioritari, gli ultracinquantenni e la cosiddetta Generazione Y dei loro figli, preferiscano sempre più un modello di vita urbano. I più anziani sono quelli che anni fa nel suburbio ci sono andati, e intendono o invecchiare lì, o trasferirsi altrove, magari in città. Non esiste un mercato che li sposti a risiedere verso fasce più esterne.

La Generazione Y, la più ampia della storia Usa, che oggi ha dai venti ai poco più che trent’anni, in teoria sosterrebbe la classica trasformazione suburbana in quanto acquirente di prima casa. Ma a causa della recessione si compra sempre meno. Ciò è dovuto a un insieme di cause, dalle poco promettenti prospettive occupazionali, allo schiacciante debito contratto a suo tempo per studiare che devono sopportare, e all’ovvio desiderio di non acquistare in una situazione di precarietà del lavoro.E la generazione successiva, quella dei trenta-quarantenni? È la Generazione X che per la prima volta da 70 anni è meno consistente di quella che l’ha preceduta. Il senso di tutto questo per il mercato immobiliare è stato troppo a lungo sottovalutato: significa che la domanda sarebbe stata comunque più scarsa anche senza recessione.

In breve, non esiste alcun consistente gruppo demografico che sia in grado di spingere la domanda immobiliare, per parecchi anni. E ci sono molti che osservano come nei classici quartieri a cul-de-sac suburbani ci siano ormai già oggi case a sufficienza a anche per rispondere ad una eventuale domanda, per anni a venire. Quindi la scarsità nella costruzione di abitazioni unifamiliari da diversi anni potrebbe riflettere qualcosa di diverso dal semplice crollo da recessione.Anche la geografia conferma che quando il mercato dovesse riprendersi, si sarà meno pressione ad espandersi verso le fasce più esterne ai quartieri esistenti e oggi agricole. Ci sono già tante aree inedificate negli anelli urbanizzati esterni. E ci potrebbero volere parecchi anni per riempirle, così come per completare le trasformazioni oggi ferme.

Altro fattore determinante dello sprawl sono le finanze pubbliche. Le circoscrizioni di contea esterne hanno amministrazioni alle strette, senza soldi per nuove strade e altre infrastrutture. Ciò ha determinato un cambio nelle scelte di pianificazione urbanistica, favorevoli a insediamenti più compatti e sostenibili, soprattutto per i loro bilanci.Infine, ma non certo in ordine di importanza, c’è qualcosa che conferma una crisi di lungo periodo: l’immagine del suburbio esterno appare quella di una rosa sfiorita. Che sia per le preoccupazioni sul prezzo della benzina, per il tempo perso negli spostamenti, per la tristezza dell’abitare in posti dove metà delle case sono vuote, il quartiere suburbano esterno non brilla molto. Gli unici a comprare lì sono quelli attirati da prezzi davvero minimi. Ma scopriranno assai presto che credendo di risparmiare vedranno le proprie spese crescere, senza alcun servizio o posto di lavoro vicino. E al momento di venderla, quella casa, non sarà rivalutata, una scelta complessivamente sciocca.

Disastri e tempi difficili accelerano tendenze già in corso, la recessione e la crisi immobiliare non fanno eccezione. La tendenza ad un abitare più urbano cresce lentamente da una ventina d’anni, e oggi accelera. Quello che probabilmente ci dice l’analisi di USA Today è una anticipazione di tendenze di lungo termine: sempre più sviluppo in fasce centrali, sempre meno in quelle più metropolitane esterne. Appare sempre più chiaro che se il secolo scorso è stato quello della suburbanizzazione, quello attuale negli USA è un secolo urbano.

Formigoni non vuole togliersi di mezzo e così trascina l´intera destra del Nord in un´avventura temeraria che, intrecciandosi alla faida padana della Lega, ne sta provocando il disfacimento. Le parole con cui la moglie di Antonio Simone lo addita come "utilizzatore finale" dello strapotere e degli agi cumulati da faccendieri divenuti milionari all´ombra della sua carriera politica, conferma che Formigoni ha mentito ripetutamente e non può più illudersi di scaricare sui "Giuda", che poi sarebbero i suoi migliori amici, la responsabilità di aver creato un sistema di potere protervo, giunto al capolinea.

L´insofferenza per la vanagloria del Celeste non provoca più solo l´allarme degli altri clan in cui è frazionato l´ex regno berlusconiano. Più nel profondo, è la galassia di Comunione e Liberazione a non riconoscersi più nella degenerazione affaristica di un movimento ecclesiale ben altrimenti radicato nella società lombarda. Umiliato dall´indifferenza ai suoi valori fondativi, assoggettati da troppo tempo all´ossessione personale di leadership di Formigoni.

Il governatore non ha fornito la benché minima versione credibile sui lussuosi omaggi ricevuti dagli inquisiti. Se avesse potuto, lo avrebbe già fatto: si trattava solo di mostrare degli estratti conto. Ma è di ben altro che deve rispondere: da Giuseppe Grossi a Pierangelo Daccò a Antonio Simone, e chissà che non ne spuntino altri, la Regione Lombardia da lui amministrata per diciassette anni ha generato vicende d´imprenditorialità opaca, contraddistinte dal favoritismo e dall´appropriazione indebita di risorse pubbliche. Altro che sussidiarietà: una nuova razza predona ha inquinato l´associazionismo della Compagnia delle Opere che pure non è certo riducibile a questo malaffare.

Infrante le sue ambizioni politiche nazionali, non gli resta altra strada che le dimissioni. Ma qui subentra il calcolo temerario per cui Formigoni resta aggrappato al bordo della voragine in cui rischia di trascinare anche gli altri potentati della destra del Nord. Egli confida difatti che almeno fino all´anno prossimo Roberto Maroni non abbia interesse a consentire lo scioglimento dell´Assemblea regionale lombarda (undici inquisiti su ottanta membri), in cui la Lega conta ben venti consiglieri, cioè una rappresentanza che difficilmente conseguirà in futuro. Fra i due Roberto che aspirano a raccogliere l´eredità di Berlusconi e Bossi si era instaurato un patto per la sopravvivenza che le inchieste della magistratura rischiano di mandare in frantumi. Il primo, Formigoni, sperava di approdare in Parlamento l´anno prossimo (con relativa immunità). Il secondo, Maroni, intravedeva nella successione alla presidenza della Regione Lombardia un solido avamposto per la ricostruzione del movimento leghista.

Calcoli mal riposti, non solo per il drammatico accelerarsi della crisi che potrebbe dar luogo a nuove devastanti scoperte giudiziarie, ma perché è la stessa rappresentanza politica del dopo Berlusconi & Bossi a subire contraccolpi imprevedibili. Se è vero infatti che su scala regionale pare difficilmente replicabile il sommovimento popolare con cui Giuliano Pisapia ha rovesciato l´egemonia della destra nella città di Milano; e se anche il commissariamento del Pirellone non può dar luogo che provvisoriamente a un governo tecnico su scala regionale; è un inquietante vuoto democratico quello che si prospetta in seguito alla bancarotta di una classe dirigente.

Così la Lombardia sospesa nel vuoto diviene nel bene e nel male un laboratorio politico nazionale. Qui la notte dei lunghi coltelli in corso nella Lega apre il varco a nuovi movimenti reazionari e localisti, con pericolo di degenerazioni estremistiche. La parola d´ordine dell´uscita dall´euro, lanciata da Beppe Grillo, nella sofferenza sociale provocata dalla recessione potrebbe trovare sponsor ben più potenti. E lo stesso Pdl sta vivendo scissioni centrifughe di marca municipalistica. La destra del Nord va in frantumi ma resta un´energia dalle potenzialità dirompenti in cerca di nuovi leader populisti. C´è da sperare che la Chiesa ambrosiana e il cattolicesimo lombardo esercitino la funzione moderatrice che gli è propria, in seguito alla débacle di Formigoni. E che la sinistra sappia ripercorrere la strada della partecipazione democratica di base in cui ha saputo credere a Milano.

Ma se Formigoni non verrà sollecitato anche dalla sua parte politica a farsi da parte al più presto, restituendo la parola ai cittadini, il pericolo è il caos.

Schiacciata dal peso di 50 milioni di debito, la giunta comunale di Napoli ha firmato una transazione con Alfredo Romeo. Il gestore del patrimonio immobiliare, ma anche l'imprenditore al centro dello scandalo Global Service, condannato a due anni di carcere in primo grado. E sotto processo davanti alla Corte dei Conti per danni erariali al comune. A margine dell'accordo, l'imprenditore offre un suo progetto di riqualificazione del territorio attorno al suo albergo a 5 stelle. Una proposta che è anche una sfida per l'amministrazione paladina dei beni comuni.

PATRIMONIO NAPOLETANO

di Andrea Fabozzi

Il palazzo era già lì cinquant'anni fa, quando la celebre panoramica dall'alto che apre il film di Rosi Le mani sulla città portò al festival di Venezia gli orrori del sacco edilizio napoletano. Dal suo ufficio in quel palazzo, Achille Lauro guidava i destini della compagnia di navigazione e di tutto il resto. Adesso in quelle stanze c'è un vistoso ristorante, rispettosamente denominato Il Comandante, e tutto intorno un hotel a 5 stelle che ha piantato il super lusso nello scheletro del vecchio palazzo Lauro e nel cuore del quartiere del porto. L'hotel Romeo, di Alfredo Romeo, l'imprenditore al centro dello scandalo Global Service che due anni fa coinvolse la giunta regionale insieme a politici nazionali di destra e sinistra, è l'origine e la causa prima di un progetto di riqualificazione urbanistica piovuto sulla testa della giunta di Luigi De Magistris. Un progetto che Romeo ha voluto inserire in una transazione con il comune e che sta complicando la vita all'amministrazione napoletana. Fin qui attenta a presentarsi come paladina degli interessi pubblici e dei «beni comuni» e adesso condotta dai debiti sulla strada di una mediazione con un potere molto privato e per niente immacolato. Nel bene o nel male, è una storia il cui esito segnerà le ambizioni di una giunta che appena un anno fa ha iniziato la sua «rivoluzione» e che intanto, su questa vicenda, perde il consenso della parte sinistra del consiglio comunale guadagnando invece l'imbarazzante solidarietà della destra.

Una montagna di debiti

Dal 1998 il comune di Napoli affida ad Alfredo Romeo la gestione - dalla manutenzione alla riscossione degli affitti - del patrimonio immobiliare. Una ricchezza sconfinata stimata in due miliardi e trecento milioni di euro che però non riesce a produrre reddito. Al contrario, è Romeo che vanta crediti dal comune per qualcosa come 50 milioni di euro, metà dei quali rafforzati da decreti ingiuntivi. L'amministrazione De Magistris non riesce a pagare. Ha ereditato una situazione economica pesantissima, in più il governo ha ridotto i trasferimenti. Deve abbassare il debito senza tagliare i servizi, e non vuole aumentare le tasse locali. È un peso enorme che può affondare i sogni della nuova giunta. Ma è una situazione nota, conosciuta anche in campagna elettorale.

Il contratto di Romeo scade alla fine di quest'anno. Con lui l'amministrazione ha condotto una lunga trattativa, conclusa in un'ultima notte di confronto a fine marzo. C'è un accordo è c'è una delibera di giunta del 27 marzo che lo recepisce. Romeo rinuncia alle azioni legali contro il comune. Anche il comune rinuncia alle sue cause con le quali imputava a Romeo una cattiva gestione dei servizi. La transazione vale per tutti i debiti, anche per la metà sulla quale non c'è ancora un decreto di ingiunzione. Su 50 milioni Romeo fa uno sconto di 5, il resto il comune deve pagarlo. Anzi, ha già cominciato a pagarlo versando per la prima volta e tutti insieme oltre 16 milioni. Il resto a rate, la prima scade a giugno. Nel frattempo Romeo si «impegna ad accelerare» la vendita degli immobili comunali. L'unica fonte possibile di finanziamento per il comune. Del resto, richiama la delibera, lo prevede anche il decreto «salva Italia» di Monti. Bisogna vendere.

In realtà Romeo dovrebbe già farlo, in forza di un altro contratto con il comune. Ma dal 2004 a oggi risultano venduti solo 400 edifici su 2mila in vendita. Gli immobili comunali sono molti di più, circa 30mila. Nonostante i non ottimi risultati raggiunti fin ora, Romeo in forza del nuovo accordo potrà metterne in vendita altri tremila. Se tutto andrà bene, il comune - che fa fatica a censire le sue proprietà perché l'archivio aggiornato è in possesso di Romeo - con quei soldi dovrà pagare all'imprenditore i vecchi crediti.

La Corte dei Conti accusa

La transazione prevede che il comune continui a pagare Romeo fino a dicembre 2013, quindi per un anno oltre la scadenza del contratto. Per quella data potrebbe essersi definito il procedimento aperto contro Romeo dalla Corte dei Conti. L'imprenditore è accusato di aver creato al comune un danno erariale di 87 milioni di euro proprio nella gestione degli immobili pubblici. Lo si sospetta di aver chiesto in pagamento al comune percentuali calcolate sugli affitti accertati eppure mai riscossi. Anche per questo il comune si è rifiutato di pagare alcune fatture e ha citato Romeo in giudizio. Tutte cause, queste, che adesso saranno estinte per effetto della transazione. Non solo, secondo la Corte dei Conti a fronte di questo cattivo servizio Romeo ha ricevuto anche un incentivo dall'amministrazione pubblica (un milione e 200mila), in cambio Romeo ha chiesto il rimborso di esorbitanti spese legali (3 milioni).

La delibera proposta dall'assessore al patrimonio - la persona che ha condotto la trattativa con Romeo - è uscita dalla giunta comunale in maniera diversa da come era entrata. Modifiche sono state fatte nei settori di competenza dell'assessore all'urbanistica e dell'assessore al bilancio. Una parte dei crediti riconosciuta a Romeo è stata cancellata. Debiti che, spiega l'assessore al Bilancio Riccardo Realfonzo, «Romeo si era auto liquidato». Soprattutto sono stati messi da parte due progetti che Romeo chiedeva come contropartita. La possibilità di costruire un parcheggio sotterraneo da avere in gestione per 90 anni. E il via libera al suo piano di riqualificazione urbana che riguarda la cosiddetta «Insula Antica Dogana», un trapezio di 45mila metri quadri tra la piazza del Municipio e il porto che comprende all'interno il teatro stabile di Napoli e l'attraversamento pedonale verso il mare. Al centro c'è l'hotel Romeo.

Una condanna a due anni

Alla riunione di giunta del 27 marzo scorso che ha approvato la delibera di transazione, non era presente l'assessore alla trasparenza e sicurezza Giuseppe Narducci, ex sostituto procuratore a Napoli. È contrario all'accordo. Alfredo Romeo nel 2009 è stato in carcere per 79 giorni, accusato di aver pilotato dall'esterno l'appalto Global Service con il quale la giunta Iervolino intendeva dare in gestione a un solo soggetto la manutenzione di tutte le strade di Napoli. Un appalto che sebbene approvato anche dal Consiglio non andò mai in porto. L'inchiesta mise in luce il potere di persuasione di Romeo su mezza giunta comunale ma anche le sue relazioni con politici nazionali, da Rutelli a Lusetti a Bocchino. Da molte accuse Romeo è stato assolto in primo grado, ma non da tutte. È stato condannato a due anni per corruzione. Avrebbe promesso di assumere due persone segnalate dall'ex provveditore alle opere pubbliche in cambio di un interessamento all'affare Global Service. Ma la procura ha presentato appello e in questi giorni è in corso il processo di secondo grado. Il procuratore generale ha chiesto per lui la condanna a 4 anni e 4 mesi riproponendo l'accusa di associazione per delinquere. Come pena accessoria, in primo grado, Romeo è stato condannato all'interdizione a trattare con la pubblica amministrazione. Non potrebbe più avere rapporti con il Comune. Ma la pena è stata sospesa. Nel gennaio del 2009, quando era giudice del Tribunale del Riesame, Luigi De Magistris ha scritto le motivazioni in base alle le quali a Romeo fu confermata la carcerazione preventiva: «È divenuto nel tempo anche un po' il dominus dell'amministrazione comunale».

Un omaggio pericoloso

In una lettera spedita il 19 marzo al sindaco di Napoli, Alfredo Romeo spiega diffusamente il suo progetto per l'«Insula». Si tratta di un intervento di riqualificazione urbana di grandi dimensioni che prevede la pedonalizzazione di una vasta area che al momento è piuttosto degradata, pur essendo collocata in una posizione strategica. È la prima Napoli che incontrano i turisti che arrivano con le navi da crociera. Fino a non troppi anni fa era più nota per qualche locale di strip tease e per i rivenditori di contrabbando, memorie da vecchio porto. Il piano di Romeo prevede la pedonalizzazione dell'area e una sistemazione anche del lato a mare. Nel progetto si insiste sulla volontà di recuperare la memoria dell'antica piazza della Dogana, che fu però cancellata negli anni Cinquanta proprio dalla costruzione del palazzo Lauro, quello dell'hotel. Romeo assicura che l'opera non costerà nulla al comune, pagherà tutto lui «a titolo di omaggio alla città». Propone anzi un modello di finanziamento iper locale, un federalismo fiscale di quartiere. «Le risorse necessarie - si legge nel progetto - devono essere recuperate, value capture, nell'area stessa attraverso tasse di scopo, i servizi offerti ai privati e i flussi finanziari usualmente garantiti dagli enti locali. Le risorse acquisite nell'area devono restare nell'area per percentuali significative». «È un'ipotesi non conforme ai regolamenti comunali e alle leggi nazionali», taglia corto l'assessore Realfonzo. Eppure Romeo vuole sperimentare questo modello nell'Insula per «replicarlo a scacchiera in tutta la città». In più ci sarebbe il parcheggio.

«Io non sono contrario all'intervento dei privati - chiarisce l'assessore all'urbanistica Luigi De Falco che per aver espresso perplessità è stato pesantemente attaccato da Romeo sulla stampa locale - al contrario, dobbiamo andare verso una stagione di grande progettazione. Ma il contesto urbanistico lo definisce il potere pubblico. Il parcheggio contrasta con il piano regolatore. Il resto della proposta è un intervento condominiale non ben inquadrato». Spiega l'assessore che «tutto il progetto gravita attorno all'hotel, un hotel per il quale sono stati riscontrati abusi edilizi. Il progetto che ho visto prevede la rimozione degli abusi, ma quelli degli altri, anche quello di una caserma della Finanza». C'è in effetti un ordine di demolizione del 2011 per gli interventi abusivi che secondo gli uffici del comune sono stati realizzati all'interno dell'albergo. Sono aumentate le volumetrie all'ultimo piano e nel sotterraneo, è stato scavato un tunnel che porta a una «luxury spa». Battezzata «Dogana del sale».

La consultazione via sondaggio

«Si tratta di una sfida importante sul piano della "rivoluzione" che Lei auspica per dare un volto nuovo alla città», scrive compiacente Romeo a De Magistris. L'imprenditore, che ha fatto affari con tre diverse amministrazioni in città - a Roma la giunta Alemanno ha rinunciato all'accordo Global Service dopo l'apertura dell'inchiesta di Napoli - punta a continuare così. E infatti illustra al primo cittadino una procedura che, secondo lui, è perfetta per un'amministrazione che spinge tanto sulla condivisione delle scelte e sui beni comuni. «Per la prima volta al mondo - scrive Romeo, esagerando - un intervento sul tessuto urbano e sulla gestione di una parte del territorio comunale nasce da un processo di democrazia partecipata innescata da un sondaggio di opinione che raccoglierà le indicazioni degli utenti/cittadini sulle priorità da affrontare». La democrazia innescata da un sondaggio è certo un'idea originale, non proprio una prima mondiale perché, come spiega Renato Mannheimer incaricato dal sondaggio «abbiamo già fatto sondaggi del genere a volte su incarico delle amministrazioni». Stavolta il committente è proprio colui che vuole realizzare l'opera. E il sondaggio è già in corso. «Abbiamo ascoltato le persone che lavorano nella zona dell'Insula della Dogana - dice ancora Mannheimer - i cosiddetti opinion leader come il presidente dell'autorità portuale e il rettore dell'Università. Adesso stiamo per intervistare tutti gli abitanti della zona». Difficile però che possano avere un'idea precisa del progetto Romeo che si compone di 10 tomi e 27 grafici. «Li informeremo abbastanza compiutamente», promette il sondaggista.

Nella delibera con cui la giunta comunale ha approvato lo schema di transazione, è rimasta una traccia dell'Insula. È stabilito «l'interesse di massima del Comune alla proposta di intervento di valorizzazione». Comunque troppo per i consiglieri della lista Napoli è tua, la lista civica di De Magistris. In sei su sette si dichiarano «scandalizzati» dalla disponibilità verso Romeo «la cui complessa vicenda è paradigmatica di un non corretto rapporto pubblico-privato. La riqualificazione della città - aggiungono - non passa per accordi con imprenditori con cui secondo il programma elettorale dobbiamo interrompere ogni rapporto». Contro anche tutti i consiglieri della sinistra e due dell'Idv. Passasse in Consiglio, oggi, l'Insula avrebbe bisogno dei voti della destra. E li avrebbe. «È proprio il mio programma elettorale», ha detto lo sconfitto Gianni Lettieri.

DE MAGISTRIS

Valuteremo le proposte in base al piano regolatore

«È l'interesse pubblico»

intervista di Andrea Fabozzi

Sindaco Luigi De Magistris, quello con Romeo è il miglior accordo possibile?

«Non è un accordo, è una transazione giudiziaria. Romeo vantava un credito ingente verso il Comune. Non fare questa transazione avrebbe voluto dire non avere la disponibilità del patrimonio immobiliare, non poterlo collocare in bilancio. Sarebbe stato devastante, rischiavamo di non pagare gli stipendi.»

È però una transazione che fa risparmiare al comune solo il 10% dei debiti.

«Era indispensabile, su questo convenivamo tutti. Romeo partiva da una punteggio di sei a zero in suo favore, per usare un termine tennistico. Non è al sindaco che spetta fare la transazione, l'hanno fatta persone di cui ho la piena fiducia. Dunque sono certo che viste le condizioni di partenza sia la migliore possibile. Noi Romeo lo ereditiamo dalla giunta Iervolino, assieme a questa situazione disastrosa. L'accordo con Romeo scade a dicembre, stiamo già predisponendo la nuova gara. Sono molto soddisfatto di poter avere il patrimonio immobiliare a disposizione.»

È soddisfatto anche della proposta dell'«Insula Antica Dogana» che avanza Romeo?

«È solo una proposta, come tantissime che riceviamo. Non capisco la polemica, è eccessiva. Di ogni proposta si valuta innanzitutto la fattibilità in termini giuridici e urbanistici, lo faranno gli uffici. Solo dopo ed eventualmente si può fare una valutazione politica. Comunque la proposta dell'Insula non fa parte della transazione, non c'entra nulla. Dopo la transazione Romeo l'ha avanzata, ed è suo diritto anche perché lui è, lo si voglia o no, il nostro gestore.»

La Corte dei Conti lo accusa di aver gestito male, causando un danno economico al comune.

«Può essere inquisito, processato, condannato, resta il nostro gestore fino a dicembre. È quindi interesse del Comune avere da lui il massimo dei risultati possibili dalle vendite e dalle rivalutazioni immobiliari. E sulle sue proposte decidiamo noi.»

A lei la proposta piace? Romeo ha scritto che «il sindaco si è appassionato all'idea».

«Non ho visto la proposta. È all'attenzione dell'assessorato al patrimonio, faranno loro una prima valutazione. Ma è solo una questione ai margini della transazione, è molto più importante che vada in porto tutto quello che è previsto. È una grandissima operazione di vendita di edilizia residenziale pubblica, tremila alloggi. Significherebbe dare risorse certe a noi e la proprietà della casa ai ceti popolari.»

Anche dalla sua lista civica le dicono che è sbagliato fare accordi con un imprenditore che ha la storia di Romeo.

«Io sono un amministratore, non faccio dibattiti politici su questo. Così come non ho detto "non voglio avere rapporti con Berlusconi" quando lui era il presidente del Consiglio. La storia giudiziaria di Romeo io la conosco benissimo. E ripeto: non lo sto scegliendo io come gestore. Io sto solo facendo gli interessi della mia amministrazione e dei cittadini di Napoli. Per questo adesso mi aspetto che Romeo faccia bene il gestore e vada avanti con le dismissioni previste dalla transazione.»

Teme che un eventuale stop alla proposta sull'Insula possa condizionarlo?

«L'Insula non c'entra con la transazione. Questo dev'essere chiarissimo. Io su quel progetto non posso dire nulla, non l'ho visto. Quando lo vedrò, se qualcuno dovesse decidere di passarmelo, allora mi pronuncerò. Nel frattempo posso solo dire una cosa che vale per tutti i progetti, provengano da Romeo o dai centri sociali. Tutti saranno valutati sulla base della nostra linea politica e nel rispetto del piano regolatore generale. Se ci sono elementi di contrasto con il piano non passeranno mai.»

VEZIO DE LUCIA

«Una modello sbagliato di urbanistica contrattata»

Intervista di Andrea Fabozzi

«Con le elezioni i cittadini hanno scelto la difesa del piano, non si torni indietro. Il rischio è che il comune resti l'amministratore dei poveri», dice l'ex assessore di Bassolino. «Alla campagna elettorale di De Magistris non ho partecipato - dice Vezio De Lucia - perché non vivo a Napoli e mi tengo defilato». Ma l'urbanista, assessore della prima giunta Bassolino, non ha smesso di seguire con passione le vicende cittadine. Racconta: «Quando ho sentito dal nuovo sindaco che il primo punto del suo programma sarebbe stato la difesa del piano regolatore mi sono commosso».

Quel piano De Lucia l'ha firmato. E poi difeso, da vicino e da lontano. Fino a quando è toccato a Rosa Russo Iervolino condurlo in porto definitivamente. Per una città cresciuta sugli abusi, è stato il primo piano regolatore generale dal 1972. «Mentre sentivo con grande gioia De Magistris che diceva quelle cose - aggiunge De Lucia - avevo ben presente che nel frattempo il candidato di destra Lettieri si proponeva di "liberare la città dalla gabbia del piano regolatore". Per fortuna è andata bene. Il popolo ha scelto e ha scelto la prima ipotesi, De Magistris e il piano. Ma adesso quella scelta va rispettata da tutti».

L'ipotesi di accordo tra il Comune e l'imprenditore Romeo secondo lei non coincide con questa impostazione?

«Per niente. Sono nettamente contrario a un'ipotesi del genere. Che non è affatto una nuova forma di urbanistica partecipata, come dice chi vuole confondere le idee. È urbanistica contrattata della peggior specie. Il risultato è un patto leonino che imbriglia il potere pubblico, l'unico a cui spetta il governo dello spazio urbano. Mi torna in mente quello che dicevano i costruttori laurini ai tempi del sacco della città: "Il piano regolatore serve a chi non si sa regolare".»

Romeo dice: alla città non costa niente, se non mi volete vado altrove.

«Ma che se ne vada sul serio. Ponti d'oro. Forse il mio è "vecchiume intellettuale" per citare le sue espressioni sprezzanti, quelle che ha rivolto all'assessore De Falco che invece ha ragione e voglio difendere. Sul fatto poi che non ci saranno costi per la città mi permetto di avanzare dei dubbi. Intanto storicamente non è mai stato così, e poi il costo della valorizzazione di quell'area, il costo della trasformazione di piazza Municipio in un grande spazio aperto con da un lato la quinta di palazzo San Giacomo e dall'altro quella della Stazione Marina lo stanno sopportando le casse pubbliche. Mentre le rendite catastali di Romeo sono solo sue.»

Un imprenditore non è libero di fare una proposta? Tanto più che sostiene di aver trovato un sistema di auto finanziamento?

«Ci mancherebbe, faccia tutte le proposte che vuole. Ma non spetta a Romeo proporre soluzioni di questo livello. Un privato può proporre una cosa specifica, un cantiere edilizio. Non chiedere una delibera urbanistica. Non spetta a lui, la valorizzazione di uno spazio è la conseguenza della tutela. Quanto all'idea di finanziarsi con una quota delle tasse dei residenti è il frutto avvelenato del federalismo e della sussidiarietà. Se si estendesse a tutta la città vorrebbe dire che i quartieri ricchi avrebbero servizi di qualità e gli altri si dovrebbero arrangiare. La parola d'ordine del piano, unificare la città, così va a farsi benedire. E l'ambito di intervento del Comune si ridimensiona: resta il comune dei poveri e dei disgraziati.»

Non crede che questa amministrazione sia una garanzia in fatto di tutela dei beni comuni?

«Senta, io non sono un accanito sostenitore della filosofia dei beni comuni, e sto usando un eufemismo. Quando leggo del superamento della contrapposizione tra pubblico e privato resto diffidente, non capisco. Non vorrei che i risultati fossero quelli alla Romeo.»

Sigilli in Biblioteca - Sotto inchiesta il direttore De Caro che, annuncia il ministro Ornaghi, “si è autosospeso”

Paola Maola – Il Fatto Quotidiano

Gli occhi bassi, poche parole preparate, tono della voce dimesso e un po’ impacciato. “Doveva essere una giornata di apertura totale del Complesso. Lo è stata, ad esclusione della Biblioteca che, dopo una denuncia su presunti libri scomparsi, è stata posta sotto sequestro dai carabinieri”. Una triste coincidenza, dunque. Don Sandro Marsano, Conservatore del Complesso dei Girolamini, ieri avrebbe dovuto aprire i locali della più antica Biblioteca di Napoli a cittadini e turisti per la “Giornata di verità”. Una giornata di “contro-informazione”, si diceva, rivolta a tutta la città che, almeno nelle intenzioni degli organizzatori, doveva fare chiarezza dopo le polemiche sulla nomina del nuovo direttore, Marino Massimo De Caro, da ieri autosospesosi e ufficialmente indagato per peculato dalla Procura di Napoli. Perquisite la sua casa di Verona, la foresteria in cui abita quando è a Napoli, interna al complesso dei Girolamini, e anche l’abitazione di padre Sandro. Ieri, i carabinieri ne hanno sequestrati alcuni di cui ora bisognerà accertare la provenienza: non è escluso, infatti, che facciano parte dei libri sottratti alla Biblioteca. Eppure proprio De Caro aveva denunciato la scomparsa di 1500 libri.

Posti, dunque, i sigilli ai por-tali seicenteschi. Il motivo? Per tutelare l’integrità dei volumi custoditi all’interno. E si capisce: la Girolamini possiede un patrimonio di 150 mila volumi antichi e manoscritti, alcuni rarissimi. Non è chiaro, invece, come mai a dirigerla fosse stato imposto dal ministero per i Beni e le Attività culturali (si tratta di una bibilioteca pubblica statale) il sedicente “professor” De Caro, personaggio oscuro, noto per essere legato all’entourage di Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo.

Della Biblioteca dei Girolamini si era occupato per primo Tomaso Montanari per Il Fatto. L’aveva visitata e aveva visto pile di libri preziosi poggiate per terra, lattine di Coca Cola sui banconi. Voci intorno parlavano di libri che spariscono con una certa regolarità. Ieri, il ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi ha parlato di “gravi inadempienze” nella contabilità e nella custodia dei libri. Ma è il personaggio di De Caro che ha fatto sollevare i dubbi.

Al momento De Caro è consulente del Mibac nel settore della cultura e dell’editoria nonché delle tematiche riguardanti la normativa in materia di fonti rinnovabili. Era stato scelto da Giancarlo Galan prima quando era ministro dell’Agricoltura e poi ai Beni Culturali. L’attuale ministro Ornaghi l’ha confermato al suo posto “in qualità di consulente esperto”. Il punto è che De Caro non si è mai laureato: iscrittosi all’Università di Siena nel 1992 non ha mai concluso i suoi studi. Si è distinto però per aver mediato nell’affare del petrolio venezuelano mentre era vicepresidente esecutivo di Avelar energia (nel libro di Ferruccio Sansa e Gatti Il sottobosco è “uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani”). E poi per la buona amicizia con il senatore Dell’Utri: nel 2005, alla Mostra del libro antico sponsorizzata da Dell’Utri, De Caro aveva venduto un incunabolo del 1499 acquistato in Svizzera. Il volume però risultava sottratto ad una biblioteca milanese e l’alacre commerciante librario finì ad essere indagato per ricettazione . La vicenda si concluse con un nulla di fatto: l’oggetto della ricettazione sparì e la posizione delle persone coinvolte fu archiviata.

De Caro è socio di una società di energia del figlio di Dell’Utri e “segretario organizzativo nazionale” dell’associazione “Il Buongoverno-Coesione Nazionale ” costituita lo scorso 27 marzo. Presidente nazionale onorario, ça va sans dire, Marcello Dell’Utri. Erano stati proprio alcuni dei membri del “Buongoverno” al Senato a presentare un’interrogazione al ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, per avviare un’ispezione sulla condotta di Tomaso Montanari e del suo collega accademico Francesco Caglioti che, dopo l’articolo apparso sul Fatto, avevano promosso una petizione per la salvaguardia della Biblioteca. Le firme sono ora circa 4mila tra cui quella di Salvatore Settis, Dario Fo, Gustavo Zagrebelsky e molti altri intellettuali sensibili al tema.

La Biblioteca dei Girolamini è stata affidata in custodia al direttore della Biblioteca nazionale, Mauro Giancaspro. Anche Montanari verrà sentito dai pm: commentando le parole del ministro Ornaghi (che ha specificato che la nomina del direttore della biblioteca non dipende dal ministero), il nostro collaboratore ritiene che Ornaghi avrebbe potuto “revocare immediatamente la ratifica ministeriale alla nomina di padre Sandro Marsano quale Conservatore del Monumento nazionale dei Girolamini, da cui dipende la nomina del direttore della biblioteca, licenziare in tronco De Caro dal ruolo di suo consigliere, nominare immediatamente un commissario straordinario”.

“Giornata di verità” rimandata a data da destinarsi.

Napoli - Ornaghi come Pilato

Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno

Tra tanti colpi di scena drammatici, almeno una cosa era evidente fin dall'inizio: a sciogliere l'intricato nodo dei Girolamini sarebbero state la magistratura e le forze dell'ordine, non certo una politica sempre più ignava. Quella politica che pure ha avuto tanta parte nel creare e stringere quel nodo. Una petizione firmata ormai da oltre 3500 persone, e da centinaia di nomi di spicco del panorama culturale e del mondo delle biblioteche, chiede al ministro per i Beni culturali tre cose: rimuovere Marino Massimo De Caro dalla direzione dei Girolamini, dimetterlo dal numero dei suoi consiglieri, aprire una commissione d'inchiesta ministeriale sull'amministrazione passata e recente della Biblioteca.

Rispondendo ieri, alla Camera, alle interpellanze che rilanciavano queste richieste, Lorenzo Ornaghi si è espresso in modo assai evasivo. Se della commissione non ha parlato, circa la direzione della Biblioteca il ministro si è trincerato dietro l'esclusiva competenza della Congregazione dell'Oratorio. Quanto alla carica di consigliere, fonti vicinissime al ministro, riferiscono che Ornaghi avrebbe chiesto a De Caro di dimettersi, finendo poi con l'accettare l'ambigua e compromissoria formula dell'autosospensione, di cui ha riferito a Montecitorio. Ornaghi, invece, avrebbe potuto (dovuto, data la gravità della situazione) fare subito tre cose.

1) Revocare immediatamente la ratifica ministeriale alla nomina di padre Sandro Marsano quale Conservatore del Monumento nazionale dei Girolamini, da cui dipende la nomina del direttore della biblioteca;

2) Licenziare in tronco De Caro dal ruolo di suo consigliere (com'è possibile che a chi millanta pubblicamente titoli di studio — per tacere del resto —, sia consentito di continuare a consigliare un ministro, seppur nella grottesca modalità dell'« auto-sospensione», per definizione in ogni momento revocabile?);

3) Mostrare ai vertici romani della Congregazione dell'Oratorio che è nell'interesse dell'ordine, oltre che in quello dello Stato, nominare immediatamente un commissario straordinario, nella persona del più qualificato bibliotecario in forza al ministro. Il 2 dicembre del 2010, Lorenzo Ornaghi (in qualità di rettore della Cattolica, carica dalla quale è ora — casi della vita — autosospeso) pronunciò un discorso in cui disse che: «Essere 'guelfi', oggi, implica la consapevolezza che la nostra (dei cattolici, ndr) posizione di vantaggio culturale va di giorno in giorno consolidata. Consolidandola, saremo già pronti per quelle nuove 'opere' che — soprattutto per ciò che riguarda la rilevanza e la capacità attrattiva della nostra partecipazione alla vita politica del presente — il futuro prossimo già ci domanda». Per quanto assai singolare, si tratta di una posizione politica rispettabilissima. Ma ora, signor ministro, non è il momento di essere guelfi: è il momento di onorare il giuramento di fedeltà alla Costituzione repubblicana.

Alla fine dell'Ottocento lo scrittore Vamba, futuro inventore di Giamburrasca, creava l'onorevole Qualunquo Qualunqui del partito dei Purchessisti, propugnatore del programma Qualsivoglia e sostenitore del gabinetto Qualsiasi: sembrerebbe anticipare Guglielmo Giannini e Cetto Laqualunque ma sono radicali le differenze fra i diversi momenti, e ancor più con i dilaganti fermenti attuali contro i partiti. Alla fine dell'Ottocento, ad esempio, vi era sullo sfondo una retorica antiparlamentare conservatrice e una critica al sistema rappresentativo in sé fortemente presenti nel dibattito colto. E nel successo dell'"Uomo Qualunque" alla caduta del fascismo vi erano umori e veleni di lungo periodo assieme a paure e diffidenze per una democrazia ancora sconosciuta, dopo il lungo ventennio. Il movimento di Giannini scomparve rapidamente e l'Italia repubblicana è stata caratterizzataa lungo, invece, da una altissima e viva partecipazione alla politica: le denunce della "partitocrazia" che iniziarono a serpeggiare negli anni Settanta coglievano precocemente la fine di una stagione.

Una fine avvertita anche "dall'interno": nel 1981 la critica di Enrico Berlinguer alla degenerazione dei partiti di governo («federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sottoboss"») fu il tentativo più alto di riportare la politica alla sua dignità ma forse anche il presagio di una sconfitta. E nello stesso anno un racconto di fantapolitica di Giuseppe Tamburano prevedeva e paventava per il 1984 quel che sarebbe avvenuto dieci anni dopo: il crollo per discredito dello "Stato dei partiti" e l'avvento di una Seconda Repubblica con «la sostituzione dei partiti e la restaurazione dei valori e degli interessi di una borghesia imprenditoriale senza più lacci e lacciuoli».E con un programma simile a quello di Licio Gelli. Il crollo del 1992-94 era dunque ben prevedibile, preceduto da un intreccio sempre più melmoso di occupazione partitica dello stato e di corruzione. E aprì la via all'esplodere dell'antipolitica, nelle forme del leghismo bossiano e dell'estraneità berlusconiana alla democrazia. E a nuovi, profondissimi guasti.

Ma perché non se ne è usciti? Perché oggi il panorama appare più devastato e devastante di allora? Perché una "partitocrazia senza partiti" ha lasciato segni così negativi sulla seconda repubblica e si sono al tempo stesso sviluppate forme inedite di "banalità della corruzione", strapotere delle cricche, familismi immorali? Perché, soprattutto, siamo accerchiati più drammaticamente di allora da pulsioni rozze contro la politica e al tempo stesso da un'incapacità dei partiti di rinnovarsi che non lascia moltissimi spiragli alla speranza?

Forse su un nodo occorrerebbe riflettere meglio: nel crollo della "prima Repubblica" rappresentanze consistenti di una parte della "società civile", per dir così, entrarono impetuosamente nelle istituzioni e nella politica sotto le insegne della Lega Nord e di Forza Italia. Vi portarono umori che si erano consolidati negli anni Ottanta: dalla diffidenza, se non ostilità, nei confronti dello Stato sino alle più differenti pulsioni ad una ascesa individuale sprezzante di ogni vincolo, incurante del bene comune. E fecero ampiamente e amaramente rimpiangere il personale politico precedente.

Poco spazio trovarono invece altre parti della società, a partire da quelle che avevano il loro riferimento nelle culture riformatrici, nel rispetto delle regole e dei valori collettivi:e così, mentre le file del centrodestra si gonfiavano di animal spirits limacciosi e di rappresentanze talora impresentabili, il centrosinistra vedeva progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico e le proprie dinamiche interne. Vedeva progressivamente indebolirsi - o meglio, contribuiva colpevolmente a dissipare - quelle forme più ampie di partecipazione che la costruzione stessa dell'Ulivo avrebbe potuto e voluto alimentare.

Sin dal suo inizio in realtà, in un seminario convocato a Gargonza per rilanciare quella ispirazione e quelle aperture, l'allora segretario del Pds Massimo D'Alema vi contrapponeva una superiorità dei partiti che largamente prescindeva dalla loro profonda crisi (Umberto Eco lo ha ricordato di recente in modo graffiante). Alla caduta del primo governo Prodi la chiusura in sé di partiti rissosi e divisi diventò dominante e portò al tracollo. Portò poi a guardare con perenne fastidio la ripresa di iniziativa della società civile: dal movimento dei girotondi sino alla "lezione non raccolta" del pronunciamento referendario e delle elezioni amministrative della primavera scorsa.

Ha origine anche qui l'incapacità di contrastare adeguatamente il degrado complessivo e al tempo stesso di combattere i crescenti e multiformi sussulti distruttivi di oggi, privi sia dei miti identitari leghisti sia dell'illusionismo miracolistico del Cavaliere delle origini. Alimentati più trasversalmente che in passato da una politica che non ha saputo evitare al Paese il disastro attuale e non ha molti titoli per giustificare gli enormi flussi di denaro pubblico percepiti contro la volontà referendaria.

Una politica, soprattutto, che appare drammaticamente incapace di trovare in sé le forze per invertire la tendenza, unica via possibile per evitare il baratro. La speranza è l'ultima a morire ma il baratro sembra spaventosamente vicino.

Postilla

Forse la radice dell’errore è prima del seminario di Gorgonza. Forse è nel mutamento delle teste, nell’abbracciare l’ieologia del neoliberalismo, nell’assumere come propri gli slogan “più mercato e meno stato”, “privato è bello”, via lacci e lacciuoli” e così via. Parliamo degli anni 80, non ricordate?

La corruzione dei partiti, soprattutto quando sembra un fiume in piena che si ingrossa giorno dopo giorno, ha effetti devastanti. Non soltanto, com’è ovvio, sulla stabilità dell´ordine democratico e la credibilità delle sue istituzioni. Ma anche sulla mentalità politica generale. Poiché induce i cittadini a pensare che se lo Stato mettesse i partiti a pane e acqua questi non avrebbero più i mezzi sufficienti per essere disonesti. Togliere il finanziamento pubblico ai partiti può apparire come la ricetta vincente per costringere all´onestà secondo il detto popolare che l´occasione fa l´uomo ladro. Sull´onda degli scandali giudiziari e in un tempo come questo in cui il governo e il Parlamento impongono ai cittadini enormi sacrifici, questa tesi si fa via via più convincente.

Ma c´è da dubitare che sia la via migliore per impedire la corruzione. Basta ripercorrere brevemente la storia del finanziamento pubblico ai partiti per rendersene conto. La legge sul finanziamento pubblico dei partiti, introdotta nel 1974 per sostenere le strutture dei partiti presenti in Parlamento, fu voluta e approvata sull´onda di scandali. Attraverso il sostentamento diretto dello Stato, si disse, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione con i grandi interessi economici. Ma si trattò di una pia illusione perché gli scandali non si fermarono come mostrano le vicende Lockheed e Sindona. Evidentemente, la ragione della corruzione non sta nella sorgente del finanziamento. Che sia pubblico o privato, la corruzione resta. Quindi, pensare di rendere virtuosi i politici facendoli questuanti di soldi privati è illusorio. Non solo non vale a togliere la piaga della corruzione, ma ne produrrebbe una peggiore. Aggiungerebbe alla corruzione classica, quella cioè dello scambio – favori politici in cambio di denaro – un´altra che è ancora più devastante per la democrazia: la diseguaglianza politica. Infatti, lasciando che siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze economiche la diretta possibilità di tradursi in differenze di potere di influenza politica. Quindi alla corruzione della legalità si aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica. È questa la ragione per la quale il modello statunitense è pessimo.

In questi giorni di malaffare dilagante, che tocca addirittura il partito che si è consolidato gridando agli scandali altrui, si sente proporre il modello americano, magari corretto. Contro quel modello da anni si battono giuristi, opinionisti e teorici politici americani (da John Rawls a Ronald Dworkin tanto per menzionare i nomi più prestigiosi). Gli Stati Uniti sono la prova evidente di quanto sbagliato sia per la democrazia avere partiti privatizzati.

Per un democratico, proteggere le istituzioni politiche dalla corruzione significa proteggere l´eguaglianza politica dall´infiltrazione della diseguaglianza economica. La democrazia accetta le differenze economiche e crede che sia possibile impedire che trasmigrino nella sfera politica. Essa quindi si avvale di istituzioni, procedure e norme che bloccano il travaso di influenza economica in influenza politica. Per i critici di destra e di sinistra questa è una illusione. Perché non sia un´illusione occorrono buone leggi. Ora, le controversie americane sulla questione dei finanziamenti delle campagne elettorali vertono tutte su questo tema. La lotta tra il potere legislativo (il Congresso americano ha proposto e passato leggi che regolano e limitano il finanziamento privato) e il potere giudiziario (la Corte Suprema ha in casi importanti bloccato l´azione del legislatore) verte proprio sull´interpretazione della libertà, se solo un diritto dell´individuo (indifferente all´eguaglianza di condizione) o invece un diritto del cittadino (attento all´eguaglianza di opportunità politica). Il giudici sono schierati con la seconda interpretazione. Il loro punto di riferimento è il Primo emendamento alla costituzione, il quale tutela la libertà di espressione dall´interferenza dello Stato. Come bruciare la bandiera è stato definito, in una sentenza memorabile, un segno di libertà di opinione quindi un diritto intoccabile, così è per le donazioni private ai partiti o ai candidati. Bloccarle significa, dicono i giudici, bloccare la libertà di espressione. Nella sentenza del 2010 (che riprendeva sentenze precedenti molto importanti) conosciuta come Citizens United versus Federal Election Commision, la Corte Suprema a maggioranza liberista-conservatrice ha sì riconosciuto che "l´influenza del denaro delle corporazioni" esiste ed è "corrosiva" perché causa di corruzione in quanto facilita una "influenza impropria" ovvero una ineguale "presenza politica" nel foro politico. Nonostante ciò, la Corte ha concluso che non è comunque provabile che le compagnie private perseguano piani espliciti quando finanziano le campagne elettorali. Non si può provare che il loro denaro si traduce in decisione politica. Quindi non si può impedire la libertà di donazione.

Tuttavia l´uso dell´espressione "influenza impropria" è significativo perché suggerisce che la base della democrazia è l´eguaglianza politica dei cittadini, ovvero la loro eguale opportunità di influire sull´agenda politica dei partiti, non solo attraverso il voto. Allora, quando c´è corruzione? C´è corruzione solo quando un politico è colluso? Non c´è corruzione anche quando si dà ad alcuni cittadini più opportunità di voce che ad altri? Se per la virtù repubblicana la prima solo è corruzione, per i democratici la seconda è anche e forse più grande corruzione. Perché lede il fondamento della libertà politica eguale. Ecco dunque che la questione di come finanziare i partiti rinvia a una concezione della libertà: se solo del privato individuo che vuole dare i soldi a chi desidera, o invece del cittadino che deve godere di una eguale libertà rispetto agli altri cittadini e non avere meno opportunità di altri di far sentire la propria voce. Nella democrazia rappresentantiva ancor più che in quella diretta, l´esclusione politica può facilmente prendere la forma del non essere ascoltati perché la propria voce è debole, non ha mezzi per giungere alle istituzioni. E il denaro è un mezzo potentissimo.

È questa la ragione per la quale è importante avere il finanziamento pubblico dei partiti. Certo, si può intervenire sulla quantità, le forme, le condizioni; si possono inasprire le pene per chi viola la legge. Ma è sbagliato pensare di combattere la corruzione e il malaffare di cui i politici e i partiti si macchiano eliminando il finanziamento pubblico. Privatizzare i partiti (già ora troppo aziendali e familistici) significherebbe indebolire ancora più gravemente l´eguaglianza politica.

Ora l'ultima parola spetterà al Consiglio superiore dei Beni culturali. Ma il "giudizio" della Soprintendenza ai Beni artistici e della Direzione regionale dei Beni culturali è più di un "parere" proprio per le prescrizioni e le richieste inserite nell'atto formale inviato nella Capitale. E se comunque bisognerà attendere l'opinione del ministero sulla relazione Codello-Soragni, non c'è dubbio che il dibattito sul futuro del Fontego dei Tedeschi non potrà prescindere da quanto riportato nella nota dei due enti periferici del Ministero per i Beni culturali e di cui li Gazzettino ha dato alcune anticipazioni. E difficilmente il Comitato ministeriale arriverà a "smentire" o a modificare la posizione dei propri organi periferici. Ma la partita è ancora tutta da giocare, almeno a livello ministeriale, in attesa che Edizione Property e le parti ministeriali possano o vengano convocate a Roma per una audizione sul progetto.

Nel frattempo sulla questione Fontego è intervenuta Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale di Italia Nostra, che recentemente in un incontro con il ministro per i Beni culturali, Lorenzo Ornaghi aveva sottoposto una serie di critiche, e lanciato serie preoccupazioni non solo sul progetto Fontego, ma anche su altre questioni aperte riguardanti Venezia (seconda pista a Tessera, grandi navi, sublagunare, infrastrutture, reindustrializzazione, etc). «Purtroppo - dice la numero uno di Italia Nostra - fin troppo spesso le grandi aziende si nascondono dietro le "archistar" per mettere in atto i loro programmi. E fin qui non c'è nulla di male. Diverso è quando si intende far passare progetti che stravolgono un centro storico come quello che riguarda il Fontego dei Tedeschi. Diciamolo: l'architetto Koohlaas ha sempre disprezzato i centri storici. E in questo caso la Soprintendenza e la Direzione regionale gli hanno dato una vera e propria lezione. Siamo fieri di quanto hanno fatto e di come hanno lavorato per mettere nero su bianco tutte le perplessità del caso, e che nello specifico avevamo sollevato come Italia Nostra. E stato ribadito un concetto: gli architetti devono rispettare i centri storici e non devono stravolgerli. Modernizzare un centro storico significa offrire una visione antistorica». E il sindaco che ha contestato in passato le posizioni di Italia Nostra? «Nessuna polemica. Dico solo che è necessario avere uno sguardo lungo sui progetti che riguardano una città delicata come Venezia

LE PRESCRIZIONI

No alla terrazza "apribile" sul tetto e niente scale mobili nell'atrio Un piano "sezionato" e sul quale pesa una parola durissima: "progetto sovversivo". II diktat della Soprintendenza ai Beni Artistici e Architettonici e della Direzione regionale dei Beni culturali è di quelle da "antologia". E in questo caso tante sono le prescrizioni o meglio le "bocciature".Tra raccomandazioni e precisazioni se ne possono contare ben sette. I "no" più pesanti sono questi: il più importante e senz'altro quello che riguarda la discussa "terrazza" apribile verso la quale Soprintendenza e Direzione regionale oppongono una dura critica; di seguito ci sono il "no" alla trasformazione del cortile interno con opere che limiterebbero la luminosità e lo spazio; il divieto di demolizione dei bancali del 1500; la bocciatura dell'ipotesi delle due scale mobili interne; la proibizione nell'uso di materiali "moderni" come plexiglass o lamiere perforate fino all'ultima prescizione quella di non realizzare una sorta di mega approdo nell'ansa del Canal Grande all'altezza di Rialto. A queste indicazioni di principio vanno aggiunte alcune considerazioni elaborate dagli enti periferici del ministero che hanno contestato l'assenza di un progetto complessivo per la tutela delle facciate e la mancata definizione delle opere di tutela di graffiti.

«Dormi, o Poppea/terrena dea», canta Amore ne «L'incoronazione di Poppea» di Claudio Monteverdi. E meglio davvero che la bella e ambiziosa moglie di Nerone riposi in pace. Tornasse in vita, la sua vendetta su chi ha ridotto così la sua villa a Oplontis, nello sfacelo economico, urbanistico e morale di Torre Annunziata, sarebbe terribile. Riuscite a immaginare cosa farebbero gli americani o i francesi se avessero la fortuna di avere loro questo tesoro inestimabile che è la «Villa di Poppea»? Vedreste un'area di rispetto tutto intorno, parcheggi, visitor center, una struttura multimediale come «anticamera» per introdurre gli ospiti a capire quanto sia importante ciò che stanno per vedere a partire dalla stupefacente parete coi due pavoni (pavoni che avrebbero fatto appunto attribuire la villa all'imperatrice) dove si vede una prospettiva studiata sui libri di scuola di tutto il mondo. E poi ristoranti, caffè, bookshop e un museo coi reperti più belli e su tutti i meravigliosi «Ori di Oplontis» trovati nel 1984 nella villa di Lucius Crassius, che sta a poche decine di metri, spersa e umiliata come la residenza più famosa dentro una casbah sgangherata di orrende palazzine tirate su per mano di geometri e architetti dementi dal dio stesso della bruttezza.

Da noi: zero meno zero. Non c'è una zona di rispetto, non c'è un cartello stradale che aiuti a non perdersi nel casino di una viabilità delirante, non c'è un visitor center, non c'è un parcheggio, non c'è un bookshop e manco un baracchino, una gelateria, un bar... Niente di niente. Uno spreco pazzesco. Che ti fa venire in mente ciò che scrisse nel 1775 sul patrimonio pompeiano, in Viaggio in Italia, Alphonse de Sade: «Ma in quali mani si trova, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?». Ebbero un successo immenso, quei 65 elegantissimi gioielli trovati addosso ai poveri resti di una ventina di persone che si erano rifugiate in una stanza della villa mentre la lava del Vesuvio inghiottiva ogni cosa, quando furono esposti la prima volta a Castel Sant'Angelo. «La tragedia», disse il sovrintendente Baldassarre Conticello, «è che poi torneranno nel caveau di una banca perché a Torre Annunziata non c'è un museo». Era il lontano 1987.

Un quarto di secolo dopo, quel museo non solo non è ancora stato fatto ma manco progettato. E i celeberrimi «Ori di Oplontis», alcuni dei quali sono stati prestati per rarissime esposizioni che hanno fatto luccicare gli occhi anche agli australiani, sono chiusi in una cassetta di sicurezza. Vietati alla vista dei visitatori insieme con tutti gli altri reperti più preziosi che sono ammucchiati in un deposito (da cui peraltro sono appena spariti due pezzi) tra gli indecorosi casotti di cemento accanto alla cosiddetta «Villa di Poppea». Ecco il direttore, Lorenzo Fergola: «Possiamo vedere queste meraviglie in magazzino?». «E tutto chiuso». «I custodi non hanno le chiavi?». «No». «Chi le ha?». «Io». «E allora?». «Le ho dimenticate a casa». E tutti a fare la lagna: «Potessemo campa' solo 'e turismo!». E tutti a ricordare i tempi belli quando la città si chiamava Gioacchinopoli in onore di Gioacchino Murat: «Quant'era bella! 'O sole! 'O mare!». E tutti a citare quanto annotò nel diario Wolfgang Goethe nel 1787: «Pranzammo a Torre Annunziata con la tavola disposta proprio in riva al mare. Tutti coloro erano felici d'abitare in quei luoghi, alcuni affermavano che senza la vista del mare sarebbe impossibile vivere. A me basta che quell'immagine rimanga nel mio spirito».

Adesso, qui, sono «felici» di vivere solo i camorristi che arricchiscono, spacciano e ammazzano la gente intorno ai clan degli Aquino-Annunziata, dei Gallo, dei Vangone, dei Gionta. Così potenti e volgari che non solo avevano allestito un quadrilatero con fortificazioni elettroniche (quindici microcamere, tre centraline invisibili a occhio nudo, più alimentatori per ovviare all'eventuale taglio della luce) ma sono arrivati, come scrisse sul Corriere Fulvio Bufi, a «sostituire la pavimentazione stradale con marmi e piastrelle del genere che abitualmente viene utilizzato all'interno delle case». Sono così forti i camorristi, in questa città che ha visto chiudere 93 dei 94 pastifici e le fabbriche siderurgiche e lo «spolettificio» militare che ormai, dopo avere ingoiato parte della vastissima Villa di Poppea, è ridotto a uno stipendificio per meno di duecento dipendenti assistiti in un'interminabile agonia, da permettersi tutto. Anni fa, per la «strage di Sant'Alessandro», quattordici sicari arrivarono in pullman (in pullman!) davanti al Circolo dei Pescatori per annientare con mitra e fucili a pompa otto uomini legati ai Gionta. E non passa mese senza la scoperta di nuovi legami tra i clan locali, la 'ndrangheta della Locride e una certa imprenditoria marcia del Nord. «Fortapaso , chiamava Torre Annunziata il povero Giancarlo Siani, il giovane cronista del Mattino che qui lavorava e venne assassinato.

E se c'è un luogo simbolo in cui lo Stato dovrebbe a tutti i costi affermare la sua sovranità, è questo. Anche per proteggere quegli abitanti presi in ostaggio che cercano di ribellarsi alla paura, come hanno fatto i ragazzi dell'Istituto d'Arte «de Chirico» che scagliarono contro la camorra, grazie a grandi pannelli, raffiche di ironie, prese in giro, barzellette che ridevano dei boss più feroci. Macché. Anche se va plaudita una crescente offensiva delle forze dell'ordine, il commissariato di polizia a dispetto di anni di denunce è ancora inchiodato in una sede infossata tra i palazzi di corso Umberto e per uscire in strada, magari per accorrere in aiuto di qualche cittadino in pericolo, le volanti del 113 devono passare attraverso l'androne di un altro palazzo: basta un'auto parcheggiata male e addio. E la situazione del Tribunale, che ammucchia i fascicoli di mezzo milione di abitanti dei dintorni, è più o meno quella di quando il procuratore Diego Marmo denunciò l'invasione di ratti e una tale mancanza di spazio che «per 59 persone non solo non sono disponibili né sedie né scrivanie, ma non vi è posto nemmeno per ospitarle in posizione verticale». Cioè in piedi. Dentro questo sfascio, la villa di Lucius Crassius, come denuncia una lettera di pochi giorni fa dell'assessore Aldo Tolino al ministro dei Beni culturali, è catastrofica: «I locali a piano terra ove furono ritrovati gli "Ori di Oplontis", versano in condizione di grave degrado per infiltrazioni di acqua, che creano pericolo di crollo e dove i resti umani dei nostri antenati giacciono ammassati in cassette di plastica e abbandonati all'oblio più assoluto, mentre la quasi totalità degli affreschi di tutto il complesso, vero vanto dell'arte pittorica romana, versa in condizioni di grave deterioramento...».

Quanto alla Villa di Poppea, suscita incanto, rabbia e malinconia. Pavimenti luridi di polvere, mosaici che qua e là si sgretolano, affreschi che si gonfiano, tubi innocenti che reggono ovunque putrelle d'incerta stabilità, nastri di plastica biancorossa di traverso, lampade orrende oscenamente arrugginite, erbacce che crescono divorando il pavimento della piscina... E sopra le teste incombono ovunque, minacciosi, i pesantissimi soffitti sorretti da ciclopiche travi di cemento armato. Li piazzarono lì pensando così di proteggere le stanze affrescate, di una bellezza ineguagliabile. La scienza ha dimostrato, purtroppo, il contrario: in caso di terremoto l'avere ammassato tonnellate di cemento armato sui mattoni e le pietre antiche può moltiplicare i danni rendendoli devastanti. Un Paese serio si precipiterebbe a mettere in salvo tanta bellezza. E tenterebbe di rimediare al disastro fatto anni fa consentendo a queste palazzine bruttissime di assediare e quasi strangolare la residenza imperiale. L'Italia no. E anche se qualche boccone dei nuovi finanziamenti per Pompei pioverà anche qui, manca del tutto, spiega Antonio Irlando, presidente dell'Osservatorio Archeologico, un progetto vero, di respiro, ambizioso. Dorme, Poppea. E certo il suo sonno non sarà disturbato, in queste condizioni, da troppi turisti. Sapete quanti custodi e addetti vari lavorano alla villa? Trentotto. Sapete quanti visitatori paganti hanno comprato il biglietto nel 2011? Tenetevi forte: 10.125. Ventisette al giorno.

Titolo originale:Stemming rural depopulation in Ethiopia– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Dall’ufficio di Fasil Giorghis in centro a Addis Abeba si ha una ottima vista sulla capitale etiopica. Cantieri aperti sparsi ovunque, strutture di cemento da cui sporgono armature metalliche, avvolte in impalcature di legno di eucalipto. La pressione sulla città è enorme. La popolazione del paese in meno di trent’anni è raddoppiata sino ad arrivare a più di novanta milioni. Si calcola che ogni giorno arriva a Addis Abeba un flusso di 1.200 persone dalle campagne. Sperano in una vita migliore, disponibilità di acqua potabile, ospedali, scuole. Nonostante il livello di vita nella città da tre milioni di abitanti sia migliore di quello delle aree rurali, più della metà della popolazione abita in baracche auto costruite di legno, teli di plastica e lamiera ondulata, senza elettricità e fogne. “Siamo a un punto cruciale” avverte Fasil Giorghis. “Se non riusciamo ad arrestare lo spopolamento rurale andremo dritti verso una situazione catastrofica per le città”.

Concentrazioni di conoscenza e infrastrutture

Giorghis è uno dei più stimati architetti dell’Etiopia, ha scritto un libro sulla storia della capitale. “Questo è uno stato rurale. L’83% delle persona vive ancora nelle campagne. E dobbiamo offrir loro nuove prospettive. Possiamo farlo soltanto cambiando il modello di vita, da rurale a urbano”. Concentrando conoscenze e infrastrutture nei centri urbani, Giorghis vorrebbe iniziare un percorso verso un maggiore benessere. Franz Oswald e Marc Angélil, entrambi professori alla Eidgenössische Technische Hochschule di Zurigo, importante università svizzera, condividono la medesima visione. L’idea di NESTown [letteralmente Città/Nido n.d.t.] sviluppata da Oswald è di creare centri semi-urbani efficienti rispetto allo sfruttamento delle risorse, autogestiti dai contadini, e arginare così lo spopolamento rurale.

Il governo etiopico si è convinto della bontà dell’approccio e nel piano quinquennale si prevede la realizzazione di centinaia di villaggi e piccole cittadine nelle zone rurali. Oswald sta lavorando a uno che fungerà da modello, insieme a Giorghis: Burakebele(kebele è una circoscrizione municipale di campagna). Lo si può considerare una forma di ricerca-progetto, un “esperimento di vita reale”, finanziato dal Dipartimento di Architettura della scuola di Zurigo.

Giardini dell’Eden, ma solo per qualche mese

Bura si trova nell’Etiopia settentrionale, 350 chilometri da Addis Abeba in linea d’aria. C’è l’architetto Benjamin Stähli, dalla città più vicina, Bahir Dar, a coordinare il nuovo centro di villaggio per conto di Oswald e Angélil. È unamattina di sole, e Stähli parte per Bura insieme al suo ingegnere civile Teklehaimanot Daniel. Vogliono verificare gli avanzamenti. Per 90 minuti attraversiamo campi di mais, riso e grano. Difficile immaginare che negli anni ’80 queste terre siano state devastate dalla fame. “Nella regione di Amhara c’è una media di precipitazioni annue superiore a quella di Zurigo” spiega Stähli.

“Ma si concentrano in tre o quattro mesi”. Nel giro di sei mesi l’area sarà irriconoscibile: campi bruni o giallastri, terra spaccata dalla siccità, corsi d’acqua prosciugati. I contadini sono obbligati a portare tutte le vacche, le capre, gli asini ai pochi punti dove ancora è disponibile un po’ d’acqua. Stähli abbandona la strada ed entriamo in un sassoso pascolo. Nessun villaggio in vista, solo capanne sparpagliate, i tradizionali tukul rotondi fatti di rami di eucalipto e fango, col tetto di paglia intrecciata. Ci abitano famiglie anche con sette figli, in quindici metri quadrati circa, senza acqua corrente né elettricità.

A Burakebele oggi abitano in722 fra uomini, donne, bambini, sparpagliati su 1,6 chilometri quadri. Tutti vivono dell’agricoltura. C’è un rudimentale percorso pietroso, costruito dall’autorità regionale, che porta al punto in cui sta iniziando a prendere forma il “nido di Bura”, un’area erbosa delle dimensioni di un campo di calcio. Un piccolo corso d’acqua segna il confine col villaggio esistente. Gli operai lo stanno escavando con una draga meccanica. Si creerà un bacino artificiale in grado di proteggere la zona dagli allagamenti nella stagione delle piogge, e che poi servirà da abbeveratoio per il bestiame nei mesi asciutti.

Una fonte d’acqua affidabile

Una volta finita la stagione delle piogge, gli operai del kebele getteranno le fondamenta della prima “Unità Acqua Piovana”. È il modo in cui Stähli e i suoi colleghi chiamano il nucleo architettonico del villaggio. È uno spazio abitabile che si può espandere, e al tempo stesso raccoglie acqua; un tetto a spioventi di lamiera ondulata fa andare la pioggia in quattro contenitori della capacità di 20.000 litri. Che forniranno agli abitanti di che bere, cucinare, lavare, innaffiare. Si prevede che le cisterne trabocchino nella stagione delle piogge, e poi si preleva l’acqua per irrigare i campi nella stagione secca. Il tetto poggia su una struttura di travi di eucalipto a sua volta collegata a fondamenta di pietre naturali.

“Sin dall’inizio siamo partiti con materiali facilmente disponibili localmente, adeguati a costruzioni durature, accettabili dai contadini” racconta Stähli. Le pareti sono composte di fango raccolto nell’area circostante, impastato di paglia e intonacato di calce. Un blocco, con spazio abitabile per quattro famiglie ciascuna su 90 metri quadrati, costa circa 20.000 euro. Sono i futuri abitanti a costruire le strutture e se le manterranno da soli, con il sostegno di una scuola che insegna tutte le tecniche necessarie.

Da contadino ad abitante semi-urbano

Stähli è convinto che la sfida principale degli abitanti del nido di Bura non è di tipo tecnico, ma nello stile di vita. “Abitare più concentrati significa avere fiducia nella comunità. Qualcosa che è andato perduto durante il terrore del regime Derg fra gli anni ’70 e ‘80”. Stähli nutre comunque forti speranze nelle nuove generazioni, più propense a cambiar modello di vita. Per il giovane Aboset Adane in nido di Bura è soprattutto un’occasione per posti di lavoro ai ragazzi del villaggio, vuole contribuire personalmente alla costruzione del prototipo. Anche la giovane e timida Fentahun Denie spera che nella nuova comunità le donne saranno più protette dalle violenze sessuali. Avverte Stähli: “Un Amhara non dirà mai apertamente che il progetto non gli piace. In questa cultura esistono centinaia di modi per dire di no”.

Ma resta convinto che oggi in gran parte riconoscano che il nido di Bura è un’occasione. Non sono ancora state convinte e coinvolte le autorità locali. Obiettivo non semplice, perché mancano competenze, esperti, materiali, la burocrazia spesso rallenta le decisioni. Per questo Stähli cerca di fare opera di convincimento. Oggi pomeriggio a Addis Zemen, a qualche chilometro da Bura, proverà a passare senza appuntamento da Ato Tessalin,il responsabile di “cantone” del woreda (circoscrizione amministrativa superiore). E dopo aver ripetuto per l’ennesima volta di non voler assolutamente sprecare il preziosissimo tempo di Tessalin, Stähli assicura che la nuova strada è stata mappata e si cominciano a sistemare le alberature in vivaio, progetto questo cofinanziato da un Ong svizzera.

Tessalin deve anche stabilire una data per la presentazione ufficiale degli ultimi progetti. Stähli sa bene che dovrà insistere più volte. Ma non c’è nulla che possa arrestare il suo entusiasmo: appena uscito di corsa dall’ufficio ripete al collega Daniel: “Stiamo costruendo un nuovo villaggio! Nin facciamo il più bel lavoro del mondo?”

Quando il fascismo stava per finire, nel novembre 1944, un giornalista americano che conosceva bene l'Italia, Herbert Matthews, scrisse un articolo molto scomodo, sul mensile Mercurio diretto da Alba De Céspedes. S'intitolava "Non lo avete ucciso", e ci ritraeva, noi italiani e i nostri nuovi politici, incapaci di uccidere la bestia da cui in massa eravamo stati sedotti. Una vera epurazione era impossibile, soprattutto delle menti, dei costumi.

Troppo vasti i consensi dati al tiranno, i trasformismi dell'ultima ora. Matthews racconta un episodio significativo di quegli anni. Quando il governo militare alleato volle epurare l'Università di Roma, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale (Cln) chiese che la riorganizzazione fosse compiuta da due membri di ciascun partito: «In altre parole, una politica di partito doveva essere introdotta nel dominio dell'alta cultura: il che, mi sembra, è fascismo bello e buono». Il giornalista conclude che la lotta al fascismo doveva durare tutta la vita: «È un mostro col capo d'idra, dai molti aspetti, ma con un unico corpo. Non crediate di averlo ucciso».

L'idra è tra noi, anche oggi. Nasce allo stesso modo, è il frutto amaro e terribile di mali che tendono a ripetersi eguali a se stessi e non vengono curati: come se non si volesse curarli, come se si preferisse sempre di nuovo nasconderli, lasciarli imputridire, poi dimenticarli. È uno dei lati più scuri dell'Italia, questo barcollare imbambolato lungo un baratro, dentro il quale non si guarda perché guardarlo significa conoscere e capire quel che racchiude: la politica che non vuol rigenerarsi; i partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in cerchie chiuse, a null'altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere; la carenza spaventosa di una classe dirigente meno irresponsabile, meno immemore di quel che è accaduto in Italia in più di mezzo secolo.

E tuttavia distinguere si può, si deve: altrimenti prepariamoci alle esequie della politica. Ci sono uomini e partiti che si sono opposti e s'oppongono alla degenerazione, e ce ne sono che coscientemente hanno scommesso sul degrado. C'è la Costituzione, che protegge la politica e chi ne ha vocazione: compresi i partiti, che al caos oppongono l'organizzazione. Il molle non è equiparabile al colluso con la mafia, il mediocre non è un criminale. La politica è oggi invisa, ma a lei spetta ricominciare la Storia. I movimenti antipolitici denunciano una malattia che senz'altro corrode dal di dentro la democrazia, ma non hanno la forza e neanche il desiderio di governare.

Chi voglia governare non può che rinobilitarla, la politica. Se questo non avviene, se i partiti si limitano a denunciare l'antipolitica, avranno mancato per indolenza e autoconservazione l'appuntamento con la verità. Non avranno compreso in tempo l'essenziale: sono le loro malattie a suscitare i pifferai-taumaturghi (l'ultimo è stato Berlusconi). Il paese rischia di morire di demagogia, dice Bersani, ma questa morte è un remake: vale la pena rifletterci sopra.

Guardiamola allora, questa politica sempre tentata dai remake. Non è solo questione di corruzione finanziaria, o del denaro pubblico dato perché i partiti non siano prede di lobby e che tuttavia è solo in piccola parte speso per opere indispensabili (il resto andrebbe restituito ai cittadini: questo è depurarsi). La corruzione è più antica, ha radici nelle menti e in memorie striminzite.

Matthews denuncia lottizzazioni partitiche già nel '44. Un'altra cosa che smaschera è il ruolo della mafia nella Liberazione. Anche quest'idra è tra noi.

È lunga, la lista dei mali via via occultati, e spesso scordati. L'AntiStato che presto cominciò a crearsi accanto a quello ufficiale, e divenne il marchio comunea tante eversioni: mafiose, brigatiste, della politica quando si fa sommersa. Un AntiStato raramente ammesso, combattuto debolmente. E le stragi, a Portella della Ginestra nel '47 e a partire dal '69: restate impunite, anonime.

L'ultima infamia risale alla sentenza sull'eccidio di Brescia del '74, sabato scorso: tutti assolti. È un conforto che Monti abbia deciso che spetta allo Statoe non alle vittime pagare 38 anni di inchieste e processi: l'ammissione di responsabilità gli fa onore. Poi la P2: una «trasversale sacca di resistenza alla democrazia», secondo Tina Anselmi. Berlusconi, tessera 1816 della Loggia, entrò in politica per attuare il controllo dell'informazione e della magistratura previsto nel Piano di Rinascita democratica di Gelli. Le mazzette a politici e giornalisti si chiamano, nel Piano, «sollecitazioni».

È corruzione anche la sordità a quel che i cittadini invocano da decenni, nei referendum. Nel '91 votarono contro una legge elettorale che consentiva ai partiti di piazzare nelle liste i propri preferiti. Nel '93 chiesero l'abbandono del sistema proporzionale, che in Italia aveva dilatato la partitocrazia. Il 90.3 per cento votò nel '93 contro il finanziamento pubblico dei partiti. I referendum sono stati sprezzati, con sfacciataggine. Il finanziamento è ripreso sostituendo il vocabolo: ora si dice rimborso. Da noi si cambia così: migliorando i sinonimi, non le leggi e i costumi.

Ma soprattutto, sono spesso svilite le battaglie dell'Italia migliore (antimafia, anticorruzione). Bisogna cadere ammazzati come Ambrosoli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, per non finire nel niente. Le commemorazioni stesse sono subdole forme di oblio. Si celebra Ambrosoli, non la sua lotta contro Sindona, mafia, P2. Disse di lui Andreotti, legato a Sindona: «È una persona che se l'andava cercando ». Fu ascoltato in silenzio, e non possiamo stupirci se l'ex democristiano Scajola, nel 2002, dirà parole quasi identiche su Marco Biagi, reo d'aver chiesto la scorta prima d'essere ucciso: «Era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza». Ci sono cose che, una volta dette, ti tolgono il diritto di rappresentare l'Italia.

Viene infine la dimenticanza pura, che dissolve come in un acido persone italiane eccelse. Tina Anselmi è un esempio. Gli italiani sanno qualcosa della straordinaria donna che guidò la commissione parlamentare sulla P2? È come fosse già morta, ed è commovente che alcuni amici la ricordino. Tra essi Anna Vinci, autrice di un libro di Chiarelettere sulla P2. Con Giuseppe Amari, la scrittrice ha appena pubblicato Le notti della democrazia, in cui la tenacia di Tinaè paragonataa quella di Aung San Suu Kyi. Altro esempio: Federico Caffè, fautore solitario di un' economia alternativa ai trionfi liberisti, di rado nominato. Un mattino, il 15-4-87, si tolse di mezzo, scomparve come il fisico Majorana nel '38. Anosognosia è la condizione di chi soffre un male ma ne nega l'esistenza: è la patologia delle nostre teste senza memoria.

La letteratura è spesso più precisa dei cronisti. Nel numero citato di Mercurio è evocato il racconto che Moravia scrisse nel '44: L'Epidemia. Una malattia strana affligge il villaggio: gli abitanti cominciano a puzzare orribilmente, ma in assenza di cura l'odorato si corrompe e il puzzo vien presentato come profumo.

Quindici anni dopo, Ionesco proporrà lo stesso apologo nei Rinoceronti. La malattia svanisce non perché sanata, ma perché negata: «Possiamo additare una particolarità di quella nazione come un effetto indubbio della pandemia: gli individui di quella nazione, tutti senza distinzione, mancano di olfatto ». Non fanno più «differenza tra le immondizie e il resto».

Ecco cosa urge: ritrovare l'olfatto, anche se «è davvero un vantaggio» vivere senza. Altrimenti dovremo ammettere che preferiamo la melma e i pifferai che secerne, alla «bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità». Il profumo che Borsellino si augurò e ci augurò il 23 giugno '92, a Palermo, pochi giorni prima d'essere assassinato.

Uno dei principali obiettivi del governo Monti è quello delle privatizzazioni e della svendita del patrimonio immobiliare pubblico. Giustificato con la monocultura del fare cassa, si sta consentendo l'alienazione a prezzi stracciati di un compendio immobiliare di elevatissima qualità urbana e ambientale. La grande svendita è in atto da oltre un decennio, dalle cartolarizzazioni di Tremonti a tanti altri provvedimenti, fino ai giorni dell'attuale governo.

Prima di diventare ministro, Corrado Passera esercitava un mestiere che lo obbligava a conoscere benissimo quei provvedimenti. Gli istituti di credito sono stati infatti i protagonisti del vorticoso giro di acquisti e vendite immobiliari che ha caratterizzato l'ultimo ventennio. Doveva dunque conoscere le leggi e gli elenchi delle proprietà che via via i ministeri rendevano pubblici. E sa sicuramente che il suo Presidente del consiglio intende proseguire su quella sciagurata strada.E ppure, pur di uscire dalla difficoltà durante un'intervista televisiva domenicale, il ministro ha dato fondo a tutta la sua abilità dialettica.

Le sembra giusto - questo il senso delle sue parole - che lo Stato paghi miliardi di euro ogni anno in affitti mentre ha un gran numero di proprietà che potrebbero essere utilizzate per gli stessi fini senza spendere nulla? E bravo ministro. Benvenuto nel convinto mondo dei difensori del patrimonio pubblico quale strumento per programmare il territorio e risparmiare risorse preziose. Già che c'era, poteva anche esemplificare ricordando il caso delle torri del ministero delle Finanze dell'Eur che da un decennio erano state destinate alla valorizzazione immobiliare per farne abitazioni di lusso. Stavano per essere demolite, e da molti anni gli uffici sono stati trasferiti a caro prezzo in immobili privati. Milioni di euro all'anno che pesano sul bilancio dello Stato e ingrassano la rendita.

Con quelle parole, il ministro Passera ha sottoscritto un solenne impegno: prima di procedere alla vendita di qualsiasi immobile pubblico deve essere preliminarmente eseguita un'analisi se possano essere utili per risparmiare sugli affitti passivi o per risolvere i più gravi problemi sociali della popolazione.

In questi giorni il Sole 24 Ore parla con evidenza di una «grave crisi abitativa» la cui dimensione è stimata in 580 mila alloggi. Il fiume di cemento che in questi venti anni ha devastato l'Italia non è dunque servito a risolvere i problemi abitativi delle famiglie più povere. Per la nostra cultura era scontato: è la mano pubblica a doversi far carico delle esigenze sociali. Sappiamo purtroppo come è andata la storia: la cultura liberista ha trionfato sostenendo che il mercato avrebbe risolto tutto. Oggi raccogliamo il tragico fallimento.

Coraggio allora, ministro Passera. Salga sulle torri delle Finanze ancora fortunatamente in piedi grazie alle proteste di preziosi comitati e imponga che vengano riutilizzate per gli uffici ministeriali. E, già che c'è, ne destini una parte - anche piccola - ad abitazioni sociali. È solo con una lungimirante mano pubblica che si può uscire dalla crisi.

La democrazia in Italia è già sotto stress: non corre il rischio di esserlo. Questa è la notizia. Non buona. Oltre che da una crisi economica finora indomabile, la democrazia è messa a dura prova da una delegittimazione dei partiti e dell´intera sfera politica. Se il detonatore è stata la vergognosa caduta della Lega nel familismo amorale in salsa padana, ciò che è esploso era già di per sé una polveriera: ovvero, la controversa materia del finanziamento pubblico dei partiti. Di questo in verità si tratta, sotto le mentite spoglie del rimborso delle spese elettorali – un travestimento reso necessario dall´esigenza di bypassare la volontà espressa dal popolo sovrano in un referendum – , che ha portato nelle casse dei partiti, in diciotto anni, 2,3 miliardi di euro. Una somma molto superiore alle effettive spese elettorali, grazie alla quale si sono mantenuti apparati, giornali, raggruppamenti politici fittizi o estinti, oltre che famiglie eccellenti e tesorieri creativi.

Dunque i punti sono due: da un lato, la quantità eccessiva di rimborsi; dall´altro, l´opacità dell´erogazione e della gestione di ingentissime somme di denaro pubblico, affidate – in pratica discrezionalmente – a soggetti (i partiti) dall´incerto status giuridico (entità private non regolate da una legge che ne disciplini la democrazia e la trasparenza della vita interna). Il potenziale inquinante di questa massa di denaro incontrollata è altissimo; Margherita e Lega lo dimostrano.

E l´effetto delegittimante di queste prassi dovrebbe essere percepito da tutti, soprattutto dai politici. Nessuno escluso. Perché se è vero che non tutti i partiti hanno distratto il pubblico denaro per le private finalità di qualche dirigente; se è vero che la trasparenza dei bilanci è diversa (su base volontaria) da partito a partito; se è vero che alcuni partiti cercano fonti di finanziamento anche e soprattutto nelle contribuzioni volontarie di militanti e di simpatizzanti; è anche vero che tutti i partiti hanno percepito quel pubblico denaro in quantità smodata, e che tutti i partiti definiscono "antipolitica" quello che, originariamente, è invece legittimo sdegno dei cittadini davanti all´evidenza che i sacrifici, in questo Paese, si fanno a senso unico. Il sistema politico largheggia verso se stesso, o almeno è più leggero nei tagli, mentre è severo (in certi casi fino alla spietatezza) con i cittadini.

A ciò si aggiunga che piove sul bagnato, che il discredito si aggiunge al discredito. Questo sistema politico, infatti, è non solo costoso e inquinato ma anche inefficiente: ha dato tanto buona prova di sé da dover affidare l´Italia a un gruppo di tecnici perché tentino (con tutti i limiti della loro azione) di non farla precipitare nel burrone sul cui orlo l´ha condotta la cattiva politica dei partiti. Il sistema politico non è un innocente capro espiatorio del malumore e della rabbia dei cittadini. Ha responsabilità gigantesche: se non giudiziarie, politiche.

L´antipolitica, quindi, nasce – ed è pericolosissima – come reazione alla mancata risposta politica (e non ragionieristica, venata di sufficienza, o di spirito didascalico e paternalistico) dei partiti alle domande, tutte politiche e tutte legittime, degli italiani: "Perché vi attribuite tanto denaro?", "perché non vi sottoponete a controlli seri e severi?", "come giustificate la spesa che la collettività sostiene per voi?". La risposta a queste domande non può essere solo che i partiti sono indispensabili alla democrazia e che quindi vanno in qualche modo finanziati per evitare che la politica cada nelle mani dei ricchi (il che, oltre tutto, è avvenuto, nonostante gli abbondanti trasferimenti di pubblico denaro alle forze politiche). Perché certamente è giusto che la democrazia sia un costo; ma deve essere anche un buon investimento - oculato, controllato, ed equilibrato per quanto riguarda il rapporto costi/benefici -. La democrazia deve "rendere", in termini di qualità della vita associata, di efficienza e di trasparenza decisionale, e al tempo stesso di apertura della politica sulla vita reale dei cittadini.

Non le prediche ma la politica è la vera risposta all´antipolitica. Il primo passo è il riconoscimento che l´antipolitica dei cittadini nasce dalla pessima politica dei partiti. E il secondo è un operoso ravvedimento: una riforma rapida, severa e inequivocabile dei rimborsi, che ne limiti molto l´entità e li sottoponga a controlli inesorabili. Il terzo, sarebbe ricominciare a pensare in grande; a conoscere e progettare la società italiana. Non è chiedere troppo. È esigere il giusto.

Nella primavera 1978 le Brigate rosse sottoposero Aldo Moro a un interrogatorio che riguardò anche la strage di piazza Fontana del 1969 e quella di piazza della Loggia del maggio 1974. Come è noto, il memoriale del prigioniero è giunto a noi incompleto, ma su quegli anni egli formulò un giudizio chiaro utilizzando la categoria di "strategia della tensione". Quel tempo fu «un periodo di autentica ed alta pericolosità con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise». Moro espose i meccanismi e le finalità della strategia della tensione, impostata da servizi stranieri occidentali con propaggini operative in due paesi allora fascisti come la Grecia e la Spagna. Essa aveva potuto godere del contributo dei servizi italiani militari con «il ruolo (preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia», ossia dell'Ufficio Affari riservati diretto da Federico Umberto D'Amato.

Secondo il prigioniero lo scopo era stato quello di realizzare una serie di attentati attribuendoli alla sinistra per destabilizzare l'Italia e poi coprire i veri responsabili con appositi depistaggi: «La c. d. strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l'Italia nei binari della "normalità" dopo le vicende del '68 ed il cosiddetto autunno caldo», anche se Moro trascurava il varo nel giugno 1972 del governo centrista Andreotti-Malagodi, dopo l'attentato di Peteano per cui è reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Secondo l'ostaggio i servizi segreti italiani non diedero vita a deviazioni occasionali, ma a un'opera sistematica di inquinamento per «bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall'autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere». Egli fece riferimento all'azione di "strateghi della tensione", senza però offrirne un ritratto esplicito, e si espresse duramente nei riguardi della Democrazia cristiana: «Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla D. C. di allora ed ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto». E ancora: «se vi furono settori del Partito immuni da ogni accusa (es. On. Salvi) vi furono però settori, ambienti, organi che non si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza e fermezza».

L'attenzione di Moro si focalizzava su Giulio Andreotti, il quale aveva «mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il Ministero della Difesa entro il 68». In particolare con la Cia, «tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani». Moro ripeteva, per ben undici volte, il nome del giornalista neofascista Guido Giannettini, incriminato nel 1973 per la strage di piazza Fontana da cui sarà assolto, sottolineando l'importanza di un'intervista che Andreotti aveva concesso a Il Mondo nel giugno 1974, all'indomani della strage di Brescia, in cui aveva rivelato che Giannettini era in realtà un agente del Sid infiltrato in Ordine nuovo. È come se Moro avesse voluto alludere a una pregressa consapevolezza di Andreotti ("uomo abile e spregiudicato") riguardo alle azioni messe in campo da quegli ambienti, da cui aveva deciso improvvisamente di prendere le distanze («un primo atto liberatorio fatto dall'On. Andreotti di ogni inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualche cosa di precedente, di un elemento di un intreccio certo più complicato»).

Tale ricostruzione sarà confermata nell'agosto 2000 da Gianadelio Maletti, il responsabile dell'ufficio D del Sid dal 1971 al 1975, condannato per avere agevolato la fuga di Giannettini all'estero, il quale, in un'intervista a Daniele Mastrogiacomo per questo giornale, dichiarò «La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell'estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l'arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione».

In che modo? «Lasciando fare», e Andreotti «era molto interessato. Soprattutto del terrorismo di destra e dei tentativi di golpe in Italia».

È significativo notare che Pier Paolo Pasolini nel novembre 1974, ossia pochi mesi dopo la strage di Brescia e l'intervista dell'allora ministro della Difesa Andreotti che scaricava l'agente dei servizi militari Giannettini, scrisse sul Corriere della Sera l'articolo Cos'è questo golpe? Io so, in cui individuava l'esistenza di due diverse fasi della strategia della tensione: la prima, con la strage di piazza Fontana, anticomunista, funzionale a chiudere con l'esperienza dei governi di centro-sinistra e ad arginare l'ascesa del Pci; la seconda, con le bombe di Brescia, antifascista, ossia utilizzata per bruciare quanti ancora erano impegnati a creare le condizioni di un golpe nero e di una soluzione militare in Italia, esattamente come fatto da Andreotti con Giannettini: «Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista)». Forse per sempre senza nome. Così scriveva un anno prima di essere ucciso il poeta che ebbe l'ardire di farsi storico del suo presente: l'ultima profezia, come ribadisce la sentenza dell'altro ieri sulla strage di Brescia.

Sull’argomento vedi la postilla all’articolo di Benedetta Tobagi di ieri.

FORSE non ve ne siete resi conto, ma ieri mattina, quasi in sordina, si è chiusa un´epoca. Per quanto sopravviva una flebile speranza di nuove inchieste, ieri a Brescia nella sostanza (resta solo il ricorso in Cassazione) si è chiusa, con bilancio fallimentare, la pluridecennale stagione delle inchieste giudiziarie per le bombe della "strategia della tensione". Le condanne mancate parlano dell´inquietante presenza di reti di solidarietà occulte Ma la battaglia democratica degli inquirenti e della società civile lascia un´eredità preziosa

La strage di Brescia gode di un triste primato: nessun condannato. «Me l´aspettavo» è il commento più frequente al dispositivo della sentenza d´appello. Realismo comprensibile, ma non per questo meno tremendo. Quanto è terribile essere preparati a qualcosa di inaccettabile sotto il profilo etico, civile e semplicemente umano? Non aspettarsi più condanne per una strage di matrice politica che ha ucciso 8 persone: 5 insegnanti attivi nel sindacato, 2 operai, un ex partigiano. Un microcosmo specchio dell´Italia che pacificamente lottava, lavorava e sperava, in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista e in piazza ucciso dall´ennesima bomba neofascista (con buona pace dei "negazionisti" di casa nostra, questo è accertato). Mentre l´Italia inorridiva davanti alla carneficina, il luogotenente per il triveneto dell´organizzazione terroristica Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, arringava i suoi "soldati": «Brescia non deve rimanere un fatto isolato». Assolto: ma siano noti a tutti i suoi reiterati proclami stragisti, nell´Italia dove le stragi sono accadute per mano di individui che l´hanno fatta franca.

Terribile perché – e lo vedi negli occhi rossi, nelle facce tirate – dopo una lunghissima inchiesta (per consentire lo svolgimento di un´indagine complessa grazie all´impegno civile dei famigliari delle vittime ci sono stati interventi legislativi ad stragem per prorogare i tempi oltre il limite dei 2 anni) e un lungo processo, la possibilità di condannare esisteva. Parafrasando Pasolini: oggi non solo sappiamo, ma abbiamo faticosamente accumulato prove e indizi, «che in tanti processi comuni bastano e avanzano a condannare» – commenta a caldo un legale di parte civile. Insufficienti a provare il concorso in strage al di là di ogni ragionevole dubbio nel rito lento e cauto del processo accusatorio, in uno stato di diritto. Sia chiaro a quanti storcono il naso pensando che qualcuno andasse a caccia di un colpevole a tutti i costi. Non è un caso che le prove, nei processi per strage, non bastino mai.

Quest´assoluzione è solo l´ultima, umiliante vittoria di un´attività sistematica volta a distruggerle e depistare le indagini. Cominciata la mattina della strage, col frettoloso lavaggio della piazza, con sacchi di materiale raccolto dopo l´esplosione finiti nella spazzatura, anziché repertati: forse anche frammenti del timer della "bomba fantasma" su cui in aula si è guerreggiato. Le testimonianze dei primi periti, concordanti con la descrizione del defunto collaboratore Carlo Digilio (l´armiere di Ordine Nuovo, che preparò l´ordigno di piazza Fontana) non sono bastate a far ritenere credibile la sua testimonianza. Brescia fu il prototipo di una strategia di depistaggio sofisticata (poi smascherata dagli stessi tribunali). Una tecnica più subdola delle "piste rosse" costruite intorno a piazza Fontana: la "falsa pista nera". I responsabili? Si additò un manipolo di fascistelli sbandati, piccoli criminali capeggiati dall´istrionico manipolatore Ermanno Buzzi. Una pista circoscritta, lontana dalle "trame nere" milanesi (oggetto del secondo ciclo di processi, che mandò assolti gli imputati per strage, ma tracciò il quadro della rete terroristica cui doveva appartenere la manovalanza) e da quelle venete, a cui appartenevano gli imputati dell´ultimo processo. Processo istruito anche sulla base di note informative del Sid coeve ai fatti (la fonte era l´imputato Maurizio Tramonte): queste portano dritto alla galassia terroristica di Ordine Nero, che aveva esplosivi, uomini, intenti eversivi, responsabile di uno stillicidio di attentati nell´anno precedente, filiazione del blocco eversivo di Ordine Nuovo, disciolto dopo la condanna del 1973 per ricostituzione del partito fascista. Un manipolo di sbandati prudentemente lontano dalle trame di golpe "bianco" autoritario o presidenzialista - anch´esse più sofisticate del progetto di golpe militare modello greco di Borghese - emerse proprio nel 1974 con le inchieste Mar e "Rosa dei venti". Una pista nera "sbiadita" e innocua, portata avanti con ogni mezzo dal generale Francesco Delfino, passato sul banco degli imputati. Assolto dal concorso in strage, forse leggeremo nelle motivazioni che è stato responsabile di favoreggiamento, ormai prescritto: le arringhe di parte civile l´hanno argomentato in modo stringente. Sarebbero andate diversamente le cose se i centri di controspionaggio del Sid, anziché occultarle fino agli anni Novanta, avessero fornito nel ‘74 quelle note informative (confermate anche dal generale del Sid Maletti, un "depistatore" di piazza Fontana, dal suo buen retiro sudafricano)? Se i carabinieri di Padova, comandati dal piduista Del Gaudio, avessero fornito le copie che avevano? Se il centro di controspionaggio di Padova non avesse distrutto non solo i documenti, ma - contro regolamenti - anche i registri che dovrebbero lasciarne traccia? Una parte di Stato ha lavorato con costanza e sistematicità per coprire i bombaroli che alimentavano la tensione, e poi per proteggere se stessa. Le condanne mancate parlano dell´inquietante sopravvivenza di reti di solidarietà occulte, suggeriscono una continuità di pratiche illegali annidate in seno alle forze di sicurezza, che ci balenano davanti agli occhi nei "depistaggi sofisticati", a base di piste false ma verosimili, messi in atto quando s´indaga sulle stragi mafiose, sulle trattative Stato-mafia.

La zizzania e il grano continuano a crescere insieme. Siamo figli di quei peccati e di quelle omissioni, ne portiamo il peso, ne paghiamo il prezzo. Oggi, nell´Italia impoverita, pessimista, delusa dalla politica, stritolata dalle organizzazioni mafiose, la tenacia e la battaglia democratica degli inquirenti, delle parti civili, di tanta società civile forniscono l´insegnamento più prezioso: vale comunque la pena lavorare, si riesce a consolidare un corpo vivente di carte, prove, voci, immagini che ci raccontano cosa è accaduto attorno a noi. Le assoluzioni non bastano a cancellarlo. Cantava De Andrè: "Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti".

Postilla

La strage di Piazza Fontana non ci ricorda solo la complicità di “pezzi” (peraltro molto rilevanti) dello stato, ma anche un altro delitto d’altro ordine: quello compiuto dalla linea culturale, diventata egemonica, che ha tentato di seppellire un fatto storico ormai accertato dagli studiosi più attenti.

Il fatto che con la “stagione delle bombe” si è voluto contribuire - nell’immediato - a contrastare l’avanzata di riforme vere (riforme della struttura civile, economica, sociale del nostro paese) e – più tardi – a cancellare la memoria di quegli anni in cui si lottò, con successo, per un vero progresso della società italiana dando attuazione ai dettami e allo spirito della Costituzione e della Resistenza.

La rimozione della memoria del processo di riforma civile e sociale avviata, e in parte realizzata, negli anno 60 e 70 del secolo discorso è stata un’arma sapientemente adoperata in Italia per affermare anche da noi l’ideologia e la prassi del neoliberismo, attraverso il craxismo prima e il berlusconismo poi.

Mi sembra che non ne siamo ancora fuori, in nessuno dei segmenti dello spazio politico attuale. Anche per questo è utile ricordare quelli che ho definito I vent’anni del cambiamento e della speranza: un articolo pubblicato su “Carta”, che vi ripropongo.

E’ veramente ineccepibile la posizione assunta dall’assessore De Falco sulla questione dell’Antica Dogana, soprattutto nel ricordare a noi tutti che non di edilizia si tratta, quanto delle forme e dei contenuti della nostra democrazia. Se i nostri vecchi ci avevano sempre detto che la Repubblica è fatta di tre cose (popolo, sovranità e territorio), la proposta di “insula autogestita” avanzata dalla Romeo rappresenta davvero l’ultimo atto del singolare percorso intrapreso dal nostro paese verso lo “stato bidimensionale”, privo cioè di potestà territoriale.

Aveva iniziato il centrodestra con il Piano casa e con l’abolizione dell’ICI, due provvedimenti che hanno mutilato irrimediabilmente i poteri e le competenze delle autorità municipali, compromettendo l’effettiva possibilità di un governo pubblico delle nostre città. Scelte politiche dissennate, prive di riscontro nelle altre democrazie liberali, alimentate da una ideologia proprietaria che scambia la città per un agglomerato di case, l’urbanistica con l’edilizia; che ignora che è nella dotazione di beni e servizi pubblici, finanziati dal patto civile e fiscale, il segreto della qualità e della vitalità urbana.

Con l’istituzione dell’insula si compie il passo finale, quello del riconoscimento di un vero proprio regime di extraterritorialià. Si rompe così il patto fondativo della polis, scritto nella nostra costituzione. La scelta poi di chiamare tutto questo “federalismo urbano”, additandolo come possibile modello futuro di città, è il tributo finale a Umberto Bossi, un’ulteriore conferma della sua vittoria, se non politica culturale (che è peggio), perché è evidente che questa è una secessione, una separazione ultimativa: la disperata presa d’atto dell’impossibilità di un progetto comune, di una sintesi civile tra i pezzi deboli e quelli forti della nostra città.

E poi, c’è anche una questione di opportunità. I patti di lungo periodo si fanno tra uguali, altrimenti sono altre cose. Nell’attuale crisi finanziaria e istituzionale, l’accordo con la Romeo, nei termini in cui si va configurando, avrebbe il valore di un patto leonino, di una liquidazione fallimentare: sarebbe la resa del governo municipale, l’abdicazione alla sua missione costituzionale: quella di assicurare ai cittadini un governo unitario del territorio, che rappresenta il nostro principale bene comune.

Tutte cose, come opportunamente ricordato dall’assessore De Falco, che sono scritte nel Piano regolatore, qui richiamato non come feticcio, come gabbia burocratica di prescrizioni e comandi; ma piuttosto come agenda di cura e miglioramento della città da far vivere ogni giorno: una strategia per integrare finalmente le contrastanti identità territoriali che nel loro insieme compongono quella cosa che continuiamo a chiamare “Napoli”. Lasciando perdere le insule recintate, e assicurando invece alle politiche per la città lo stesso buon vento che muove veloci in questi giorni i catamarani sul golfo.





RASSEGNA STAMPA

Corriere del Mezzogiorno, 28 marzo 2012

La proposta di Romeo per Napoli:

una federazione di condomini

di Marco Demarco



L'area della vecchia dogana trasformata in quartiere modello, stile Barcellona o Berlino - C’è l’OK della giunta De Magistris



NAPOLI - «L'insula della vecchia dogana come il quartiere di Puerto Madero a Buenos Aires. Napoli come Barcellona o Berlino. Dopo tanti buchi nell'acqua, arriva un progetto di valorizzazione urbana che è molto di più di quel che appare. La brochure di accompagnamento, con tanto di rendering, foto e tabelle, parla, in copertina, di una città «evoluzionaria», ma poi a pagina 6 la proposta diventa addirittura «rivoluzionaria». Forse è stato proprio questa aggettivazione, così volutamente progressiva e ruffiana, a far sì che personaggi assai distanti trovassero alla fine il modo di accordarsi. Il sindaco Luigi de Magistris e l'autore della proposta, Alfredo Romeo: ecco l'ultima imprevedibile coppia che il palcoscenico napoletano mette in cartellone. Dietro le quinte c'è l'intesa sui 43 milioni che il Comune di Napoli deve all'azienda Romeo per anni di gestione immobiliare; sullo sfondo c'è un progetto di recupero urbano che riguarda, appunto, l'insula a ridosso del porto e alle spalle del teatro Mercadante; ma in scena c'è molto, molto di più: addirittura un nuovo modello di governo della città, qualcosa che potrebbe mandare in soffitta l'attuale organizzazione comunale, i presupposti per una nuova forma di federalismo.

L'ALBERGO «ROMEO» - Premessa d'obbligo: «Ho scelto quest'area — dice Romeo — perché voglio dare una mano alla città, aiutarla a risollevarsi; ma anche perché qui c'è il mio albergo, e dunque non a caso. Sono pur sempre un imprenditore». Ma poi c'è anche un'altra ragione. Romeo vuole sperimentare un modello di gestione su cui specializzare la sua azienda. Vuole verificare se l'idea può funzionare, il suo è dunque una sorta di investimento. Proprio per questo, regala il progetto al Comune; è pronto a realizzarlo a sue spese, costo previsto dai tre ai quattro milioni; e, così dice, non si propone per la gestione: «Perché se il modello funziona, deve funzionare con me o senza di me». Sulla terrazza con vista sul porto e sul vecchio molo borbonico dell'hotel che porta il suo nome, davanti a una insalata con tonno essiccato e sale di vaniglia, orgoglio dello chef, Romeo spiega dunque il suo progetto. Piantina sul tavolo, ecco com'era l'antica dogana, che si chiama così perché una volta il porto arrivava fin qui, ed ecco come sarà. Garage interrato automatico per 90 auto in vico II San Nicola alla Dogana, di quelli che lasci l'auto su una piattaforma, schiacci un bottone, e te la ritrovi sistemata in un loculo libero; isole pedonali in piazza Francese e piazza della Dogana; rifacimento della pavimentazione e dell'illuminazione; insegne graficamente omogenee; e poi essenze arboree, rimozione degli abusi, decoro urbano.

L'AREA INTERESSATA - La superficie dell'insula è di oltre 37 mila metri quadrati, e ha, attualmente, un valore commerciale totale, a detta dell'agenzia del territorio, di 338 milioni di euro. A lavori conclusi potrebbe arrivare fino a 577 milioni, aumentare cioè del 48 per cento. Tanto margine di incremento si spiega perché, tra le città a vocazione turistica come Roma e Firenze, Napoli è l'unica in cui il valore immobiliare nel centro antico è maggiore, rispetto alla media, solo del 10 per cento. «Quest'area ha grandi potenzialità, se solo se ne avesse cura», commenta Romeo. In sostanza, questo imprenditore assai discusso e poco simpatico; che gestisce patrimoni immobiliari come il Quirinale; che ha un'azienda che nel settore è prima in Europa e seconda al mondo; che è stato ed è coinvolto in inchieste giudiziarie dalle quali è sempre uscito indenne e, dal punto di vista imprenditoriale, più forte di prima; questo insolito imprenditore meridionale, si diceva, ha inventato, almeno così pare, il modo di mettere a reddito la città, di gestirla senza aggravare la contabilità pubblica. Un modello che esporterà presto all'estero, a Londra prima che altrove. «Se funziona qui, funziona ovunque», ribadisce. L'idea, in sostanza, è di dividere Napoli in insule o, se si vuole definirle in altro modo, in grandi condomini urbani. E di amministrare queste realtà omogenee come si amministra un'azienda: qui i costi, qui i ricavi. I costi sono le ristrutturazioni, i parcheggi, le panchine, le aiuole; i ricavi vengono invece dalla rivalutazione del patrimonio. E il capitale con cui mettere in moto la macchina? Ecco l'uovo di Colombo: la quota parte di tributi locali come la Tarsu, l'Imu, i canoni acqua, i proventi delle affissioni, eventuali imposte di scopo. Le città vivono di trasferimenti statali e di gettito tributario. Tuttavia, spiega Romeo, «in tempi in cui i trasferimenti statali sono destinati a ridursi sempre di più, non resta che affidarsi al secondo».

L'«AUTOGOVERNO» DELL'INSULA - E allora. Quanto versa, in tributi, un'insula? Quella è la cifra da cui si comincia a ragionare. Per quella cifra, quali servizi riceve? Romeo è convinto che se la gestione avviene non più in modo centralizzato, ma per aree omogenee, tutti i servizi possono essere resi più efficienti e più convenienti. Non solo: si può produrre anche una utilità marginale, un guadagno, da reinvestire in parte nell'insula stessa, in parte in altre realtà, e in parte per potenziare i servizi «trasversali», come i trasporti o la polizia municipale, che riguardano l'intera città. Certo, si tratta di smontare e rimontare la macchina comunale, ma la novità assoluta consiste nel fatto che ogni insula si autogoverna. Vive, cioè, del suo gettito tributario e si gestisce in proprio la sicurezza, la raccolta dei rifiuti, o la manutenzione stradale. È dunque lecito parlare di un nuovo federalismo, di un «federalismo urbano», per la precisione. Alfredo Romeo: il Gianfranco Miglio del Sud? Già, proprio questo è il punto. L'autogoverno: è qui che il comunitarismo privatistico e pragmatico di Romeo incontra il benecomunismo utopico di de Magistris. Non a caso entrambi parlano di nuove forme di governo e di democrazia partecipata, e Romeo addirittura mobilita lo staff di Renato Mannheimer per consultare e coinvolgere al progetto quanta più gente è possibile. Ma è qui, anche, che l'aziendalismo dell'uno potrebbe fare a pugni con le esigenze politiche dell'altro. In fondo, in una città come Napoli, un quartiere come Chiaia starebbe alla ricca Lombardia leghista come Secondigliano alla più povera Campania. Come può de Magistris fare sua una ipotesi del genere? Può, risponde Romeo, perché le cose non stanno affatto così: «So bene che ci sono ragioni sociali primarie e esigenze di equilibrio territoriale, ma sono pronto a dimostrare che tutte le insule possono avere, nel gioco tra costi e ricavi, la loro marginalità positiva». E perché? «Perché lì dove non c'è la ricchezza di Chiaia o del Vomero può esserci la quantità dei quartieri popolari. Si pensi alla densità abitativa di un rione come Scampia. Ma poi anche nelle aree più deboli ci sono realtà che possono produrre reddito, come gli spazi per le affissioni o i muri ciechi che potrebbero essere utilizzati per la pubblicità. Basta pensarci».

LA SOLUZIONE PER LE BUCHE - Se il problema è «scassare», conclude Romeo citando esplicitamente il sindaco, ecco un modo concreto per farlo: fuori il pletorico apparato burocratico dei Comuni e dentro una nuova e più funzionale organizzazione. «Del resto — profetizza — chi può credere di poter gestire le città, anche negli anni a venire, con gli strumenti del secolo scorso, con rimesse statali sempre più ridotte, con competenze spezzettate tra una dozzina di assessori, con centinaia di funzionari e con ventimila dipendenti? Una simile megastruttura non può reggere a lungo. E presto si arriverà, ne sono certo, a chiedere il pedaggio per attraversare le strade urbane, come si fa per la tangenziale e le autostrade». Che fare, allora? «I Comuni sono ormai grandi produttori di servizi. E importa poco se sono di destra o di sinistra. Importa di più reperire le risorse necessarie e coniugare le ragioni del rigore economico con quelle dell'efficienza e della solidarietà». Inutile dire che Romeo avrebbe una soluzione anche per il problema delle buche stradali, che a Napoli non è un problema da poco. A Roma, prima che arrivasse Alemanno, ha curato il servizio per anni: macchine speciali che passano ai raggi x il manto stradale, sensori che avvertono i primi segni di cedimento, dati trasmessi a una centrale operativa con tanto di telecamere e squadre di pronto intervento per riparare i danni. Funzionava, pare. Anche se dopo è arrivato un altro gestore. Qualche anno fa, citando i classici del riformismo e prima di Romeo, anche Blair diceva che riparare una strada non è né di destra, né di sinistra.

La Repubblica, ed. Napoli, 12 aprile 2012

Antica Dogana, alt ad Alfredo Romeo

rispettare il piano regolatore

di Luigi De Falco

L'assessore comunale all'Urbanistica: in quell'area l'albergo a cinque stelle dell'imprenditore sul quale è in atto un contenzioso per abusi edilizi

Lo statuto del territorio della città è scritto nella disciplina del suo piano regolatore. Il primo articolo della sua normativa definisce e sintetizza con esattezza estrema le finalità che devono ispirare l'azione pubblica di governo del territorio alla quale (azione) possono e - ancor più oggi - devono partecipare anche i privati, ben sapendo che al pubblico e solo al pubblico spetta il governo delle trasformazioni.

Il primo articolo delle norme attuative del piano stabilisce che esso persegue sei esatte finalità:

1) la tutela e il ripristino dell'integrità fisica e dell'identità culturale del territorio, il recupero della città storica e la valorizzazione del territorio d'interesse ambientale e paesistico, promuovendo la costituzione dei parchi regionali delle Colline e del Sebeto, la ripresa dell'agricoltura urbana e periurbana;

2) la riconversione delle aree dismesse, per nuovi insediamenti per la produzione di beni e servizi, integrati con le residenze, anche pubbliche, e per un'ampia dotazione di verde;

3) la riqualificazione degli agglomerati urbani di recente formazione, in particolare periferici, con immissione di funzioni pregiate, il miglioramento della dotazione di attrezzature, spazi a verde, e la valorizzazione dei centri storici minori, promuovendone l'identità, e dei quartieri di edilizia pubblica;

4) l'adeguamento della dotazione dei servizi orientati a favorire rapporti di comunità nei quartieri e formare punti di aggregazione d'elevata qualità;

5) la riforma del sistema di mobilità, riorganizzato intorno a una moderna rete su ferro, con il recupero delle linee esistenti e l'integrazione di nuove, e l'incremento delle stazioni per determinare diffuse condizioni di accessibilità in tutto il territorio, e potenziato dalla realizzazione della "metropolitana del mare";

6) l'integrazione a scala metropolitana del sistema urbano di Napoli.

Non riconoscersi - e totalmente - nel solco nettamente tracciato dallo strumento urbanistico, maturato da una lunga fase di discussioni davvero "partecipate", significherebbe negare una pagina storica e attualissima della democrazia di questa città. Oggi Napoli vive una condizione di forte disagio economico, costretta in un "embargo" quasi cubano, dove le sue scelte corrono sistematicamente il rischio di sconfortarsi con la crisi nazionale o essere sindacate dalle istituzioni superiori, politicamente orientate verso altri scenari politici. Da qui la polemica estiva sulla scelta dei monumenti da finanziare con le risorse (sempre più ridotte) del Grande Progetto per il centro storico Unesco, che a prescindere da presunti accordi tra le amministrazioni regionale e quella comunale (del tempo) rappresentano oggi, in ogni caso, grasso che cola (ma quando?) su una città storica la cui dimensione pretenderebbe risorse almeno dieci volte maggiori. Da qui pure le difficoltà a rimettere in moto Bagnoli, per via della sospensione dei finanziamenti decisa dalla Regione Campania. E così la difficoltà di far procedere i cantieri dell'edilizia residenziale pubblica, tutti arenati dall'improvvisa indisponibilità delle risorse.

Amministrare oggi la città è come condurre una nave in mezzo alla tempesta e priva di carburante. Ma non si naviga a vista: la rotta è ben chiara e il porto sicuro. Ma senza carburante si ricorre alle vele, alla spinta volontaria e coraggiosa delle bracciate dei suoi passeggeri (forti e tantissimi), ai remi fortunosamente reperiti a bordo. Sono queste le risorse che l'amministrazione de Magistris sta reperendo, apparentemente discese dal cielo, dal caso degli eventi effimeri e straordinari, dall'iniziativa dei privati la cui libertà di azione deve ineludibilmente riferirsi, con chiarezza e sempre, ai limiti ben chiaramente individuati nelle finalità del piano regolatore che ispira ogni scelta dell'Amministrazione.

Il caso Antica Dogana va ponderato con opportuna misura. Che ancor più singolare che la proposta riguarda il ripristino delle condizioni alterate dell'edificato al contorno, quand'essa non includa pure il ripristino del moderno immobile alterato da abusi edilizi - contestati all'avvocato Romeo - e per i quali il Comune, sinora inascoltato, ha ordinato pure la demolizione.

Sinceramente la proposta delude quanti speravano (ma ancora confidano) nell'inversione radicale del rapporto, orientandolo verso una sincera collaborazione tra il privato e la pubblica amministrazione. Ancora una volta al privato dev'essere ricordato (e rammarica essere costretti a farlo) il rispetto delle regole del gioco stabilite dalla democrazia.

La Repubblica, ed. Napoli, 12 aprile 2012

Gentile assessore De Falco ci spieghi la sua democrazia

di Alfredo Romeo



L'imprenditore: "Una politica perdente che, mancando di idee e di coraggio, si esprime solo per slogan e chiacchiere da bar

Gentile Direttore,

Nel pieno di un dibattito alto, propositivo, critico e costruttivo sul futuro di Napoli, leggo con incredulità le dichiarazioni virgolettate dell'assessore all'Urbanistica Luigi De Falco sul progetto Insula-Borgo Antica Dogana riportate dal Suo giornale ieri 11 aprile. Le parole usate dimostrano una ignoranza dei fatti e un pregiudizio di fondo che vanno assolutamente chiariti per il bene della città.

L'assessore De Falco, infatti, ha firmato non più tardi di quindici giorni fa una delibera comunale in cui la Giunta esprimeva "interesse" per il "progetto sperimentale Insula-Borgo Antica Dogana". Se l'assessore De Falco aveva obiezioni da fare sulla sperimentazione (e insisto su questa parola) in oggetto, era in quella sede istituzionale che doveva esprimerle e chiarirle anche al suo sindaco. E avrebbe dovuto farlo come cittadino, come architetto, come urbanista con proposte, correttivi, ipotesi alternative, SOLUZIONI. Invece ha firmato (per ben due volte), tacendonella più alta funzione di rappresentante del popolo.

Quella firma (anche quella firma) ha contribuito ad accendere il dibattito altissimo che ha visto intervenire sui giornali personaggi al di sopra di ogni sospetto (dal professore Gravagnuolo al professor Quintano, dal professor Galasso al professor Macry, da Paolo Pomicino al capo dell'opposizione in Comune Gianni Lettieri, al capolista del Pd alle ultime elezioni De Gregorio; da urbanisti come l'ex sindaco Rocco Papa, a uno degli architetti che hanno rivoluzionato Barcellona, Jordi Bellmunt Chiva. E in cui, caro Direttore, è intervenuto anche Lei nel fondo dell'8 aprile, nel quale anche senza mai citare l'Insula, come Galasso, poneva però la questione cruciale dei programmi, dei progetti e delle strategie per rilanciare Napoli.

E invece che fa il nostro De Falco? Al silenzio manifestato in Giunta, oppone pubbliche frasi su un presunto abuso edilizio per il mio albergo che insiste su quella zona e sui rischi per la democrazia. Ma cosa c'entrano con il progetto dell'Insula? E che c'entrano con la lealtà e la trasparenza che si dovrebbero al sindaco che ti ha dato una delega così importante? E che cosa c'entrano con il mestiere di assessore che dovrebbe essere quello di operare sintesi utili e costruttive per la città?

Non si capisce , se non facendo un tuffo nel passato, nel vecchiume intellettuale di quei modi trasversali, sudaticci e piccoli piccoli di una politica perdente che mancando di idee e di coraggio si esprime solo per slogan demolitori alla cieca, tanto per alimentare inconcludenti chiacchiere da bar. Vuoi vedere che si parla impropriamente di Piano Regolatore e di quando non si hanno argomenti fondati e progetti costruttivi per dare senso e contenuto al proprio ruolo istituzionale? O ci si vuole ritagliare - non avendo altri strumenti che la battuta demagogica - uno spazio da interlocutore "interdittivo" con il proprio sindaco?

Mai come in questo caso, invece(e sfido chiunque a dimostrare il contrario), i rapporti tra Pubblico e Privato sono stati chiari, esplicitati fin nell'ultimo dettaglio, non di una transazione, ma di un'ipotesi di progetto per la città che non a caso ha attivato il suddetto, forte dibattito su un progetto di rifondazione amministrativa e di valorizzazione del territorio che ha suscitato in primis l'interesse del sindaco e smosso finalmente un interesse pubblico all'ideazione del futuro. E in cui De Falco si è inserito - ripeto - con la pochezza di chi non ha idee e forse non sa cosa dice.

Sì, è vero: sull'Insula insiste il mio albergo ("privato", lo definisce l'assessore e non capisco la ovvia sottolineatura). E io ho offerto alla città una bonifica e una valorizzazione del territorio a titolo grazioso per la città di Napoli per un valore di 7 milioni. Non solo. Ho avanzato come Romeo Gestioni un'ipotesi di gestione a democrazia partecipata (questa sì) in rapporto strettissimo con l'amministrazione comunale di cui De Falco dovrebbe essere un leale sostenitore e propositore, per cercare di offrire servizi migliori ai cittadini a parità di costo. Anzi, con un forte risparmio per le casse comunali.

Questa è violazione delle "regole del gioco stabilite dalla democrazia", come sostiene il difensore della "cosa pubblica", l'assessore De Falco?

Bene, caro Direttore. Se questo è il rischio io posso sospendere qualunque intervento di bonifica e di progettazione. In fondo tocca al sindaco di Napoli - che all'idea si è appassionato - spiegare ai cittadini (e rassicurare certi suoi assessori) che qui non è in gioco la democrazia, ma un'ipotesi di sviluppo e di progresso per Napoli. Quanto all'Insula, valuteremo le proposte di sperimentazione che ci arrivano da altre parti d'Italia e d'Europa.

Però, in quanto cittadino/contribuente che solo per la TARSU, e cioè per la presunta raccolta dell'immondizia, ha pagato per l'albergo ("privato") fin qui 287.591,25 euro, chiedo all'assessore all'Urbanistica De Falco di raccontare a me e alla città quali siano i suoi programmi per bonificare tutta l'area dell'Insula, oggi degradata, e che dovrebbe invece essere una vetrina della città. Quali sono i suoi programmi per rimettere in ordine quelle strade. Quali i suoi interventi per ripristinare illuminazione, verde, aree pedonali e sicurezza. Quali le sue garanzie a noi contribuenti che la raccolta dei rifiuti sarà fatta con accuratezza. Quale la sua promessa che pure a fronte di servizi così scadenti non aumenterà le tasse tipo Imu e Tarsu. Quali siano i suoi progetti per uscire dalla squallida politica degli attacchi gratuiti per proporre, per esempio, una maggiore efficienza dell'amministrazione comunale. E gli chiedo infine quali siano i suoi principi ispiratori per garantire al cittadino una democratica civiltà dell'abitare.

Alfredo Romeo (Cittadino contribuente)

La Repubblica, ed. Napoli, 12 aprile 2012

Alfredo Romeo contro De Falco "L'assessore parla per slogan"

di Antonio Tricomi

Antica Dogana: l'imprenditore risponde al responsabile dell'Urbanistica

Romeo contro De Falco. In una lettera a Repubblica, l'imprenditore risponde a muso duro all'assessore comunale all'Urbanistica, che ieri proprio su Repubblica aveva espresso forti perplessità sull'ipotesi di accordo tra Alfredo Romeo e Comune di Napoli sul progetto di riqualificazione dell'area dell'Antica Dogana, compresa tra via Cristoforo Colombo e via Depretis. L'area, sostiene l'assessore Luigi De Falco, "ha come baricentro proprio l'albergo a cinque stelle (di proprietà di Romeo) sul quale è in atto un contenzioso per abusi edilizi e violazioni delle norme di tutela del paesaggio".

Dura la risposta di Romeo. "L'assessore De Falco ha firmato non più tardi di quindici giorni fa una delibera in cui la giunta esprimeva interesse per il progetto", scrive l'imprenditore. "Se aveva obiezioni, era in quella sede istituzionale che doveva esprimerle. E invece che fa il nostro De Falco? Al silenzio manifestato in giunta oppone pubbliche frasi su un presunto abuso edilizio per il mio albergo che insiste su quella zona e sui rischi per la democrazia".

Per Romeo la posizione di De Falco "non si capisce, se non facendo un tuffo nel passato, nel vecchiume intellettuale di quei modi trasversali, sudaticci e piccoli piccoli di una politica perdente che mancando di idee e di coraggio si esprime solo per slogan demolitori, tanto per alimentare inconcludenti chiacchiere da bar. Vuoi vedere prosegue l'imprenditore che si parla impropriamente di piano regolatore e di rispetto delle regole nei rapporti tra pubblico e privato quando non si hanno argomenti fondati e progetti costruttivi per dare senso e contenuto al proprio ruolo istituzionale? Mai come in questo caso sottolinea Romeo i rapporti tra pubblico e privato sono stati chiari, esplicitati fin nell'ultimo dettaglio, non di una transazione, ma di un'ipotesi di progetto per la città".

E a questo punto Romeo chiama in causa anche de Magistris, evidenziando come il progetto abbia "suscitato in primis l'interesse del sindaco e smosso finalmente un interesse pubblico all'ideazione del futuro". Su questo tema De Falco si sarebbe inserito "con la pochezza di chi non ha idee e forse non sa cosa dice. Sì, è vero ammette Romeo sull'Insula insiste il mio albergo ("privato", lo definisce l'assessore e non capisco la ovvia sottolineatura). E io ho offerto alla città una bonifica e una valorizzazione del territorio per un valore di 7 milioni. Non solo. Ho avanzato come Romeo Gestioni un'ipotesi di gestione a democrazia partecipata (questa sì) in rapporto strettissimo con l'amministrazione comunale di cui De Falco dovrebbe essere un leale sostenitore, per cercare di offrire servizi migliori ai cittadini a parità di costo. Anzi, con un forte risparmio per le casse comunali"

In conclusione, si chiede Romeo, "questa è violazione delle regole del gioco stabilite dalla democrazia, come sostiene il difensore della "cosa pubblica" De Falco? Se questo è il rischio io posso sospendere qualunque intervento di bonifica e di progettazione. In fondo tocca al sindaco - che all'idea si è appassionato - spiegare ai cittadini (e rassicurare certi suoi assessori) che qui non è in gioco la democrazia, ma un'ipotesi di sviluppo e di progresso per Napoli. Però, in quanto cittadino/contribuente, chiedo a De Falco di raccontare a me e alla città quali siano i suoi programmi per bonificare tutta l'area dell'Insula, oggi degradata, e che dovrebbe invece essere una vetrina della città"

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Postilla

Ciò che colpisce, in questa vicenda per tanti versi esemplare, è l’arroganza dell’immobiliarista e l’incertezza dell’amministrazione. Il primo, nella fattispecie il Romeo, che si esprime come duecento anni fa poteva esprimersi il Padrone delle ferriere, oppure come, a Napoli, si esprimevano quei costruttori che dicevano che del piano regolatore non c’era bisogno perché loro sapevano regolarsi da sé - e poi s’è visto come - oppure quelli del film di Francesco Rosi cui, per la sua attualità , dedichiamo l’icona. La seconda, l’amministrazione comunale, rappresentante del popolo sovrano, che lascia cuocere la questione a bagno maria fino al sacrosanto intervento del’assessore De Falco, senza indignarsi fin dal primo affacciarsi sula scena del Padrone.

In troppe città italiane chi governa la Finanza (chi ha i soldi) esercita il Potere (con la tolleranza degli eletti, e la benevola complicità degli organi dell’opinione pubblica).

MILANO — Un bel lavoro per tutti. Per le famiglie che pagano (prezzi visti al mercato di via San Marco giovedì 12 aprile) 2 euro tre etti di rapanelli, oppure 2,50 euro tre etti di insalatine; per i Comuni che mettono in buone mani fazzoletti di terra a volte senza una destinazione precisa, altre volte a ridosso di parchi e giardini che si ritrovano, così, «presidiati». Per le comunità in genere, perché «il territorio ben tenuto fa bene a tutti».

Sarà la primavera, sarà la crisi, ma l'altro giorno alla presentazione della bottega di Campagna Amica nella cascina Cuccagna, a ridosso del centro di Milano, Coldiretti ha fatto il tutto esaurito: e la mappa dei capoluoghi lombardi e dei rispettivi progetti di «orti in comune» non è da meno. «Noi siamo così soddisfatti dei nostri appezzamenti da 36 metri quadrati a margine del parco delle Caselle che tra meno di un mese faremo il bando per altri 112 a Selvagreca» dice da Lodi l'assessore (Ambiente e Territorio) Simone Uggetti. «Non solo: abbiamo riservato metà degli orti a cittadini tra i 18 e i 65 anni: perché ormai non sono più soltanto i pensionati a voler coltivare insalata e zucchine». A Lodi, poi, pensano anche agli «orti di quartiere»: «perché siano coltivate le aree troppo piccole per diventare giardini, rimaste senza una funzione definita: trasformate in orti sarebbero utili e ordinate».

Conferma Ettore Prandini, vicepresidente regionale di Coldiretti, che ha fatto una sua bandiera del risparmio del suolo e del farne un uso oculato. «La Lombardia è scesa sotto il milione di ettari coltivati, ogni anno perdiamo la potenzialità produttiva di 27 mila tonnellate di grano, proprio mentre i cinesi comprano terreni agricoli per assicurarsi scorte alimentari». Sia pure su scala più modesta, anche l'orto formato famiglia può ben funzionare in quello stesso senso. Il calcolo lo fa lo stesso Prandini, pensando a un orto di 30-35 metri quadrati: «Quanto basta per una famiglia per tutto l'anno. L'investimento: 100 euro per tutto». Attrezzi, terriccio come fertilizzante naturale, concime. E piantine, naturalmente: da 0,20 centesimi sino a 1 euro e 60, magari per piantine di pomodoro già grandicelle.

Basso l'investimento economico, alto quello in termini di tempo e di impegno: però la resa è alta, come soddisfazione e come economia. Vero che quelli visti al mercato l'altro giorno non sono prodotti in stagione, ma con le zucchine a 4,99 e il radicchio a 4 euro, i cornetti a 6 e le melanzane a 3, i pomodori da 2,50 a 3,50 e i peperoni a 4, c'è da credere che quei cento euro dell'investimento iniziale siano davvero un affare. «E poi nell'orto si impara la stagionalità — sottolinea Prandini. — Si impara a chiedersi da dove mai venga e al prezzo di quale spreco di carburanti e di energia per i frigoriferi arrivino frutta e verdure fuori stagione». Che saranno comunque sempre meno buone di quelle maturate nella campagna più vicina: lì i produttori hanno a che fare, piuttosto «con una speculazione enorme — conclude Prandini. — Il prezzo, passando dall'azienda al punto vendita, lievita anche del 70-80%: frutta e verdura che vengono pagate ai coltivatori meno di un euro arrivano sugli scaffali dei supermercati a 1,50 e più». Tutto questo senza essere primizie: un ricarico che fa sembrare poca cosa quello del latte, per il quale si passa dai 40 centesimi alla stalla a 1,20-1,30 euro alla vendita in negozio.

Titolo originale: MSU pitches urban farm plan in Detroit – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

L’Università dello Stato del Michigan propone alle autorità cittadine un piano da 100 milioni di dollari per trasformare ex superfici industriali, edifici abbandonati e parcheggi in spazi per l’agricoltura urbana dedicati alla ricerca di settore. Così Detroit potrebbe diventare un modello globale di produzione alimenti e colture per l’energia in un ambiente urbano prima impensabile: dentro edifici cadenti, terreni avvelenati, complessi commerciali e industriali di prefabbricati. E il tipo di tecnologie che i ricercatori della MSU sperano di sviluppare sperimentando colture in un ambiente a scarsità energetica e di acqua potrebbero diventare un modello da esportare in tante città dense del mondo che hanno difficoltà di approvvigionamento alimentare.

Il degrado urbano è “un limite che si può trasformare in una risorsa” spiega Rick Foster, direttore del Greening Michigan Institute, autore del programma che, calcola, costerebbe all’Università complessivamente 100 milioni di dollari. “Detroit è davvero una risorsa straordinaria se la guardiamo da questo punto di vista”. Il progetto è alle prima fasi, ma già l’ufficio del sindaco e l’università stanno discutendo su una bozza di accordo per collaborare a quello che t Foster definisce un “polo di innovazione alimentare”. “Significa collaborare per individuare strutture urbane, superfici e sostegni finanziari per il progetto. Siamo alle fasi preliminari di individuazione dei terreni nell’area orientale della città.

Una proposta che si somma al piano di John Hantz, magnate dei servizi finanziari residente in città, per acquistare 80 ettari nella medesima fascia urbana per colture commerciali. Il progetto dell’Università del Michigan dovrebbe iniziare da 2-4 ettari all’aperto e al coperto, racconta ancora Foster. L’ateneo opera anche a Johannesburg, Amsterdam, Sao Paulo e altre città del mondo per un’iniziativa di carattere generale legata all’alimentazione di un numero rapidamente crescente di abitanti, sfruttando quantità limitate di acqua ed energia. La popolazione mondiale dovrebbe balzare da 7 a 9 miliardi nel 2050, di cui il 70% residente nelle città. Ciò significa raddoppiare la produzione di cibo per rispondere al bisogno.

CREMONA — Scavare argilla e «spianare» il Pianalto della Melotta che si estende per una decina di chilometri quadrati tra Soncino e Romanengo, nella campagna cremonese, equivarrebbe a «scrostare un importante affresco da una parete». Via la pittura, quel pezzo di muro perderebbe ogni valore. Via l'argilla, resterebbe solo un'immensa montagna di arida sabbia.

Questa metafora, cui ricorre il geologo e portavoce di Italia Nostra Giovanni Bassi, è il modo più efficace per introdurre l'incredibile vicenda di cui è oggi protagonista un sito che il geologo ed esploratore Ardito Desio, per primo nel 1965, mise in relazione con eventi sismici che interessarono la nostra regione nel Pleistocene, 400 mila anni fa.

Quel pianalto, che si eleva di alcuni metri rispetto alla pianura, si sollevò per uno scontro tra faglie sismiche. E gli strati superficiali e così antichi sono di tale importanza che l'Unione Europea nel 2000 lo inserì tra i siti di importanza comunitaria (Sic).

Un tempo terreno agricolo, il Pianalto è stato acquistato dai titolari di una fornace che un anno fa hanno chiesto, in extremis, di valorizzarlo come «giacimento» per una futura attività estrattiva di preziosa argilla, modificando il piano cave decennale in scadenza nel 2013. Sordi alla protesta degli ambientalisti e anche di un sindaco, uno soltanto, quello di Romanengo, prima la Provincia di Cremona, poi i consiglieri regionali, hanno spalancato le porte ad un piccolo ma significativo disastro ambientale. Che sarà mai, è arrivato a far notare il relatore della commissione regionale, il leghista Frosio, «grattare» via tre metri dalla sommità del Pianalto? Sarà che in quei tre metri sta incisa l'antichissima storia della terra lombarda, lacerata da terremoti, ben prima di quello devastante del 1802 o più recente di Salò del 2004. «Per tutelarlo nel tempo è stato inserito tra le riserve naturali — precisa Ferruccio Rozza, già direttore del Parco del Serio —. Il geosito è tutelato dalla legge regionale e dai Prg».

Quella miniera preziosa di argilla (si progetta di scavarne 3 milioni e mezzo di metri cubi nei prossimi dieci anni) sorge accanto ai comuni di Ticengo, Soncino e Casaletto di Sopra, che pare si accontentino, in cambio dello sfregio alla loro terra, di avere a disposizione due piste ciclabili e una rotonda. La commissione ambiente regionale ha detto sì alla maxicava di argilla (in questa zona, tra l'altro, è solo l'ultima di una serie). E le ore di vita per il geosito sembrano contate. Entro la fine del mese di aprile la palla passerà al Consiglio regionale per il voto che deve creare un varco nella legge 12 del 2005, la stessa legge che a quello stesso sito attribuiva così tanta importanza. Poco importa se quelle terre argillose e antiche custodiscano anche importanti tracce di associazioni botaniche, il castagno e la ginestra dei carbonai, tipiche di zone montane.

A combattere è rimasto un don Chisciotte, il consigliere del Pd, Agostino Alloni: «Chiederò il voto segreto in aula. Quel terreno ha quattro vincoli. È più esteso della Città del Vaticano. Farò appello alla coscienza dei singoli consiglieri». «Il tema della conservazione del Geosito della Melotta — continua Alloni — è ineludibile. È l'emergenza geologica più importante del territorio provinciale». La battaglia, insomma, continua. E nel caso in cui lo scempio venga confermato, gli ambientalisti hanno già deciso di ricorrere a Bruxelles o alla Procura.

Ponte Lambro è un quartiere di Milano fino a ieri noto come una zona da evitare. Se oggi ci passate scoprirete un moderno quartiere residenziale accogliente. Le famigerate «case bianche» non sono più tali: hanno colori allegri, coordinati e diversi; dalle facciate sono sparite (perché centralizzate) le mille parabole che denunciavano il recente carattere multietnico del quartiere; i piani terra una volta invasi di scritte e graffiti, sono puliti e ben tenuti; le aiuole fiorite e curate, gli spazi pubblici frequentati; i pochi servizi come la posta, il mercato comunale, il centro civico, la parrocchia, la scuola elementare sono animati da persone gentili e capaci. Insomma qualcosa è cambiato.

Le ragioni dello stigma del quartiere avevano molto a che fare con la disattenzione pubblica, sfociata più volte nel maltrattamento. All'origine vi erano i due grandi interventi di edilizia popolare realizzati in fretta e furia negli anni 70, occupati abusivamente, che si erano inseriti con violenza in un piccolo borgo di artigiani. A metà degli anni 80 viene chiusa la scuola media per insediarvi l'aula bunker per i processi di mafia (più sicurezza!). Per i Mondiali di calcio del '90 viene iniziata la costruzione di un grande albergo il cui scheletro abbandonato è rimasto per vent'anni come monito e vergogna per Milano. Più di recente un'area verde è stata trasformata in un deposito di autobus. Anche gli interventi di pregio come l'ospedale Cardiologico Monzino e il Centro di riabilitazione della Fondazione Maugeri sono atterrati come isole in un territorio ostile. Un territorio dove la città ha scaricato tutto ciò che non poteva mettere altrove.

La situazione inizia a cambiare a metà degli anni 2000 quando il Comune lancia il Progetto Periferie che prevede la realizzazione di un «laboratorio di quartiere». Le prime mosse producono ulteriore delusione: il promettente progetto di Renzo Piano per inserire nuove funzioni nelle case bianche si risolve nello svuotamento di 40 appartamenti che restano murati per anni: mancanza di fondi. Ma il coinvolgimento degli abitanti, la passione di chi si occupa del Laboratorio di quartiere e la volontà di riscatto producono risultati concreti: i programmi di riqualificazione degli stabili, la risistemazione dei servizi pubblici e il loro rilancio, la scelta dei colori delle case, vengono decise insieme agli abitanti. Negli ultimi mesi il processo di rigenerazione si è accelerato: è stato finalmente aperto il cantiere per la riutilizzazione degli appartamenti murati e l'assessore all'Urbanistica è riuscita a ottenere la possibilità di demolire finalmente entro l'estate ciò che resta dell'albergo dei Mondiali.

Si sta anche discutendo di un progetto modello che aumentando la popolazione consenta la riapertura della scuola media, la realizzazione di un parco e di nuove attrezzature capaci di attrarre utenti dall'esterno per integrare meglio il quartiere nella città. Ponte Lambro è una dimostrazione che risanare le periferie si può, che la rigenerazione ha soprattutto a che fare con la cura e la ricostruzione del senso di cittadinanza degli abitanti. C'è da augurarsi che l'esplosione che demolirà l'ecomostro seppellisca per sempre anche un approccio alla periferia come luogo della disattenzione e della semplificazione.

postilla

Tutto è bene ciò che finisce bene, e l’ultimo chiude la porta, recitava sui titoli di coda un vecchio cartone animato. Dato che però le politiche urbane non sono un cartone animato, forse val la pena ricordare qui un aspetto su cui Balducci sorvola, ovvero i veri motivi del degrado, che sono squisitamente spaziali. Certo molto ha pesato, come in tanti altri contesti periferici (milanesi e non) l’inserimento di quantità massicce di moderne abitazioni popolari in un contesto di ex borgo storico autonomo. Altrettanto ha pesato l’aspetto gestionale di quell’inserimento, lasciato al laissez-faire – per usare una eufemistica metafora – delle occupazioni abusive, del clientelismo familiare e peggio. Ma c’è una radice urbanistica, che più urbanistica non si può.

Tutti abbiamo prima o poi letto o sentito parlare del famoso caso della Bronx Expressway, quando nel secondo dopoguerra un prosperoso quartiere operaio e piccolo borghese è stato trasformato appunto nel famigerato “Bronx” delle leggende metropolitane e dei film semi-horror. Ecco, anche il caso del quartiere parzialmente descritto da Balducci è identico: si scaraventa brutalmente una infrastruttura stradale (nel caso specifico la Tangenziale Est) a costruire una cesura urbana invalicabile, senza né prima né poi tenerne alcun conto e attivare qualche genere di compensazione, preventiva o successiva. E i risultati sono poi gli interventi di emergenza tipo Protezione Civile, si tratti del fallito progetto architettonico di Renzo Piano o del più efficace laboratorio partecipativo di Balducci. Dato però che non è possibile attivare procedure di emergenza generalizzate per il territorio nazionale e internazionale, forse sarebbe meglio pensarci prima, anziché poi. Ad esempio oggi, quando il dinamismo autostradale di tutti i livelli istituzionali propone cinture e bretelle ovunque, progettate sul lontano tavolo di qualche ingegnere, e puntualmente scaraventate dove capita, a costruire i potenziali “Bronx” metropolitani del terzo millennio. Una buona notizia magari per gli operatori dell’emergenza. Un po’ meno per il resto del mondo (f.b.)

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