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Il fronte dei diritti si è appena rimesso in movimento. Obama ha affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali, e lo stesso ha fatto François Hollande inserendolo nel suo programma e mettendo all´ordine del giorno quello ancor più impegnativo del fine vita. Di questa rinnovata centralità dei diritti dobbiamo tenere conto anche in Italia.

In che modo, però, e con quali contenuti? Qualche esempio. La recente sentenza della Corte di Cassazione sui matrimoni gay è un dono dell´Europa. Così come lo è l´avvio dell´estensione alla Chiesa dell´obbligo di pagare l´imposta sugli immobili. Così come può diventarlo l´utilizzazione degli articoli 10 e 11 del Trattato di Lisbona.

Mi spiego. La Cassazione ha potuto legittimamente mettere in evidenza il venir meno della "rilevanza giuridica" della diversità di sesso nel matrimonio, e il conseguente diritto delle coppie dello stesso sesso ad una "vita familiare", proprio perché queste sono le indicazioni della Corte europea dei diritti dell´uomo e soprattutto dell´innovativo articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Sappiamo, poi, che la norma sul pagamento dell´Ici da parte della Chiesa è andata in porto solo perché erano ormai imminenti sanzioni da parte della Commissione europea. E la discussione sui rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, tornata con prepotenza in Italia anche per effetto degli ultimi risultati elettorali, trova nel Trattato chiarimenti importanti, a cominciare dal nuovo potere che almeno un milione di cittadini può esercitare chiedendo alla Commissione di intervenire in determinate materie. Lo ha appena fatto il Sindacato europeo dei servizi pubblici che si accinge a raccogliere le firme perché l´Unione europea metta a punto norme che riconoscano come diritto fondamentale quello di accesso all´acqua potabile.

Scopriamo così un´altra Europa, assai diversa dalla prepotente Europa economica e dall´evanescente Europa politica. È quella dei diritti, troppo spesso negletta e ricacciata nell´ombra. Un´Europa fastidiosa per chi vuole ridurre tutto alla dimensione del mercato e che, invece, dovrebbe essere valorizzata in questo momento di rigurgiti antieuropeisti, mostrando ai cittadini come proprio sul terreno dei diritti l´Unione europea offra loro un "valore aggiunto", dunque un volto assai diverso da quello, sgradito, che la identifica con la continua imposizione di sacrifici.

Questa è, o dovrebbe essere, una via obbligata. Dal 2010, infatti, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è quindi vincolante per gli Stati membri. Bisogna ricordare perché si volle questa Carta. Il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, lo disse chiaramente: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell´Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell´Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l´importanza capitale e la portata per i cittadini dell´Unione». Sono parole impegnative. All´integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l´integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata pienamente realizzata, al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell´Unione europea si sarebbe accompagnato addirittura un deficit di legittimità. Si avvertiva così che la costruzione europea non avrebbe potuto trovare né nuovo slancio, né compimento, né avrebbe potuto far nascere un suo "popolo" fino a quando l´Europa dei diritti non avesse colmato i molti vuoti aperti da quella dei mercati.

Negli ultimi tempi questo doppio deficit si è ulteriormente aggravato. L´approvazione del "fiscal compact", con la forte crescita dei poteri della Commissione europea e della Corte di Giustizia, rende ancor più evidente il ruolo marginale dell´unica istituzione europea democraticamente legittimata – il Parlamento. Oggi si levano molte voci per trasformare la crisi in opportunità, riprendendo il tema della costruzione europea attraverso una revisione del Trattato di Lisbona. In questa nuova agenda costituzionale europea dovrebbe avere il primo posto proprio il rafforzamento del Parlamento, proiettato così in una dimensione dove potrebbe finalmente esercitare una funzione di controllo degli altri poteri e un ruolo significativo anche per il riconoscimento e la garanzia dei diritti.

Non è vero, infatti, che l´orizzonte europeo sia solo quello del mercato e della concorrenza. Lo dimostra proprio la struttura della Carta dei diritti. Nel Preambolo si afferma che l´Unione "pone la persona al centro della sua azione". La Carta si apre affermando che "la dignità umana è inviolabile". I principi fondativi, che danno il titolo ai suoi capitoli, sono quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, considerati come "valori indivisibili". Lo sviluppo, al quale la Carta si riferisce, è solo quello "sostenibile", sì che da questo principio scaturisce un limite all´esercizio dello stesso diritto di proprietà. In particolare, la Carta, considerando "indivisibili" i diritti, rende illegittima ogni operazione riduttiva dei diritti sociali, che li subordini ad un esclusivo interesse superiore dell´economia. E oggi vale la pena di ricordare le norme dove si afferma che il lavoratore ha il diritto "alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato", "a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose", alla protezione "in caso di perdita del posto di lavoro". Più in generale, e con parole assai significative, si sottolinea la necessità di "garantire un´esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti". Un riferimento, questo, che apre la via all´istituzione di un reddito di cittadinanza, e ribadisce il legame stretto tra le diverse politiche e il pieno rispetto della dignità delle persone.

Tutte queste indicazioni sono "giuridicamente vincolanti", ma sembrano scomparse dalla discussione pubblica. Si apre così una questione che non è tanto giuridica, quanto politica al più alto grado. Il riduzionismo economico non sta solo mettendo l´Unione europea contro diritti fondamentali delle persone, ma contro se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro democratico, legittimato dall´adesione dei cittadini. Da qui dovrebbe muovere un nuovo cammino costituzionale. Se l´Europa deve essere "ridemocratizzata", come sostiene Jurgen Habermas, non basta un ulteriore trasferimento di sovranità finalizzato alla realizzazione di un governo economico comune, perché un´Unione europea dimezzata, svuotata di diritti, inevitabilmente assumerebbe la forma di una "democrazia senza popolo". Da qui dovrebbero ripartire la discussione pubblica, e una diversa elaborazione delle politiche europee.

Conosciamo le difficoltà. L´emergenza economica vuole chiudere ogni varco. Dalla Corte di Giustizia non sempre vengono segnali rassicuranti. Lo stesso Parlamento europeo ha mostrato inadeguatezze sul terreno dei diritti, come dimostrano le tardive e modeste reazioni alla deriva autoritaria dell´Ungheria. Ma l´esito delle elezioni francesi, e non solo, ci dice che un´altra stagione politica può aprirsi, nella quale proprio la lotta per i diritti torna ad essere fondamentale. Di essa oggi abbiamo massimamente bisogno, perché da qui passa l´azione dei cittadini, protagonisti indispensabili di un possibile tempo nuovo.

Il manifesto è in liquidazione coatta amministrativa da febbraio. La trattativa sul futuro del nostro-vostro giornale era in corso. La prossima settimana è previsto un incontro. Ieri i liquidatori hanno comunicato le loro intenzioni: chiudere il manifesto. Noi resistiamo e continuiamo a uscire. Oggi in edicola tutti i particolari.

Oggi in redazione abbiamo ricevuto un fax che non aspettavamo. Recita così: "Oggetto: Comunicazione cessazione attività aziendale e richiesta concessione trattamento straordinario di integrazione salariale". Ce lo inviano i nostri liquidatori: da febbraio siamo con i conti bloccati (per chi ha perso la storia, la trova qui).

Con i liquidatori abbiamo avviato una trattativa, e per la prossima settimana è stato fissato un incontro. Oggi il fax inatteso: "Si comunica che è stata decisa la cessazione della complessiva attività aziendale della cooperativa Il manifesto in Liquidazione Coatta Amministrativa". Solo un "passo" formale per avviare la trattativa al ministero? Forse, ma non ci rassicura il resto del fax, in cui si parla di una cassa integrazione di 12 mesi per tutti i lavoratori.

Domani sul giornale troverete tutti i particolari. Intanto chiediamo ancora il vostro sostegno, che in questi mesi è stato importantissimo, sia per i nostri conti che per la continuazione di questa esperienza politica. Cerchiamo di continuare a fare informazione in una situazione che è molto difficile per ciascuno di noi. Ci vediamo domani in edicola

Titolo originale: An Effort to Bury a Throwaway Culture One Repair at a Time - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

AMSTERDAM — Arrivano nell’ordine un disoccupato, un farmacista in pensione, un tappezziere, e prendono posto ai tavoli ricoperti di percalle rosso. A portata di mano cacciaviti e macchine da cucire. Non mancano caffè, tè e biscotti. Hilij Held, un’abitante del quartiere, trascina dentro una scatola a strisce su rotelle da cui estrae un ferro da stiro con l’aria vissuta. “Non funziona più” spiega. “Non esce il vapore”. La signorina Held ha scelto il posto giusto. Qui al primo Caffè delle Riparazioni di Amsterdam, una iniziativa partita dall’ingresso di un teatro, poi in una stanza di un ex albergo presa in affitto, e ora in un centro di quartiere due volte al mese, la gente può portare qualunque cosa per farsela sistemare gratis, da volontari che lo fanno per il gusto di aggiustare.

Pensato per aiutare chi vuole ridurre ciò che buttiamo, il Caffè della Riparazione ha funzionato bene da subito all'inizio un paio d’anni fa. La Repair Cafe Foundation ha ottenuto circa mezzo milione di euro dal governo olandese, oltre che da associazioni e offerte minori, che servono per il personale minimo, la promozione, e anche un Pulmino della Riparazione. Ci sono trenta gruppi diversi che hanno avviato dei Caffè della Riparazione in tutta l’Olanda, in cui i vicini uniscono competenze e disponibilità per offrire qualche ora al mese a ricucire strappi nella stoffa o ridar vita a qualche caffettiera, lampada, aspirapolvere o tostapane, praticamente qualunque apparecchiatura elettrica dalle lavatrici agli spremiagrumi.

“In Europa si buttano via tante cose” racconta Martine Postma, ex giornalista che ha ideato il concetto dopo la nascita del secondo figlio e qualche riflessione in più sull’ambiente. “È una vergogna, visto che si tratta di cose del tutto riutilizzabili. Al mondo c’è sempre più gente, e noi non possiamo continuare così. Volevo fare qualcosa di concreto, non solo scrivere”. E però la tormentava la domanda: “È possibile farlo come persona normale, nella vita quotidiana?” Ispirata da una mostra sui vantaggi culturali ed economici di riparazione e riciclaggio, ha deciso che per evitare sprechi inutili si potevano aiutare praticamente le persone a sistemare le cose. “Quando si parla di sostenibilità spesso ci si limita a prospettare degli ideali. Si fanno magari una serie di laboratori su come coltivarsi da soli i funghi, e la gente si stufa. Questo invece è un modo di impegnarsi molto immediato e concreto. Si fa qualcosa insieme, qui e ora”.

L’Olanda già contiene lo smaltimento in discarica a meno del 3% dei rifiuti urbani, ma si può fare anche di meglio secondo Joop Atsma, ministro delle infrastrutture e dell’ambiente. “Il Caffè della riparazione è un modo molto efficace di aumentare la consapevolezza del fatto che ci sono tante cose che buttiamo e invece funzionano benissimo” ha scritto Atsma in una e-mail. “La ritengo una ottima idea” aggiunge Han van Kasteren, professore all’Istituto di Tecnologia di Eindhoven specializzato nel settore rifiuti. “C’è anche un importante aspetto sociale. Quando si lavora insieme per l’ambiente si fa crescere la consapevolezza. Sistemare un aspirapolvere fa bene”. Di sicuro l’ha fatto alla signora che un giorno ha portato il suo aspirapolvere che aveva quarant’anni, comprato da sposina, qui al Caffè della Riparazione. “Sono contenta, tanto contenta” commenta mentre John Zuidema, 70 anni, sta eliminando il condotto spezzato. “Mio marito non c’è più, e restano in giro tutte queste cosec he un tempo lui riparava”.

Per qualcuno gli aspetti sociali vangono almeno tanto quanto quelli ambientali. “La cosa interessante è che si creano degli spazi di incontro, per chi magari abitava vicino da estraneo” commenta Nina Tellegen, direttrice della Fondazione DOEN che ha garantito dal progetto un finanziamento da più di 200.000 euro nel quadro dei programmi di “coesione sociale” iniziati dopo l’omicidio politico di Pim Fortuyn, nel 2002, e quello del regista Theo van Gogh, nel 2004. “Il fatto che si leghi anche alla sostenibilità lo rende ancora più interessante”. La Tellegen è convinta che serva soprattutto agli anziani. “Hanno delle conoscenze che stanno sparendo. Una volta si facevano tanti lavori manuali, mentre oggi c’è questa società dei servizi.”

Evelien H. Tonkens, professore di sociologia all’Università di Amsterdam, concorda. “È proprio un segno dei tempi”. Secondo Tonkens, il Caffè della Riparazione è anticonsumista, anti-mercato, propone un’etica del fai da te e si inserisce in una cultura in crescita nel paese, per migliorare la vita quotidiana a partire dal basso e dalla partecipazione. “Sicuramente non funziona come un’impresa” aggiunge la Postma. Ci si rivolge a chi considera costoso far riparare le proprie cose, non deve far concorrenza agli esercizi del genere che già esistono.La Repair Cafe Foundation dà informazioni per iniziare l’attività, gli strumenti necessari, dritte per i finanziamenti, la promozione. Sono arrivate richieste anche da Francia, Belgio, Germania, Polonia, Ucraina, Sud Africa e Australia.

Tijn Noordenbos, sessantaduenne artista di Delft, ha fondato un Caffè della Riparazione quattro mesi fa. “Mi piace aggiustare le cose” spiega, ricordando come i negozi del genere che c’erano un tempo siano tutti spariti. “Oggi se si rompe qualcosa e si prova a riportarlo al negozio, ti rispondono che va rispedito al fabbricante e costa cento euro solo il controllo, meglio comprarne uno nuovo”. L’architetto William McDonough continua “L’obsolescenza pianificata ha raggiunto un livello di pazzia, si deve buttar via tutto senza neppure pensarci”. Lui propone una filosofia progettuale “dalla culla alla culla” dove gli oggetti si possono anche smontare e riutilizzare per parti (o materie prime, non si deve per forza riparare ad nauseam), ed è servita a ispirare l’idea della signora Postma. “Col Caffè della Riparazione la gente capisce di avere un rapporto con quei materiali” conclude McDonough.

Come ad esempio la minigonna H&M di Sigrid Deters strappata. “Costa 5-10 euro” e lei è troppo goffa per provarci da sola a ricucirla. “Adesso non vale nulla, si potrebbe buttarla e comprarne una nuova. Ma se la riparano posso indossarla di nuovo”. Marjanne van der Rhee, volontaria in uno dei Caffè per far promozione e distribuire bevande calde, racconta: “Arriva tanta gente diversa. In qualche caso si può pensare che vengano perché sono davvero poveri. Altri hanno un aspetto più agiato, ma si preoccupano per l’ambiente. Altri ancora sembrano solo un po’ matti”.

Theo van den Akker, che normalmente fa il contabile, adesso deve occuparsi del ferro a vapore senza più vapore. Avvolto nella sua T-shirt con scritto “Mr. Repair Café”, van den Akker apre l’involucro di plastica, mettendo a nudo un intrico di fili elettrici colorati. Intanto la signora Held chiacchiera con la van der Rhee dei veli tradizionali del Suriname che lei, nata laggiù, vende. Una volta che van den Akker ha finito col ferro a vapore, avanzano due pezzi: magari non erano così importanti. Infila la spina, si accende una luce verde, gorgoglia dell’acqua rugginosa e finalmente inizia ad uscire il vapore.

Non ci sono scuse: se proprio non potete farne a meno, provate se non altro a variare la ricetta, ci sono parecchi metodi di solito. La cosa da evitare assolutamente, è proprio quell’inevitabile corollario della vita, l’ingresso nell’abitacolo dell’auto la mattina, il percorso sul vialetto o la rampa o dal parcheggio, poi gli incroci, magari la superstrada, e poi la piazzola o il posto riservato all’altra estremità, una mezzoretta più tardi. Chi non lo evita dovrebbe iniziare presto ad avvertire i primi sintomi, inequivocabili. Quel leggero tirare dei jeans (sarà il caldo?), il fiato un po’ pesante dopo quattro gradini (è di sicuro il caldo!), il medico che vi ha trovato la pressione piuttosto alta, spiegandovi che il caldo non c’entra nulla, visto che è gennaio. C’è solo un caso in cui questo genere di pendolarismo trova una adeguata compensazione, ovvero quello improbabile in cui appena scesi dalla macchina si inizi una bella attività fisica, perché di mestiere si fa il collaudatore di biciclette, l’istruttore di nuoto, il cacciatore di orsi a mani nude. Di solito però la gente appena scesa dall’auto si infila in un ascensore, e poi dentro una poltroncina. Lì iniziano ad accumularsi i guai.

Spesso si parla di vita sedentaria, di mancato esercizio fisico, consumo di calorie, pensando alla figura della classica patata da divano, televisore acceso e spuntino a portata di mano. E ognuno cerca di non identificarcisi proprio, in quell’immagine. Il gruppo di ricerca scientifica interuniversitario che ha lavorato a questo progetto parte però da un presupposto parallelo, e si pone preliminarmente una domanda del tutto lecita: per qualificare uno stile di vita come sedentario sono proprio indispensabili le ciabatte, la merendina scartocciata, i telefilm o le partite a ciclo continuo? La risposta può darla chiunque, ed è certamente NO. Sedentario significa letteralmente stare seduti, e non c’è nulla al mondo di più seduto della postura da guidatore d’automobile. Magari certa retorica delle avanguardie storiche sui bolidi sfreccianti ci può ancora prendere in giro dopo un secolo e passa, ma che piaccia o meno non c’è tanta differenza fra il “muoversi” stando dentro un abitacolo, e lo stare stravaccati sul divano. I ricercatori quindi hanno provato a verificare sistematicamente una tesi: esiste un rapporto diretto fra il tempo trascorso al volante per andare al lavoro, e la massa corporea, la pressione arteriosa, insomma tutti i rovesci della medaglia sedentaria?

La risposta è, desolantemente, SI. Il campione seguito è di oltre quattromila persone, di ogni fascia di età, secondo spostamenti casa-lavoro precisamente verificabili (non tramite interviste, insomma), Si è tenuto conto nella valutazione anche di alcune co-variabili in grado di influenzare lo stato di salute complessiva dei partecipanti all’esperimento: fumo, consumo di alcol, patologie di tipo ereditario ecc. Al netto, però, emerge e si conferma un rapporto diretto fra quei jeans che iniziano a tirare in vita e la quantità di ore passate al volante, a “muoversi” da una piazzola di sosta all’altra. In conclusione, per citare le parole esatte del gruppo di ricerca, lo studio “fornisce nuove informazioni sulle dinamiche che conducono a un incremento di rischio per l’obesità, l’ipertensione, un generale peggiore stato di salute, così come osservato fra adulti che risiedono in contesti urbani dispersi”. Che fare? Magari aiuta cercarsi casa in contesti urbani un po’ meno dispersi, ma se non potete permettervelo (peccato, si conosce un sacco di gente nuova) provate almeno a fare due conti: come posso controbilanciare qualche ora al giorno seduto immobile in macchina? Ognuno se la trovi ovviamente da sé, la risposta. La ricerca, pubblicata sul numero di giugno dell’American Journal of Preventive Medicine, potete scaricarla direttamente da qui.

La saracinesca, come chiamavano a Bari l’ecomostro di Punta Perotti, non tornerà a sequestrare il panorama più bello del lungomare. Al posto del mostro adesso c’è un grande prato, simbolo della legalità ripristinata, inaugurato nel 2007 con don Ciotti. Il prato in riva al mare è frequentato da migliaia di persone, che possono continuare a correre, come fanno d’abitudine, dopo aver infilato le scarpe da jogging. Nessuna sentenza glie lo toglierà.

La decisione della Corte europea dei diritti umani che dà ragione ai proprietari e impone allo Stato italiano un risarcimento di 49 milioni non è così terribile come appare in un primo momento. Il gruppo Matarrese e gli altri avevano chiesto risarcimenti per 353 milioni e l’incubo dei baresi era di pagare di “tasca propria”, cioè dalle casse comunali, l’abbattimento di quello che era e resta un gigantesco abuso edificato in dispregio della legge che stabilisce che non si può costruire a meno di 300 metri dal mare [quindi sulla base di un atto abilitativo illeggittimo, poiché in contrasto con la legge Galasso e il codice del paesaggio - ndr].

La sentenza scrive, dopo 17 anni, la parola “fine” a una vicenda che è iniziata nel 1995, quando aprì il cantiere per la costruzione di tre edifici, realizzati dalle imprese Sud Fondi, del Gruppo Matarrese, Mabar, del gruppo Andidero e Iema di Antonio Quistelli. E, ieri, le dichiarazioni del sindaco di Bari Michele Emiliano trasudavano soddisfazione: «Il comune di Bari non deve nulla, ha agito per obbligo di legge. La sentenza ha origine in una legge sbagliata dello Stato». Il sindaco si dice pronto ad incontrare subito i proprietari delle aree per trovare un’intesa perequativa.

IL PASTICCIO ITALIANO

Il pasticcio che ha dato origine ad una lunga serie di ricorsi e di opposizioni ha origine nel testo unico per l’edilizia (la legge 380 del 2001 che modifica la legge 47 del 1985) dove si dispone «la confisca dei terreni abusivamente lottizzati» anche quando non vi sia una condanna penale. È accaduto che pur essendo acclarato che l’ecomostro era un abuso, il Gup Mitola, nel febbraio del 1999, assolve i costruttori per “errore scusabile” ma ordina la confisca degli immobili e trasferisce il patrimonio al comune. Sul piano formale, infatti, le tre società avevano tutte le carte in regola, concessioni edilizie e autorizzazioni di Comune e Regione risalenti agli anni Ottanta. Peccato che quei permessi non potevano essere validi, poiché violavano le norme urbanistiche nazionali.
 In quel cruciale 2001, in cui una sentenza della Cassazione ribadisce confisca e l’abbattimento, anche se gli otto imputati sono assolti in corte d’appello, ricorda l’avvocato Gianfranco Grandaliano dell’avvocatura comunale, c’è anche il fatto che «il governo Berlusconi appena insediato, in un articolo della Finanziaria, avverte che se non sarà il comune dovrà essere la Regione amuoversi».

Michele Emiliano, eletto nel 2004, diede corso, quindi, ad obblighi di legge. Prima dello show down ci fu un ultimo tentativo di fermare le ruspe: la Salvatore Matarrese acquistò dalla banca il credito alla società costruttrice garantito da ipoteca e tentò il pignoramento degli immobili ormai diventati proprietà del comune.

L’ecomostro fu abbattuto, con grande festa popolare e diretta Tv, nell’aprile del 2006.

Dunque la sentenza della Corte di Strasburgo, spiega l’avvocato, «sconfessa un’ipotesi di rasarcimento multimilionaria» e riconosce, invece, «l’incidente di esecuzione». Incidente felice e il comune di Bari, che in un primo tempo si era opposto, aveva poi offerto la restituzione dei terreni ai proprietari. Ma il bene, risposero Matarrese e gli altri, è «completamente trasformato», in altre parole come si fa a togliere alla città un immenso e amatissimo parco? Rifiutarono. Anche forse sperando di avere il massimo dal risarcimento.

Ieri anche le imprese hanno espresso soddisfazione. La Corte Europea hanno dichiarato Sud Fondi (gruppo Matarrese) e Mabar (gruppo Andidero) ha accolto e condiviso tutte le tesi e i principi su cui erano fondate le richieste di risarcimento; risarcimento quantificato in una misura inferiore alle richieste in considerazione della restituzione della proprietà dei suoli, della loro destinazione edificatoria e del notevole valore ad essi attribuito anche dallo Stato italiano». Le imprese fanno sapere di essere pronte ad «avviare al più presto un confronto con l'amministrazione comunale per arrivare ad una soluzione condivisa». Una soluzione, dicono, «che consenta, da un lato la conservazione di un parco nell' area di Punta Perotti e, dall' altro, l'utilizzo da parte dei legittimi proprietari delle aree tuttora edificabili e ricomprese nei due piani di lottizzazione approvati dal Comune di Bari e mai annullati». Il tutto, conclude la nota, «nel rispetto del Piano regolatore generale della città e delle norme oggi vigenti a tutela del paesaggio». Parole dolci come il miele per il sindaco Emiliano che dà la sua piena disponibilità: «Adesso potrò incontrare i proprietari delle aree per definire con loro il destino del parco e le modalità con le quali garantire i loro diritti edificatori».

Digitando “punta perrotti” nella finestrina in alto e cliccando sul ottone “cerca” potete raggiugere gli altri articoli su eddyburg a proposito della vicenda

la Repubblica

Il sostegno di Dario Fo "Macao mi ricorda la Palazzina Liberty"

di Nadia Ferrigo

Il popolo di Macao ha accolto un ospite d’eccezione: il premio Nobel Dario Fo. Davanti a una platea di 200 persone - artisti, curiosi, studenti - l’attore ha mostrato tutto il suo entusiasmo per il progetto e ha promesso che se ne farà garante anche con il sindaco Giuliano Pisapia: «Non mi aspettavo ci fossero così tante persone consapevoli di fare qualche cosa di straordinario. Ne ho parlato con l’assessore alla cultura Boeri, che era perplesso, come lo si può essere di fronte a un evento così inaspettato». E così dicendo Fo ha toccato un punto che crea un certo imbarazzo alla giunta: l’occupazione illegale di uno spazio, l’atteggiamento da tenere sul caso Torre Galfa, «l’appoggio politico» che gli occupanti chiedono al Comune: «Questa amministrazione non può stare zitta».

L’assessore alle Politiche sociali Majorino ieri diceva: «Lo scandalo non è l’occupazione, ma che in città ci siano tanti spazi inutilizzati». E con lui si dicevano d’accordo Antonello Patta, portavoce della Federazione della Sinistra e i consiglieri di Sel: «L’esperienza di Macao rappresenta una modalità di ricerca e di cultura che deve essere vista con interesse». La replica del centrodestra: «Mi chiedo con quale faccia assessori che non mettono a disposizione spazi vuoti del Comune possano giustificare l’occupazione di proprietà private - commentava Fabrizio De Pasquale del Pdl -La sinistra vuole tenere assieme il rispetto della legge e le occupazioni illegali di immobili, cose che non possono convivere».

Incurante di questi bisticci, l’assemblea aperta nel cortile della Torre è proseguita, tra microfoni malfunzionanti e gli interventi di Dario Fo: «Sono meravigliato, non pensavo che avrei visto qualche cosa di simile a quello che è successo 45 anni fa». Il riferimento è alla Palazzina Liberty, occupata negli anni ‘70 con la moglie Franca Rame, un’esperienza andata avanti per una decina di anni con gli spettacoli del "Collettivo teatrale la Comune". Le analogie sono molte: un luogo abbandonato e inutilizzato, un gruppo di giovani artisti che ha voglia di esprimersi ma non trova spazio, e alla fine se lo prende.

Il tema più sentito dagli occupanti è la possibilità di uno sgombero, tanto che c’è un tavolo di lavoro dedicato al tema "che fare se ci cacciano tutti?". Dario Fo prende di nuovo la parola: «La paura dello sgombero è la stessa che sentivamo quando abbiamo occupato la Palazzina Liberty, e veniva da destra e da sinistra, perché abbiamo rubato lo spazio delle assemblee, dando voce a chi non aveva mai parlato. Bisogna riuscire a coinvolgere tutti, solo così sarete forti. Vi faccio un applauso, vorrei duecento mani per applaudire come si deve». Prima di lasciare l’assemblea, l’ultima raccomandazione: «Fatevi un programma: bisogna avere le idee chiare, altrimenti siamo perduti».

la Repubblica

Il grattacielo arrugginito monumento allo spreco

di Ivan Berni

L’occupazione della torre Galfa da parte di un gruppo di giovani artisti e teatranti è, insieme, qualcosa di temerario e di fortemente simbolico. Detto che occupare un edificio di privati - ancorché di Ligresti - è un atto illegale che non va in nessun modo avallato, il fatto che nel mirino sia finito un grattacielo "storico" della città, desolatamente vuoto da circa quindici anni, in pieno centro e per giunta a ridosso della nuova "Manhattan" di Porta Nuova, assume una rilevanza tutta particolare. È come se qualcuno si fosse preso la briga di gridare che il re è nudo, e che quello spettacolo di abbandono e di impotenza non è più tollerabile. Il gruppo di occupanti reclama nuovi spazi per la cultura, per la musica, per le arti visive, per il design. Cultura autoprodotta, senza il bollino delle istituzioni. Può darsi che un grattacielo lasciato ad arrugginire non sia il luogo ideale per una simile ambizione. Che ci siano problemi di sicurezza insormontabili e che la struttura stessa del palazzo rappresenti un ostacolo impossibile da superare. Però la suggestione è davvero molto forte: a memoria non risulta che in Europa un grattacielo sia mai stato oggetto di un’occupazione abusiva.

Suggestione potente: soprattutto considerando che la vecchia Torre Galfa rappresenta la metafora dell’immobiliarismo speculativo, della logica distorta del mercato, di un’urbanistica che negli anni ha smarrito completamente il suo ruolo di guida alla destinazione della città. Torre Galfa è stata abbandonata perché così com’è non è affittabile: i lavori di manutenzione e ripristino costerebbero troppo, rispetto a quanto potrebbe rendere d’affitto come building direzionale. Inoltre è un grattacielo troppo alto e troppo snello per venire svuotato e "trasformato", com’è invece accaduto alle due torri ex Ferrovie dello Stato davanti alla stazione Garibaldi. Molto improbabile anche l’ipotesi dell’abbattimento, a meno di sostenere costi giganteschi e mettere in piedi un’operazione potenzialmente ad alto rischio, data l’altezza notevole (109 metri) e la stretta vicinanza con altri palazzi per uffici.

Si consideri, inoltre, che si tratta di un edificio che ha più di cinquant’anni, di indubbio valore storico, e che il design del progettista Melchiorre Bega ha i suoi estimatori. Ligresti lo ha comprato per 48 milioni nel 2006, quando già da anni era disabitato e in condizioni precarie. Probabilmente il costruttore sperava che lo sviluppo del progetto Porta Nuova avrebbe portato a una valorizzazione dell’immobile. Sperava che quel vecchio e inabitato grattacielo anni Cinquanta si rivelasse un affare. Una preziosa pedina di scambio nel complesso risico di cessioni e acquisizioni che ha segnato la sua escalation di re delle aree, e del mattone, a Milano.

Le cose sono andate in tutt’altro verso. Ligresti sta per uscire di scena coperto di debiti. Il gioco degli uffici sfitti e dei valori immobiliari messi a patrimonio come scatole vuote non regge più. La crisi e una lunga serie di affari sbagliati hanno messo in ginocchio l’ex re delle aree. Quella vecchia torre arrugginita occupata da un gruppo di squatter creativi è lì per dire, a tutti, che la stagione di quell’urbanistica deve finire. E che quei monumenti allo spreco sono intollerabili. Chi occupa abusivamente ha torto. Ma chi costruisce o compra grattacieli per lasciarli vuoti non ha alcuna ragione.

Corriere della Sera

Fo alla Torre Galfa occupata «Io garante contro lo sgombero»

di Annachiara Sacchi

La luce si riflette sul palazzone della Torre Galfa occupata, gli artisti che per tutto il giorno hanno zappato, pulito i locali, organizzato esibizioni e concerti si fermano ad ascoltare Dario Fo. Il premio Nobel è arrivato all'incrocio tra via Galvani e via Fara (da qui il nome del grattacielo) per portare la sua solidarietà. Per parlare di arte e ideali, di partecipazione e cultura. Per farsi garante «antisgombero» con il Comune. Ma sulla torre «requisita» sabato dal collettivo «Lavoratori dell'arte» e di proprietà di Fondiaria Sai (Ligresti), incombono grosse nuvole. Una denuncia per occupazione abusiva. E un plumbeo imbarazzo nelle stanze della politica: le varie anime della sinistra, sul tema, sembrano parecchio divise.

Oltre duecento persone, ieri, per Dario Fo nel cortile della torre occupata, abbandonata da 15 anni, acquistata nel 2006 dalla Fondiaria Sai (48 milioni di euro) con tanto di bonifica dall'amianto due anni fa. Ci sono gli attivisti che si sono presi il palazzo (terminato nel 1959 su progetto di Melchiorre Bega), che l'hanno ripulito e ribattezzato Macao. Ci sono antagonisti e studenti dell'Accademia, autori televisivi, fotografi, creativi. E poi c'è lui, il premio Nobel. Gli chiedono di spendersi con il Comune per evitare lo sgombero. «Voglio parlare con l'amministrazione — spiega Fo —, non possono stare zitti. L'assessore Boeri mi è sembrato perplesso, ma è positivo che lo sia». E continua: «Questa è un'altra Palazzina Liberty: il Comune deve capire che deve aiutare». E se non fosse ancora chiaro il messaggio, i rappresentanti di Macao aggiungono: «Chiediamo appoggio politico da questa amministrazione che ha il potere di sospendere altri tipi di logiche». E cioè lo sgombero.

«Riportare la legalità in via Galvani», ecco la richiesta del centrodestra, dal Pdl alla Lega. Meno compatto il centrosinistra. Se dai vertici dell'amministrazione sembra di capire che «non ci sono stati contatti con gli occupanti; non li proteggiamo ma nemmeno siamo noi a chiedere lo sgombero», il consiglio comunale pare diviso. Sel: «C'e bisogno di spazi sociali in città. L'esperienza della Torre Galfa, pur nel limite della situazione di occupazione, rappresenta una modalità di ricerca di cultura che non può non essere vista con interesse», dice una nota di Patrizia Quartieri, Mirko Mazzali e Luca Gibillini. Conclusione: «Una Milano aperta deve essere l'obiettivo del nuovo modo di amministrare. Ma nulla può il Comune per impedire eventuali sgomberi chiesti da privati». Carmela Rozza, capogruppo del Pd, è di altro avviso: «Invito la giunta a prendere le distanze da questa occupazione assolutamente illegale». Ed ecco che interviene l'assessore Pierfrancesco Majorino: «Lo scandalo non è l'occupazione, ma che in città ci siano tanti spazi inutilizzati per colpa di un immobilismo ventennale, mentre noi ne stiamo per mettere a disposizione 50. Trattandosi di proprietà privata, non posso condividere l'occupazione, ma questo non mi impedisce di vedere che Macao pone un tema vero».

Solidarietà agli occupanti arriva dalla Federazione della Sinistra: «Siamo con voi». Ma il punto resta: il 5 maggio la proprietà ha fatto denuncia per occupazione abusiva. Fondiaria sembra intenzionata a riprendersi (presto) il palazzo per portare avanti un progetto di «messa a reddito» dell'immobile. Attesa. Nella notte una luce blu illumina la torre. «Sarà un buon weekend con tante iniziative», salutano gli artisti.

La demagogia è una forma degenerata della democrazia, la sua periferia interna. I classici la situavano al punto terminale della democrazia costituzionale o "buona".

Era la conseguenza di un impoverimento della società, del timore della classe media di vedere indebolito il proprio status e dei meno abbienti di perdere quel poco che a fatica avevano guadagnato. In questo scontento che contrapponeva i pochi ai molti poteva emergere un astuto demagogo che metteva in campo forze nuove, desiderose di farsi largo ed emergere.

Oggi la demagogia usa il linguaggio dell´antipolitica per esprimere opposizione alla classe politica attualmente esistente con il prevedibile obiettivo di scalzarla con una nuova. Se poi questa classe politica si è macchiata di corruzione ciò rende l´arringa del demagogo più facile ed efficace. Il Movimento Cinque Stelle rientra in questa categorizzazione demagogica. Beppe Grillo ha fatto dell´antipolitica la sua battaglia e alle recenti elezioni amministrative quel linguaggio ha dato i suoi frutti. La crisi economica e i recenti e meno recenti scandali politici hanno fatto da benzina. Ma che cosa è esattamente l´antipolitica?

Quando si parla di antipolitica nelle società democratiche si usa una parola molto imprecisa. Chi la usa non suggerisce infatti di ritirarsi nella solitudine di un convento, oppure di vivere solo di e per la famiglia, o solo di e per il lavoro. Chi usa l´espressione antipolitica vuole presumibilmente criticare il modo con il quale la politica è praticata ma in realtà sfruttare lo scontento che esiste ed è forte verso le forme tradizionali di esercizio della politica. Non è la politica l´obiettivo polemico e nemmeno la forma partito. Non è la politica perché il parlare di antipolitica è comunque un parlare politico, addirittura uno schierarsi partigianamente, e questo è a dimostrazione del fatto che nelle società democratiche non c´è scampo alla politica, nel senso che ogni questione che esce dal chiuso della domesticità è e si fa politica. Diceva Thomas Mann in un saggio esemplare sull´impolitico che nella società democratica anche chi si scaglia contro la politica è costretto a farlo con linguaggio politico, a farsi partigiano della sua causa. Ci si schiera e si entra nell´agone. L´antipolitica non è possibile.

Così è oggi: non c´è niente di più politico di questa persistente critica della politica. A ben guardare l´obiettivo polemico non è neppure la forma partito, l´associarsi cioè per perseguire o ostacolare determinati obiettivi e progetti politici. Anche i più astiosi demagoghi dell´antipolitica - anche l´arrabbiato Beppe Grillo - si presentano alle elezioni! Come scriveva Ilvo Diamanti su Repubblica a commento del recente voto amministrativo, il termine "antipolitica" sottintende una valutazione poco convincente quando è usata per spiegare il voto al Movimento Cinque Stelle - benché questo si sia alimentato pantagruelicamente dello slogan dell´antipolitica. Accettando di presentarsi alle elezioni ha accettato le regole democratiche della competizione e, soprattutto, messo in campo persone che, nonostante il linguaggio demagogico di Grillo, vogliono fare politica e discutono di problemi che sono politici, dall´ambiente alla corruzione, agli interessi privati nella cosa pubblica. A ben guardare gli elettori del Movimento sono semmai iperpolitici e vedono tutto in chiave politica (un termine al quale hanno dato un significato negativo, salvo... usarlo proprio per far politica). Scriveva Diamanti che i grillini "mostrano un alto grado di interesse per la politica" e in passato molti di loro hanno votato Lega Nord e anche Pd e Idv. La demagogia non piace ma è innegabile che chi si identifica con il Movimento del demagogo ha una visione politica, non antipolitica. E su questa visione ci si deve interrogare e ad essa occorre controbattere.

Il movimento Cinque Stelle opera come un partito e se vorrà persistere nel tempo dovrà strutturarsi come un partito. Nella democrazia rappresentativa non c´è scampo a questa regola. L´esperienza di Berlusconi insegna: avere i mezzi finanziari non è sufficiente poiché senza struttura e idee propositive la prima grossa sconfitta si rivela fatale. Perché un partito, se partito è, deve essere capace non solo di vincere ma anche di perdere. Un partito nato per solo vincere è un partito destinato all´estinzione. La memoria sulla quale ogni compagine si struttura creando identità collettiva si consolida anche grazie alle sconfitte, esperienze che uniscono, non meno delle vittorie. Quindi il Movimento Cinque Stelle se vuole consolidare la propria presenza nella politica nazionale dovrà essere pronto a scendere nell´agone sapendo che può perdere. La prepotenza verbale del suo leader rivela che questa non è ancora la sua condizione. Se sarà un partito di sola vittoria sarà di breve durata.

Perché dopo la protesta ci sarà la prova del fuoco del potere praticato. Essere eletti, avere una presenza nelle istituzioni, implica fatalmente prendere in mano quel potere urlando contro il quale il movimento di protesta è nato vittorioso. Si tratta di una regola ferrea che contraddice quel che ci aveva abituato a pensare una Democrazia Cristiana che stava in sella sapendo che non rischiava alternativa grazie alla guerra fredda: ovvero che il "potere logora chi non ce l´ha". Questa massima andreottiana valeva appunto perché chi aveva il potere sapeva di non rischiare di perderlo, cosicché a logorarsi erano appunto coloro che non potendolo avere per vie ordinarie (vittoria elettorale) dovevano scendere a patti con chi lo aveva già a costo di sporcarsi le mani. La massima andreottiana designa una condizione di irrilevanza della democrazia elettorale. Ma in una sana democrazia dove le elezioni funzionano davvero da deterrenza, e sono quindi rischiose (come si è visto il 6 e 7 maggio), allora il "potere consuma chi ce l´ha". E quindi le vittorie dei movimenti di protesta rischiano di spegnersi in fretta. La vicenda patetica della Lega Nord prova questa regola. Le ali se le scotta chi più si avvicina al sole. Il Movimento Cinque Stelle o diventa un partito e quindi accetta la sfida di essere vittima della critica di "antipolitica", oppure scompare. Ma se non scompare, allora deve darsi obiettivi e linguaggi che non sono più quelli della demagogia, roboanti, rozzi, e troppo facili.

Non archiviano solo il Pdl, le prime elezioni del dopo-Berlusconi, ma l'intero polo dell'allora "nuova" destra che Berlusconi mise al mondo nel '94 e che ha tenuto il campo della politica italiana per quasi un ventennio. Già lesionato dalla separazione di Fini di due anni fa, quel polo è oggi palesemente in frantumi, colpito al cuore dell'asse Berlusconi-Bossi che ne è stato il nerbo. Non aiuta la comprensione di quello che sta accadendo riportare questo crollo solo alle cause scatenanti più recenti: come sempre, nel momento della fine conviene piuttosto allungare lo sguardo sull'inizio.

Sul crollo della destra incidono infatti di sicuro la fine della leadership di Berlusconi - certificata ormai da un lungo declino, iniziato alle Europee del 2009 e mai più arrestatosi - e la devastante sequenza dei cosiddetti "scandali" - dal sexgate al Belsito-gate -, potenti rivelatori del funzionamento di un sistema di potere ancor più che eloquenti spie di una "questione morale" delegittimante. Giova però ricordare, per spiegarne la tenuta prima e adesso il disfarsi, di quali ingredienti fosse fatta la creatura berlusconiana del '94, una creatura tricipite che teneva insieme tre destre diverse fra loro: quella neoliberista di Forza Italia, quella comunitarista-xenofoba della Lega e quella statalista-sociale di An. Il "miracolo" del Cavaliere consistette precisamente nella capacità di unificare e cementificare sotto il proprio "carisma" queste tre anime diverse, talvolta perfino incompatibili, dando vita a un campo neolib-neocon più simile al suo omologo americano marcato Bush che alle destre europee. E consistette altresì nella capacità di incardinare su questa destra tricipite il bipolarismo della cosiddetta seconda repubblica, ridefinendo al contempo un'agenda di lotta e di governo tagliata sul blocco sociale e sugli interessi del Nord postfordista e "autoimprenditoriale", con il Sud "assistenzialista" in posizione periferica e ancillare.

Quel miracolo non è più ripetibile, e non solo perché è finita, o comunque sfinita, la leadership di Berlusconi senza la quale esso non si dà, ma perché la ricetta neolib-neocon che esso predicava non funziona (ammesso che abbia mai funzionato) e non seduce più. Il crollo, prima che politico, è di blocco sociale, nonché ideologico (al di là delle sue sopravvivenze residuali, paradossalmente più tenaci, a giudicare dal voto di domenica, al Sud che al Nord). Si tratta, in altri termini, della fine di una egemonia. Se e come una destra, e quale destra, riemergerà dalle macerie di questo blocco egemonico, ha probabilmente a che fare con la forma che prenderanno le sue tre componenti originarie. Ed è facile ipotizzare fin d'ora, dalle divisioni che le separano, che non si profila una loro ricomposizione bensì una loro scomposizione, dominata, più che dallo scenario nazionale, dall'evoluzione di quello europeo.

Qui entra in campo il secondo fattore decisivo del terremoto elettorale. Che non serve a nulla interpretare esclusivamente, o prevalentemente, nei termini triti dell'opposizione politica-antipolitica, rimuovendo il dato eclatante della contestazione antirigorista che dal voto (e dal non voto) emerge nettamente, in perfetta consonanza con i segnali che vengono dalla Francia e dalla Grecia. E qui si vedono anche gli enormi limiti di una transizione al dopo-Berlusconi tutta affidata alla sostituzione del neoliberismo più americano che europeo del Cavaliere con il neoliberismo più tedesco che americano di Monti.

Alla prima verifica elettorale, il risultato di questa transizione dall'alto è che alla sepoltura del ventennio del Cavaliere si somma la contestazione del governo dei tecnici e dell'Europa ostile e vessatoria che esso rappresenta. E questo mentre, crollato con la destra di Berlusconi il bipolarismo sperimentato fin qui, l'intero sistema politico deve ridefinirsi, e si sta già ridefinendo, in relazione al quadro europeo, alla crisi europea e alle politiche sociali europee. Non ne dipende infatti solo la configurazione che prenderà la destra, o le destre, orfana del Cavaliere, e allo stato prive di possibilità di riparo in un "terzo polo" che il voto di domenica ha dichiarato inesistente. Ne dipende altrettanto la configurazione che prenderà la sinistra, o le sinistre, nonché la curvatura che assumeranno i movimenti antisistema fin qui troppo genericamente etichettati come "antipolitici", e fin qui nella loro stessa autorappresentazione né di destra né di sinistra.

A proposito di questi ultimi, lo spettro europeo è assai vasto, va dalla sperimentazione delle pratiche di democrazia telematica dei "Pirati" tedeschi alla inquietante riesumazione del binomio socialnazista dell'"Alba dorata" greca, e oscilla dalla critica dell'Unione europea fin qui conosciuta al rifiuto tout court della costruzione europea. Sono movimenti che non garantiscono di per sé niente di buono, ma niente può piegarli al peggio quanto una pregiuziale sordità al disagio sociale di cui sono portatori.

Quanto ai destini della sinistra italiana, il voto francese, peraltro insistemente invocato dai suoi leader come condizione necessaria di un cambio di stagione su scala continentale, le indica limpidamente la strada. Non è affatto detto però che su quella strada essa possa portarsi l'appoggio al governo tecnico, né che basti mettere Monti nella posizione del mediatore fra Merkel e Hollande per far quadrare i conti dell'Euro e delle prossime elezioni politiche. Il Pd non è stato punito per le sue oscillazioni dal voto amministrativo, ma non è stato nemmeno granché premiato; e queste non sono circostanze in cui la rendita dell' "unico partito che tiene" possa durare a lungo. Ci sono situazioni in cui i tempi stringono, e le oscillazioni non pagano. La nettezza, manda a dire il caso Hollande, paga di più.

La fine dell'egemonia neoliberista berlusconiana e il cambiamento del vento europeo domandano e comandano una manovra controegemonica in grande stile, di segno opposto all'introiezione temperata del rigore montiano. E la stessa contabilità del voto obbliga a distogliere finalmente lo sguardo da un centro desaparecido e a volgerlo con più convinzione verso sinistra. Diversamente, ci saranno nell'immediato una sinistra senza popolo e un populismo senza sinistra, e all'orizzonte più la disgregazione greca che l'alternativa francese.

La Terza Repubblica 
che non sa dove andare

di Ilvo Diamanti

Pdl e Lega senza leader e identità. il Pd tiene, Grillo forte sul territorio. Il Carroccio resiste ma a fatica. La valenza politica del Movimento 5 Stelle. Eccoli, i verdetti del voto per le comunali. Con effetti politici importanti sul piano nazionale

1. Le prime elezioni nell'era del Montismo hanno, anzitutto, suggerito che, insieme a Berlusconi, stia uscendo di scena anche il suo "partito personale". Quasi per conseguenza automatica e naturale. Il Pdl. In caduta, dovunque. Da Nord a Sud passando per il Centro. Non è facile decifrare i dati di elezioni specifiche, come quelle amministrative. Caratterizzate dalla presenza di molte liste civiche. Tuttavia, nei Comuni capoluogo, rispetto alle elezioni amministrative precedenti, il Pdl ha dimezzato il suo peso elettorale: è passato dal 30% al 14% (media delle medie). Governava in 95 Comuni (maggiori), insieme alla Lega. Al primo turno ne ha perduti 45 (inclusi quelli in cui è escluso dal ballottaggio). Ne ha mantenuti 5, conquistandone uno solo di nuovo. Negli altri 45 andrà al ballottaggio. In 16 Comuni, però, è in sensibile svantaggio. A livello locale, peraltro, il Pdl non aveva mai avuto basi solide e radicate. Ma senza Berlusconi ha perduto identità, senso. In qualche misura, speranza. Così ha travolto, nella slavina, anche il retroterra di An. Che, invece, fino a ieri, disponeva di una presenza diffusa in molti contesti. Soprattutto nel Sud.

2. La Lega resiste. Ma a fatica. Il risultato di Verona si deve, esclusivamente, a Tosi. È un voto "personale". Per molti versi, espresso "contro" la Lega di Bossi. Tosi, infatti, è il principale alleato di Maroni, come ha ribadito anche in questi giorni. Verona, d'altronde, non è una roccaforte storica della Lega, che si è insediata in città (e nell'area) solo nell'ultimo decennio. Prima era una zona di forza della Destra, da cui Tosi ha attinto molti consensi. Allargandoli in misura ampia, con la sua azione. E amministrazione.

Altrove, però, la Lega non ha fatto bene. Complessivamente, nei Comuni dov'era presente, la Lega ha perduto poco rispetto alle amministrative del 2007, ma ha dimezzato la percentuale del voto rispetto alle politiche del 2008 e le europee del 2009. Fra le 12 città maggiori al voto dove il sindaco uscente era leghista, la Lega ha perduto in 5 e in altrettante è al ballottaggio. Oltre a Verona, al primo turno ha vinto solo a Cittadella. Una roccaforte nel cuore del Veneto. Luogo quasi simbolico. Evoca la Lega che non è scomparsa, come alcuni ipotizzavano (e auspicavano). Ma "resiste" all'assedio. Ha reagito meglio nei Comuni più piccoli, inferiori a 15 mila abitanti (secondo l'analisi dell'Istituto C. Cattaneo).

Tuttavia, le sarà difficile, su queste basi, riproporsi come "partito del Nord". Tanto più perché perdere sindaci e peso nelle amministrazioni locali significa perdere radicamento nella società e nel (suo) territorio. Dove oggi appare un soggetto politico minoritario.

3. Ne deriva che il Pdl e la Lega, al di fuori dell'alleanza di centrodestra, risultino perdenti. Su base locale e non solo. D'altronde, anche un anno fa, alle amministrative, anche se alleati, avevano subito un notevole arretramento e alcune sconfitte pesanti. Per prima: Milano. Ma oggi, che Pdl e Lega corrono ciascuno per conto proprio, e anzi, uno contro l'altro, il loro futuro appare quanto meno difficile. D'altronde, solo Berlusconi era riuscito a coalizzarli, a farli stare insieme. Con argomenti efficaci. Per forza e/o per interesse. Il rapporto fra i due partiti, peraltro, era molto "personalizzato". Fondato sulle relazioni dirette fra Berlusconi e Bossi. Ma oggi il ruolo dei due leader si è ridimensionato e anche il legame fra i partiti si è sensibilmente allentato. In concreto, nel centrodestra si è aperto un vuoto di rappresentanza politica che non è chiaro come e da chi possa venire colmato.

4. Nel centrosinistra la situazione appare migliore. Soprattutto perché i partiti che ne fanno parte hanno, perlopiù, confermato l'alleanza. Anche se con geometrie variabili. Punto fisso: il Pd, che ha costruito intorno a sé diverse intese. In prevalenza, con la sinistra, ma anche insieme all'Udc. Al primo turno, nei capoluoghi di provincia ha tenuto, passando (in media) dal 19% al 17%: 2 punti in meno. Inoltre, nei 53 Comuni dov'era al governo, prima di queste elezioni, dopo il primo turno ne ha riconquistati 14 e altri 11 li ha strappati al Centrodestra. Eppure è indubbio che anche in quest'area emergano segni di sofferenza. Nel Pd - ma anche nel centrosinistra. Il quale non riesce a capitalizzare il crollo del centrodestra. Subisce, nelle sue aree, il peso dell'astensione. Che raggiunge non a caso il massimo nelle zone rosse: in Toscana, in Emilia Romagna, nelle Marche.

E, ancor di più, è incalzato dalla concorrenza del Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo. La sorpresa di questa consultazione. Dove i suoi candidati sono al ballottaggio in 5 Comuni oltre 15 mila abitanti (tra cui Parma). A Sarego, piccolo comune in provincia di Vicenza, è riuscito a fare eleggere il suo candidato sindaco. Il risultato del Movimento 5 Stelle, però, appare rilevante soprattutto per il livello dei consensi ottenuti un po' dovunque. Oltre il 10%, in media, nei Comuni capoluogo. Il 9% nell'insieme dei Comuni dove è presente. In alcuni contesti, peraltro, ha ottenuto performance importanti. Intorno al 20%.

5. La tendenza - e la tentazione - diffusa è di etichettarlo come un fenomeno "antipolitico". Equivalente e alternativo rispetto all'astensione. Una valutazione che mi sembra poco convincente.

A) Perché è comunque un soggetto "politico" che ha partecipato a una competizione democratica chiedendo e ottenendo voti. Facendo eleggere i propri candidati.

B) Poi perché il suo successo deriva, sicuramente, dalla critica contro il sistema di Grillo, ma anche dal fatto che il Movimento ha coagulato gruppi e leader attivi a livello locale. Impegnati su questioni e temi coerenti con quelli affrontati nel referendum di un anno fa. Collegati alla tutela dell'ambiente, ai beni pubblici. Alla lotta contro gli abusi. Progetti di "politica locale" promossi da persone a interessi privati e a lobby. Per questo credibili, in tempi scossi da scandali e polemiche sulla corruzione politica.

C) Infine, perché i loro elettori sono tutto fuor che "impolitici". Mostrano un alto grado di interesse per la politica (sondaggio Demos, aprile 2012). Certo, un terzo di essi, alle elezioni politiche del 2008, si è astenuto. Ma il 25% ha votato per il Pd e il 16% per l'Idv. Il Movimento 5 Stelle, per questo, rivela il disagio verso i partiti. Soprattutto fra gli elettori dell'area di centrosinistra. Ma non solo: un'analisi dei flussi elettorali condotta dall'Istituto Cattaneo sul voto di Parma, infatti, rileva una componente di elettori sottratti alla Lega (3% sul totale, rispetto alle regionali del 2010). Il Movimento 5 Stelle, dunque, offre a una quota di elettori significativa una rappresentanza, che può non piacere, ma è "politica".

Io, comunque, sono sempre convinto che sia meglio un voto, qualsiasi voto, del vuoto. Politico. Nell'insieme, questi risultati rafforzano l'impressione che il Paese sia ormai oltre la Terza Repubblica, fondata da - e su - Berlusconi e il Berlusconismo. Ma non sappia dove andare. Con questi partiti, questi leader, questi schieramenti, queste leggi elettorali e con questo sistema istituzionale: temo che passeremo ancora molto tempo a discutere di antipolitica. Per mascherare la miseria della politica.

Chi ha paura delle elezioni

di Barbara Spinelli

TUTTI ricordiamo le parole che Roosevelt pronunciò il 4 marzo 1933, appena eletto. La crisi che s'accingeva a fronteggiare era simile alla nostra, e disse: "La sola cosa che dobbiamo temere è la paura stessa: l'indicibile, irragionevole, ingiustificato terrore che paralizza gli sforzi necessari per convertire una ritirata in avanzata". Dopo le elezioni in Francia, Italia, Grecia, potremmo applicare la frase ai timori suscitati in molte capitali dai verdetti delle urne. "La sola cosa che l'Europa deve temere, oggi, è la paura che i tribunali elettorali suscitano nei governanti, nei partiti classici, in chiunque difenda lo status quo pensando che ogni sentiero che si biforca e tenta il nuovo sia una temibile devianza".

È con grande sospetto infatti che si guarda al nuovo Presidente socialista, e non solo quando in gioco è l'economia. Anche la sua politica estera è temuta: la volontà di uscire fin da quest'anno dall'Afghanistan, il rifiuto opposto nel 2009 quando Sarkozy decise di rientrare nel comando militare integrato della Nato. Ma il mutamento che maggiormente indispone e terrorizza è il rinegoziato del patto fiscale (fiscal compact) approvato a marzo da 25 Stati dell'Unione. È qui il nodo più difficile da sciogliere.

I capi d'Europa non troveranno salvezza che in simili mutamenti, ma cocciutamente rifiutano quel che li può salvare, considerandolo dinamite. Si sentono destabilizzati nelle loro certezze, e poco importa se son certezze empiricamente confutate, se la Merkel dovrà retrocedere comunque, perché senza socialdemocratici il fiscal compact non passerà in Parlamento. Giungono sino a dire che la formidabile spinta a cambiare politica è antipolitica, o conservatrice.

In Grecia il partito d'estrema sinistra (Syriza, Coalizione radicale della sinistra) è divenuto il secondo partito, superando i socialisti del vecchio Pasok, e il suo leader, Alexis Tsipras, sta tentando di formare un governo. Anche lui è tacciato di antipolitica, eppure è un europeista che profetizza il precipizio nella povertà e nel risentimento degli anni '30, se Angela Merkel non capirà la speranza racchiusa nella rabbie popolari. "L'Europa ha disperatamente bisogno di un New Deal stile Roosevelt": non è disfattismo quello di Tsipras, ma ardente appello a un'Unione più forte.

Di questa paura del nuovo converrà liberarsi, in Europa e America, perché anch'essa è terrore irragionevole, non già volontà di ripensare gli errori ma, come la chiamava Tommaso d'Aquino, chiusa non-volontà, nolitio perfecta. Non è un magnifico status quo quello che Hollande vuol rimettere in questione, non è una stabilità radiosa, che avrebbe dato chissà quali buoni frutti. Le urne dicono questo: il bisogno di Europa, di una politica che salvi il continente dal naufragio della disperazione sociale e di una guerra di tutti contro tutti. Il continuo accenno alla Grecia come spauracchio - e capro espiatorio - agitato dai nostri governi a ogni piè sospinto, non è altro che ritorno al vecchio bellicoso equilibrio di potenze nazionali, tra Stati egemoni e Stati protettorati.

Hollande ha in mente non solo l'economia, ma anche l'inerte mutismo europeo su pace e guerra. In Afghanistan la guerra iniziata dall'Occidente sta finendo in catastrofe, come ha spiegato con efficacia il generale Fabio Mini sul Corriere della sera: "È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003, quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati".

Lo stesso vale per la Nato: strumento che dopo la guerra fredda ha subito modifiche radicali, imposte da Washington e mai seriamente discusse tra europei. Da alleanza difensiva puramente militare, la Nato è divenuta un organo eminentemente politico, che esporta democrazia senza riuscirci, secernendo caos e Stati deboli, dipendenti o riottosi. Non stupisce dunque il fastidio manifestato da Hollande verso la scelta che ha coinvolto Parigi in un comando militare dominato dalla declinante potenza Usa. È bene che un Paese europeo di prima importanza chieda di fermarsi, e si interroghi sul punto cui siamo arrivati: che critichi lo status quo mentale che è dietro le guerre occidentali e dietro alleanze surrettiziamente snaturate. L'Unione, la Nato, i nostri rapporti col nuovo mondo multipolare: la mutazione già è avvenuta; sono la politica e l'Europa a esser sordo-mute, non all'altezza.

Queste battaglie di politica estera, così come le battaglie per un'Europa che sappia resistere alle forze disgregatrici dei mercati, dovranno tuttavia partire da un'unione di forze, da istituzioni comuni che durino più dei governi e diano sicurezza ai cittadini tutti. Che non si limitino più a eseguire gli ordini degli Stati più forti, e di un'ortodossia che non tollera pensieri eretici. Per questo Hollande non va lasciato solo, alle prese con le paure che suscita a Berlino o nelle accademie. Sul tema pace-guerra, come sulle discipline di rigore, occorre che gli Europei si radunino e definiscano senza paura i loro interessi, e le lezioni che vogliono trarre dai voti dei giorni scorsi.

Cosa dicono in ultima istanza le urne, oltre al rifiuto dell'austerità? Dicono che un numero crescente di elettori, a destra e sinistra, cede al richiamo del nazionalismo, della xenofobia, dell'antipolitica perché, pur conoscendo i disastri del richiamo, non vede formarsi uno spazio pubblico, un'agorà europea, in cui vien disegnato un nuovo ordine mondiale. Perché vedono candidati spesso corrotti, oppure governanti ingabbiati in dottrine economiche calamitose e in un ordine mondiale obsoleto, somma caotica di vizi e impotenze nazionali. Non vedono un'Europa ambiziosa, che proponga un modello di pace mondiale e non sia il Leviatano di Hobbes: potere sganciato dalle leggi civili, in assenza del quale (questa la sua propaganda) la vita è destinata a esser "solitaria, povera, incattivita, brutale, e corta". Grillo in Italia non è insensibile a questi richiami, anche se tanti suoi candidati e amministratori non credo siano d'accordo.

La sera della vittoria, alla Bastiglia, Hollande ha annunciato che la Francia vuol divenire un modello in Europa. Ma il grande salto qualitativo lo compirà il giorno in cui, negoziando con i partner, comincerà a esigere che l'Europa in quanto tale divenga modello. Quando dirà: tornerete ad avere fiducia nell'Unione creata nel dopoguerra, perché le abbiamo dato una voce unica e un governo federale dotato di risorse sufficienti a rilanciare l'economia al posto degli Stati costretti al rigore.

La volontà di ripensare la questione pace-guerra ha senso solo se partirà dall'Unione, non da un Paese isolato. L'idea di Kohl, quando nacque l'euro, va ripresa, continuata. La Germania sacrificò il marco sovrano, sperando nell'Europa politica e nella difesa comune. Il no di Mitterrand scatenò nei tedeschi diffidenze che perdurano. Quella stortura va corretta. Non dimentichiamolo: il federalismo europeo è ben più inviso a Parigi che a Berlino. Lo stesso si dica per le politiche, che non possiamo più delegare agli Usa, verso paesi arabi, Palestina, Russia. Occorre che l'Europa decida se vuol divenire potenza. Una potenza che non getti fuoribordo Atene, trattando i deboli come perdenti in guerra. La fierezza d'esser europei cresce solo così: risuscitando il modello sociale, l'ambizione politica degli inizi. Facendo di tutto perché i presenti tumulti popolari non siano un'occasione di regresso, ma si convertano in ripresa e ricominciamento.

Bocciata. La ristrutturazione del Fontego dei Tedeschi secondo il progetto predisposto per Benetton non si farà più, almeno nella forma concepita dall’archistar olandese Rem Koolhaas per il suo committente. Il no più pesante e definitivo - dopo i rilievi già sollevati dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia e dalla Direzione regionale dei Beni Culturali - è arrivato ieri da Roma, dal Comitato tecnico-scientifico per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Ministero dei Beni Culturali presieduto dall'architetto Giovanni Carbonara, che si è riunito, pur in regime di proroga, proprio per esaminare il progetto Benetton - con la controllata Edizione Property - inviato dagli organi periferici veneziani per l’ultima parola sulla questione. È lo stesso organismo che alcuni mesi fa ha bocciato il progetto del nuovo ponte dell'Accademia. E il giudizio è stato in questo caso, appunto, quello di una bocciatura senza appello, che sarà ufficializzata tra qualche giorno dallo stesso Ministero.

Concordando con i rilievi di Direzione Regionale e Soprintendenza, la Commissione ha detto no ai cardini del progetto di Koolhaas, nato per favorire la trasformazione del cinquecentesco Fontego dei Tedeschi in un centro commerciale. No quindi alla contestatissima terrazza apribile sul tetto, demolendone una parte, con vista Rialto e no anche alle due scale mobili - colorate o no - previste nell’atrio, con demolizione di parti murarie originali. Parere contrario anche all’inserimento nella corte interna del Fontego di strutture che ne limiterebbero la spazialità e la luminosità. Pollice verso anche all’uso di materiali non consoni al complesso monumentale come plexiglass o lamiere perforate e parere negativo anche al maxipontone galleggiante in Canal Grande, di 25 metri per 5, che Benetton voleva far installare.

A questi rilievi condivisi il Comitato ha aggiunto di suo, la mancanza di un’analisi storica dell’immobile allegata al progetto, che doveva essere basilare per un’edificio della valenza storica e architettonica del Fontego dei Tedeschi, anche per tutelarne l’integrità, a cominciare dai graffiti storici sulle colonne e sui paramenti murari e per evidenziare possibili, nuovi ritrovamenti. Di tutto questo, la Benetton, che sul Fontego voleva procedere a passo di carica - vista anche l’atteggiamento collaborativo del Comune sulle trasformazioni - non si è curata e ora arriva uno stop che fa male, perché il parere negativo del Comitato, anche se formalmente consultivo, verrà certamente recepito da Soprintendenza e Direzione Regionale per trasformarlo in un no ufficiale.

Si apre, a questo punto, una fase di grande incertezza che coinvolge anche il Comune, che si era fermato ad aspettare il giudizio dei Beni Culturali sul progetto prima di portare in Consiglio comunale la convenzione sul Fontego sottoscritta con il gruppo Benetton. Se l’azienda di Ponzano vorrà riutilizzare il Fontego, di sua proprietà, dovrà evidentemente pensare a un nuovo progetto e probabilmente anche a un nuovo progettista. In ques’ipotesi presumibilmente salterebbero anche - se c’erano già - gli accordi con gruppi come La Rinascente che avrebbero dovuto gestire il futuro centro commerciale. E strascichi legali e contenziosi, a questo punto, che potrebbero coinvolgere anche Ca’ Farsetti, sembrano dietro l’angolo

Titolo originale: Public health: bridging the cultural faultlines – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Con la riforma delle competenze delle amministrazioni locali britanniche la salute tornerà ad essere fra i compiti dei comuni, ed è una enorme occasione per orientarsi verso un’idea più “olistica” dello star bene: ma sono ancora troppi nel settore a ritenere che questo termine olistico sia solo una generalizzazione gergale e impropria. Per l’amministrazione, vuol dire in realtà non limitarsi a servizi specifici, come un sostegno a chi vuol smettere di fumare, ma pensare anche in termini di parchi, giardini, scuole, centri per i giovani, attività fisica, settore alimentare. In breve, tutto ciò in cui una amministrazione locale può intervenire.

Gestire la salute collettiva può essere qualcosa di spaventosamente difficile. Bisogna partire dall’affrontare questioni poco conosciute, come tutto quanto si lega all’obesità, una sana vita sessuale, il problema del bere, e poi c’è il timore di confrontarsi con quella che è la cultura dominante dei medici. Ci fidiamo tutti quanti del nostro dottore (almeno, secondo i più recenti sondaggi, l’88% si fida), e quindi perché mai un amministratore dovrebbe mettersi a discutere quel loro specifico punto di vista sulla salute? E invece è un problema molto reale quello di superare la distanza fra due culture che determina il nostro modo di pensare alla salute, dal considerare la persona in quanto paziente o invece cittadino. Per dirla come mi spiegava un collega: “Il servizio sanitario nazionale cura le persone, noi siamo al loro servizio". Davanti a un dilemma del genere, la cosa più facile sarebbe che un comune assumesse una funzione di erogatore di servizi sanitari decisi da medici e dai loro organismi: parrebbe tutto risolto.

Ma non è certo l’unico metodo. Le amministrazioni hanno già oggi a disposizione molti strumenti diretti e indiretti per intervenire sulla salute, si tratta soltanto di farli crescere e adeguarli. Ad esempio urbanistica e politiche urbane. Si tratta di una delle competenze centrali di un governo locale, qualcosa che fanno tutti, e ha un rapporto immediato con la salute collettiva. Solo che sinora quegli aspetti di solito non sono stati sufficientemente considerati, tanti uffici tecnici e di programmazione sono del tutto estranei alle riflessioni di comitati ed enti di settore. Mentre invece il rapporto diretto tra forma urbana e salute è stato esplicitamente riconosciuto in sede ufficiale quando si tratta di diseguaglianze, come testimoniano i rapporti ufficiali. Ed è stata anche esplicitamente raccomandata una correlazione diretta proprio fra programmazione del territorio e dell’intervento sanitario. Attuarla potrebbe anche far risparmiare risorse.

Ad esempio per affrontare l’obesità, certo esiste l’aspetto sperimentato delle campagne di informazione, dei servizi territoriali sull’alimentazione e le diete, ma esistono anche chiare indicazioni del rapporto diretto fra diffusione dei fast food in un’area e tassi di obesità fra la popolazione. Qui gli uffici comunali possono intervenire molto direttamente, sviluppando programmi contro l’obesità che partono da strategie contro l’eccessiva concentrazione di questo genere di esercizi. Certo si tratta solo di uno degli aspetti. Ma occorre iniziare a fare dei collegamenti, fra settori di intervento noti, e questi aspetti relativamente nuovi riguardanti la salute, un’amministrazione non solo deve dimostrarsi in grado di svolgere una funzione delegata, ma anche di costruire nuove culture più integrate.

La pianura padana era una terra di agricoltori. Era il granaio d'Europa, un territorio dove la terra era la madre di tutti i valori. Poi l'industrializzazione ha cominciato a mangiare il suolo, a relegare i terreni agricoli a marginali, in attesa che divenissero edificabili, con tutto ciò che questo ha comportato. Negli ultimi anni la cementite si è ulteriormente aggravata, con le nuove infrastrutture che si apprestano a tagliare ulteriormente il territorio.

Grandi infrastrutture come la BreBeMi e la Pedemontana, e poi nuove opere in progettazione, le cosiddette autostrade regionali, come la Broni-Mortara o la Bergamo-Treviglio, in una ubriacatura da autostrada di cui non si vede la fine. La fine coinciderà probabilmente con la fine della campagna, ma in cambio avremo guadagnato pochi minuti in un viaggio divenuto nel frattempo a pagamento. E a quel punto tutto sarà più semplice, la crisi come d'incanto scomparirà, le piccole imprese potranno tornare competitive, perché si sa, il tempo è denaro e quindi potranno correre molto di più, assumere nuovo personale e affrontare senza paura i grandi Paesi emergenti che oggi ci schiacciano.

È uno scenario che definire demenziale è un complimento. Sarebbe più onesto dire che le nuove opere sono un tentativo di rianimare un'economia asfittica, anche se nessuno dice che in queste opere chi lavora sono sempre e solo le grandi imprese, mentre le famose ricadute non sono altro che briciole, soprattutto in termini di margini di profitto. E da un punto di vista ambientale sarebbe più onesto sostenere che questo territorio è talmente compromesso che qualunque tentativo di contenere il consumo di suolo è assolutamente inutile, la bellezza del paesaggio non c'è più da tempo, tanto vale rassegnarsi a viaggiare in tunnel con ai lati pannelli fonoassorbenti sempre più alti che ci impediscono di vedere cosa stiamo attraversando. Meglio destinare le attenzioni ambientaliste al Chianti, verrebbe da dire, qui si deve produrre, si devono abbassare i costi e si deve essere veloci, e quindi alta velocità e autostrade sono fondamentali per i mercati globali, non c'è tempo di romantici pensieri bucolici.

Muoversi è fondamentale, le nuove opere costano miliardi di euro, che dovranno essere ripagati con pedaggi sempre più alti, ma non importa. E così via con le autostrade regionali, colate di cemento con ricadute di lavoro per le imprese, di oneri per le amministrazioni e per tutto l'indotto a queste collegate, fatto di consulenti di ogni tipo. Aumentare l'offerta di infrastrutture autostradali non ridurrà l'inquinamento e il traffico; l'unica speranza ambientalista è purtroppo la crisi economica che potrà portare a un mancato reperimento delle ingenti risorse necessarie e a rivedere i piani di traffico per il ritorno degli investimenti. Sperare nella crisi per salvare il territorio è una triste visione, ma purtroppo visioni lungimiranti non ce ne sono, da nessun soggetto economico e/o istituzionale, tutti impegnati nello stesso gioco al massacro che ci farà andare sì più veloci, ma verso il baratro.

Postilla

I ciellini, come risulta anche da certe inchieste sociologiche sui consumi culturali, pare ascoltino musica di produzione autarchica, tipo Frate Cionfoli, semisconosciuta al resto del mondo. Quindi molto probabilmente ignorano quell’attacco classico di rock demenziale anni ’70 che suona: Sono veloce / Nelle scarpe il piede cuoce /Il cervello prende vento / Ma si cuoce dal di dentro .Se lo conoscessero, si sarebbero infatti chiesti dove andremo a finire, con la loro macchina autostradal-territoriale saldamente avvitata alla montagna di balle sullo sviluppo che ci stanno propinando da lustri. Visto che l’articolo del Corriere pare (insieme ad altri che spuntano qui e là negli ultimi tempi) porsi una domanda del genere, si può azzardare una risposta. Il futuro immaginato da Celeste & Co. vede una Lombardia interamente ricoperta dalle autostrade, che servono a spostarsi da un laghetto per la pesca delle trote all’altro. Infatti per fare le autostrade serve scavare cave, e le cave poi vengono ripristinate a laghetti per la pesca cosiddetta sportiva a pagamento, da imprese amiche degli amici. Quindi nel futuro le attività economiche principali saranno la manutenzione autostradale, la pesca della trota (con la T minuscola), la spesa nei centri commerciali delle catene amiche collocati nelle fasce autostradali in deroga ai piani comunali, la cura dell'inevitabile stress nelle cliniche private convenzionate che si alternano nelle fasce autostradali senza deroga. Questo scenario non è una fantasia degna di un vecchio numero di Urania , ma una specie di ragionevole proiezione di quanto accade oggi. L’unica variante possibile è quella di un elettorale sonoro calcio nel sedere a questi figuri, ai loro sodali, e poi qualche secolo di duro lavoro per rimediare dove possibile ai danni (f.b.)

Titolo originale: Free food, caring and sharing: a new spirit of community is being created in the Yorkshire hills – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

C’è un particolarissimo cartello fuori da un molto ben tenuto orto del West Yorkshire: " Prego Servitevi". Nella medesima cittadina quest’estate si potrà anche approfittare del granturco piantato attorno alla stazione della polizia. Il compost e gli innaffiatoi sequestrati nelle irruzioni alle piantagioni illegali di droghe servono per gli orti locali. Con l’autunno poi andando da dottore si potrà anche raccogliere gratis della frutta, visto che si è trasformato in frutteto lo spazio attorno all’ambulatorio. Qualche famiglia che ha avuto un lutto e vorrebbe mettere dei fiori al cimitero, magari potrebbe anche pensare in modo più ampio e produttivo: un parco delle rimembranze a broccoli? E i pendolari dalle aiuole e fioriere appena fuori dalla stazione raccolgono ciuffi di erbe aromatiche. Il tutto mantenuto sgombro da erbacce grazie all’esercito di abitanti del posto, volontari domenicali per un’oretta circa.

Sono 40 i volontari apicoltori che hanno appena finito il corso di formazione, e fra poco ci sarà miele per tutti. Chiunque abbia voglia di iniziare un proprio orticello può attingere dal deposito comune di attrezzi all’orto centrale. Nel villaggio accanto si è fatto pure di più. Gli abitanti stanno cercando di rilevare il pub dopo aver già rilevato il cinema, il teatro e addirittura la sala comunale. In questo angolo delle umide colline del Yorkshire, la popolazione di Hebden Bridge e Todmorden è l’avanguardia di una tendenza che prende piede in tutto il paese, disilluso dalla cultura di impresa, del governo, dei tagli. Niente hippies o New Age, solo gente comune, vecchi e giovani, dalle grandi ville come dalle case popolari.

La si potrebbe definire una rivoluzione del condividere. "Chiamiamolo pure community empowerment, o impresa sociale, o cooperazione, i termini sono diversi, ma la cosa sta comunque diventando enorme" commenta Mike Perry della Plunkett Foundation, struttura nazionale vitalissima che sostiene iniziative del genere. "Non credo che abbia a che vedere solo con la recessione economica; è la gente che inizia a riflettere su cosa è davvero importante. Si comincia con ciò che si mangia, poi magari rilevando un negozio che stava per chiudere. O si innesca sul collegamento a banda larga, o sulle energie rinnovabili, le infrastrutture della comunità. Siamo all’inizio di un movimento molto significativo". In tutto il paese esistono 9 pub gestiti dalla collettività e 300 esercizi, quantità destinate a crescere moltissimo perché se ne è dimostrata la straordinaria resistenza in un momento difficile, ma anche perché le persone reagiscono decisamente quando chiudere significherebbe influire pesantemente sulla propria qualità della vita. Magari non si creano molti posti di lavoro, ma si rafforza la comunità, si fa circolare localmente denaro.

Non succede solo nelle zone di campagna; sono parecchie le iniziative via web in cui ci si scambiano cose o si regalano nella medesima area. Depositi di attrezzi, bike sharing, sono sempre più diffusi. A Londra, Streetbank.com aiuta a organizzarsi per scambiare cose, dal tosaerba ai DVD, entro un raggio di un paio di chilometri. Nei primi mesi hanno aderito in 3.000. La catena di distribuzione fai da te B&Q ha un programma pilota di scambio attrezzi a Reading, contro i danni ambientali di milioni di macchine comprate e usate al massimo un paio di volte. Mary Clear, quella che ha messo il cartello " Prego Servitevi" a Todmorden, è travolta dal successo del suo programma Incredible Edible, organizzato insieme all’amica Pam Warhurst dopo la crisi del credito. Imitata presto in altre trenta cittadine. “Una reazione al vuoto di iniziative nazionali” spiega. "Volevamo far qualcosa che incidesse sui comportamenti, a unire la gente. Mangiamo tutti, ma il cibo è anche un simbolo di ingiustizia sociale, così abbiamo cominciato col guerrilla gardening”.

La signora è nonna di dieci nipoti ma ancora molto energica, una vita frugale da prepensionata per tagli agli enti pubblici. “Non abbiamo né uffici, né collaboratori, né soldi. Non ho nulla contro supermercati o banche; ma ho molto a favore della bontà e della giustizia sociale. Volevamo rivolgerci a chi non può permettersi di leggere quei libroni patinati tipo Raccogliamoci da Soli le Insalate o simili. “Io e Pam siamo signore di una certa età, non certo gente da assalto, ma qui si tratta solo di non aver paura di farsi avanti”. A luglio, a Hebden Bridge si terrà il convegno Ambitious Communities per comunicare esattamente questo tipo di messaggio. Gli intervenuti potranno sperimentare di persona l’ultimo grido di inziativa comunitaria Britannica: il campeggio sul retro della casa di Richard Holborow. Che insieme alla moglie si è iscritto all’elenco di Hebden Bridge aderente a campinmygarden.com sito web in rapida crescita, gente ben lieta di ospitare tende di sconosciuti nel giardino, sia che vogliano evitare di farsi pelare da un albergo coi prezzi gonfiati dalle Olimpiadi di Londra, sia che vogliano solo viaggiare spendendo poco.

La Hebden Bridge Community Association, oltre 500 iscritti su una popolazione totale di 5.000, sa benissimo che Hebden Bridge non è proprio la cittadina media britannica, e che non tutto quanto succede qui si può replicare immediatamente altrove. C’è una lunga storia di impegno, sin dalle cooperative e dal movimento ottocentesco dei Cartisti. Dopo la chiusura delle fabbriche c’è stato l’arrivo di molti artisti e scrittori, e dopo gli anni ’70 una vera e propria colonizzazione a ondate successive di varie tribù, intellettuali non ricchi, hippies, ecologisti radicali. C’è una colonia lesbica che in percentuale sulla popolazione è la più grande di tutto il paese. Le vie del centro pullulano di esercizi indipendenti, ma nessun segno della solita grande distribuzione. Ma ultimamente l’arrivo dall’esterno di gente più agiata in fuga ha fatto impennare i prezzi delle case, qualcuno comincia a pensare che forse un supermercato a prezzi contenuti andrebbe meglio dei negozi biologici, quindi meglio impegnarsi per far entrare nei gruppi gente di tutte le estrazioni sociali, spiega il responsabile dell’associazione Andrew Bibby, che fra poco dovrebbe riaprire la sala comunale a gestione comune, come luogo di riunione, servizi, piccoli esercizi.

“L’amministrazione locale fatica a trovare risorse, dobbiamo farci carico noi. E siamo fortunati ad avere qui tante competenze”. Hebden Bridge non è certo un posto senza problemi, ci sono disoccupazione giovanile, droghe, non è l’Utopia. “Poi c’è la questione del rispondere alla collettività: un problema che non si pone con le istituzioni democraticamente elette che gestiscono servizi. Qualcosa su cui dobbiamo ancora riflettere. Non si può aver sempre tutto deciso da persone che si nominano da sole”. Però risultati concreti ce ne sono. Amy Leader, 35 anni, tornata a casa tre anni fa dopo aver lavorato a lungo a Londra, è una delle tre nuove assunte dalla Hebden Bridge Community Association. Presiede anche la sezione locale del Women's Institute che ha fondato dopo aver scoperto che ci sono “donne straordinarie che non si conoscono tra loro. Quando sono tornata ho deciso di impegnarmi qui. E il resto è venuto da sé, straordinario. C’è tanta energia avvertibile in tutte le attività, che si tratti di un incontro abbastanza noioso di gestione, o in qualcosa di più creativo. C’è la sensazione profonda di una vera soddisfazione, una qualità di vita collettiva che significa qualità della vita di ognuno”.

François Hollande, socialista, è il nuovo presidente di Francia. Ed è la prima grossa spina nel fianco dell'Europa liberista. Della quale rifiuta le politiche di rigore e quindi il trattato intergovernativo sulla regola d'oro. Lo ha ripetuto instancabilmente, ancora domenica a mezzanotte, davanti alla folla stipata sulla piazza della Bastiglia, una folla mai vista, inattesa, che si è raccolta in tutte le piazze dell'esagono, prima di tutto in quella del suo collegio nella Corrèze, poi nel piccolo aeroporto di Brive, poi all'arrivo nell'aeroporto del Bourget e di là un corteo improvvisato di moto, auto, biciclette ad accompagnarlo - corteo allegro fitto e pericoloso - fino a Parigi, dove il servizio d'ordine ha stentato a fargli strada fino al palco sulla Bastiglia. La gente lo aspettava dalle otto, appena la vittoria era stata annunciata, zeppa di giovani e giovanissimi, di inattese bandiere di altri paesi, di gente felice. Felice era anche lui, Hollande, ma - ha subito aggiunto - «felici sì, euforici no, molte difficoltà ci attendono. Dovremo batterci, sia io che voi».

Non si può dire che abbia seminato illusioni. È il primo presidente socialista dopo Mitterrand, ma nel 1981 la situazione era meno grave di oggi. Ha ribadito, martellandoli, gli impegni cui non potrà sottrarsi. Due prioritari: più uguaglianza nei mezzi (dunque più lavoro, priorità alla grande disoccupazione giovanile, più potere d'acquisto con aumento subito del salario minimo) e nei diritti (fine di ogni discriminazione degli immigrati). E più giustizia redistributiva. Fine dei tagli nei servizi sociali, sessantamila nuovi impieghi fra sanità e scuola. E tutto questo pagato come? Non solo con i risparmi, ma con la crescita e tassando gli alti redditi fino al 75 per cento - cagnara dell'opposizione, ignara che Roosevelt era arrivato all'83. Tira un'aria di new deal, la destra e i moderati di Le Monde mettono le mani avanti.

È vero, ma Hollande, differentemente da Sarkozy, è un economista; uscito dalla ENA ai primi posti, sa che cosa è un bilancio, non straparla. Sa che la Francia ha un debito pubblico maggiore del nostro, anche se di minori proporzioni rispetto al Pil, ma sa anche che il rigore unilaterale non porta da nessuna parte, se non alla catastrofe economica della Spagna e a quella anche politica di una Grecia spaccata in quattro. Sa che di crescita si parla ormai un po' dappertutto, ma le ricette sono opposte: Hollande precisa che la sua si fa con l'aumento degli occupati, l'incremento delle tecnologie, e la tassazione degli alti redditi. Non crede affatto che si cresca tassando duramente pensioni, salari, servizi sociali ed enti locali, che riducono sia il potere d'acquisto dei più deboli sia le entrate pubbliche, e non è affatto persuaso - come Monti e la sinistra italiana - che i ricchi non devono essere disturbati perché investano nella produzione. Essi investono nella finanza «ed è la finanza - ha detto - il mio nemico». Pareva, al trio Merkel Sarkozy Monti e alla stampa al loro seguito, che dovesse venire giù il mondo. Ma i mercati sono più innervositi dalla Grecia che dalla svolta francese.

Calmo, deciso, normale quanto era agitato Sarkozy, alla mano, serio e non privo di humour, la vittoria di Hollande è quella di un uomo deciso, con un'idea in testa e capace di tessere attorno a sé tutte le forze del già rissoso Partito socialista e delle altre sinistre. Prenderà formalmente i poteri il 15 maggio, partirà subito per Berlino, poi per gli Stati Uniti, e al ritorno sarà davanti alle elezioni legislative dalle quali deve ricevere una maggioranza. È assai probabile che la avrà, e che dovrà negoziare con Jean-Luc Mélenchon (Front de gauche), che lo ha sostenuto con i suoi quattro milioni di voti, senza porre condizioni ma in autonomia (nelle legislative può averne di più, era arrivato nei sondaggi al 17 per cento, battendo il Fronte nazionale nelle zone operaie) e con i Verdi, il cui basso risultato al primo turno delle presidenziali si deve alle strettoie della legge di de Gaulle. Mélenchon lo incalzerà sui salari e sull'Europa, Eva Joly sul nucleare. Sull'Europa si tratta di modificare, fra le regole, l'interdizione alla Bce di finanziare gli Stati, sul nucleare di passare alle energie alternative per sostituire ben 58 centrali (cui attinge anche l'Italia). Un programma gigantesco, che incontrerà più ostacoli a Bruxelles che a Washington.

Intanto, nell'interregno cui è costretto fino al 15 maggio e, in buona parte, fino alle legislative, Hollande ha deciso due piccole cose che poteva decidere - ha ridotto del 30 per cento le indennità del presidente della Repubblica e dei ministri, e ha interdetto il cumulo delle cariche, fine dei sindaci ministri e dei ministri sindaci. Vecchia tradizione del notabilato che si rompe, come si è rotto ieri il primato di Parigi nel cerimoniale della nomina del Presidente. Hollande ha parlato prima nel suo collegio che nella capitale ed è uno strappo grosso. Anche se la capitale ha votato massicciamente per lui, come tutti i grandi centri urbani, periferie difficile incluse. Il Fronte nazionale appare forte ma radicato, salvo alcune zone al sud, nello scontento delle campagne.

Insomma, tempi difficili ma un varco in Europa si è aperto. In direzione opposta alla risorgenza delle destre. Farebbero bene a pensarci in Italia sia Bersani, sia Giorgio Napolitano artefici dell'unità nazionale liberista. E tutti gli araldi dell'inevitabilità dell'antipolitica, dell'astensionismo e della fine di una differenza fra destra e sinistra. Dove una sinistra ha il coraggio di esistere e dichiararsi tale, può vincere. La Francia, esplicitamente divisa, vede più chiaro e ha giocato una carta che anche in Italia, se coraggio ci fosse, sarebbe vincente.

Dall'8 maggio della vicenda si occupa il Consiglio di Stato. Il progetto presentato nel 2004 dal costruttore Muto prevede la costruzione di 200 villette, alberghi e altri edifici sulle rive del Mincio. Un lungo braccio di ferro, fatto di decisioni politiche, sentenze e ricorsi: lo scontro tra il business e la salvaguardia dell'ambiente

È il paesaggio mantovano che Andrea Mantegna ha incorniciato nella grande finestra che fa da sfondo alla Morte della vergine, dipinto nel 1462 e ora al Prado di Madrid: il fiume Mincio che si allarga e diventa lago, il ponte che lo attraversa. Se si realizzasse il progetto che prevede di costruire un quartiere di centottantamila metri cubi - duecento villette, alberghi e altri edifici per milleduecento abitanti - proprio lì dove il ponte tocca la sponda e una cortina di pioppi sfiora l'acqua, quel paesaggio non sarebbe più lo stesso. Alterato per sempre. Tutto dipende da cosa deciderà, a partire da martedì 8 maggio, il Consiglio di Stato presso il quale pende il ricorso di una società immobiliare, la Lagocastello, contro una sentenza del Tar Lombardia che a quella società aveva già dato torto, dichiarando validi i vincoli posti dalla Soprintendenza su tutta l'area dei laghi intorno alle mura di Mantova.

La partita è delicata e si combatte da anni, intrecciandosi alle vicende politiche della città, dividendo gli schieramenti anche al loro interno. È in gioco uno dei paesaggi urbani che sintetizzano i più celebrati valori del Rinascimento italiano. I laghi mantovani abbracciano le mura della città sovrastate dal castello di San Giorgio e dal Palazzo Ducale, che custodisce le opere di Mantegna (fra le quali la Cameradegli sposi) e poi di Pisanello e di Giulio Romano. Architetture e natura compongono un insieme che va tutelato, stando alla Soprintendenza e alla Direzione regionale dei beni culturali della Lombardia. Che aggiungono un altro elemento: anche i laghi sono opera dell'uomo e modellati in maniera da costituire un sistema che va conservato nella sua interezza, come se fosse un monumento. L'integrità di questo complesso paesaggistico e la sua percezione verrebbero stravolte dalle costruzioni. Da qui un vincolo di inedificabilità che stronca i progetti di lottizzazione e salva un patrimonio sul quale vigila anche l'Unesco.

Tutto ha inizio negli ultimi mesi del 2004. La società Lagocastello, di proprietà di Antonio Muto, calabrese di Cutro, in provincia di Crotone, diventato negli anni uno dei più ricchi e potenti costruttori del mantovano, presenta un progetto all'amministrazione comunale, allora retta dal diessino Gianfranco Burchiellaro. Per vararlo è però necessaria una variante urbanistica, che viene approvata facendo una corsa contro il tempo, evitando che la fine della legislatura, nella primavera del 2005, blocchi tutto. I consiglieri della maggioranza vengono precettati, uno di loro, in ospedale per assistere un parente, viene prelevato dai vigili. Più volte manca il numero legale, ma alla fine la variante passa con i voti di due consiglieri del centrodestra. E subito partono il cantiere e gli sbancamenti.

Ma contro quell'insediamento monta la protesta di una parte della città. Alle elezioni del 2005 si candida a sindaco per i Ds Fiorenza Brioni che fin dalle prime battute della campagna elettorale annuncia che farà di tutto per bloccare il progetto di Muto. Gli elettori la premiano con una netta vittoria al ballottaggio. Appena insediata, Brioni parte lancia in resta, ma si accorge subito che parte del suo stesso gruppo non la segue. Inoltre le procedure amministrative per superare il voto del precedente Consiglio comunale non sono semplici. Ma anche il progetto di edificazione ha i suoi punti deboli. Li scova un ingegnere esperto di norme urbanistiche e consulente di molte Procure, Paolo Rabitti: il piano interessa un'area grande una trentina di ettari ed essendo incluso nel perimetro del Parco del Mincio necessita di una Via (Valutazione di impatto ambientale). Che non c'è. E dunque è viziato. Il sindaco firma un provvedimento che sospende i lavori. Ma contro questa decisione il costruttore fa ricorso al Tar, ottenendo che il provvedimento sia sospeso.

Inizia un braccio di ferro interminabile, fatto di ricorsi e di pronunce del Tar e del Consiglio di Stato. Intanto si mobilitano le associazioni ambientaliste - Italia Nostra, il Fai, Legambiente - tutte a sostegno del sindaco. Interviene Salvatore Settis. A favore delle villette si schiera invece Vittorio Sgarbi. Il caso mantovano diventa un caso nazionale. Nel 2007 viene emesso dalla Soprintendenza un primo vincolo, che però viene bocciato dal Tar. Il vincolo viene riproposto nel 2009 e questa volta, siamo nel marzo del 2011, passa il vaglio dei giudici amministrativi. Inoltre il Consiglio di Stato stabilisce che la Via è obbligatoria, nonostante quanto sostiene una perizia tutta a favore dei costruttori: la firma l'allora Provveditore alle opere pubbliche della Toscana, Fabio De Santis, finito in galera nell'inchiesta contro Angelo Balducci, Diego Anemone e gli altri della "cricca".

Nel frattempo è cambiata la scena politica cittadina. Nel 2010 Fiorenza Brioni è stata sconfitta alle elezioni (in molti hanno parlato di "fuoco amico" alimentato proprio dalla polemica sulla lottizzazione) e sindaco è stato eletto Nicola Sodano, Pdl. Che ha assunto un atteggiamento molto più morbido verso i costruttori, preoccupato, ha dichiarato, per le richieste di risarcimento minacciate da Antonio Muto. Il quale conta su diversi amici nel partito del sindaco, fra i quali Carlo Acerbi, capogruppo in Consiglio comunale e amministratore della società Ecologia & Sviluppo s. r. l. di cui Muto è socio unico.

La vicenda è alle ultime battute. Il Consiglio di Stato deve decidere se sono prevalenti le ragioni di un privato che da un decennio guarda alle sponde del Mincio e alle mura di Mantova come un'irripetibile occasione di business. O se invece vale di più la difesa di un paesaggio che resterebbe intatto soltanto sullo sfondo di un quadro.

La crisi che sta squassando il Paese (un suicidio al giorno) ha una delle sue cause nella stessa Costituzione della Repubblica, sicchè ne sarebbe urgente la riforma?

No, la Costituzione non ha nessuna colpa, e anzi la crisi consiste precisamente nel fatto che essa non è attuata. Se lo fosse, la Repubblica (cioè il potere pubblico) rimuoverebbe gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3); se lo fosse, la Repubblica renderebbe effettivo per tutti il diritto al lavoro (art. 4); sarebbe tutelato, anche contro le alluvioni, il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9); i giovani che vogliono formarsi una famiglia sarebbero “agevolati” dalla Repubblica con misure economiche e altre provvidenza (art. 31); la salute sarebbe tutelata (art. 32); la scuola pubblica non subirebbe tagli ma incentivi e nessuno potrebbe pensare di abolire il valore legale dei titoli di studio (art. 33); il diritto allo studio e il diritto anche degli indigenti a raggiungere i gradi più alti degli studi sarebbe reso effettivo dalla Repubblica con borse, assegni alle famiglie ed altre provvidenze (art. 34); il lavoro sarebbe tutelato in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), e così via.

Tutto questo invece non accade perché l’Italia è passata, senza che nessuno ne desse ragione e nessuno vi consentisse, da un regime a un altro, da una Costituzione ad un’altra, per cui si è deciso e si è accettato che tutte queste cose che dovrebbe fare la Repubblica le faccia invece il Mercato, cioè il potere privato e la legge della competizione e del profitto.

Perché questo passaggio di consegne fosse totale e irreversibile le forze politiche, tradendo il mandato costituzionale, hanno fatto a gara per privare la Repubblica sia delle risorse finanziarie (le tasse da evadere) sia degli strumenti operativi (Enti di Stato, partecipazioni industriali, piani di sviluppo) sia della stessa legittimazione a intervenire nella vita economica e a fronteggiare le crisi con le politiche di bilancio. Sicchè se anche nuove maggioranze e nuovi governi volessero ripristinare il ruolo e le finalità dell’azione pubblica, non potrebbero perché la Repubblica nel frattempo è stata resa del tutto impotente a rimuovere gli ostacoli, a rendere effettivi i diritti, a garantire, tutelare, promuovere, agevolare, proteggere, cioè a compiere quelle azioni che corrispondono a tutti i verbi con cui nella Costituzione sono definiti i suoi compiti. E se tale impotenza è stata per lungo tempo la conseguenza di una cattiva politica, ora con il rigorismo liberista del governo Monti e l’avallo degli altri poteri, diverrà un obbligo, frutto di una modifica strutturale dell’ordinamento e di una nuova definizione della Repubblica. La modifica, in quattro e quattr’otto dell’art. 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio ne è il primo segnale.

Invece di porre rimedio a tutto ciò, la riforma costituzionale a cui stanno lavorando i tre partiti che mediante i tecnici governano oggi l’Italia, tende a rendere insindacabile il potere politico e a mettere il presidente del Consiglio al riparo dalla sfiducia delle Camere, cioè a vanificare il più tipico e decisivo istituto della democrazia parlamentare.

L’accordo su cui si discute all’apposita Commissione del Senato, sulla base di un testo unficato presentato il 18 aprile scorso dal relatore Vizzini, prevede, per ingraziarsi la plebe, un’irrisoria e casuale diminuzione del numero dei parlamentari (da 630 a 508 deputati e da 315 a 254 senatori), ma per il resto comporta tre riforme destinate a cambiare la figura dello Stato.

La prima consiste nel confermare il bicameralismo, con due Camere ambedue elette a suffragio universale e quindi aventi la stessa dignità, ma con una gerarchia di competenze inegualmente distribuite tra loro e una rottura per materie dell’unicità delle fonti della legislazione e quindi dell’unità dell’ordinamento; la seconda consiste in una torsione presidenzialistica e leaderistica del sistema di governo, con un presidente del Consiglio provvisto di investitura popolare, dotato del potere di chiedere la nomina e la revoca dei ministri, e unico destinatario della fiducia del Parlamento, che sarebbe chiamato a votare per lui e non per l’intero ministero; la terza consiste nel rendere impraticabile il meccanismo della sfiducia: che potrebbe essere votata solo dal Parlamento in seduta comune con la maggioranza assoluta sia dei deputati che dei senatori, ciò che sta a significare la solennità, l’eccezionalità e l’implausibilità dell’evento; né le Camere potrebbero votare impunemente contro una legge su cui il governo ponesse la fiducia, senza cadere nella tagliola dello scioglimento che in tal caso il presidente del Consiglio farebbe scattare nei loro confronti; né potrebbe darsi sfiducia al capo del governo se non grazie a un ribaltone perfettamente organizzato dalla sua stessa maggioranza, con la contestuale indicazione di un altro presidente del Consiglio.

Sembra impossibile che i tre partiti possano fare insieme appassionatamente una tale riforma, così divisi e diversi come sono. In ogni caso occorre vegliare e resistere.

Riflettere attorno al tema del paesaggio, in Italia e in particolare a Milano, che nel nostro Paese rappresenta una delle aree a più alto tasso di disordinata urbanizzazione, è una buona occasione per affrontare tutte le contraddizioni che caratterizzano i nostri comportamenti sul tema stesso. Come italiani, pur avendo promosso la Convenzione europea sul paesaggio, continuiamo a essere tra i più scriteriati consumatori di suolo dell'intero continente e, anche in tempi economicamente magri come questi, ci mangiamo, tra abusivismo e lassismo, leggi eluse o leggi compiacenti, centinaia di ettari al giorno sull'altare di una edilizia discutibile per qualità e per utilità.

È una politica irresponsabile, qui come altrove, che consuma territorio e suolo, a danno di altre finalità necessarie, che sono verde pubblico, agricoltura non intensiva in una parola, paesaggio. Una politica, per noi, doppiamente colpevole, perché in Italia il paesaggio non è solo l'indice di un rapporto armonico o disarmonico tra i luoghi e i suoi abitanti. È anche un prodotto vendibile, un attrattore pregiato che può convogliare verso l'Italia, in modo selezionato e territorialmente diffuso, e in particolare verso Milano con l'approssimarsi dell'Expo, visitatori e risorse economiche. Grazie a quello che continuiamo a chiamare «turismo» inteso come mix di bisogni culturali, in senso ampio, cioè l'insieme delle attività, delle emergenze storiche, delle iniziative necessarie per conservare, anche in senso evolutivo, la nostra identità. Il paesaggio riassume tutti quei valori cui il TCI, da 118 anni, rivolge ogni impegno perché sia difeso, valorizzato e promosso.

Quest'anno il Touring ha distribuito a tutti i suoi soci un volume, realizzato in collaborazione con Coldiretti, intitolato «Campagna e città» (invertendo, il binomio città e campagna spesso esaminato dagli storici) con un sottotitolo che recita: dialogo tra due mondi in cerca di nuovi equilibri. Un dialogo in atto, con segnali di un consapevole ritorno. Il rapporto campagna-città sarà anche uno dei temi centrali affrontati proprio nell'Expo 2015: per TCI e Coldiretti rappresenta un'altra grande occasione per dei progetti comuni.

È fortemente auspicabile che Milano da qui al 2015 riveda la condizione urbanistica del suo territorio e con buon senso, realismo, senza inseguire progetti utopici di improbabile realizzazione, si dedichi ad una ottimizzazione degli spazi, valorizzi la sua eccellente (e spesso insospettata) agricoltura urbana e suburbana, destini razionalmente a un uso finalizzato ai temi propri dell'Expo tutti quei «non luoghi», quelle aree degradate e recuperabili che solo la crisi economica ha salvato da una edilizia forsennata, inutile e di bassa qualità.

Anche fuori dall'area espositiva vera e propria, la città deve porgersi all'Expo. E il Touring, associazione nazionale che ha qui la sua sede centrale, crede nel ruolo turistico di una agricoltura corretta e responsabile come elemento principale per disegnare o ripristinare un paesaggio di elevato valore artistico.

Ci sono sfide che vale la pena affrontare. Che altrimenti il rischio è restare prigionieri di alibi, senza fare un passo avanti né indietro. «La legge che regola il sequestro e la confisca dei beni va rivista e soprattutto vanno rivisti i criteri base dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati» riflette il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri che ha incontrato Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato nazionale per la legalità dopo la sua proposta di un progetto-pilota per provare a mettere a reddito, cioè vendere o far fruttare, i beni confiscati alle mafie. Un tesoretto di 20 miliardi che lo Stato non riesce a capitalizzare. Ministro, la sua sembra una proposta choc: snellire le regole e la burocrazia pur di vendere quei beni e andare avanti. Sta rompendo un tabù? «Senza scomodare categorie impegnative, dico che quella dei sequestri, della confisca e del riutilizzo dei beni (la legge Rognoni-La Torre, ndr) è un dispositivo di norme concepite molto tempo fa quando i sequestri erano oggettivamente pochi. Oggi sono molti di più, tanti e soprattutto molto diversificati quindi vanno cambiate le regole. Per questo d’accordo col ministro della Giustizia Paola Severino penso a un ddl che consenta ampio dibattito parlamentare su un tema così delicato». Il tabù era riferito alla possibilità di vendere quei beni, o metterli a reddito in qualche modo, correndo il rischio che tornino nelle mani dei clan.

«Non dobbiamo aver paura di mettere in vendita i beni confiscati. Il rischio di tornino nelle mani dei clan esiste ma, pazienza: vorrà dire che saranno nuovamente sequestrati e confiscati e che lo Stato ci guadagnerà due volte».

Sembra molto sicura?

«Ho avuto modo di parlarne spesso, non solo da ministro, con vari magistrati antimafia. Sono loro i primi a dire di andare avanti, a non voler restare ostaggi della paura. O di certe ideologie».

Montante propone un progetto pilota, individuare una zona e sperimentare in quel territorio lo snellimento delle procedure e la vendita dei beni. Per provare a mettere a reddito quel patrimonio di 20 miliardi. È d’accordo?

«Concordo con l’analisi di Montante, anche se a questo punto corro il rischio di sembrare faziosa (il ministro sorride ndr) visto che ho già appoggiato e siamo quasi arrivati a compimento con la proposta del rating antimafia per le aziende virtuose. La legge Rognoni-La Torre è un testo di garanzia, con una storia antica che nasce però in un momento in cui la lotta alla mafia dava altri risultati. È una legge calibrata sulle gestione di poche cose. Oggi è tutto diverso. E dobbiamo adeguare gli strumenti. Semplice».

Cosa e in che modo?

«Ad esempio penso a percorsi diversificati a seconda della tipologia dei beni. Una cosa è mettere a reddito un negozio di focacce, altra vendere una villa. Altro ancora un’attività industriale e produttiva...»

Clamoroso il caso di Riela group, azienda leader nei trasporti in provincia di Catania, proprietà dello Stato dopo la confisca e che ora rischia di chiudere definitivamente e di mandare a casa 22 dipendenti.

«Appunto. Di fronte a realtà di questo genere il rischio è dare un messaggio perverso, e cioè che i clan riescono a garantire occupazione e sviluppo mentre l’arrivo dello Stato significa disoccupazione e impoverimento. Di fronte a questo rischio, molto meglio provare a vendere a chi può acquistare aumentando ancora di più il massimo controllo di legalità. Se poi dovessimo trovarci di nuovo a tu per tu con le famiglie, scatteranno nuovi sequestri e confische. Non solo, penso sia superata ormai la regola per cui i beni confiscati abbiano una destinazione sociale e debbano essere affidati ad enti locali e istituzioni pubbliche per finalità sociali. I comuni oggi, spesso, non hanno soldi e quei beni perdono valore inutilizzati. Credo sia giusto invece darli il prima possibile a chi li può mettere a reddito creando occupazione e ricchezza».

Il prefetto Caruso, a capo dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, denuncia il problema delle ipoteche bancarie sui beni mafiosi.

«Funziona così: il mafioso che sa di avere il fiato di qualche procura sul collo, intimidisce la banca, pretende un’ipoteca e porta a casa l’80% del valore dell’immobile. Che quando viene confiscato è proprietà della banca. È un problema serio. Il prefetto Caruso lo sta affrontando. Ecco perchè credo sia opportuno modificare il funzionamento dell’Agenzia nata tre anni fa ma su basi, come dicevamo, antiche».

Modificare, in questo caso, come?

«Credo che alla base sia necessaria molta liberalità. Non c’è più spazio per carrozzoni tipo Iri. Occorre un’agenzia agile, con una sola sede invece di cinque e pochi dipendenti. Vanno invece sfruttate di più le prefetture e presa in esame la possibilità di ricorrere a manager di fronte a casi specifici. L’Agenzia deve trovare la forza di autoalimentarsi. Non può diventare un altro peso per lo Stato».

Qualcuno dirà che il governo tecnico cerca di limitare l’azione dell’Agenzia. Non teme questa reazione?

«Nessuno limita nulla. Qui vogliamo solo che le strutture centrali siano più snelle e in grado di funzionare meglio».

Siamo sicuri che sia colpa solo dell’Agenzia? A Bari la gelateria Gasperini sequestrata alla mafia barese due mesi, è già stata riaperta dall’amministratore giudiziario che si è fatto carico dei rischi. A Roma l’Antico Caffè Chigi, sequestrato un anno fa alla ’ndrangheta, resta chiuso. Qual è la vera Agenzia?

«È chiaro che tutti si devono responsabilizzare e assumere i propri rischi. Quando parlo di modifiche legislative, con un nuovo disegno di legge, mi riferisco anche a questo: a monte sono necessari coordinamento e regole chiare; il resto dipende anche dalle persone che vanno sapute motivare. L’Agenzia è nata nel 2009 ma solo sulla carta: i decreti attuativi risalgono a due mesi fa».

Ministro, ha appena aderito alla campagna contro il femminicidio lanciata da “Se non ora, quando”.


«È il minimo che potessi fare. 57 vittime dall’inizio dell’anno, e quasi tutte per mano del compagno o dell’ex. E il numero dei reati aumenta se si aggiungono quelli non denunciati, ancora tantissimi. Il mio impegno, e non solo da oggi come ministro, è quello di cercare di far crescere la voglia delle donne a reagire alle continue violenze domestiche. Tutte le forze dell’ordine, le donne e gli uomini del ministero, sono impegnati a praticare, coltivare e diffondere una cultura del rispetto che è l'unico antidoto contro qualsiasi forma di violenza».

A proposito di donne-vittime, giovedì è stata in Calabria ed ha incontrato il sindaco di Monasterace Carmela Lanzetta. Com’ è andata?

«È una donna straordinaria che chiede solo di poter fare il sindaco in modo normale. Sempre di più ci dobbiamo rendere conto che fare il proprio dovere con normalità è il vero eroismo».

Postilla

Aveva proprio ragione Keynes: le idee sbagliate alla fine sono più dure dei fatti. Come nel caso della vendita dei beni demaniali - al di là di altre considerazioni di opportunità, di merito e di etica - l'idea di alienare anche i beni confiscati, nell'attuale congiuntura, avrebbe solo l'effetto di scaricare sul sistema delle imprese le difficoltà della finanza pubblica.

Nel bel mezzo della più drammatica crisi da domanda dal 1929, il Governo ritiene insomma che le imprese dovrebbero ricorrere al credito non per riconvertirsi, per rafforzarsi e innovarsi nei settori che tirano a scala globale, quelli della green economy e della conoscenza, ma per comprare terre e immobili, ripercorrendo alla fine lo stesso triste percorso che ha condotto all'esplosione della bolla speculativa.

Insomma, sottrarre al sistema economico 20 miliardi (più 6 per la dismissione del demanio) vendendo terre e immobili sembra proprio una sciocchezza, un bel modo per impoverire e rendere ancor più fragile e arretrato il mondo dell'impresa e del lavoro in Italia.

A meno che non si tratti di un disperato tentativo di terapia omeopatica a larga scala, dove la malattia viene combattuta somministrando la stessa tossina che la causa. (a.d.g.)

Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cui 157 sopra i 15 mila abitanti, compresi 26 capoluoghi di provincia. Potrebbe apparire una consultazione minore. Ma in Italia nessuna elezione lo è.

Perché tutte le elezioni - e soprattutto quelle comunali - servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent´anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.

Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.

1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All´elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell´Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell´Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò - e accelerò - il profondo mutamento del clima d´opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.

Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.

2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal "montismo", che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all´opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l´attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di "Grande coalizione" sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all´Udc. Spesso diviso in diverse liste. L´Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione - allargata in 20 casi all´Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all´Udc, in competizione con Sel e/o l´Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un´occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.

3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po´ semplicisticamente, nella formula dell´antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle "liste civiche", utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste - in media, quasi 17 per Comune - e 991 candidati sindaci - oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.

Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti - di molti altri più piccoli - tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.

4. L´ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent´anni fa, nel 1993, la legge sull´elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent´anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati - quanto poco "supportati" - dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un "federalismo a parole". Il governo tecnico, legittimato - e spinto - dall´emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da "attori" a "esattori". Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari - e a ricucire il rapporto con la società - per conto terzi. Con l´esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.

Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni - anche e soprattutto - la fine della "Repubblica dei Sindaci".

La replica del pm Giuseppina Mione al processo sulla urbanizzazione dell’area di Castello, nel quale sono imputati per corruzione, fra gli altri, gli ex assessori Pd Gianni Biagi e Graziano Cioni e il costruttore Salvatore Ligresti, patron di Fondiaria Sai, proprietaria dei terreni

Gli scempi compiuti in nome dell’urbanistica contrattata e la lottizzazione politica degli incarichi sono stati i temi più sottolineati nella replica del pm Giuseppina Mione al processo sulla urbanizzazione dell’area di Castello, nel quale sono imputati per corruzione, fra gli altri, gli ex assessori Pd Gianni Biagi e Graziano Cioni e il costruttore Salvatore Ligresti, patron di Fondiaria Sai, proprietaria dei terreni. Il processo si avvia alla conclusione. Altre due udienze di maggio saranno riservate alle repliche dei difensori. Il tribunale tornerà a riunirsi in aula bunker il 29 giugno e per quel giorno è prevista la sentenza.

"L’urbanistica contrattata ha rappresentato per i difensori un tema salvifico. Ci si sono gettati a capofitto", ha osservato il pm Mione. Molti avvocati hanno sostenuto che le norme urbanistiche non escludono e in alcuni casi prevedono convenzioni fra pubblico e privato. "Si è criticato aspramente il pm per la sfiducia negli accordi fra privati e pubblica amministrazione", ha replicato Giuseppina Mione: "Eh sì —ha aggiunto con una punta di ironia venata di amarezza — perché notoriamente la pubblica amministrazione italiana è forte, è un interlocutore capace di garantire l’interesse pubblico e di sottrarsi alle lusinghe corruttive. Noi siamo stati invitati a studiare il diritto amministrativo. Ed è giusto. Noi invitiamo i difensori a leggere i numerosi testi che documentano gli scempi compiuti in nome dell’urbanistica

contrattata. E chiediamo se per caso essa autorizzi i pubblici amministratori a scostarsi dal ruolo ad essi affidato dalla Costituzione, che è quello di rappresentare e difendere l’interesse pubblico. In questa vicenda urbanistica l’interesse pubblico è stato la stella polare per gli amministratori? La risposta per il pm è no. I difensori sostengono che l’assessore Biagi voleva una cosa bella, voleva che in quell’area sorgesse un mix di funzioni. In realtà ha fatto esattamente il contrario. Ha favorito il rilascio di permessi per la realizzazione di case e centri commerciali, quando ancora non si sapeva se Regione e Provincia si sarebbero spostate in quell’area, né se sarebbe sorto il parco, né se la convenzione sarebbe stata buttata all’aria in forza di accordi che si proponevano di portare a Castello un indotto del tutto nuovo: la cittadella dello sport. Per volontà dell’assessore Biagi sono stati rilasciati permessi al gruppo Ligresti che hanno aumentato a dismisura il valore dell’area. Questa non è urbanistica contrattata, è interesse pubblico svenduto".

Riguardo agli incarichi professionali agli architetti Vittorio Savi e Marco Casamonti, per un importo complessivo a carico di Fondiaria Sai di circa tre milioni di euro, il pm ha sostenuto che "nessuna norma può rendere lecita la nomina occulta di professionisti voluti da un assessore a spese del privato". E ricordando che i nomi dell’assessore Biagi e degli architetti Savi, Casamonti e Natalini (altro professionista indicato a Fondiaria) figurano nella lista degli aderenti al Partito democratico, ha parlato di "rapporto collusivo intessuto da Biagi con professionisti che quanto meno erano a lui vicini politicamente". Per concludere con una stoccata: "I difensori non hanno mai sentito parlare di lottizzazione politica, di incarichi pilotati?".

Corriere della Sera Milano

Gli artisti del gruppo «Macao» occupano la torre Galfa

di Livia Grossi

«Vogliamo restituire ai cittadini la Torre Galfa». Da ieri il primo dei 31 piani del grattacielo tra via Fara e via Galvani, abbandonato da oltre 15 anni (proprietà gruppo Ligresti), diventa la sede di Macao, il nuovo centro per le arti di Milano. A ridargli vita, un gruppo di «lavoratori dell'arte» composto da artisti, critici, grafici, performer, giornalisti, studenti e insegnanti, una compagine compatta unita da un solo obiettivo: «La cultura come bene comune»; la stessa parola d'ordine che ha mosso diverse occupazioni, dal Teatro Valle di Roma, alle Docks di Venezia, al Teatro Garibaldi di Palermo.

«Un luogo aperto a tutti dove artisti e abitanti del quartiere possono partecipare in prima persona, l'unico modo per far diventare la cultura un soggetto di trasformazione sociale», afferma il collettivo Macao. Laboratori artistici, teatro, musica, film, dj set, ma anche assemblee cittadine (oggi ore 14) e momenti d'incontro con il gruppo San Precario (oggi pomeriggio) e riflessioni collettive sulla formazione in collaborazione con rappresentanti delle università milanesi e incontri sul tema «stereotipi di genere». Un calendario aperto, aggiornato di ora in ora, un lavoro entusiasta anche nelle fasi più difficili. «I lavori di pulizia e di messa in sicurezza sono già iniziati — fanno sapere gli occupanti — come quelli di costruzione del palco che ospiterà performance create ad hoc per lo spazio». Dopo l'inaugurazione di ieri sera con Andrea Labanca e Cassandra Casbah, stasera sono attesi Paolo Bonfanti, i Motus, Walter Leonardi e una special guest a sorpresa.

Ma i contenuti sono più importanti. «Non siamo un sindacato né vogliamo diventarlo», sottolineano i portavoce. «Siamo quella moltitudine di lavoratori precari delle industrie creative tagliati fuori anche dall'attuale riforma del lavoro, tutta concentrata intorno all'articolo 18. Macao è la risposta a una città devastata dalla logica, fare il profitto di pochi per escludere i molti».

Cosa vi aspettate dalla giunta Pisapia?

«Il nostro interlocutore non è il Comune, è la cittadinanza» rispondono, «Macao vuole essere un ambiente diverso, né luogo istituzionale né privato, un luogo gestito dai cittadini. Boeri ieri, di passaggio alla torre, ha fatto trapelare possibili soluzioni, vedremo».

Quali sono i rapporti con la proprietà?«Nessuno. Per ora sappiamo che la Torre è sotto tutela dei Beni culturali, dopo essere stata la sede della Banca Popolare di Milano, il palazzo è stato venduto all'Immobiliare lombarda del Gruppo Ligresti. Dopo la bonifica per l'amianto del 2008, i lavori di ristrutturazione sarebbero dovuti partire l'anno scorso, ma la torre è tuttora vuota e senza lavori in corso. Sappiamo che c'è un curatore fallimentare che sta gestendo i rapporti con i creditori», concludono i manifestanti.

la Repubblica Milano

L’arte invade i 31 piani della torre Galfa

di Alessandra Corica

Grattacielo occupato: ieri mattina i Lavoratori dell’Arte hanno invaso i 31 piani della Torre Galfa, il grattacielo di proprietà del gruppo Ligresti alle spalle della Centrale, abbandonato da anni. Scopo: realizzare Macao, un centro per l’arte e la cultura, in cui tutti i cittadini possano andare e partecipare attivamente. «In Italia si investe poco sulla cultura», spiegano gli occupanti. Il Comune mette dei paletti:« Gli spazi vuoti a Milano ci sono, stiamo studiando come utilizzarli. Ma il no alle occupazioni abusive è netto».

L’arte all’attacco dei grattacieli. Ieri i protagonisti della scena creativa milanese hanno occupato la torre Galfa, per chiedere «un luogo per la cultura in cui tutti possano partecipare e sentirsi protagonisti». Sono i Lavoratori dell’Arte, il collettivo di artisti che già a dicembre aveva occupato il Pac per chiedere luoghi per la creatività a Milano. Ieri hanno preso di mira il grattacielo alle spalle della Centrale. Scopo: dare vita a Macao, «un nuovo centro per le arti, un esperimento di costruzione dal basso di uno spazio dove produrre arte e cultura». Tra gli occupanti, anche i lavoratori del teatro Valle di Roma (in autogestione dal giugno 2011), quelli del teatro Coppola di Catania, del Garibaldi di Palermo, del Sale Docks di Venezia e dell’Asilo della creatività di Napoli. Tutti all’insegna della stessa frase, scritta su uno striscione di 50 metri che da ieri campeggia sull’edificio: «Si potrebbe anche pensare di volare».

L’arte tra fili elettrici, pavimenti divelti e spazzatura. Perché la torre (che sorge tra le vie Galvani e Fara, da cui il nome Galfa) è uno scheletro di vetro e acciaio, «abbandonato da quasi 15 anni», dicono gli occupanti. Che sono danzatori, artisti, attori e creativi di tutte le età, accomunati dalla stessa condizione: la precarietà. «In Italia si investe poco sulla cultura - dice Camilla, frangetta bionda e fisico esile - abbiamo deciso di occupare per rivolgerci non alle autorità, ma alla cittadinanza: vogliamo creare uno spazio autogestito in cui realizzare laboratori, spettacoli e performance». Grattacielo occupato a oltranza, insomma. Dalle 10 di ieri, quando in 150 (nel pomeriggio sono diventati una cinquantina) sono entrati e hanno riempito il primo piano del palazzo, progettato dall’architetto Melchiorre Bega nel 1956. Un edificio avveniristico di 31 piani per 109 metri, annoverato tra i beni culturali della Lombardia. Ma da anni in rovina: costruito per la società Sarom, fu poi acquistato dalla Bpm, che per 30 anni ne fece la sua sede centrale.

Abbandonato dalla metà degli anni ‘90, nel 2006 è stato comprato dalla Fonsai di Ligresti, che lo ha fatto bonificare dall’amianto due anni dopo. Da allora, è in attesa di ristrutturazione. «Abbiamo scelto questo luogo - spiega Andrea, un altro degli occupanti - perché simbolo di una società basata solo su economia e profitto. È per superare questo pensiero che vogliamo costruire Macao. Sarà un centro per l’arte, all’insegna della partecipazione dal basso». In programma ci sono concerti, spettacoli serali e dj set notturni. Un’occupazione a cui Palazzo Marino guarda con preoccupazione «per lo stato dell’edificio». Ieri pomeriggio l’assessore alla Cultura Stefano Boeri ha fatto visita agli artisti. «Ne condivido le idee, ma non l’azione - spiega Boeri - visto che si tratta di un’occupazione abusiva. A Milano ci sono molti spazi vuoti che potrebbero essere una risorsa per le imprese creative: stiamo studiando come fare. Il modello è quello di città come Londra o Berlino, dove gli edifici abbandonati, anche privati, possono essere affidati agli artisti, con la vigilanza delle amministrazioni».

il manifesto

L’arte di occupare un grattacielo non dispiace a Boeri

di Luca Fazio

Esagerati. L’esperimento di costruzione sarà pure partito dal basso, però è forte la tentazione di volare altissimo. Dal 32esimo piano di questo grattacielo occupato gira quasi la testa. Si vede tutta Milano. Bello, anche sotto il primo monsone di maggio. Di fronte svetta «il nuovo» che avanza – lo scempio, oppure un gioiello, è questione di punti di vista: il palazzo di Formigoni, di fianco la pancia di un grattacielo a spirale che punta ancora più in alto (160 m.) e nemmeno troppo all’orizzonte - guarda che combinazione - «il bosco verticale» progettato dall’architetto Stefano Boeri, l’assessore alla cultura del comune di Milano.

Da quassù tira aria di immaginario metropolitano che sta precipitando nel futuro, tutto sta a ridisegnarlo ad immagine e somiglianza di chi la città sempre la subisce senza avere mai la possibilità di costruirsela al di fuori di logiche speculative. Questa è la scommessa delle ragazze e dei ragazzi di Macao, metterci le mani (e anche la faccia) per trasformare la retorica piena di insidie dei beni comuni in «pratiche reali». C’è qualcosa di più folle dell’occupazione di un grattacielo? No, eppure, dopo un anno di Pisapia, veniva quasi spontaneo chiedersi come mai nessuno aveva ancora osato tanto.

Adesso bisogna continuare a ragionare, confrontarsi, discutere, magari anche litigare e prendere la cazzuola. Il grattacielo è malconcio.Ma gli spazi, per ora due piani, sono enormi. Luminosi. Pieni di persone che già fanno e disfano confrontandosi anche solo per darsi il «cinque». Sì, è una figata. Intanto, chi sono. Una parola non basta, in rozza sintesi: sono il Teatro Valle di casa nostra.Maè poco. E nemmeno «giovani» funziona più. Loro dicono che Macao diventerà «il nuovo centro per le arti e la ricerca di Milano », da restituire ai cittadini. Cultura, roba che non si mangia e soprattutto non dà da mangiare - ecco allora spunta la richiesta di unwelfare che garantisca il futuro anche dei lavoratori delle arti applicate o anche solo sognate.

Ma loro chi? Sono artisti (definizione piuttosto scivolosa), curatori, critici, guardia sala, grafici, performer, attori, danzatori, musicisti, scrittori, giornalisti, insegnanti d’arte, ricercatori, studenti, insomma la parte più vivace sfruttata e precaria di questa città che è pur sempre la capitale del terziario avanzato. Ribelli, almeno nelle intenzioni: «Siamo il cuore pulsante dell’economia del futuro, e non intendiamo continuare ad assecondare meccanismi di mancata redistribuzione e di sfruttamento». E questo proposito, tra un suicidio e l’altro, basterebbe come premessa per progettare la rivoluzione.

Da dove cominciare è la questione più controversa, e di questo sono chiamati a ragionare artisti, intellettuali (speriamo anche no), esperti del diritto (speriamo anche di storia o genetica) e attivisti vari. Insomma, cittadini. Ma se lo tengono il grattacielo? Una volta si sarebbe detto: ma quando li sgomberano? L’assessore Stefano Boeri ha l’aria di essere troppo intelligente per non saper gestire una situazione di questo genere, forse è un’occasione da non sprecare, anche per lui e per Milano. Ha detto questo: «Siccome rappresento una istituzione, non posso condividere il metodo dell’occupazione, ma...».

E in quel ma, c’è qualcosa che da queste parti non siamo ancora abituati a sentire: «Le questioni che sollevano gli occupanti sono importanti, a Milano esiste il problema dei troppi spazi inutilizzati per imprese di tipo creativo. Mi auguro che questa esperienza venga formalizzata attraverso forme legali di riutilizzo temporaneo degli spazi, come già accade in città come Berlino. Con un gruppo del Politecnico stiamo lavorando in questa direzione».

Come toccare il grattacielo con un dito (poi tocchiamo ferro).

In occasione della presentazione al Politecnico di Milano di un volume curato da Andrea Arcidiacono e Laura Pogliani [1], si è parlato, sia pure per vaghi cenni, del nuovo PGT: presenti il sindaco Pisapia, l’assessore all’Urbanistica Ada De Cesaris, alcuni relatori titolati, fra cui il professore emerito Giuseppe Campos Venuti.

Aula affollatissima di studenti, docenti e cultori della materia; atmosfera da attesa di una “nuova stagione urbanistica” che, però, a ripensarci, è iniziata in maniera anomala: nessuno dei presenti conosceva, se non attraverso poche paginette di sintesi, i contenuti del nuovo PGT, emendato dagli uffici tecnici del Comune con la consulenza esterna di alcuni ricercatori del Politecnico, quasi tutti riferibili a una molto identificabile area cultural-disciplinare.

Ma anche dopo questo affollato evento, il piano non è stato fatto circolare; solo quando è stato consegnato in forma di bozza a tutti i membri del Consiglio Comunale, se ne è potuto conoscere il contenuto, di fatto ingenerando molte perplessità: in generale, sullo stile di comunicazione della Giunta e dell’Assessorato all’Urbanistica e, in particolare, su alcuni aspetti del piano stesso. La scelta di ri-partire dalle osservazioni dei cittadini per modificare il PGT di Moratti & Soci era stata motivata con argomenti più che condivisibili: restituire democrazia al processo di pianificazione e legittimità di ascolto alla società civile[2]. Ma questa scelta è stata obbligata: per non ‘rifare il Piano’, dati i vincoli strettissimi sui tempi di approvazione e pubblicazione, si è deciso di procedere a una sua correzione, sulla base delle osservazioni ricevute, per passare poi rapidamente al dibattito consiliare e all’approvazione. Si è trattato di una correzione puntuale e pignola, fatta di tagli, aggiunte, modifiche (alcune anche molto consistenti e certamente migliorative, quali la drastica riduzione delle volumetrie previste dall’insensato PGT di Moratti & Soci, la tutela del Parco Sud, l’attenzione per l’housing sociale): ma sul risultato complessivo ci sono molte perplessità.

Alcune riflessioni critiche sono già state pubblicate in eddyburg; mi riferisco alle osservazioni di Italia Nostra, di Alberto Roccella e di Roberto Camagni: le ultime due in particolare nel merito del modello di perequazione urbanistica proposto a suo tempo nel PGT di Moratti & Soci che rimane nella nuova bozza di PGT sostanzialmente inalterato [3]. Intendo di seguito aggiungere qualche elemento alle considerazioni critiche di Camagni e Roccella in merito alla assoluta anomalia della “perequazione sconfinata alla milanese”, o di “seconda generazione” come l’ha più eufemisticamente definita Ezio Micelli.

Esistono esperienze simili in ambito internazionale? Sulla base di una mia ricerca piuttosto approfondita mi sembra di poter sostenere che in nessun paese o contesto locale, neppure là dove il Transfer of Development Rights (TDR) è stato inventato e sperimentato da più lungo tempo, e cioè gli Stati Uniti, se ne trova traccia.

E, naturalmente, la domanda che mi pongo e pongo al sindaco Pisapia è: perché proprio a Milano insistere nello sperimentare questa sedicente ‘innovazione’? perché, soprattutto, per iniziativa di una Giunta di sinistra che si è insediata dopo venti anni di potere berlusconiano in cui la logica del mercato ha totalmente prevalso sulla logica del piano?

Il trasferimento dei diritti edificatori nel paese che l’ha inventato. Gli Stati Uniti.

“If in a given community unchecked popular rule means unlimited waste and destruction of the natural resources - soil, fertility, waterpower, forests, game, wild-life - which by right belong as much to subsequents generations as to the present generation, then it is sure proof that the present generation is not yet really fit for self-control, that it is not yet fit to exercise the high andresponsible privilege of a rule which shall be both by the people and for the people” (Theodore Roosevelt, 1916).

Spesso, gli scritti americani, teorici o operativi, sul Transfer of Development Rights (TDR) iniziano con la citazione di questa frase lungimirante, che precede di 70 anni la nota definizione di sviluppo sostenibile contenuta nel Rapporto Bruntland.

Ed è stato proprio per contrastare lo sprawl insediativo, l’abnorme e incessante dilatazione del suburbio nordamericano divoratore di risorse territoriali, che il TDR è stato sperimentato nel corso del tempo e in numero crescente di Stati e di amministrazioni locali degli USA: uno strumento che viene utilizzato per la prima volta a New York nel 1968 per tutelare gli edifici storici del centro (dove viene incorporato nella “ New York’s Landmarks Preservation”), ma che verrà applicato estesamente, dagli anni ’80 in poi, soprattutto per garantire tutela perenne alle aree agricole suburbane minacciate dal proliferare di quartieri a bassa densità, autostrade e grandi centri commerciali.

Il meccanismo del TDR è noto: per arginare lo sprawl, per preservare il territorio agricolo e tutelare le risorse di paesaggio, si procede a spostare i diritti edificatori che ogni suolo di proprietà privata incorpora negli USA [4]in altre aree già destinate dal piano di zonizzazione locale a funzione residenziale/commerciale/produttiva: acquistando diritti edificatori dalle “ sending zones” (SZ) e trasferendoli nelle “ receiving zones” (RZ), il developer otterrà un surplus di edificabilità ( downzoning), mentre il proprietario del suolo agricolo vedrà per sempre congelato il diritto a trasformare la sua proprietà.

Come già sottolineato, il TDR è stato utilizzato negli USA anche con un secondo obiettivo: tutelare gli edifici storici dei downtown, consentendo che diritti edificatori garantiti dallo zoning in una porzione centrale del tessuto urbano non vengano dal proprietario esercitati demolendo o elevando gli edifici stessi, ma trasferendo la capacità edificatoria concessa in isolati, per lo più prossimi, che gli garantiscano comunque il vantaggio economico atteso.

Il TDR si affida dunque a meccanismi di mercato per rendere più flessibile e, se ben amministrato, più vantaggioso anche per la collettività, il rigido piano di destinazione d’uso dei suoli : uno zoning che da un lato inonda di case e casette unifamiliari il territorio agricolo suburbano e, dall’altro, rischia di omologare gli edifici dei distretti più centrali cancellando le testimonianze architettoniche del passato.

In breve: a quali condizioni si realizza il TDR “all’americana” ?

Occorre una precisa identificazione delle aree di origine e delle aree di atterraggio e, come già detto, il proprietario che vende i diritti edificatori, o chi gli succederà, deve accettare di vedere congelata per sempre ogni possibilità di trasformazione.

Il TDR opera inoltre all’interno di un sistema di regole molto preciso e cogente (e quindi anche molto complesso); non sostituisce il mercato al piano, poiché lungi dall’annullare lo zoning, richiede anzi l’elaborazione di un comprehensive plan (un piano generale relativo a tutta la città e che vuole mettere a sistema gli aspetti economici, sociali, ambientali e trasportistici) molto più coerente, integrato e proiettato al futuro di quanto normalmente avviene nelle routine tecnico-amministrative locali. Obbliga infatti le amministrazioni a “guardare avanti”, tenendo in piena considerazione i futuri bisogni e cambiamenti della comunità; e richiede una precisa identificazione nei piani locali (sia nel comprehensive plan che nello zoning plan) delle aree che si intende sottoporre a tutela perenne e delle aree meglio vocate alla densificazione.

Richiede inoltre la presenza nell’amministrazione di competenze sofisticate, capaci di realizzare esercizi assai complessi per definire un “predictable real estate environment” e, in particolare, per verificare l’esistenza di una forte domanda di mercato nelle RA; e per effettuare una valutazione finanziaria del valore delle specifiche aree al fine di determinare il giusto valore dei diritti maturati dalle SA, da corrispondere da parte dei developer delle RA [5].

Infine, può essere utile per la comunità locale istituire una Banca dei Crediti ( TDR Credit Bank) dove i diritti edificatori possano essere temporaneamente depositati in attesa che siano acquistati dai developer. E in tale banca possono essere depositati anche i crediti (diritti edificatori) acquistati dai governi locali per tutelare aree di alto pregio ambientale [6]

Si può dunque affermare che il TDR americano si è sviluppato secondo un setting molto controllato dalla amministrazione locale su dove potrà avvenire lo sviluppo e dove non potrà realizzarsi; in questo senso possiamo attribuirgli un connotato “regolativo” atto a facilitare una più virtuosa destinazione degli usi del suolo (nonché una precisa definizione del valore dei “crediti”). E infatti oggi, nelle grandi città con amministrazioni locali lungimiranti, il TDR viene utilizzato come strumento di Smart Growth; viene associato ad altre misure e progetti che connotano il modello “sostenibile” di trasformazione urbana: quartieri a dimensione del pedone, diversificazione funzionale locale, potenziamento dell’offerta abitativa per i gruppi meno agiati, accessibilità con il trasporto pubblico, etc.

Infine, e questo aspetto è da considerarsi cruciale, il TDR è legittimato da processi partecipativi. Soprattutto nelle aree di atterraggio, in tutte le leggi dei singoli Stati, i cittadini non solo devono essere informati in merito all’incremento del carico insediativo e ai suoi possibili effetti, ma anche in merito al mix funzionale e alle tipologie di intervento progettuale; e possono determinare la drastica modifica o addirittura la soppressione del progetto di intensificazione.

Casi di successo in USA.

A puro titolo di esempio cito alcuni casi, che corrispondono alle principali tipologie di applicazione del TDR:

- una buona pratica “pionieristica”: si tratta della Grand Central Station di New York dove, nei tardi anni ’60, per impedire che la proprietà usufruisse del diritto di sviluppo in altezza che le veniva accordato dallo zoning (una addizione di 53 piani che avrebbe compromesso irreversibilmente un importante Landmark), la amministrazione locale decide trasferire gli ‘height development rights’ (i diritti di sviluppo in altezza) in una zona adiacente, ottenendo altresì di ridurre l’effetto canyon promuovendo edifici ad altezze differenti in tutto il distretto centrale;

- una buona pratica recente: si tratta del ‘Comprehensive Downtown Restoration Plan’ iniziato a Seattle nel 1985 con gli obiettivi di tutelare le abitazioni per i gruppi basso livello di reddito, gli edifici storici e quelli dedicati alla cultura e all’arte; promuovere un addensamento compatibile con il tessuto preesistente in alcuni distretti specifici; incentivare la realizzazione di nuovi interventi edilizi molto diversificati per dimensione. Il modello di TDR sperimentato a Seattle è complesso: in alcuni distretti molto vivibili e turistici (i frequentatissimi Harbourfront e Pike Market Mixed Zone) non è consentito individuare alcuna SA; nel downtown commerciale il TDR può avvenire soltanto fra edifici appartenenti allo stesso isolato urbano con un rigido controllo sulla qualità estetica e la diversificazione del mix funzionale; in altri distretti centrali il TDR è utilizzato più estesamente, ma con il criterio di trasferire diritti da zone con importanti istituzioni storiche e culturali a zone prevalentemente destinate ad uffici. Accanto alla definizione di una densità di base (generalmente inferiore a quella prevista dallo zoning), l’amministrazione introduce due tipi di incentivi economici: use incentives per i developer che realizzano edilizia per i gruppi a basso reddito e servizi locali, e design incentives per i developer che realizzano aree pedonali, piste ciclabili, spazi pubblici al piano terra, tetti verdi, spazi espositivi;

- infine, per la tutela perenne delle aree agricole, possiamo citare, fra le esperienze di successo, quella della Montgomery County nel Maryland e di Pinelands nel New Jersey dove la dimensione delle superfici agricole sottoposte a tutela perenne risulta molto elevata.

Ad oggi, più di 20 Stati hanno introdotto il TDR. Buon ultimolo Stato dell’Oregon, noto per l’eccellenza della sua legislazione urbanistica[7]. Sette stati hanno specifici statuti TDR dedicati a proteggere esclusivamente il territorio agricolo.

E in Canada?

Nel caso del Canada, il TDR, opportunamente ridefinito Trasfer of Development Credits, è stato applicato in maniera molto più limitata e prevalentemente in contesti urbani (mentre nel caso degli USA il 63,5% dei programmi TDR riguardano la tutela del territorio agricolo). I più importanti sono stati quelli sperimentati a Vancouver, Toronto e Calgary: tutti e tre dedicati alla tutela del patrimonio storico-architettonico. In particolare, Vancouver ha a tutt’oggi un programma di TDC ( Heritage Density Transfer System), iniziato nel 1983 e revisionato nel 1993, che viene utilizzato per proteggere e restaurare i Lamdmark storici, ma anche per tutelare spazi aperti e realizzare parchi urbani. Inoltre, sono i governi provinciali, da cui dipende il controllo degli strumenti urbanistici delle municipalità, che definiscono le direttive e le modalità di supporto tecnico e finanziario dei progetti.

In Canada non soltanto il coinvolgimento della comunità è considerato cruciale, ma è previsto il ricorso alle urne ( polling) nel caso si manifestino forti opposizioni locali.

Potremmo estendere il nostro sguardo anche ad alcuni paesi dell’America Latina o dell'Asia, ma veniamo piuttosto all’Europa.

Il trasferimento dei diritti edificatori emigra in Europa.

In Europa il TDR ha ricevuto molto minore attenzione e gode di una assai modesta applicazione.

In primo luogo, perché in molti paesi del Nord Europa vige il principio che la proprietà del suolo non include il diritto del proprietario alla cattura del plusvalore determinato dall’urbanizzazione e il plusvalore è catturato per l’essenziale dalla collettività (Svezia, Finlandia, Danimarca, Germania, UK,…). Nell’Europa del Sud invece, tendenzialmente si lascia al proprietario fondiario la cattura del plusvalore, ma lo si tassa (più o meno adeguatamente…notoriamente in modo assolutamente inadeguato in Italia).

Ciò avviene perché vi è una differenza sostanziale in materia di diritti di proprietà applicati allo spazio nei sistemi giuridici ispirati dal diritto romano, rispetto a quelli ispirati dalla common law anglosassone. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa Occidentale vale infatti il principio del non indennizzo dei proprietari di aree in cui vige l’interdizione a costruire.

Su questo principio che genera iniquità nel trattamento dei singoli proprietari, alcuni paesi (dell’Europa del Sud) hanno introdotto il TDR come rimedio alla eccessiva rigidità e arbitrarietà del piano di destinazione d’uso dei suoli e, come in Italia, come strumento sostitutivo dell’indennità di esproprio al fine di costituire un patrimonio di aree a destinazione pubblica e incrementare il capitale fisso sociale.

La Francia [8] è stata fra i primi paesi dell’Europa del Sud a inserirlo nella legislazione urbanistica: il “ transfert de COS (Coefficient d’Occupation des Sols)” è oggetto della Loi Galley del 1976 che dà la possibilità di trasferire diritti da una zona ( émettrice) a un’altra ( réceptrice). L’obiettivo dichiarato nel testo di legge è, come negli Stati Uniti, la protezione di zone dotate di “buona qualità del paesaggio”; ma questa locuzione, come ha ben evidenziato Renard, si è prestata a vistose ambiguità. Infatti, poiché il territorio agricolo, negli anni ‘70/’80 era difficilmente assimilabile a questa categoria, il consumo di suolo agricolo periurbano in Francia non solo non è diminuito ma, anzi, proprio a partire dalla metà degli anni ’70 è diventato esplosivo grazie alle politiche di incentivazione dell’accesso alla casa in proprietà promosse da Giscard d’Estaing [9]. E anche Renard giunge alla conclusione che il meccanismo della perequazione può funzionare solo nelle condizioni di un contesto di pianificazione e di regolamentazione molto stretto e con il supporto di una valutazione molto fine dei mercati locali.

Comunque, in Francia, a 23 anni dalla approvazione della legge Galley che ha suscitato infinite polemiche, le esperienze di trasferimento dei COS risultano assolutamente modeste per entità. Si è trattato spesso di accordi informali fra pochi proprietari soprattutto e a piccolissima scala. E, comunque, la stretta identificazione delle aree di partenza e di atterraggio è requisito indispensabile per la realizzazione dello strumento TDR: di nuovo, una differenza sostanziale, rispetto al “modello milanese”.

Inoltre, la legge urbanistica nazionale approvata in Francia nel 2000 ( SRU) ha posto severi argini regolamentari al consumo di suolo agricolo periurbano, senza ricorrere a meccanismi perequativi. Essa riconferma l’importanza del piano di destinazione d’uso dei suoli comunale, che diventa il “prodotto finale” di un esercizio complesso di messa in prospettiva del territorio comunale attraverso l’individuazione degli obiettivi di medio periodo, la definizione di “progetti di futuro” e il coinvolgimento civico ( Plan Local d’Urbanisme); e rilancia altresì la pianificazione di scala intercomunale con precise regole non contrattabili in materia di consumo di suolo perturbano ( Schéma de la Cohérence Territoriale).

In Spagna esiste la TAU (Transferencia de Aprovechamiento Urbanistico), anche se non tutte le leggi urbanistiche regionali la hanno adottata: comunque le aree di origine e di atterraggio devono essere chiaramente individuate all’interno di comparti omogenei (“los terrenos se encuentran en una misma área de reparto).

Assai differente (e per molti aspetti anomala) la situazione lombardo/milanese: una legislazione urbanistica regionale piena di contraddizioni e aporie, che consente una eccessiva flessibilità dello zoning; l’eredità di un bruttissimo PGT morattiano, che è stato certo emendato e migliorato significativamente, ma sottovalutando completamente il rischio implicito nel modello, unico al mondo, di “perequazione sconfinata”. Infatti, la trasferibilità dei diritti edificatori su quasi tutto il territorio comunale (sugli ambiti del Tessuto Urbano Consolidato) potrà determinare abnormi processi di addensamento centrale e un indebito vantaggio per il proprietario di aree non centrali al quale sono attribuiti diritti edificatori utilizzabili ovunque.

Una domanda al Sindaco Pisapia: perché non è stato emendato il principio della “perequazione sconfinata”?

Perché non si è ritenuto opportuno modificare, nella riscrittura del Piano delle Regole, l’art. 7, comma 5 che recita “L’impiego, anche in forma frazionata, dei diritti edificatori di cui al comma 4 è libero e può essere esercitato su tutto il territorio comunale edificabile nel rispetto della presente norma (…)”?

Perché non rimediare immediatamente al danno riscrivendolo, ad esempio in questo modo: “ la perequazione attua il principio di equità consentendo la trasferibilità dei diritti edificatori all’interno di fasce omogenee del territorio comunale, oppure stabilendo rapporti di concambio di diritti volumetrici per fasce omogenee di origine e di destinazione”?

Era il minimo che ci si poteva attendere. Ma forse è ancora possibile!

RIFERIMENTI CITATI

Gibelli M. C. (2012), “Governare l’esodo urbano e il consumo di suolo. Perché? Come?, in Bonora P. (a cura di), Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza fra urbano e rurale, Quaderni del Territorio n. 2, http://www.storicamente.org/quadterr2/index.html

Merlin P. (2009), L’exode urbain, Paris, La Documentation française.

[1] Arcidiacono A., Pogliani L. (2011) (a cura di), Milano al futuro. Riforma o crisi del governo urbano, Milano, et al.

[2] Era una scelta che auspicavamo anche noi di eddyburg: in un articolo pubblicato in questi giorni sulla rivista spagnola Urban, ma scritto nel maggio scorso prima delle elezioni municipali, avevamo successivamente aggiunto una postilla: “Riconosciuta l’aperta violazione delle procedure partecipative, si è deciso di revocare la delibera di approvazione del Piano di Governo del Territorio, tornando all’esame delle osservazioni dei cittadini che erano state respinte in blocco dal governo precedente: un preludio necessario a una complessiva revisione del Piano con cui si intende ricostituire un sistema di garanzie, trasparenza e pubblicità” (Bottini F., Gibelli M. C., “Milán: la difícil herencia de veinte años de desregulación urbanística”, in Urban, n. 3, marzo-agosto, Madrid).

[3] La perequazione sconfinata avrebbe limitata coerenza giuridica e debole base normativa, godrebbe di iniqui vantaggi fiscali, attribuirebbe diritti edificatori a titolo definitivo riacquistabili quindi soltanto a titolo oneroso per la collettività (Roccella); e introdurrebbe una nuova fattispecie di esiti speculativi basati su un incremento di rendita differenziale di cui godrebbe un diritto edificatorio generato su un’area periferica trasferibile senza limitazioni in un’area centrale (Camagni).

[4] Il Quinto Emendamento della Costituzione Americana recita: “nor shall private property be taken for public use without compensation”.

[5] La definizione del giusto valore, anzi di un valore che incentivi il proprietario delle SA ad alienare i diritti edificatori, è fondamentale, in quanto il meccanismo dei TDR non ha carattere obbligatorio.

[6] Soltanto con una precisa definizione del valore dei “crediti” scambiati, implicita nella loro connotazione di origine e di destinazione, la Banca dei Crediti può funzionare come una cassetta di sicurezza di beni preziosi e come un mercato “regolato” di questi beni. Cosa che non si verificherebbe in una Borsa dei diritti alla milanese in cui si scambierebbe un unico astratto metrocubo edificabile a Milano, soggetto a facilissime e prevedibili manovre speculative.

[7] Nel 2009 lo Stato dell’Oregon ha approvato il Senate Bill 763 che autorizza i governi locali a sperimentare il TDR e, allo stesso tempo, ha approvato l’House Bill 2228 che istituisce un programma pilota che autorizza la Land Conservation and Development Commission (il “ministero” statale che ha competenza in materia di pianificazione urbanistica, territoriale e ambientale) a selezionare tre progetti pilota di TDR. Nel caso dei progetti pilota, i meccanismi di controllo sono severissimi e molto centralizzati: le SA vengono identificate dall’Oregon Department of Geology and Minerals; le RA devono essere individuate anche attraverso processi comunicativi e partecipativi; ma preliminare alla discussione dei progetti, è il benestare della contea, in particolare se l’area è interna all’Urban Growth Boundary. Necessario per decidere della eleggibilità della RA e del livello di addensamento è il parere di un comitato di peer review composto da valutatori, giuristi, rappresentanti della LCDC e della amministrazione locale coinvolta.

[8] Faccio qui riferimento all’utilissimo saggio di Vincent Renard: “Où en sont les sistémes de transfert de COS” pubblicato inEtudes Foncières, 1999.

[9] A conferma della osservazione di Renard stanno i dati sul consumo di suolo agricolo per urbanizzazione in Francia: 807.000 ettari urbanizzati fra il 1992 e il 2004 (184 ettari al giorno); e sono stati le abitazioni unifamiliari (410.000 ettari contro 11.000 ettari destinati a edilizia condominiale) e le infrastrutture stradali (148.000 ettari) i maggiori consumatori di territorio aperto. Il dato ancora più preoccupante è il seguente: nel periodo analizzato l’80% del territorio urbanizzato per realizzare la “villettopoli” francese era precedentemente dedicato alla produzione agricola (Merlin, 2009; Gibelli, 2011).

“Il sentiero”. Si chiama così una delle tele che Carlo Levi – sì, lo scrittore di Cristo si è fermato a Eboli era anche un pittore di razza – ha dipinto sulle alture di Alassio. In cinquanta centimetri per sessanta ci sono la luce, la vegetazione, la bellezza della Liguria degli anni Cinquanta. Oggi, chissà, Levi camminando sulla stessa collina potrebbe dipingere un quadro titolato “Il cantiere”. Per anni è stato un assalto incessante di ruspe e gru. Ovunque. L’ultimo: il progetto di Punta Murena, proprio di fronte al paradiso naturalistico dell’Isola Gallinara.

“Ma per combattere le battaglie, ci vuole anche qualche vittoria. C’è bisogno ogni tanto di una buona notizia”, sorride Antonio Ricci, alassino, un passato da professore, un presente da padre di “Striscia la notizia”.

Eccola, allora: Villa La Pergola con il suo straordinario parco riapre al pubblico. È una novità importante, ma è anche e soprattutto un segnale per chi in Liguria si batte contro la cementificazione e da anni deve registrare tante sconfitte. Invece oggi (dalle 15.30 alle 18) e domani (dalle 10 alle 18) i cancelli della famosa villa saranno aperti con la collaborazione del Fai (Fondo per l’Ambiente Italiano). “Quaranta studenti di licei classici e scientifici, di istituti agrari e alberghieri faranno da guida nel parco”, racconta Ricci. È proprio lui che ha messo insieme la cordata improvvisata che ha acquistato la Pergola e il Pergolino: “Mi sono gasato e ho deciso di provare. Senza pensarci e senza ascoltare gli avvertimenti di mia moglie”, aveva raccontato Ricci nel 2006. Certo, un’impresa un po’ “folle”: comprare due ville costruite dagli inglesi alla fine dell’Ottocento con lo splendido parco (forse il vero tesoro), metterle a posto, mantenerle. Ma la posta in gioco è grossa: sul Pergolino avevano messo gli occhi immobiliaristi, per occupare definitivamente la collina di Alassio.

Ma non sarà così facile, adesso: “Abbiamo salvato la villa e chiuso la strada che avrebbe portato alla conquista della collina”, spiega Ricci. Che ha mantenuto la promessa fatta anni fa: “La Pergola sarà aperta ai ragazzi”.

Una storia che è diventata anche un libro : Un sogno inglese in Riviera, le stagioni di villa della Pergola (a cura di Alessandro Bartoli, Mondadori Electa). Dalle memorie vittoriane di aristocratici e scrittori inglesi nella Riviera Ligure al recupero della villa. Dal generale McMurdo, dal cugino di Virginia Woolf, Walter Dalrymple, dalla famiglia Hanbury fino al padre del Gabibbo. Che ha vinto un’altra battaglia, quella contro i grattacieli di Albenga. La cittadina che sognava di diventare una specie di Manhattan della Riviera.

Ma le vittorie si contano sulle dita di una mano, in una cittadina, in una regione che somiglia sempre più a quella descritta da Italo Calvino nella Speculazione edilizia. Le colate di cemento, gli appetiti che suscitano tra imprenditori, politici e cittadini sono gli stessi degli anni Cinquanta. La Liguria, però, non è in grado di reggere un’altra rapallizzazione, con progetti che ogni giorno sorgono con il placet di centro-destra e centrosinistra.

Alassio da anni è uno dei campi di battaglia. La collina di Carlo Levi, della Pergola, punteggiata da gru. Il sindaco è stato a lungo l’architetto Marco Melgrati (Pdl). Guidava il Comune e firmava progetti guadagnandosi una sfilza di avvisi di garanzia per illeciti urbanistici per poi presentarsi in tribunale con la bandana stile Cavaliere. “Oggi il nuovo sindaco (che poi è Roberto Avogadro, in passato già sindaco con il Carroccio) guida una lista civica composta da ex leghisti, ma anche da assessori del centrosinistra.

Finora hanno dimostrato di voler frenare l’invasione del cemento”, racconta Giovanna Fazio, presidente di Italia Nostra Alassio. Aggiunge: “Il Comune è intervenuto per frenare i progetti di altre villette in collina (alla Madonna delle Grazie) e del megaparcheggio sotterraneo sotto lo storico tennis. Ma resta il progetto di Punta Murena, un promontorio affacciato sull’isola della Gallinara. Un luogo meraviglioso, uno dei più belli e delicati della Liguria”, racconta Fazio. Italia Nostra e il Wwf si sono battuti contro il progetto. Ma sarà dura: il consiglio comunale due anni fa ha approvato la costruzione di appartamenti all’interno della villa e della dependance di Punta Murena. Poi bungalow. I progettisti? “Tra gli altri, l’ex sindaco Melgrati”.

Con la sentenza n. 421/2012, pubblicata lo scorso 2 maggio, il Tar Sardegna ha respinto il ricorso della società Coimpresa nei confronti del decreto 8 luglio 2010, n. 81, con cui il Direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Sardegna aveva dichiarato l'immobile denominato "Complesso Minerario Industriale di Tuvixeddu", di proprietà del Comune di Cagliari e della Nuova Iniziative Coimpresa s.r.l., di interesse culturale, storico e artistico ai sensi degli articoli 10 e 13 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, con i conseguenti vincoli di tutela previsti da tali norme.



Come si legge nella sentenza, l’intervento di tutela riguarda i beni mobili e immobili utilizzati, dagli ultimi anni del secolo XIX fino agli anni ’60 del secolo scorso, per l’esercizio di una cava di materiale calcareo, tanto che l’area è stata inquadrata nell’ambito dei “siti di interesse minerario”, ai sensi del D.lgs 22 gennaio 2004 n. 42. Si tratta dell’area del "Catino", quella del "Canyon", nonché una vasta “area centrale”, ampiamente interessata da opere di urbanizzazione previste nel piano attuativo dell'accordo di programma del 2000.

Il nuovo vincolo interessa 12 ettari circa dell'intero compendio e, come ricorda lo stesso Tar, si aggiunge, e si sovrappone nelle rispettive aree, al più esteso vincolo paesaggistico (50 ettari) contenuto nel P.P.R. del 2006.

Il medesimo organo di giustizia amministrativa non ha trascurato di mettere in risalto, nel trattare la complessa questione, la portata della assai nota sentenza n. 1366 del 26 gennaio 2011 del Consiglio di Stato, che aveva ritenuto legittimo il vincolo di inedificabilità (di natura paesaggistica e non culturale) posto dal Ppr sul complesso delle aree di Tuvumannu - Tuvixeddu, in attesa dell'adeguamento del Puc del comune di Cagliari alle prescrizioni dello stesso atto di pianificazione paesaggistica regionale (art. 49 norme attuazione del Ppr).

Sarà bene ricordare che la sentenza del Consiglio di Stato n. 1366/2011 aveva ribaltato, annullandola, la contraria posizione del Tar Sardegna, espressa con la sentenza del 13 dicembre 2007, n. 224, che aveva invece ritenuto inapplicabile l'articolo 49 delle norme di attuazione del Ppr, salvaguardando così il piano di Coimpresa e del comune di Cagliari contenuto nell'accordo di programma del 2000. Per sgombrare il campo da equivoci lo stesso Tar si è ora visto costretto a precisare, nella decisione appena pubblicata, che il vincolo paesaggistico del Ppr su Tuvumannu - Tuvixeddu "essendo stato confermato da una sentenza avente valore di giudicato, è tuttora valido ed efficace", e ciò pur "dopo che per molti anni le diverse amministrazioni coinvolte avevano avvallato la realizzazione dell’intervento edilizio proposto da Coimpresa"



Nel negare alla radice "la prevalenza delle aspettative privatistiche formatesi in relazione ai pregressi provvedimenti di contenuto favorevole" sul "persistente interesse pubblico ad una piena tutela dei beni culturali e paesaggistici", ha afferma inoltre il Tar, quanto alla tanto declamata supremazia dei diritti edificatori pregressi dei privati (Coimpresa) su quelli generali di tutela del paesaggio in capo alla collettività:



- che numerose delle opere previste nell'accordo di programma del 2000 "non sono state ad oggi completate e ciò ulteriormente giustifica un intervento di tutela che l’Amministrazione statale basa su di una disposizione normativa - il decreto legislativo n. 42/2004 – che ha innovativamente inserito i “siti minerari” fra le categorie di beni per i quali è possibile procedere ad una valutazione di notevole interesse culturale";



- "che l’Amministrazione, pur in presenza di atti che in precedenza hanno radicato interessi privati all’utilizzazione del territorio, resta comunque titolare del potere-dovere di adottare i provvedimenti necessari ad una piena tutela dei beni affidati alle sue cure";



- che "come recentemente osservato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana (sentenza 10 giugno 2011, n. 418), “la disciplina costituzionale del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9 Costituzione) erige la sua salvaguardia a valore primario del vigente ordinamento”, tanto che “l’imposizione del vincolo non richiede una ponderazione degli interessi privati con gli interessi pubblici connessi con l'introduzione del regime di tutela, neppure allo scopo di dimostrare che il sacrificio imposto al privato sia stato contenuto nel minimo possibile”.



Si tratta affermazioni di così ampia portata chiarificatrice, quelle del Tar, tali da indirizzare una potente luce, ove ce ne fosse stato bisogno, sulla questione relativa all'efficacia o meno dell'accordo di programma per Tuvixeddu del settembre del 2000 a fronte dell'intervenuta sentenza n. 1366/2011 del Consiglio di Stato. Che quell'accordo fosse divenuto inefficace con l'entrata in vigore del Ppr della Regione nel settembre del 2006, pareva chiaro dalla lettura della citata sentenza n. 1366 del 2011. Ma una strana nebbia aveva d'un tratto avvolto l'intera questione.



C'erano infatti coloro - dai giornalisti bloggers poco propensi agli approfondimenti necessari agli studiosi di diritto a loro dire imparziali sino ai politici disinteressati a cui (a tutti loro) mi sia consentito dare comunque il beneficio della buona fede - che anche dopo quella sentenza avevano continuato a ritenere che nulla fosse mutato, ritenendo l'accordo di programma del 2000 ancora efficace a norma dell'articolo 15 delle norme di attuazione del Ppr, che faceva salvi gli interventi previsti in strumenti urbanistici attuativi approvati mediante convenzione di lottizzazione efficace prima dell'entrata in vigore dello stesso Ppr. 



Alcuni di essi avevano anche citato, a sostegno delle loro disquisizioni, le sentenze del Tar Sardegna n. 541 e 542 del 20 aprile 2009, che avevano fatto salvo l'accordo di programma del 2000 proprio attraverso articolo 15 delle norme di attuazione del Ppr. Ignoravano però, e spero che di ignoranza si tratti, che entrambe le sentenze del Tar Sardegna erano state successivamente annullate dal Consiglio di Stato (sentenze n. 538/2010 e n. 1491/2010) che aveva invece ritenuto prevalenti "le prescrizioni introdotte dal Ppr per il corrispondente ambito di paesaggio". 



Resta ovviamente aperta - e il Tar lo sottolinea - la questione della copianificazione (Regione, Comune di Cagliari, Sovrintendenza beni culturali e paesaggistici) relativa al sito, previa "valutazione, coordinata e complessiva, delle soluzioni allo stato concretamente adottabili". E qui il Tar cita ancora la sentenza n. 1366/2001 del Consiglio di Stato secondo cui “la regolamentazione definitiva dell’area è rinviata ad un’intesa tra Comune e Regione, fermo che all’interno dell’area individuata è prevista una zona di tutela integrale, dove non è consentito alcun intervento di modificazione dello stato dei luoghi, e una fascia di tutela condizionata".



A parte il PAI (piano di assetto idrogeologico) approvato dalla Regione nel 2006, che già da solo aveva reso inedificabile il 40 per cento circa delle volumetrie del piano di Coimpresa, pur nell'imbarazzante e perdurante silenzio dell'allora sindaco Emilio Floris, della sua giunta e dei dirigenti comunali che avevano fatto finta, da prima, di ignorare i vincoli di inedificabilità del Pai e, successivamente, messo in essere la pantomima della rinuncia da parte di Coimpresa a costruire laddove comunque non avrebbe potuto farlo, con tanto di delibere di giunta e del consiglio comunale in scadenza ad accogliere i desiderata della società costruttrice divenuta d'un tratto rispettosa delle aree paesaggisticamente più delicate.



I pronunciamenti giurisprudenziali del C. di Stato ed ora del Tar dovrebbero rendere meno arduo, nella definizione degli atti di tutela del sito Tuvumannu-Tuvixeddu, il compito del comune di Cagliari e del suo sindaco Massimo Zedda, al quale va dato atto, nella vicenda dell'apposizione del vincolo minerario, di aver rinunciato al giudizio davanti al Tar revocando la costituzione in giudizio del 26 novembre 2010, contro gli atti del Sovrintendente Tola, decisa dal suo predecessore Emilio Floris. Un importante atto politico che ci aiuta a sperare nell'azione di tutela e valorizzazione, non solo nell'interesse della città di Cagliari, dell'importante compendio. 


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