I guai di Ligresti travolgono i cantieri del Cerba. Umberto Veronesi l’aveva definito il progetto «apripista di Expo». Eppure, quella cittadella della scienza che l’oncologo sogna fin dagli anni Novanta, non sarebbe comunque riuscita a inaugurare i reparti come previsto insieme ai padiglioni del 2015. Colpa del grande gelo calato sulla disponibilità finanziaria dei possibili sponsor, che aveva già fatto slittare di un anno, all’autunno del 2012, anche l’ultima ipotesi di avvio dei lavori. Adesso anche questo obiettivo si allontana sempre di più. E, nella migliore delle ipotesi, gli operai non si presenteranno su quei 620mila metri quadrati di Parco Sud destinati a trasformarsi nel Centro per la ricerca biomedica avanzata prima della primavera-estate del 2013. Tutto sospeso. In attesa che si definisca proprio il primo dei presupposti: la disponibilità delle aree di proprietà di una società del gruppo Ligresti (la Im.Co.) per cui la procura ha chiesto il fallimento.
È un cammino accidentato quello del Cerba: un moderno polo dedicato alla cura e alla ricerca (dall’oncologia allo studio del Dna), accanto all’attuale Istituto europeo di oncologia, che avrebbe dovuto ospitare anche un campus per far lavorare i cervelli di tutto il mondo, un grande parco, strutture per accogliere i familiari dei pazienti. Ma che stenta a prendere il via. I lavori sarebbero dovuti partire nel 2009 per terminare in due fasi: un primo taglio del nastro nel 2012, il completamento del progetto nel 2017. Sono stati rimandati di anno in anno, tra ostacoli burocratici, la crisi economica, la difficoltà a trovare partner per un disegno che, in totale, vale 1 miliardo e 300 milioni. E ora arriva anche l’ultimo rinvio, che non consegna neppure una data certa a cui appigliarsi.
Il motivo? Proprio in questi giorni sarebbe scaduto il tempo a disposizione della Fondazione Cerba per siglare gli ultimi atti urbanistici necessari per inaugurare i cantieri. Ma «in via prudenziale» le istituzioni hanno «rinviato» ogni decisione che riguarda la stipula delle convenzioni finali del Piano integrato di intervento. Impossibile mettere quelle firme nell’incertezza di base che riguarda le aree stesse su cui gettare le fondamenta. Serve tempo per capire come sciogliere il nodo dei 620mila metri quadrati di terra nel Parco Sud. I terreni, infatti, sono di proprietà di Im.Co., una società del gruppo Ligresti che rischia il tracollo sotto il peso dei debiti. Dopo la richiesta di fallimento della procura, i legali della spa hanno presentato un piano di salvataggio e il tribunale fallimentare si è riaggiornato al prossimo 13 giugno. È da queste decisioni che dipende il destino del Cerba. Ed è per questo che tutti gli attori (Regione, Provincia, Comune, Parco agricolo Sud, Fondazione Cerba e la società Im.Co.) che partecipano all’accordo di programma urbanistico ieri hanno rinviato ogni passo urbanistico. Al Pirellone, però, sarebbe stata assicurata la volontà di portare avanti il progetto. Con il governatore Roberto Formigoni che ha sottolineato la necessità «di non pregiudicare la realizzazione di questo importante e strategico intervento». È questo che ha fatto il Collegio di vigilanza che sovrintende all’accordo urbanistico: concedere una proroga. La soluzione per il Cerba sarebbe quella di far confluire i terreni in un fondo immobiliare, gestito dalla società Hines di Manfredi Catella, che potrebbe farsi carico anche dei debiti di Ligresti con le banche. Sempre che le trattative con creditori e procura vadano in porto.
Una precisazione: contemporaneamente a questo articolo di Repubblica , il berlusconiano Giornale pubblica un brevissimo trafiletto intitolato “La Città della Salute verso via Ripamonti” in cui senza citare fonti particolari si afferma che il potenziale polo di ricerca pubblico (sinora presentato come complementare al privato Cerba) potrebbe rinunciare alle opzioni localizzative in aree dismesse prospettate, per andarsi a collocare esattamente al posto dell’ospedale caldeggiato da Veronesi. Il che conferma se necessario la natura tutta speculativa delle pressioni sui terreni di Ligresti, e l’estraneità sostanziale degli aspetti sanitari, di accessibilità ecc., lasciati tutti alla pura capacità della comunicazione. Insomma i vecchi vizi sono non solo duri a morire, ma ancora vivi e vegeti (f.b.)
ROMA — Una delle ipotesi è questa, che la provincia di Lecco finisca accorpata con quella di Como, e di conseguenza dominata, visto che Como comprende quasi 600 mila abitanti e Lecco si ferma a 340. Ma si può? Lecco è provincia da vent'anni solamente e mal sopporterebbe di riunirsi all'altro ramo del lago. Il ramo di Manzoni che si sottomette a quello di Alessandro Volta? Piuttosto, i lecchesi preferirebbero legarsi a Sondrio, che con i suoi 183 mila abitanti finirebbe in posizione gregaria. Le due possibilità convivono nel piano di lavoro che i tecnici del ministero della Pubblica amministrazione e dell'Interno stanno elaborando. Il tema è annoso, ha prodotto fiumi di parole, non si è mai tramutato in realtà: il taglio delle 109 province italiane. Un altro «matrimonio» impossibile sarebbe quello di Piacenza (290 mila abitanti) con Parma (442 mila). Furono assieme, per tre secoli, ma i parmigiani dicevano «Ducato di Parma e Piacenza (che anche se non c'è facciamo senza)». A Parma hanno sempre guardato verso Parigi, nobilitati dalla Certosa di Stendhal, a Piacenza (in provincia è nato Pier Luigi Bersani, segretario pd) si son sempre sentiti più lombardi che emiliani. Andiamo avanti. Enna (172) con Caltanissetta (272), i due capoluoghi di provincia più alti della Sicilia. Ma qui bisognerebbe superare la potestà delle Regioni a statuto speciale sulle autonomie locali...
Il governo Monti ha già dato un bel fendente. Col decreto «salva Italia», le Province (ultimati i mandati in corso) sono state abbassate a enti di secondo livello. Abolite le giunte. Consigli provinciali eletti non dai cittadini, ma dai consigli comunali interessati. Competenze da trasferire a Regioni e Comuni entro la fine dell'anno. Ora siamo agli atti successivi. Presso la commissione Affari costituzionali della Camera si discutono le modifiche agli articoli 114 e 133 della Costituzione. Da una parte, le Province potrebbero sparire dal breve elenco degli enti che costituiscono la Repubblica. Dall'altra, verrebbero cancellate (o accorpate) le province sotto un certo numero di abitanti. In questa fase il Dipartimento riforme istituzionali del ministro per Pubblica amministrazione, Patroni Griffi, e il ministero dell'Interno di Anna Maria Cancellieri forniscono idee e documenti al Parlamento. Le ipotesi principali all'attenzione della commissione sono tre: salvare le province con più di 350 mila abitanti, quelle con più di 450 mila, o addirittura solo quelle con 500 mila abitanti. Nel primo caso resterebbero in vita 58 province e le prime «non elette» sarebbero Arezzo (349.651 abitanti) e Livorno (342.955). Fuori anche Trieste, Siena, Campobasso, Grosseto, Prato... Nella seconda lista ci sono invece 39 province, lasciando a terra Brindisi, Potenza, Catanzaro, Siracusa. Infine, l'ipotesi più drastica salverebbe appena 36 province (qui stiamo inserendo anche quelle delle Regioni a statuto speciale), che includono le grandi città, comprese Udine, Reggio Emilia, Latina, Pavia.
Lo scenario disegnato dai tecnici ministeriali è drastico in ogni caso, se si pensa che suscitò scandalo, esattamente due anni e poi un anno fa, l'idea del ministro Tremonti di sforbiciare tutte le province al di sotto dei 220 mila abitanti o dei 300 mila abitanti, misura che ne avrebbe conservate in attività ben 86, oppure 70. Di fronte alle ribellioni degli esclusi, Berlusconi rinviò a miglior data. Nel frattempo in Italia sono andate avanti le rivendicazioni per nuove province, Gela, Caltagirone, anche la Ladinia, promossa dalla Lega Nord. Ora però nel clima generale di risparmi sulla spesa pubblica, perfino l'Unione province italiane ha presentato (febbraio scorso) un testo che propone l'autoriduzione da 109 a 60.
Le decurtazioni proposte dal governo sono accompagnate — come abbiamo visto — dalla possibilità di effettuare accorpamenti fra province contigue, che raggiungerebbero il «tetto» con la somma degli abitanti. Oltre ai difficili connubi fra Lecco e Como o fra Parma e Piacenza, ce ne sono altri immaginati nei ministeri. Con alcuni dolorosi passi indietro. Prendiamo Lodi. La Provincia è giovane, nata nel marzo '92, dal distacco di 61 Comuni da Milano. Ora quel che si prospetta sarebbe l'accorpamento di Lodi (228 mila abitanti) a Cremona (364 mila). Meglio tornare sotto l'ala di Milano, allora?
In Consiglio dei ministri, lunedì, il governo ha portato un sistema cartesiano nel quale si dimostra che le Province di maggiori dimensioni hanno spese per abitante notevolmente più basse delle Province più piccole. In Sardegna (statuto speciale) ci sono nove province per un milione e mezzo di abitanti. In Molise due province per 300 mila abitanti. Un terzo delle Province, secondo il ministero dell'Economia, spende più del 40 per cento del bilancio in stipendi per i dipendenti. Quanto si potrebbe risparmiare ancora non è chiaro, visto che il personale verrebbe riassorbito nei ranghi dello Stato.
Postilla
L’articolo ha un grande pregio: quello di riassumere la montagna di miserie che sta dietro a lustri di separazioni e cosiddette “riorganizzazioni” territoriali amministrative, che col territorio avevano (lo si sapeva, lo si intuiva, ora è evidente) poco o nulla a che fare. Nell’incipit si cita Como-Lecco: per caso mi è capitato di risiedere vent’anni in provincia di Como ma nel territorio di quella che è l’attuale circoscrizione di Lecco, e di ascoltare le infinite rivendicazioni di interessi particolari che poi hanno condotto alla separazione. Economia, servizi, e sotto sotto la solita “rappresentanza”, ma rappresentanza di cosa? È sacrosanto avere voce, ma proprio per considerare il peso relativo di queste voci si deve valutare quanto un territorio “guarda a Parigi”? E un altro adiacente invece preferisce, che so, guardare all’industria conserviera? Chi ha anche solo scorso il dibattito alla Costituente sulla riorganizzazione territoriale dello Stato non poteva fare a meno di imbattersi in incredibili sparate e meschinità, che nel nome della “rappresentanza democratica” tracciavano piccoli confini feudali di interessi. Un criterio che poi si è gonfiato a dismisura, sino alla smodata reazione di qualche mese fa, quando l’ipotesi di abolire del tutto le Province aveva incontrato una specie di spontaneo entusiasmo popolare, tanto inconsapevolmente suicida quanto comprensibile. Val la pena forse ricordare come parallelamente ai lavori della Costituente, la nascente urbanistica democratica italiana tramite Giovanni Astengo provava ad elaborare criteri di riorganizzazione dello Stato per circoscrizioni non basate (solo) sugli equilibri di consenso stabiliti dagli “agenti di sviluppo” (leggi: ras locali), ma su basi geografiche, storiche, socioeconomiche meno aleatorie. Qualcuno riuscirà a convincere gli attuali ragionieri contabili che stanno gestendo al momento la cosa pubblica, a investire un po’ di metodo in quella direzione? Le conoscenze di sicuro non mancano (f.b.)
A pochi giorni dal voto, il centrodestra monzese comincia a pensare di averla fatta davvero grossa, e vede il fantasma di una sconfitta che sarebbe clamorosa. Il sindaco leghista Marco Mariani ha dovuto piegarsi, molto controvoglia, al diktat del suo partito che gli ha imposto di correre da solo. E si ritrova come avversario un candidato del Pdl - il farmacista Andrea Mandelli - scelto in extremis in una riunione ad Arcore da Silvio Berlusconi. Roberto Scanagatti, candidato del centrosinistra, prova a costruire l´alternativa: "Perde chi governa male, non si tratta solo di un gioco politico".
La partita è fra questi tre. Se mai dovesse perdere, il centrodestra potrà ringraziare la famiglia Berlusconi. Sì, perché la divisione provocata dalla scelta solitaria della Lega è solo l´ultimo atto di una stagione in cui Monza è stata ridotta a feudo berlusconiano. E il lavoro della giunta Mariani ha avuto un obiettivo preponderante: far passare il nuovo Pgt che avrebbe permesso la nascita di Milano 4, una colata di cemento sull´area della Cascinazza. Un´area destinata a verde, e di proprietà di Paolo Berlusconi. "Per il Pgt - accusa Scanagatti - sono stati fatti 62 consigli comunali, anche di sabato e domenica". Obiettivo mancato, alla fine. Fra defezioni in extremis e sabotaggi interni leghisti, il grande affare del cemento berlusconiano è - per il momento - tramontato. E dire che Berlusconi aveva spedito a Monza, come assessore all´Urbanistica, il fido Paolo Romani. Mai visto in consiglio comunale, e forse una volta in giunta. Però, mentre seguiva da vicino gli interessi di famiglia, Romani costava parecchio alle casse comunali. La magistratura indaga sui 5 mila euro di bolletta per un telefonino forse dato in uso alla figlia. E sui 22 mila euro di spese in pranzi, in un anno e mezzo.
Nonostante il fallimento delle grandi manovre sulla Cascinazza, Mariani era convinto di poter spuntare una rielezione a capo del centrodestra. Ma i vertici leghisti hanno deciso che si doveva correre da soli. Ora il sindaco uscente ripete: "Se non stiamo insieme col Pdl è solo per una ragion di Stato. Non ci sono motivi politici per non proseguire l´esperienza". Dà per scontato, in caso probabile di ballottaggio fra Scanagatti e Mandelli, un apparentamento con l´esponente Pdl. Mandelli, il farmacista, non sembra voglioso di apparentamenti: "In caso di ballottaggio, i cittadini valuteranno i programmi". Se poi il duello dovesse essere Mariani-Scanagatti, ha già detto che i suoi elettori avranno libertà di voto. Lui, peraltro, ha già da vedersela con i maldipancia interni al Pdl, perché molti non hanno digerito l´imposizione della sua candidatura fatta in extremis da Berlusconi. Mandelli nega che ci siano malumori, però una vasta area legata a Cl premeva perché il candidato fosse Pierfranco Maffé, ematologo, assessore a Istruzione e Politiche sociali: "Io certamente - commenta lui - avrei preferito in questi anni più attenzione ai temi sociali, all´educazione, alla famiglia, e meno all´urbanistica che appassiona pochi". Scanagatti, mentre incassa il sostegno di Giuliano Pisapia e ne adotta il colore arancione di buon augurio, è sicuro: "La città sta dicendo no, non tollera più che si pensi solo agli affari del cemento".
INFO
Se nella piccola finestra in alto a destra, nella testata di questa pagina, scrivete “Cascinazza” e poi cliccate su “cerca” vedrete l’elenco delle molte decine di articoli che eddyburg ha raccolto su questo istruttivo episodio di malcostume urbanistico. Ce n’è per tutti i gusti. Magari l’argomento per una tesi di laurea…
Titolo originale: Tory borough plans to move homeless away from London – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Le persone senza fissa dimora rischiano di essere escluse dalla propria area verso case in affitto, anziché essere inserite nelle normali liste d’attesa locali, nei programmi di una delle circoscrizioni simbolo dei conservatori nella capitale,secondo un documento riservato che è arrivato alla nostra redazione.
Il consiglio di Hammersmith & Fulham settimana scorsa già parlava di discussioni in corso a proposito con le amministrazioni di Westminster e Kensington & Chelsea, per trasferire 500 famiglie che ricevono sussidi verso la regione delle Midlands: si precisa però che non si tratterebbe di un esodo di massa.
Le strategie di Hammersmith & Fulham hanno già chiarito quanto la condizione di senza casa ufficiale significhi disponibilità a ricollocarsi "potenzialmente fuori dalla circoscrizione ": una rottura rispetto all’abitudine passata di offrire una sistemazione locale temporanea in attesa delle abitazioni sociali. Scelta che si inserisce tra l’altro nelle politiche generali per la casa: ci sono 10.000 alloggi in corso di autorizzazione nell’area quest’anno, ma nessuno destinato a poveri a canone sociale, nonostante anche nel piano metropolitano di Boris Johnson esistano prescrizioni perché un quarto dei nuovi alloggi sia reso disponibile ai redditi più bassi. L’amministrazione ammette che così si “mette fine al collegamento automatico fra la iscrizione alle liste ufficiali di senza casa e le abitazioni a canone sociale”.
I tagli alla spesa sociali comportano di fatto la trasformazione del rivolo di senza tetto della capitale in una vera e propria alluvione. Secondo uno studio della Cambridge University for Shelter, nel 2011 era classificabile in qualche modo come economico e sussidiato il 40% dei quartieri di Hammersmith, lo sarà solo il 6% nel 2016. Il locale piano per la casa blocca l’assegnazione di alloggi pubblici secondo criteri di fabbisogno. Da ora in poi costituisce criterio di preferenza un “rapporto col territorio locale” da cinque anni, il lavoro o l’attività di volontariato. Si vogliono mettere in primo piano anche con le politiche della casa i “creatori di ricchezza” anziché i poveri. Si sostiene di averne già troppi, di poveri a canone sociale nella circoscrizione. L’amministrazione di Hammersmith, tenuta in notevole considerazione anche a Downing Street, spiega nella relazione che il 70% dei propri inquilini di abitazioni sociali è "disoccupato e dipende da sussidi ... [non] dà alcun contributo allo sviluppo economico”.
Le associazioni avvertono che con politiche del genere si avranno gravi effetti sulle fasce più vulnerabili. Duncan Shrubsole, direttore di Crisis, commenta: “Questo ci potrebbe portare a una specie di lotteria territoriale e alla fine di ammortizzatori nazionali per la casa che esistono dal dopoguerra”. Oggi l’amministrazione, con liste d’attesa per le abitazioni pubbliche di 10.000 famiglie, promuove case in affitto “economiche” destinate a redditi che si aggirano verso i 70.000 euro l’anno. Ciò significa ad esempio che dei 6.700 nuovi alloggi del progetto di Earl's Court dietro gli spazi espositivi [ uno dei maggiori piani di riqualificazione urbana europei n.d.t.] nessuno sarà accessibile a chi ha un salario minimo. Cosa anche peggiore, commentano i critici, negli spazi si stanno sostituendo i servizi essenziali con abitazioni di alto profilo. A Shepherd's Bush, i costruttori sono stati autorizzati a demolire un dormitorio e centro assistenza per farci una torre da 200 appartamenti di lusso e altro. Sono stati venduti al miglior offerente più di 300 alloggi pubblici, incassando oltre cento milioni di euro.
Scelte decisamente radicali che avvengono secondo i poteri conferiti nel 2011 dal Localism Act, che consente alle amministrazioni di decidere autonomamente chi ha diritto alle case pubbliche e in che termini. Nell’ovest londinese chi entra ora in un alloggio pubblico sa che gli è garantito per cinque, non più per sempre. Chi poi ha meno di 25 anni, e chi ha precedenti di “comportamento antisociale e criminale” lo vede ridotto a soli due anni. Andrew Slaughter, parlamentare Labour eletto nel collegio di Hammersmith, commenta: “Si sradicano le famiglie obbligandole a spostarsi anche per centinaia di chilometri, solo perché i Conservatori dicono di non potersi permettere altro. È la dimostrazione che si vuole distruggere il sistema delle case economiche per la gente comune, e non costruirne mai più”
Secondo l’amministrazione non sono state ancora prese decisioni definitive. Andrew Johnson, responsabile per la casa parlamentare per Hammersmith & Fulham, spiega: “La nostra priorità è di premiare le famiglia volenterose. Continueremo a dare la casa agli anziani e ai soggetti vulnerabili. Vogliamo aiutare a migliorarsi, non fare regali. Vogliamo incentivare gli abitanti a usare bene la loro vita. Le case pubbliche possono essere una straordinaria rete di protezione e contribuire a superare momenti di difficoltà: ma sono una spinta, non una meta. Introducendo un termine ai nuovi contratti, intendiamo superare l’idea secondo la quale la casa pubblica è sempre per tutta la vita. Il sistema attuale non promuove le aspirazioni personali né dà alcun incentivo agli inquilini per diventare proprietari di un’altra abitazione, consentendoci di sfruttare al meglio il patrimonio esistente”.
Onestamente, la cosa che lascia più perplessi davanti a certi studi scientifici è la reazione della stampa cosiddetta di informazione. In questo caso, una analisi comparata su un periodico dalla serietà indiscutibile propone un confronto tra quanto producono le pratiche agricole correnti e quelle biologiche, e qualcuno come il Daily Emerald non trova di meglio che titolare su presunte “difficoltà dell’agricoltura urbana”. Mentre nella ricerca a cui ci si riferisce la parola “urbano” si può leggere solo nelle note finali, nel titolo di un saggio in bibliografia che evoca un generico “urban myth”, ovvero una leggenda metropolitana.
Piccola perplessità a parte, è invece gradevole scoprire certe belle notizie dentro a “Comparing the yields of organic and conventional agricolture” (Nature, aprile 2012) di Verena Seufert, Navin Ramankutty e Jonathan A. Foley. Ad esempio che la comunità scientifica dà per scontato come “le rese sono solo una parte di quanto produce complessivamente il sistema agricolo in termini ecologici, sociali, economici”, e soprattutto che, dati sperimentali e studi internazionali alla mano, la differenza di produttività tra le cosiddette tecniche tradizionali a base di petrolio (fertilizzanti, trasporti ecc.) e quelle biologiche più sostenibili sono tutto sommato contenute, oggi al massimo e solo per certi prodotti attorno al 20%.
Ovvero basterebbe davvero fare una ragionevole comparazione costi/benefici per porsi seriamente una domanda: col picco petrolifero incombente, col fenomeno ormai riconosciuto e devastante del land grabbing globale, con le possibilità universalmente riconosciute delle tecniche urbane e di prossimità, ha ancora senso sostenere le pratiche in gran voga fra multinazionali e grandi investitori? Anche l’Expo milanese del 2015 sarà auspicabilmente un nodo centrale di dibattito e sperimentazione pratica su questi temi. Per ora si può più modestamente leggere la confortante (per chi la legge senza le classicissime fette di salame) serie di osservazioni e grafici proposta dagli studiosi della McGill University/University of Minnesota, scaricabile qui di seguito.
Di particolare interesse il metodo cosiddetto della "meta-analisi" particolarmente diffuso quando come in questo caso si vuole formulare un giudizio che abbia valore globale, ovvero leggere sistematicamente la letteratura scientifica (e le verifiche sperimentali) che ha già esaminato la questione. Da un lato senza discutere necessariamente serietà e fondamento degli studi già disponibili, dall'altro per uniformarne indiscutibilmente i criteri al proprio obiettivo di analisi e giudizio. Che letto in senso letterale suona: l'agricoltura praticata coi sistemi attualmente più diffusi rende un po' di più per unità di superficie di quella biologica. Quanto, come, perché, si possono invece riassumere in quell'iniziale “le rese sono solo una parte di quanto produce complessivamente il sistema agricolo in termini ecologici, sociali, economici”. Ovvero, ci tocca scegliere un equilibrio fra le varie componenti.
È la rivincita dei nuovi contadini. La riscoperta dell’agricoltura sana, biologica, legata al territorio, capace non solo di produrre alimenti buoni, ma di tutelare il paesaggio e l’ambiente, di disegnare la pianura con i filari di piante, le siepi, i canali tra i campi, il recupero degli antichi fontanili. È l’agricoltura come bisogno di bellezza e di armonia. Parte dal convegno "L’agricoltura è salute. L’agricoltura è arte", nell’ambito del progetto Expo Days, promosso dall’assessore Stefano Boeri, la sfida milanese al tema "Nutrire il pianeta, energia per la vita", che sarà al centro dell’Expo 2015. Sabato prossimo, dalle 9,30 alle 13,30 alla Triennale, agricoltori, medici, agronomi, esperti in alimentazione, si danno appuntamento per discutere come migliorare la nostra vita, a partire dalla nostra città. Perché anche Milano, molti non lo sanno, è ricca di campi e allevamenti.
Giulia Maria Crespi, presidente onorario del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano, fondatrice della più grande azienda agricola biodinamica italiana, alla Zelata di Bereguardo, in provincia di Pavia, racconterà questa «nuova consapevolezza»: «I milanesi stanno cominciando a imparare che il loro Comune e la loro provincia non è fatta solo di cemento e asfalto. Basta inforcare una bicicletta e uscire dalla città per riscoprire, a pochi minuti, quel mondo contadino che ci può ancora salvare e che noi dobbiamo aiutare a crescere».Su "Povertà, qualità del cibo e salute" sarà l’intervento di Matteo Giannattasio, docente di Qualità degli alimenti e salute all’Università di Padova. «In passato i ricchi erano obesi e i poveri erano magri e sofferenti di disturbi legati alla malnutrizione - spiega Giannattasio. - Oggi paradossalmente l’obesità dilaga maggiormente tra i poveri, ma si accompagna, nonostante gli eccessi alimentari, a carenze nutrizionali. Un paradosso che si spiega col fatto che la povertà porta al consumo di alimenti di bassa qualità».
Segnali incoraggianti per l’agricoltura più attenta alla salute viene dal forte incremento del numero di consumatori che si rivolgono ai prodotti biologici. Fabio Brescacin, amministratore delegato di EcorNaturaSì spa, la più grande rete di distribuzione di alimenti biologici in Italia, tra i relatori del convegno, spiegherà come cambiano i gusti alimentari degli italiani: «Anche in epoca di crisi, il mercato dei prodotti bio, che costano mediamente almeno il 50% in più degli altri, è in notevole espansione». Sul delicato tema del monopolio dei semi, e della biodiversità perduta, in un pianeta dominato dalle multinazionali agroalimentari, interverrà Salvatore Ceccarelli, genetista, consulente in miglioramento genetico dell’International Center for Agricultural Research. «Il 60% del mercato del seme è nelle mani di 10 grosse compagnie, delle quali quattro, Monsanto, DuPont, Syngenta e Bayer detengono circa il 40% - denuncia Ceccarelli. - A fronte delle circa 250mila specie di piante viventi sul pianeta, di cui 50mila sono commestibili, noi ne mangiamo solo 250, ma soltanto 15 forniscono il 90% delle calorie».
postilla
Da quando sono tramontate almeno in parte le fortune del centrodestra monolitico-cementificatore pare che il tema del grande evento inizi a incidere davvero su ciò che si fa e si propone, e non fare da sfondo confuso a vari progetti di trasformazione territoriale, quasi tutti con contenuti diametralmente contrari. Ma, c’è sempre un ma.
In parole molto povere: riuscirà l’animazione culturale di alto livello a recuperare davvero, prima di tutto localmente (e non è egoismo planetario), il dibattito dalle secche tragicomiche dello scontro fra i sedicenti modernizzatori a colpi di nuova tecnologia a vanvera, e la scombinata banda un po’ frescacciona (diciamocelo, va’) dei sedicenti neo-contadini? Ovvero a riportare su binari visibili la questione città/campagna?
A chi scrive è capitato di recente, solo per fare un esempio, di leggere un articolo “scientifico” dove si sosteneva la liceità di colture destinate agli agro-carburanti nelle aziende agricole di prima cintura milanese, presentandole come sostenibili. E si leggono tutti i giorni, o si ascoltano per radio, ridicoli richiami a quanto si stava bene cent’anni fa, magari mangiando solo polenta e abitando in famiglie allargate tutti dentro la stessa stanza di una cascina, insieme alle galline.
Ecco: speriamo che discutere ad alto livello su come nutrire il pianeta, vivere la metropoli, coniugare ambiente ed economia con una nuova qualità della vita, insieme a sperimentazioni locali trasparenti, magari proprio sponsorizzate da Expo, inizi a diradare certe nebbie padane sinora un po’ troppo fitte (f.b.)
Dalle cronache de il manifesto sull'assemblea di Alba a Firenze emergono due proposte di campagne politiche, sull'art.81 della Costituzione e sul Fiscal Compact, non ben delineate però negli strumenti e negli obiettivi. Voglio riprenderle per contribuire alla loro definizione.
Il 17 aprile, il Senato ha votato in quarta lettura il disegno di legge di revisione dell'art. 81 per introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione, e la votazione avvenuta con una maggioranza superiore ai due terzi, così come già era accaduto alla Camera per la terza lettura, impedisce il ricorso al referendum popolare secondo quanto prescrive l'art. 138 Cost. Il nuovo articolo 81 è ormai in Costituzione, anche se ciò non significa rimanere 'inerti e silenti' di fronte a questa manomissione voluta dall'Ue e attuata dalla maggioranza Pd-PdL-Terzo Polo, che sostiene il governo Monti.
L'Associazione per la democrazia costituzionale, nel corso della discussione parlamentare, ha organizzato dibattiti e inviato ripetutamente e-mail a tutti i parlamentari per denunciare la gravità dell'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, chiedendo al Parlamento un atto di rispetto democratico, quello di non votarla con la maggioranza dei due terzi così da consentire la raccolta delle firme per un referendum popolare, secondo quanto prevede l'art. 138.
Il Comitato No Debito ha organizzato una raccolta di firme e dei sit-in davanti alla Camera e al Senato per rompere il 'silenzio stampa' sulla questione. Solo il manifesto ha alimentato la discussione pubblicando articoli contro la modifica dell'art. 81. Il Parlamento non ha raccolto questa domanda volta a far svolgere il referendum popolare su una materia così importante come le regole del bilancio dello Stato, cuore del patto fiscale democratico.
Introdurre in Costituzione il pareggio di bilancio significa impedire alle istituzioni pubbliche di intervenire nella gestione dell'economia per orientare l'uso delle risorse rispettando il vincolo dei beni comuni naturali, l'acqua, il territorio, l'energia, l'aria e per attuare i diritti sociali - la salute, l'educazione, l'istruzione, la previdenza.
Ora l'articolo 81 è stato modificato ed è parte integrante della Costituzione aprendo però una contraddizione al suo interno: come si può conciliare il pareggio di bilancio con le disposizioni dell'art. 3 (la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale), dell'art. 4 (il diritto al lavoro), dell'art. 32 (il diritto alla salute), dell'art. 34 (il diritto all'istruzione), dell'art. 35 (la tutela del lavoro), dell'art. 37 (la tutela della donna lavoratrice e dei minori), dell'art. 38 (diritto all'assistenza, alla previdenza e alla sicurezza sociali)? La contraddizione è tra diritti e mercato, e su di essa occorre far leva.
Qui si inserisce la precisa proposta di Gianni Ferrara, avanzata su il manifesto, di raccogliere 50 mila firme, secondo il dettato dell'art. 71 Cost., per una proposta di legge di iniziativa popolare per un comma aggiuntivo all'attuale testo dell'art. 81 per vincolare almeno il 50 per cento del bilancio dello Stato all'effettiva fruizione dei diritti sociali e del lavoro prescritti in Costituzione.
L'Associazione per la democrazia costituzionale ha già avviato un lavoro per un'iniziativa legislativa popolare, aperta a tutte le forze intenzionate a difendere e sviluppare il costituzionalismo democratico e sociale di cui è espressione la nostra Carta costituzionale.
Il 2 marzo è stato siglato a Bruxelles il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento, sulla governance nell'Unione economica e monetaria, noto come Fiscal Compact, chiesto dal presidente della Bce, Mario Draghi, nel suo discorso al Parlamento europeo il 1 dicembre 2011. Con il Fiscal Compact si rendono permanenti i piani di austerità che mirano a tagliare salari, stipendi e pensioni, ad annullare la specialità del diritto del lavoro, a privatizzare i beni comuni, e si chiede, all'art. 3, l'introduzione del pareggio di bilancio negli ordinamenti nazionali, preferibilmente a livello costituzionale. Con questo trattato economico i governi, qualunque siano i loro colori politici, devono nelle politiche di bilancio attuare le decisioni del Consiglio europeo, della Commissione europea e della Bce: la democrazia viene cancellata, il potere è nelle mani dei mercati finanziari, delle banche, della tecnocrazia. Inoltre si prescrive l'abbattimento del debito per riportarlo nel limite del 60 per cento del Pil: per l'Italia venti anni di manovre economiche dell'ordine di 47-48 miliardi l'anno solo per ripagare il debito. Per questo occorre spezzare i vincoli dell'Ue.
In Italia la ratifica dei trattati internazionali, qual è il Fiscal Compact, è di competenza esclusiva del Parlamento tanto che l'art. 75 Cost. non ammette il referendum per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Ora i Trattati Ue vanno cambiando radicalmente le Costituzioni fino al loro sovvertimento, come avviene con il Fiscal Compact che, insieme con la modifica dell'art. 81, introduce una 'costituzione di mercato' contro il costituzionalismo dei diritti.
Certo importante sarà una campagna d'opinione contro la sua ratifica, ma questa campagna sarà tanto più incisiva se sarà centrata sulla richiesta che anche in Italia si svolga un referendum popolare. Ho ricordato il divieto dell'art. 75, ma i Trattati Ue hanno una tale incidenza sugli assetti costituzionali che il Parlamento italiano varò nel 1989 una legge costituzionale per consentire un referendum popolare di indirizzo su una questione fondamentale: l'attribuzione di un potere costituente al Parlamento europeo. A convincere un restio Pci a sostenerla furono in prima fila Ferrara, Bassanini e Rodotà.
Oggi occorre chiedere che il Parlamento, con la stessa rapidità con cui ha approvato la revisione dell'art. 81, vari una legge costituzionale per un referendum di indirizzo sul Fiscal Compact. I/le cittadini/e devono decidere sulle scelte europee: se vogliono un'Europa liberista, o un'Europa guidata dai valori del costituzionalismo democratico.
Nel Novecento i comizi sindacali alle manifestazioni del 1° Maggio si concludevano regolarmente con l'appello «al lavoro e alla lotta». Altri tempi, quando il lavoro c'era per quasi tutti, al punto che una parte del movimento operaio poteva anche permettersi di invocare una lotta contro il lavoro, anzi «contro questo lavoro», cioè contro i rapporti di produzione capitalistici per liberare il lavoro dal profitto. Oggi, se si concludesse un comizio chiamando «al lavoro e alla lotta» si parlerebbe a una parte sempre meno maggioritaria di interlocutori. L'unico appello unificante, semmai, sarebbe «alla lotta per il lavoro».
Se ci limitassimo a questa constatazione non faremmo un gran passo avanti e non fermeremmo lo smottamento in atto verso tempi bui. Come ha detto su questo giornale l'ex segretario della Cgil Antonio Pizzinato, «stiamo tornando a prima degli scioperi del 1944». La quantità - anzi la penuria - di lavoro, invece, dev'essere coniugata con la sua qualità. Perché le sorti del capitalismo declinato in chiave liberista non sono magnifiche né progressive e dentro questo modello di rapporti di produzione e dunque di relazioni sociali, non c'è futuro lavorativo e neppure dignità. Non è velleitarismo sostenere che dentro la crisi più drammatica bisogna ripensare un'altra società dove il lavoro, per tutti, sia socialmente e ambientalmente compatibile. Il modello dominante dettato dal Gotha della finanza mondiale a cui la politica ha passato la mano si fonda sulla cancellazione dei diritti e sulla distruzione delle risorse.
Come ha spiegato Mario Monti, non è accettabile che un lavoratore licenziato ingiustamente debba poter tornare al suo posto perché tale automatismo avvalorerebbe l'idea che il posto di lavoro è di proprietà di chi lo svolge. Invece no, chi lavora è appendice della macchina, variabile dipendente non solo dai profitti ma addirittura dai desideri di un capitale libero di dislocarsi dove vuole, alle condizioni che vuole. Il lavoro è merce, la soggettività roba da psicoanalisi, i diritti dei lavoratori cibo avariato incompatibile con le esigenze dell'impresa. Chi obbedisce alle regole del mercato potrà ricevere in premio il lavoro, a quali condizioni non dipende certo da lui. Chi vince alla lotteria può anche farsi rappresentare da un sindacato, purché a sceglierlo sia il padrone o chi ne fa le veci.
Se le cose stanno così, se è vero che il capitale si è globalizzato frantumando il lavoro, con la conseguente trasformazione del conflitto da verticale (tra lavoro e capitale) a orizzontale (tra lavoratori), allora vuol dire che c'è un problema di democrazia non solo nel lavoro ma nell'intera intelaiatura sociale: in Italia, in Europa, nel mondo. Se si assume che le relazioni sociali devono obbedire alle leggi di una guerra tra navi nemiche, in cui il nemico del rematore non è più l'armatore né il comandante bensì i rematori della nave avversaria, allora vuol dire che la democrazia stessa è diventata incompatibile con questo capitalismo. Giovani contro vecchi, indigeni contro migranti, uomini contro donne, uno stabilimento o un ufficio contro l'altro, stabili (si fa per dire, la stabilità è finita tra le scorie novecentesche) contro precari. In una competizione feroce senza regole, costituzioni, statuti, e gli «arbitri neutrali» al massimo potranno indicare risarcimenti monetari per la merce lavoro.
Non si vince da soli, in fabbrica, in ufficio, a scuola, in laboratorio. Non si fa la rivoluzione in un solo paese, oggi come quando si diceva «proletari di tutto il mondo unitevi», solo che oggi nelle strade del mondo corre solo il capitale. Non si vive di speranze di lavoro, e per di più a qualsiasi condizione: oltre ai diritti da ritrovare ce n'è uno inevitabile da conquistare ed è il reddito di cittadinanza. Ma soprattutto bisogna creare lavoro di qualità, utile, compatibile. Ha ragione Luciano Gallino che non è un sognatore a lanciare il suo appello keynesiano per un milione di posti di lavoro di pubblica utilità. Sarebbe un primo passo, piccolo ma concreto, un'inversione di tendenza, un modo semplice per legare la quantità del lavoro alla sua qualità.
Buon 1° maggio.
Il problema è che pensare, come giustamente sostiene Campetti, a una «società dove il lavoro, per tutti, sia socialmente e ambientalmente compatibile» significa pensare una società radicalmente diversa da quella attuale: una società in cui il lavoro non sia una merce (per di più sostituibile con un’altra merce più a buon mercato), ma il contributo che ogni essere umano dà al lavoro collettivo di conoscenza e trasformazione del mondo. Un lavoro, per ciò stesso, socialmente riconosciuto, quindi “retribuito”. Un’utopia? Forse; ma – come diceva Claudio Napoleoni – posto a un livello inferiore il problema non è risolubile.
Festa del Lavoro? Si è già parlato, più o meno scherzosamente, del suo opposto: festa del non lavoro. E dunque, se così è, si può ancora parlare di festa? E si può scendere nelle strade, invadere le piazze, agitare le bandiere, e cantare le canzoni del “Movimento”, e infine, dopo i pranzi fuori porta e le libagioni di rito, ascoltare i concerti che sembrano orma diventati il cuore dei nostri primi maggio? Si può, insomma, ripeto: “festeggiare”?
Sì e no.
Oggi, questa ricorrenza, come non mai, cade in un momento di feroce attacco padronale – mi scuso per la banalità dell’espressione che i miei critici leggeranno in chiave di nostalgismo veterocomunista, ma tant’è – ai ceti proletari e in generale ai subalterni, a “coloro che non hanno e che non sanno”, per citare un esponente del pensiero reazionario italiano, di oltre un secolo fa (tale Mario Morasso, ispiratore della destra più estrema del tempo). Oggi, un Ministero di “tecnici” sta facendo il lavoro sporco che il Governo dei politici non è stato in grado di portare a compimento. Chiediamoci come ci stia riuscendo.
Innanzi tutto per ragioni politiche, ossia nell’ordine: 1) il crollo ignominioso del governo precedente, a cominciare dal suo capo, rivelatosi, agli occhi anche dei suoi sostenitori, un personaggio al di sotto dei più malevoli sospetti, per tacere del suo alleato, il moralizzatore Bossi, che ha superato in grandiosità il marcio della Prima Repubblica e della Seconda, mostrando a che punto il familismo amorale possa giungere: fino all’estremo degrado; 2) l’appoggio della ex Opposizione, in particolare di quel Partito che una volta aveva nel suo statuto ideale, prima ancora che nelle sue pratiche quotidiane, la tutela dei ceti più deboli, a cominciare dalla classe operaia, in quanto “classe generale”, la classe che difendendo se stessa, ossia i propri interessi di classe, difende in realtà gli interessi di tutta la società.
Davanti alla inettitudine e alla corruzione dei berluscones e dei padan-leghisti, col soffio di aria pulita che sembrava giungere dal professor Monti (un po’ meno dalla sua compagine, troppo impelagata in conflitti di interessi, e in taluni suoi componenti palesemente al di sotto degli standard minimi di competenza; vedi il caso del famigerato sottosegretario Martone, quello che aveva chiamato “sfigati” chi aveva un destino meno felice del suo…) è stato quasi obbligatorio fare un’apertura di credito. Ma da qui a infilarsi nella grosse Koalition, alleandosi col nemico, ce ne passa! A meno che quel nemico non sia più tale, e che gli elementi di contiguità o di vicinanza siano maggiori e più forti di quelli di distanza e differenza. In ogni caso, in particolare il Partito democratico si è messo in un pasticcio politico dal quale non gli sarà facile levarsi. Con chi sta oggi quel partito: con la signora professoressa Fornero o con i pensionati a 7/800 euro al mese? Con Martone o con i giovani “sfigati”? Con i cassintegrati a zero ore o con il superministro Passera? Con le decine di migliaia di precari della ricerca o con il già rettore del Politecnico torinese, già presidente CNR, e ora ministro di Università e Ricerca, professor ingegner Profumo?
Ci sono situazioni in cui occorre scegliere e non solo perché, come ricorda Nicola Abbagnano in un suo libro di mezzo secolo fa, “esistere è decidere”, ma perché la politica, che è anche arte della mediazione e del compromesso, è soprattutto scienza della decisione, tenendo presente i possibili esiti delle proprie decisioni a breve, medio e lungo termine. E se non decidiamo noi, la nostra parte politica, sono altri a decidere per noi. E non è l’economia a decidere: sono gli esseri umani, portatori di passioni, pulsioni, valori e disvalori, e soprattutto interessi. Ecco perché il “governo dei tecnici” è un imbroglio, una volta ribadito quanto già più volte ho scritto su queste pagine: con Berlusconi e Bossi avevamo al potere un cricca di malaffare, ora abbiamo un canonico “comitato d’affari della borghesia”.
L’imbroglio nasce dall’ideologia, così diffusa in questi anni di crisi, e che si è trasformata ora in pratica politica, secondo cui l’economia sarebbe una scienza oggettiva, null’altro che la “naturale” esplicitazione della necessità delle cose, nel loro inevitabile, fatale andare. Ci hanno insomma convinto che l’economia è una scienza neutra, e come scienza non può essere che capita da scienziati e applicata da tecnici; e quindi il cittadino non può che accettare, e che quando l’economia “va bene”, siamo contenti, ma quando “va male” non possiamo che accettarne le conseguenze, su individui, famiglie, imprese. Insomma, che “non c’è nulla da fare”: bisogna pagare, oggi, per guadagnare domani, piegarsi all’imperio della Legge, ora, per potere rialzar la testa poi. E ci hanno imbottito il cervello ripetendoci che “siamo tutti nella stessa barca”. Ma c’è qualcuno che su quella barca rema, altri lavano i cessi, altri, invece, sono in coperta a godersi un daiquiri sotto la tenda che li ripara da troppo sole, mentre cianciano dei prossimi investimenti o di quanto sia diventata impossibile la vita a Portofino, dopo le incursioni della Guardia di Finanza…
E il governo dei tecnici, il ministero dei grandi esperti, la compagine dei bocconiani e cattolici militanti, che cosa ha partorito? Aumento delle imposte e delle tasse, in particolare delle imposte indirette – le più facili e le più inique, perché colpiscono indiscriminatamente ricchi e poveri –, scelte politiche inaccettabili mascherate da necessità o ovvietà: l’acquisto di nuovi aerei militari, dai costi stratosferici, la conferma inossidabile della Tav in Val di Susa, la prosecuzione del costosissimo impegno militare in Afghanistan. E ci vogliono far credere che si tratti di decisioni obbligate!
Le politiche di questo governo, come del precedente, insomma, non sembrano in grado di affrontare i problemi di fondo del Paese, che certo non si risolvono con lo stile ragionieristico di Monti, né con il piglio goffamente autoritario della Fornero, o il vacuo efficientismo di Passera, o le menzogne e le banalità dei ministri addetti a Sanità e Ambiente. I ricercatori vessati, gli insegnanti umiliati; gli scolari e studenti penalizzati; i professori di università costretti a cercare rifugio all’estero; i disoccupati, gli esodati, i licenziati, i de localizzati, i cassintegrati; le vittime (morti, feriti, invalidi) sul lavoro, o meglio di lavoro; i lavoratori in nero; i suicidati. Operai, impiegati, imprenditori: quanti sanno che è nata in aprile a Vigonza (Padova) un’Associazione dei familiari degli imprenditori morti suicidi? Nel 2012, i morti di propria mano sono stati, fino a metà aprile, 23. (Giunge ora la notizia di un altro suicida: o meglio suicidato: un imprenditore edile sardo, costretto a licenziare i dipendenti, compresi i suoi stessi figli. Possibile che i tecnici cattolici al governo, i teorici del “rigore finanziario” e della “coesione sociale”, non abbiano nulla da rimproverarsi?). E questa non è forse una nuova forma della distruzione del ceto medio, che abbiamo già visto in atto negli Stati Uniti? E, a sua volta, a me pare una tragica conferma della “profezia “ di Marx, relativa alla bipolarizzazione della società, e all’impoverimento crescente delle classi medie fino alla loro scomparsa tendenziale, e alla concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ridotto di mani, e in misura sempre più alta…
Ebbene, di tutto ciò dobbiamo ricordarci in questo Primo Maggio: che tuttavia, non deve essere di abbandono e di rinuncia. Ma di lotta, di mobilitazione, e, oso dirlo, di speranza. Non facciamoci abbattere dalla crisi e da chi la usa contro di noi. Contro i deboli, contro chi ha meno strumenti per difendersi, contro chi sta subendo il peso più grave. A loro dobbiamo stare vicini anzi farci parte di loro. E ricordiamoci che, come scriveva Carlo Rosselli negli anni Trenta – poco prima di essere ucciso dai fascisti francesi su mandato del regime mussoliniano – nulla può resistere a una massa di lavoratori che lasciano le officine e marciano compatti verso il centro della città. Nulla può resistere. Né i tecnici, che fanno oggi il lavoro dei politici, né questi ultimi preoccupati prima di tutto, se non esclusivamente, della propria sopravvivenza di individui e di ceto.
Il Primo Maggio 2012 dobbiamo essere tutti operai e operaie che lasciano i loro luoghi di lavoro, e di riposo, per marciare verso il cuore delle città e dire che esse ci appartengono. E che le “zone rosse” non devono più significare settori cui è vietato l‘accesso, bensì centri di occupazione simbolica e fisica, dietro le nostre bandiere, e scanditi dai nostri slogan ritmati, dalle nostre musiche e dai nostri canti. La teoria politica, quella seria, da Aristotele a Machiavelli a Gramsci, ci insegna che ogni azione politica è lotta per il potere. Per i subalterni, oggi, il potere significa la difesa di conquiste e diritti che qualcuno vorrebbe togliere, dall’articolo 18 al valore legale dei titoli di studio, dalla proprietà pubblica dell’acqua e degli altri beni comuni, alla tutela della salute. Difendiamo quello che una infinita catena di sofferenza e di umiliazioni, una scia di morte e dolore, ma anche di epiche vittorie, ci ha consegnato: e non arretriamo di un millimetro; anzi, avanziamo, unendo le forze, senza farci prendere dallo scoramento e dal pessimismo. La strada è lunga, impervia, ma “noi” siamo tanti, e siamo di più, molti di più di “loro”.
Del leggendario racconto Il Pozzo e il Pendolo di Edgar Allan Poe di solito ci si ricordano soprattutto i passaggi più scioccanti, ad esempio quell’involontario immondo bacio con gli animaletti (their cold lips sough my own …) dimenticandosi l’aspetto per così dire ottimista di tutta la faccenda. Perché Poe, a suo modo fiducioso nella razionalità e nel progresso, ci descrive un protagonista che lungo tutto lo svolgersi del terrificante incubo prova a sforzarsi di conoscere, capire, riflettere. Fin quando lontane iniziano a riecheggiare le fanfare dei liberatori, i mortali nemici dei suoi carcerieri.
Conoscere, quindi. Conoscere quanto ci stanno togliendo, inventandosi di sana pianta che tutto è merce, di proprietà di chi la rivendica per primo e con gli interlocutori giusti. E poi rivendendoci a caro prezzo l’aria, l’acqua, la terra. Come in quella vignetta di tanti anni fa, dove due innamorati guardavano il sole scendere nel mare, ma bloccarsi di colpo perché nel cielo compariva una gigantesca scritta rossa: questo tramonto vi è stato offerto da Coca Cola! In particolare del cosiddetto land grabbing – l’accaparramento di terre agricole sottratte agli usi comuni dei villaggi – si è iniziato a parlare solo pochi anni fa, quando il fenomeno è esploso ad esempio in riferimento alla produzione di agro carburanti, ma non solo. Un disastro, che sfruttando soprattutto l’assenza di norme e la corruzione locale, aveva già trasformato superfici gigantesche (dell’ordine di decine di migliaia di ettari per volta) da campagne tradizionali abitate da popolazioni rurali sparse, a colture estensive semindustrializzate, deportando gli abitanti, imponendo leggi da far west, spremendo l’ambiente e le risorse locali con immediati e gravissimi squilibri.
E tutto avveniva – avviene - nella più totale opacità, con incontri assai riservati fra ceto dominante locale ed emissari governativi esteri e/o di multinazionali interessate al grabbing, il passaggio intermedio da dignitari tribali o simili che fanno commercio di cosa non loro, e l’attuazione concreta del piano. Ovvero forzosa obliterazione etnica, ambientale, socioeconomica. Oggi un sito (è attivo dalla scorsa settimana) ci aggiorna in presa diretta con informazioni, dati, grafici. Facendoci scoprire subito, per esempio, che una percentuale terrificante del 5% dell’Africa agricola è già scomparsa dentro a questo pozzo, e che quindi gli allarmi lanciati dalle varie organizzazioni negli ultimi anni erano più che giustificati. E non dimentichiamoci quanto il medesimo fenomeno, magari con qualche variante, interessi anche Asia e Sud America. Conoscere per agire a far reagire (ad esempio i governi: cosa dicono i paesi democratici alle loro imprese?). Visto che alla fine del racconto di Poe l’esercito liberatore arrivava dall’estero: oggi con la globalizzazione al massimo potremmo sperare nell’invasione da un altro pianeta? Meglio di no.
Sito land matrix (in inglese, francese, spagnolo)
Greenpeace Italia anticipa al Fatto Quotidianoonline il suo rapporto su Enel, basato sulle ricerche della fondazione olandese SOMO e della European Environmental Agency (EEA). Investimenti minimi nelle nuove rinnovabili, sostegno anacronistico al carbone e nucleare all’estero
Un morto al giorno, 366 l’anno per la precisione. Sono quelli riconducibili all’inquinamento prodotto dalle centrali a carbone dell’Enel secondo la proiezione della Fondazione Somo per Greenpeace Italia. Applicando i parametri dell’Agenzia Europea per l’Ambiente alle emissioni in atmosfera delle centrali della compagnia ex pubblica emerge che “le morti premature associabili alla produzione di energia da fonti fossili di Enel per l’anno 2009 in Italia sono 460. I danni associati a queste stesse emissioni sono stimabili come prossimi ai 2,4 miliardi di euro. La produzione termoelettrica da carbone costituisce una percentuale preponderante di questi totali: a essa sono ascrivibili 366 morti premature (75%), per quell’anno, e danni per oltre 1,7 miliardi di euro (80%)”. Un responso implacabile che la Fondazione ha trasmesso all’Enel ricevendo, purtroppo, risposte molto elusive.
“Lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili unito alla perdurante stagnazione della domanda di energia elettrica sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendo a rischio la possibilità di tali impianti di rimanere in esercizio”. L’ha dichiarato un mese fa Paolo Colombo, presidente dell’Enel, seguito a ruota dall’amministratore delegato Fulvio Conti, che ha chiesto di “correggere le forme di incentivi per le fonti rinnovabili” calibrando meglio i sussidi nel prossimo decreto allo studio del governo nazionale, per “dare impulso ad altre filiere”.
Il mondo sta cambiando, la produzione di energia è sempre più diffusa e decentrata, ma l’Enel non vuole mollare: il suo vecchio mondo, quello delle grandi centrali a gas, carbone, uranio, olio combustibile deve essere preservato. “Enel è entrata a gamba tesa sul tema dell’incentivazione alle rinnovabili – ha dichiarato a Repubblica.it il senatore del PD Francesco Ferrante – . Le cose sono due: o si tratta di disinformazione o di una sorta di confessione di chi guarda al passato e ha paura del futuro”.
Per Greenpeace Italia non ci sono dubbi: Enel ha paura delle rinnovabili perché è ancorata al passato o si affida a tecnologie di dubbia efficacia. “Se si eccettua l’idroelettrico, che in Italia è semplicemente un’eredità di investimenti passati e in altre regioni, come in America Latina, è collegato a progetti potenzialmente ad alto impatto ambientale, gli investimenti di Enel nelle rinnovabili sono minimi, specialmente in Italia ed Europa, dove la riduzione delle emissioni di Co2 è affidata al nucleare o a improbabili tecnologie come la cattura e sequestro del carbonio (Carbon Capture Storage o CCS)”, ha dichiarato Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia.
Nel suo rapporto, che ilfattoquotidiano.it ha ottenuto in anteprima, Greenpeace non si limita a puntare il dito, come ha già fatto più volte in passato, sul mix energetico “anacronistico” di Enel, ma analizza per la prima volta i costi esterni delle centrali Enel a carbone e petrolio. “Si tratta dei costi per l’ambiente, l’agricoltura e la salute dei cittadini. Sono voci di costo che non compaiono nei bilanci, perché la società non li paga. A pagare è però l’ecosistema nel suo complesso”.
Greenpeace fa riferimento a un rapporto della fondazione olandese SOMO, che uscirà nei prossimi mesi, e allo studio della EEA (European Environmental Agency), l’agenzia per l’ambiente dell’Unione Europea, uscito nel novembre del 2011. Lo studio dell’EEA individua i 20 impianti di produzione di energia più inquinanti in Europa. In Italia il primato spetta alla centrale a carbone Federico II di Brindisi, gestita dall’Enel, i cui costi esterni (calcolati dall’EEA) ammontavano a 707 milioni di euro nel 2009: una cifra che supera i profitti che Enel ottiene dalla centrale. “E’ un gioco pericoloso, che non vale la candela”, continua Onufrio. “I profitti sono ottenuti con un prezzo altissimo per l’ambiente e la salute”. Greenpeace Italia ha esteso la metodologia utilizzata dallo studio dell’EEA a tutte le centrali a carbone gestite da Enel in Italia ed è arrivata a conclusioni preoccupanti: “I costi esterni delle centrali a carbone sono di 1,7 miliardi di euro – oltre il 40% dell’utile che Enel ha ottenuto a livello consolidato, in tutto il mondo, nel 2011”, si legge nel rapporto. “Se alle attuali centrali si dovessero aggiungere quelle di Porto Tolle e Rossano Calabro – che potrebbero presto essere convertite da olio a carbone – i costi esterni potrebbero toccare la quota di 2,5 miliardi di euro all’anno, suddivisi in costi per la salute, danni alle colture agricole, costi da inquinamento dell’aria e da emissioni di Co2”.
Al termine del rapporto, Greenpeace chiede ad Enel di effettuare al più presto una valutazione dei costi esterni delle centrali a combustibili fossili, riportando i risultati all’interno del bilancio di sostenibilità. Tra i quesiti rivolti ad Enel non mancano i riferimenti al progetto per la centrale a carbone di Galati, in Romania, “in un’area già colpita da decenni di inquinamento dell’industria pesante rumena” e alla centrale Reftinskaya GRES, nella regione di Ekaterinburg, in Russia, che sarebbe stata accusata di “violazioni di norme ambientali” da parte delle autorità locali. Altre domande riguardano i reattori nucleari Cernavoda 3 e 4, che Enel gestisce in Slovacchia e il progetto Baltic NPP a Kaliningrad, in Russia, per la costruzione di un nuovo reattore nucleare.
Alcune delle domande di Greenpeace sono state inoltrate alla società dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica (Banca Etica) azionista “critico” di Enel dal 2007. Enel sarà tenuta a rispondere entro il giorno dell’assemblea, prevista per lunedì 30 aprile. Tra gli azionisti saranno presenti, oltre alla Fondazione di Banca Etica, anche il vescovo guatemalteco Alvaro Ramazzini – delegato dai Missionari Oblati – e l’attivista colombiano Miller Armin Dussan Calderon, professore dell’Università Surcolombiana e presidente di Assoquimbo, associazione dei comitati locali colombiani che presidiano il territorio contro la costruzione della diga Enel di Quimbo in Colombia. Ramazzini e Calderon porteranno in assemblea la voce delle popolazioni del sud del mondo impattate dai progetti idroelettrici della compagnia italiana. L’assemblea potrà essere seguita online sul sito del Fatto Quotidiano e su Twitter (#nonconimieisoldi e #azionisticritici).
Innanzitutto la buona notizia: si ammette finalmente che le misure di austerità non funzionano. Ma ecco quella cattiva: almeno a breve termine, le prospettive di cambiamento appaiono quanto mai scarse. È in quest'ultimo mese che la favola della fiducia è morta. Negli anni scorsi, gran parte dei politici europei, al pari di molti dei loro omologhi ed esperti americani, sono stati prigionieri di una dottrina economica distruttiva: una teoria secondo la quale i governi avrebbero dovuto fronteggiare la depressione economica non già aumentando la spesa per compensare il calo della domanda privata, come indicano i trattati di riferimento, ma attraverso il rigore fiscale e l'abbattimento della spesa pubblica, in nome dell'equilibrio di bilancio.
I critici hanno detto fin dall'inizio che in una fase depressiva l'austerità non avrebbe fatto che aggravare la situazione; ma i rigoristi sostenevano il contrario, puntando sul fattore fiducia. «Le politiche atte a ispirare fiducia non saranno certo di ostacolo alla ripresa economica, anzi la promuoveranno», dichiarava allora Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca centrale europea; una tesi riecheggiata al Congresso di Washington dagli esponenti repubblicani. In altri termini, come dissi allora, si pensava alla fiducia come a una fata che sarebbe tornata a premiare i politici per le loro virtù fiscali.
Fortunatamente, oggi molte voci autorevoli hanno finito per ammettere che si è trattato di un mito. Ciò malgrado, però, non si intravedono cambiamenti di rotta a breve termine in Europa, e neppure negli Usa, che peraltro non hanno mai pienamente adottato la dottrina rigorista. Ma anche qui l'austerità è stata imposta di fatto, sotto forma di un drastico abbattimento della spesa e di pesanti tagli occupazionali, siaa livello degli Stati che a quello locale.
La dottrina fondata sul richiamo ai miracoli della fiducia suonerebbe familiare a Herbert Hoover (presidente Usa nel 1929 - ndt ). Di fatto, nell'Europa di oggi la fede in quel mito non si è rivelata più fondata che nell'America di quegli anni. Negli Stati periferici europei, dalla Spagna alla Lettonia, le politiche di austerità hanno prodotto una serie di tracolli, con livelli di disoccupazione paragonabili a quelli della Grande Depressione; la Fata Fiducia non si è vista da nessuna parte - neppure in Gran Bretagna, dove due anni fa la svolta liberista era stata osannata sulle due sponde dell'Atlantico. In tutto questo non vi è nulla di nuovo: si sa da tempo che le politiche di austerità non mantengono le loro promesse. Ma questa verità ovvia, i politici europei l'hanno negata per anni, ostinandosi ad annunciare che a breve le misure adottate avrebbero dato i loro frutti, e celebrando come un trionfo ogni più lieve segno positivo. In particolare, un Paese a lungo attanagliato dalla crisi come l'Irlanda è stato citato a esempio del buon esito delle politiche di rigore per ben due volte: all'inizio del 2010, e più recentemente nell'autunno 2011. Ma ogni volta, il preteso successo si è rivelato un miraggio. A tre anni dall'avvio del suo programma di austerità, l'Irlanda non mostra ancora alcun segno reale di ripresa, dopo un crollo che ha portato il tasso di disoccupazione vicino al 15 per cento. Eppure, in queste ultime due settimane qualcosa si sta muovendo. Sembra che alcuni avvenimenti - tra cui la crisi del governo olandese dopo la sua proposta di misure di austerità, i consensi riscossi al primo turno delle elezioni presidenziali francesi da un François Hollande vagamente anti-rigorista, o le notizie sulla Gran Bretagna, dove secondo un rapporto la situazione è oggi peggiore che nel 1930 - abbiano finalmente aperto una breccia nel muro della negazione. All'improvviso, tutti riconoscono che l'austerità non funziona.
Ora però la domanda è: cosa si farà a questo punto? Temo di dover rispondere : non molto.
Innanzitutto, se da un lato i rigoristi sembrano aver lascato ogni speranza, dall'altro non depongono l a paura, sostenendo che se non si continua a tagliare la spesa - in barba alla depressione economica - si rischia di finire come la Grecia, con un costo del debito alle stelle.
Ora, la tesi secondo la quale solo l'austerità può placare i mercati finanziari si è sempre rivelata errata, così come il mito della fiducia foriera di prosperità. A quasi tre anni da quando il Wall Street Journal annunciava a gran voce l'attacco dei bond vigilantes al debito Usa, il costo del denaro, lungi dall'aumentare, si è addirittura dimezzato. E il Giappone- Paese che per oltre un decennio ha subito le più fosche previsioni sulle sorti del suo debito - ha ottenuto questa settimana crediti a lungo termine a un tasso d'interesse inferiore all'1%.
Oggi molti seri analisti sostengono che l'austerità fiscale in un'economia depressa ha probabilmente effetti autodistruttivi, in quanto comprime l'economia e penalizza i redditi a lungo termine; e quindi non solo non risolve i problemi legati al debito, ma al contrario li aggrava.
Ma se la favola della fiducia sembra ormai morta e sotterrata, restano in auge i racconti da brivido sul tema del deficit. Di fatto, i sostenitori della politica britannica respingono ogni invito a ripensare le loro scelte, che pure dimostrano di non dare i risultati sperati, sostenendo che ogni cedimento in materia di austerità porterebbe a un'impennata del costo del denaro.
Oggi viviamo in un mondo governato da un'economia politica-zombie. La constatazione dell'erroneità di tutte le sue premesse avrebbe dovuto ucciderla; e invece continua ad arrancare sulla stessa strada. E nessuno può sapere quando questo regno dell'errore avrà fine.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
il manifesto
Un paese al cemento
di Paolo Berdini
Nimby forum è un sito molto istruttivo. Combatte come un sol uomo contro la cultura dell’egoismo di un paese che vuole ostacolare lo sviluppo, la crescita e il progresso. Chissà se troveranno il coraggio per commentare i primi dati provvisori del censimento Istat 2011 da cui emerge che nel decennio 2001-2011 l’Italia è stata invece riempita di cemento e asfalto, altro che nimbi.
Afferma l’Istituto di statistica che a fronte di un incremento della popolazione di circa 2,5 milioni di persone nel decennio 2001-2011 – all’incirca 1 milione di famiglie, visto che l’indice medio è di 2,4 persone per ogni famiglia- le abitazioni costruite sono state un milione e 571 mila. Sono stati dunque realizzati circa 400 milioni di metri cubi di alloggi. L’Istat non ci dice a quanto ammonta il segmento non residenziale, ma girando l’Italia, tutti noi possiamo però misurare a colpo d’occhio l’impressionante numero di outlet, ipermercati e centri commerciali. Ad essere prudenti si tratta in totale di un miliardo di metri cubi di cemento in dieci anni!
Nimby forum disegna un’Italia che esiste soltanto nella loro monocultura malata. Ciò che si evidenzia è invece un paese in preda ad una febbre speculativa senza precedenti. Esistono quasi 29 milioni di abitazioni: 24 milioni quelle occupate e 4 milioni e novecento mila quelle “vuote”. Le famiglie italiane sono complessivamente 24 milioni e 512 mila: un numero pressoché uguale a quello delle abitazioni occupate. Ma se consideriamo che una buona percentuale degli stranieri abita spesso senza contratto per volontà di proprietari senza scrupoli, il numero degli alloggi occupati aumenterebbe ancora, superando di molto il numero della famiglie residenti. E’ evidente che non c’è più nessun motivo per costruire nuove abitazioni e che è sempre più indispensabile avviare politiche di ristrutturazione urbana senza espandere più le nostre ipertrofiche città. Basta con la crescita urbana, congeniale soltanto agli appetiti dei fondi finanziari di investimento.
C’è poi un altro dato su cui è opportuno riflettere. Per commentarlo l’Istat stesso usa l’aggettivo “sconvolgente”. Si tratta dell’aumento delle famiglie che vivono in baracche, roulotte o in alloggi di fortuna: erano poco più di 23 mila nel 2001; oggi sono più che triplicate raggiungendo la cifra di 70 mila. In questo decennio ci hanno raccontato la storiella che bisognava cancellare il governo pubblico delle città e del territorio perché era un arnese inservibile e fallimentare. Sarebbe stato il “mercato” a risolvere tutto.
Ecco i risultati. La precarietà estrema riguarda oltre 200 mila cittadini italiani e se ad essi aggiungiamo le vittime del gigantesco fenomeno di espulsione urbana che ha riguardato milioni di cittadini costretti a trasferirsi verso periferie metropolitane sempre più lontane e invivibili, il quadro è completo. Il trionfo del liberismo selvaggio ha prodotto fenomeni di precarietà senza precedenti. Processi analoghi ai fenomeni che hanno distrutto la tutela del lavoro: le città, gli storici luoghi della convivenza sociale sono state cancellate dal fondamentalismo liberista.
E non è finita. Il peggio deve ancora arrivare. Il Politecnico di Milano ha svolto per conto della Cisl lombarda una ricerca sullo stock di abitazioni nuove invendute esistenti in alcuni capoluoghi e quelle prevedibili sulla base degli sciagurati progetti di cementificazione già decisi. A Brescia (191.000 abitanti) ci sono oggi 56 mila abitazioni invendute. Ce ne saranno 107 mila nel 2018. Un’altra città fantasma costruita intorno a quella esistente! A Bergamo (115 mila abitanti) ci sono oggi 58 mila abitazioni vuote e al 2018 saranno 135 mila: oltre il doppio della città esistente.
Questi dati non li troverete sul sito Nimby forum, troppo impegnato a propugnare la cancellazione di ogni ulteriore regola del vivere civile. Dimenticavamo. Tra i sostenitori del sito c’è –e chi poteva dubitarne- il Consorzio Venezia Nuova, inflessibile realizzatore del Mose di Venezia. In questo caso, purtroppo, nonostante sacrosante e motivate proteste non è scattata la fatwa del nimby e l’opera inizia purtroppo ad apparire in tutto il suo tragico orrore. Stanno distruggendo per sempre la laguna veneziana. E’ ora di fermarli.
La Repubblica
Tra baracche e cemento l'autoritratto della nuova Italia
di Michele Serra
PROVANDO a immaginare il quindicesimo censimento degli italiani come una gigantesca fotografia aerea, forse il primo colpo d'occhio, il più evidente, è che rispetto al 2002 c'è un aumento molto consistente degli edifici censiti: oggi sono 14 milioni e rotti, l'undici per cento in più in soli dieci anni. Nello stesso periodo la popolazione è cresciuta solo del 2,5 per cento: siamo 59 milioni e mezzo. Anche se le statistiche sono una lingua che chiede di essere tradotta con molta circospezione, questi due dati, incrociati, sembrano dare ragione a chi denuncia una cementificazione indiscriminata e immotivata (o motivata solo dalla speculazione) del nostro territorio. Gli edifici sono aumentati di una percentuale quattro volte più grande rispetto all'aumento degli umani. E nel paese dei mille borghi abbandonati, dei centri storici svuotati, della superfetazione delle villette a schiera che vanno a smarginaree confondere il confine tra città e campagna, i dati del nuovo censimento aiutano a capire che la gestione del territorio è una delle questioni più gravi e irrisolte.
Il secondo colpo d'occhio vede triplicati, in dieci anni, i residenti stranieri. Sono 3 milioni e 769 mila, ed è il loro arrivo (e la loro forte natalità) ad avere compensato la pigrizia demografica di noi italiani indigeni. Sono, gli immigrati, il solo vero elemento di percepibile dinamismoe di mutamento socialee culturale di un paese altrimenti "fermo" (a parte il fiume di cemento...).
LA FAMIGLIA
Rosaria Di Guglielmo e i suoi tre bambini sono stati accolti nel campo rom di via Bonfadini, nella periferia Sud di Milano vicino all'Ortomercato Gli edifici sono aumentati in modo impressionante e così le case Sono state create aree di nuova urbanizzazione con quartieri fantasma senza servizi STA alla lettura e all'ideologia di ognuno, naturalmente, decidere se questa "contaminazione" dall'esterno sia minacciosa o promettente. Certo è un fenomeno oramai strutturale (gli stranieri erano il 2,4 per cento della popolazione totale nel 2002, oggi sono il 6,34), e così "italiano" che risulta difficile, per chi ha meno di quarant'anni, immaginare o ricordare un'Italia senza stranieri, senza asiatici, africani, slavi, arabi.
Il censimento, per altro, conferma in modo inoppugnabile che l'immigrazione è anche un termometro implacabile del benessere economico di un territorio: due stranieri su tre vivono nel Nord Italia, nelle regioni dal reddito più alto e dal tessuto economico più sviluppato. L'assenza di immigrazione è segno chiarissimo di gracilità economica. Anche questo dovrebbe insegnarci ad accogliere gli stranieri, quando bussano alla nostra porta, come una buona notizia.
Terzo colpo d'occhio: il cambiamento delle famiglie. Il loro numero è aumentato (i nuclei familiari censiti sono circa 2 milioni e mezzo in più rispetto al 2002), ma le dimensioni sono più ridotte: 2,4 il numero medio dei componenti (era 2,6 dieci anni fa). Influisce fortemente sul dato la frammentazione del concetto stesso di famiglia: le famiglie allargate sono illeggibili dalle statistiche, ma si moltiplicano con il forte aumento di separazioni e divorzi. Così che il concetto stesso di "nucleo familiare" perde progressivamente senso, e i 2,4 componenti di ogni nucleo non riflettono la densitàe la varietà dei rapporti, anche coabitativi, tra persone non più facilmente definibili come membri di questo o quel nucleo. Si pensi, per esempio, ai tanti figli di separati che sono censiti in una sola casa, ma vivono abitualmente in due case. Quarto e ultimo colpo d'occhio: sono aumentati in modo esponenziale, rispetto al censimento di dieci anni fa, i residenti in Italia che dichiarano di abitare in baracche, roulotte o tende. Da 23 mila a 71 mila. È uno dei contraccolpi più vistosi, anche se quantitativamente meno rilevanti, dell'immigrazione, dell'aumentato ingresso di nomadi e dunque di poveri, che ci rimettono di fronte a immagini anche estreme di indigenza e di disagio sociale.
Un piccolo grande cortocircuito storico, che rende a noi coeve situazioni da dopoguerra, rifugi di fortuna e villaggi di lamiera che sorgono nel fango e tra le erbacce delle periferie urbane, questua diffusa, grande difficoltà di integrazione e di scolarizzazione. L'Italia è stata, per moltissimi arrivati da lontano, un approdo dignitoso e un progetto di vita. Per pochi è un parcheggio precario, una parentesi di stenti. È importante, ed è anche civile, che il quindicesimo censimento nazionale sia una fotografia così grande, e così minuziosa, da essere riuscita a inquadrare anche le baracche, i camper arrugginiti, i tetti di lamiera, le vie di terra battuta dove i bambini giocano con niente, come è pratica diffusa nelle infinite lande povere del pianeta.
Leggiamo sulla cronaca locale di La Repubblica del 24 aprile che la difesa dell'ex assessore Biagi ripropone i temi di una intervista al Procuratore Quattrocchi, ripresa anche da un articolo di Andrea Barducci, sulla possibilità o meno di contrattare l'urbanistica. Sostiene l'autorevole avvocato Lucibello che l'ex assessore avrebbe operato a Castello per evitare di "creare una enclave" una di quelle "villes nouvelles divenute dormitori dove alligna il rancore sociale, il disagio e la delinquenza", citando in proposito le raccomandazioni dell'arch. Renzo Piano di perseguire la biodiversità in chiave urbana e di lavorare sulla diversificazione ad ogni livello.
Ma già nel '93 il PRG adottato dalla giunta Morales, così stabiliva per l'area di Castello: "L'edificabilità è riservata al Comune e/o agli enti istituzionali per la realizzazione di attrezzature e servizi per il 32% circa, mentre per il resto è destinata a funzioni private: residenziali, artigianali, industriali, terziarie, ricettive, di spettacolo, escludendo soltanto le attività inquinanti, rumorose o che attraggono traffico pesante". Ecco quindi garantita la diversificazione ad ogni livello e la pluralità di funzioni di cui parla Renzo Piano il quale, per inciso, fu convocato prima che scoppiasse lo scandalo dall'allora sindaco Domenici per un incarico proprio a proposito di Castello, ma decise dopo un breve colloquio di non farne di nulla. Forse non lo avevano convinto quelle continue varianti ai parametri di PRG, alla convenzione e al Piano Particolareggiato su cui alla fine ci si era incartati.
Continua poi l'avvocato sostenendo che gli incarichi all'arch. Savi ed all'arch. Casamonti sarebbero stati giustificati dalla necessità di garantire in quell'area un intervento di qualità, anziché fare una città dormitorio, con "i casermoni squadrati ed un planivolumetrico da caserma". Queste affermazioni non possono non richiamarci alla mente un altro elemento significativo del Piano di Castello: la Scuola per sottufficiali dei carabinieri, che nel PRG del '93 doveva occupare 16 ettari con un volume di circa 200.000 mc. Ancor prima di Biagi e di Domenici, Primicerio e il suo assessore Bougleux avevano consentito che la scuola triplicasse le sue volumetrie occupando una distesa di suolo ben maggiore, configurandosi proprio come una gigantesca caserma, vera spina nel fianco per l'intero insediamento: come ha fatto a lievitare così tanto e così malamente?
L'accusa del legale alla Procura di avere una visione "burocratica, obsoleta e dannosa dell'interesse pubblico", interesse che sarebbe invece concentrato nella trattativa col privato (a proposito, che fine ha fatto il parco/bosco di 80 ettari che doveva conferire l'effettiva qualità urbana all'intera area?), è del tutto risibile. Qui occorre riprendere le fila del dibattito originario e delle questioni generali.
Partendo dal presupposto che l'urbanistica è materia "regolata da complessi reticoli normativi", la formazione del momento normativo, al quale è auspicabile che partecipino, oltre agli uffici competenti, anche i cittadini che ne hanno interesse, è cosa ben diversa dall'applicazione della norma. Il momento normativo, una volta definito, non può essere né contrattato né concertato, poiché deve valere erga omnes e garantire l'interesse pubblico.
Se poi, nell'ambito della norma generale, l'Amministrazione intende "concertare" con determinate categorie di privati alcuni caratteri specifici dell'applicazione della norma generale, a nostro avviso lo può fare purché sussistano due condizioni: la prima è che tale procedimento avvenga alla luce del sole, la seconda è che le regole complementari individuate valgano per tutti.
Appare pertanto del tutto giustificata l'ironia del Procuratore Quattrocchi quando dice di aver incontrato a Firenze una categoria a lui prima sconosciuta, quella della "urbanistica contrattata" intendendo con questo termine l'accordo, decisamente poco trasparente, che di volta in volta l'Amministrazione stabilisce con un solo soggetto interessato ad una determinata operazione immobiliare, forzando o contravvenendo le regole stabilite dalla normativa, proprio come sembra avvenuto nel caso dell'area di Castello.
A chi in Cgil dice che grazie alle battaglie sindacali si è raggiunto un buon compromesso sull'art. 18 e dunque tutti dovrebbero essere contenti, in molti in Fiom rispondono: «Gli scioperi li abbiamo fatti noi, ora vorremmo essere liberi di decidere se essere o non essere contenti». Il segretario generale dei metalmeccanici Cgil, per esempio, non è contento, anzi è piuttosto incazzato. Il giudizio di Maurizio Landini è molto negativo, sia sull'art. 18 – «di fatto cancellato» – che sugli ammortizzatori sociali. Per non parlare della precarietà «che con questo disegno di legge rischia addirittura di aggravarsi. Siamo il paese più precario d'Europa». Insomma, un disastro dentro una crisi globale a cui il liberismo perdente ma imperante sta rispondendo con ricette che invece di guarire l'ammalato lo ammazzano. Basti pensare che il Fondo monetario internazionale è preoccupato che nel 2050 la vita degli umani possa allungarsi di tre anni, ipotesi valutata «troppo rischiosa».
Landini, quanta quota di pil e quanti punti di spread vale la sterilizzazione dell'art. 18?
L'unica riduzione garantita da questa non-riforma, qualora venisse varata dal Parlamento senza radicali modifiche, sarebbe la riduzione dei diritti e la totale svalorizzazione del lavoro, ridotto a pura merce. Non aumenterà i posti di lavoro ma li diminuirà, non ridurrà la precarietà ma l'accrescerà e riduce la tutela degli ammortizzatori sociali. Un modo disastroso di rispondere alla crisi, così come disastrosa è stata la riforma delle pensioni. Siamo di fronte a un intervento sul mercato del lavoro in cui i sacrifici di chi lavora vengono presentati come necessari per sostenere i più deboli, i precari. Invece, non una delle 46 forme contrattuali presistenti è stata mandata in soffitta. Aggiungi che i contratti a termine vengono ulteriormente liberalizzati, grazie all'introduzione da parte del governo Monti del trattamento speciale riservato ai lavoratori «svantaggiati» affittati dalle agenzie interinali alle aziende con uno sconto del 20% sulle tabelle contrattuali.
Come valuti le modifiche degli ammortizzatori sociali?
Le giudico male, perché ancora una volta è negata la loro estensione universale. A fronte della cancellazione della mobilità si introduce l'Aspi, un sostegno ridotto nel valore e nella durata da cui sono esclusi i lavoratori intermittenti, tranne chi ha la fortuna di aver lavorato almeno 52 settimane in due anni. E si riduce la tutela oggi garantita dalla cassa integrazione, interamente cancellata nei casi di fallimento e chiusura.
Ma il problema dei problemi si chiama ancora art. 18.
La modifica che si vorrebbe attuare è grave e, per noi della Fiom, inaccettabile. Lo sbandierato recupero del «reintegro» non è che un miraggio, per noi deve restare un diritto: un licenziamento ingiusto non può essere semplicemente risarcito come avverrebbe nel 99% dei casi se il testo venisse varato così com'è dal parlamento. Si peggiorerebbe addirittura la condizione di chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti e la dichiarazione delle motivazioni economiche dei licenziamenti collettivi da parte dell'impresa non sarebbe più obbligatoria. Salterebbe persino l'indennità. Per tutte queste ragioni i metalmeccanici hanno scioperato e la Fiom è convinta che la lotta debba continuare. Serve un grande impegno per riunificare i soggetti colpiti dalla crisi: lavoratori dipendenti, precari, giovani, pensionati. Va in questa direzione l'appello che la Fiom ha lanciato ai delegati e alle delegate, ai giovani, ai precari, ai disoccupati e agli inoccupati per l'assemblea aperta che si è tenuta sabato prossimo a Bologna, a Palazzo Re Enzo in piazza Maggiore.
Peccato che la Cgil si muova su un'altra lunghezza d'onda.
Ne parleremo al direttivo confederale del 19, dove io ripeterò quel che sto dicendo a te. Sul mercato del lavoro e la precarietà i giudizi della Fiom e della Cgil collimano. Diversa è la posizione sull'art. 18. Ci batteremo per strappare modifiche sostanziali, come chiedono tutti i nostri operai che in questi giorni hanno scioperato e continuano a scioperare in difesa dello Statuto dei lavoratori. Aggiungo che il sindacato deve aprirsi al mondo della precarietà e della disoccupazione e il modo più efficace è la conquista, in discussione anche in Europa, di un reddito di cittadinanza per tutelare chi non lavora o si trova in un limbo occupazionale che potrebbe rapidamente trasformarsi in un inferno. Il senso dell'assemblea di sabato è la riunificazione dei diritti contro le fasulle divisioni tra presunti garantiti e non garantiti. Bisogna creare investimenti finalizzati a una ripresa dell'occupazione nella direzione di un diverso modello di sviluppo e di mobilità che siano socialmente ed economicamente compatibili.
In Europa non si discute solo di reddito di cittadinanza ma anche di come imbrigliare il diritto di sciopero. Sulla base della relazione fatta da Monti per Barroso (nota come Monti-2), Strasburgo potrebbe far arretrare di mezzo secolo quel che resta del modello sociale europeo.
Servirebbe una risposta sindacale europea all'altezza dello scontro, che al momento non si vede. Da noi è chiaro a tutti che Monti obbedisce in tutto e per tutto alla lettera della Bce con il taglio alle pensioni, al welfare e ai diritti. Sbaglia chi definisce tecnico questo governo che vuole ridurre il lavoro a merce. Al contrario, si dovrebbero tassare le rendite, introdurre la patrimoniale, investire su uno sviluppo e una mobilità basate sul buon lavoro e il rispetto ambientale.
La Fiat chiude l'unica fabbrica italiana di autobus e vola all'estero. Marchionne investe ovunque, persino in Argentina, tranne che in Italia.
La Fiat è in fuga. Importa in Italia dagli Stati uniti un modello di relazioni sindacali e sociali corporativo ed esporta ricerche, investimenti, stabilimenti e lavoro. E il «tecnico» Monti che fa? applaude al diritto delle imprese a fare quel che vogliono e a produrre dove conviene loro di più. Questo processo va avanti in un vuoto di democrazia, con gli operai che non possono più scegliersi i delegati né votare gli accordi e i contratti che riguardano la loro vita e il loro lavoro, mentre Marchionne chiude le porte di Pomigliano a chi ha la tessera Fiom e quelle di Melfi ai tre lavoratori di cui il giudice ha ordinato il reintegro. Per questo la mobilitazione deve continuare. La Cgil ha indetto un pacchetto di ore di sciopero e una mobilitazione a cui la Fiom parteciperà con i suoi contenuti, quei contenuti che sono stati votati all'unanimità dal Comitato centrale.
All'assemblea di Bologna hai annunciato nuove iniziative nei territori insieme ai precari, agli studenti, ai movimenti. Come pensate di articolare questo confronto?
La strada imboccata dal cosiddetto governo tecnico non solo non avvia un superamento della precarietà ma la istituzionalizza, a costo di rimettere in discussione leggi in vigore dal 1966 e lo stesso Statuto dei lavoratori. A Bologna abbiamo detto con chiarezza che si devono riunificare gli obiettivi e le battaglie finalizzate a garantire, e se mai dovesse passare questa «riforma» del mercato del lavoro a riconquistare, i diritti e le libertà sindacali e dei singoli. Intendiamo avviare un'offensiva in difesa della democrazia per restituire ai lavoratori il diritto di votare sugli accordi e sui contratti e di eleggere liberamente i propri rappresentanti. In ogni territorio porteremo avanti il confronto con tutti i soggetti sociali che vi agiscono, e con singole persone, precari o intellettuali che siano che sentono il bisogno di una vera riforma del mercato del lavoro. Poi abbiamo deciso una una giornata nazionale di mobilitazione per il 20 maggio che è l'anniversario dello Statuto dei lavoratori, nato appunto il 20 maggio del 1970. Sarà una giornata di lotta per i diritti e contro la precarietà.
Quali caratteristiche dovrebbe avere la riforma che ritenete necessaria?
Al primo posto c'è l'estensione dei diritti, delle tutele e degli ammortizzatori sociali a tutti, lavoratori regolari, a prescindere dalla dimensione della loro azienda, e precari. La retribuzione, l'orario di lavoro, la sicurezza devono essere le stesse per tutti quelli che svolgono la medesima mansione, che siano a tempo determinato, a termine, in affitto e via precarizzando. Il governo Monti non ha fatto una riforma ma soltanto dei tagli. L'unica cosa che avrebbero dovuto tagliare – le 46 forme contrattuali ereditate dai governi precedenti – è rimasta identica. Addirittura si vogliono facilitare i licenziamenti e consentire ai padroni di cavarsela con un contributo economico. Io continuo a pensare che se un giudice dichiara illegittimo un licenziamento, quella vittima di un'ingiustizia dev'essere rimessa al suo posto di lavoro e non risarcita con qualche mensilità. Infine la Fiom ritiene che anche in Italia, come in molti paesi europei, vada introdotto un reddito di cittadinanza. Sono obiettivi, questi, che meritano attenzione e un impegno straordinario da parte della Cgil. Io continuo a pensare che sarebbe giusto utilizzare le ore di mobilitazione annunciate dalla mia confederazione per promuovere uno sciopero generale nazionale. In ogni caso la Fiom non accetterà mai la cosiddetta riforma Monti-Fornero se dovesse passare in parlamento così com'è stata proposta dal governo. E siccome anche il governo tecnico avrà una sua fine, qualunque governo arriverà dopo Monti dovrà fare i conti con la determinazione della Fiom.
18 aprile 2012
L'ippica spolpata è pronta a essere raccolta dalle immobiliari italiane, a caccia di nuove terre da cementificare. L'unico progetto ufficiale presentato al governo per salvare uno sport in pre-default è quello che consentirà ai poteri forti di questo mondo, le tre grandi concessionarie di scommesse, di potare i rami secchi mandando a casa una parte consistente dei 67 mila lavoratori impegnati tra ippodromi e scuderie per passare, poi, a spartirsi i proventi dei casinò che entreranno negli ippodromi sopravvissuti. Il terzo passaggio del progetto è quello di liberare terreni metropolitani per la speculazione di domani: nuovi quartieri sugli impianti abbandonati, centri commerciali, aree per tifosi del calcio, luoghi per il fitness. L'operazioneè stata avviata lo scorso autunno dal conte Guido Melzi d'Eril, erede di nobile famiglia milanese. È riuscito a definire il "business plan" e, in parallelo, a orchestrare lo sciopero dell'ippica: 41 giorni di serrata in inverno, un suicidio pilotato.
Ma quanto vale l'ippica italiana? E chi se la sta comprando? Ancora lo scorso dicembre in Italia lo sport dei cavalli garantiva entrate per 240 milioni. Oggi un nuovo soggetto composto dai gestori di scommesse Snai-Sisal-Lottomatica e da Hippogroup, proprietari di cinque ippodromi guidati dal conte Melzi d'Eril, ha in mano l'assegno ridotto per l'acquisto del settore intero: 100 milioni. La nuova Lega ippica italiana, 5800 imprese ludiche alle spalle, ha chiesto un incontro con il viceministro dell'Economia, Vittorio Grilli, e la benedizione del ministro dell'Agricoltura, Mario Catania, in gioventù giudice di corsa a Roma Capannelle. Il piano industriale (e confindustriale) prevede che i 42 ippodromi esistenti diventino 15. Entro dodici mesi. Saranno i tre concessionari storici a gestire le declinanti scommesse ippiche, da rinvigorire grazie alla calamita delle slot machine installate nei circuiti sportivi. Da settembre 2012 lo stesso Moloch del gioco d'azzardo - sul territorio controlla videolotteries e poker online - sarà il promotore-tesoriere delle scommesse sui cavalli virtuali, approvate in tutti i rami politici.
La Lega ippica italiana, si legge nella "Proposta per il rilancio del settore", alla fine della trasformazione sarà proprietaria di dodici-tredici dei quindici ippodromi che continueranno a ospitare gare e rileverà, in un'orgia di concentrazione, i più delicati compiti tecnici da sempre assegnati all'Unire, ente pubblico cancellato. Per stilare i calendari e pagare i premi, organizzare privatamente l'antidoping e scegliere le giurie, i nuovi gestori saranno retribuiti. Per i primi tre anni dallo Stato, poi, assicurano, dal mercato.
L'associazione di imprese ha già chiesto 300 milioni pubblici a stagione, quando alla "vecchia ippica" quest'anno ne sono arrivati 39,7. E sta fissando le tariffe per i servizi offerti. L'Assogaloppo, imprenditori critici, ha scritto una lettera contro il progetto: «L'ippica morente ringrazia il ministro Catania e gli ippodromi d’élite sempre più collusi con i concessionari: hanno ridotto l’ippica e un intrattenimento per i casinò»
LA COLATA SU PISTE E SCUDERIE
Il progetto "taglia e privatizza" avvicina l'ippica alla deregulation della Formula Uno. Sei 42 ippodromi storici dell'horse racing diventeranno un terzo, e già tredici li avevamo persi negli ultimi dieci anni, i restanti 27 saranno liberati da ogni vincolo di concessione e con i loro ettari posizionati nelle aree migliori delle città si offriranno ai cambi di destinazione d'uso. Nel "plan" si parla apertamente di riconversione o rottamazione degli impianti. L'agenzia Snai, che controlla tre strutture più il prezioso San Siro, sta cercando un accordo con Milan e Inter per collegare lo stadio Meazza alle tribune del suo ippodromo dimezzato. I club di calcio sui 131 mila metri confinanti vogliono offrire negozi, ristoranti, poker online ai loro tifosi-clienti, le corse di trotto saranno trasferite a Torino. A Montecatini, impianto stagionale, è previsto un centro commerciale al posto dei parcheggi. L'ippodromo di Padova ha spostato le sue corse a Treviso mentre un gruppo di imprenditori nordestini, Newcom, ha offerto 18 milioni per l'acquisto di Ponte di Brenta e delle attività connesse: ristorante, hotel, piscina.
Vogliono far nascere un centro dell'intrattenimento ludico per l'intero Veneto. Ancora, lo sviluppo dell'ippodromo delle Bettole da parte della Società varesina incremento corse cavalli (la casa madre è ancora Hippogroup) passa per l'abbattimento delle scuderie e un intervento di edilizia residenziale.
Non sempre la fine di un impianto significa nuovo cemento. Firenze Mulina tornerà parco protetto, per l'ippodromo di Follonica c'è un piano di urbanistica sostenibile, l'area di Foggia è al centro di una riconversione ecologica.
A Roma Tor di Valle invece, quinta del celebre film "Febbre da cavallo", la famiglia Papalia e il palazzinaro Parnasi trasformeranno i 420 mila metri quadrati dedicati al trotto in un quartiere residenziale con centro commerciale iper. A Firenze Cascine, Varese e Montecatini gli spazi di sosta e allenamento dei cavalli sono stati cancellati. Sulle aree degli ippodromi italiani, ecco, è in corso una grande operazione di riassetto immobiliare. Sono appetite da molti, a partire dai fondi d'investimento - Clessidra, Axa, Permira, Bonomi - che nelle ultime stagioni hanno preso il controllo dei concessionari dei giochi. È cambiata la natura dei "gestori". Prima si dedicavano solo alle scommesse, ora sono pronti a investire i grandi flussi di contante che le scommesse garantiscono su nuovi canali: terreni e mattone.
Perché una disciplina storica è sull'orlo del crac? E per colpa di chi? L'ippica di Ribot e Varenne, da gran premio e da esportazione, ci ha messo vent'anni, gli ultimi, per autodistruggersi.
Il penultimo ministro, il Responsabile Francesco Saverio Romano, che a Palermo deve difendersi dall'accusa di aver protetto la latitanza di Bernardo Provenzano (è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione aggravata), nel tardo 2011 ha pilotato contro la vecchia ippica un taglio lineare tremontiano: 150 milioni, ossigeno puro. In contemporanea ha chiuso l'Unire (Incremento razze) e l'ha sostituito con l'Assi, Agenzia per lo sviluppo del settore ippico. Nove mesi dopo, non avendole dato statuto né regolamenti, l'agenzia è un'istituzione inerme.
GLI UOMINI DELL'EX MINISTRO
Con la sua opera demolitoria, Romano ha sottratto all'ippica anche il controllo delle giocate. «La devoluzione dei compiti connessi all'organizzazione delle scommesse», si legge nel decreto firmato, «va all'Aams». Tutto in mano ai Monopoli di Stato e alle sue concessionarie (Snai, Sisal, Lottomatica), che hanno contribuito alla crisi dello sport facendogli crescere intorno giochi più remunerativi. L'ex ministro, che possiede un'immobiliare di famiglia e ha quote in altre due, ha nominato un plotone di uomini fidati in punti cardine. Tre medici, un avvocato e un commercialista a UnireLab srl, il laboratorio antidoping. Quaranta legali, molti siciliani, tra la procura e le due commissioni disciplinari. Per chiudere, Romano ha messo alla guida dell'Assi Francesco Ruffo della Scaletta, altro sangue blu dell'ippica italiana. Il nuovo segretario generale ha organizzato la carriera di Varenne ed è stato manager di lungo corso della Snai, "il concessionario". Infatti, non ha lottato un minuto per mantenere le scommesse negli uffici pubblici. Per 39 giorni Ruffo è stato dirigente Snai attività ippiche e sub commissario Unire tenendo sullo stesso palmo la gestione privata delle puntate e il controllo pubblico del carrozzone.
Dal 2003 al maggio 2011 è stato nel Consiglio d'amministrazione della Hippogroup Roma Capannelle spa e presidente-amministratore-consulente della Trenno spa. Ecco, la Trenno è la società che gestisce per conto Snai l'ippodromo di San Siro, di cui abbiamo vistoi progetti calcistici. Hippogroup, invece, controlla cinque impianti pubblici e privati e sta spingendo l'ippica agonistica nell'era degli ippodromi allestiti come astronavi del gioco. Il nuovo segretario, sì, sembra realizzare il mandato dell'ex ministro Romano: smagrire l'ippica italiana e consegnarla ai privati più forti, gli amici Snai-Sisal.
Il lavoro grosso, d'altronde, l'aveva fatto l'amico Guido Melzi d'Eril, già commissario-presidente-segretario dell'Unire. Smessi gli abiti pubblici, oggi amministra il ramo torinese di Hippogroup. Controlla Capannelle, dove Ruffo è stato consigliere e dove in quota c'è Snai. Le carriere imprenditoriali di Ruffo e Melzi D'Eril si erano incrociate nella Lexorfin, cassaforte degli ippodromi Hippogroup. Insieme, ora, stanno sfilando l'ippica dalle mani di allevatori e driver per consegnarla deprezzata ai giganti del gioco. E campare di rendita con il suo simulacro.
Merito a parte, la proposta di revisione costituzionale che i maggiori partiti presentano assieme è l´emblema di una "nuova" centralità del Parlamento (a volte ritorna). E´ anche il più eloquente simbolo di una comune volontà di disincagliare la nave: il linguaggio dei segni conta moltissimo in politica. Conta però anche la realtà: questa volta fatta dei tempi tecnici che sono troppo stretti per concludere entro la fine della legislatura. Se però si è riusciti a tanto - a concepire insieme una riforma di norme costituzionali importanti - forse (forse) si può riuscire a fare alcune cose indispensabili per attuare e democratizzare la Costituzione, senza cambiarla e, quindi, in tempi possibili.
Nella nostra Costituzione la democrazia non è una cosa semplice e astratta. E´ cosa complessa e concreta. Una cosa che ha più forme. La democrazia rappresentativa ("ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione": art. 67). La democrazia dei partiti ("per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale": art. 49). La democrazia civica partecipativa (la "effettiva partecipazione" all´"organizzazione politica, economica e sociale del Paese: art. 3). La democrazia dell´azione giudiziaria ("tutti possono agire in giudizio": art. 24). La democrazia elettorale ("sono elettori tutti i cittadini": art. 48).
Non sono forme alternative o sussidiarie o opzionali. Sono forme tutte necessarie e connesse l´una all´altra. L´una spiega e giustifica l´altra. Se una manca, una sola, la Costituzione non è una costituzione democratica.
Ognuno vede che nella situazione attuale gli appelli al costume, all´etica, alla moralità, al cambiamento di vita rivolti ad un mondo politico in gravi difficoltà nel capire e nell´agire sono nobili parole al vento, prediche inutili. L´unica pressione sensata deve essere quella di indicare le vie praticabili per democratizzare la Costituzione, per attuarla. Con norme che ne recuperino il suo senso originario di legge fondativa fatta per i cittadini e ne impediscano il tradimento, contro i cittadini.
Questo stesso Parlamento che sta obbedendo a vincoli esterni, talora venati di fideismo e simbolismo, per salvare l´economia, può essere capace di trovare in questi ultimi suoi mesi di vita, lo scatto per obbedire a vincoli interni che già sono in Costituzione e che i fatti, e non solo le opinioni, dicono non più aggirabili. I tradimenti della Costituzione sono infatti sotto gli occhi di tutti, nella loro micidiale concatenazione antidemocratica. Così come sono ormai noti i rimedi che sono possibili subito. Per attuare la Costituzione, prima ancora di cambiarla in qualcosa.
Tradisce la Costituzione un funzionamento del Parlamento che non dà al governo procedure"pulite" per realizzare il suo programma, in tempi "europei". Ma che non dà neppure all´opposizione la possibilità di porre questioni di libertà davanti alla Corte Costituzionale (basterebbe cambiare i regolamenti parlamentari e una legge ordinaria del 1953, per fare queste cose).
Tradisce la Costituzione, l´andazzo di partiti operanti fuori dalla legge, senza rispetto per il comune metodo democratico interno e senza riscontro esterno sui soldi pubblici che ricevono (basterebbero poche norme ordinarie, anche più semplici di quelle già proposte, per il controllo dei giudici sulle regole di base e quello della Corte dei Conti sulla destinazione d´uso del danaro dei contribuenti).
Tradisce la Costituzione la mancanza di norme che vincolino il Parlamento a prendere sul serio le iniziative dei cittadini: non per un assurdo abbandono della democrazia rappresentativa ma per assicurarne l´ancoraggio continuo ai bisogni oggettivi della società (e basterebbe anche qui una modifica vincolante dei regolamenti parlamentari).
È tradimento dalla Costituzione - oltre che dell´economia - la abnorme durata dei processi civili e penali che annulla di fatto il diritto democratico alla giustizia. La responsabilità personale dei giudici dovrebbe essere fatta valere per questo eccesso di tempi e non (com´è perversa ipotesi) per le loro sentenze. E distoglie da questa vitale questione chi vorrebbe che i giudici non potessero colpire il malaffare del Potere mostrando subito le prove che hanno in mano: prima di essere sopraffatti dal volume di fuoco degli indagati potenti.
Tradisce la Costituzione una legge elettorale che consegna la scelta dei parlamentari non alla Nazione che devono rappresentare e che li deve eleggere ma al gruppo dirigente di partiti senza regole. Certo, ogni democrazia ha bisogno di un governo che possa governare e di un Parlamento che possa obbedire agli interessi nazionali, senza mandati personali "vincolanti" (se così non fosse, se vi fosse una frammentazione individualistica del rapporto Parlamento-corpo elettorale, quale mai maggioranza alle Camere potrebbe sostenere, per esempio, un governo come l´attuale?). Ogni democrazia ha bisogno di partiti politici che, nella babele di una società civile in preda alle emozioni e informazioni più contraddittorie, sappiano interpretare, fare emergere, guidare le correnti d´opinione che rispondono ad una visione generale di destino del Paese. E fondare su di esse, e non su vincoli padronali, la "disciplina" di gruppo in Parlamento (art. 54 Cost.). Ma è mai possibile che, per calcoli fondati sul nulla (la forma di governo dopo le elezioni del 2013 non è seriamente prevedibile e neppure coartabile) stenti tanto a nascere una legge che equilibri queste esigenze con quella di rendere visibili agli elettori, con le loro facce, tutti i candidati: da soli o in liste brevi nei collegi?
C´è, come si vede, un incrocio permanente, un bilanciamento fra quattro o cinque cose puntuali che sono necessarie e urgenti, come lo è stato l´aumento delle tasse. Ma che, in un certo preciso senso, lo compenserebbero: con la crescita del peso e dell´autostima dei cittadini, quelli che oggi minacciano di rifugiarsi nel rifiuto elettorale.
C´è tutto il tempo che occorre, se non si inventano falsi ostacoli "giuridici", per queste semplici cose essenziali, che non richiedono revisioni costituzionali. E per tirare un bilancio politico del governo "tecnico".
Forse, tra i tradimenti alla Costituzione della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, ci sono anche quelli che si vogliono operare con leggi eversive, quale quella che rende le fabbriche luoghi dai quali la democrazia è espulsa.
Il dibattito sulla questione del consumo di suolo aperto su queste pagine da Arturo Lanzani ha il grande merito di aver sottolineato le relazioni con le possibilità di salvare l’Italia. L’aumento del consumo di suolo va infatti di pari passo con l’aumento delle disfunzioni urbane. Abbiamo le città più disordinate d’Europa e ciò comporta diseconomie: non attraiamo investitori stranieri perché trovano migliori condizioni localizzative in altri paesi.
Dobbiamo chiederci i motivi di questa patologia, anche perché si continuano a leggere opinioni che sostengono che l’incontrollata espansione urbana sia avvenuta “in un territorio interamente pianificato e minuziosamente normato”. E’ la rigidità della pianificazione, dunque, ad aver provocato il diluvio di cemento. E’ vero il contrario: in questi ultimi due decenni in Italia sono state cancellate tutte le regole e attraverso le pratiche della contrattazione e dell’accordo di programma si superano norme urbanistiche e vincoli paesaggistici. Con i “piani casa” che tutte le Regioni hanno approvato si compiono importanti trasformazioni senza ostacoli.
La patologia italiana è che non esistono più regole. Si vive di deroghe ed è stato cancellato lo stesso concetto di governo pubblico del territorio. Si tocca qui un punto che Lanzani – dopo aver sottolineato le molteplici consonanze - colloca nella sfera delle differenze con la principale posizione espressa da Salzano, e cioè quella di avere “fiducia nella pianificazione come principale strumento per governare il territorio”. Credo invece che lo straordinario merito di Salzano sia stato di averci richiamato in questi anni al fatto che se veniva messo in discussione il ruolo delle amministrazioni pubbliche tutto sarebbe rovinosamente crollato. E questo, purtroppo, è puntualmente sotto i nostri occhi. Il Politecnico di Milano che ha svolto di recente una ricerca per conto dalla Cisl riguardo al mercato edilizio in alcune città lombarde. A Bergamo ci sono oggi 58 mila alloggi invenduti. Saranno 135 mila nel 2018 sulla base delle decisioni già prese. Brescia ne conta oggi 56 mila. Saranno 107 mila nel 2018. Nella prima città (130 mila abitanti) si potranno insediare oltre 270 mila abitanti. Nella seconda (210 mila abitanti), un identico numero. La cultura della deroga sta portando il territorio all’insostenibilità e sta minando alla radice la stessa nozione di città.
Di fronte ad una patologia di questo livello mi chiedo se i dieci punti proposti da Lanzani - ciascuno dei quali pienamente condivisibile e sottoscrivibile- abbiano la forza di risolvere la patologia. Essi sono infatti efficaci strumenti in condizioni di normalità, e cioè se ancora esistessero regole. Dobbiamo invece riportare legalità nel governo del territorio ed è necessaria una cura radicale. Al pari dell’anno di moratoria richiesto e ottenuto dalla proprietà fondiaria per procrastinare l’entrata in vigore della “legge ponte”, dobbiamo oggi chiedere la moratoria di tutte le nuove espansioni facendo eccezione soltanto per gli interventi sul brownfield e quelli sul patrimonio esistente. Una moratoria – non una cancellazione per buona pace degli adoratori dei diritti edificatori - che servirà per delineare il quadro esatto dello stato del territorio italiano fatto di infinite Bergamo e Brescia o di città del divertimento sparse in ogni luogo. Soltanto dopo questa fase potranno avere efficacia i dieci punti e si potrà perseguire la salvezza del paesaggio italiano. Prima che sia troppo tardi.
Molte cose sono cambiate dagli anni in cui la prima edizione della Scuola di eddyburg, rompendo il silenzio della cultura urbanistica ufficiale, aprì lo sguardo sull’immane consumo di suolo che stava divorando il territorio. La spinta all’edificazione di case e capannoni è stata interrotta dalla crisi, ma la massa gigantesca dell’invenduto provoca pressioni sulle amministrazioni pubbliche perché, in un modo o nell’altro, paghino con le risorse di tutti le incomplete speculazioni dei promotori immobiliari. Il territorio continua a esser visto dai fautori dello “sviluppo” come un luogo da “valorizzare” con l’attribuzione di “diritti edificatori” e “crediti edilizi”, da ipotecare quindi con le premesse urbanistiche della espansione della città (su cui soprattutto si sofferma Berdini). Contemporaneamente crescono le poderose forme di consumo di suolo costituite dalle infrastrutture dei trasporti e dell’energia (che generano forti reazioni da decine di comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva), e quelle più defilate dalla conversione della produzione agricola dall’alimentazione alla produzione di nuovi carburanti per la produzione di energia.
In questo quadro è necessario proporre una panoplia articolata di interventi di cntrasto. Ma in primo luogo occorre accrescere la consapevolezza del problema, delle sue numerose facce e della necessità dell’affermarsi di una forte ed estesa delle volntà politica di arrestarlo. Ciò che richiede in primo luogo – come ribadisce Berdini – un forte, autorevole, duraturo governo pubblico del territorio finalizzato alla difesa e alla promozione della vita, della salute e del benessere degli abitanti del pianeta.
Titolo originale: M&S launches 'shwopping' scheme – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
La principale catena di distribuzione di abbigliamento del paese lancia una campagna per evitare che un quarto dei capi acquistati nel Regno Unito finisca nel cassonetto. Marks & Spencer chiede alla clientela di riportare quanto già acquistato, usato o non troppo gradito, quando si compra qualcosa di nuovo, a sostegno di una nuova tendenza battezzata “shwopping”. Per dare avvio a una cultura del “compri uno, regali uno” che poi vedrà i vecchi capi rivenduti o comunque riutilizzati o riciclati dall’associazione Oxfam. Secondo il Ministero dell’Ambiente, I consumatori britannici buttano via due milioni di tonnellate l’anno di abbigliamento, la metà delle quali finisce direttamente in discarica.
Si tratta però di qualcosa che ha subito scatenato i timori dei piccoli operatori del volontariato e dei loro negozi, che potrebbero così perdere una fonte di approvvigionamento, oltre ai dubbi sui problemi logistici di un grande operatore che si trasforma in una specie di deposito di enormi quantità di abiti buttati via. Il programma si inserisce nella più vasta collaborazione fra M&S e Oxfam, che dura dall’inizio del 2008 e ha già visto oltre dieci milioni di capi regalati, per un valore che si calcola in circa dieci milioni di euro. Regalando vecchi capi Marks &Spencer ai negozi Oxfam si avevano in cambio buoni acquisto da 7 euro per la catena di abbigliamento. Stavolta, anche senza incentivi economici, la clientela dovrebbe essere invogliata a portare vecchi capi nei 342 punti vendita M&S del paese.
Non si tratta di una vera novità nel settore, perché la catena TK Maxx e Cancer Research UK per raccogliere tre milioni di euro da destinare alla ricerca per i bambini hanno già promosso la campagna “Rinuncia a un vestito”. Ma questa alleanza M&S e Oxfam link per la prima volta ha spinto i rappresentanti delle piccole associazioni che gestiscono negozi a chiedere ai donatori di non abbandonare gli esercizi minori. Cath Lee, responsabile di Small Charities Coalition, spiega: “Ottima cosa incoraggiare il riciclo in questo modo, però sarebbe una vergogna se la conseguenza collaterale fosse una diminuzione dei vestiti donati alle piccole associazioni. Ci sono enormi di vari fra i vari gruppi, e i più piccoli svolgono un ruolo essenziale, per cause locali e specifiche. Contribuiscono moltissimo nei quartieri. Chi gestisce gli esercizi volontari minori dipende in modo vitale dalle vendite di ciò che è regalato, e quindi è importante che si continui a farlo anche localmente”.
Una portavoce della Charity Retail Association aggiunge: “È confortante vedere un grande operatore partecipare a un programma concertato di riuso dell’abbigliamento attraverso le associazioni, vorremmo vederne anche altri del genere, che coinvolgono operatori minori. Ma il problema centrale è la scomparsa dei doni per i più piccoli … Una collaborazione del genere può essere una alternativa più comoda, che esclude le associazioni minori”. Marks & Spencer ha già proposto capi interamente prodotti in lana e cashmere riciclati da altri capi difettosi restituiti ai negozi. Oggi la raccolta verrebbe inviata a produttori specializzati che rinnovano la fibra pronto per una nuova confezione. Qualche settimana fa M&S ha dovuto ammettere una discutibile acquisizione da ditte messe in difficoltà dall’improvviso caldo di febbraio che aveva sconvolto il mercato di cappotti e maglioni.
postilla
Imbarazzante, ma in sostanza prevedibile, la cautissima reazione del volontariato di fronte a una iniziativa pressoché impossibile da contestare nel merito: ambientale, perché indirettamente tutela il territorio (le discariche, i luoghi di produzione e trasformazione delle materie prime), e promuove la consapevolezza diffusa; economica perché evita uno spreco e presumibilmente abbassa costi e prezzi. Così ci vuole abbastanza poco ad arrivare al nocciolo della questione: che ruolo resta al piccolo volontariato diffuso, quello che sinora ha avuto il monopolio di tutte queste buone intenzioni? Forse quello di cercarsene di nuove, verrebbe un po’ polemicamente da dire: si è entrati in una contraddizione del sistema, scoprendo un segmento di produzione/mercato ignorato da altri, e che ora invece diventa a quanto pare mainstream . Resta aperto invece l’aspetto territoriale più diretto, i luoghi dell’operatività, il rapporto con le comunità locali, i quartieri, le reti minori di produzione/consumo. Ma qui il discorso si accosta (e come potrebbe non farlo?) sia con il ruolo più in generale della distribuzione commerciale indipendente, sia con quello di regolamentazione delle amministrazioni, cittadine e non. Adeguatamente governate e promosse, in modo si spera condiviso e non ideologico, la funzione commerciale e la sua immagine collettiva possono essere la chiave di una nuova idea di città e territorio. (f.b.)
Città della Salute? Riflettiamo prima. L'articolo di Schiavi sulla «Città della Salute» ha avuto il pregio di rimettere al centro dell'attenzione l'opportunità o meno che «questo» progetto vada in porto. Occorre riflettere bene prima delle decisioni annunciate per i primi di maggio. Il precedente progetto di Città della Salute poggiava su di una triangolazione forte tra i due Irccs (Tumori e Besta) e l'Azienda ospedaliera Sacco, sede di alcune divisioni di eccellenza, oltre che polo universitario. Un progetto credibile, in cui le sinergie dei vari soggetti venivano amplificate, creando un autentico polo pubblico di ricerca e di insegnamento, una vera e propria perla di interesse nazionale all'interno del complesso sanitario della città di Milano.
Caduto tale progetto per ragioni varie (mancanza dei fondi per garantire l'intera opera; problemi di bonifica dell'area; carenza di infrastrutture), la Regione Lombardia ha optato per il solo trasferimento dei due Irccs, e su questa base si è innestata la ricerca della sede urbanisticamente più idonea, tra l'ex area Falck di Sesto e quella di Piazza d'Armi, a Milano.Ma il problema non è solo urbanistico. C'è da domandarsi se una simile fusione valga davvero la candela e risponda alle esigenze dei malati e degli operatori. Le consonanze tra Istituto Tumori e Neurologico sono del tutto marginali, e la loro fusione non otterrebbe reali miglioramenti degli assetti di base dei due presidi.
L'uno non risolverebbe i problemi dell'altro, e anche le prospettive di ricerca comuni riguardano campi solo marginali. È proprio la mancanza di un grande ospedale, con tutte le strutture di base e i supporti necessari, a rendere discutibile l'operazione. Va detto per inciso che Milano detiene già oggi un primato nella disponibilità di posti letto per acuti e una anomalia nel numero di presidi monospecialistici esistenti. Potendo spendere gli oltre 300 milioni di euro a disposizione della Regione Lombardia (sempre che si tratti di un dato reale e non di una pura messa in scena), questo «tesoretto» potrebbe essere investito in altri modi più vantaggiosi. Da un lato consentendo ai Tumori di stare dove sono (come a suo tempo chiesto dagli operatori e dagli utenti con una cospicua raccolta di firme), valorizzando le ristrutturazioni già fatte e completando quelle necessarie. Dall'altro provvedendo al trasferimento del Besta (in condizioni non più sostenibili) in contiguità con un Ospedale Generale in grado di accoglierlo e di offrire tutte le integrazioni cliniche e le sinergie opportune per la ricerca. Senza dimenticare infine le esigenze del Sacco, oggi sacrificato dall'attuale progetto di Città della Salute.
Una ipotesi di buon senso che consentirebbe di utilizzare al meglio le risorse disponibili, senza prestarsi a operazioni di pura facciata. Sarebbe anche il primo passo per riflettere sulla programmazione sanitaria della città di Milano: una città dove molte scelte sono parse più seguire criteri di occasionalità o di convenienza che non quelli di una seria pianificazione, con conseguenze negative nelle possibilità di assistenza delle persone fragili e dei pazienti subacuti, e più in generale nell'articolazione dei servizi socio-sanitari territoriali.
Alessandra KustermannGiuseppe Landonio Alberto Maspero, Amedeo Amadei, Bruno Ambrosi, Luigi Campolo Roberto Satolli, Mauro Venegoni
Non considero così irrilevante il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali francesi come lo giudicano Marco d'Eramo e Daniela Preziosi. Certo è l'opposto della marmellata parlamentare italiana, dove tutti, salvo la Lega, accettano Monti e Fornero dopo qualche flebile tentativo di divincolarsene. La Francia è invece divisa almeno in due, destra e sinistra, e fortemente radicalizzata da una parte e dall'altra. Ma mentre i socialisti di Hollande e il Front de gauche di Mélenchon vanno uniti al secondo turno, le destre di Sarkozy e di Marine Le Pen sono aspramente divise.
Il Front National, al livello più alto mai ottenuto in una presidenziale - la figlia ha superato il genitore -, mira ad assai più che a portare sangue a Sarkozy, nonostante la corte sfrenata che egli ha fatto al suo elettorato e accentua da due giorni, «a destra tutta». La bionda e virulenta Marine non nasconde che punta a spaccare il partito del presidente e diventare la sola forte destra, e non ha cessato di impallinare Sarkozy, che è l'Europa di Bruxelles e il gemello di Angela Merkel, cioè il nemico principale. Darà la consegna di voto il primo maggio, quando i suoi si riuniscono tradizionalmente sotto il monumento di Giovanna d'Arco ma sembra che lascerà libertà di voto con un accento sull'astensione. Fra due mesi ci sono le legislative e ad esse punta.
Anche per Sarkozy sarà più facile tentare di demolire Hollande sulla spesa pubblica e la sicurezza che giocare la carta del protezionismo, che di Marine Le Pen è l'asso di cuori, quella che le ha permesso di pescare il voto operaio nel diluvio di delocalizzazioni, anche sfondando le sue roccaforti tradizionali a nord e sud. Sarkozy ha già ricevuto un ammonimento da Bruxelles preoccupata dalla crescita delle destre estreme; neanche la Merkel è entusiasta, sono entrate in comprensibile fibrillazione le associazioni ebraiche. I Le Pen, padre e figlia, sono poco digeribili per quella abbondante metà del paese che ha ancora sullo stomaco il petainismo. Insomma la libertà di movimento di Sarkozy ha dei limiti. Intanto si è inventato per il primo maggio una «festa del vero lavoro» che si contrapporrà al corteo dei sindacati.
Hollande non ha certo il temperamento di un rivoluzionario, ma è tenace, si è preparato, ha scelto come Mitterand la force tranquille ed ha ribadito fino all'ultimo il punto che allarma i mercati: non accetta il «fiscal compact» e rimetterà in causa l'adesione del passato governo.
Una cosa gli è chiara, che su quella linea alla Francia, che ha un deficit molto superiore al nostro (più basso in relazione al Pil) non resterebbe un quattrino per la crescita, e crescita e tagliare le unghie alla finanza sono i suoi argomenti più forti.
Sui quali sarà incalzato da Mélenchon, che rappresenta la vera novità: dai minimi cui era arrivato il Pcf è salito in poche settimane di calorose manifestazioni, affollate di giovani e operai, al 16 per cento nei sondaggi. Ne ha realizzato soltanto 11 e rotti, ma è un risultato senza pari per una sinistra radicale, che ha con sé anche il Pcf senza avergli concesso nulla.
Benché i media abbiano fatto di tutto per appaiare in antieuropeismo Mélenchon e la figlia di Le Pen, essi non si somigliano in nulla se non nel rifiuto del rigore. Mélenchon non è protezionista, non è xenofobo, il 1 maggio sfilerà con i sindacati. È insomma riapparso il fantasma di una sinistra radicale non gruppuscolare, che non entrerà al governo ma appoggia la candidatura di Hollande e si conterà nelle elezioni legislative che seguiranno a giugno. La nuova Assemblée Nationale sarà non poco diversa dall'attuale.
In verità il duo franco-tedesco che ha diretto quest'anno l'Europa senza alcuna legittimità sta subendo un fiero colpo. Se passa Hollande, se si considera che anche Angela Merkel è già meno forte, dell'Italia non si occupa nessuno, e che la apparentemente inossidabile Olanda è entrata in questi giorni in apnea, l'ipotesi più verosimile è che si incrina in Europa il fronte dell'austerità.
Farebbero bene a pensarci Bersani e D'Alema, dopo lo scacco dell'incontro con il Ps e la Spd. Le carte europee possono essere ridistribuite, e se non lo fa Bersani lo farà qualcun altro.
Sta andando avanti l'asta di sette terreni edificabili delle isole Tremiti indetta dal Comune per ripianare il deficit dei conti. Nonostante la contrarietà della Regione Puglia, espressa a chiare lettere dall'assessore regionale all'assetto del territorio Angela Barbanente, dal Municipio tremitese hanno ribadito i termini della procedura. Entro oggi, alle 13, è prevista la consegna al protocollo delle istanze di partecipazione al pubblico incanto. L'ufficio resterà aperto nonostante il giorno festivo. L'asta vera e propria si terrà domani giovedì mentre la Commissione esaminatrice delle domande si riunirà sabato alle 9, in seduta pubblica, per l'apertura delle buste contenenti le offerte.
Il Comune spera di ricavare oltre quattro milioni di euro dalla vendita di 32mila metri quadrati (in più lotti) sull'isola maggiore, San Domino, e del lotto unico di 37mila mq sull'isola di San Nicola. I terreni in questione rientrano in un Piano di edilizia economica e popolare. La Regione è contraria e, per bloccare la procedura, è partita un'altra lettera destinata al Comune delle Tremiti, retto dal commissario straordinario Carmela Palumbo, che ha sostituito lo storico sindaco delle Tremiti Giuseppe Calabrese. Palumbo cerca di smontare la polemica: "Io sono un commissario prefettizio e finché ci sono applico la legge. La variante di cui parla l'assessore era stata discussa anni addietro e al mio arrivo l'ho trovata già approvata e definitiva. Nessuno intende fare speculazioni
sulle Tremiti e in quei lotti sorgeranno soltanto case popolari". Un'altra nota formale era stata inviata all'inizio di aprile a cui dal Municipio hanno risposto ribadendo che si tratta di una procedura corretta.
Dal Comune delle Tremiti, pertanto, non c'è alcuna marcia indietro perché la procedura è ritenuta "conforme" al Piano di edilizia sociale approvato dalla Regione. Tra l'altro qui a maggio si vota: sono quattro i candidati alla carica di sindaco e quello dell'asta non è il principale argomento di campagna elettorale visto che il turismo rimane il tema di punta, peraltro nell'anno in cui se n'è andato un "tremitese" adottivo doc, il cantautore Lucio Dalla, che aveva eletto le isole a suo "buen retiro" estivo e a cui in estate sarà dedicato un memorial. L'equilibrio su cui l'asta nasce è fragilissimo: sono in gioco le esigenze di cassa e di ripianamento del deficit pubblico e la tutela di isole affascinanti e perennemente minacciate da trivellazioni petrolifere o speculazioni edilizie. E ora molti temono che l'asta possa diventare il "cavallo di Troia" per una speculazione edilizia. Il Comune spera di ricavare quattro milioni di euro, forse anche qualcosa in più, in modo da rimettere in sesto le anemiche casse pubbliche. E non teme speculazioni perché si tratta di "housing sociale".
Le aree all'asta sono sulle isole principali di San Nicola e di San Domino anche perché le altre tre (Cretaccio, Caprara e Pianosa) sono disabitate ed inidonee. Per rintracciare l'avviso pubblico, è inutile consultare il sito internet del Comune che è disattivato, causa tagli alle spese. Su San Domino, l'isola maggiore dove vivono i circa 500 abitanti, la superficie complessiva del lotto edificabile è di mq 31.585 con vendita in porzioni di lotto dell'importo stimato in euro 370.536 ciascuno. Su San Nicola il lotto è unico, esteso mq 37.046 ed in vendita per intero ad euro 363.825, secondo la stima. L'asta, dunque, va avanti. Sta di fatto che ogni volta che un progetto riguarda le Tremiti, i vincoli vigenti ed il fascino delle isole sono una forte motivazione per dire "no". Non è molto lontana nel tempo l'intenzione di realizzare un ponte in legno, una "passeggiata turistica e commerciale", tra San Domino ed il Cretaccio.
Barbanente: “Ma è tutto surreale i terreni devono restare pubblici”
L'assessore all'Urbanistica della Regione Puglia, Angela Barbanente, non cede di un millimetro: "Quanto sta accadendo alle Tremiti, mi sembra tutto surreale". La Regione, insomma, s'è messa di traverso sul bando comunale che si chiude oggi alle 13 e mette all'asta tredici terreni edificabili, sette ettari parendo da una base di quattro milioni di euro. Angela Barbanente è determinata a impedire che nell'arcipelago che rientra anche nel territorio del parco nazionale del Gargano, si possano vendere aree pubbliche per fare cassa e rimettere ordine nei conti di un Comune commissariato e alla vigilia delle elezioni. Nelle ultime settimane c'è stata una fitta corrispondenza tra il commissario prefettizio Carmela Palumbo e gli uffici regionali. Ma non è servito a molto.
Cosa c'è di surreale, assessore Barbanente?
"Il fatto che le aree pubbliche che si mettono all'asta sono destinate a un piano di edilizia economica e popolare. Trovo surreale che per mettere quelle aree all'asta, le si debba vendere per fare cassa ma poi le si debba riacquistarle con un esproprio per realizzare quel piano di edilizia per costruire case per famiglie a basso reddito".
Cosa non la convince del bando?
"Non è chiaro come l'amministrazione comunale consideri compatibile la vendita delle aree con la disciplina di legge dell'edilizia economica e popolare, che al contrario prevede l'espropriazione dei suoli e la successiva concessione o vendita".
Il bando, però, spiega che il fabbisogno abitativo sarà comunque garantito.
"Ripeto: non è chiaro. La gara è aperta a soggetti indifferenziati, che non hanno i requisiti richiesti per l'edilizia residenziale pubblica, e che quindi, si presume, dovrebbero poi a loro volta cedere i suoli agli assegnatari degli alloggi. E dove sarebbe il contenimento dei costi? E come verrebbero determinati i prezzi popolari che sono alla base della "167" se l'asta, per sua natura, fa lievitare il costo dei suoli e quindi del prezzo di cessione successivo?".
Cosa hanno risposto dalle Isole Tremiti?
"Con risposte non esaustive sul rispetto delle finalità di quel piano che, ripeto, deve soddisfare i fabbisogni abitativi dei residenti. Anzi: intanto ci sono le autorizzazioni a costruire in quelle aree, proprio perché c'è un interesse generale che è quello di dare case a prezzi equi a famiglie a basso reddito. È bene chiarire che senza quell'interesse generale, con il pronunciamento favorevole anche del comitato urbanistico regionale, il piano di edilizia economica e popolare che autorizza le ruspe e le gru per costruire case sull'isola, non ci sarebbe stato".
Si può sempre fare una variante per rendere appetibile ciò che allo stato potrebbe non apparire conveniente?
"E chi le autorizzerà? Le Tremiti sono un'area protetta. Ci sono pareri paesaggistici da dare. Aggiudicarsi i terreni non basta".
Cosa propone di fare?
"Abbiamo invitato le Isole Tremiti a riesaminare l'attività amministrativa posta in essere e a valutare l'opportunità ad esercitare l'autotutela. Quei terreni devono restare pubblici perché l'interesse generale è di costruire case popolari".
Ma non è un interesse generale anche rimettere in ordine i conti del Comune visto che la legge consente questo tipo di alienazioni?
"Si possono usare altri cespiti. Si può agire sul mercato delle seconde case che alle Isole Tremiti è molto fiorente. Si può ritoccare la Tarsu. Le Isole Tremiti sono un comune turistico, tra i più apprezzati, anche fuori dai confini regionali, una potenzialità che in Puglia hanno pochi Comuni".
Le facoltà fondamentali del giudice del lavoro, di contemperamento dei poteri della parte più debole (il lavoratore) e di quella più forte (il datore di lavoro), fatte salve le ragioni di entrambi, vengono drasticamente limitate dal disegno di legge di riforma del lavoro, a partire da quelle che gli assegnava l´articolo 18. In tal modo i licenziamenti individuali e collettivi saranno resi ancora più facili. Sono questi gli esiti più negativi del ddl che il Parlamento dovrebbe cercare di attutire - sempre che non prevalga nella maggioranza la volontà di peggiorarli.
Prendere in esame le limitazioni delle facoltà del giudice a tutela del più debole apportate dal ddl è un efficace filo conduttore per non perdersi nelle 79 pagine di questo, per di più irte di dozzine di intricati rimandi a leggi preesistenti. A volte sembra che dette facoltà siano accresciute, ma a ben vedere quasi ovunque sono ridotte. Si prenda l´articolo 18, travestito in modo da apparire un parente della versione originale, ma in realtà radicalmente mutato. Il primo comma dei dieci che nel ddl sostituiscono i commi dal primo al sesto dell´articolo in questione attribuisce al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, in caso di licenziamento discriminatorio, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. Sulle prime questa parrebbe una novità meritoria, poiché da ogni parte si è sempre detto che l´articolo 18 si applica solo alle aziende con più di 15 dipendenti. E qualche voce del governo si è pure levata per far notare questa straordinaria innovazione a favore dei lavoratori. In verità si tratta di un dispositivo che ha più di vent´anni. La legge numero 108 del 1990 stabilisce infatti, all´articolo 3, che nel caso di licenziamento determinato da ragioni discriminatorie si applicano le conseguenze dell´articolo 18, cioè il reintegro nel posto di lavoro, quale che sia il numero dei dipendenti.
A una facoltà di vecchia data presentata come nuova si affianca, sempre nell´articolo 18 ristrutturato, la drastica riduzione della facoltà del giudice di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Nella precedente formulazione il giudice, a fronte di licenziamento intimato senza giustificato motivo, ordinava al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore. Il comma 7 del nuovo articolo stabilisce anzitutto che il giudice può, non deve, applicare la predetta disciplina. Stabilire che un giudice non già deve, ma - se crede - può applicare una certa disciplina, in questo caso il reintegro del lavoratore, significa palesemente indebolirlo. Se ha il dovere di prendere una certa decisione è difficile sottoporlo a pressioni perché non lo faccia. Mentre se la sua facoltà è solamente facoltativa - non è un gioco di parole - è possibile che prima venga sollecitato da ogni parte affinché la eserciti nel modo più favorevole all´una o all´altra parte, e poi sia oggetto di valutazioni negative quale che sia la decisione presa.
Tuttavia ciò che ancor più riduce la facoltà del giudice di decidere il reintegro è che esso può effettuarsi soltanto nell´ipotesi in cui egli accerti la "manifesta insussistenza" del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero per ragioni economiche. Che sono quelle inerenti all´attività produttiva, all´organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, come dice la legge 604 sui licenziamenti individuali del lontano 1966. Qui il giudice che volesse procedere in senso favorevole al lavoratore si trova dinanzi a due ostacoli monumentali. Il primo è costituito dalle infinite ragioni di ordine produttivo, organizzativo e funzionale che un datore di lavoro può addurre per sostenere che quel tale licenziamento è giustificato. Il secondo ostacolo è la giurisprudenza. Un flusso ininterrotto di essa, consistente soprattutto in sentenze della Cassazione, ha infatti stabilito che le ragioni economiche addotte per un licenziamento sono insindacabili, in forza dell´articolo 41 della Costituzione per il quale l´iniziativa economica privata è libera. Un giudice ha facoltà di andare contro di esse soltanto nel caso remoto in cui, ad esempio, scopra nella motivazione o nei documenti esibiti come prova dall´impresa un falso clamoroso. Pertanto sapeva bene quanto si diceva il presidente del Consiglio allorché ha assicurato le imprese, subito dopo la presentazione del ddl, che "la permanenza in esso della parola reintegro è riferita a fattispecie estreme e improbabili".
La facoltà del giudice del lavoro di andare a fondo allo scopo di stabilire se le ragioni del licenziamento sono valide è altresì indebolita dall´articolo 15 del ddl, con l´aggravante che in questo caso si tratta di licenziamenti collettivi. Esso aggiunge all´articolo 4 di una legge del 1991 in materia di integrazione salariale, la 223, un periodo apparentemente innocuo: "Gli eventuali vizi della comunicazione [per l´avvio di procedure di mobilità perché l´impresa non è in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi] possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell´ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo." Diversi giuslavoristi hanno già commentato negativamente tale aggiunta. In effetti i vizi di una simile comunicazione possono riguardare innumerevoli e rilevanti aspetti di essa: i tempi, i contenuti, i documenti allegati, i riferimenti a date, luoghi e persone, l´interpretazione di leggi vigenti ecc. Che detti vizi possano venire sanati in anticipo da un mero accordo sindacale, piuttosto che sottoposti all´esame di un giudice che a fronte di essi ha la facoltà di invalidare eventualmente il licenziamento stesso, dovrebbe apparire inaudito anche a un non giurista.
Qualsiasi legge si compendia, alla fine, nelle facoltà che essa assegna al giudice di valutare le ragioni delle parti in causa e di decidere quale di esse debba prevalere. Nel caso della legislazione sul lavoro, questa deve certo badare a che la libertà di iniziativa dell´impresa sia salvaguardata, ma deve pure circoscrivere il rischio che la parte più debole sul piano economico, il lavoratore, non si trovi collocato automaticamente nella posizione più debole anche sul piano giuridico, al caso quando si trova davanti a un giudice. È quello che ha fatto per più di quarant´anni la legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori. Il ddl di riforma del mercato del lavoro, salvo modifiche in Parlamento, azzera i dispositivi più progrediti di tale legge, e nel limitare le facoltà giudicanti del giudice appare palesemente squilibrata a favore della parte più forte, l´impresa.
Basta davvero un refolo francese per dire che «il vento è cambiato in Europa», come sostiene Pierluigi Bersani? Che solo di una lievissima brezza si tratti, non v'è dubbio alcuno: aggregando i voti per i vari candidati, una solida maggioranza di francesi (almeno il 54%) ha di nuovo votato a destra, mentre la sinistra arriva al massimo al 44%. Dal primo turno delle presidenziali emerge un solo dato certo: che tre transalpini su quattro (il 73,3%) non ne possono più di Nicolas Sarkozy. Ma la sinistra, e in particolare François Hollande, non hanno saputo capitalizzare il rigetto di Sarkozy. Se perciò il 7 maggio il candidato socialista entrerà all'Eliseo, lo dovrà all'astensionismo degli elettori che al primo turno si sono riversati sul Fronte Nazionale. Da qui a parlare di una rinascita degli ideali socialisti in Europa ce ne corre. Tanto più che Hollande non è un nuovo Mitterrand, non ha presentato nessun Programma comune delle sinistre, come nel 1981, non promette di nazionalizzare nessuna banca o industria, o di prolungare di una settimana le ferie pagate (tutti impegni elettorali che Mitterrand invece mantenne). Sì è sempre tenuto sul vago. E sul tema centrale della campagna, la politica europea, si è distinto barcamenandosi. Per restare agli anemometri, qui non è né un refolo, né una brezza, tutt'al più uno spiffero.
Et pourtant. È bastato questo quasi niente a spingere in giù le borse (al calo ha contribuito non poco il cedimento della fin qui tetragona Olanda). Questo poco deve essere micidiale se, pur dopo un primo turno da cui il presidente è uscito battuto, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha insistito ieri nel suo appoggio a Sarkozy, mossa destinata a creare un incidente diplomatico se Hollande verrà eletto.
Deve essere ormai asfissiante per tutti la cappa del monopolio conservatore sull'Europa (Cameron, Merkel, Monti, Rajoy, Sarkozy) se anche un Giulio Tremonti ha ammesso che avrebbe votato Hollande e se anche fonti vicine al premier conservatore spagnolo Mariano Rajoy lasciano trapelare che non vedrebbero di malocchio un cambio di guardia all'Eliseo. Il fatto è che la destra europea sta strangolando il continente intero e qualunque pur minimo allentamento del cappio è una salvezza anche per molti nella stessa destra. Ben venga quindi l'arietta francese, sapendo però che non fischia nessun vento (anche se la bufera infuria).