I dati provvisori del censimento della popolazione di Roma e della sua provincia delineano una situazione urbanistica fuori controllo, frutto invitabile dell’assenza di un governo pubblico delle città e dei territori: l’intera provincia di Roma è stata coinvolta nella dissennata crescita urbana di Roma e ne paga i prezzi più elevati.
Cominciamo da Roma. L’Istat certifica un ulteriore lieve declino demografico della capitale che si attesta su un valore di poco superiore ai due milioni e seicento mila abitanti. Erano 50 mila in più nel precedente censimento (2.663 mila abitanti). Nonostante la gigantesca quanto immotivata offerta di questi ultimi dieci anni dovuta al piano regolatore liberista voluto dal sindaco Veltroni, la città non cresce. Segno evidente che i valori immobiliari sono così alti da essere insostenibili per la maggior parte della popolazione romana che è stata così costretta a trasferirsi nella immensa periferia metropolitana. E i numeri del disastro annunciati sono davvero impressionanti. Il litorale sud di Roma che comprende Anzio, Ardea, Nettuno e Pomezia è diventata una città di oltre 190 mila abitanti. Venti anni fa erano 120 mila. Nell’ultimo decennio la percentuale di incremento è stata del 31%. Anche il litorale nord (Ladispoli, Cerveteri fino a Civitavecchia) si avvia a diventare una grande conurbazione: oggi la sua popolazione complessiva supera i 150 mila abitanti e il dato più impressionante è quello di Cerveteri che con un aumento percentuale del 34% sul decennio 2001/2011 raggiunge le dimensioni di 35 mila abitanti. Il comprensorio del lago di Bracciano che raccoglie anche Anguillara e Trevignano ha dimensioni demografiche più modeste rispetto ai due precedenti (poco più di 50 mila abitanti), ma presenta – anche grazie alla linea ferroviaria metropolitana che lo collega velocemente con la capitale – un aumento percentuale del 30% nel decennio.
La valle del Tevere occidentale (Fiano, Capena e altri centri minori) supera ormai i 40 mila abitanti complessivi e il dato di Fiano – fortemente connesso con Roma per la presenza del casello autostradale lungo l’A1 – fa comprendere bene le dimensioni dei fenomeni in atto: in venti anni la sua popolazione è raddoppiata e oggi supera 13 mila abitanti. Sul lato opposto del fiume, la conurbazione tra Monterotondo e Mentana insieme agli altri comuni più piccoli ha una dimensione tre volte più grande in assoluto del precedente (120 mila abitanti totali) e in particolare Monterotondo raggiunge 40 mila abitanti. Anche in questo caso, potente fattore di sviluppo è stata la linea ferroviaria metropolitana che collega l’area con Roma. Analogamente fuori di ogni controllo sono i dati della grande area urbana formata da Guidonia e Tivoli: oltre 150 mila abitanti di cui 80 mila nella sola Guidonia che diventa la terza città del Lazio (dopo Latina) con un territorio pressochè privo di sevizi e con una della più alte percentuali di abusivismo d‘Italia.
Resta infine l’area dei Castelli romani, fino a pochi decenni fa cantata da poeti e pittori per la bellezza dei suoi spazi aperti. Gli attuali 360 mila abitanti hanno sconvolto la geografia dell’antico vulcano che si presenta, ad eccezione dell’area boscata centrale, come una grande conurbazione senza soluzioni di continuità. Di fronte a questo impressionante fenomeno di esplosione metropolitana, resta da chiedersi quale sia la qualità urbana di questi nuovi centri assurti a città di medie dimensioni in due decenni e quale sia la struttura di trasporto su ferro che garantisce ai nuovi abitanti di poter arrivare senza sforzo a Roma, luogo dove sono rimasti concentrati tutti i principali luoghi di lavoro pubblico e privato. Le risposte sono entrambe preoccupanti. «Non ci sono risorse», così ci dicono ad ogni occasione. Così i piccoli centri senza alcun servizio di qualità, senza scuole superiori e senza un parco urbano degno di questo nome, sono oggi città medie di 40/50 mila abitanti ma continuano ad essere prive di servizi di qualità perché non ci sono risorse da investire. Gli abitanti espulsi da Roma sono dunque condannati a vivere in condizioni sociali peggiori di quelle della capitale.
Condizioni peggiori che sono ulteriormente aggravate dalla crisi della mobilità. Roma è perennemente paralizzata dal traffico automobilistico privato, ma in media i suoi abitanti percorrono per raggiungere il posto di lavoro una distanza media di dieci chilometri. Chi è stato espulso verso l’area metropolitana percorre anche più di cinquanta chilometri per raggiungere la città ed è – salvo rare eccezioni – costretto a farlo con la propria automobile per la mancanza di collegamenti degni di una città capitale e di un paese civile. Esistono infatti soltanto due ferrovie efficienti, quelle che collegano i comprensori di Bracciano e di Monterotondo. Tutta l’altra gigantesca area metropolitana è costretta a raggiungere Roma con l’automobile. Tre ore al giorno di media tra andata e ritorno di media gettate via per spostarsi. Una vita condannata nell’immobilità, per giunta aggravata dall’insostenibile prezzo della benzina.
Al danno di essere stati costretti a trasferirsi lontano dalla capitale si aggiunge dunque anche la beffa di vedere aggravate le proprie condizioni di vita. In termini di qualità dei luoghi urbani per l’assenza di servizi pubblici; in termini di qualità della vita per le lunghe ore gettate via nella propria automobile; in termini economici per i costi esorbitanti degli spostamenti. Questo sconvolgente risultato è stato causato dalla cancellazione di qualsiasi regola: ci hanno raccontato che lasciando mano libera all’iniziativa privata tutto sarebbe stato risolto. Era vero il contrario e oggi scopriamo il terribile imbroglio. Dobbiamo invertire la rotta e investire risorse economiche nelle città e nei sistemi di trasporto collettivi. Soltanto con la mano pubblica si creano migliori condizioni di vita e di uguaglianza tra i cittadini.
Sono passati vent’anni dall’inaugurazione del Porto Antico di Genova, per l’Expo del ‘92. So che lei ama molto di più parlare del futuro che del passato e in genere non le piacciono le celebrazioni. Ma forse possiamo parlare del futuro anche rievocando un ventennale. Il Porto Antico fu una delle ultime grandi opere a cambiare il cuore di una grande città italiana. Da allora ha prevalso, nel migliore dei casi, una specie di pietoso maquillage.
Fra due anni ci sarà l’Expo di Milano e nessun milanese, compreso me, si aspetta che cambi in meglio la vita della città, come fece il Porto Antico a Genova. Senza fare altre polemiche, quale fu l’idea guida di quel progetto?
«Senza polemiche, ricordo soltanto i fatti. Il motto dell’intera impresa fu una frase in genovese, che presentammo perfino nel progetto alla commissione internazionale, con traduzione a lato. La frase era: Chì nù se straggia nìnte. Qui non si spreca nulla. E infatti vent’anni dopo non si è buttato nulla. Tutto è rimasto, ha continuato a vivere e a popolarsi di gente, sempre di più. L’Expo fu una formidabile occasione, perché c’erano finalmente i soldi per risolvere un grande problema di Genova, la decadenza del vecchio porto, che rimaneva il cuore cittadino. Un cuore ormai molto malandato. Ma da genovesi inorridivamo all’idea di usare quei soldi per costruire soltanto una colossale e costosa vetrina internazionale, da smantellare il giorno dopo, come è avvenuto dappertutto dopo l’Expo».
In tempi di crisi della politica e di antipolitica montante, anche sotto le insegne del suo amico Beppe Grillo, vale la pena di ricordare che quel progetto fu possibile grazie alle personalità illuminate del sindaco Fulvio Cerofolini, ex partigiano e sindacalista, e del suo vice, Giorgio Doria, il "marchese rosso" diseredato dalla famiglia per l’impegno in politica, padre del nuovo sindaco Marco Doria. Non è così?
«Assolutamente sì. Fu un progetto collettivo, io mi limitai a fare il geometra della situazione. L’opera prese alcuni anni e collaborai bene con vari sindaci, Cerofolini, Campart, Merlo. Ma tutto nacque con Cerofolini e Giorgio Doria, i migliori politici nei quali un architetto potesse imbattersi, onesti, moderni, colti. Giorgio Doria prese l’iniziativa di consultare per primo Fernard Braudel, il grande storico del Mediterraneo, andammo insieme e fu un incontro decisivo. In qualche modo paradossale. Sembrava conoscere meglio il carattere della città lui che noi due genovesi. E Doria era perfino discendente di un doge».
Venezia e Genova, miracoli della civiltà mediterranea, Braudel le aveva studiate per una vita. Come influenzò il suo lavoro di "geometra"?
«Mi convinse appunto a fare il geometra. Il miracolo urbano, l’utopia felice di Genova e di Venezia consistono all’essenza nel genio con cui sono utilizzati spazi minimi. Dal mio studio verso Arenzano fino a Nervi, Genova è una striscia cittadina di ventidue chilometri, stretta fra alte montagne e un mare profondo. Lo sfogo e la ricompensa di tanta angustia, fisica, politica ed economica, è sempre stato il porto, l’apertura al mondo. In quegli anni però la città aveva voltato le spalle al mare, il vecchio porto era diventato una specie di ghetto. Bisognava riaprire quella porta, quella piazza, l’unica vera piazza di Genova. Vede, i miei ricordi più belli da bambino erano di quando mio padre mi portava per mano la domenica a passeggiare al porto. Da decenni nessuno lo faceva più, nemmeno io coi miei figli».
Se l’obiettivo era di riportare padri e figli per mano nel porto antico, è stato raggiunto alla grande. Non solo fra i genovesi. Milioni di bambini ora conoscono il porto antico e l’acquario.
«Sì, ed è una grande gioia. Qualcuno dice anche che l’acquario ha avuto fin troppo successo e in un certo senso sono d’accordo. Da genovese mi piacerebbe che i turisti non si fermassero all’acquario e dintorni, ma salissero per visitare uno dei centri storici più belli del mondo».
Uno dei motivi per cui Piano passerà alla storia è questa capacità di popolare zone morte delle città. Il centro Pompidou, il porto di Genova, Potsdamerplatz a Berlino, il quartiere dell’Auditorium a Roma. Esiste un segreto da rivelare ai giovani architetti?
«Ai ragazzi che vengono a bottega da me, a Genova o a Parigi, dico sempre di stare molto attenti a come si comincia un progetto. Io disegno per prima una piazza, sempre. Il vuoto, prima del pieno. Italo Calvino, che ho avuto la fortuna di conoscere bene, scriveva che ogni città ha un luogo felice e sono felici i luoghi dove i cittadini vanno volentieri».
La piazza è la grande invenzione urbanistica e politica degli italiani. Nel Settecento venivano chiamati gli architetti italiani per costruirle in tutta Europa, da San Pietroburgo a Salisburgo. È ancora così, almeno per lei?
«Sì, mi chiamano in giro per il mondo anche per questo. Prenda il progetto della nuova sede della Columbia University a New York. Nasce tutto intorno a una piazza e credo sia questa una delle principali ragioni per cui l’hanno scelto».
A Genova la piazza del porto antico è piuttosto singolare, una piazza a mare, come la splendida piazza dell’Unità a Trieste.
«Una piazza fra due città, la Genova di pietra dei palazzi del centro e la Genova d’acqua del porto. Una potente ed eterna, di marmo, l’altra mobile, con una toponomastica che cambia ogni giorno, anzi quasi ogni ora, con le navi alte come palazzi che vanno e vengono. Nel mare che si muove anche di notte, non sta fermo mai, come canta Paolo Conte. Un altro elemento importante era creare un luogo internazionale, nel solco della tradizione cittadina. Genova è una città internazionale per vocazione e necessità. Ha fatto del meticciato, la propria forza. È da secoli multietnica, si direbbe oggi. Se prendi i pittori genovesi del quindicesimo secolo, trovi in ogni ritratto di famiglia un nero, un orientale. La facciata della chiesa di San Lorenzo è fatta con pezzi presi da tutto il mondo. Nei mercati cittadini trovavi sapori e odori di ogni angolo della terra».
Negli anni del progetto del porto antico, un suo amico, Fabrizio De Andrè, inventava con Creuza de ma la world music, mescolando le sonorità del Mediterraneo, intorno alla riscoperta della lingua genovese. Oggi la via che costeggia l’acquario porta il suo nome.
«Gli sarebbe piaciuta, è una via che porta al mare, dove finiscono tutte le storie dei genovesi. Fabrizio è stato un fratello per trentacinque anni e uno dei primi a cui ho parlato del progetto. Il fatto curioso è che io cercavo da architetto di fare il poeta e lui, poeta vero, invece mi incalzava molto sugli aspetti pratici. De Andrè era coltissimo, curiosissimo della tecnica, sempre aperto al nuovo. Ricordo che già allora parlava di sostenibilità, un concetto sconosciuto all’epoca. L’intuizione di incrociare le tradizioni musicali del mondo era in anticipo di vent’anni sulle mode e in un’Italia dove l’immigrazione straniera ancora quasi non esisteva».
Oggi le città italiane sono sempre meno vivibili, divise in ghetti per ricchi e per poveri. Per non parlare dello scempio dei nostri porti. È possibile invertire la tendenza?
«È paradossale, ma quando vado in giro per il mondo, da Los Angeles a Seul, tutti citano come modello le città italiane, il nostro stile, il vivere appunto in piazza, in strada. Noi invece negli ultimi anni abbiamo pensato di imitare mediocri modelli stranieri, immaginando d’inseguire chissà quale straordinaria modernità. Sono molte le cose da fare, ma l’errore è pensare solo a grandi opere, utili magari alla politica spettacolo, ma non alla vita di tutti i giorni. Bisognerebbe invece cominciare dal piccolo, dalle piste ciclabili, dai giardini, dai mille minimi interventi per ricucire il tessuto urbano, a partire dalla periferia fino al cuore delle città. E naturalmente bandire le automobili dai centri cittadini. Riacquistare insomma uno sguardo più lungo. La politica di questi vent’anni ha inseguito il consenso giorno per giorno, ma alla fine lo sta perdendo tutto insieme. Mi auguro che chi arriverà abbia imparato la lezione».
postilla
Un miracolo, non c’è che dire: se in cima alla torre eleviamo un architetto, meglio ancora un’archistar mediatica terzo millennio, invece della solita barzelletta su chi buttare giù per primo ne nasce la grande narrazione urbana. Scherzi a parte, nonostante sia il giornalista poco pettegolaio che l’architetto con ego misurato attenuino l’effetto, siamo sempre dalle parti del famoso equivoco per cui quando un centro urbano, un’area metropolitana, rinascono a nuova vita dopo una crisi di qualunque genere, si va a cercare la chiave di tutto in chi ha messo la ciliegina sulla torta. Come spiegare in altro modo l’entusiasmo con cui sindaci di tutto il mondo chiamano appunto i grandi nomi del design internazionale a “risolvere i problemi urbanistici”? Quando, sindaci in testa, dovrebbero ormai averlo capito tutti che se la città è di tutti, naturalmente è anche dell’architetto. Ma non più di così. Lasciamone magari un pezzettino pure al fruttivendolo, alle studentesse sui gradini della biblioteca, a quel tizio che si allaccia le scarpe contro il paracarro … (f.b.)
Non era mai successo. In mezzo secolo di bombe, mafia, terrorismo di destra e di sinistra, stragi di Stato o semplice racket malavitoso, nessuno aveva mai osato colpire le scuole. Ordigni sui treni, nelle stazioni, professori uccisi nelle aule universitarie, operai e giuslavoristi sparati sotto casa, carabinieri massacrati mentre uscivano da un bar dopo aver preso un caffé. Ma mai, qualche mente criminale e/o politica aveva preso di mira così gli studenti.
Perché tra le 7 e le 8,30, ogni mattina, milioni di ragazzi e ragazze vanno tranquillamente a scuola e milioni di genitori, ovviamente, si fidano e li affidano allo Stato che provvederà a educarli e custodirli nelle successive 4 o 5 ore. Questa grande rito che succede ogni mattina in Italia come nel resto del mondo, è uno dei momenti più normali ma anche più alti del rapporto tra Stato e cittadino. Tante cose, non vanno, in questo Paese, ma nessuno ha mai pensato che, al di là dei (purtroppo) "normali" pericoli della strada e della vita, si potesse finire a mandare a i figli a scuola con l'apprensione nel cuore. E non solo: quante scuole ci sono oggi, in Italia, intitolate a vittime della mafia, del crimine o del terrore. Centinaia, migliaia? E' possibile, è ammissibile, che dei genitori debbano finire a pensare che mandare i figli in scuole che portano quei nomi onorati ed eroici possa diventare fonte di pericolo invece che di orgoglio? Ecco un altro pezzetto di innocenza, di convivenza civile che ci viene portato via, strappato dalla pelle e dalle menti.
Chiunque sia stato, mafia o racket, terrorismo o altro, non è neanche detto che ci abbia pensato. Non è detto che sia stato così perverso e raffinato da rendersi conto di quello che stava colpendo, di come sarebbe andato in profondità nelle nostre insicurezze, di come avrebbe scavato nel tessuto sempre più lacerato di questo Paese. Ma è anche possibile che proprio questo volesse. Perciò è necessaria una risposta generale, davvero imponente e forte. Per dire, ancora una volta, che non dobbiamo aver paura, che non ci faranno paura.
Lettera ai e alle componenti delle Commissioni Affari costituzionali del Senato e della Camera La ragion d'essere dell'Associazione "Per la democrazia costituzionale" ci impone di esprimere un giudizio meditato ma allarmato sul progetto di "Revisione di alcune norme della Costituzione" presentato dal senatore Vizzini il 12 aprile scorso. Ne riassumiamo i motivi.Il superamento del bicameralismo perfetto, auspicato da tutte le parti politiche e da gran parte degli studiosi delle istituzioni, non risulta realizzato.
Dal testo emerge una netta conferma di tale tipo di articolazione della rappresentanza politica. La diminuzione del numero dei parlamentari è stata ridotta a contrazione della composizione dei due organi, a riduzione quindi del potenziale rappresentativo complessivo del Parlamento invece che a differenziata rappresentatività dei due organi, che avrebbe comportato che a comporre il Senato sarebbe stato o un componente per Regione o due. La configurazione di questo ramo del Parlamento che invece si propone è contorta. Delle due forme di espressione della rappresentanza territoriale esistenti al mondo, quella della scelta popolare dei componenti l'organo rappresentativo e quella espressa dagli enti esponenziali delle realtà territoriali (Stati, Länder, Regioni, Comunità) si è recepita ... la metà dei caratteri dell'una e dell'altra con conseguenze francamente sconcertanti. Della prima delle due forme, si sceglie l'elezione diretta, senza però la connessa eguaglianza del numero dei rappresentanti (due negli USA) per ciascuna entità territoriale. Della seconda, la sola derivazione territoriale, con la conseguenza che ciascun Ente-Regione è declassato a mera circoscrizione elettorale. L'escamotage della Commissione paritetica per le questioni regionali, composta dai venti rappresentanti delle assemblee elettive e da un egual numero di senatori da istituire presso il Senato, affidataria di una funzione consultiva sui progetti di legge all'esame di quel ramo del Parlamento, non può assolvere al compito di composizione degli interessi regionali e di quelli nazionali. Dispone di due potenzialità opposte e perverse, quella di blocco degli effetti dell'attività consultiva o quella di deriva separatista. Maggiore preoccupazione e ancora più netta contrarietà desta la distribuzione delle competenze legislative tra i due rami del Parlamento a seconda che il disegno di legge riguardi le materie di competenza esclusiva o concorrente dello stato. Spaccare la fonte di produzione delle leggi, atti aventi eguale valore, efficacia e forza normativa, non soltanto spezza, comprime, declassa la rappresentanza come tale nella sua potenzialità assuntiva della potestà del soggetto-stato e come sede di ultima istanza delle garanzie costituzionali. Ma incide profondamente sulla unitarietà dell'ordinamento legislativo, tanto più che, in caso di dissenso parziale o totale della Camera "del riesame", la decisione ultima sulla approvazione di una legge spetterebbe a quella delle due Camere che dovrebbe essere scelta con «decisione insindacabile» (anche da parte della Corte costituzionale ?) dai due Presidenti in base alla prevalenza del suo contenuto, se di competenza esclusiva o concorrente dello stato. Ma è il criterio della ripartizione che inquieta. Dieci e più anni di giurisprudenza costituzionale testimoniano lo sforzo, enormemente encomiabile, della Corte di estrarre, più con intuizioni che con impossibili deduzioni, più con integrazioni felici che con esegesi fruttuose, un senso accettabile dal testo della Legge costituzionale 2001 n. 3 recante il vigente Titolo V della Costituzione. Ignorare tale vicenda dell'esperienza costituzionale e fondare su quel testo, su quel catalogo delle materie tanto rigido quanto lacunoso il riparto delle competenze tra le due Camere del Parlamento, imporre volta a volta ai Presidenti delle due Camere di ripercorrere il vasto, complesso, articolato ridisegno normativo compiuto dalla Corte è segno di disinvoltura inaudita. A quale dei due rami del Parlamento affideranno i progetti di legge sulle materie-non materie che la Corte ha dovuto sollevare dal profondo dell'ordinamento per colmare i vuoti anche lessicali di quel testo ? A quale delle due Camere attribuiranno i progetti di legge "riguardanti" gli interessi unitari dell'ordinamento ? Anche le innovazioni che si intenderebbero apportare al procedimento legislativo allarmano per la ridondanza che le caratterizza senza alcuna reale esigenza istituzionale confessa[/ACM]bile. Il comma nono della proposta di modifica dell'articolo72 della Costituzione ha ad oggetto poteri già disponibili nel nostro ordinamento per la maggioranza parlamentare, quella sulla cui fiducia -si basa la composizione, la direzione, l'azione, la stessa esistenza di un determinato Governo. Non v'è chi non sappia che un qualsiasi progetto di legge, tanto più se di iniziativa governativa, può benissimo essere iscritto con priorità, anche assoluta, all'ordine del giorno della Camera o del Senato. Anche la determinazione del termine del procedimento di formazione di una legge è nella possibilità di tale maggioranza. Decorso lo stesso termine, la stessa maggioranza può sempre respingere emendamenti, articoli aggiuntivi e quant'altro dispiaccia al Governo. Perché allora attribuirgli poteri tipici delle Assemblee parlamentari? Se per richiamare la propria maggioranza alla coerenza col programma di governo concordato in occasione dell'instaurazione del rapporto di fiducia, il Governo può ben servirsi della "questione di fiducia" della quale, per la verità, già fa un uso scandaloso, specie se combinata a maxiemendamenti ai testi dei decreti-legge. Non basta tale uso, si intende legittimare costituzionalmente l'abuso di potere di intervento del Governo nel processo di formazione delle leggi, l'appropriazione surrettizia del potere legislativo a danno del Parlamento ? Sulle modifiche alla forma di governo prescritta dalla Costituzione vigente, le riserve non possono che accentuarsi. Da parte dei proponenti si afferma che con le modifiche che si vogliono apportate si miri a rafforzare Governo e Parlamento. Dal testo elaborato dal Presidente della I Commissione del Senato non risulta. Risulta l'opposto. A rafforzarsi dalla scelta di sostituire il Presidente del Consiglio all'intero governo come destinatario della fiducia parlamentare non è né il Parlamento, né il Governo. Non è il Parlamento cui viene sottratto il giudizio sulle qualità politiche dei singoli responsabili dei vari dicasteri e sulla intera compagine governativa. Non è il Governo cui mancherà la forza politica che solo la fiducia del Parlamento espressa al suo insieme può conferirgli. A rafforzarsi sarà solo l'incaricato di formare il governo .... prima ancora di formarlo. Quindi non in ragione dell'intera configurazione personale dell'organo governo che intende presiedere e che è chiamato a comporre, il cui profilo più o meno alto, costituisce sintomo probante della sua attitudine di leader che ambisce a diventare statista. Ma solo per compiacere i pasdaran della nefasta ideologia della personalizzazione del potere. Alla stessa ideologia si iscrive il meccanismo predisposto per la sfiducia. Lo si aggrava sia aumentando da un decimo ad un terzo dei membri di ciascuna Camera la sottoscrizione della mozione di sfiducia, sia stabilendo che debba contenere il nome del nuovo Presidente del Consiglio, sia prescrivendo che possa essere approvata solo con la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna delle due Camere. Alle quali, da una parte, si imporrebbe di riunirsi in seduta comune, dall'altra, si esclude che possano agire come collegio. Per la validità dell'approvazione della mozione di sfiducia, infatti, è richiesto il voto della metà più uno dei componenti di ciascuna delle due Assemblee che si vedrebbero costrette a votare nella stessa riunione ma separatamente. Perché si vuol prescrivere allora che la sfiducia debba essere approvata dal Parlamento in seduta comune? C'è solo da ipotizzare che si voglia in tal modo .... sceneggiare una sorta di Apocalisse. Alla stessa ideologia appartiene la previsione che, qualora una delle due Camere neghi la fiducia, il Presidente del Consiglio sfiduciato ne possa chiedere lo scioglimento al Presidente della Repubblica eventualmente assieme a quello dell'altra Camera. L'uso del termine "chiedere" invece che quello di "proporre" identifica l'atto. Il destinatario della richiesta non può che provvedervi accogliendola o respingendola. Per respingerla dovrà disporre di ineccepibili motivazioni. La compressione del potere di scioglimento che l'art. 88 della Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica è evidente. Altrettanto evidente è l'intento di munire il Presidente del Consiglio di uno strumento forte di intimidazione nei confronti del Parlamento. Non attenuato certo dal divieto di scioglimento delle Camere se, entro venti giorni dalla richiesta da parte del Presidente del Consiglio, il Parlamento in seduta comune dovesse indicare a maggioranza assoluta dei membri di ciascuna di esse il nome di un nuovo Presidente del Consiglio. Che alcuni di questi dispositivi siano stati desunti dalla Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca e che, adottati per assicurare la stabilità governativa, in quel contesto istituzionale e politico abbiano dato buona prova non è contestabile. Ma è del pari incontestabile che non è, da soli, che tali dispositivi abbiano determinato il buon rendimento di quella forma specifica di governo parlamentare. La stabilità è solo una condizione strumentale ma non indefettibile degli effetti virtuosi che può produrre una forma di governo. È l'efficienza invece la condizione indefettibile del successo di un sistema di governo. A produrla non può che essere la forza politica che i governi riescono ad esercitare e che deriva solo dall'ampiezza e dalla densità della rappresentanza di cui dispongono. A palesarlo è la natura rappresentativa dello stato contemporaneo, perché è rappresentativa la democrazia moderna. O non è. Non da altro, non da artifizi di ingegneria istituzionale più o meno reclamizzati deriva quindi il rendimento di un sistema di governo. Scambiare lo strumento per obiettivo è deleterio. Lo dimostra l'esperienza dei venti anni della cosiddetta "seconda repubblica". La stabilità o non ha retto per l'eterogeneità politica delle coalizioni affastellate solo allo scopo di godere delle distorsioni del sistema elettorale maggioritario con o senza premio di maggioranza, o ha addirittura bloccato la dinamica politica con governi inefficienti o perversi. Insistere sulla stabilità senza rappresentanza o con rappresentanza degli interessi del solo leader di maggioranza distruggerebbe irrimediabilmente la democrazia italiana. Signora Presidente, o Onorevole Presidente, abbiamo ritenuto di esprimere le nostre valutazioni senza infingimenti, lo stile esplicito col quale ci siamo espressi è dovuto solo alla passione per la democrazia parlamentare che ci anima e che ci induce a chiederLe l'onore dell'attenzione che vorrà concedere alle nostre riflessioni. Con la più alta considerazione
«La parola d’ordine sarà pianificare a volumetria zero». Con questa asserzione, opportunamente vaga e che ricorda il "rifiuti zero" che fino a qualche anno fa ci si vantava di poter raggiungere, la Regione Campania si è presentata ieri al Forum PA di Roma, con una tavola rotonda dal titolo "Pianificazione paesaggistica e tutela dell´ambiente", presenti il presidente Caldoro e gli assessori Taglialatela e Trombetti.
Su un altro fronte, quello da sempre impegnato nella proposizione di modelli di sviluppo alternativi e sostenibili, si replica con un perentorio «consumo di suolo zero», quello alla base del recente Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Caserta, terra di cronache di cemento, di mafie e di rifiuti, elaborato da Vezio De Lucia e da un gruppo di giovani urbanisti che con lui hanno condiviso questa esperienza.
In casi come questi si può anche essere ottimisti, ma basta osservare la realtà, le politiche pubbliche che continuano a prodursi contro il territorio e che del territorio fanno preda, il quadro economico emergenziale dove gli enti pubblici sono collocati, la qualità generale della classe dirigente, per notare come i fatti concreti purtroppo vadano in un´altra direzione.
Gli ultimi dati elaborati dalla Svimez sui Comuni italiani, ad esempio, sono chiari: dei Comuni finiti in dissesto finanziario dal 1989 al 2011 il 79 per cento è al Sud. In Campania, circa due milioni di persone ne hanno subito le conseguenze. La Regione, nonostante gli annunci governativi dei vari "Piani per il Sud", soffre di una lentezza dei trasferimenti e di una crisi strutturale di risorse finanziarie che ne riduce i margini di manovra, limitandoli al mantenimento della sovradimensionata macchina burocratico-amministrativa. Su questo sfondo di generale debolezza degli enti pubblici, è il paesaggio a emergere sempre di più come comodo arnese economico-finanziario da utilizzare per garantire una sorta di equilibrio nel breve periodo, cedendo in diverse forme alle pressioni dei privati, pronti a far tintinnare la moneta urbanistica (quando non di altro tipo) e proporsi come investitori per progetti di tipo "pubblico".
Utilizzando la fase di emergenza, la Regione, le Province, i Comuni, facilitati anche da alcuni provvedimenti governativi, stanno mettendo in gioco le proprie aree di pregio, innescando una trasformazione del territorio al di fuori di qualsiasi pianificazione e modalità di controllo degli esiti. Un processo eminentemente irrazionale che avvantaggia il privato e che spesso, a fronte di un´impostazione predatoria, non produce nemmeno l´atteso ritorno in termini di risorse pubbliche. Le modalità di intervento in tal senso sono diverse, molte non codificate e di tipo locale, tuttavia ci sono alcuni dispositivi che per la loro dimensione appaiono più critici. Tra questi il Piano Casa, i cui effetti, con un ritardo di tipo strategico, si stanno per abbattere sui territori di pregio o dal precario equilibrio urbanistico, con le prime congrue richieste di espansioni e riconversioni residenziali a Napoli, nel Cilento, nell´area domizia, in Penisola Sorrentina.
A Roma, invece, i rappresentanti della Regione hanno raccontato di un disegno di legge che si intitola "Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio", ma che non prevede l´introduzione nemmeno di un solo vincolo o norma di tutela paesaggistica. Quattordici dei quindici articoli di cui è composto il dl (ora in discussione in commissione) infatti invocano generici principi di tutela, citano a più riprese la Convenzione europea del Paesaggio e sostengono con fermezza il principio della sostenibilità. Fino all´articolo 15, che si occupa, in maniera molto più concreta, dell´abrogazione di decine di vincoli paesaggistici, invertendo il senso del titolo stesso della legge. Sull´ultimo bollettino della Regione Campania, tanto per continuare, è stata pubblicata una leggina di due soli articoli che altera, a spese ovviamente dei beni pubblici, il regime di concessione delle aree demaniali. Ai titolari degli stabilimenti viene estesa la concessione all´intero anno ed è ammessa la realizzazione o il ripristino di piscine «rimovibili». A questa definitiva consegna della aree balneabili al privato viene aggiunta l´improbabile, e anche un po´ comica, postilla che prevede «l´accesso gratuito agli stabilimenti ai minori di anni 12».
Questa sostanziale e quasi eccitata tendenza alla deregolazione (questa sì da portare e spiegare al Forum di Roma) tende a confinare la pianificazione territoriale e urbanistica in un´area di inefficacia da cui sarà progressivamente difficile uscire. L’attività di pianificazione (dispiace per l´amico De Lucia) tende a diventare un esercizio inutile, e non è con le parole d’ordine (consumo di suolo zero, volumetria zero, rifiuti zero) che si muteranno gli esiti di un processo pernicioso e, a quanto pare, sufficientemente condiviso.
Postilla
E' veramente sacrosanta l'indignazione di Giuseppe Guida per i sistematici provvedimenti di delegificazione in materia di governo del territorio che caratterizzano l'attuale amministrazione campana. Eddyburg è stato promotore con le associazioni ambientaliste dell'appello nazionale per il ritiro del pernicioso disegno di legge "Norme in materia del paesaggio", giustamente stigmatizzato da Guida, che rischia di mettere una pietra tombale sul procedimento di pianificazione paesaggistica all'ombra del Vesuvio. Resta il fatto che, nonostante tutto, continuiamo a preferire una provincia di Caserta con un buon piano di coordinamento territoriale, ad una provincia priva di regole. Un cattivo piano regolatore di castel Volturno è stato già rispedito al mittente perchè in contrasto con il nuovo piano provinciale. E poi, fossero anche davvero solo parole, sono pur sempre parole che rompono il mortificante silenzio civile imposto da Cosentino & Landolfi. Antonio Di Gennaro
Titolo originale: Augmented reality adds a new dimension to planning decisions – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Sull’urbanistica si scatenano le più accese discussioni pubbliche. Gli abitanti spesso non capiscono esattamente che tipo di trasformazione viene proposto, o quale effetto possa avere sull’area circostante una volta portato a termine. Iniziano a operare le ruspe, la trasformazione prende forma, e qualcuno lamenta che quella cosa non assomiglia affatto alle rappresentazioni artistiche viste. Si era magari pensato a un edificio di dimensioni medie, che adesso improvvisamente si trasforma in un incombente struttura commerciale che sbarra la vista dalla finestra della camera. Spesso alla radice del problema c’è il mancato coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni di trasformazione, e a volte si tratta di qualcosa di non intenzionale. E se tutti coloro che sono interessati a un progetto lo potessero verificare su un perfetto modello virtuale, direttamente sul telefonino o sul tablet? Un modello inserito nel contesto, verificabile da tutte le angolazioni? È quanto promette la nuova generazione di strumenti per l’urbanistica a “realtà aumentata” [ è la traduzione italiana di augmented reality proposta anche da Wikipedia, e mi adeguo, aggiungendoci rigorosamente le virgolette, anche se mi pare orrenda, e pure un po’ fuorviante n.d.t.].
Sommando informazioni digitali e mondo reale, il software per “realtà aumentata” costruisce un accurato contesto in cui si compongono area e progetto. Invece di doversi aggirare fra le complesse terminologie tecniche di un elaborato, o essere obbligati a formarsi un’opinione sulla base di schizzi artistici o modelli in scala, diventa possibile una specie di visita diretta al luogo della trasformazione, e con un clic si ottiene immediatamente una serie di impressioni sull’aspetto finale dell’edificato inserito nello spazio. Imprese e università stanno sperimentando la tecnologia. C’è un progetto europeo denominato Arturo concluso nel 2004, che consentiva a architetti e committenti di discutere progetti prima della realizzazione. Avveniva in base a modelli generati dal computer in “realtà aumentata”, su schermi che consentivano una lettura virtuale a tre dimensioni, modificando in tempo reale punti di vista e proporzioni. Un altro prototipo si chiama Urban Sketches e utilizza un’interfaccia a “realtà mista”. Consentendo alle parti interessate a una trasformazione di sfruttare contemporaneamente filmati dello spazio di trasformazione e strumenti di disegno. Con le nuove applicazioni per smartphone, gli strumenti urbanistici di “realtà aumentata” potranno andare oltre l’uso di macchine di lettura particolari.
Strumenti in corso di verifica
Il Centro di Ricerche Tecnologiche VTT in Finlandia è uno dei pionieri nell’uso di “realtà aumentata” su dispositivi mobili con fini urbanistici. Le sue applicazioni sono state sperimentate per il progetto della Torre Kämp nella zona di Jätkäsaari a Helsinki, e di un albergo nell’area industriale di Billnäs. “Abbiamo mostrato i progetti ai consiglieri comunali che dovevano decidere” spiega Charles Woodward, responsabile di ricerca per la “realtà aumentata” al VTT. “Quindi è un criterio di giudizio aggiunto”. Più piccola la trasformazione, più facile risulta inserire e comporre tutti i dati sullo spazio, spiega il professor Eckart Lange, direttore del Department of Landscape all’Università di Sheffield, che ha lavorato a visualizzazioni tridimensionali per oltre vent’anni. “Aiuta l’uso di semplice geometria”. Possono costituire un problema di software gli ostacoli visivi. “Ad esempio se ci sono alberi a nascondere in tutto o in parte la trasformazione da alcune angolazioni”.
Lange spera che le applicazioni di “realtà aumentata” per dispositivi mobili migliorino la partecipazione del pubblico alle trasformazioni urbanistiche. “Così potranno partecipare davvero alle decisioni facendo pesare la propria opinione, anche usando direttamente i medesimi strumenti per esprimerla”. La stessa idea su cui sta lavorando VTT, una nuova versione del software con cui i cittadini possano esprimere un voto. In teoria si potrebbe eliminare così l’obbligo di partecipare direttamente alle assemblee, per far pesare la propria opinione.
Le tecnologie non si limitano all’aspetto esterno delle trasformazioni. È possibile verificare su apparecchiature mobile anche finiture e decorazioni interne, o impianti. La VTT ha inserito anche la possibilità di “vedere in trasparenza” e guardare la posizione di un tubo o sistema di aerazione dietro una parete o pannello. Ciò consentirebbe ai costruttori – e ovviamente anche a tutti coloro che sono coinvolti in una manutenzione – di comparare gli interventi con lavori eseguiti in precedenza. “Si tratta di nuovi territori per quanto riguarda le possibilità d’uso nelle situazioni reali” commenta Lange. È comunque convinto di un enorme potenziale per questi strumenti: “Possono cambiare il modo in cui si decide”.
Le tecnologie di “realtà aumentata” possono anche essere incorporate direttamente negli edifici, come ha dimostrato nella sua tesi di laurea, Mediating Mediums, lo specializzando della Harvard Graduate School of Design Greg Tran. Che parla di “ibridazione” fra ambiente costruito e mondo digitale: concetto che si capisce meglio guardando uno dei suoi video. Una visione ancora puramente ipotetica. La “realtà aumentata” su dispositivi mobili è un settore in piena evoluzione nel campo urbanistico-edilizio, e sono destinate ad emergere altre funzioni anche più commerciali. Appare chiaro comunque che i progetti saranno molto più verificabili per tutti.
postilla
Il problema è il solito. Il sistema può aiutare a comprendere gli interventi alla piccola scala (l’edificio o il complesso edilizio, il villaggio, il quartiere) ma non quelli a scala superiore, urbana, territoriale ecc.
(dalla versione originale dell'articolo diversi links a siti di ricerca)
A Parma e a Genova si svolge tra due giorni un altro “redde rationem” tra la casta partitocratica e l’altrapolitica, quella al servizio dei cittadini anziché dei comitati d’affari e di malaffare.
A Parma la politica d’establishment si chiama Vincenzo Bernazzoli, Pd, ex dirigente sindacale, il cui cursus honorum è però da un ventennio tutto dentro la nomenklatura di partito. Amatissimo dalla lobby dell’inceneritore, dai palazzinari, dalle banche, dalla lobby degli ipermercati, se vincesse a Parma non cambierebbe praticamente nulla, se non nel senso reso proverbiale da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo.
Federico Pizzarotti, invece, del Movimento 5 Stelle, costituirebbe la scossa sismica di cui la città ha bisogno per tentare la rinascita. Risultati del primo turno alla mano, la vittoria di Pizzarotti sembra un miraggio, eppure questo “miracolo” è oggi alla portata dei cittadini, dipende da loro. Molti, consapevoli della deprimente continuità che rappresenterebbe Bernazzoli, sono frenati però dalla paura che un sindaco 5 Stelle costituisca un “salto nel buio”. Perché non aver paura, invece, della sicura “morta gora” in cui resterebbe la città con la “non politica” del dirigente Pd, corriva con i potenti di sempre? Speriamo che tra i cittadini di Parma prevalga la razionalità e la passione civile, cioè la maggioranza per Pizzarotti: un sindaco 5 Stelle costringerebbe oltretutto questo movimento alla prova delle responsabilità di governo.
A Genova l’altrapolitica si chiama invece Marco Doria, il candidato del centrosinistra scelto con le primarie e inviso alle nomenklature di partito e alle oligarchie bipartisan della città. I suoi nemici più subdoli sono acquattati proprio dentro il Pd (e l’Idv), dove le gerarchie di rito burlandiano hanno dirottato col voto disgiunto quasi il 3% dei suffragi sul doroteo-berlusconiano Musso, impedendo a Doria di essere sindaco al primo turno. E vogliono azzopparlo con una vittoria risicata, con cui poi costringerlo progressivamente alla resa nei confronti dei potentissimi comitati d’affari liguri per i quali, lucidamente, Burlando e Scajola non fanno differenza. Qui razionalità e passione civile chiedono che i cittadini tornino a votare in massa per Doria, liberandolo da futuri condizionamenti partitocratici. E spiace che il genovese Beppe Grillo continui a non vedere l’abisso che separa Doria da Musso e rispetto ai due abbia imposto ai 5 Stelle un atteggiamento alla ponziopilato.
Restano vietate tutte le iniziative annunciate ad eccezione del grande corteo di sabato. «La Germania? Qui è peggio della Russia»
FRANCOFORTE - Le tende dell'Occupy-Camp resistono davanti alla Banca centrale europea, come gli striscioni. Solo i dimostranti non ci sono più, da quando mercoledì la polizia li ha sgombrati. Teso all'ingresso della tendopoli deserta, uno striscione si interroga: «Chi è che fa casino qui?». Un cuoricino rosso penzola, appeso alla stoffa. Eurotower, Kaiserstraße 29. Questo è il centro del blocco.
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Francoforte sul Meno è in stato d'assedio, la città bloccata. Non sono i dimostranti a produrre questo scenario ingessato, ma la politica senza precedenti delle autorità comunali.
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Non lontano da qui, all'asilo Kiz nel quartiere Gallus, la paranoia è esplosa all'inizio della settimana. Ansiose telefonate dei genitori al Kindergarten: potranno ancora affidargli i bambini? Tre chilometri oltre, in un ginnasio nel centro della città, grande è l'agitazione: «Che razza di caos ci aspetta?», vogliono sapere madri e padri dalla direzione. L'ufficio scolastico della città dispone: le famiglie, a loro discrezione, mercoledì potranno ritirare da scuola i loro figli prima del termine delle lezioni. Fino a domenica ogni attività universitaria è sospesa, atenei chiusi. Una circolare rassicura i dipendenti: i salari verranno pagati.
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«Per disposizione di polizia, i convogli non fermeranno nella Taunusanlage», la striscia verde nel quartiere delle banche. Così sta scritto in caratteri bianchi, sul blu delle tabelle luminose, nelle stazioni della Stadt-Bahn, la ferrovia urbana. I negozi di lusso sono barricati. Le banche, già chiuse giovedì, che in Germania è giorno festivo per l'Ascensione, non apriranno gli sportelli nemmeno oggi. E chi in questo venerdì voleva sposarsi al Frankfurter Römer, la sede storica del municipio, dovrà rinviare la cerimonia. «Per motivi di sicurezza», matrimoni si faranno solo nei municipi urbani fuori dal centro.
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Come è arrivato lo stato d'assedio a Francoforte? Forse i civilissimi «bloccupisti» sono solo l'avanguardia di un'orgia di violenza autonoma, da giorni pronosticata dalle autorità. Sarebbero alle porte 40mila dimostranti, e tra loro ben «2.000 violenti», molti più di quanti ne conti la polizia berlinese nelle battaglie del primo maggio a Kreuzberg.
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Eppure giovedì, davanti alla stazione ferroviaria, duecento persone si sono raccolte attorno a un uomo con tutt'altra aura. Canta «Shalom Alechem, vogliamo pace sulla terra». Altri intonano con lui. C'è pure Henning Zierock, cantautore di Stoccarda: «In Germania ci si lamenta spesso per le limitazioni alla democrazia in Russia. Ma qui è peggio». Zierock è indignato perché, a parte il corteo di sabato - autorizzato - la città ha vietato tutte le altre iniziative annunciate per i giorni dal 16 al 19 maggio da una variegata rete di opposizione, per protestare contro il potere delle banche sotto la sigla di Blockupy-Frankfurt. I tribunali si sono accodati.
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Sul piazzale della stazione, l'altoparlante della polizia si sovrappone al canto di pace: «Se volete dimostrare nonostante il divieto, allora potrebbe essere vietata anche la dimostrazione di sabato, finora consentita». La piccola folla preferisce continuare a cantare, non sta più a sentire la polizia. «Vi preghiamo di astenervi da tutto ciò che possa dare l'impressione di una dimostrazione», insiste l'altoparlante.
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Paulsplatz. Ingo e Gaby, coppia arrivata da un sobborgo di Francoforte, entrambi oltre i 60, stanno con poche centinaia di altre persone davanti alla Paulskirche, dove nel 1848 si riunì il primo parlamento nazionale tedesco. I due hanno in mano copie del Grundgesetz, la costituzione della Repubblica federale, e le tengono bene in alto. Sulle copertine bianche spicca una fascia nero-rosso-oro, i colori della rivoluzione del 1848 e della bandiera della Rft. «Siamo venuti perché abbiamo saputo che i tribunali hanno introdotto lo stato di polizia. Non è concepibile che i francofortesi non possano più riunirsi davanti alla Paulskirche, simbolo della repubblica costituzionale». Accanto a loro c'è Kolja, bimbetto biondo. «Mamma - chiede - perché qui è tutto vietato, alles verboten?»
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La città è sorvegliata da un esercito di 5000 poliziotti. Giovedì mattina tre bus provenienti da Berlino con 200 dimostranti sono stati bloccati già sull'autostrada. Sono seguiti controlli di documenti. Divieti di soggiorno a Francoforte. Sebbene sabato - sia prevista una manifestazione «legale», a molti viene già negato l'accesso alla città. Ovunque si riunisca una dozzina di persone, subito vengono circondate. La polizia non tollera «assembramenti», e non sta a discutere.
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Ciò nonostante nel pomeriggio in 300 sono riusciti a riunirsi sul Römerberg, davanti al municipio, per protestare contro i divieti. Sono perfino riusciti a montare sul piazzale una trentina di tende. Per un po' la polizia ha lasciato fare. Poi uno schiacciante schieramento di agenti ha chiuso in una morsa la piazza, per fare piazza pulita.
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Nel campus universitario di Bockenheim si sono ritrovanti in 150. Tra loro anche qualche ragazza e ragazzo venuti dall'Italia. Hanno cercato di muoversi insieme verso il centro. Bloccati e fermati -provvisoriamente? - anche loro. In serata la polizia parla complessivamente di 150 persone portate nei commissariati. Non sanno dirci se tra loro ci siano italiani.
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Kaiserstraße 29, Eurotower. Le reti metalliche di sicurezza, disposte dalla polizia per centinaia di metri intorno alla Bce, sono un po' arrugginite. Silenzio, niente traffico, splende il sole. Non funziona più nulla. Forse, chissà, verranno pure battaglie di strada. Ma qui è già tutto bloccato, alla grande.
© die tageszeitung
Traduzione di Guido Ambrosino
Titolo originale: Citizen service for teenagers a 'big success' – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il governo si prepara ad ufficializzare il fatto che il Servizio Civile Nazionale è un enorme successo dell’idea di "big society", da estendere a 90.000 partecipanti nel 2014, e che per ogni sterlina spesa ne arrivano almeno due alle comunità. Un calcolo effettuato da un organismo indipendente per conto del Servizio e pubblicato da NatCen Social Research. Il SCN è stato molto sostenuto da David Cameron, e mira a unire sedici-diciassettenni di tutti i ceti sociali in una esperienza comune formativa e al servizio delle comunità. Viene organizzato – molto elasticamente – secondo il modello del servizio militare, ma è del tutto civile e volontario.
Il governo prevede di ampliarlo dai 30.000 posti del 2012 a 90.000 nel 2014. Investendo 250 milioni di euro nel future dei giovani, che secondo calcoli del ministro Nick Hurd si possono tradurre in 500 milioni in vantaggi per le comunità. In altre parole il programma si paga abbondantemente da solo, tenendo conto delle ore di lavoro volontario erogate, nonché sul valore formativo per chi partecipa. Lo studio comparator rileva anche come il Servizio Civile Nazionale sia un momento di interazione fra ceti diversi, e riduca in seguito tendenze a comportamenti antisociali: in altre parole i vantaggi reali del programma potranno essere compiutamente valutati solo in futuro.
L’anno scorso hanno partecipato al servizio oltre 8.500 sedicenni. La ricerca conferma una notevole soddisfazione, e la tendenza a raccomandarlo agli amici, il 95% commenta che il servizio ha un ruolo formativo per il futuro professionale, mentre la percentuale di chi intende continuare a studiare in seguito aumenta dal 27% al 34%; l’85% dei partecipanti racconta di aver assunto un atteggiamento più positivo verso persone di ceti sociali diversi. L’indagine rileva complessivamente 200.000 ore di lavoro sociale erogate nel 2011 e il 77% dei partecipanti si dice intenzionato a proseguire qualche tipo di impegno con la comunità anche dopo. Penny Young, responsabile di NatCen Social Research, spiega: "La nostra valutazione fa emergere l’impatto del Servizio sui giovani. Comparando i risultati generali con quelli di un “gruppo di verifica” possiamo evidenziare precisamente anche i risultati in termini di formazione e alcune potenzialità".
postilla
Anche oltre l’ovvia retorica auto celebrativa, e le tutto sommato piccole cifre, dovrebbe saltare all’occhio quanto proprio l’approccio “monetario” del governo liberista per eccellenza sottolinei un aspetto: gli investimenti sociali sono davvero tali, e lo sono anche sul breve termine! Torna in mente nel caso italiano il vuoto lasciato dall’abolizione del servizio militare obbligatorio e la mancata riorganizzazione e rilancio di quello civile sostitutivo, che tanto avrebbe potuto (e forse ancora potrebbe) svolgere un ruolo fondamentale sia per chi partecipa, sia per gli enti e i territori interessati (f.b.)
Il Pdl apre un nuovo fronte nei confronti del governo Monti. Con un blitz in Commissione Ambiente del Senato, il Popolo della libertà ha imposto all'ordine dei lavori la discussione di tre disegni di legge che hanno mirano a riaprire i termini dell'ultimo condono edilizio del 2003.
Primi firmatari dei provvedimenti sono due senatori campani del partito, Carlo Sarro e Gennaro Coronella, e il Commissario regionale, Nitto Palma, ex ministro della Giustizia. La tentazione di riaprire i termini del condono per cercare di fermare le ruspe nella regione italiana probabilmente più devastata dall'abusivismo edilizio non è nuova. Già nel febbraio scorso il Pdl (con il sostegno di Fli) aveva cercato di infilare una simile norma "ad regionem" (sarebbe valsa per la sola Campania) all'interno del decreto "milleprororoghe", ma il tentativo era naufragato 1 grazie all'opposizione di Pd, Idv e Lega.
Questa volta l'escamotage usato sarebbe la necessità di "riparare" il danno subìto dai cittadini campani, in relazione alla decisione della Corte Costituzionale che nel 2006 ha censurato una legge varata dalla Regione Campania per differire i termini di sanatoria legati all'ultimo condono. Ma proprio in quanto la Consulta ha respinto la possibilità di un "condono regionale", in caso di approvazione le proposte avanzate oggi in Commissione Ambiente del Senato porterebbero al varo di un quarto condono edilizio nazionale, valido anche per le edificazioni abusive avvenute nelle aree vincolate. "Il procedimento di demolizione - si legge ad esempio in uno dei ddl - è comunque differito anche nel caso in cui sia stata accertata la violazione di vincoli paesaggistici, salvo che sia stato concluso il procedimento di adozione del nuovo piano paesaggistico".
Per Roberto Della Seta, capogruppo del Pd in Commissione Ambiente, "è quasi surreale che in un paese come il nostro, assediato da condizioni diffuse di dissesto idrogeologico e abusivismo, specie al Sud, una grande forza politica come il Pdl tenti di riproporre lo strumento del condono, che nella storia recente dell’Italia ha più volte mostrato il suo effetto principale, cioè di alimentare ulteriormente la spirale delle costruzioni illegali e del business delle ecomafie. Gli abusi edilizi vanno perseguiti e demoliti, specie se come in Campania e in gran parte del meridione riguardano aree pregiate e vincolate".
Le possibilità che l'iniziativa lanciata oggi a sorpresa a Palazzo Madama sembrano essere ben poche e il Pd già annuncia battaglia. Ma oltre a un problema ambientale, di legalità e di sicurezza del territorio, la sortita dei senatori campani del Pdl apre come detto anche una questione prettamente politica nei rapporti tra il primo partito di maggioranza e il governo. Contenzioso che si va ad aggiungere ad un lungo elenco di temi motivo di conflitto, dalla giustizia alla riforma del lavoro. "Mai più condoni edilizi, spero di inserire in norma un divieto assoluto", era stata infatti una dei primi impegni assunti dal ministro dell'Ambiente Corrado Clini pochi giorni dopo il suo insediamento.
Vezio De Lucia voleva creare «al posto delle ciminiere Italsider, una riviera di città turistica, bella forse più di via Caracciolo, nell’incantevole scenario tra l’isoletta di Nisida e il litorale flegreo», mare balneabile per due terzi, un parco, strutture per la ricerca scientifica, con attrezzature alberghiere e un massimo di 2 milioni di metri cubi di edifici. Ma non si è mai realizzato. E ora all’orizzonte c’è un impianto per trattare i rifiuti.
Professor De Lucia, che ne voleva fare lei di Bagnoli?
«Quello che fu deciso quando io ero lì: volevo risarcire la città di quello che non ha mai avuto sin dall’Unità d’Italia».
Da urbanista metterebbe insieme finalità legate al ciclo dei rifiuti e turismo?
«Naturalmente mi ha stupito molto. Non ho pregiudizi verso questo tipo di impianti, se sapessi di una cosa del genere nei pressi di casa mia non scenderei per strada, perché credo ci si debba fidare dei poteri pubblici. All’estero, a Parigi sulla Senna, a Vienna sul Danubio ci sono impianti anche più hard di quello ipotizzato a Bagnoli, che funzionano perfettamente. Però non posso negare la mia perplessità».
Su che cosa?
«Sul fatto che la prima cosa di cui si parla a proposito di Bagnoli sia appunto un impianto di compostaggio».
Perché?
«Secondo me continua a essere prevalente l’idea che Bagnoli sia uno spazio vuoto da riempire. Non ci si crede. Stiamo ancora a domandarci "che ne facciamo?", in preda all’horror vacui».
Non si crede in che cosa? Nel suo progetto, nella possibilità di un recupero come quello avvenuto per la Ruhr in Germania?
«L’unica cosa che si fa è la Porta del parco. Un giorno mi telefona una tv per un’intervista e mi danno appuntamento "alla Porta del parco". Chiedo che cos’è, ci vado e trovo edifici in vetro e cemento. Questa è la rappresentazione pratica dell’idea del vuoto da riempire. Illustri personaggi della politica e anche del mio mestiere di fronte all’ipotesi di 120 ettari di parco replicano: "Non ce li possiamo permettere". E allora Ferrara, che ne gestisce 1200 dalle mura fino al Po? C’è il rifiuto della cultura politica ma anche della cultura napoletana tout court di immaginare questo spazio che doveva servire alla ricreazione dell’anima e del corpo, e che era però anche un’operazione fattibile, credibile, finanziariamente verificata. Questo non passa. La concreta operatività del progetto Bagnoli sarebbe stata dimostrata aprendo l’impianto sportivo, gli 80 ettari di parco. Sarebbe stato meglio dirlo alla fine: "In un angolino mettiamo anche l’impianto per i rifiuti"».
Invece?
«Invece a un anno dall’insediamento dell’amministrazione de Magistris, con Bagnoli in sofferenza, il primo intervento concreto di cui si parla non mi pare una cosa esteticamente convincente. Non sono contro. Ma fa pensare di nuovo che a Bagnoli si possa mettere quello che ci pare. Credo che questa amministrazione non sia accusabile di niente. Ma sono ora 20 anni che ha chiuso l’altoforno e dopo 20 anni stiamo ancora così».
Strane notizie dal Parlamento: a quel che pare è diventato «urgente e indifferibile» costruire stadi sportivi su aree a verde agricolo, e farlo in barba alle regole e alla Costituzione. Il governo ha appena rilanciato, peggiorandolo, un disegno di legge sugli stadi (AC 2800), presentato a inizio legislatura dal governo Berlusconi per «favorire la costruzione di impianti sportivi a sostegno della candidatura dell´Italia a manifestazioni sportive internazionali». Ma lo sport ha il ruolo di un cavallo di Troia: gli articoli della legge (già approvata al Senato e in discussione alla Camera) incoraggiano infatti la costruzione, intorno agli stadi, di zone residenziali e di servizi alberghieri e del terziario. Vere e proprie new towns, se vogliamo usare l´etichetta inventata per mascherare il delittuoso abbandono del centro storico dell´Aquila in favore di insediamenti "nuovi" che ne hanno disgregato il tessuto sociale.
Il governo Monti non si è finora distinto per attenzione ai problemi dell´ambiente, del paesaggio, dei beni culturali. Prosegue anzi, su questo fronte, la deriva inerziale che ha marcato il resto della legislatura in corso. Nulla, ad esempio, è stato fatto per correggere il dimezzamento dei fondi dei Beni Culturali (2008), perpetrato sotto gli occhi arrendevoli di Bondi. Nulla per frenare l´emorragia di personale: l´età media dei superstiti veleggia verso i 60 anni, e più di metà delle Soprintendenze italiane sono coperte "a scavalco", da funzionari che saltano da una città all´altra (nulla di simile accade per prefetti e questori). Eppure alcuni provvedimenti di questi mesi, pur innescati da motivazioni solo economiche, avranno effetti positivi. Tale è ad esempio la riduzione del sostegno alle imprese che producono impianti eolici e solari: fingendosi ecologista, l´Italia è in cima alle classifiche per incentivi alle imprese, ma non spende quasi nulla in ricerca nel settore. Si vede così che quel che importa non è produrre energia pulita, ma foraggiare gli amici degli amici. E intanto le pale eoliche, che in molti luoghi devastano il paesaggio, producono mediamente meno del 10% della potenza nominale installata (e sbandierata).
Bloccando la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 (che i soliti noti aspettavano con l´acquolina in bocca, pronti a devastare quel che resta dell´agro romano), Monti ha detto saggiamente che «sarebbe irresponsabile in questa fase impegnare l´Italia mettendo a rischio i denari dei contribuenti»; insomma, ha previsto e fermato l´enorme spreco di denaro e di risorse che ci si apprestava a fare in nome dello sport. Dopo questa scelta ammirevole, sbalordisce che il disegno di legge sugli stadi vada in senso diametralmente opposto, sposando in pieno la prevedibile alleanza fra i club sportivi di Roma e Lazio e i costruttori non contenti di aver già allagato di orridi sobborghi quella campagna romana che incantò Claude Lorrain e Goethe, Coleridge e Corot. Per imbavagliare eventuali interventi delle Soprintendenze a difesa del paesaggio, il testo del 2008 prevedeva, con la scusa della "semplificazione" alla Calderoli, il meccanismo del silenzio-assenso. Ma sin dalla legge 241 del 1990 questo principio non può applicarsi «agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico», come poi ribadito più volte, dalla legge 537 del 1993 alla legge 80 del 2005 (governo Berlusconi). Nato per tutelare il cittadino contro l´inerzia della pubblica amministrazione, il silenzio-assenso non deve valere in materia di paesaggio, dove il silenzio o l´inerzia non possono sostituire l´attivo esercizio della tutela, che l´art. 9 della Costituzione pone fra i principi fondamentali dello Stato. Lo ha detto la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell´Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza nr. 404 del 1997). In un soprassalto di dignità Galan, appena approdato al Ministero dei Beni Culturali, riuscì infatti a imporre nel testo di legge il rispetto dei vincoli e del parere delle Soprintendenze.
Rispetto a Galan, il nuovo governo ha fatto un passo indietro: nel testo presentato dal ministro Gnudi (che ha la delega allo sport), il silenzio-assenso torna a galla mediante il miserevole artificio di una conferenza dei servizi, destinata a favorire il trionfo dei palazzinari in agguato mettendo a tacere la voce del Soprintendente. Al suo parere vincolante si sostituisce infatti «il provvedimento conclusivo della conferenza di servizi, ad ogni effetto titolo unico per la realizzazione dell´intervento». Defenestrando senza scrupoli il pubblico interesse che (secondo la Costituzione) governa la tutela del paesaggio, la procedura viene svilita e ridotta al teatrino della contrattazione fra Comuni e costruttori. Perfino le «valutazioni di ordine sociale, ambientale e strutturale, degli impatti paesaggistici e delle esigenze di riqualificazione paesaggistica» vengono demandate (meglio: svendute) a uno studio di fattibilità, affidato non al Ministero, ma alla stessa impresa proponente. E, tanto per chiarire, il tutto dovrebbe svolgersi velocizzando al massimo «le necessarie varianti urbanistiche e commerciali» all´insegna di una «dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità ed urgenza delle opere».
Si scopre così che, mentre è in atto una gravissima crisi economica, con la macelleria sociale che ne consegue, è indifferibile costruire nuovi stadi in giro per l´Italia, anzi circondarli di supermercati e condomini nonostante i due milioni di appartamenti invenduti (centomila nella sola Roma). Né si pensa, almeno, di costruire impianti sportivi recuperando le periferie più degradate: secondo le peggiori abitudini dei palazzinari romani, si punta invece sulle aree a verde agricolo, meglio se con vincolo paesaggistico e archeologico, come quelle su cui hanno messo l´occhio la Roma e la Lazio, con progetti già bocciati dalla Soprintendenza, ma che la nuova legge farà fiorire facendoli diventare "indifferibili". Si stenta a credere che il presidente Monti possa mai sottoscrivere una tale enormità. Che il suo governo voglia, mentre il Paese reclama equità e legalità, puntare le proprie carte su questi indecorosi circenses.
Le scenografie barocche sono allo stesso tempo festose e drammatiche, come sapevano i grandi papi e i parroci di campagna che hanno adottato per un paio di secoli quel linguaggio emozionale, adatto indifferentemente per matrimoni e funerali. Ma le foto degli arredi e dell' apparato decorativo della settecentesca chiesa di San Paolo di Olbia – capitale della Costa Smeralda – accatastati in un angolo dopo il crollo, procurano la solita sensazione di sconforto. Una sensazione accentuata dalla “inattualità” delle esauste dorature di quei decori che nel tempo delle candele apparivano scintillanti come oggi i neon negli shopping mall. Una sensazione che conosciamo bene - e alla quale ci siamo abituati: si prova ogni volta che una calamità o la trascuratezza variamente declinata provocano danni – spesso irrimediabili – a manufatti famosi o sconosciuti, che dicono comunque della fatica di artisti e artigiani chiamati a testimoniare i progetti di comunità orgogliose. Sono molti i responsabili, ognuno con la propria dose di noncuranza, della perdita di pezzi consistenti del patrimonio italiano. Ma non è interessante sapere ora se le colpe del degrado della chiesa di Olbia sono dei parroci, della gerarchie ecclesiastiche o delle istituzioni civili.
Interessa la specialità di Olbia in questa epoca smemorata ( che non è più colpevole di altre città disinteressate al destino dei propri beni culturali). E' un caso speciale, Olbia, insieme ad altri: un complesso paesaggio della modernità adatto a spiegare i paradossi sociali e urbanistici, cresciuti nel tempo della crisi globale.
Nel compendio naturale più straordinario della Sardegna, ha realizzato in tempi rapidi una enorme urbanizzazione contro la bellezza di quel luogo. Piegandolo alle esigenze del mercato che dappertutto lascia poco tempo per occuparsi del paesaggio o della storia che resiste – documentata da quelle pochissime cose superstiti e per questo preziose come quelle sculture lignee mangiate dai tarli. Poche vecchie cose, malamente inglobate nella crescita feticcio, che meriterebbero una cura puntigliosa e spesso spese inferiori di quanto si immagina.
Colpisce la contraddizione: affiora normalmente nelle corti del lusso che esibiscono sguaiatamente le differenze tra ricchezze e miserie e quindi le spese superflue a dispetto di bisogni essenziali inascoltati.
D'altra parte è naturale domandarsi come sia possibile non disporre di qualche decina di migliaia di euro nel territorio dove atterranno continuamente sceicchi e nababbi, dove una casa può costare cento milioni di euro, e con il conto di una festa vip e cafona ci paghi il lavoro di un restauratore per molti mesi.
Il rischio in casi come questi, evidenziato dagli studiosi di società, è quello di perdere l'orientamento a cominciare dalla memoria di sé. E le città senza memoria, proprio come gli uomini, impazziscono senza rimedio. In questo quadro difficile meritano molto rispetto le fatiche degli amministratori olbiesi, ma l'entusiasmo acritico per la misura urbana che a decine di ettari per volta vola verso il raddoppio, appare francamente eccessivo («La Nuova Sardegna» del 9 maggio).
La vicenda dell'altare crollato rimanda inevitabilmente alla manifestazione «Monumenti aperti», in corso con risultati sorprendenti. Le file a Sassari e a Cagliari, e domenica scorsa a Alghero, per visitare architetture ben conservate ma pure brandelli di muraglie – testimoni di negligenze di altri tempi – ammoniscono contro gli sperperi odierni. I sindaci (e i vescovi per ciò che compete loro) dovrebbero trarre insegnamento da questa onda lunga di attenzione appassionata, che raramente si manifesta in modi così determinati. L'attesa di centinaia di persone per vedere l'abside mutilata di una cappella o un fortino dell'ultima guerra va oltre la curiosità suscitata da una iniziativa di successo.
Gli ha detto «non se ne parla» il ministro dell'Ambiente, glielo ha ribadito il ministro dei Beni Culturali, glielo hanno ripetuto il sindaco di Roma, l'Unesco, Italia Nostra, la gente del posto, l'Autorità di bacino e migliaia di intellettuali di tutto il mondo. Niente da fare: il Commissario ai rifiuti vuol fare la discarica proprio lì, a due passi da Villa Adriana. All'estero non ci vogliono credere, che un paese che si vanta di essere una delle culle della cultura possa solo ipotizzare di costruire la nuova pattumiera della capitale, in seguito all'inevitabile chiusura dello storico immondezzaio di Malagrotta (dopo mille rinvii e l'ammasso di 36 milioni di tonnellate di pattume) a 70o metri dall'area vincolata della maestosa residenza dell'imperatore Adriano. «Ma siete sicuri che non è una bufala?», hanno chiesto increduli tanti professori universitari e archeologi e storici dell'arte e intellettuali vari a Bernard Frischer, direttore del Virtual World Heritage Laboratory, tra i promotori di una raccolta di firme planetaria contro l'idea scellerata: «E impensabile che la Villa e il territorio circostante debbano subire il degrado che ovviamente deriverebbe dalla discarica in progetto». Ieri sera i firmatari (appoggiati da una mozione votata dalla Société Francaise d'Archéologie Classique) erano già quasi cinquemila. Da Lisa Ackerman, vicepresidente esecutiva del World Monuments Fund, ad Alain Bresson dell'Università di Chicago, dall'archeologo Tonio Holscher di Heidelberg all'architetto Richard Meier, da Salvatore Settis a vari docenti di Oxford e Berkeley, Harvard e Cambridge. Per non dire delle personalità di spicco del Louvre, del Prado, del Getty Museum di Malibù, dell'Hermitage di San Pietroburgo, del Kunsthistorisches Museum di Vienna... Una sollevazione. Che da una parte ci consola per l'amore che riconosciamo nel mondo verso i nostri tesori, dall'altra ci fa arrossire di vergogna. E ci ricorda quella tremenda battuta che girava tra gli intellettuali stranieri dopo l'infelice insistenza di chi come il Cavaliere sbandierava che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco». Diceva quella battuta: «L'Italia ha la metà dei tesori d'arte mondiali. L'altra metà è in salvo». Umiliante. Eppure va detto che questa volta, con l'eccezione della presidente della Regione Lazio Renata Polverini, un po' tutte le autorità locali e nazionali hanno usato parole nette. «Qui la discarica non si può e non si deve fare», ha tuonato l'altro ieri Gianni Alemanno. Due ore più tardi, sul suo blog si appellava «al commissario e a tutte le autorità competenti» spiegando che lì «1'Acea raccoglie acque importanti, da qui passa l'acquedotto dell'Acqua Marcia, ci sono fonti di captazione non solo per l'acqua a uso agricolo, ma anche per quella potabile. E qui c'è un sito tutelato dall'Unesco, Villa Adriana, che deve essere rispettato». Non c'è solo la residenza imperiale famosa nel mondo per il Ninfeo e il Teatro Marittimo, i Portici e le Grandi Terme e per le «Memorie di Adriano» di Marguerite Yourcenair. Ci sono intorno ampi spazi dove ancora si può vedere quanto belli fossero quei dintorni di Roma che abbagliarono i grandi visitatori del passato e antichi manieri medievali come quello che domina l'ex cava destinata a diventare una discarica e liquidato dagli esperti prefettizi, con una definizione furbetta tesa a non impensierire i custodi delle belle arti, come un «manufatto edilizio denominato Castello di Corcolle». Macché, a stretto giro di posta il prefetto Giuseppe Pecoraro, rispondeva al sindaco a brutto muso: «Nella vita di un funzionario pubblico a volte bisogna fare scelte obbligate anche se dolorose. Da parte mia non c'è naturalmente alcuna intenzione di ledere alcun territorio, ma il mio obiettivo è superare l'emergenza, e per farlo bisogna fare delle scelte. E l'obiettivo primario che mi guida è l'interesse pubblico». Avanti tutta: la discarica la vuole proprio a Corcolle. E a questo punto lo scontro è durissimo. In una lettera del io maggio a Mario Monti, a costo di andare in conflitto con la collega Anna Maria Cancellieri, i ministri dell'Ambiente Corrado Clini e dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi, sono infatti irremovibili. E non solo manifestano l'irritazione per la *** scelta del prefetto di incaponirsi su Corcolle «in aperto e pubblico contrasto con i nostri ministeri». Ma ripetono che «Corcolle insiste su un'area vulnerabile del sistema acquifere o regionale caratterizzata da una presenza significativa di pozzi d'uso prevalentemente agricolo, igienico e il domestico, oltre che dalle sorgenti Acquoria e Pantano Borghese, con una portata complessiva di i.ioo litri al secondo, captate da Acea per la rete idropotabile di Roma. La discarica metterebbe a rischio un'importante quota di approvvigionamento idrico della capitale». Di più: «La barriera geologica naturale (...) necessaria alla localizzazione di un eventuale discarica, è estremamente ridotta e caratterizzata da una permeabilità non conforme ai requisiti di legge con rischi di contaminazione ambientale del sistema acquifere o regionale». Il prefetto vuole andare avanti «in deroga ai vincoli stabiliti»? Inaccettabile, per i due ministri: «Non è possibile derogare da tali vincoli, come dimostrano le numerose procedure d'infrazione a carico dell'Italia». Non bastasse, «è altamente probabile» che se andasse avanti «l'iniziativa verrebbe bloccata», presumibilmente dalla magistratura, «e di conseguenza il sistema di gestione dei rifiuti di Roma entrerebbe davvero in emergenza». E allora che senso ha insistere? Quanto a villa Adriana, la lettera ricorda che il ministero dei Beni culturali ha ritenuto «che sia assolutamente improprio consentire un intervento lesivo di un patrimonio culturale e paesaggistico di valenza universale, annoverato tra i siti Unesco e come tale oggetto di un accordo internazionale che obbliga lo Stato alla tutela e alla conservazione». Cos'altro serve ancora, con lo spettro che l'Unesco possa davvero revocare alla residenza imperiale lo status di «patrimonio dell'umanità», per abbandonare il progetto?
Stop. Niente più cemento nei suoli agricoli di Gomorra, su molti dei quali vigilano gli uomini delle cosche, che controllano anche tanta parte del ciclo dell’edilizia. Se in provincia di Caserta si dovrà costruire, lo si farà nelle aree già urbanizzate, abbandonate, stravolte dall’abusivismo e da un’espansione dissennata. Si potrà persino demolire e tirare su nuovi edifici. Tutela integrale, invece, per quel che è sopravvissuto alle discariche legali e illegali, alla semina sparpagliata di ville e villette, e cioè per i terreni un tempo baciati da coltivazioni di pregio, come la vite maritata, che sfilava di pioppo in pioppo, raccontata già da Virgilio.
Lo prevede il nuovo Piano di coordinamento territoriale della provincia di Caserta, approvato all’unanimità (la giunta è di centrodestra a guida dell’Udc Domenico Zinzi, ma il Piano è partito con il centrosinistra, con l’assessore Maria Carmela Caiola). Un documento che indica i paletti per cento e più Comuni, fra i quali Casal di Principe, Casapesenna e Castel Volturno sciolti per camorra, i quali hanno tempo diciotto mesi per varare i loro Piani regolatori. Paletti rigorosi: il territorio di ogni Comune va diviso in due insiemi, quello urbanizzato, intorno al quale è come se si tracciasse un perimetro con una matita rossa, invalicabile; e quello rurale.
Nel primo, gran parte dell’attività edilizia deve recuperare costruzioni scadenti, dismesse o sottoutilizzate, anche demolendo e ricostruendo su superfici più piccole per lasciare lo spazio ai servizi che non ci sono (in primo luogo il verde). Eccezionalmente, si legge nel documento, ci può essere espansione edilizia, ma mai nel territorio rurale: qui solo fabbricati per le produzioni agricole. E poi, niente più centri commerciali.
Il tono usato dai progettisti, guidati dall’urbanista Vezio De Lucia insieme a Georg Frisch, è secco: «Qualunque nuovo impegno di suolo è consentito esclusivamente a condizione che si dimostri l’impossibilità assoluta di soddisfare le nuove esigenze all’interno del territorio già urbanizzato». Un tono che sembra imposto da un dato: la provincia di Caserta ha raddoppiato in trent’anni il proprio edificato. Ma si è trattato di una crescita «sciatta, rapace e a bassa densità», la definisce Antonio Di Gennaro, che ha curato la parte del Piano sul paesaggio agrario. «La superficie urbanizzata è di 250 metri quadrati per abitante, più del doppio di quella napoletana, segno che qui si è immaginato un sogno americano di non-luoghi spersi per la campagna», aggiunge.
Il Piano tenta di arginare una vorace periferia. Almeno 5 mila ettari, un quinto di tutto l’edificato, sono definiti "aree negate", disseminate di macerie edilizie, fra capannoni dismessi e manufatti ridotti a baracche. Tre quarti di questo territorio non sono stati pianificati, abbandonati a una crescita senza regole. «Ormai gli spazi agricoli intorno ad Aversa e a Caserta sono i frammenti di un arcipelago circondato da una desolante edificazione», spiega De Lucia, che negli anni Novanta è stato assessore nella prima giunta napoletana di Antonio Bassolino.
Il paesaggio agrario che è stato sacrificato era fra i più celebrati (gli ettari con la vite maritata raggiungevano quota 18 mila ancora nel 1954, ora sono 400). Ma una parte di esso resiste lungo la valle del Garigliano, intorno ai castagni vicino al vulcano dormiente del Roccamonfina. Resiste a fatica il tracciato borbonico dei Regi Lagni. E perfino la vite maritata, per iniziativa di alcuni produttori, riprende a vinificare.
«Bisogna vedere questi paesi per comprendere che cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra», scrive Goethe nel Viaggio in Italia (citato in esergo al Piano). E poi ci sono un patrimonio di piccoli centri storici, l’acquedotto di Carlo III di Borbone e quindi le regge, da Caserta a Carditello (che, derelitta, rischia di essere venduta all’asta).
«Conservare il suolo agricolo non significa che non ci sarà sviluppo», sottolinea De Lucia, «anzi le cose da fare sono molte: cinquantamila alloggi in dieci anni per una popolazione che cresce, almeno un migliaio di ettari per verde pubblico e servizi, spazi per la mobilità...». «Ora bisogna vigilare affinché la Provincia talloni i Comuni e li accompagni in una corretta pianificazione», chiosa Maria Carmela Caiola, che da assessore all’urbanistica della precedente giunta diede l’avvio al Piano.
Il rugby romano sarà presto soltanto un ricordo. Il basket – un glorioso passato di scudetti, fra Ginnastica Roma e Virtus – rischia di sparire dalla prima serie. Lo stesso può capitare al volley. Mentre le due squadre di calcio sono decisamente lontane, soprattutto la Roma, da Juve e Milan. La decadenza di una grande città si misura anche da questi fenomeni e segnali. Poi ve ne sono di più allarmanti, certo. Roma era la capitale europea di gran lunga più sicura. Con un tasso di omicidi talmente basso che, in Italia, veniva subito dopo Venezia e Bologna, le più “tranquille”, precedendo Firenze, Genova, Torino. Un omicidio volontario ogni 100.000 romani nel 2007, contro 1,7 omicidi di Milano e 1,5 della media italiana. Nell’ultimo anno c’è stata una escalation di ammazzamenti del 30 %. Impressionante.
Tutto è cambiato, in peggio. La violenza è di molto aumentata, come la smodatezza delle bevute dovuta anche all’assurdo allargamento degli orari in grandi piazze come Campo de’ Fiori, o a Monti, dove spesso scoppiano risse e si registrano accoltellamenti (l’ultimo di un giovane americano intervenuto a fare da paciere, qualche notte fa). L’ultimo decreto del governo dilata assurdamente orari e bevute. Ma il ministro Cancellieri non ha dato risposta alcuna alla denuncia allarmata in tal senso del senatore Luigi Zanda. Perché?
Con Alemanno i pullman turistici, per il Giubileo attestati in parcheggi esterni ben controllati, scorrazzano per Roma antica e parcheggiano, come minimo, sui Lungotevere rendendo più difficile un traffico sempre al limite del collasso. Il centro storico è una sorta di “mangiatoia” continua, senza più orari, fino a notte fonda. I cosiddetti “dehors”, orribili gazebos di plastica con stufe incorporate, di fatto impediscono la vista di chiese e palazzi. Erano stati in parte rimossi dal I° Municipio col “sì” della Soprintendenza statale. Ma Alemanno li ha prorogati fino a che non è sopravvenuta la primavera e non sono stati più indispensabili. Restano enormi ombrelloni con scritte pacchiane, menù goffi e ingombranti, camerieri che sollecitano i turisti a sedersi.
Fuori le mura cresce la foresta dei cartelloni pubblicitari. Dentro, la marea di tavolini e di seggiole di plastica invade senza regole né limiti anche piazza Navona trasformata in una bolgia dalla quale i vecchi “pittori”, ritrattisti o caricaturisti, sono di fatto spariti (saranno due o tre). L’arredo dei pubblici esercizi è precipitato. Per la prima volta i distributori automatici di coca-cola sono esposti nel gran teatro di Bernini e Borromini.
Nei vicoli e nelle strade intorno va pure peggio. Tor Millina ha raggiunto livelli di degradazione spaventosi. Fra pedoni e tavolini di plasticaccia sgasano in slalom, anche alle 13, camion e furgoni: portano cibi surgelati precucinati (nell’aria si diffondono odori inquietanti), oppure soltanto acque minerali, notoriamente deperibilissime. Anche in questo caso, niente limiti. Né vigili urbani in strada. Un caos e un frastuono continui. L’altra notte due vigilesse sono dovute battere in ritirata davanti ad una festa fracassona, a notte fonda, a Madonna dei Monti. E i residenti veri sono scesi sotto i 90.000, contro i 100-110.000 di pochi anni fa.
Penosa pure la gestione dei grandi servizi pubblici: tassa sui rifiuti decisamente elevata e raccolta differenziata poco efficiente. Così la spaventosa maxi-discarica di Malagrotta rimane un incubo. Le municipalizzate sono state affidate a manager “di fiducia” rivelatisi una frana, ad ex compagni “fasci”, e ad una corte di parenti, famigli e affini. Ed ora si vuol svendere una quota importante dell’Acea un tempo solida e sicura.
La politica culturale si è abbassata di livello, a parte il successo di Musica per Roma e di Santa Cecilia (dove nulla, per fortuna, è cambiato). Un pasticciaccio come quello per la Festa del Cinema era, qualche anno fa, inimmaginabile: ci si è intestarditi a cacciare una direttrice valida per far posto ad un direttore costoso e certamente “pesante”, aprendo conflitti di date e altro con Torino e Firenze. Al Maxxi la Fondazione procedeva, con entrate proprie superiori al 50 per cento (più del Louvre che è al 40). La si è voluta commissariare, grazie alla latitanza del ministro “tecnico”(?), costringendo alle dimissioni uno stimato dirigente come Pio Baldi, ex soprintendente di valore. Si è parlato dell’ex McDonald’s Mario Resca, sodale di Berlusconi, ma l’hanno “promosso” all’Acqua Marcia. E dell’onnipresente/onnipotente Emmanuele Emanuele che gioca in doppio con Vittorio Sgarbi sempre alla ricerca di “promozioni”, chissà.
Non va meglio, come dicevo, sul piano sportivo. Totti, dopo una stagione più che deludente, passa la mano per il basket e non si vede chi possa subentrare con progetti seri e capitali freschi. Non sta meglio la pallavolo, altro sport nel quale Roma eccelleva. Nel calcio la Lazio, tutto sommato, non demerita, anche se il suo presidente vuole soprattutto cubature attorno al nuovo stadio in una zona piena di vincoli. L’AS Roma sembra in stato confusionale: fuori dalla Champion’s e molto probabilmente dall’Europa League, ha raggiunto il record di espulsioni e fatto deprezzare taluni acquisti costosi, mentre il corso delle azioni è precipitato in Borsa da 1,09 € (primo trimestre 2011) all’attuale livello di 0,38-40 (- 60-65 %). Ora Luis Enrique ha deciso di lasciare ed è possibile che torni Vincenzo Montella che già allenava la Roma ed era stato indotto ad emigrare al Catania (dove ha fatto benissimo) da quei dirigenti che ora lo richiamano. Un colpo di genio.
Intanto i centurioni romani, tollerati per anni al Colosseo, rifluiscono da lì verso il Pantheon, in cerca di una qualche “rendita”. Anche per loro si profila il Parco tematico della romanità, una gigantesca Roma di cartapesta e cartongesso. Tanto per promuovere un’altra abbuffata di Agro romano. Qualcuno ricorda ancora i fasti alemanniani a tutto gas della Formula 1 all’EUR? Cittadini romani, le idee son queste.
«Completamente genuflessi al commercio, basta che arrivi un obolo di 30 denari e tutto diventa lecito». Parole pesanti, come nel suo stile. Dopo aver scatenato un polemica sui giornali nazionali tre mesi fa, l'ex direttore della Normale di Pisa e archeologo di fama internazionale Salvatore Settis, ieri alla Scuola grande di San Rocco per la presentazione del volume «John Ruskin e Venezia», ha rincarato la dose, prendendo di mira sia la questione del Fontego dei tedeschi (e del progetto firmato da Koolhaas per Edizioni Property) che le grandi navi in Bacino San Marco. «Le grandi navi? Quando è stato dato l'annuncio che sarebbe stata presa una posizione in merito da parte del Ministero tutti si aspettavano una legge che si muovesse in direzione opposta - dice Settis - che salvaguardasse cioè tutte le coste italiane impedendo alle grandi navi di avvicinarsi e tutelando ancora più delle altre quella veneziana.
Che non avesse deroghe, insomma, ma al massimo un inasprimento delle regole a fronte di un patrimonio così importante e invece...». Una condanna ferma, la sua, che in giorni caldi come questi (è di giovedì la riapertura del dibattito con la nascita di un possibile tavolo di confronto tra le associazioni cittadine, l'autorità portuale, il ministero e le compagnie) suona come una condanna senza se e senza ma. «Questa è una città piena di transatlantici che passano senza nemmeno sapere cosa c'è davvero a Venezia - ha sottolineato - c'è una disneyficazione diffusa ed è per questo che l'impegno civile deve aumentare. Sono i cittadini però a doversi muovere per primi». Il riferimento è giuridico: una sentenza della Corte costituzionale del 1986, in cui si è stabilito che il valore culturale ed estetico di un bene non può essere subordinato agli aspetti economici. «Con queste scelte è chiaro dunque che la classe politica sta violando la Costituzione italiana e dobbiamo ricordarglielo noi per primi - continua Settis - chi fa passare le navi in Bacino San Marco, chi svende gli spazi lo sta facendo e la giustizia non vuole questo».
Quello di Settis è stato dunque un appello diretto all'impegno civile, un'invocazione a continuare il lavoro iniziato dalle associazioni che, con metodi diversi, dalla protesta pubblica alle azioni legali, si stanno opponendo alle scelte. «Si tratta del futuro dei nostri figli - dice Settis - di rispettare quello che abbiamo ricevuto in eredità dal passato e consegnarlo al futuro: non è questo il modo».
la Repubblica
Le griffe prenotano la Galleria "Raddoppieremo i negozi"
di Ilaria Carra
Oltre il doppio degli spazi commerciali di oggi, da 20mila a 50mila metri quadri. È la base della proposta di valorizzazione della Galleria Vittorio Emanuele ufficializzata al Comune dai marchi del lusso della Fondazione Altagamma. Più insegne, fino al terzo piano del salotto, messe a reddito con un fondo immobiliare trentennale del valore (prudenziale) di 800 milioni: il 51 per cento del Comune, il 49 per cento privato. Con una clausola: per restare dove sono (anche se non nella stessa posizione) o sbarcare nel cuore della città, i marchi devono anche acquistare quote dello stesso fondo in proporzione allo spazio affittato. Una condizione, questa, che mette a serio rischio la sopravvivenza di molti negozi presenti oggi, specie quelli a conduzione familiare.
La Fondazione Altagamma guidata da Santo Versace ha presentato ieri il piano di fattibilità dell’operazione con cui punta a quasi metà della Galleria. La richiesta è arrivata direttamente al sindaco.
E proprio Giuliano Pisapia, sulla vicenda, vuole già chiarire: «Se si continuerà con l’idea di valorizzare così la Galleria, culturalmente e commercialmente, ci sarà un bando internazionale perché è un bene di Milano e di tutto il Paese e va valorizzata». Una proposta «da approfondire» che, sempre il sindaco, si augura non sia l’unica: «Spero ne arrivino anche altre», ha detto Pisapia. L’operazione, per la quale Altagamma si propone come advisor, frutterebbe a Palazzo Marino circa 400 milioni, dei quali «una quota importante - dice la proposta - sarà anticipata» subito al Comune che, a pieno regime in otto-dieci anni, incasserebbe circa 35milioni di redditività all’anno. In cambio, i privati si farebbero carico del restauro conservativo della Galleria (tra i 180 e i 200 milioni).
Il piano «proposto dall’advisor e approvato dal Comune prevede solo a livello d’eccellenza un completo assortimento di merceologie»: la metà degli spazi alla moda e alla cura della persona, il 20 per cento all’arte e alla cultura, il 15 al design, il 10 alla ristorazione e bar e il 5 per cento alla vendita di prodotti enogastronomici. I negozi monomarca sono la strategia: «Come in luoghi iconici del consumo, da Rodeo Drive alla Fifth-Madison Avenue - ricorda il presidente di Altagamma, Santo Versace - vogliamo trasformarla in una delle sette meraviglie del mondo». Un mix in cui sono compresi anche i negozi storici: «Avranno degli sconti», dice il segretario generale di Altagamma, Armando Branchini, secondo il quale saranno più agevolati che con l’attuale assegnazione «sulla sola base di una competizione sul canone». L’assessore al Bilancio, Bruno Tabacci, si compiace che sia arrivata «una proposta interessante e seria per valorizzare un patrimonio di cui si è sempre parlato ma per il quale non si è mai fatto nulla». Con un auspicio: «Si apra subito una riflessione seria».
Possibilista Carmela Rozza, capogruppo Pd in Comune: «Siamo per verificare tutte le ipotesi a patto che la proprietà resti in capo al Comune, che si faccia una gara e in Galleria restino luoghi anche per persone normali e non solo d’elite». Il capogruppo Pdl a Palazzo Marino critica e avverte: «La trattativa privata sulla Galleria sta proseguendo: nulla in contrario sulla partecipazione di privati, ma sul metodo pare si stiano ripetendo le anomalie di Sea. Se il Comune vuole privatizzare lo faccia veramente con una gara internazionale».
la Repubblica
Dimezzati in dieci anni boschi e prati di Milano
di Giuliana De Vivo
Sempre meno alberi, prati, campi coltivati. Al loro posto, sempre più palazzi. L’avanzata del cemento a Milano in dieci anni, dal 1999 al 2009, è stata inarrestabile. In tutta l’area del comune, compresa la cintura extraurbana, il «verde naturale e seminaturale» - aree boschive, prati non coltivati, spazi aperti con arbusti - è diminuito del 43,4 per cento. Passando dai quasi 489 ettari del ‘99 ai 277 attuali. Anche le aree agricole sono calate, del 14 per cento: dai 3.897 ettari di allora ai 3.428 di oggi. E questo nonostante una crescita della popolazione, nello stesso periodo, minima: le famiglie milanesi sono aumentate solo dell’1 per cento. È quanto emerge dal rapporto 2012 sui consumi di suolo elaborato dal centro di ricerca di Legambiente e dell’Istituto nazionale di urbanistica.
Dati ottenuti, spiega Stefano Salata del Centro di ricerca sui consumi di suolo, incrociando quelli contenuti nel database della Regione sull’uso dei terreni: «Si calcola la differenza matematica tra i valori di allora e quelli di oggi». Ma il cambiamento si vede anche ad occhio nudo: «Basta fare un’indagine cronologica su Google Earth, - aggiunge Salata - dalle vedute aeree sono evidenti gli spazi dove il verde è stato "mangiato", ad esempio nell’area nord ovest in prossimità dell’A4. O in alcuni punti del Parco Sud». Nell’intera provincia si è costruito l’equivalente di una città grande come mezza Milano: i campi coltivati spariscono al ritmo di 20mila metri quadrati al giorno. Ogni dieci giorni il cemento cancella un terreno da cui si ricavava il frumento necessario per 150 tonnellate di pane.
E l’erosione continua: per ora è stata scongiurata quella di 100mila metri quadrati di terreno all’interno del Parco agricolo sud Milano a Vignate, a favore del polo logistico Sogemar. L’assemblea del Parco che oggi doveva dare il via libera è stata rinviata su pressione degli ambientalisti, anche se il progetto resta in piedi, con il parere positivo del Comune.
Non va meglio nemmeno nel resto della Lombardia. Dove, secondo il rapporto di Legambiente, in media vengono distrutti ogni giorno 130mila metri quadrati tra campi coltivati, boschi, prati. L’equivalente di venti campi di calcio. Una situazione che è figlia, spiega il presidente di Legambiente Lombardia Damiano Di Simine, dell’assenza di uno strumento come il censimento sull’uso del suolo. «Ogni comune dovrebbe dotarsene prima di assumere le decisioni. Ma la proposta di legge di iniziativa popolare giace nei cassetti del Consiglio regionale da due anni, pur avendo raccolto consensi bipartisan».
Senza contare che anche le leggi esistenti non sempre vengono rispettate. «Sugli oltre 1.500 comuni della regione - denuncia ancora Di Simine - solo 178 hanno recepito l’articolo 43 bis della legge urbanistica regionale, che impone un onere maggiorato per le urbanizzazioni quando queste comportano consumo di suolo agricolo». Anche Milano è tra i comuni che non hanno, finora, adempiuto a quest’obbligo. A lanciare l’allarme è anche la Coldiretti Lombardia. «Assistiamo ad una continua erosione del patrimonio agricolo del territorio», denuncia il presidente Ettore Prandini, «con i campi stretti in una morsa tra l’espansione delle città e l’avvio di nuove grandi infrastrutture, dalla Pedemontana alla Brebemi, dalla Broni-Mortara alla Tem, che hanno e avranno un impatto pesantissimo sulla vita delle aziende agricole».
Corriere della Sera
La Galleria verso i privati
di Annachiara Sacchi
Un luogo di prestigio valorizzato come merita. O un grande atelier, a seconda di come lo si voglia vedere. Fatto sta che la giunta Pisapia sembra intenzionata a cambiare il volto della Galleria, pezzo unico del Demanio comunale e della storia cittadina. La proposta firmata da Altagamma è stata presentata ieri da Santo Versace, presidente della Fondazione. Sul piatto la cessione della Galleria a un fondo immobiliare: al Comune il 51 per cento, il 49 ai conduttori dello spazio commerciale. La Galleria, a quel punto, verrebbe svuotata di tutte le attuali funzioni, uffici compresi, per destinare gli spazi «interamente alle attività commerciali di eccellenza, con un incremento delle superfici commerciali(da 20 mila a 50 mila metri quadrati, ndr)». Mix merceologico definito: 50 per cento a moda, 20 a cultura, 15 a design, 10 a ristorazione, 5 a enograstronomia.
Versace è convinto che questa potrebbe diventare «una delle sette meraviglie del mondo», un «centro commerciale unico al mondo», una «vetrina straordinaria della città». E «senza prevaricazioni verso le attuali presenze, i cui contratti verranno rispettati» (potranno decidere se entrare nel fondo o incassare una buonuscita per liberare gli spazi in anticipo).I tempi: 8-10 anni per vedere la nuova Galleria. Nel progetto, da settimane sul tavolo del sindaco, del direttore generale Davide Corritore, dell'assessore Bruno Tabacci, si parla anche di cifre: il Salotto verrebbe conferito a un fondo immobiliare chiuso trentennale, con una valutazione di 800 milioni di euro. Palazzo Marino incasserebbe 400 milioni e una «quota importante» verrebbe «anticipata al Comune» che poi godrebbe, a regime, di una redditività annuale di 35 milioni (attenzione al patto di stabilità: solo se l'operazione dovesse andare in porto entro il 2012 il 30% del ricavato potrebbe essere usato dal Comune per la spesa corrente, altrimenti andrebbe ad abbattere il debito).
Ai privati, infine, spetterebbe l'onere di ristrutturare la Galleria (circa 200 milioni di euro). Il sindaco Giuliano Pisapia, che ieri ha consegnato al presidente del consiglio comunale, Basilio Rizzo, il progetto di Altagamma perché venga distribuito ai consiglieri, mette le mani avanti rispetto a chi sente puzza di trattativa privata: «Faremo un bando internazionale», puntualizza, augurandosi che «arrivino altre proposte».Più deciso l'assessore Tabacci: «Faremo un bando, anche se valutiamo positivamente l'innesto di questa iniziativa. Finalmente abbiamo scoperchiato un problema, quello della valorizzazione della Galleria, che prima di noi hanno solo fatto finta di risolvere». Tabacci insiste: «La Galleria va valorizzata, a costo di toccare interessi che sono consolidati. Va svuotato tutto, a partire dai gruppi consiliari per ridare dignità a quest'area che è tra le più calpestate d'Italia».
La Galleria come la Fifth Avenue? L'ex vicesindaco pdl Riccardo De Corato è contrario: «Un errore, perché a Milano c'è sono via Monte Napoleone e via Spiga». Poi, la contestazione sul metodo: «Anche qui si fa avanti un amico dell'assessore Tabacci». L'opposizione intravvede il rischio che «si ripetano le anomalie di Sea». Il capogruppo pdl Carlo Masseroli insiste: «Vogliamo fare gli stessi errori?». Se lo chiedono anche i commercianti dell'associazione «Il Salotto». Pier Galli, consigliere delegato, sbotta: «Siamo preoccupati e delusi: il Comune non ci ha mai interpellato, non c'è stata trasparenza». Fiume in piena: «Molte delle nostre attività sono a conduzione familiare, non abbiamo altri punti vendita. Versiamo di affitto 13 milioni di euro all'anno, non 180 mila. Io ne pago 189 mila, oltre mezzo milione il Savini. Chiediamo un incontro. Ne abbiamo il diritto».
Boeri: resti un Salotto, non una vetrina
Parte con le migliori intenzioni: «Buon segno che ci sia un'offerta». Bene «la regia pubblica». Ottimo «il progetto di valorizzazione deciso all'interno della maggioranza».
Ma, assessore Boeri?«No alla vendita. E la Galleria resti un salotto, non una vetrina».
Ci spiega?«Vetrina è uno spazio per il consumo. Salotto è luogo di incontro e di dialogo».
Insomma, cosa ci vuole dire?«Che è inaccettabile l'idea di farne unaRodeo Driveambrosiana: la Galleria deve essere uno spazio pubblico che continui a esprimere la storia di Milano».
E non si esprime con moda e design?«Anche. Ma Milano non è una città provinciale che ha bisogno di ostentare i suoi gioielli. Non ci serve un richiamo per i giapponesi: loro arrivano comunque per la Scala, per Palazzo Reale, per le Gallerie d'Italia. Non sentiamo l'esigenza di unmallamericano».
E di cosa allora?«Di un'idea urbana che faccia parte della nostra storia. Non a caso decine di pittori si sono cimentati sul tema della Galleria, a partire da Umberto Boccioni con la "Rissa" davanti al Camparino».
Proposte?«Sono d'accordo sull'idea di un bando internazionale, sarebbe utile per lotti verticali che valorizzino tutti i piani. Ma con proposte di contenuto...».
Per esempio?«Mi pare che la proposta di Prada, che ha dedicato parte dei suoi spazi alla Fondazione, vada in questa direzione».
Sulla vendita?«Sono contrario. La Galleria deve rimanere pubblica. Tutta».
postilla
Su queste pagine, e a proposito di una questione apparentemente specifica e circoscritta come la perequazione urbanistica, Maria Cristina Gibelli si chiedeva qualche giorno fa, più o meno: ma la giunta Pisapia ha qualche idea su cosa significhi costruire una alternativa di sinistra nell’amministrazione di una grande città? Meglio: giusto fare riferimento ad alcuni principi sui diritti, il valore della politica e via dicendo, ma sul territorio i principi si articolano molto praticamente in pratiche e politiche, equilibri, declinazioni, intrecci. E risulta quantomeno curioso che sia solo l’assessore Boeri, e forse per la sola specifica competenza urbanistica, ad esprimere forti perplessità proprio sul ruolo urbano e sociale delle risorse pubbliche, altrimenti svilite a oggetto di scambio virtualmente immateriale, dove nella logica dei vasi comunicanti si costruiscono equilibri fra amministrazione e soggetti privati privilegiati, che relegano la cittadinanza ai margini. Perché è sostanzialmente questo che sta succedendo, replicando su scala minore un genere di espropriazione assai simile a quella in corso con il famigerato slogan “ce lo chiedono i mercati”. Nel caso specifico, pare che una volta valorizzato lo spazio e incassati i dividendi li si possa investire altrove, che si tratti degli affitti degli stilisti in Galleria o degli oneri destinati alle compensazioni nella greenbelt inopinatamente solcata dalle infrastrutture ideologico-cementizie della “città infinita” (i cui teorici poi presenziano pensosi ai convegni sul consumo di suolo senza che nessuno faccia una piega). Mentre invece è proprio l’altrove ad essere sbagliato: la città è QUI, non è trasferibile, è una magnifica metafora della finitezza delle risorse, ma evidentemente chi naviga nei principi eterni se ne è scordato. Vediamo di ricordarglielo, prima che ci trascini nella sua allegra e suicida insipienza (f.b.)
Sul futuro assetto delle province, la Sardegna fa da battistrada. Con il referendum del 6 maggio ne ha eliminate quattro, le più recenti: Olbia-Tempio, Medio Campidano, Carbonia-Iglesias e Ogliastra. I sardi si sono, inoltre, detti favorevoli a un'eventuale abolizione delle altre quattro province, quelle storiche (Cagliari, Sassari, Nuore e Oristano).La novità che può segnare la strada anche a livello nazionale non sta, però, tanto nel fatto che nell'isola si sia passati all'azione, dando così concretezza a un dibattito che a livello parlamentare si trascina da mesi e che oscilla tra la cancellazione totale delle amministrazioni provinciali e una loro profonda riorganizzazione (tesi, quest'ultima, sposata dal Governo Monti con il decreto legge salva-Italia, il 201/2011), quanto negli esiti immediati del dopo-referendum.
La Sardegna ora è, infatti, un laboratorio: sta sperimentando quello che potrà accadere in tutte le altre regioni quando – così come prevede l'articolo 23 del salva-Italia – si tratterà di dare un nuovo profilo alle province. Che non spariranno, ma saranno ridotte a super-uffici comunali: dovranno, infatti, coordinare le attività dei municipi che ricadono nel loro territorio. Le attuali competenze delle amministrazioni provinciali saranno, invece, trasferite ai comuni, insieme alla gran parte del personale e al resto delle funzioni.
Le future province avranno, dunque, una struttura più snella e consigli ridimensionati nonché formati solo dai politici che già siedono nei municipi che fanno parte della provincia. Il tutto secondo nuove regole elettorali contenute in un disegno di legge approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri del 6 aprile e che ora è all'esame del Capo dello Stato. Il disegno di legge – da cui si aspettano risparmi per lo Stato per 120 milioni e 199 milioni per le province – dovrà essere operativo entro fine anno e sempre entro dicembre dovrà essere portato a termine il trasferimento ai comuni delle funzioni. Per il transito verso i municipi del personale e delle risorse non c'è, invece, una scadenza, ma non potrà che essere contestuale al debutto delle province nuovo formato, che avverrà il prossimo anno, iniziando dalle amministrazioni che nel 2013 arriveranno a fine mandato.
Ebbene, la Sardegna tutti questi problemi li sta già affrontando, con l'aggravante che nell'isola si tratta di far sparire, e non di riconvertire, quattro amministrazioni e che non c'è stata alcuna preparazione all'evento. Così ora la regione, a cui spetta governare la transizione, è in difficoltà. Regna l'incertezza normativa, tant'è che sono stati investiti della questione quattro avvocati, che dovranno dare un parere sul da farsi. Si tratta di ridisegnare i confini delle province rimaste (non è automatico che si ripristino i vecchi limiti e anzi c'è chi sostiene che sia a rischio anche la geografia delle amministrazioni storiche, perché il referendum ha cancellato i loro riferimenti territoriali), come e dove trasferire i 505 dipendenti, che fare degli investimenti in corso.
Sono nato in una terra di contadini. Ed è anche per questo che è un onore, per me che da sempre difendo la biodiversità, prendere la parola oggi al Forum dell’Onu sulle questioni indigene. Credo infatti che fra chi ama la Terra e le popolazioni indigene si debba stringere un’alleanza. Sono convinto che questi popoli sono stati, sono e soprattutto saranno da stimolo per costruire un futuro migliore che non può che partire dalla terra, dal suo rispetto, e dalla salvaguardia della biodiversità. Perché per troppi anni abbiamo calpestato il diritto al cibo e alla sussistenza di molte comunità indigene e di allevatori rincorrendo un progresso miope. L’analisi della realtà ci dice che molte buone pratiche e il sapere empirico tradizionale dei popoli indigeni meritano di essere studiati con attenzione per il bene della nostra Madre Terra. Per questo voglio anticipare ai lettori di Repubblica le parole che leggerò. Eccole.
Lavorare per la salvaguardia della biodiversità in campo agricolo e alimentare come strumento per garantire un futuro al nostro pianeta e all’umanità intera è importante.
La perdita progressiva della diversità di specie vegetali e razze animali può rappresentare, insieme al cambiamento climatico, il più grave flagello per gli anni a venire. Occorre tuttavia precisare che difendere la biodiversità senza tutelare la diversità delle culture dei popoli e il loro diritto di governare sui propri territori è un’impresa insensata. Tale diversità è la più grande forza creatrice della Terra, è l’unica condizione per mantenere e trasmettere un patrimonio straordinario di conoscenze alle generazioni future. Su questi principi Slow Food ha basato la propria esistenza e per mantenere questi principi ha realizzato nel 2004 Terra Madre, una rete di comunità del cibo che si è propagata in oltre 170 Paesi. Terra Madre non è un partito e nemmeno un sindacato, è semplicemente una rete, un movimento di persone che, nel rispetto delle proprie diversità, cercano il dialogo, lo scambio culturale, la solidarietà. Il diritto al cibo sta al centro di tutto. Il cibo, per essere condiviso, deve essere buono per il piacere di tutti; pulito perché non distrugge l’ambiente e le risorse della Terra; giusto perché rispetta i lavoratori, procurando il nostro sostentamento, garantiscono la vita della comunità terrestre. Tutti i popoli devono avere accesso al cibo buono, pulito e giusto. Tutti i popoli devono avere cibo adeguato che provenga dalle proprie risorse naturali o dai mercati da loro scelti. Tutti i popoli, nel produrre il proprio cibo, hanno il diritto di mantenere le loro pratiche tradizionali e la propria cultura.
Su questi principi e su queste basi molte comunità indigene di tutti i continenti hanno animato la rete di Terra Madre e hanno partecipato attivamente alle conferenze globali che dal 2004 si svolgono ogni due anni a Torino. Nell’ultima la cerimonia di apertura fu consacrata alle riflessioni delle comunità indigene espresse nelle loro lingue ancestrali. Da allora molte iniziative si sono attivate. Nel 2011 si è tenuta "Terra Madre Indigenous People" a Jokmokk, nel nord della Svezia, terra delle popolazioni Sami. Il congresso ha visto la partecipazione di indigeni provenienti da 61 Nazioni. Questi incontri generano autostima tra i partecipanti. Si avverte forte il senso di appartenere a una grande comunità di destino, di non essere soli nei propri territori, di avere un ruolo importante e costruttivo. Questa consapevolezza è stata rafforzata ed esaltata nel 2007 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che, con la Dichiarazione dei Diritti delle Popolazioni Indigene, ha affermato con chiarezza il contributo straordinario alla diversità e alla ricchezza della civiltà.
Slow Food non solo condivide questi principi ma ritiene che, in questo particolare momento storico caratterizzato da una crisi economica, ecologica e finanziaria, mettere a valore la diversità culturale del pianeta possa contribuire a innescare pratiche virtuose e sostenibili. Il benessere umano passa attraverso il diritto universale a un cibo di qualità per tutti. Obesità e fame, che dilagano nel mondo, sono i due volti di una stessa medaglia, sono il simbolo del fallimento di un sistema alimentare globale basato principalmente su una produzione industriale che dipende in massima parte dalle risorse energetiche fossili. Mai come in questo momento si avverte l’esigenza di cambiare alla radice questo sistema. Saper guardare indietro alle nostre tradizioni e a sistemi alimentari più sostenibili non è stupida nostalgia. La reintroduzione di produzioni alimentari locali è la risposta per nutrire il pianeta, è l’attivazione della vera democrazia, la partecipazione di tutti per il bene comune.
Per troppo tempo la produzione del cibo ha voluto estromettere o limitare i saperi delle donne, degli anziani e degli indigeni, relegandoli al fondo della scala sociale. L’umanità ha coltivato un’idea di sviluppo e di progresso basata sulla convinzione che le risorse del pianeta fossero infinite. Oggi la "gloriosa marcia" del progresso è arrivata sull’orlo del baratro e la crisi è figlia dell’avidità e dell’ignoranza. Ma il monito della Natura è ben più grave della crisi finanziaria, esso ci chiama a riflettere su un destino tragico per l’esistenza stessa dell’umanità, se non si cambiano marcia e percorso. Sarà giocoforza ritornare sui nostri passi, ecco allora che gli "ultimi" saranno quelli che indicheranno la strada giusta. Avremo bisogno della sensibilità delle donne e del loro pragmatismo, della saggezza degli anziani e della loro memoria, ci accorgeremo che i popoli indigeni hanno la chiave per un approccio più sostenibile al Diritto al cibo, perché da sempre praticano l’economia della natura.
Ma attenzione: dovrà essere evidente a tutti quanto male è stato procurato a questi soggetti nel nome del progresso e della supremazia del mercato. Quanti saperi, conoscenze e prodotti della Terra sono stati piratescamente derubati alle comunità indigene da multinazionali farmaceutiche e alimentari. Prima di rimetterci in marcia occorre restituire il maltolto, occorre impedire qualsiasi logica di agricoltura industriale insostenibile nelle aree indigene. Tutti abbiamo bisogno di rispettare e valorizzare l’economia della Natura e della sussistenza, per troppo tempo considerata inferiore all’economia della finanza globale.
Cresce nel mondo la consapevolezza che rafforzare l’economia locale, l’agricoltura locale e il rispetto delle piccole comunità sia una giusta pratica per riconciliarci con la Terra e la Natura. Mancanza d’acqua, perdita di fertilità dei suoli, erosione genetica di piante e animali, spreco di alimenti mai visto nella storia dell’umanità, sono problemi che, se si continua a produrre, a distribuire e a consumare il cibo con questo sistema alimentare, resteranno senza soluzione. In campo agricolo la nuova disciplina dell’agroecologia altro non è che la capacità di riproporre in chiave moderna il dialogo tra i saperi tradizionali e la comunità scientifica. Non sarebbe onesto non riconoscere che i popoli indigeni hanno un approccio alla produzione del cibo che è storicamente sostenibile. Sanno mantenere la fertilità dei suoli utilizzando risorse e metodi naturali, rafforzando la resilienza delle colture e degli allevamenti. La politica di molti governi e agenzie di sviluppo di contrapporsi e minacciare le pratiche agricole dei popoli indigeni, come la rotazione delle coltivazioni e la pastorizia, è una politica miope e sbagliata.
Slow Food condivide la sfida di questo Forum Permanente delle Nazioni Unite nel difendere le pratiche indigene che in molte parti del mondo operano per il mantenimento della coltura itinerante. Non è giusto appropriarsi dei beni comuni della Terra, ma come dicevano i Nativi Americani: «Insegna ai tuoi figli che la Terra è nostra madre, tutto ciò che accade alla Terra, accadrà ai figli della Terra. Se gli uomini sputano in terra, sputano su se stessi. Questo noi sappiamo: la Terra non appartiene all’uomo, ma è l’uomo che appartiene alla Terra. La Terra vale più del denaro e durerà per sempre».
Anche se in questo momento, in molte parti del mondo, gli arroganti prevalgono sugli umili; anche se le alte gerarchie del sapere e della politica non lasciano spazio ai contadini, ai pastori, ai pescatori e alla parte più sensibile di essi: le donne, gli anziani e gli indigeni; malgrado ciò siamo sempre più coscienti che riconciliarci con la Terra è l’unico modo per uscire dalla crisi. Le buone pratiche della lotta allo spreco, della condivisione e del dono, del ritorno alla Terra si realizzano con lentezza, senza frenesia e ansia. Tutta l’umanità è in debito con i popoli indigeni che hanno saputo nella pratica quotidiana mantenere questi principi, insegnando ai figli che tutte le cose sono collegate tra loro e che prenderci cura di tutte le creature è il dono più grande che ci è stato fatto.
MILANO — È dall'alto, con le fotografie aeree, che si vede l'avanzata del cemento e dell'asfalto, della mano dell'uomo che cancella prati, coltivazioni e boschi, con una media quotidiana di 13 ettari, pari a venti campi di calcio. Ma è dal basso che deve arrivare la salvezza del territorio, con i 1.546 comuni della Lombardia chiamati «a non tacere, metro quadro dopo metro quadro, il verde sacrificato sull'altare del business edilizio e delle grandi opere», dice Damiano Di Simine, presidente regionale di Legambiente, alla vigilia della presentazione (oggi al Pirellone) del «Rapporto 2012 sui consumi di suolo». «Ogni sindaco renda noto quanta terra dilapida ogni anno, firmando licenze edilizie e incassando oneri di urbanizzazione. Una trasparenza già prevista per legge, eppure disattesa: tanto che solo un comune su dieci rivela questo dato. Ma così non si conoscerà mai l'entità vera del disastro».
Fra le dodici province lombarde, la maglia nera spetta a Milano. Quella in cui ogni giorno «spariscono 20.063 metri quadrati di suolo, pari a 1,2 volte piazza Duomo». Quella dove «in dieci anni — denuncia Legambiente — la crescita dell'urbanizzazione ha riguardato 7.323 ettari: come se fosse nata una città grande come metà della superficie urbana di Milano, mentre nell'intera provincia la popolazione è cresciuta di soli 180 mila abitanti». Una provincia in cui sono scomparsi 6.839 ettari agricoli: «Se fossero tutti coltivati a frumento, produrrebbero un raccolto per 40 mila tonnellate di pane, sufficiente per sfamare 800 mila persone», spiega Di Simine.
Ma come arginare l'avanzata del cemento? «Con una strategia in tre mosse. Primo: con sgravi fiscali per le ristrutturazioni, per chi edifica su aree dismesse, per chi demolisce e ricostruisce su una stessa area; con un inasprimento fiscale invece per le nuove costruzioni su aree vergini. Secondo: vincolando gli oneri di urbanizzazione alle relative opere, così da evitare che i sindaci li utilizzino fino al 75% per pagare altre spese. Altrimenti, in tempi di tagli, il cemento diventa una fonte di introiti su cui far leva per far quadrare i bilanci». Terzo: con una legge che salvaguardi il suolo, come quella di iniziativa popolare che giace nei cassetti del Pirellone da tre anni».
Sui tempi lunghi della legge, che dovrebbe aprire un nuovo corso nella difesa del verde, Daniele Belotti, assessore regionale al territorio, spiega che «l'iter è fermo, perché prima occorre attendere che tutti i comuni abbiano approvato il proprio Pgt (Piano di governo del territorio), lo strumento che manderà in pensione i vecchi piani regolatori». Un cammino che però procede a passo di lumaca: «Infatti solo il 51% l'ha approvato, il 14% l'ha adottato, mentre il 36% è ancora in alto mare». Eppure corre il conto alla rovescia verso l'ultimatum del 31 dicembre: poi che succederà per i comuni sprovvisti di Pgt? «In quei comuni non si potrà più edificare — risponde Belotti. — In attesa di quella scadenza non possiamo introdurre una legge sul consumo di suolo che modifichi le regole, altrimenti rischieremmo di essere sommersi da una valanga di ricorsi al Tar».
Sul presente per il futuro
di Valentino Parlato
Dello stravagante fax dei commissari abbiamo già dato notizia ieri. Volerci chiudere a mezzo fax è una sconveniente provocazione. La nostra prima risposta è: resistere, resistere. Resistere perché il successo di Hollande dà speranze di uscire da un'Europa commissariata da banche e Merkel. E anche perché (lo vedete dagli annunci sul giornale) nel nostro paese ci sono moltissime comunità, ben politicizzate, che ci chiamano a tenere assemblee, con cene a sostegno del nostro giornale. Insomma non siamo soli.
Abbiamo nel nostro non breve passato attraversato crisi assai dure e siamo riusciti a superarle. Quindi ribadiamo la nostra parola d'ordine: non mollare.
Per non mollare anche noi dobbiamo darci una mossa: dobbiamo al più presto definire un piano economico che, anche con costi (inevitabile quanto dolorosa la riduzione del personale e delle spese), ci rimetta in condizioni di equilibrio. Dobbiamo definire questo piano e renderlo pubblico. E, aggiungo, contiamo molto sul sostegno dei nostri lettori, che già è rilevante. Dobbiamo pensare, come nel passato, a numeri a prezzo straordinario.
Ma più del piano economico è decisivo definire e rendere pubblico un piano editoriale. Dobbiamo riuscire a non farci attrarre dalle provvisorie congiunture politiche. Dobbiamo riuscire in una seria e continua analisi della attuale crisi della sinistra, non solo in Italia. Perché le ultime parziali elezioni amministrative sono andate così male? Perché il Pd e anche le forze alla sua sinistra non vanno bene? Perché c'è anche nei partiti un invecchiamento degli stati dirigenti, che danno spazio ai rottamatori tipo Renzi? Insomma cercare di capire innanzitutto che cosa è cambiato nei processi produttivi e capire in che misura le innovazioni hanno indebolito la forza della classe operaia.
Insomma, e l'attuale grande crisi globale lo testimonia, siamo a un passaggio d'epoca, nella quale anche forme di sfruttamento e accumulazione cambiano, e in una fase nella quale la finanza (il denaro che fa denaro) annebbia gli occhi più attenti. Questa è una crisi del capitalismo del tutto nuova. Quindi insistere in una discussione, già aperta, con intellettuali, economisti, uomini di cultura sul presente e sul probabile futuro per capire come governare questo processo per evitare che si concluda in un ennesimo affare dei soliti padroni. Resistere indubbiamente, ma con questo impegno a un serio rinnovamento della sinistra.
All'armi son faxisti!
di Alessandro Robecchi
Cari compagni. In questo difficile momento, mentre barcolliamo, pur senza retrocedere, davanti a un vile attacco faxista operato con antiche tecnologie dai commissari liquidatori del manifesto, è il momento della severa autocritica. Noi non siamo stati capaci di modernizzarci, non siamo stati al passo coi tempi, non abbiamo capito le mutate condizioni delle masse. E specialmente delle masse di pezzi di merda che hanno fatto i soldi con i contributi dell'editoria senza averne diritto e anzi con l'antico metodo della truffa. Noi, rinunciando alla nostra natura di rivoluzionari, abbiamo fatto tutto secondo la legge. Non abbiamo barattato qualche milioncino di euro con favori compiacenti, né ci hanno intercettato come il signor Lavitola mentre chiedevamo al presidente del consiglio Berlusconi buon'anima un po' di soldi per l'Avanti!, per dire. E nemmeno siamo andati a vendere elicotteri a Panama caldeggiando tangenti per ungere questo o quel presidente centroamericano. Abbiamo dimostrato così di non capire la complessità del presente. Noi non abbiamo messo a bilancio, come il prestigioso foglio la Discussione, un'Audi A8 del valore di 99.000 euro, con cui pagheremmo quasi cento stipendi. E nemmeno abbiamo destinato alle nostre spese personali qualche soldino ricevuto su esempio de Il Campanile, testata che certo campeggia nella rassegna stampa della Casa Bianca e dell'Eliseo, essendo emanazione dell'Udeur di Mastella. E non siamo nemmeno accusati, come il senatore Ciarrapico, di aver moltiplicato i contributi servendosi di prestanome ottuagenari (il processo a breve). Insomma, compagni: noi ci siamo seduti sulla più retriva legalità borghese, mentre altri (specie i "borghesi") fregavano a man bassa dichiarando milioni di copie e vendendone, nei giorni buoni, diciassette. Ora che il faxismo contabile ha colpito, dobbiamo meditare e discutere sulle nostre colpe e interrogarci sul vecchio ma sempre fecondo interrogativo: "che fare"? Non è che a Panama servono altri elicotteri? Non è che a Berlusconi servono altri favori? Sai mai che...
Su The American Economic Review ho letto un saggio autorevole in cui si spiegava esaurientemente come l´elevato tasso di disoccupazione del Paese avesse profonde radici strutturali e non fosse suscettibile di essere risolto in tempi brevi. La diagnosi dell´autore era che l´economia americana, semplicemente, non sarebbe abbastanza flessibile per affrontare il rapido cambiamento tecnologico. Il saggio era particolarmente critico nei confronti di programmi come il sussidio di disoccupazione che, si sosteneva, in realtà danneggia il lavoratore perché riduce l´incentivo a trovare una soluzione.
C´è una cosa che non vi ho detto: il saggio è del giugno 1939. Soltanto qualche mese dopo sarebbe scoppiata la Seconda Guerra Mondiale e gli Usa - sebbene non ancora entrati in guerra - avrebbero iniziato a organizzare un vasto programma di riarmo, accompagnato da forti incentivi fiscali su una scala commisurata alla gravità della recessione. E, nei due anni successivi alla pubblicazione di quell´articolo sull´impossibilità di creare rapidamente posti di lavoro, il tasso di occupazione del settore non agricolo americano sarebbe cresciuto del 20%: l´equivalente di 26 milioni di posti di lavoro di oggi.
Adesso ci troviamo a dover affrontare un´altra crisi, non così grave come l´ultima ma abbastanza grave. E, ancora una volta, personaggi dal tono autorevole sostengono che i nostri problemi sono "strutturali" e che non possono essere risolti rapidamente. Dobbiamo concentrarci sul lungo termine, ci dicono. Che cosa significa sostenere che il nostro è un problema di disoccupazione strutturale? La risposta che si è soliti dare è che i lavoratori americani sono bloccati nei settori di attività sbagliati o che richiedono competenze diverse. Raghuram Rajan, dell´Università di Chicago, sostiene che il problema consisterebbe nella necessità di spostare i lavoratori dai settori "gonfiati" dell´edilizia, della finanza e del governo.
In realtà, l´occupazione pro capite nel settore governativo è rimasta più o meno stabile per decenni, ma non importa: il punto essenziale è che la perdita di posti di lavoro, dall´inizio della crisi, non è rimasta perlopiù circoscritta a quei settori che, probabilmente, si sono ampliati troppo durante gli anni della bolla. L´economia ha perduto posti di lavoro su tutta la linea, in ogni ambito e in professione, come era accaduto negli anni Trenta. Inoltre, se il problema consistesse nel fatto che molti lavoratori hanno le competenze sbagliate o non sono impiegati nel posto giusto, ci si dovrebbe aspettare che la manodopera che ha le competenze adatte e che si trova al posto giusto riceva consistenti aumenti salariali; in realtà all´interno della forza lavoro i vincenti sono pochi.
Tutto questo suggerisce che non stiamo patendo le difficoltà di una qualsivoglia transizione strutturale la quale, gradualmente, è destinata a fare il suo corso, ma stiamo invece soffrendo di una generale insufficienza di domanda: il genere di insufficienza che potrebbe e dovrebbe essere curata rapidamente con programmi governativi mirati ad incoraggiare la spesa.
Cos´è dunque questa tendenza ossessiva a definire "strutturali" i nostri problemi? Sì, ho detto ossessiva. Gli economisti hanno discusso questo argomento per anni e gli strutturalisti non accetteranno un no come risposta, non importa quante siano le prove che dimostrano il contrario.
La risposta, direi, sta nel fatto che sostenere che i nostri problemi sono gravi e strutturali offre una buona scusa per non agire, per non fare nulla che possa alleviare la piaga della disoccupazione. Ovviamente, gli strutturalisti affermano di non cercare scuse. Dicono che dovremmo concentrarci non sulle soluzioni rapide ma su quelle di lungo termine - sebbene non sia chiaro in cosa dovrebbe consistere una politica di lungo termine, al di là del fatto che essa comporta l´imposizione di sacrifici a carico dei lavoratori e dei meno abbienti.
Più di ottanta anni fa, John Maynard Keynes conosceva già questo tipo di persone. "Ma questo lungo termine", scriveva, "è una guida fuorviante per i problemi che abbiamo davanti. Sul lungo termine saremo tutti morti. Gli economisti si danno un compito troppo facile e troppo inutile se nei tempi di bufera ci sanno solo dire che quando la tempesta sarà passata il mare tornerà ad essere calmo".
Vorrei aggiungere che inventare ragioni per non fare nulla circa l´attuale disoccupazione non è solamente crudele e dispendioso, è anche una cattiva politica di lungo termine. Ci sono infatti prove sempre maggiori che gli effetti corrosivi di una disoccupazione elevata getteranno un´ombra sull´economia per molti anni a venire. Ogni volta che qualche politico o qualche esperto presuntuoso comincia a spiegare quanto il deficit sia un peso per le prossime generazioni, bisogna ricordare che il problema più grande che i giovani americani devono oggi affrontare non è il fardello di un debito futuro, ma la mancanza di posti di lavoro che impedisce a tanti laureati di iniziare la propria vita lavorativa.
Perciò tutto questo parlare di disoccupazione strutturale non va nella direzione di affrontare i nostri reali problemi, ma in quella di evitarli, di trovare una via di fuga facile e inutile. Ed è arrivato il momento di smetterla.
(Traduzione di Antonella Cesarini)
Il problema, in sostanza, è di sostituire la domanda fornita dal mercato (ossia, di fatto, dai “produttori”) con una domanda fornita dallo stato. Ma che domanda presenterà questo stato: Una nuova domada di armamenti bellici, come dopo la crisi del 1929, oppore una domanda pr rafforzare un welfare adeguato ai temi (formazione, salute, mobilità a basso costo energetico, territorio, difesa del suolo, paesaggio e beni culturali, cultura)?
L´anno scorso era rifugio di rom, nel 2015 potrebbe diventare il nuovo polo cittadino del cibo, una grande piazza coperta dove produttori e consumatori si incontrano secondo la filosofia del chilometro zero per abbattere i costi di distribuzione. Ma anche un centro di intrattenimento e cultura con un cinema multisala, uno spazio per la musica dal vivo e spettacoli teatrali, e un impianto sportivo con piscina, palestra, campi da gioco all´aperto e una scenografica pista di atletica di quasi mille metri che si snoda fra pilastri di ferro battuto. Eccolo il futuro del Palazzo di Cristallo, l´ex stabilimento della Lambretta di via Rubattino che ha preso il nome dall´edificio in ferro e vetro costruito a Londra nel 1851 in occasione della prima Esposizione universale della storia.
Un gioiello di architettura industriale di 20 mila metri quadrati di cui oggi resta solo lo scheletro, con una facciata composta da tre grandi arcate di 25 metri ciascuna, che la Aedes, società immobiliare proprietaria di tutto il terreno dove un tempo si costruivano le automobili e dove ora è rimasto attivo solo un capannone della Innse, deve ristrutturare. Il progetto è pronto: il masterplan dello studio di architettura Chapman Taylor specializzato in centri commerciali è già stato mostrato al Comune e il piano integrato di intervento in via di definizione. Se non ci saranno intoppi, le ruspe potrebbero arrivare l´anno venturo e, nel giro di due anni, si realizzerà «il primo esperimento di queste dimensioni di una grande funzione pubblica gestita interamente dai privati», come spiegano a Palazzo Marino.
Perché l´edificio, che resterà di proprietà privata, ospiterà una serie di attività aperte alla città e non esclusivamente commerciali. La nuova struttura sarà dedicata al cibo e diventerà la casa di consorzi agricoli, associazioni e produttori che operano nel settore alimentare in modo da riunire domanda e offerta in un´unica piazza coperta dove i consumatori potranno acquistare prodotti di qualità risparmiando. «L´idea è partita dalla pista di atletica: un anello soprelevato per il jogging che girerà tutto intorno al palazzo sul modello di quella già realizzata a Londra in un edificio industriale ristrutturato - racconta Filippo Carbonari, nuovo amministratore delegato di Aedes - . Da lì si sono sviluppate le altre parti: quella dedicata allo sport verso via Rubattino, quella per l´intrattenimento all´estremità opposta. Nel centro abbiamo pensato a una funzione che a Milano manca, un grande mercato del cibo: una casa per le 26 cascine che producono all´interno del territorio milanese, per i 4600 consorzi alimentari italiani e tutti i produttori di qualità».
LE RESIDENZE
Siamo in via Rubattino, al confine con il comune di Segrate, dove nell´estate del 2009 andò in scena la protesta dei cinque operai della Innse che si asserragliarono su un carroponte per giorni chiedendo il reintegro immediato dei lavoratori licenziati in vista dello smantellamento della fabbrica. Una protesta che si concluse con la vittoria degli operai, l´acquisto da parte della società bresciana Camozzi dello stabilimento e la firma di un accordo di programma in prefettura che prevedeva alcune modifiche al piano di riqualificazione dell´intera area tra cui la salvaguardia dell´ex Innocenti. Ora il progetto è pronto a partire. La Aedes, società quotata in borsa ma finanziariamente in gravi difficoltà da qualche anno, ha presentato una proposta che piace all´amministrazione e potrebbe sbloccare una delle aree di trasformazione più grandi di Milano, inchiodata da anni. Il piano prevede, oltre alla riqualificazione del Palazzo di Cristallo mantenendone la struttura originale in ferro, la realizzazione di 87.500 metri quadrati di appartamenti - di cui 17.500 a canone convenzionato e 7.500 sociale - in fondo all´area, verso Segrate, dove sono già stati abbattuti due capannoni industriali. Per la progettazione delle nuove case - che si aggiungeranno al quartiere residenziale appena costruito al di qua della tangenziale - verrà bandito un concorso riservato a giovani architetti.
IL PARCO
Non mancherà un´area verde che, insieme a quella già messa in ordine da Palazzo Marino sotto il cavalcavia, sarà grande 300 mila metri quadrati. Il nuovo parco circonderà lo stabilimento Innse, che Camozzi si è impegnato a ristrutturare, il Palazzo di Cristallo e le nuove abitazioni. Nel verde Aedes vorrebbe anche costruire un percorso benessere con attrezzature sportive da esterno disponibili a tutti. In contemporanea il Comune ristrutturerà l´edificio all´inizio di via Rubattino, che un tempo ospitava la mensa e gli uffici dell´Innocenti, per farne un complesso scolastico - dal nido alle medie - che il nuovo quartiere aspetta da anni. Il tutto corredato da interventi infrastrutturali che prevedono tra l´altro la trasformazione di via Rubattino in un boulevard alberato secondo il modello dei viali di Milano.
«Rubattino è uno dei progetti incompiuti della città - commenta Ada Lucia De Cesaris, assessore all´Urbanistica - . Il quartiere soffre una grave carenza di servizi e ha diritto a un progetto che riqualifichi l´intero comparto. L´intervento sul Palazzo di Cristallo è essenziale per la riqualificazione, per questo abbiamo avviato un confronto tra l´operatore e la zona, al fine di definire le funzioni e le attività più idonee per garantirne la massima fruibilità». Il progetto è complesso e richiede un investimento di almeno 350 milioni di euro. Soldi ancora da trovare. Il timore del Comune è che l´immobiliare realizzi solo le residenze abbandonando la parte pubblica, ma Carbonari assicura: «Vendere case in questo momento è difficile, lo sanno tutti. Per noi ora è più importante avviare il Palazzo anche perché ci aiuterà a mettere sul mercato gli appartamenti».