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Il recentissimo terremoto che ha colpito l’Emilia rende ancora una volta evidente il fatto che il nostro Paese è costretto ogni anno a sopportare perdite di vite umane ed enormi costi a causa dei disastri naturali; molti di questi costi, peraltro, potrebbero essere evitati, se si seguissero con maggiore attenzione le più elementari regole antisismiche.

Per offrire un contributo al dibattito abbiamo provato a effettuare una stima economica dei costi che in media ogni anno il nostro Paese è chiamato a pagare a causa di eventi naturali disastrosi. L’analisi condotta in questa sede si concentra in particolare sulle frane, sulle alluvioni e sui terremoti; per effettuare una quantificazione degli effetti dannosi che ne derivano sono stati considerati sia gli impatti sulla salute dell’uomo (morti e feriti) che quelli sulle cose (distruzione di strutture e infrastrutture).

I costi associati al dissesto idrogeologico: frane e alluvioni

Frane e alluvioni (piene) sono fenomeni naturali particolarmente frequenti in Italia e costituiscono oggi, con i terremoti, i principali fattori di rischio di origine naturale per persone e cose; le cause principali di questo fenomeno sono da ricercarsi soprattutto nelle caratteristiche geologiche e geomorfologiche del territorio italiano, cui si aggiungono alcune particolari condizioni climatiche (alternarsi rapido tra periodi di siccità e precipitazioni intense), le dinamiche idrauliche e di versante dei bacini idrografici, e (per le frane) alcune attività antropiche.

Dalla classificazione messa a punto dal Ministero dell’Ambiente, di concerto con gli altri Enti istituzionalmente competenti (ANPA, ora ISPRA; Dipartimento dei Servizi tecnici nazionali; Dipartimento della Protezione civile), risulta che il 21% dei comuni ha nel proprio territorio amministrativo aree franabili, il 16% aree alluvionabili e il 32% aree a dissesto misto; più in generale, il 7% circa della superficie territoriale nazionale è classificata a rischio idrogeologico potenziale più elevato.

Per effettuare una valutazione dei danni alla salute dell’uomo si può fare riferimento prioritario ai dati elaborati dall’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del CNR, che negli anni recenti ha dedicato specifica attenzione alla ricostruzione delle serie storiche di frane e alluvioni e alla rilevazione dei danni alle persone. In particolare, in un recente studio pubblicato sul Natural Hazard and Earth System Sciences (Salvati, P., Bianchi, C., Rossi, M., Guzzetti, F., (IRPI-CNR), “Societal landslide and flood risk in Italy”, 2010) vengono fornite alcune preziose informazioni di dettaglio sulle frane e le alluvioni registrate sul territorio italiano che hanno generato danni all’uomo (morti, dispersi o feriti). Da questo studio risulta che nel corso degli ultimi 60 anni circa (1950-2008) sono stati rilevati in Italia rispettivamente 967 eventi franosi e 613 eventi alluvionali che hanno causato danni alla popolazione; l’impatto medio degli eventi considerati in termini di social risk è molto rilevante: in media, una frana ha causato oltre 4 fatalities (morti e dispersi), mentre un’alluvione circa 2; i valori salgono rispettivamente a oltre 6 e oltre 4, se si considerano invece le casualities (fatalities + feriti).

Il dato utilizzato in questa sede per effettuare la valutazione monetaria degli effetti prodotti dai fenomeni idrogeologici sulla salute dell’uomo si basa sul numero medio di fatalities per singolo anno (circa 70 per le frane, oltre 20 per le alluvioni) e al numero medio di feriti per singolo anno (pari, rispettivamente, a 34 e a 25 unità). Facendo riferimento ai parametri monetari generalmente utilizzati in questo tipo di valutazioni, relativi al valore di una vita umana perduta (VOSL - Value of statistical life, pari a 1,5 milioni di euro) e di un periodo medio di malattia (DALY – Disability adjusted life year. Si assume qui un periodo medio di malattia pari a due mesi, per un valore unitario pari a 5.800 euro circa euro), il danno alla salute causato in media in Italia da frane e alluvioni è quantificabile, rispettivamente, in circa 104,5 milioni di euro/anno e in 31,0 milioni di euro/anno, per un totale di circa 135,5 milioni di euro/anno.

Per quel che riguarda invece la valutazione dei danni alle cose (strutture ed infrastrutture) associati a frane e alluvioni, i dati disponibili in letteratura sono invece assai più frammentari e imprecisi. Una prima indicazione generica, già citata all’inizio del presente paragrafo, viene fornita dal sito istituzionale dell’ISPRA, secondo il quale frane e alluvioni, considerate insieme, hanno generato costi economici quantificabili in circa 30 miliardi di euro in 20 anni; da questo dato è immediato ricavare una prima stima del “danno medio annuo” provocato da tali fenomeni, ovviamente del tutto orientativa, pari a 1,5 miliardi di euro/anno. Sono peraltro disponibili in letteratura dati relativi ad un arco temporale più lungo. In particolare, in un recente lavoro realizzato dal Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi (CNG) in collaborazione con il Cresme (Consiglio Nazionale dei Geologi, Cresme, Terra e sviluppo. Decalogo della Terra 2010 – Rapporto sullo stato del territorio italiano, Roma, 2010) viene ricostruita la dinamica dei costi del dissesto idrogeologico in Italia tra il 1944 e il 2009, basato sull’elaborazione di precedenti stime del Servizio Geologico Nazionale e del Ministero dell’Ambiente. Secondo lo Studio, in particolare il valore dei danni causati da eventi franosi e alluvionali dal dopoguerra ad oggi è stimabile in circa 52 miliardi di euro. Mediamente, si tratta di circa 800 milioni di euro all’anno, una cifra che nell’ultimo ventennio è peraltro aumentata, assestandosi intorno al miliardo e 200 milioni annui.

È a questo valore (1.200 milioni/anno), più basso di quello indicato da ISPRA, che - per cautela - si ritiene opportuno fare qui riferimento come indicatore complessivo. È importante specificare, peraltro, come nell’ambito del rischio idrogeologico, per incompletezza dei dati, non abbiamo considerato i danni generati da fenomeni meno diffusi quali subsidenza e sinkholes (voragini catastrofiche di forma sub-circolare, con diametro e profondità variabili da pochi metri a centinaia di metri, che si aprono rapidamente nei terreni, nell'arco di poche ore).

I costi associati agli eventi sismici

L’elevato rischio sismico che caratterizza l’Italia è legato alla posizione della nostra Penisola, situata lungo la zona di convergenza tra la zolla eurasiatica e quella africana e dunque sottoposta a continue spinte compressive e ad accavallamenti; anche la storia recente mostra come la frequenza e – soprattutto – l’intensità dei terremoti che si registrano sul territorio italiano siano in grado di generare danni gravi ed estesi, associati a elevatissimi costi socio-economici. Il sito istituzionale della Protezione Civile fornisce alcuni dati significativi: in 2.500 anni, sul territorio italiano si sono verificati oltre 30.000 terremoti, di cui 560 di intensità e magnitudo rilevanti (oltre l’ottavo grado della scala Mercalli); solo nel secolo scorso (1900-2000) sono stati registrati 7 terremoti con effetti classificabili tra il decimo e l’undicesimo grado della scala Mercalli; ed è nota, a inizio del XXI secolo, la gravità dell’evento sismico che ha colpito il territorio aquilano nell’aprile 2009, con oltre 300 morti e danni ingentissimi ad abitazioni, infrastrutture e, più in generale, all’intero sistema economico e sociale della provincia.

Per la valutazione dei danni alla salute dell’uomo associati agli eventi sismici, si precisa innanzi tutto come l’operazione di stima del “numero medio annuo di decessi per terremoto” sul territorio italiano nella storia recente risulti particolarmente rischiosa; mentre, infatti, frane e alluvioni sono fenomeni relativamente costanti e regolari nel tempo, sia in termini di frequenza che di intensità, per i terremoti le stime variano notevolmente a seconda della serie storica scelta come riferimento.

Dal 1860 sino al 2010, infatti, sono stati rilevati in Italia almeno 43 terremoti che hanno causato perdite di vite umane, per un totale di oltre 164.000 vittime in circa 150 anni: ne deriva una media, sui 150 anni, pari a oltre 1.000 morti/anno. Tuttavia, ben 150.000 di tali decessi (oltre il 90%) sono stati registrati in occasione di due soli terremoti: quello cioè che sconvolse le aree di Messina e Reggio Calabria nel 1907 provocando 120.000 vittime, e quello che, dopo soli 8 anni, rase al suolo la zona di Avezzano, in Abruzzo, provocando il decesso di 30.000 persone circa. Di conseguenza, a seconda che il periodo considerato come “campione” contenga o meno gli anni 1907 e 1915, il parametro relativo al numero medio di morti anno cambia di oltre un ordine di grandezza.

Per motivi sia di cautela che di coerenza metodologica con i valori proposti per frane e alluvioni, si ritiene opportuno fare qui riferimento al periodo 1950-2009, senza dunque considerare i due valori outlier ora indicati; nei 59 anni così considerati, sono stati registrati 15 terremoti con decessi, per un totale di 4.665 decessi (in media, dunque, circa 79 l’anno). Senza considerare i feriti (ovviamente molto numerosi, per i quali tuttavia non si dispone di informazioni affidabili) e facendo riferimento al valore del VOSL già applicato per frane e alluvioni, si perviene così ad una stima del danno medio annuo alla salute dell’uomo associato al rischio sismico in Italia pari a 118,6 milioni di euro; non considerando i feriti, si tratta ovviamente di una stima significativamente approssimata per difetto.

Per ciò che riguarda invece la valutazione dei danni alle cose (strutture ed infrastrutture) associati ai terremoti, un dato di riferimento autorevole è ricavabile da un recente approfondimento sul rischio sismico redatto direttamente dal Dipartimento della Protezione Civile (settembre 2010). In particolare, nel documento si specifica come “[…]I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro [a prezzi 2005], che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale. […]”. Attualizzando tale valore, si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro/anno.

Un quadro di sintesi

Nella tabella seguente sono state sintetizzate le stime relative ai costi associati a disastri naturali che la collettività nazionale ha sopportato in media ogni anno a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Come si può facilmente osservare si tratta di un costo enorme, superiore ai 5 miliardi di euro l’anno. Considerando che si tratta di una stima assolutamente prudenziale, che non tiene peraltro conto dei danni temporanei alle attività economiche, si capisce quante risorse (pubbliche e private) si potrebbero risparmiare nel nostro Paese se le abitazioni e gli edifici destinati alle attività produttive ed ai servizi fossero costruiti rispettando con maggiore attenzione le norme antisismiche ovvero evitando le aree a rischio potenziale idrogeologico più elevato.

Nell'allegato il testo con le tabelle

Oggi di ambiente si parla ormai moltissimo: giornali, riviste, radio, tv, tutti sembrano ritenere doveroso offrire articoli, servizi, programmi riguardanti la materia, che solo raramente però sono tali da creare una consapevolezza adeguata alla sua complessità e crescente gravità. Quasi mai infatti ai affronta il problema nella sua interezza, come sarebbe necessario: per lo più limitandosi a singole tematiche, che possono riguardare la scarsità di carburanti, il doveroso rispetto dei boschi, l’acquisto di frutta e verdura non trattate chimicamente, che altro. Frammenti di “sapere ecologico” insomma, spesso proposti come decisivi, ma di fatto lontani dalla complessità del problema e dalla possibilità di crearne una consapevolezza adeguata. Tanto più che la logica economica dominante nel mondo, quella che dovunque ormai ne definisce e detta scelte e obiettivi, obbedisce all’indiscusso e onnipresente precetto capitalistico della “crescita”.

Precetto dalla grande maggioranza di fatto accettato, anzi “assimilato” senza discutere, forse senza nemmeno avere coscienza della sua rilevanza, e pertanto passivamente messo in opera, non di rado anche da parte di chi sarebbe professionalmente tenuto a criticarlo. Ricordo a questo proposito il grande e complesso edificio in cui, quattro anni fa, ebbe luogo il “summit” ambientale di Copenhagen: su tutte le pareti correvano scritte luminose, intese a testimoniare grande apprezzamento per le energie rinnovabili e l’”economia verde”; le quali venivano proposte in un entusiastico crescendo di slogan quali “green production”, “green market”, “green trade”, “green business”, “green affairs”, “green economy”, “green affluence“, “green growth”… Auspici di fatto lontanissimi da quella rimessa in causa dell’intero sistema economico dominante che, sola, potrebbe riportare in salute l’equilibrio ecologico del mondo; e di fronte ai quali il fior-fiore dell’ ambientalismo istituzionale del mondo, presente al convegno, non dava segni di avvertire contraddizione alcuna…

Di fatto ancora oggi questo accade, e sempre più diffusamente. Anche tra i tanti sinceramente volonterosi di salvare il mondo dal rischio ambientale, spesso (forse in un tentativo di autodifesa dalla tremenda magnitudine della questione) si verifica la tendenza a prestar fede a una delle tante terapie proposte, isolandola e magnificandola come “la soluzione”: e tra queste le energie rinnovabili, capaci (con insistenza si afferma) di alimentare l’attività di grandi industrie senza inquinare, o inquinando poco, si propongono come una soluzione oltremodo seducente.

Molti infatti se ne lasciano sedurre, e si entusiasmano dei risultati del loro lavoro, spesso però senza considerare che, certo, le energie rinnovabili (quale più, quale meno) sono in grado di alimentare anche potenti attività produttive senza inquinare, o inquinando limitatamente, l’ambiente circostante; e però hanno inquinato non poco, spesso anzi assai, nell’essere prodotte. Le pale dell’eolico, gli specchi del solare, le strutture di trasporto dell’energia prodotta, ecc., sono tutte cose che, prima di entrare in funzione, debbono essere fabbricate, trasportate, impiantate in un complesso “indotto”…, mediante tutta una serie di attività diverse, ognuna delle quali, inevitabilmente, poco o tanto ha inquinato… Di tutto ciò nessuno fa cenno. Eppure sono fatti che tutti conoscono, su cui sarebbe doveroso riflettere. Perché sempre, poco o tanto, “produrre inquina”: lo si leggeva qualche tempo fa anche su “La Repubblica”, in un articolo firmato da Paul Krugman, che non è un “verde”, ma un economista con tanto di Nobel.

Il fatto è che le battaglie meritoriamente portate avanti da tutti i “Verdi” (utilissime, anzi necessarie, anche quando si limitano alla difesa di un bosco o di un solo albero) per operare in modo davvero utile non dovrebbero perdere di vista il problema nella sua interezza; non dovrebbero cioè prescindere dal fatto che tutto quanto vediamo, tocchiamo, compriamo, usiamo nei modi più diversi (un abito, un mobile, un grattacielo, un’automobile, un cellulare, un computer, un’astronave…) tutto è “fatto” di natura, minerale, vegetale, animale: cioè di frammenti del pianeta Terra, su cui e di cui viviamo. D’altro non disponiamo.

Ma il pianeta Terra, per quanto grande, è una “quantità” data, non dilatabile secondo i nostri bisogni o sogni, e nemmeno secondo le regole dettate da un sistema economico, per quanto potente e - di fatto - indiscusso, come è oggi il capitalismo. La Terra non è pertanto in grado né di alimentare una crescita produttiva illimitata, quale ossessivamente l’economia persegue e invoca, né di neutralizzare i rifiuti - solidi, liquidi, gassosi - che poco o tanto da ogni produzione derivano. Sono cose che, certo, ogni ambientalista serio conosce, ma che non tutti sanno, e che anche non pochi ambientalisti di tutto rispetto sovente “rimuovono”, quando lavorano alla possibile soluzione di singoli problemi, di per sé estremamente complessi.

Questo d’altronde era il tema portante del primo libro ambientalista che ha fatto epoca a partire dai primi anni Settanta: “Limits to growth”, firmato dai coniugi Meadows dell’MIT, in Italia sponsorizzato e lanciato dal Club di Roma; opera centrata appunto su quella che dovrebbe essere una verità non solo indiscutibile ma ovvia (d’altronde affermata e gridata da tutti i “grandi” dell’ambientalismo, a partire da Georgescu Roegen) secondo cui i limiti quantitativi del pianeta Terra dovrebbero appunto indicare, e imporre, limiti precisi e non valicabili all’operare di ciascuno e dell’umanità tutta. Nell’edizione italiana il titolo è diventato “I limiti dello sviluppo”; e il dubbio che la modifica non sia stata casuale è inevitabile, se appena ci si volta indietro a ripensare questi ultimi quarant’anni.

Ora il libro verrà ristampato. Recuperarlo e leggerlo, per i giovani in vario modo impegnati nella difesa del pericolante equilibrio in cui viviamo, potrebbe essere il migliore ausilio per una corretta e completa lettura del problema, e per la messa a fuoco di una politica davvero utile.

Il comune di Monte di Procida (Napoli) ha promosso una delibera "tipo" che propone al governo nazionale e alla Regione Campania la sospensione delle demolizioni degli abusi edilizi e l'estensione del condono del 2003 ai cittadini campani ai quali sarebbe stata negata questa

prerogativa dalla legge regionale del 2003.

Da Napoli, in controtendenza, l’Assessore Luigi De Falco ci ricorda che la Giunta comunale si è schierata per riaffermare i principi di legalità.

Nella delibera del dicembre 2011 che riportiamo in allegato, si ribadiva il primato della pianificazione urbanistica contro la proposizione di provvedimenti legislativi di condono edilizio, di sospensione o revoca delle demolizioni degli immobili edificati abusivamente fuori dai limiti previsti dalla vigente legislazione statale e regionale.

Tramite questo atto l’Amministrazione comunale sottolinea la sua più convinta adesione ai principi costituzionali che esprimono il territorio come bene comune. Principi che solo un paese che abbia smarrito completamente la propria dignità civica osa rimettere in discussione.(m.p.g.)

La privatizzazione della città è un fenomeno con molte sfaccettature, diffuso in tutto il mondo. A proposito dell’aumento del cemento e del traffico nell’hinterland romano, dove migliaia di cittadini si sono spostati negli ultimi anni a causa del prezzo delle case,Paolo Berdini su «Comune» scrive: «Al danno di essere stati costretti a trasferirsi lontano dalla capitale si aggiunge dunque anche la beffa di vedere aggravate le proprie condizioni di vita … Questo sconvolgente risultato è stato causato dalla cancellazione di qualsiasi regola: ci hanno raccontato che lasciando mano libera all’iniziativa privata tutto sarebbe stato risolto. Era vero il contrario e oggi scopriamo il terribile imbroglio. Dobbiamo invertire la rotta e investire risorse economiche nelle città e nei sistemi di trasporto collettivi. Soltanto con la mano pubblica si creano migliori condizioni di vita e di uguaglianza tra i cittadini».

Anche a Rosario, città argentina di un milione e mezzo di abitanti, la privatizzazione della città è palese e fino a pochi giorni fa era legale. Poi è accaduto qualcosa che in molti altri luoghi appare impensabile: il consiglio comunale ha approvato all’unanimità la legge contro la privatizzazione della città, dei suoi spazi e dei suoi servizi. Una legge che ha alle spalle un lungo e complesso percorso promosso da movimenti sociali, come Giros. Quelli di Giros appartengono alla generazione nata negli anni ’70, quando la dittatura militare argentina, cosi come in Cile, Uruguay e Brasile, è stata la porta d’ingresso per una selvaggia privatizzazione dei servizi pubblici. La normativa per la privatizzazione delle terre con la finalità di creare «barrios privados» (quartieri chiusi), nasce proprio nel ’76. Ci sono voluti più di trent’anni per superare le profonde e diverse ferite della dittatura, ed è forse per questo che il lavoro di un movimento come Giros ha un carico particolare di «giustizia storica sociale».

Nel discorso dei consiglieri comunali di Rosario, durante la seduta che ha approvata la legge contro la privatizzazione della città, c’era un chiaro messaggio di ringraziamento ai giovani che hanno saputo riportare in primo piano i temi dell’«uguaglianza» e quello del «diritto alla città», ricostruendo un ponte importante di memoria con la generazione precedente.

Dal punto di vista urbanistico, i «barrios privados» sono veri e propri ostacoli alla costruzione di una città aperta, accessibile, e connessa tra le sue parti. Se si considera che intere porzioni della città sono chiuse e recintate, è evidente l’enorme disagio pratico per chi gli spostamenti in queste aree. Diagio che riguarda non solo per i mezzi privati, ma soprattutto le ambulanze e i mezzi pubblici. La città si riempie di «buchi», di aree fantasma: in uno dei quartieri privati più grandi, la concessione di terre arrivava a cento ettari, e nel piano dei costruttori i diversi quartieri privati venivano collegati da ponti e strade. In questi quartieri, inoltre, sono stati costruti servizi come asili nido e campi sportivi che hanno favorito la riduzione della comunicazione degli abitanti con quelli dei quartieri circondanti, portando anche a un impoverimento delle micro-economie locali. Dal punto di vista sociale, il fenomeno della segregazione fisica è stato molto studiato, e si è arrivati alla conclusione che la divisione in quatieri chiusi e la privatizzazione della città creano favoriscono l’immobilità degli status sociali: i pari vivono tra loro e si difendono, trincerandosi dentro quelle cittadelle fortificate dall’esterno e dall’interno.

Il movimento Giros in questi anni ha denunciato tutto questo, ma ha anche dimostrato che la pianificazione urbanistica era economicamente insostenibile, segnalando come questi quartieri sono un vero spreco di risorse pubbliche: da una parte, si mangiano la poca terra disponibile per le urbanizzazioni della città, e da un’altra parte non portano alla città beni e servizi pubblici, nonostante abbiano goduto dell’urbanizzazione comunale. Questo trasferimento di fondi pubblici a interessi privati viene definito da Giros in questo modo: «Esiste un interesse di speculazione e di trasferimento di plusvalore pubblico a interessi privati, dalla rete delle fognature alle strade, passando per i mezzi pubblici di trasporto. Si calcola un passaggio di 32 milioni di dollari dal comune ai monopoli». A questo si aggiungono tutte le modifiche al piano regolatore, con il cambio di destinazione d’uso di terreni rurali a terreni urbani edificabili che rircoda quello di moda in molte altra città, ad esempio Roma.

Il dibattito pubblico che poco a poco Giros ha proposto alla città, facendolo entrare nel confronto diretto con i monopoli e con molte forze politiche, si può sintetizzare con queste domande: «Chi ha diritto alle terre urbane rimaste nella città di Rosario, i mega-progetti privati oppure le vere emergenze abitative e sociali della città?». Quello che colpisce di più di questa storia, è stato il risvegliarsi da una situazione paradossale in cui più del 80 per cento di quello che restava della città edificabile andava a soddisfare standard di vita dei benestanti, con altissimo consumo di suolo. E tutto questo nell’assoluto silenzio dei media e delle parti politiche. Nello stesso tempo, più di 40.000 nuclei familiari erano in emergenza abitativa, e altrettanti erano costretti a vivere in insediamenti semi-rurali su terre destinate alla privatizzazione e quindi allo sgombero senza alternative. La straordinaria campagna pacifica di informazione promossa da Giros contro la privatizzazione ha coinvolto vari pezzi della società civile, ma anche artisti, giornalisti, studenti di tutta la città. Rosario ha alle spalle già altre battaglie vinte per i beni comuni, basta ricordare i progetti di agricoltura urbana a grande scala durante la crisi del 2001, diventati oggi realtà consolidate di micro- reddito e di riconversione ecologica e sociale dell’occupazione per migliaia di cittadini, che hanno contribuito a mettere al centro il problema della sovranità alimentare dell’Argentina. Ma Rosario è stata anche una delle prime città a promuovere la partecipazione dal basso attraverso i bilanci partecipativi o i piani di comunità, oltre a essere piuttosto vivace nella lotta contro la privatizzazione dell’acqua.

E mentre i cittadini riscoprivano e reinventavano l’idea dei beni comuni, cresceva la consapevolezza nei movimenti (con un forte impegno del movimento studentesco universitario) che ogni settore della vita pubblica e privata nell’Argentina era gradualmente consegnato ai monopoli economici, e che la politica restava paralizzata o complice di questo processo. Poco a poco i movimenti sono passati dalla consapevolezza alla protesta e dalla protesta alla sperimentazione della «Città Futura», attrverso un percorso di costruzione partecipativo (sul modello diffuso in altre città latinoamericane) promosso soprattutto dal movimento Giros. La prima tappa di questo percorso di partecipazione è stata la condivisione di tutte le dettagliate informazioni raccolte sulla speculazione urbana e sulla situazione di emergenza abitaviva di migliaia di famiglie. Subito dopo, il movimento ha proposto un percorso per «sognare», ovvero un percorso partecipativo che parte dal «desiderio» dalla «ciudad de nuestros sueños» (la città dei nostri sogni) per arrivare alla «Città Futura» (a proposito di città inedite, suggeriamo la lettura diquesto articolo).

Con le proposte emerse, e grazie al sostegno degli studenti universitari il movimento Giros è stato in grado di fare una controproposta urbana articolata. Per ogni «barrio privado» è stata studiata una formula alternativa di città aperta, ricca di spazi pubblici di qualità e legata al resto del territorio. Qualche esempio: il «barrio privado» Palos verdes nel progetto originario prevede l’edificazioe di 40 ettari per 160 famiglie, con progetto di Giros prevede 40 ettari per 960 famiglie più spazio pubblico; «barrio privado» Nuevo Alberdi, 260 ettari per 1.000 famiglie, con il progetto di Giros, 260 ettari per 6.000 famiglie più spazi pubblici di qualità. Il movimento ha così dimostrato che è possibile ricavare da ogni «barrio privado» interi quartieri di edilizia popolare, in grado di accogliere in modo dignitoso più di diecimila famiglie che vivono in emergenza abitativa.

Chiaramente l’impatto simbolico di questa legge, segna un cambio di rotta storico perché la città dal basso, coinvolta dai giovani di Giros, grida «Ya basta» («Adesso basta»), e chiede non solo una redistribuzione di terre per l’emergenza casa, ma di avere voce in capitolo contro le prepotenze dei poteri forti in molti altri ambiti. I percorsi avviati dai movimenti di Rosario sono piuttosto chiari: dalla terra come merce alla terra come bene comune inalienabile, dal mercato dei monopoli al diritto all’abitare, dai latifondi speculativi alla democratizzazione della terra con finalità produttive, dai centralismi tecnocratici alla pianificazione partecipativa.



Su questi temi viene promosso l’incontro sulla difesa del «Diritto alla Città. Argentina/Rosario contro le “Gated communities”. Quando le strategie di resistenza della società civile diventano Legge comunale».

Lunedì 28 Maggio ore 17,30 presso il dipartimento di Studi Urbani – Aula Ponzio – via Madonna dei Monti 40, Roma

Moderatrice, Adriana Goni Mazzitelli, Laboratorio di Arte Civica, Università Roma Tre.

ore 17.30 Saluti e Introduzione

Marco Cremaschi- DipSU –Roma Tre

ore 17:40 Il contributo del CISP all’articolazione tra movimenti, università e istituzioni locali per uno sviluppo urbano inclusivo

Claudia Gatti – CISP-Sviluppo dei Popoli

ore 18: Dalla proibizione normativa dei quartieri privati alla costruzione della “Città Futura”

L’esperienza del Movimento GIROS nella città di Rosario (Argentina)

Tomás Monteverde- Movimiento GIROS

(http://www.girosrosario.org/ – girosrosario [at] gmail [dot] com)

ore 19 Dibattito, Scambio con i movimenti di lotta per il diritto alla Città in Italia e a Roma, introduce, Sofia Sebastianelli, DipSU Roma Tre.

Serena Tarabini Roma in ACTION, Irene Di Noto, Blocchi Precari Metropolitani, Roberto Suarez, Porto Fluviale-Coordinamento cittadino di lotta per la casa, Francesco Careri DipSU Roma Tre.

Proprio la minaccia esistenziale causata dalla crisi finanziaria e dalla crisi dell’euro ha reso gli europei nuovamente consapevoli di non vivere in Germania o in Francia, ma in Europa. La gioventù europea esperisce per la prima volta il proprio "destino europeo": disponendo di una formazione migliore di quella di un tempo essa va incontro, carica di aspettative, al declino dei mercati del lavoro determinato dall’incombente minaccia di bancarotta degli stati e dalla crisi economica. Un europeo su cinque sotto i venticinque anni è senza lavoro.

Come il precariato accademico ha innalzato le barricate e fatto sentire la propria voce, così anche tutte le proteste dei giovani rivendicano soprattutto giustizia sociale. In Spagna, in Portogallo, ma anche in Tunisia, in Egitto, in Israele (a differenza della Gran Bretagna) queste proteste sono condotte in maniera non violenta, ma potente. L’Europa e la sua gioventù sono accomunate dalla rabbia nei confronti della politica che stanzia somme di denaro esorbitanti per salvare le banche e mette a repentaglio il futuro dei giovani. Ma se persino la speranza rappresentata dalla gioventù europea cade vittima della crisi dell’euro, quale futuro potrà mai esserci per un’Europa che diventa sempre più vecchia?

Di fatto la sociologia non se n’è proprio accorta; e ora come allora continua a operare e a elaborare le proprie riflessioni nella prospettiva di un nazionalismo metodologico. Considerando che in Europa le relazioni giuridiche e sociali sono vicendevolmente intrecciate e non possono più venire diversificate a livello nazionale, persino i conflitti nazionali scaturiti dalla disuguaglianza (come, ad esempio, nel caso della Germania) possono essere compresi solo tenendo conto della dimensione europea. Analizzando le situazioni dei singoli stati nazionali diventa pertanto imprescindibile fare riferimento all’Europa.

Vedo tre processi sovrapposti che determinano una nuova effettiva minaccia dell’Europa per l’Europa. Innanzitutto l’ostilità verso gli stranieri, poi l’antisemitismo e l’antiislamismo, infine l’ostilità verso la stessa Europa. Il primo fenomeno non è nuovo e si manifesta di continuo. Rispetto all’antisemitismo noi sociologi siamo abbastanza tranquilli fintantoché rimane circoscritto in determinate zone marginali. Nel frattempo il problema ha però assunto dimensioni esorbitanti nella forma dell’antiislamismo. Gli avversari dell’Islam sono infatti riusciti a presentare il loro rifiuto della dimensione religiosa di determinati gruppi emigrati in Europa come una sorta di atteggiamento illuministico. In Germania è ben noto il nome di Thilo Sarrazin, ma non è il solo. In situazioni di crisi le file degli xenofobi, degli antisemiti, degli antiislamici e degli antieuropei si ingrossano, si sovrappongono e si inaspriscono vicendevolmente. Così facendo tra la popolazione si fa via via più labile il sostegno all’Europa – fino ad assumere proporzioni che non mi sarei mai immaginato.

Ma oggi in Europa ci sono almeno altri due esempi di politica della violenza che occorrerebbe ricordare: il colonialismo e lo stalinismo, ai quali viene di fatto riconosciuto un peso diverso. La memoria della colonizzazione è presente in maniera assolutamente marginale nella costituzione dell’Unione europea. Finora non si è affatto messo in luce né il significato che i paesi colonizzati hanno avuto nel processo di formazione degli stati nazionali all’interno dell’Europa, né quale significato hanno avuto i paesi postcoloniali nella formazione dell’Unione europea. Rispetto all’olocausto e allo stalinismo le cose sono diverse. Tuttavia la memoria del colonialismo potrebbe verosimilmente esercitare un ruolo nell’atteggiamento dell’Unione europea di fronte agli eventi della primavera araba nei paesi nordafricani. Ci si dovrebbe domandare per quale ragione l’Europa non sfrutti la propria situazione particolare (ossia le sue tre memorie storiche) come fonte per nuovi orientamenti e progetti per il futuro.

Rispetto alla Germania, ora come ora, posso solo pronosticare un amore inarrestabile per lo status quo. Siamo senz’altro uno dei paesi industrializzati più dinamici del mondo, e tra quelli più vincolati al mercato globale. Con la riunificazione si è però evidentemente esaurito ogni bisogno di cambiamento. Si fa strada, nell’agire e nel pensare, un atteggiamento di totale disimpegno. Persino in ambito scientifico le teorie che da tempo trattano della fluidificazione e dello sgretolamento dei rapporti sociali vengono recepite in maniera molto marginale. Le figure chiave tra gli intellettuali, la politica e la sfera pubblica nutrono un disinteresse incredibile di fronte a ciò che sta accadendo in ambito politico e intellettuale nelle altre regioni del mondo. Ma questa Germania disorientata, che ora come ora geme, tartaglia e pencola nella nebbia, non è caduta dal cielo. Elaborando la teoria della modernizzazione riflessiva e della società globale del rischio siamo riusciti a individuare un fenomeno che è diventato ormai di esperienza comune: la marcia trionfale della modernità radicalizzata genera una serie di effetti collaterali che demoliscono i fondamenti e le coordinate delle istituzioni e delle singole esistenze private, tramutandoli in elementi politici.

Improvvisamente si fanno urgenti questioni come queste: a che cosa serve l’Europa? La crisi finanziaria mina alla base la democrazia? Ma pure: che cos’è la famiglia? Dal canto mio ho tentato di distinguere tra il "cosmopolitismo", inteso come una teoria normativa e politica, e la "cosmopolitizzazione" come sviluppo de facto sociale. La cosmopolitizzazione, nelle varie forme in cui si realizza, può ad esempio essere descritta a partire dal caso del capitalismo fondato sull’outsourcing. In quel caso non si tratta infatti solo di una variante della globalizzazione, ma di una forma di cosmopolitizzazione in cui i lavoratori dei paesi ricchi, europei, si percepiscono come intercambiabili ed entrano in relazione diretta con l’"altro globale". Questa relazione non è né un’interazione né uno scambio comunicativo, bensì una messa in discussione dell’interesse esistenziale dei lavoratori per un posto di lavoro sicuro. Da ciò deriva, seppur detto in maniera un po’ diretta, un’ostilità economica che riveste un’importanza quotidiana per gli atteggiamenti xenofobi, antisemiti, antiislamici e persino antieuropei. Questa ostilità economica è una forma di cosmopolitizzazione priva di interazione e di comunicazione. Essa non ha nulla a che spartire con il cosmopolitismo filosofico, anzi, ne è l’esatto opposto. Nondimeno si tratta di una relazione nuova, molto concreta, in cui l’"altro globale" è pienamente presente in Europa, al di là di ogni frontiera, ed è al centro della nostra vita. Basandomi sulla distinzione tra cosmopolitismo e cosmopolitizzazione avevo creduto di poter dar vita a una discussione su tali forme di sviluppo, soprattutto in Germania, essendo il cosmopolitismo una delle grandi tradizioni tedesche. Nei secoli XVIII e XIX grandi pensatori – Kant, Heine, Goethe, Schiller e altri – discutevano del modo in cui il cosmopolitismo, il patriottismo e il nazionalismo potessero realmente rapportarsi l’uno all’altro. Mi ero figurato che la grande tradizione culturale tedesca, continuamente celebrata, potesse offrire lo spunto per ripensare l’Europa e la percezione di sé come nazione nell’epoca globale in una maniera nuova e sorprendente. Devo però constatare che la Germania è completamente sorda a questo dibattito, che viene invece condotto in maniera assai vivace in molte altre lingue.

Il “piano città”, a cui il ministero delle Infrastrutture e trasporti sta lavorando, entra nella fase delle proposte concrete. Finora non molto si sapeva di un progetto più facile a dirsi, che a farsi. Non solo per l’obiettivo ambizioso di riqualificare aree urbane degradate, ma anche per il numero di soggetti chiamati a dire la loro. Secondo il ministero è questo invece il punto di forza, perché coinvolgere tutti gli interessati garantisce interventi realmente necessari e permette di individuare le soluzioni più adatte. L’idea nasce da uno studio dell’Ance (l’Associazione nazionale costruttori edili) e prende forma il 4 maggio, quando sono iniziate le riunioni al ministero.

Ma cosa prevede in concreto il “piano città”? La rigenerazione di aree urbane degradate, la valorizzazione di aree demaniali dismesse, la creazione di alloggi sociali, la ristrutturazione delle scuole per migliorare l’efficienza energetica, l’ottimizzazione del trasporto pubblico locale. Insomma, tutto quel che contribuisce a migliorare la vivibilità delle città con in più l’importante risvolto di rimettere in moto l’economia grazie all’impulso garantito al comparto dell’edilizia. Nella riunione di oggi verranno illustrate le diverse proposte. Si sa già che tra le città destinatarie di interventi ci sono Roma (in particolare il quartiere di Pietralata), Verona, Firenze, Bari. Il sindaco di Piacenza, nella veste di rappresentante dell’Anci (l’associazione dei comuni italiani) ha individuato diverse aree al Nord, Centro e Sud Italia. Al tavolo siedono anche Federcostruttori, Confedilizia, Cassa depositi e prestiti, regioni, comuni e vari ministeri (Istruzione, Economia, Sviluppo economico). L’impegno era di arrivare a fine mese con delle proposte, che appunto verranno presentate oggi. L’intenzione del ministero è di procedere in maniera molto spedita. Il consiglio dei ministri dovrebbe approvare già in settimana il provvedimento, mentre a giugno dovrebbero partire i primi cantieri. Le azioni da intraprendere investono settori diversi (dalla gestione dei rifiuti alle case popolari), ma tutti di rilievo per i cittadini e con in comune l’ambito delle costruzioni. Perché è un settore portante che può dare spinta all’occupazione: il comparto dell’edilizia oltre ad essere un volano può generare crescita.

Secondo l’Ance per un miliardo investito ne vengono generati altri tre e con ricadute positive sull’occupazione. Nel piano città molta attenzione è riservata alle scuole: su 45 mila ispezioni in 3596 scuole di tutta Italia, si prevede di spendere 943 milioni per mettere in sicurezza quelle più fatiscenti. Più della metà sono risorse già stanziate dal Cipe e 161 milioni di euro sono già stati erogati per i cantieri in corso (altri 20 milioni arriveranno entro luglio).

Spostandosi sul fronte finanziario dei conti, viene da chiedersi da dove arrivino le risorse per un progetto utile quanto ambizioso. Il totale delle risorse a disposizione sarebbe di 2 miliardi, reperiti qua e là tra le pieghe dei bilanci e programmi già finanziati ma non più attivi. La parte del leone la fa Cassa depositi e prestiti che, attraverso il Fondo investimenti per l’abitare, mette a disposizione 1,6 miliardi. Ci sono poi il ministero delle Infrastrutture che garantisce 233 milioni (da spostare con un’apposita norma da altri programmi cui erano destinati); il ministero dell’Istruzione che porta in dote 100 milioni per le scuole ad alta efficienza energetica, lo Sviluppo economico che garantisce una quota degli incentivi all’energia.

Solo considerando l’housing sociale, 833 milioni di euro investiti generano 72 mila alloggi a canone sociale e 141 mila occupati. Il punto è mettere in comunicazione provvedimenti diversi che finora viaggiavano in ordine sparso. In settimana il Consiglio dei ministri dovrebbe varare una norma che formalizzi un piano operativo per realizzare in modo coordinato e sistemico l’efficientamento energetico e la riqualificazione e il recupero della bellezza delle nostra città.

Speriamo che, alla fine, resti solo un grave scivolone nelle stanze di Palazzo Chigi. Fatto sta che con questo progetto di legge i tecnici sembrano dar voce alla più retriva pulsione della partitocrazia: il controllo politico sulla giustizia. Così non si colpiscono i giudici, ma la collettività e l’ordinamento costituzionale nel suo complesso; il nostro diritto, garantito dalla Costituzione, di avere un servizio giustizia autonomo e imparziale. Non a caso il progetto riproduce alla lettera i testi proposti dal Pdl nella fase più acuta della guerra alla giustizia.

La paritetica rappresentanza parlamentare che viene riproposta nella sezione disciplinare del Csm è idonea da sola, ad esempio, a disporre l’ingiusta assoluzione del magistrato "amico" che ha volontariamente ritardato gli atti per far scattare la prescrizione in favore del politico imputato. Il che prova come la separazione tra i poteri sia un diritto della società, non tanto dei giudici. Per non dire delle punizioni che appariranno sempre ritorsive o vendicative, a prescindere anche dalla qualità personale dei componenti l’organo disciplinare.

Insieme ai principi fondamentali, vengono sfregiati specifici precetti costituzionali. La Consulta sin dal 1971 ha evidenziato che la sezione disciplinare sui magistrati deve rispecchiare proporzionalmente le componenti previste per il plenum del CSM: due terzi di togati e un terzo di eletti dal Parlamento. Pertanto la composizione paritetica progettata ora da Palazzo Chigi è pacificamente incostituzionale, oltre che giuridicamente sciatta e inguardabile. Ancora più forte la mortificazione riservata alle altre magistrature. Per gli organi disciplinari della giustizia amministrativa e contabile, il progetto di legge va infatti oltre la composizione paritaria e giunge a stabilire una prevalenza assoluta dei membri di nomina politica.

L’intensità del veleno si rivela poi nella coda. Nell’ultimo dei quattro articoli, con riguardo ai giudici tributari, si prescrive una componente politica "almeno" paritaria. L’avverbio è confessorio: va bene anche un organo disciplinare composto soltanto da politici. Un tribunale di inquisizione. Il progetto è talmente abnorme che viene da chiedersi se Monti e Severino ne siano a conoscenza. Comunque si affrettino, i professori, a cestinare questo scempio e a spedire dietro la lavagna chi lo ha concepito. Per il futuro si guardino bene da certi tecnici, che a volte sono ventriloqui della peggiore politica.

Né si dica che si vorrebbero arginare le pressioni sulla responsabilità civile di cui all’emendamento Pini, approvato dalla Camera, in mentita applicazione di pronunce comunitarie che non chiedono certo una maggiore e diretta esposizione personale del giudice, ma soltanto e per profili limitati, quella dello Stato. In ogni caso si tratterebbe di un rimedio peggiore del male. Peraltro, con queste premesse, resterebbe pure la norma voluta dal leghista, consegnandoci un giudice che più che guardare al processo dovrebbe guardarsi dai processi, e dalle minacce delle parti e della politica. L’inatteso frutto al tramonto, dell’unica missione cui il cavaliere si sia davvero dedicato.

In realtà, se di riforme serie volesse parlarsi (ma non se ne vedono le condizioni) l’opzione dovrebbe essere ben altra. Lavorare ad un completamento del disegno costituzionale con una Corte disciplinare unitaria per tutte le magistrature, espressione dei diversi organi di autogoverno ma autonoma sul versante funzionale. Si chiarirebbe una volta per tutte che nessun giudice è un burocrate; e se deve senz’altro rispondere ad un rigoroso principio di professionalità e responsabilità, lo deve fare su un piano necessariamente diverso rispetto ad un dirigente ministeriale. Se c’è un’istanza che sale dalla società, è quella di coniugare verso l’alto i valori di responsabilità e indipendenza di tutti i giudici, prerogative irrinunciabili di un nostro diritto di cittadinanza libera e costituzionale. Ma è proprio qui che veniamo minacciati da questo progetto di legge ora partorito dalle scrivanie di Palazzo Chigi, con improvvida e sorprendente leggerezza.

Verrà tra pochi giorni in laguna a difendere il «suo» Fontego dei Tedeschi appena bocciato dai Beni Culturali, dopo aver cercato di farlo circa un mese fa nelle sedi ufficiali, incontrando a Palazzo Ducale il soprintendente Renata Codello. Rem Koolhaas - premiato due anni fa con il Leone d’Oro alla carriera dalla Biennale Architettura - sarà infatti a Palazzo Badoer l’11 giugno, ospite dell’Iuav, per discutere con due architetti italiani come Franco Purini e Bernardo Secchi proprio delle relazioni pericolose tra antico e nuovo nell’architettura a Venezia, presenti anche l’architetto Codello e il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni. Un incontro organizzato prima che arrivasse il no definitivo da Roma al suo progetto per il Fontego dei Tedeschi - che ora dovrà essere recepito dalla Direzione Regionale dei Beni Culturali nel suo parere - e che proprio per questo ora si annuncia anche più interessante e magari ricco di spunti polemici.

di Enrico Tantucci Ora è ufficiale e senza appello. Il progetto «targato» Benetton per il riuso del Fontego dei Tedeschi predisposto dal famoso architetto olandese Rem Koolhaas dovrà essere completamente rivisto per poter essere realizzato. Quello attuale risulta «carente» e «troppo sovraordinato rispetto alle antiche strutture che meritano un progetto di più contenute pretese». Per ciò deve essere rifatto «avendo come obiettivo un intervento più limitato e consono rispetto al contesto».

È duro il giudizio finale - messo nero su bianco e già trasmesso alla Direzione Generale dei Beni Culturali - del Comitato tecnico-scientifico per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Ministero dei Beni Culturali presieduto dall'architetto Giovanni Carbonara, che si era riunito all’inizio di maggio, pur in regime di proroga, proprio per esaminare il progetto Benetton - con la controllata Edizione Property - inviato dagli organi periferici veneziani per l'ultima parola sulla questione e integrato con una documentazione aggiuntiva, nella speranza così di ottenere un giudizio positivo dall’organismo, investito del giudizio finale dal direttore regionale dei Beni Culturali Ugo Soragni. Lo stesso architetto Soragni e la stessa Soprintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Venezia Renata Codello aveva già sottolineato nel loro parere le criticità del progetto e il Comitato per i Beni Architettonici condivide in pieno, nel suo giudizio verbalizzato, il giudizio negativo del direttore regionale. Soprattutto le «particolari perplessità, sia per quanto concerne la copertura proposta per il padiglione centrale, sia per le scale mobili (elemento principale della nuova distribuzione verticale), che rappresentano alcune delle maggiori criticità del progetto».

Il Comitato rileva ancora che «non vi è alcun elemento degno che consenta di valutare appieno l’interferenza dell’intervento, sia per la parte archeologica che per la sua funzionalità e staticità, privo di un’indagine storica seria che ne consenta puntualmente la conoscenza dal punto di vista strutturale ed evolutivo». La bocciatura, dunque, riguarda i cardini del progetto di Koolhaas per Benetton: la sopraelevazione del lucernario per ricavarne un piano calpestabile per concerti o congressi e la trasformazione di parte del tetto, attraverso la sua demolizione, in un’ampia terrazza panoramica con vista sul ponte di Rialto. Ma il no riguarda anche la realizzazione delle due rampe di scale mobili - funzionali al nuovo centro commerciale che si sarebbe dovuto realizzare nel Fontego dei Tedeschi - che sarebbero partite dal cortile, una tra il pianterreno e la prima loggia e una fissa, posta fra l’ultima e il nuovo piano calpestabile, che avrebbero comportato la demolizione di tratti del parapetto cinquecentesco e la creazione di un vano sotterraneo. Erano previste anche demolizioni interne per creare gli spazi per scale, ascensori e montacarichi, l’apertura di nuovi ingressi e la creazione di un pontile galleggiante esterno di ampie proporzioni - 25 metri per cinque - affacciato sul Canal Grande. Il giudizio del Comitato implica che comunque, anche in caso di nuovo progetto, sarà indispensabile realizzare anche un cantiere archeologico per valutare le preesistenze di un edificio storico di tale importanza.

La bocciatura dei Beni Culturali fa male perché obbliga il gruppo Benetton a pensare a un progetto e forse anche a funzioni completamente nuove per il Fontego dei Tedeschi, visto che non è pensabile, in un edificio che si sviluppa in altezza, la creazione di un centro commerciale senza scale mobili. Finora Edizione Property non ha mai voluto prendere ufficialmente in considerazione la bocciatura del suo progetto, perché non direttamente informata. Ora non potrà fare a meno di farlo e si apre, a questo punto, una fase di grande incertezza che coinvolge anche il Comune, che si era fermato ad aspettare il giudizio dei Beni Culturali sul progetto prima di portare in Consiglio comunale la convenzione sul Fontego sottoscritta con il gruppo Benetton. E anche i 6 milioni di euro già ricevuti da Ca’ Farsetti dal committente per il via libera al cambio di destinazione d’uso del Fontego e già previsti in bilancio sono, a questo punto, un po’ più a rischio.

Tra il 2008 ed il 2011 il bilancio del Ministero per i Beni culturali si è ridotto di un terzo (1,42 miliardi di euro). La nostra spesa per istruzione e cultura (4,4 per cento del Pil; 9,7 per cento della spesa pubblica) si colloca sotto la media europea (rispettivamente 5 e 11 per cento), e siamo sotto al ventesimo posto (peggio di noi, paesi come la Grecia o la Romania). Il massacro dei bilanci degli enti locali ha fatto il resto.

In compenso, siamo l’unico Paese al mondo in cui la tutela del patrimonio storico e artistico sia iscritto tra i principi fondamentali della Costituzione (articolo 9). E quell’enorme e straordinario patrimonio è capillarmente diffuso sul territorio, fuso in un’unica cosa con l’ambiente ed il paesaggio.

L’incredibile vicenda di Corcolle è perfettamente simbolica anche da questo punto di vista: la discarica riusciva in un colpo solo a distruggere l’ambiente (e dunque la salute dei cittadini), il paesaggio (non un valore estetico, ma identitario e ‘sociale’ nel senso più ampio), il patrimonio storico e artistico (con un bene simbolo come Villa Adriana, uno dei 47 siti italiani che l’Unesco ha dichiarato di valore universale per l’umanità). Su Corcolle si è ingaggiata una battaglia che ha visto uniti, e alla fine vittoriosi, il ministro dell’Ambiente e quello dei Beni Culturali (che ha dato qui il suo primo, e speriamo non ultimo, segno di vita). Un’ulteriore prova della bontà della vecchia idea di Giovanni Urbani (rilanciata da Gian Antonio Stella in questi giorni) di unificare i due ministeri. Ma per una vittoria ci sono mille sconfitte.

A Milano non si riescono a fermare le ruspe che devastano il cimitero paleocristiano di Sant’Ambrogio per costruire un parcheggio interrato: una causa evidentemente indegna non dico di una minaccia di dimissioni, ma almeno di una parola, da parte del milanesissimo e cattolicissimo ministro Ornaghi, che come rettore dell’Università Cattolica è pure dirimpettaio dello scempio. Quella di voler costruire parcheggi sotterranei sotto monumenti delicati è una mania italica. Nel centro di Pistoia, per esempio, se ne vuol scavare uno sotto la meravigliosa e fragile chiesa romanica di San Bartolomeo in Pantano: che, come dice il toponimo, sorge su un terreno non esattamente solido.

Oltre alle minacce dal sottosuolo, ci sono quelle che vengono dalle sopraelevazioni e dalle cementificazioni.

A circa centocinquanta metri dalla Cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto (uno dei santuari della storia dell’arte italiana) l’amministrazione comunale di Padova vorrebbe costruire un auditorium con un piano interrato profondo 19 metri. Secondo la relazione dell’autorevole commissione scientifica nominata dallo stesso Comune, se i lavori non fossero condotti con particolari cautele, l’alterazione dell’equilibrio della falda potrebbe mettere in pericolo la statica della Cappella (la cui cripta è già perennemente allagata). Dopo l’appello di un folto gruppo di intellettuali e cittadini guidati da Chiara Frugoni, il sindaco Flavio Zanonato si è detto disposto a rinunciare al piano interrato (che dunque non doveva essere così necessario!).

Ma a 200 metri da Giotto, nell’area cosiddetta PP1 (già prevista a verde pubblico), ha preso il via la costruzioni di due torri, una delle quali sarà alta 109 metri, con uno scasso profondo 30 metri e una vasca che interferisce direttamente con l’equilibrio delle acque che minacciano la cappella. Insomma, una metafora perfetta dell’incombere della cementificazione sul tessuto paesaggistico e storico-artistico di quello che un tempo si definiva il giardino del mondo.

Di nuovo vicino a Roma, a Genazzano, il contesto naturale del ninfeo protocinquecentesco collegato all’antico palazzo dei Colonna e attribuito a Bramante (oggi in proprietà del Comune) è in corso di distruzione : un muro di cemento e cinque ville a schiera devastano uno dei più precoci esempi di giardino rinascimentale all’antica. D’altra parte, se attentiamo alla stessa Villa Adriana, perché risparmiare le sue conseguenze storiche?

Più a sud, tra Napoli e Caserta, sorge la reggia borbonica di Carditello, saccheggiata di ogni suo arredo sotto l’occhio annuente della Camorra. Una delle cose che fa più impressione, visitando Carditello e il suo territorio, e che mentre nessuno monta la guardia alla reggia, l’esercito controlla in modo assai efficiente le vicinissime e terrificanti discariche, apostrofando con durezza i cronisti e gli studiosi che usano le macchine fotografiche per documentare lo scempio. Grandi cartelli gialli avvertono che le fotografie sono proibite perché le discariche sono “di interesse nazionale strategico”, e dunque sono protette da “sorveglianza armata”. Per noi, insomma, non è Carditello, non è il patrimonio storico e artistico ad essere strategico per il futuro del Paese. Mentre lo sono la monnezza e i suoi criminosi affari.

Difficile pensare che la salvezza possa venire da sponsor privati, legittimamente interessati ai propri utili e quindi a finanziare solo redditizi luoghi simbolo (come il Colosseo): basti pensare che lo Stato sta per ricomprarsi proprio Carditello, che appartiene virtualmente a Banca Intesa, la quale non ha alcuna intenzione di restaurarla e proteggerla.

Ma per ognuno di questi casi si è creato un movimento dal basso, fatto di comitati di cittadini che chiedono che le loro tasse servano anche a mantenere il patrimonio di cui sono proprietari in forza della Costituzione. È da qui che bisogna ripartire.

Rispondendo a una interrogazione alla Camera il 19 aprile scorso, il ministro Lorenzo Ornaghi diceva di aspettare “sereno l’esito delle indagini”. Fosse stato un po’ meno “sereno” avrebbe potuto evitare di perdere la faccia. Le responsabilità del Mibac in questa storia, infatti, sono tante e pesantissime: una gravissima e continuata omissione della tutela di un inestimabile bene dello Stato. Il primo punto riguarda la nomina di uno come Marino Massimo De Caro a direttore dei Girolamini. La Biblioteca è statale, ma una convenzione prevede che il conservatore del complesso sia un religioso (Sandro Marsano, indagato anch’egli), il quale deve scegliere il direttore della Biblioteca tra gli stessi religiosi . Visto che la Congregazione dell’Oratorio è ormai svuotata, si pensò bene di scegliere De Caro, chiedendo una deroga al Mibac. Ebbene, quando, il 1° giugno 2011, il Direttore Nazionale delle Biblioteche Maurizio Fallace ratificò la nomina, avrebbe dovuto prendere qualche informazione.

E sarebbe bastato Google per capire che era come mettere una volpe a guardia del pollaio. Ciò non venne fatto per una ragione ben precisa: De Caro era consigliere del ministro dei Beni culturali, Giancarlo Galan (probabilmente su richiesta di Marcello Dell’Utri, già capo di Galan in Publitalia). E questo è il secondo punto. Perché, prendendo il posto di Galan, Ornaghi conferma De Caro come proprio consigliere, senza nemmeno chiedersi chi fosse? È stata solo un’imperdonabile leggerezza, o il ministro tecnico ha obbedito a pressioni politiche? Terzo, cruciale, punto. Il 23 febbraio viene disposta una ispezione ai Girolamini. La svolta? Manco per nulla: l’ispezione viene ‘rimandata’. E quando (5 aprile) i bibliotecari onesti chiedono formalmente al Mibac di valutare molto attentamente la consegna della chiave del sancta sanctorum della biblioteca al direttore, da Roma arriva un burocratico, terribile, nulla-osta. L’ispettrice, invece, arriva solo il 17 aprile, cioè quasi venti giorni dopo il mio articolo sul Fatto (30 marzo) che ha fatto esplodere la questione. E ciò che scrive supera ogni immaginazione: la biblioteca appare devastata. Due giorni dopo arrivano i sigilli dei carabinieri.

Quarto punto. Nemmeno la millanteria della laurea (accertata da Gian Antonio Stella il 17 aprile) convince Ornaghi a cacciare il suo immacolato consigliere. Va alla Camera a dire che ne accetta l’autosospensione. Solo dopo una visita del procuratore aggiunto di Napoli, si decide a cacciarlo. Ma non lo dice a nessuno: troncare, sopire. Scandalosamente, Marsano e De Caro rimangono al loro posto: De Caro si dimette il 15 maggio, Marsano viene rimosso (dai suoi superiori) solo il 21. E nella lettera in cui Marsano accetta le dimissioni di De Caro, il religioso scrive che, essendo state suggerite dal direttore Fallace, egli ritiene le dimissioni “un ordine superiore”. Il che fa cadere come un castello di carte le autogiustificazioni che Ornaghi aveva esibito alla Camera, scaricando il barile sugli Oratoriani: sappiamo con certezza che, se Ornaghi avesse voluto, avrebbe potuto indurre De Caro a dimettersi quasi due mesi fa (invece che pochi giorni prima che fosse arrestato!).

Se i Carabinieri del Nucleo di Tutela guidato da Raffaello Mancino e il pool di magistrati guidato dal Giovanni Melillo avessero reagito come il Mibac, oggi la devastazione e il sacco dei Girolamini sarebbero in sereno svolgimento. Lorenzo Ornaghi ha l’occasione di fare qualcosa che nessuno in questo Paese sembra saper fare: chiedere scusa agli italiani, e ringraziare le migliaia di cittadini che, firmando l’appello promosso dallo storico dell’arte Francesco Caglioti, hanno innescato il salvataggio dei Girolamini. Vera supplenza civile e popolare di una tutela pubblica ormai vacante.

Il PGT da Moratti a Pisapia

La discussione sulle osservazioni al Piano di governo del territorio (PGT) di Milano è ancora in corso nel Consiglio comunale, in un clima quasi di silenzio stampa e non si sa esattamente quando disporremo di un testo e di una serie di tavole definitivi, sui quali poter svolgere una valutazione puntuale, alla quale comunque ci impegniamo, non appena sarà possibile. Le considerazioni possibili oggi hanno dunque ancora, necessariamente, un carattere piuttosto generale: ma la portata delle questioni che aprono è tale da renderle interessanti, per Milano e probabilmente anche per il resto del paese, nonostante la mancanza di qualche dettaglio.

La discussione in corso riguarda il Piano proposto e fatto adottare dalla precedente Giunta comunale di centro destra, presieduta dal Sindaco Moratti, che pure aveva già portato in Consiglio comunale le controdeduzioni alle osservazioni e la conseguente approvazione definitiva, ma che, abbastanza inspiegabilmente, non aveva dato corso alla successiva pubblicazione. La nuova Giunta comunale, presieduta dal sindaco Pisapia, revocava la precedente approvazione, riaprendo l’esame delle osservazioni: ed è questa la fase conclusiva che si sta ora svolgendo nel Consiglio comunale. La discussione avviene su una proposta di controdeduzioni formulata dalla Giunta, corredata dei testi normativi modificati, ma non dalle tavole, che la Giunta ha scelto di far redigere e dunque di rendere conoscibili, solo dopo il voto finale del Consiglio.

Non è dato sapere ufficialmente se sia intenzione della maggioranza ripubblicare il piano modificato. Nei contatti informali si esprime di solito su questo punto, da parte di esponenti della maggioranza e consulenti, un’opinione negativa, che non può non lasciare perplessi a causa dei rischi d’impugnazione che può comportare.

Il piano della Giunta di centro destra era caratterizzato da vistose “innovazioni”, se così si può dire. In estrema sintesi possiamo così ricapitolarle: la mancanza di ogni riferimento a un qualsiasi quadro di coerenza metropolitana; la mancanza di scelte dichiarate relativamente ad infrastrutture rare anche fondamentali, come ad esempio gli aeroporti; la previsione di nuovi tracciati superstradali/autostradali urbani, fuori e dentro terra; la previsione di sei nuove linee metropolitane totalmente urbane (per altro prive di finanziamento); l’introduzione del principio dell’indifferenza funzionale degli insediamenti urbani; l’utilizzazione intensiva (indice di utilizzazione convenzionale spesso superiore a 1mq/mq) delle ultime aree dismesse o sottoutilizzate – scali ferroviari, caserme e altre private.

Così pure l’introduzione del principio della trasferibilità generalizzata, su tutto il territorio comunale, dei diritti edificatori ovunque generati dall’indice unico, con il prevedibile loro atterraggio concentrato soprattutto sulle aree più centrali; la modificabilità delle previsioni del PGT su qualunque area, mediante la procedura di iniziativa privata del Piano integrato d’intervento; la disapplicazione di gran parte degli standards urbanistici nazionali; l’invenzione di un regime specialissimo per tutti i servizi non solo pubblici, ma anche privati e con fini di lucro, che, non essendo computati nel calcolo della superficie lorda di pavimento potranno essere realizzati dovunque e con qualsiasi densità edilizia mentre tutti quelli già esistenti genereranno ulteriori diritti volumetrici come fossero aree edificabili ancora libere; la generale facoltatività delle quote di edilizia sociale; l’attribuzione automatica di un indice unico ridotto e trasferibile, pari a 0,15 mq/mq alle aree non agricole comprese nel Parco sud; la genericità di molte delle tutele di carattere storico e paesistico; oltre naturalmente ad altri numerosi aspetti anche importanti che qui, per brevità, non si possono citare.

Gli effetti dell’insieme di queste disposizioni di piano sono facilmente sintetizzabili: a Milano vengono attribuite nuove potenzialità edificatorie dirette enormi, stimabili in almeno 70 milioni di metri cubi convenzionali. A tale quantità andrebbero per la verità aggiunte quelle derivanti dall’eventuale realizzazione dell’edilizia sociale opzionale, dalle possibili operazioni di dismissione e rilocalizzazione dei servizi e dagli interventi già in corso. Considerando tutto questo, si sarebbero certamente largamente superati i cento milioni di metri cubi convenzionali.

Questa enorme intensificazione della città è sostenuta da un potenziamento delle infrastrutture di mobilità totalmente urbano. Le abnormi previsioni sembrano rispondere, se così si può dire, a una doppia logica, da un lato alimentare una bolla immobiliare gigantesca (che sembra non avere molte altre spiegazioni se non nella dubbia liceità degli investimenti che ne sono all’origine e dunque in una qualche funzione di riciclaggio del mercato immobiliare), e dall’altro invece l’apertura di una guerra senza esclusione di colpi contro l’hinterland, destinato a subire una concorrenza sempre più dura da parte del capoluogo. Tali abnormi previsioni hanno ovviamente anche una conseguenza e un costo: una buona qualità di vita a Milano sembra diventare sempre più un optional d’improbabile realizzazione.

La nuova Giunta, come si è accennato, riprende in mano l’argomento riesaminando le osservazioni, prima contro dedotte quasi in blocco e con difetti di procedura. Lo fa secondo indirizzi politici e con effetti che possono essere così riassunti per sommissimi capi: cancellazione di alcuni ambiti di trasformazione irrealistici (come ad esempio quelli connessi al trasferimento del Tribunale) e di altri periurbani, per un totale di circa 0,6 milioni di mq di superficie lorda di pavimento; riduzione della capacità insediativa degli ambiti di trasformazione confermati, da circa 4 a circa 2,5 milioni di mq di superficie lorda di pavimento; riduzione dell’indice unico di edificazione territoriale per funzioni private da 0,5 a 0,35 mq/mq (comunque incrementabile per efficienza energetica di ulteriori 0,15 mq/mq); mantenimento della facoltà di utilizzazione dell’indice di edificazione per l’edilizia sociale per altri 0,35 mq/mq, che diviene obbligatorio (sembra di capire limitatamente alla cessione dei diritti volumetrici) solo per gli interventi di maggiore dimensione;

E aggiungo la cancellazione del riconoscimento automatico alle aree non agricole del parco sud del diritto edificatorio da trasferire pari a 0,15 mq/mq, ma rinvio alle future decisioni del Parco sud, senza espressione di specifici indirizzi, per la possibile attribuzione dell’indice (si deve ritenere quello unico, pari a 0,35?) alle eventuali aree da trasformare; introduzione di alcune norme di carattere metrico relativamente alla concentrazione dei volumi realizzabili, formulate però in modo non sempre chiaro; la cancellazione della previsione del tunnel stradale Expo – Forlanini, ma rinvio delle scelte per il trasporto pubblico al futuro Piano di settore della mobilità. Infine lo scheletro nell’armadio della normativa iper innovativa sui servizi viene affrontato dalla nuova Giunta con proposte difficilmente decifrabili.

Per quanto si comprende i servizi pubblici non genereranno più automaticamente ulteriori diritti edificatori per funzioni private, mentre tale gentile cortesia viene conservata per i servizi privati, generalizzando anzi la facoltà di esportarli fuori dalle aree di proprietà e di commerciarli, prima limitata ai soli servizi religiosi. Servizi pubblici e privati, secondo la proposta della Giunta continueranno a non essere computati nella superficie lorda di pavimento, determinando il rischio della creazione di superconcentrazioni di superattrattori. Sembra che i proprietari dei servizi privati potrebbero persino dapprima utilizzare i diritti volumetrici dell’indice unico, poi dismettere la parte a servizi, trasformandola in residenza o terziario e infine ricostruire i servizi in una qualsiasi area priva di diritti edificatori. L’insieme di questi giochetti comporterebbe una capacità insediativa potenziale pari ad almeno 5 milioni di metri quadrati di nuovi diritti volumetrici generati, ai quali si dovrebbe aggiungere una quantità forse doppia per tenere conto delle potenzialità legate all’eventuale trasferimento ” speculativo” dei servizi cui si è fatto cenno.

Aggiungendo a tutto questo i circa 7 milioni di metri quadri di SLP degli interventi già in corso a Milano, e ovviamente le previsioni degli ambiti di trasformazione, si raggiunge alla fine una potenzialità edificatoria complessiva stimabile in circa 25 milioni di metri quadrati di SLP, pari a 82 milioni di metri cubi convenzionali (e almeno 160 reali), corrispondente al fabbisogno di almeno ottanta anni, sempre che continuino in futuro i ritmi di sviluppo degli ultimi anni, che in realtà già oggi appaiono largamente in crisi.

Così sembrerebbe, allo stato dell’arte e sulla scorta di una normativa alquanto confusa. Per avere qualche maggiore certezza dovremo attendere di leggere il testo finale e di vedere le tavole, quando esisteranno.

Su questi principali aspetti, ma anche su altri che qui per brevità non si richiamano, il gruppo di lavoro e la sezione di Italia Nostra non si sono limitati a scrivere documenti, ma hanno elaborato emendamenti tecnicamente compiuti, che hanno consegnato a tutti i consiglieri disposti all’ascolto. Non resta che attendere la conclusione dei lavori del Consiglio per capire se saranno state accolte modifiche rispetto alle proposte della Giunta: purtroppo però allora sarà troppo tardi per cambiare qualsiasi cosa per via amministrativa.

Pur nella condizione d’incertezza fin qui descritta, è però possibile formulare qualche valutazione di carattere generale su tutta la vicenda, soprattutto perché sembra utile a rilanciare una riflessione di carattere sia locale sia nazionale su cosa dovrebbe significare oggi fare pianificazione territoriale e urbanistica nel contesto economico, sociale e istituzionale che caratterizza oggi il nostro paese.

Quattro nodi irrisolti, e una proposta per il futuro

Il primo nodo che esplode è quello della scala della pianificazione, ancora comunale, mentre manca qualsiasi sistema di governo delle aree metropolitane, su cui pure si estendono tutte le grandi città e ormai anche molte di quelle prima considerate medie. Ebbene, il cittadino italiano non può essere chiamato a pagare tasse sempre più pesanti per mantenere un sistema amministrativo troppo spesso segnato oltre che dalla corruzione da dispersività e inefficienza. Mentre gli altri paesi europei stanno facendo continui passi in avanti per dare sempre maggiore consistenza istituzionale alle aree metropolitane esistenti da decenni (ad esempio la Francia, con i Plan locales d’urbanisme estesi anche a 50/70 comuni e ora con la legge nazionale di riforma dell’ordinamento delle comunità territoriali n° 1563/2010 e la Germania con la redazione dei Piani regolatori “regionali” sviluppati in diversi Länder) noi siamo fermi all’intenzione di sciogliere le Province, forse senza sostituirle con nient’altro, con il rischio di accentuare ancora di più l’attuale frammentazione amministrativa.

E però le grandi città capoluogo conservano il potere di promuovere la formazione di quella che nella nostra legislazione si chiama Città metropolitana. Per questo è necessario chiedere ai sindaci di Milano, di Napoli, di Torino, di Firenze, di Bologna (per citare solo alcuni dei primi della lista, ed anche a quello di Roma, nonostante la molto maggiore estensione del capoluogo), di promuovere con urgenza questa riforma fondamentale e di avviare da subito, con tutti i comuni interessati, la pianificazione concordata almeno dei grandi servizi, delle grandi infrastrutture, dei principali poli insediativi e dei fondamentali corridoi verdi e azzurri. Milano non sembra abbia finora fatto passi decisivi in questa direzione: anzi, ha persino iniziato ad accapigliarsi con Sesto San Giovanni, nonostante l’omogeneità del colore politico, per stabilire chi debba aggiudicarsi il nuovo polo sanitario, fino al punto da chiedere al Presidente della Regione Formigoni di fare da giudice di gara: … in materia sanitaria ! In uno degli emendamenti proposti ai consiglieri abbiamo chiesto di stabilire in modo impegnativo nel Documento di piano che il nuovo Piano della mobilità venga sviluppato con gli altri comuni, a scala metropolitana: ancora non sappiamo se la proposta, che a noi sembra di minimo buon senso, verrà accolta.

Un secondo nodo, presente un po’ dovunque nelle città italiane, è certamente ancora costituito dal tema del riuso dell’inutilizzato e del dismesso.

Il piano di Milano, sia nell’adottato che nelle nuove proposte di controdeduzioni, ignora completamente il tema dell’inutilizzato, nel senso che, non contenendo nemmeno una ricognizione grossolana della natura del patrimonio esistente vuoto, di quello in costruzione ma invenduto e di quello già previsto dalla pianificazione attuativa o autorizzato, ma ancora non realizzato, tantomeno contiene una qualche terapia per questa pur evidente patologia. E invece proprio da qui bisognerebbe partire, a causa della notoria grande estensione del fenomeno, per costruire, nell’attuale contesto economico, un piano urbanistico realistico e dotato di minima intelligenza. Non ha, infatti, alcun senso buttare a caso nuova benzina di diritti volumetrici sul fuoco che già sta divampando pericolosamente. Anzi, forse, la via giusta è proprio l’opposto: raffreddare la temperatura, cioè agevolare con politiche diversificate lo smaltimento dell’inutilizzato e solo dopo mettere in campo nuove opportunità, per evitare che nella città e nello stesso mondo della finanza si vadano moltiplicando le sacche di malessere e di sofferenza, accanto a quelle di euforia più o meno illusoria.

Di traverso a questo discorso ragionevole si mette lo stato, che ci appare ancora una volta assetato più che preoccupato del bene dei cittadini. Che siano scali ferroviari o caserme, manifatture tabacchi o carceri, dismessi o dismettendi, l’urbanistica è circondata dalle aspirazioni cessionarie o cartolarizzatrici di stato e aziende pubbliche ed ex pubbliche.

I comuni, invogliati da quote di partecipazione agli utili o da sperati introiti in oneri spesso si prestano al gioco. Non dovrebbe essere così: quelle sono già aree pubbliche, i cittadini le hanno già pagate una volta: non devono essere costretti a ricomprarsele concedendo diritti volumetrici. E questo per una ragione molto precisa: si tratta di aree spesso dotate di un valore insostituibile.

A Milano la conformazione lineare e talvolta radiale degli scali ferroviari li rende occasioni uniche e ultime per realizzare importanti e profonde penetrazioni di verde dentro un tessuto cementificato di compattezza altrimenti disperante. Scalo Farini: Central Park di Milano è uno slogan perfetto e del tutto corretto, anche se ripreso oggi dal responsabile del piano della vecchia giunta. La riduzione degli indici prevista dalla nuova Giunta è insufficiente per consentire il raggiungimento di questi obbiettivi: per questo ai consiglieri disposti all’ascolto abbiamo proposto emendamenti finalizzati a ridurre in misura ben maggiore le volumetrie o a rinviare le scelte a dopo una dimostrazione progettuale della consistenza delle penetrazioni verdi che verrebbero realizzate. Una mostra allestita al Politecnico nel mese di aprile ha largamente illustrato le potenzialità di rigenerazione urbanistica legate a queste aree, se usate diversamente e più moderatamente.

Questo tema è presente in quasi tutte le città italiane grandi e medie, e l’appello che ci sentiamo di fare, a partire dall’esperienza milanese, è quello di batterci tutti insieme perché le proprietà pubbliche, al di là della specifico soggetto proprietario siano usate per rialzare la qualità urbana e non per alimentare la bolla immobiliare nell’illusione di portare soldi nelle casse di stato, aziende e comuni. È una vertenza nazionale che forse Italia Nostra può tentare di aprire

Un terzo tema brilla nella vicenda milanese, questa volta per la sua assenza. È il tema della cura delle tante disfunzioni della città sotto il profilo della qualità urbana, del semi-abbandono di molti quartieri di edilizia popolare, della scarsità, dell’inefficienza e del costo di numerosi servizi, della congestione e dell’invasività, talvolta esasperante, del traffico e della sosta, non solo presso i luoghi di destinazione, ma persino presso quelli di residenza. A essi si aggiunge il tema della scarsità di case effettivamente disponibili per gli strati sociali deboli, toccato ma certo non risolto dal piano. Sotto il nome pomposo del Piano dei servizi quel che manca completamente a Milano è proprio qualsiasi indicazione di progetto per rimuovere tutte quelle cause che provocano un diffuso disagio rispetto al funzionamento della città. Anche questo è sicuramente un tema comune nelle città italiane e soprattutto nelle grandi città, in probabile aggravamento a causa della contrazione delle risorse pubbliche disponibili e che potrebbe anch’esso rientrare in un piano di azione dell’associazione a livello nazionale, accanto alle attività tradizionalmente svolte in difesa del patrimonio paesaggistico e di quello storico – culturale.

Anche un quarto tema brilla per la sua totale assenza nella vicenda del PGT milanese: è quello del rilancio della competitività del sistema produttivo, della ricerca, dell’innovazione e delle infrastrutture rare: del tutto dimenticato perché qualche maestro, davvero cattivo, ha teorizzato con successo che l’urbanistica deve avere per oggetto soltanto la regolazione, o il traffico che dir si voglia, dei diritti edificatori. Ed anche in questo caso avviene a Milano il contrario di quello che succede nei paesi di più alta tradizione nella gestione territoriale, che da sempre hanno fatto del piano innanzitutto lo strumento per la cura e la crescita delle opportunità e delle vocazioni caratteristiche di ogni territorio. -

Per concludere sulla vicenda milanese possiamo forse sentirci di avanzare una proposta al Sindaco. Che la storia urbanistica della nuova amministrazione non si chiuda con la faticosa approvazione del Piano Moratti rappezzato ma che si apra subito la stagione del Piano Pisapia. Pensato ex novo, a partire dalle idee della nuova amministrazione e con respiro metropolitano. Con l’obbiettivo di farlo nascere prima della fine del mandato.

Ha vinto la cività

di Antonio Padellaro

Davanti alla sciagurata decisione di aprire una discarica di rifiuti accanto a Villa Adriana, patrimonio dell’Umanità, c’eravamo appellati alla sensibilità civile e istituzionale di Monti e dei suoi ministri. Non è possibile, scrivevamo, che personalità europee, illustri cattedratici e gran commis dello Stato si comportino come quei politicanti da quattro soldi che hanno ridotto l’Italia in brandelli.

Infatti, con una decisione che fa onore a questo governo, Villa Adriana è stata salvata dallo stupro organizzato a cura delle solite cricche affaristiche con buoni addentellati nella Pubblica amministrazione. Una volta tanto è la civiltà che sconfigge la barbarie.Ciò non avviene per caso ma per la combinazione positiva di due fondamentali fattori di democrazia.

Prima di tutto c’è la pressione esercitata da un giornalismo libero che non ha timore di disturbare il manovratore. Lo rivendichiamo con orgoglio noi del Fatto Quotidiano che alle prime notizie sullo scempio che si stava perpetrando non abbiamo perso tempo. Le nostre inchieste sulla discarica di Corcolle che già “puzzava” (e non solo a causa dell’immondizia), unite alla sollevazione dei nostri lettori, cui ha dato voce forte e chiara (è il caso di dirlo) Adriano Celentano, hanno agito da detonatore.

Si chiama opinione pubblica: quando si fa sentire e ottiene il giusto la democrazia è più forte. Oggi possiamo dirlo con orgoglio.Tuttavia, la pressione della libera stampa non sarebbe stata sufficiente senza un governo capace di riflettere e di cambiare strada. Monti e alcuni ministri hanno probabilmente capito che la scelta iniziale era condizionata da valutazioni parziali e orientate non verso il bene collettivo, ma a favore di interessi privati anche oscuri. Conseguenza inevitabile, le dimissioni del prefetto di Roma Pecoraro responsabile del malsano progetto, assieme al presidente della Regione Lazio Polverini non nuova a imprese del genere.

Un cambiamento di rotta che con il governo precedente, ne siamo certi, non sarebbe accaduto. Oggi possiamo dirlo con maggior fiducia: qualcosa sta cambiando.

VILLA ADRIANA È SALVA

Il governo rinuncia alla discarica a Corcolle Prefetto costretto alle dimissioni da Commissario

di Malcom Pagani

Per somigliare definitivamente a Gianni Letta, il sottosegretario Antonio Catricalà dovrà studiare a lungo. Il primo vero esame affaristico-politico dell’era tecnica lo boccia inesorabilmente e, in un’afosa mattina romana di inizio estate, trascina a fondo la fredda logica della devastazione del patrimonio artistico. Villa Adriana è salva. La discarica di Corcolle non si farà. Il commissario straordinario Giuseppe Pecoraro vede il mondo ribaltarsi in una notte. Da padroncino dell’emergenza rifiuti a rifiuto da licenziare in tronco con lo struggente espediente delle dimissioni su richiesta, a sole 48 ore dalla fiducia governativa.

Sostituito da Goffredo Sottile, il grande amico di Luigi Bisignani ha il profilo sgualcito di un uomo che perde due partite in un sol colpo. Aveva affidato la consulenza sulla cava nei pressi di Tivoli a un vecchio amico di famiglia e al suo consulente. Sognava di diventare Capo della Polizia. Rimarrà invece, fino alla prevista sostituzione, Prefetto di Roma. Intorno alla sua figura obliqua, volano stracci e insulti (“irresponsabile”) tra Renata Polverini e Gianni Alemanno. Il sindaco, convinto teorico della giravolta in corso d’opera, tira in ballo la Provincia: “La competenza per individuare le aree idonee o non idonee allo smaltimento di rifiuti è sua” e Zingaretti, lesto, risponde parlando di “stop alle discariche” e guarda lo spettacolo dall’uscio, come è di moda, a propria insaputa: “Non è vero. Non c’entriamo nulla”. Ieri mattina, facendo slittare il previsto Cdm di 40 minuti, nello studio privato del premier a Palazzo Chigi si è svolto un prevertice. Cinque personaggi in cerca d’autore. Facce tirate. Gelo. Il titolare dell’Ambiente Clini, reduce dal Brasile, quello dell’Interno Cancellieri, Monti, Ornaghi e il sottosegretario Catricalà, uno degli sponsor dello scempio. Incredulo. Teso. Il premier, di pessimo umore per la sottovalutazione complessiva dell’intera vicenda, aveva trascorso il pomeriggio precedente ad ascoltare lo sdegno di un altro presidente, quello onorario del Fai, l’amica quasi novantenne Giulia Maria Mozzoni Crespi.

La fondatrice del Fondo ambiente italiano, una donna che dopo aver guidato giganti dell’editoria, si occupa di tutela dei capolavori dal 1975, avrebbe ricordato a Monti la sua recente presenza nel Cda della creatura nata per impedire orrori e saccheggi e chiesto “saggezza e dignità”. Monti l’ha ascoltata. Poi ha fatto lo stesso con Anna Maria Cancellieri, combattiva: “Pecoraro è stanco, va immediatamente sostituito” e impegnata a descrivere i contraccolpi anche mediatici che un’accentuata insistenza governativa avrebbe fatto deflagrare: “I giornali ci descrivono per quelli che non siamo. Il Paese non capirebbe. Dobbiamo fermarci”. Poi, dopo aver registrato la contrarietà di Catricalà al passo indietro: “Mi adeguo, ma è un manifesto di debolezza”, è stata la volta di Clini e Ornaghi. Il primo, laconico, ha ricordato l’opposizione formale del suo ministero.

Il secondo, messo di fronte a un dilemma amletico, ha scelto, per una volta, di essere. “Se andiamo avanti, rimetto oggi stesso il mandato”. Un’opzione coraggiosa, una di quelle curve annunciate da cui fuggire è impossibile. Con le dimissioni del rettore della Cattolica sul tavolo e lo spettro di una minicrisi di governo, Monti, concentrato per l’intera assise, si è deciso. Incarico di commissario straordinario conferito al Prefetto Sottile per cercare rapidamente un nuovo sito che sostituisca Malagrotta (Quadro Alto, Riano, è il preferito di Clini ma in corsa c’è anche il vicino Pian dell’Olmo) e rapido passaggio collegiale in Consiglio dei ministri per esporre la sindone di Clini e Ornaghi e il “sacrificio” di Pecoraro. Nel pomeriggio, dopo mesi di critiche aspre, mentre Clini ammetteva l’addio ufficiale al progetto: “Direi di sì”, Ornaghi ha assaporato la revanche.

Il salvataggio di Villa Adriana gli vale il plauso di mezzo arco costituzionale, compreso quello del nemico di ieri, l’archeologo Carandini, in prima fila nel pomeriggio con Veltroni e mezzo Pd al “Teatro dei Servi”. Ornaghi, comprensibilmente retorico, incassa senza esagerare. Ma è raggiante: “Qui non ci sono né vincitori né vinti. Hanno prevalso ragionevolezza e buon senso. L’unica trionfatrice è la cultura”. L’altra faccia della luna è l’ovale di Renata Polverini. Il governatore non si aspettava un finale del genere. Su Corcolle e sul suo indotto, lavorativo ed elettorale, aveva puntato moltissimo un rilevante segmento di centrodestra laziale. Polverini non si dà pace e prima difende Pecoraro: “Ha subìto un’aggressione assolutamente vergognosa” poi rende, anche plasticamente, la decomposizione in corso nel fu Pdl.

Il bersaglio è l’antico sodale Gianni Alemanno, prima favorevole e poi contrario alla discarica: “Rimettiamo al Sindaco e al consiglio comunale le loro competenze”. Tradotto: trovino rapidamente il sito perché – si rivela Renata – minacciando: “Non sono disponibile a firmare la proroga di Malagrotta e soprattutto” le sfugge in un lampo rivelatorio: “Non sono disposta ad andare verso una soluzione che mantenga un monopolio privato in questa città”. Allora, a guardare oltre capitelli, profili, colonne e appelli, si trattava di questo. La discarica era un affare. Corcolle un nome privo di senso. Bisognava indebolire Manlio Cerroni, il paperone dell’immondizia dal cuore cattocomunista. Togliergli un potere incalcolabile. Ridistribuire, non solo geograficamente, il prodotto di un’equazione. Di un paradosso della modernità precipitato in duemila anni di storia. Ciò che mangiamo. Chi fa sparire i resti. Quanto costa il disturbo. Sopra Roma volano i gabbiani. Fino a ieri vigilavano gli avvoltoi.

Il nuovo commissario tra immondizia e razze equine

Goffredo Sottile, il nuovo commissario per i rifiuti del Lazio, con l’immondizia ha già avuto a che fare, essendo stato commissario delegato per l’emergenza rifiuti in Calabria. Romano, classe 1940, ha intrapreso la carriera prefettizia nel 1969. Un uomo di lungo corso, che ha prestato servizio presso le Prefetture di Nuoro, Frosinone (Capo di Gabinetto) e a Roma, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, in qualità di Capo della Segreteria Tecnica del sottosegretario delegato ai Servizi di Informazione, e il ministero dell’Interno, dove, in ultimo, fino alla nomina a Prefetto, ha svolto le funzioni di vicecapo di Gabinetto e, per molti anni, quella di Segretario del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica. Nel 2007, su proposta dell’allora ministro Paolo De Castro, fu nominato presidente dell’Unire, Unione nazionale per l’incremento delle razze equine. La sua voglia di trasparenza e pulizia non gli ha portato molti consensi. Lo scorso anno è stato anche vicepresidente generale del Club Alpino italiano.

INTERVISTA. Il professor Salvatore Settis

“Ma sui Beni culturali siamo allo sbando”

di Alessandro Ferrucci

Professore Salvatore Settis, ci spiega l’importanza di Villa Adriana?

È uno dei siti archeologici più importanti al mondo: la Villa privata di un Imperatore molto particolare.

Da che punto di vista?

Adriano era un architetto, un uomo colto, amante della cultura greca. Le fonti ci rivelano che lui stesso progettava. E la Villa era una residenza arredata in modo straordinario: le sue statue e i suoi mosaici sono nei grandi musei del mondo, da quando si è iniziato a scavare nel ’600. Poi c’era un’integrazione straordinaria con il paesaggio, che negli ultimi anni è andata progressivamente persa a causa dell’incuria e dei pochi fondi. Oltre al calo dei visitatori nonostante il bollino Unesco.

Magari questa storia ha portato nuova notorietà alla Villa...

Sarebbe bello, ma lo Stato deve tornare a curarla come merita, stiamo pagando il taglio ai Beni culturali voluto da Berlusconi nel 2008.

Oltre un miliardo...

Di più: ci avviciniamo al miliardo e mezzo di euro. E ora si iniziano a vedere gli effetti di una politica del genere.

Perché solo adesso?

Semplice: progressivamente stanno terminando i fondi già programmati e stanziati. L’incuria di Villa Adriana è il corrispettivo esatto dei crolli di Pompei o della Domus Aurea a Roma. Ma in Italia abbiamo anche altre situazioni preoccupanti.

Come la Cappella degli Scrovegni a Padova.

Un caso clamoroso! Lì gli affreschi di Giotto, incunabolo di tutta la pittura occidentale europea, sono in pericolo. A pochissima distanza hanno iniziato a scavare le fondamenta per realizzare due torri enormi, quando in tutta la zona incide una falda acquifera che già penetra nei sotterranei della Cappella.

Il ministro Ornaghi è intervenuto?

Totalmente assente. C’è qualche timida iniziativa della Soprintendenza locale, niente più.

Possibile?

Purtroppo è così. In compenso il sindaco di Firenze, Renzi, ha dichiarato che Ornaghi andrà a Palazzo Vecchio per visitare quei buchi orribili sugli affreschi di Vasari. Vogliono cercare un Leonardo che non c’è.

A questo punto le chiedo un giudizio generale sul tecnico Ornaghi.

Premesso: non è un tecnico dei Beni culturali e questo lui lo sa benissimo. Per fortuna nel caso di Corcolle si è fatto sentire, aiutato dall’intervento del ministro Clini. Spero vivamente che l’episodio segni una svolta nel suo impegno al Mibac. Per adesso sembra aver avuto pochissima voglia di fare il ministro.

Però ha trovato il tempo per commissariare il Maxxi a Roma.

Lasciamo perdere. Pensi: in quel caso ha defenestrato uno dei migliori funzionari italiani, Pio Baldi, in un altro ha legittimato Marino Massimo De Caro, mercante di libri, sospettato di furti, a dirigere la biblioteca Girolamini.

Lei prima ha nominato Clini. Il ministro dell’Ambiente, assieme a Ornaghi, si è occupato di “inchini” dopo la tragedia della Concordia. A Venezia le navi da crociera entrano ancora.

Il governo dopo essersi stracciato le vesti per il disastro del Giglio, ha trovato una soluzione : le grandi navi non si possono avvicinare a meno di 400 metri dalla costa, con l’eccezione di Venezia. Quindi, il luogo più delicato d’Italia non è tutelato.

Magari non c’è pericolo...

A marzo ero a Venezia quando una di queste navi ha rotto gli ormeggi. Per fortuna sono intervenuti due rimorchiatori che erano nei paraggi. Forse per risolvere il problema aspettano un incidente.

Quando è all’estero, qual è l’aspetto che più la colpisce. Cosa vorrebbe importare?

Al Louvre o al Prado gente come De Caro non sarebbe mai entrata. Da noi non si ragiona per competenze, ma per amicizie. Eppure Ornaghi non sente l’esigenza di scusarsi. Almeno il suo predecessore, Galan, ha ammesso di averlo preso su consiglio di Dell’Utri.

Abbiamo fermato i barbari del Terzo millennio”

I COMITATI RILANCIANO: “NESSUN’ALTRA CAVA, SERVE UN PIANO SERIO PER I RIFIUTI DEL LAZIO”

di Nello Trocchia

Nei pressi della Villa campeggia una scritta: “Adriano scatena l'inferno”. Una invocazione, una preghiera laica impressa su uno striscione per scongiurare l'incubo pattumiera. Sotto un cuore diventato il simbolo della protesta anti-discarica. Protesta pacifica che ha attraversato l'oceano con le petizioni firmate da docenti e presidi di facoltà internazionali. “Il mondo ha sollevato un bel vallo – ricorda il musicista e attivista anti-discarica Alberto Marchetti – come quello che aveva fatto Adriano per fermare i barbari, noi abbiamo fermato i barbari del Terzo millennio”.

Dopo 7 mesi la battaglia è vinta, i comitati si ritrovano nel primo pomeriggio per festeggiare davanti alla Villa Adriana che ormai è salva. Il nuovo sito previsto per il dopo Malagrotta, il mega invaso che serve Roma da 30 anni, non sarà realizzato a 700 metri dalla zona di rispetto della residenza dell'imperatore Adriano. La notizia arriva a metà mattina: il Consiglio dei ministri ha detto no alla discarica in zona Corcolle, al confine tra Roma e Tivoli, il prefetto Giuseppe Pecoraro si è dimesso da commissario per l'emergenza. Parte un tam-tam di messaggi tra i componenti del comitato che fin dall'inizio si sono mobilitati in difesa del sito, patrimonio dell'Unesco. “Ieri il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi – ricorda Gianni Innocenti, comitato anti-discarica – è venuto a Corcolle, quello che non ha fatto il commissario Pecoraro. Ornaghi si è reso conto che da Villa Adriana si vedeva la parete della cava dove sarebbe sorta la discarica. Così ha vinto il buon senso”.

Al brindisi di metà pomeriggio arrivano tutti. I comitati mettono in fila le personalità del mondo della cultura e del cinema che si sono spesi per la villa: “Franca Valeri, Sabina Guzzanti, Philippe Daverio, Antonio Padellaro, Urbano Barberini”. I turisti e le scolaresche guardano divertiti i festeggiamenti. Gabriella Cinelli gestisce il ristorante di famiglia di fronte alla villa, prende emozionata il libro dei ricordi. “Ha vinto la memoria. Villa Adriana ha sorpreso gli intellettuali del mondo della cultura. In questo volume ho conservato le firme dei grandi da Fellini a Togliatti, da Mastroianni a Bergman”. Una vittoria che è anche una dedica racchiusa nei versi di Adriano: Animula, vagula, blandula, piccola anima smarrita e soave. “L'idea folle di Pecoraro – conclude Gabriella – se realizzata, avrebbe sconfitto la nostra anima”. E c'è chi evoca una staffetta culturale in difesa del sito, patrimonio dell'Unesco. “Abitavo nella villa – ricorda Tito – mio padre era custode, ricordo la battaglia condotta negli anni Sessanta per salvare la residenza dell'imperatore. Quando mi hanno detto che volevano fare la discarica ho pensato che la storia si ripete”. Vittorina è una professoressa in pensione, insegnava italiano e latino al liceo: “È stato evitato uno sfregio. Abbiamo festeggiato alla notizia delle dimissioni di Giuseppe Pecoraro”. Il prefetto che esce sconfitto così come la governatrice del Lazio Renata Polverini che aveva difeso la scelta di Corcolle. Un brindisi che è anche consapevolezza.

I rifiuti prodotti dalla città di Roma ora dovranno trovare un altro buco e si sono persi sette mesi inseguendo siti inidonei, mentre la raccolta differenziata, nella capitale, è ferma al 25 per cento. La legge prevede che si raggiunga il 65 per cento entro il dicembre di quest'anno. Sono circa due mila le tonnellate che ogni giorno finiscono in discarica senza alcun trattamento in violazione della normativa vigente.

“Non è sufficiente – ricorda Gianni Innocenti – salvare Corcolle e condannare un'altra cava. Fino a quando non ci sarà un piano serio dei rifiuti nel Lazio, non si può gioire completamente”.

Arriva il momento del brindisi liberatorio. I comitati si fanno immortalare in una foto e tra i più giovani c'è Giuliano che, con la villa alle spalle, scrigno di storia e memoria, evoca Peppino Impastato, intellettuale e giornalista, ucciso dalla mafia nel 1978: “Aveva ragione lui. Brindiamo alla bellezza”.

La campagna del “Fatto” e l’appello di Celentano

Subito prima che il Consiglio dei ministri decidesse delle sorti di Villa Adriana, ieri sulla prima pagina del Fatto è comparso l’appello di Adriano Celentano: “Caro Monti, ancora un paio di questi colpi e alle prossime elezioni i Grillini te li troverai anche in camera da letto”. Celentano ha fatto propria la preoccupazione di milioni di italiani per un bene che è patrimonio mondiale dell’Unesco e ha lanciato l’allarme per una possibile nuova bomba ecologica.

GIUSEPPE PECORARO

LO SCERIFFO DEI ROM E LE AMICIZIE PERICOLOSE

di Silvia D’Onghia

Ma figuriamoci se Bisignani si è speso per la sua nomina a Prefetto di Roma... Bisignani, nella manifesta ingenuità di Giuseppe Pecoraro, è solo “un imprenditore che conosce tutti”. Ecco perché si è rivolto al faccendiere coinvolto nell’inchiesta P4 per contattare Angelo Rovati, costruttore del parco giochi di Valmontone. La Presidenza del Consiglio non gli aveva risposto, e così il secondo numero in agenda era quello di Bisignani. “Il Pecoraro – si legge nell’interrogatorio del faccendiere – sapendo che ero buon amico di Rovati, mi disse che lo stesso avrebbe avuto problemi e che lui non avrebbe mai potuto autorizzare l’apertura (del parco, ndr) per problemi di viabilità legati all’Autostrada A1”. Oggi, passando da Valmontone sull’A1, Rainbow Magicland lo si saluta con la manina.

Giuseppe Pecoraro è Prefetto della Capitale dal novembre 2008, quando – mettendosi “al servizio della città” – sostituì Carlo Mosca, rispettoso dei Rom e per questo nemico del sindaco Alemanno. Il quale evidentemente, secondo il neo funzionario di Governo, aveva già fatto il miracolo: a Roma “non ci sono emergenze” dichiarò Pecoraro appena insediato e appena sette mesi dopo la campagna elettorale vinta dal candidato del centrodestra sulla paura degli stupri e degli stranieri.

Il Prefetto dettò subito la sua agenda: cortei, sgomberi e, appunto, nomadi. Non una parola – mai, nel corso di questi anni – sulle mani delle mafie che si stavano prendendo la città, lasciando sull’asfalto una scia di morti e vendette. Anzi. “I recenti omicidi non sono assolutamente da attribuire alla presenza della criminalità organizzata”. Non vedo, non sento, ma parlo. Solo “risse tra gruppi di balordi”.

Rimarrà alla storia, oltre alla pessima figura internazionale dovuta alla scelta di Corcolle per la nuova discarica, la pantomima del Piano nomadi. Il motivo per cui era stato tanto voluto da Alemanno e, forse, anche il motivo per cui quell’amicizia è drammaticamente finita. Le prime parole di Pecoraro furono una manna per le orecchie del sindaco. “Intendo realizzare quanto prima un progetto di integrazione sociale delle persone che vogliono e meritano di essere inserite nella comunità”. dichiarazione battuta dalle agenzie il 26 dicembre 2008, Santo Stefano. “Integrazione e monitoraggio dei campi nomadi”: 26 gennaio 2009.

Un climax. “Campi recintati con presìdi di controllo interni ed esterni, ma senza i militari, tesserino d’identificazione da mostrare ogni volta che si entra”: 18 febbraio 2009. “Sgomberare i 200 micro-accampamenti abusivi, arrivare a dieci campi autorizzati”: 7 settembre 2010. “Sgombereremo oltre 50 micro-insediamenti abusivi”: 8 febbraio 2011. Passano gli anni, ma i Rom restano. I campi previsti nel Piano non si realizzano, i sindaci dell’hinterland romano non li vogliono, la guerra agli accampamenti produce solo un grave dispendio per le casse del Campidoglio. E quel filo rosso che collega Palazzo Valentini al Campidoglio, poche centinaia di metri, si spezza. “Il nuovo protocollo sui cortei al momento ‘non è una priorità’. Ne è convinto il prefetto Pecoraro. Ed è scontro col sindaco”, recita un’Ansa del 24 maggio dello scorso anno.

E allora ecco che, nominato commissario per l’Emergenza rifiuti, tra un Cafonal di Dagospia e l’altro, Pecoraro ha prospettato scenari apocalittici con Roma invasa di rifiuti come Napoli: “Prenderò provvedimenti contro chi ci farà andare in emergenza”. Ieri i provvedimenti li hanno presi contro di lui.

La città di Vallejo, in California, è troppo lontana da Hollywood per potersi permettere un happy ending, ma in quel fazzoletto della Bay Area caduto in depressione nel 2008 qualcosa è successo. Qualcosa di intimamente americano. Vallejo è stata la prima città degli Stati Uniti a dichiarare la bancarotta; lo ha fatto nel maggio del 2008, quando la crisi globale non era ancora scoppiata ma la California già manifestava sintomi di un malessere che non sarebbe passato in una notte. La città, un porto industriale con 120 mila abitanti, rappresentava lo standard negativo della gestione municipale. Lo stipendio del city manager era superiore a quello di un giudice della Corte suprema, il capo della polizia aveva un salario da 200 mila dollari l’anno e gli stipendi degli amministratori cittadini erano modellati su standard di quel genere, tanto che a fine anno l’80 per cento del budget municipale veniva usato per coprire gli emolumenti della pubblica amministrazione.

Non poteva durare, e infatti Vallejo è collassata nel modo più doloroso, sopraffatta dai debiti e incapace di far fronte alle spese ordinarie. Molti abitanti hanno abbandonato la nave che affondava e negli ultimi anni si è parlato di Vallejo soltanto per la migrazione di prostitute, ultima resistenza della logica di mercato, e per il tasso di criminalità in spaventoso aumento. Quella che una volta era stata una cittadina laboriosa plasmata dalle braccia della working class si è trasformata in una suburra senza legge.

I cronisti del Washington Post però sono tornati a Vallejo per documentare un’inversione della tendenza degradante, una spinta nata dal basso che sta alleviando le pene che l’amministrazione cittadina aveva iniziato ad affrontare quando ormai i problemi erano insolubili. Da tragedia ineluttabile mandata come contrappasso per le colpe di una classe dirigente irresponsabile, la bancarotta si è trasformata nell’occasione per una rinascita. I consiglieri comunali Marti Brown e Stephanie Gomes si sono guardati intorno alla ricerca di modelli di città “rinate” da imitare e hanno importato le ricette giuste per fronteggiare la crisi. Hanno installato telecamere in tutta la città per aumentare la sicurezza contenendo i costi e hanno coinvolto la popolazione per aiutare volontariamente il lavoro della polizia.

Un sistema basato sui social network permette di condividere in modo capillare le segnalazioni criminali, e nello spirito della collaborazione per tenere in piedi la città, gli “watch group” di quartiere – le ronde, per intenderci – sono passate da 15 a 350. Gli abitanti della città si sono kennedianamente chiesti cosa avrebbero potuto fare loro per la città non viceversa, e hanno agito di conseguenza. Il consiglio della città ha disposto il taglio dei salari della pubblica amministrazione, ma non ha toccato le pensioni e altri benefit per non dare agli abitanti un ulteriore incentivo a lasciare la città.

La tassa sui beni di consumo è stata aumentata di un centesimo, e in cambio l’amministrazione comunale ha disposto che siano i cittadini a decidere come spendere i nove milioni di dollari raccolti. Brown dice che la rinascita di Vallejo “è una cosa che non avremmo voluto affrontare, ma si sta trasfromando in un’esperienza positiva”. E in questa frase è incastonato lo spirito americano, un valore non monetizzabile che finisce per generare modelli funzionanti, nel settore privato come in quello pubblico. Vallejo è un esperimento geograficamente ed economicamente limitato al quale non si può chiedere di ispirare la salvezza americana, ma è l’incarnazione di una pragmatica positività che si esprime fattivamente soltanto oltreoceano.

Saranno le città autogestite come Vallejo a trainare il “nuovo secolo americano” di cui Obama – riprendendo Reagan, i neoconservatori e rubando la citazione a Mitt Romney – ha parlato ai militari di stanza in un’altra città “rinata”, Colorado Springs? Forse non direttamente. Ma le parole del presidente e gli anonimi cittadini di Vallejo che ridipingono le cancellate arrugginite e puliscono i parchi pubblici pescano dal comune bacino dell’ottimismo americano, fonte inesauribile di azione e antidoto contro le tentazioni sterili delle lamentele.

Gli abitanti di Vallejo non possono guardare lo stato alla ricerca di soluzioni, semplicemente perché lo stato, in questo caso, è parte del problema, non la soluzione, sempre per volare in quota Reagan. Allo stesso modo, il presidente democratico e pragmatico Obama non può fare a meno di rispondere ai venti di crisi rilanciando un’idea eccezionalista che prima di essere progressista o conservatrice è intimamente americana. Il presidente aveva già mostrato la sua posizione antideclinista quando aveva fatto sapere, con strategico tempismo, di avere molto apprezzato il libro “The World America Made” dello storico neocon Bob Kagan, sontuoso debunking della mitologia declinista che si è impossessata degli americani.

A Colorado Springs ha mandato in onda il sequel. Per capire che la possessione declinista è soltanto uno sbandamento, un’ubriacatura, non la norma del pensiero americano, si può andare ad assistere alla rinascita civile di Vallejo, oppure, con più agio, si può compulsare l’ultimo volume di Daniel Gross “Better, Stronger, Faster: The Myth of American Decline… and the Rise of a New Economy” e rendersi conto che la rinascita, del rimbalzo, le maniche rimboccate, la responsabilità personale, la reazione alle avversità sono concetti che vengono prima di qualsiasi distinzione ideologica. L’America che mostra la maglia di Superman sulla copertina di Newsweek è un’immagine potente, e anche quella è un sequel dell’“America is back” con cui il settimanale ha scandalizzato il coro delle cassandre nel 2010. Fra Washington e Vallejo qualcosa succede. Qualcosa.

Non poteva che finire così. Era una pazzia, l'idea di portare l'immondizia di Roma a settecento metri dal sito archeologico di Villa Adriana, tutelato dall'Unesco. Come avrebbe potuto Mario Monti, dopo aver tanto faticato per ricostruire l'immagine internazionale del nostro Paese, rischiare una figuraccia planetaria?Dal Palazzo di Vetro avevano già mandatoun avvertimento chiaro. Esprimendo «forte preoccupazione» per il progetto di trasformare la ex cava di Corcolle in una enorme discarica.E lasciando intendere che in quel caso il bollino dell'Unesco poteva essere revocato.E non solo perché l'olezzo di migliaia di tonnellate di spazzatura avrebbe nauseatoi turisti.

E nemmeno perché la quiete del sito, fra ulivi e cipressi secolari, sarebbe stata lacerata dalle urla dei gabbiani, abituali e chiassosi frequentatori di ogni discarica. Più semplicemente, perché non si tratta così un Patrimonio dell'Umanità: ovvio. Sarebbe stata sufficiente questa banale considerazione per evitare di farci ridere dietro ancora una volta. Questo è successo.Ma se tutto è bene quel che finisce bene, dando per scontato che la questione Corcolle sia superata (guai se ci fossero delle sorprese: non ci provino), l'incredibile storia che ci ha inutilmente esposti all'umiliazione di una raccolta di firme internazionale contro la sventurata ipotesi, dice almeno due cose. La prima è che il pasticcio di Pompei (il crollo della scuola dei gladiatori, 103 mila euro spesi per censire 55 cani randagi, la scellerata mancanza di una manutenzione quotidiana dei mosaici...) non è servito proprio a nulla. E a nulla è servita la lezione delle durissime critiche piovuteci addosso da tutto il mondo. Per togliere di mezzo una disputa ridicola come quella su Corcolle che in un Paese normale non sarebbe mai neppure iniziata, si è dovuti arrivare a un passo dall'incidente internazionale con tutti gli studiosi che ci ricordavano che il nostro patrimonio non è soltanto nostro.

Il fatto è che paesaggio e beni culturali, ovvero la «materia prima» nazionale che tutto il mondo ci invidia, sono in balia di un disinteresse pressoché totale da parte della nostra classe dirigente. Enti locali, Regioni, amministrazioni statali: con poche sfumature, hanno tutte lo stesso sconcertante atteggiamento di sufficienza. Come se i nostri tesori, anziché una risorsa, rappresentassero un problema.Certo che lo sono: per lo sfruttamento sconsiderato del suolo, per le violenze al paesaggio, per la cementificazione.Altrimenti i resti della villa dell'imperatore Adriano non potrebbero convivere con una orrenda distesa di edilizia sgangherata battezzata col nome, appunto, di Villa Adriana. Nella toponomastica ordinaria, niente altro che il nome di un disordinato sobborgo di Tivoli. Dove mancano perfino cartelli stradali ben visibili per indicare la strada ai turisti. Dice una ricerca resa nota da San Marino che mediamente il bollino Unesco fa aumentare i visitatori del 30%: a Villa Adriana, incredibile ma vero, è successo il contrario: ha avuto il prezioso riconoscimento, i turisti sono diminuiti del 42%. Scendendo fino, quelli paganti, a 109 mila l'anno, un trentesimo di quanti vanno a Gardaland.

Ma non serve nemmeno andare fino a Villa Adriana per toccare con mano la sciatteria che ha massacrato l'Italia. Basta guardarsi intorno: dalle inquietanti periferie delle grandi città agli scempi delle coste calabresi, alla distesa di capannoni senza soluzione di continuità con cui è stata stuprata la meravigliosa Pianura padana. Anche l'Istat ha certificato con apprensione, nel suo ultimo rapporto annuale, che il 7,3% del nostro territorio ormai non è più naturale. In compenso, pieni di inutili palazzine e aree industriali deserte, siamo diventati il Paese europeo meno dotato di infrastrutture essenziali.Al disinteresse si aggiunge poi una confusione decisionale insensata, frutto di una situazione che ormai strozza l'Italia. Qui può accadere che si blocchi per anni una metropolitana per la scoperta di un resto archeologico magari di secondaria importanza e al tempo stesso che un prefetto possa pensare di fare una discarica accanto a un sito Unesco.

E questa è la seconda lezione. Quello di Villa Adriana è un caso di scuola che dimostra le necessità assoluta, come già proposto ieri, di affidare le tre grandi ricchezze d'Italia a una direzione univoca. Un ministero del Patrimonio nel quale riunificare le competenze su ambiente, beni culturali e turismo, dotato di poteri concreti e gestito dai migliori: scelti sulla base di passioni e competenze. Siamo convinti, caro professor Monti, che si risparmierebbero anche un sacco di soldi.

Il tempo stringe e si stringe anche il cappio intorno alla piccola comunità di Corcolle. Il ministro Lorenzo Ornaghi è piombato a sorpresa, ieri, nel sito dove dovrebbe spalancarsi la cava che ospiterà l’immondizia di Roma. Ha visitato anche Villa Adriana, che è lì a qualche centinaio di metri. Prima d’ora c’era stato da turista, adesso ha voluto rendersi conto di quale distanza separi il luogo della discarica da uno dei siti archeologici più pregiati al mondo, dove l’imperatore Adriano voleva fossero racchiuse le sue predilezioni culturali. Non ha cambiato idea: se si fa la discarica lui si dimette. Oggi c’è un consiglio dei ministri, ma non è chiaro se si parlerà di Corcolle. Per il prefetto-commissario Giuseppe Pecoraro la partita è chiusa: «Le mie scelte le ho prese: ora tocca agli altri rispettarle o assumersi la responsabilità di fare andare Roma in emergenza». Pecoraro smentisce che ci saranno altre consultazioni, come aveva sostenuto il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Si va, aggiunge, «verso la conclusione della conferenza dei servizi. Poi se ci sono degli ostacoli giuridici od opportunità me lo faranno sapere».

I no alla discarica fioccano da ogni parte e sovrastano il sì al quale si abbarbica Renata Polverini. La questione rimbalza sul governo. Ornaghi ha pronte le dimissioni. Clini è contrario. Severino e Cancellieri sono perplesse. E Monti? Se la sua opinione coincide con quella del sottosegretario Catricalà, per Corcolle non c’è speranza. Dal punto di vista tecnico, la discarica potrebbe essere pronta entro un anno. Ma sarà sufficiente solo se i rifiuti sversati saranno pretrattati. E questa è ancora un’incognita, legata anche all’intensificarsi della raccolta differenziata in città (ma Roma è molto indietro). Si fa vivo Manlio Cerroni, proprietario di Malagrotta (che dovrebbe chiudere) e di altre aree prontamente acquistate e di nuovo offerte come sede di discariche (Pian dell’Olmo). Rendono ancora più complicato il cammino della discarica esposti e denunce penali. Le associazioni ambientaliste sono mobilitate. I comitati incalzano: «Corcolle sarà la nostra Tav».

Le procedure commissariali sembrano blindate. Si è proceduto in deroga, Pecoraro ha nominato suoi consulenti. Non sono stati considerati gli organi tecnici del ministero per l’Ambiente e di quello dei Beni culturali, che per prassi, in caso di una discarica, compiono valutazioni sulla tipologia e le quantità di rifiuti, sulla natura geologica del sito, sulle conseguenze sanitarie, sull’incremento di traffico, oltre alle analisi sull’impatto paesaggistico e archeologico.

E cosa farà l’Unesco, nel cui patrimonio è compresa Villa Adriana? Se ne parlerà al summit di San Pietroburgo a fine giugno. Ma, confermano fonti dell’organizzazione dell’Onu, sono arrivate segnalazioni, però non è stata avviata nessuna procedura che può portare all’esclusione del sito archeologico dalla lista di quelli protetti.

SOMMA LOMBARDO (Varese) — «C'è stato un terremoto, ma ha colpito una sola famiglia». La funzionaria comunale fa una sintesi efficace. I «terremotati» sono davanti a lei in municipio. Giuliano Rovelli, imprenditore di 41 anni, la moglie Francesca Perra, assistente capo della Polizia di Malpensa, i loro sei figli piccoli, una coppia di cingalesi che vive con loro e che amministrava la casa, la figlioletta di questi ultimi.

La mattina del 2 maggio il costone di un meraviglioso belvedere sul fiume Ticino è franato durante le forti piogge. Pochi giorni dopo, il bel giardino lungo 50 metri è scomparso, inghiottito da un'altra frana, e la villetta ora si trova in bilico: «Tra un po' vedrete il filmato su Youtube di una casa finire dentro il fiume — sbotta Giuliano — siamo un paese che cade a pezzi». Gli undici sfollati di Somma Lombardo stanno vivendo una storia all'italiana. Non sarebbero le piogge le vere responsabili della frana, ma, secondo le prime analisi, il principale sospettato è un tubo sotterraneo che trasporta le acque reflue del comune (provenienti dal depuratore comunale e da uno scolmatore di piena della rete fognaria). Perdeva, e ha creato uno smottamento del terreno.

«Ho affidato a un geologo di parte una perizia — spiega il proprietario della casa — non è una fatalità. Secondo noi è stato l'uomo a provocare questa frana». Le accuse dell'imprenditore sono vagliate dalla procura di Busto Arsizio, che ha aperto un'inchiesta. L'Arpa, l'agenzia regionale dell'ambiente, aveva segnalato alla magistratura già a febbraio che quel tubo che perdeva acqua e che stava erodendo il terreno.

Il sindaco di Somma Lombardo tira in ballo la burocrazia: «Avevamo un progetto per aggiustare il depuratore, ma la Regione non l'hanno finanziato — osserva Guido Colombo — e allora abbiamo messo a bilancio 450 mila euro. Ultimamente il Parco del Ticino ci ha chiesto di ritardare ancora i lavori perché era un periodo di nidificazione». Morale: ora il comune dovrà spendere almeno 1 milione e mezzo di euro, perché nel frattempo è franata mezza montagna. Giuliano Rovelli e Francesca entrano nell'ufficio del sindaco, guardano i mappali, chiedono rassicurazioni. Sono persone abituate a gestire gli imprevisti. Rovelli ha fondato nel 1994 una grossa azienda di parcheggi aeroportuali, e oggi ha 250 dipendenti. «Faremo una causa civile certo — osserva — ma non ho alcuna fiducia, sarà una cosa lunga e intanto abbiamo perso la casa. La comprammo nel 1998, era di un professore milanese che la usava per le vacanze. Ha una vista meravigliosa sul fiume e sulle Alpi. Ma non siamo degli irresponsabili, guardate che nessun documento ha mai segnalato alcun pericolo, era perfettamente abitabile».

Gli sfollati non torneranno mai più in quella casa: «Abbiamo preso i vestiti e siamo scappati — dicono Giuliano e Francesca —, non possiamo neanche più entrare». Intanto lo smottamento rischia di continuare. L'area va messa in sicurezza entro stasera, prima che ricominci a piovere. Gli elicotteri dovranno installare 28 gabbioni di ferro sul costone.

postilla

Chissà come andrà a finire la faccenda, speriamo ovviamente nel migliore dei modi per tutti, senza che sia necessario l’intervento di un Edgar Allan Poe varesotto a raccontarci la metafora di una nuova Casa Usher su cui si accanisce una maledizione naturale eterna. La vicenda però pur nella sua essenzialità restituisce un significativo spaccato di sistema decisionale, responsabilità culture, trasformazioni del territorio: lo stesso, si badi molto bene, che poi valuta e decide cosucce come gli hub intercontinentali fantasma, le terze piste quasi nel letto del fiume su cui non atterrano gli aerei ma le aspettative di sviluppo socioeconomico, un po’ di poli multifunzionali qui e là, sparsi su nuove bretelle e svincoli, sulle cui funzioni specifiche si vedrà in seguito, eccetera eccetera. Ecco, sono proprio gli stessi personaggi. Altro che Edgar Allan Poe, verrebbe da pensare così istintivamente. O no? (f.b.)

Edwin Arlington Robinson, The House on the Hill

They are all gone away,

The house is shut and still,

There is nothing more to say.

Through broken walls and gray

The winds blow bleak and shrill:

They are all gone away.

Nor is there one today

To speak them good or ill:

There is nothing more to say.

Why is it then we stray

Around the sunken sill?

They are all gone away.

And our poor fancy-play

For them is wasted skill:

There is nothing more to say.

There is ruin and decay

In the House on the Hill

They are all gone away,

There is nothing more to say.

Tanto tuonò che piovve. Sulla Cascinazza di Monza, dopo dodici anni di denunce giornalistiche e polemiche politiche, piovono anche gli avvisi di garanzia: per Paolo Berlusconi e Paolo Romani (ex ministro dello Sviluppo economico), indagati con altre persone dalla Procura di Monza per istigazione alla corruzione. Secondo l’ipotesi d’accusa, i due Paoli avrebbero cercato di corrompere alcuni consiglieri comunali per farli votare la variante di piano che dava il via libera alla costruzione di “Milano 4”. Una nuova città, 4 milioni di metri cubi di cemento da edificare sui 500 mila metri quadrati della Cascinazza: area agricola vincolata a verde ai confini di Monza, venduta dai Ramazzotti (quelli dell’amaro) a Silvio Berlusconi negli anni Settanta e poi passata al fratello.

L’indagine nasce da ben sei esposti presentati in procura da consiglieri di maggioranza e opposizione che denunciano presunte irregolarità, forzature, pressioni, minacce. Il più corposo è firmato da due esponenti del Pd, Anna Mancuso e Michele Faglia, in passato sindaco di Monza. Era il giugno 2011 e la maggioranza di centrodestra aveva avviato in Consiglio comunale la discussione sul nuovo Piano di governo del territorio. Contraria la minoranza, ma incerti anche alcuni esponenti di maggioranza, spaventati da un’operazione che avrebbe aggiunto ben 40 mila abitanti ai 120 mila di Monza. Entra allora in azione Paolo Romani, mandato da Berlusconi a fare l’assessore nella capitale della Brianza: all’urbanistica fin quando diventa ministro, poi all’Expo. “Dell’Expo non si è mai occupato”, dice Faglia, “in compenso ha continuato a darsi da fare per la Cascinazza, come emissario della Famiglia”. Romani incontra a uno a uno i consiglieri comunali del suo fronte. È una corsa contro il tempo: per far passare la variante, una pattuglia di fedelissimi lavora fino al 21 marzo 2012, data dell’ultima seduta del consiglio prima delle elezioni. S’avvia, almeno secondo l’accusa, un tentativo di compravendita di voti. Alla fine, l’operazione fallisce: votano contro la variante anche sei consiglieri di maggioranza (due di Futuro e libertà, due di Forza Lombardia, uno dell’Udc e uno del gruppo misto, Ruggiero De Pasquale). Poi arrivano le elezioni, che ribaltano i risultati del 2007 e danno la vittoria al centrosinistra: domenica scorsa diventa sindaco, con più del 63 per cento dei voti, Roberto Scanagatti. Ma nei mesi precedenti, le intercettazioni avevano captato Paolo Romani promettere, secondo quanto scrive L’Espresso, “300 mila euro a testa” offerte agli indecisi. Registrata anche la voce di Silvio Berlusconi in persona, impegnato a concordare incontri ad Arcore. Il fratello minore, Paolo, nel 2008 aveva venduto l’area della Cascinazza a una società controllata dal gruppo Cabassi e da altri soci, tra cui il costruttore Gabriele Sabatini. Ma, dopo aver ricevuto un anticipo di 40 milioni, aveva vincolato l’entità del saldo al buon esito dell’operazione immobiliare: in caso d’approvazione della variante, avrebbe incassato un’altra cinquantina di milioni.

Ora, la vittoria del centrosinistra ha chiuso le speranze di riaprire la faccenda nel nuovo consiglio. Ma il reato d’istigazione alla corruzione si consuma già con la promessa di denaro, anche senza i pagamenti. I pm di Monza Manuela Massenz, Donata Costa e Walter Mapelli avranno semmai il problema dell’utilizzabilità di telefonate in cui sono stati intercettati, seppur indirettamente, due parlamentari (Paolo Romani e Silvio Berlusconi). “I cittadini di Monza hanno capito”, spiega il consigliere regionale Pd Pippo Civati, da una dozzina d’anni impegnato nella battaglia contro la cementificazione della Cascinazza. “All’inizio era considerata roba da specialisti. Ora è diventata invece un argomento forte della politica cittadina e ha condizionato l’ultimo esito elettorale. Silvio Berlusconi nasce palazzinaro con Milano 2 e muore palazzinaro con Milano 4”.

Postilla

La legalità, quando non è solo legalitarsimo, ha senso, eccome se ne ha: corrisponde addirittura al buon senso. Su questo sito (basta digitare Cascinazza nel motore di ricerca interno) gli argomenti di buon senso contro quel progetto si sono accumulati fitti fitti per anni. C’erano gli aspetti sociali, quelli ambientali, quelli di metodo; c’era la dimensione urbana, quella metropolitana, quella economica, e tante altre cose. Ma niente da fare, la macchina tritatutto e compra tutto dilagava apparentemente inarrestabile, addirittura con un ministro-assessore part time messo lì con lo scopo dichiarato di curare gli interessi di famiglia, pilotando quella procedura fastidiosa che si chiama variante di piano regolatore, e che in questo caso è diventata dettatura di stupidaggini in atto pubblico. Se ne sono accorti addirittura alla regione “amica”, quella Lombardia dove si vorrebbe poter fare di tutto, ma dove per fortuna ci sono ancora tracce di buon senso anche nelle leggi piegate, interpretate, forzate. E quel piano assurdo, per riempire di cemento berlusconiano doc l’ultimo spazio aperto disponibile per chilometri, faticava ad attuarsi. Adesso si scopre anche l’ultima, questa delle presunte posizioni politiche comprate: ma è solo un dettaglio, a confermare il resto, il timbro finale della vergogna, una generazione di patetici burattini con il vestitino stirato, le tasche piene, e la testa vuota (f.b.)

Assessore Lucia De Cesaris, di solito uno si commuove per la nascita di un figlio, per una poesia, per un bel tramonto. Ieri, lei si è messa a piangere quando è stato approvato il Piano di Governo del Territorio. Commossa per il Pgt?«Mi sono commossa perché era una sfida. In molti dicevano che era un'operazione impossibile, che bloccavamo la città. Invece abbiamo lavorato tanto e bene con persone che hanno messo il cuore e la testa per la città. Ecco perché mi sono commossa».

Qual è, secondo lei, il valore del Pgt approvato martedì sera, rispetto al precedente?«È un piano equilibrato. Fa i conti con la situazione attuale della città e del mercato. È un piano che rimette al centro la città pubblica».

Quello precedente?«Non prevedeva alcuna scelta. L'unico obbiettivo era lasciare fare tutto agli operatori. Il ragionamento sottostante era il seguente: l'amministrazione non interviene perché non ha risorse, quindi apriamo le porte al privato e stiamo a guardare cosa succede».

Il vostro?«Nel nostro piano qualsiasi intervento deve tenere conto delle esigenze del contesto in cui viene realizzato. Sia in termini di servizi e verde sia in termini di realtà abitativa. L'offerta di servizi pubblici è decisa con la partecipazione del pubblico. Nel piano precedente era scomparsa la differenza tra servizio pubblico e privato e soprattutto il pubblico rinunciava a qualsiasi regia».

Il Pgt prevede 4 milioni di metri quadrati in meno di cemento. L'Istat ha lanciato l'allarme sul consumo del suolo. A Milano e provincia è stato cementificato il 37,1 per cento del territorio. Un dato impressionante.«Bisogna riflettere. Adesso bisogna puntare molto sulla ristrutturazione e sul recupero di quello che c'è prima di pensare a nuovi grandi interventi».

Basta grattacieli?«Lo valuteremo volta per volta. Però mi sento di dire una cosa: occupiamoci prima degli spazi privati male utilizzati. Usiamo i grattacieli che abbiamo».

L'opposizione, dal Pdl ai grillini, dicono che meno cemento più verde e solo uno slogan e che in realtà il verde, a partire dal Parco Sud, è in pericolo.«Non è vero che riduciamo il verde. Abbiamo introdotto il piano della media Valle del Lambro. Abbiamo avviato il riconoscimento delle aree agricole. Abbiamo disegnato la rete ecologica comunale, l'asse del verde cittadino che si connette con quello regionale...»

E rendere edificabili i 310 mila metri quadrati di via Vaiano Valle confinanti con il Parco Sud?«Facciamo chiarezza una volta per tutte. Il Parco Sud deve conservare la sua funzione agricola. Dal Parco Sud non possono nascere volumetrie. Ma abbiamo dovuto fare i conti con una scelta scellerata della precedente amministrazione in base alla quale alcune proprietà godevano di alcune volumetrie inventate ad hoc a cui si sommavano altre volumetrie di aree limitrofe. E tute venivano trasferite in un'area pubblica: l'Ortomercato. Di fatto, senza gara si regalava un'area pubblica con il doppio delle volumetrie in una zona con un valore di mercato molto più alto».

Un'altra accusa è quella di scarsa trasparenza e poca partecipazione.«Abbiamo dato ai consiglieri tutto il materiale in nostro possesso. Questa battaglia del Pdl sul fatto che abbiamo recepito le osservazioni dei cittadini svela il vero pensiero dell'opposizione: le osservazioni sono inutili».

La scarsa partecipazione?«Abbiamo incontrato i comuni limitrofi in assemblee pubbliche con il sindaco, abbiamo incontrato le zone, abbiamo organizzato assemblee cittadine in ogni zona della città, abbiamo incontrato gli operatori, i sindacati, le associazioni ambientaliste, le categorie produttive. Chi dice che non c'è stata trasparenza, in verità non ha voluto partecipare. Ai grillini rispondo che la Commissione Urbanistica è un momento istituzionale. La loro presenza è stata inesistente, non c'è stato nessun intervento. Il Pdl ha fatto ostruzionismo. Solo la Lega ha chiesto di approfondire il merito».

Altra accusa. I vostri rapporti privilegiati con le Ferrovie dello Stato sugli scali.«I procedimenti amministrativi sono trasparenti. Gli accordi di programma sono usati in tutti i grandi progetti. Nulla che non sia alla luce del sole. Gli scali devono rappresentare un grande progetto strategico non solo per Milano. L'accordo di programma è lo strumento migliore per permettere a Fs di valorizzare le loro aree e di consentire un ritorno alla città in termini di infrastrutture. Voglio ricordare che l'accordo di programma era stato adottato dalla precedente amministrazione e mai chiuso».

Quando entrerà in vigore il Pgt?«Adesso il piano va pubblicato. Entro l'estate. Conto che per autunno il Pgt entri in vigore».

la Repubblica

Più abitanti e 21 nuovi quartieri apre il cantiere della città futura

di Teresa Monestiroli

Dopo sedici sedute in Consiglio comunale e quasi 55 ore di dibattito in aula, da oggi Milano ha un nuovo Piano di governo del territorio. Nuove regole nel Pgt per disegnare la città del futuro che, promette Palazzo Marino, avrà più verde e meno cemento, più case a basso costo e meno flessibilità nelle destinazioni d’uso. Molto soddisfatto il sindaco Pisapia che dice: «Finalmente la città ha gli strumenti per quel cambiamento da tanti auspicato, anche nel rapporto con i cittadini dal momento che sono state accolte molte osservazioni».

La città del 2030, che la giunta Moratti immaginava ripopolata di quasi 500mila nuovi abitanti, si fermerà a un milione e 500mila persone: 155mila cittadini in più rispetto a oggi, compresi però quei 94mila che nei prossimi anni andranno ad abitare nei quartieri già in costruzione (da Citylife a porta Nuova). L’espansione si riduce, grazie a una drastica revisione degli indici di edificabilità e allo stralcio di intere aree di trasformazione urbana come il carcere di San Vittore e i binari di Cadorna, viale Forlanini, Cascina Monluè e una parte di Porto di Mare dove si costruirà solo in quella fetta di territorio che non rientra nel Parco Sud. La cintura verde che abbraccia Milano a sud è stata esclusa dalla regola della perequazione che permette di trasferire le volumetrie da una parte all’altra della città. I nuovi quartieri passeranno da 26 a 21 (con 27mila abitanti), il tunnel Expo-Linate viene archiviato per sempre, il distretto economico di via Stephenson (sulle aree di proprietà di Salvatore Ligresti) molto ridimensionato così come gli ex scali ferroviari il cui indice di edificabilità scenderà allo 0,70, compresa la parte da destinare all’housing sociale.

La lunga maratona in aula per rivedere il Piano urbanistico, approvato il 4 febbraio 2010 dalla precedente amministrazione con i soli voti dell’allora maggioranza di centrodestra, è iniziata nel novembre 2011 con la revoca dell’approvazione da parte della giunta Pisapia e l’avvio di una seconda valutazione di tutte le 5mila osservazioni presentate da cittadini e associazioni. Un’analisi durata settimane che ha portato le richieste di modifica accolte da 350 (giunta Moratti) a oltre 2mila. Il dibattito in consiglio sulle osservazione è partito il 20 febbraio scorso e si è concluso ieri sera alle 20 con il voto dopo 16 sedute, il doppio rispetto al 2010: 27 i consiglieri favorevoli, tutti di centrosinistra, contrario Mattia Calise del Movimento cinque stelle, mentre l’opposizione è uscita dall’aula.

Gli indici: Edifici per 2,5 milioni di metri quadri la revisione ha dimezzato il cemento

Sarà una città con meno cemento. Drastico il taglio sul costruito che, con il nuovo Piano, viene ridotto del 50 per cento fermandosi a poco più di 2,5 milioni di metri quadrati. Una diminuzione che si ottiene sia dallo stralcio di alcuni interventi, sia dalla riduzione dell’indice di edificabilità che da 0,50 metri quadrati per metro quadrato (Pgt della Moratti) è stato ridotto a 0,35, con l’introduzione anche di un tetto massimo di 1 raggiungibile solo costruendo anche case a basso costo.

I vincoli: Salvo il Parco Sud, terreni congelati niente palazzi a Monluè e Porto di Mare

Il Parco Sud è salvo: le aree agricole non produrranno più volumetrie da spostare in altre parti della città. In questo modo vengono cancellati dal Pgt 2.600.000 metri quadrati di cemento "virtuale" che, secondo il vecchio documento, sarebbero potuti atterrare in altre zone favorendo i privati che oggi possiedono aree verdi non edificabili. La nuova amministrazione ha anche cancellato dal Piano l’area di trasformazione urbana di Cascina Monluè e una parte di Porto di Mare.

Le aree: Addio alla Défense con 50 grattacieli no al progetto record a Stephenson

Drastico ridimensionamento della Défense milanese. Quello che nei piani della Moratti doveva diventare il nuovo distretto economico con 50 torri in via Stephenson, grazie a un indice di edificabilità record pari a 2,7 metri quadrati per metro quadrato, viene completamente rivisto. Da 1.200.000 mq di mattoni si scenderà a 300.000 (-75%), dal momento che l’indice è stato ridotto allo 0,70. Qui, come in via Toffetti, è stato inoltre introdotto il vincolo del terziario: sarà vietato costruire abitazioni.

L’housing sociale: Promesse 25mila case fuori mercato la quota low cost diventa obbligatoria

Il nuovo Piano punta all’housing sociale introducendo l’obbligo di costruire case a basso costo in tutte le aree con superficie territoriale superiore a 10mila metri quadrati. Se nel precedente Pgt chi realizzava edilizia convenzionata otteneva un bonus di volumetrie (ma poteva anche scegliere di realizzare opere pubbliche diverse), il nuovo documento rende obbligatorio l’housing sociale. Saranno costruiti 24.953 nuovi alloggi, di cui 14.862 in vendita agevolata, 6.405 a canone moderato e 3.686 a canone sociale.

La mobilità: Treni leggeri e un anello di binari così la Circle line sfiderà il traffico

Il tunnel che avrebbe dovuto collegare l’aeroporto di Linate al sito di Expo, attraversando sotto terra l’intera città, non si farà. Stralciato dal Pgt perché insostenibile dal punto di vista economico e ambientale, il progetto è quindi definitivamente tramontato. Resta invece nei piani di Palazzo Marino la Circle Line, il treno leggero che farà il giro della città e che rientra nell’accordo del Comune con le Ferrovie dello Stato riguardo alla trasformazione degli ex scali ferroviari.

L’ambiente: Scatta il bonus sul risparmio energetico nelle ricostruzioni un premio del 15%

Premio di volumetrie a chi riqualifica vecchi stabili secondo le nuove regole del risparmio energetico. Il Pgt modificato dalla giunta Pisapia triplica il bonus "ambientalista" passando dal 5 per cento in più fissato dalla giunta Moratti al 15. Un diritto che, secondo le nuove regole, non decade dopo cinque anni come previsto nel vecchio piano. Inoltre il Pgt prevede per i nuovi edifici il raggiungimento di un adeguato livello di eco-sostenibilità energetica, che verrà fissato dal regolamento edilizio.

Corriere della Sera

Approvato il nuovo piano urbanistico

di Armando Stella

Un'eredità «scomoda, non scelta» e per questo profondamente riformata sulla base delle correzioni invocate dai cittadini. Meno cemento e più verde rispetto agli indirizzi della ex giunta Moratti; vincoli più stringenti per i parchi, gli scali ferroviari e le aree dismesse; una quota più importante di edilizia residenziale pubblica. Il consiglio comunale ha approvato ieri sera con i voti del centrosinistra il nuovo Piano di governo del territorio, la versione riveduta e corretta del documento che disegna i margini d'intervento per i costruttori, fissa i paletti per i cantieri e traccia le linee di sviluppo della città.

L'assessore all'Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris, ha accolto il voto con commozione sui banchi della giunta e ricevuto l'abbraccio affettuoso di Giuliano Pisapia. Un mazzo di fiori, profumo di gloria. Ha ringraziato i dipendenti degli uffici, l'assessore, riservato l'onore delle armi alla Lega che «ha accettato il confronto nelle differenze», e fatto la voce grossa con il Pdl e i terzisti «che non hanno avuto rispetto per il consiglio e la città». Stoccata polemica: «Una parte politica ha scelto di non esserci, in aula, perché aveva obiettivi diversi per Milano». Esulta anche il sindaco: «Una decisione importante, perché finalmente la città e l'amministrazione hanno gli strumenti per quel cambiamento da tanti auspicato».

Il nuovo masterplan dimezza la «potenzialità edificatoria» sulla terra ancora libera (meno 51%). Cosa significa? Un'immagine aiuta a immaginare lo scenario: sono stati scongiurati 124 grattacieli Pirelli, un enorme blocco di quattro milioni di metri quadrati di cemento. «La giunta Pisapia — ha aggiunto l'assessore De Cesaris — si era presa un impegno con la città e lo ha rispettato. Ha valutato le osservazioni dei cittadini, analizzandole una per una. Il volto di Milano cambierà: ci sarà più verde, meno cemento e una mobilità a misura d'uomo». Il Comune consentirà la costruzione di 14.862 appartamenti a canone agevolato, altri 6.405 alloggi a prezzo moderato e 3.686 case ad affitto sociale.

Un'estenuante maratona politica. Sedici sedute del nuovo consiglio, oltre 55 ore di dibattito, decine di assemblee pubbliche: «Il documento ha recepito in tutto o in parte il 44 per cento delle osservazioni ricevute da cittadini, associazioni e imprese» (a fronte di un 7 per cento prodotto dalla ex giunta Moratti). Viene protetto interamente il Parco Sud e azzerato il rischio cemento negli altri ambiti di trasformazione periurbana. Nessun palazzo è previsto al Forlanini, a Cascina Monlué e a Porto di Mare. Sbaragliata anche l'ipotizzata «Defense» nella zona di via Stephenson (metri quadrati edificabili tagliati da 1,2 milioni a 300 mila). Alleggerito il peso dei cantieri in altre zone sensibili, dalla Bovisa a Rubattino, e dagli scali ferroviari dismessi ancora al centro di una trattativa con Rfi (da Farini a Lambrate, a San Cristoforo).

Ventisette voti a favore, quelli dalla maggioranza. Un contrario, il grillino Mattia Calise: «Sono mancate partecipazione e trasparenza». Pdl e Lega sono usciti dall'aula: «Siamo stati contrari all'impostazione del dibattito sul Pgt — ha spiegato il consigliere del Carroccio, Luca Lepore —, ma abbiamo lavorato con piacere ai tavoli di confronto». Duro il commento del centrista Manfredi Palmeri: «Il provvedimento è inefficace, sarà decisivo il monitoraggio del consiglio». Conclude l'assessore De Cesaris: «Nel Piano è stato ristabilito il giusto equilibrio tra interventi e cura della città pubblica. Ora la grande sfida è il recupero del patrimonio esistente e la riqualificazione delle periferie». Priorità ai mezzi di trasporto sostenibili: è stato cancellato il tunnel stradale sotterraneo Expo Forlanini, avanti tutta sui nuovi metrò e lacircle lineferroviaria.

Masseroli: dieci domande a Pisapia

Il Pdl esce dall'aula e non vota il Pgt. Ma prima di salire sull'Aventino, Carlo Masseroli, capogruppo del Pdl e padre dell'ex Pgt, pone dieci domande al sindaco Giuliano Pisapia. Eccone alcune.La prima è quella che va ripetendo da settimane: «Tutti abbiamo concordato un fermo no al consumo di nuovo suolo. Non trova contraddittorio rendere edificabili 310.000 mq (pari alla grandezza del Parco Sempione) confinanti con il Parco Sud (via Vaiano Valle) e oggi coltivati, come previsto dall'articolo 35 del piano delle regole? Nell'osservazione utilizzata per apportare questa modifica al piano non c'è traccia di questa richiesta». E sempre sul verde: «Come spiega la scelta di costruire case sugli oltre 40.000 mq di Cascina Carliona (zona Barona) area oggi coltivata a riso? E pensare che l'osservazione utilizzata per apportare questa modifica chiedeva di mantenere la funzione agricola e annettere l'area al confinante Parco Sud».

Ancora verde e cemento. Ma questa volta riguarda lo scalo Farini: «Non crede che un polmone verde allo scalo Farini sia desiderabile? Perché rifiuta di dotare Milano di un nuovo grande parco cittadino in centro (pari al doppio della dimensione del Parco Sempione)?». Sempre sugli scali ferroviari. «Stiamo scrivendo le regole generali della città e contemporaneamente questa giunta prende accordi su misura con Ferrovie dello Stato. Perché? Perché le regole non funzionano? Perché ad alcuni si vuole dare di più degli altri? Perché non imponiamo alle Ferrovie di mettere subito in funzione la circle-line? Ritiene che anticipare le opere pubbliche sia troppo pretenzioso?».

C'è poi il versante dell'housing sociale: «Perché — chiede Masseroli al sindaco — rifiuta di investire in case a basso costo per giovani under 30, famiglie e madri o padri separati con almeno un figlio a carico e forze dell'ordine? Abbiamo chiesto nuovi 10.000 alloggi a 1.800 € al metro. Ci è stato risposto che il cemento è cattivo. Mi chiedo quale sia il cemento buono? Se è tutto cattivo, che nessuno costruisca. Lasciamo il degrado dove c'è. Non facciamo nulla». Infine una domanda sui luoghi di culto: «Perché è stata eliminata la possibilità di vendere i propri diritti edificatori per riqualificare il nostro inestimabile patrimonio artistico e culturale?». La guerra continua.



il Giornale

Via libera al Pgt il Pdl lascia l’aula prima del voto

I consiglieri del Pdl (compreso il papà del vecchio Pgt, l'ex assessore Carlo Masseroli) hanno lasciato l'aula dopo le dichiarazioni di voto contrario al Piano del territorio firmato Pisapia. Ma le regole urbanistiche sono state approvate ieri con 27 voti poco dopo le 20 a Palazzo Marino. La giunta Pisapa ha accolto o parzialmente il 45% delle osservazioni presentate da cittadini, associazioni e imprese. Il nuovo Pgt cancella il tunnel Linate-Forlanini, riduce le volumetrie destinate a parcheggi pubblici in centro, abbassa del 75% l'indice di edificabilità nell'area di via Stephenson che nel vecchio piano era destinata a diventare la «Defense» milanese, il quartier generale della finanza. Il capogruppo Pdl Masseroli rilancia in aula al sindaco «le 10 domande che sono rimaste senza risposta».

il Giorno

Via libera di Palazzo Marino Approvato il nuovo Pgt di Milano

Milano, 22 maggio 2012 - Approvato il nuovo Pgt del Comune. Il nuovo strumento urbanistico e’ stato varato dal consiglio comunale con 27 voti a favore della maggioranza e salutato da un applauso dei consiglieri del centrosinistra. Il Piano ha ricevuto il voto contrario di Mattia Calise del Movimento 5 stelle. Fuori dall’aula il Pdl, la Lega, Milano al centro, mentre Manfredi Palmeri pur presente non ha partecipato al voto.

“Una decisione importante. Finalmente la città ha gli strumenti per quel cambiamento da tanti auspicato”. Queste le parole del sindaco Giuliano Pisapia al termine del consiglio comunale ha commentato l’approvazione del Pgt. Un cambiamento, ha detto il sindaco, che è anche “di rapporto con i cittadini, dal momento che sono state esaminate e valutate in molti casi positivamente le oltre 4mila osservazioni che i cittadini avevano fatto al Pgt della precedente amministrazione”. Ora “avremo più verde, più housing sociale e una città più vivibile. La soddisfazione è estremamente rilevante”.

L’assessore all’Urbanistica Lucia De Cesaris nel suo intervento dopo il voto, si è rivolta a chi “non ha voluto mai entrare nel merito nonostante gli uffici abbiano messo a disposizione tutto il materiale”, con un’appendice polemica con Manfredi Palmeri di Fli sulla correttezza del percorso del Piano. “Attueremo e realizzeremo quanto previsto in questo piano giorno per giorno”, ha detto De Cesaris in conclusione. Il documento, con le modifiche apportate a quello approvato dall’aula di palazzo Marino il 4 febbraio dello scorso anno, viene varato dopo un iter istruttorio di 16 commissioni e 15 sedute del consiglio comunale.

ROMA — Ultimi in Europa per sviluppo economico, produttività, investimenti in infrastrutture e crescita demografica, un primato almeno non ce lo toglie nessuno. Nel soil sealing non abbiamo rivali. Traduzione: impermeabilizzazione delle superfici naturali. Succede quando si consuma pericolosamente territorio con palazzine e capannoni, come stiamo facendo in Italia da troppi anni. Producendo in questo modo, sono parole contenute nell'ultimo rapporto annuale dell'Istat, «impatto ambientale negativo in termini di irreversibilità della compromissione delle caratteristiche originarie dei suoli, dissesto idrogeologico e modifiche del microclima».

Che dimensioni abbia assunto questo fenomeno lo dice con chiarezza un numero: 7,3%. È la superficie totale dell'Italia non più naturale. Parliamo di un'estensione paragonabile a quella dell'intera Emilia-Romagna o di tutta la Toscana. E il dato fa ancora più impressione se paragonato alla media del continente europeo, che certo non si può definire disabitato e rurale, pari al 4,3%. Nella nuova provincia di Monza è cementificato oltre il 50% del suolo. In quella di Napoli, il 43,2%. In quella di Milano, il 37,1%.

La sconsideratezza con la quale abbiamo aggredito il nostro territorio sta arrivando ad alterare in certe aree, scrive l'Istat, «un equilibrio storico fra paesaggio e insediamento urbano», mettendo così a repentaglio la nostra principale risorsa. Con il rischio di compromettere «le possibilità di sviluppo connesse alla fruizione turistica». Per non dire del modo in cui si costruisce in un territorio fragile e sempre più dissestato nel quale, come dimostra il terremoto dell'Emilia, il rischio sismico è quasi ovunque incombente.

Legambiente per prima aveva sollecitato l'urgenza di una contabilità nazionale del consumo di suolo, spiattellando dati raccapriccianti. Condivisi non già da arrabbiati ultrà naturalisti, ma da intellettuali incapaci di rassegnarsi davanti allo scempio. Come il presidente del consiglio scientifico del Louvre Salvatore Settis che nel suo libroPaesaggio Costituzione cementoha profetizzato: «Vedremo boschi, prati e campagne arretrare ogni giorno davanti all'invasione di mesti condomini, vedremo coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e palazzi senz'anima, vedremo gru levarsi minacciose per ogni dove.

Vedremo quello che fu il Bel Paese sommerso da inesorabili colate di cemento». La notizia è che non sono più soltanto le associazioni ambientaliste o qualche autorevole voce fuori dal coro a invocare attenzione sui pericoli che stiamo correndo, ma che finalmente si è accesa una spia anche nelle istituzioni. Difficile ignorare un allarme come quello che lancia adesso l'istituto presieduto da Enrico Giovannini: fra il 2001 e il 2011 il consumo del suolo è aumentato dell'8,8%, a fronte di un incremento della popolazione residente del 4,7%, quasi tutti immigrati. Come se in dieci anni fosse stato completamente saturato da costruzioni un territorio pari alla provincia di Milano: al ritmo medio giornaliero di 45 ettari. Medio, perché negli ultimi anni il ritmo si sarebbe intensificato, toccando punte quotidiane di 161 ettari.

Al Nord le ruspe e le gru si sono date da fare non poco, al punto che ormai il 12,9% della superficie del Veneto e il 12,8% di quella della Lombardia non sono più naturali (rispettivamente, secondo l'Istat, 2.375,9 e 3.050,7 chilometri quadrati). Ma al Sud hanno lavorato ancora più sodo: l'aumento è stato del 10,2%, contro l'8,7% del Nord-Ovest e il 7,8% del Nord- Est. Di questo passo il divario fra l'urbanizzazione del Nord e quella del Sud, ancora rilevante (siamo al 9,2% nel Nord-Ovest contro il 4,7 del Mezzogiorno), verrà presto colmato. Soprattutto in certe zone della Campania, come la provincia di Caserta, dove l'estensione territoriale coperta dal cemento si è accresciuta del 18,4%.

Qui il reddito procapite è inferiore alla media della Campania (11.833 euro contro 12.247) ed è metà rispetto a Bologna. Nel 2008 il prodotto interno lordo dei casertani, sempre procapite, non era che il 39% di quello dei milanesi, così basso da collocare la Provincia al novantanovesimo posto su 103. Il tasso di occupazione fra le persone in età lavorativa (dai 15 ai 64 anni) era del 38,7%, contro una media nazionale del 58,7%. I depositi in banca, nel marzo 2010, non raggiungevano i 5.900 euro procapite, uno dei valori più modesti in assoluto: meno di un sesto nei confronti di Trieste. Eppure, in questo apparente sfacelo economico, le costruzioni continuano a spuntare come i funghi. Nel solo 2007 sono stati edificati ex novo la bellezza di 135 centri commerciali: a Milano ne erano sorti 140, in tutta la Liguria 121. Per non dire delle 4.235 nuove abitazioni, il 25% in più rispetto alla provincia di Palermo dove pure non si risparmia il cemento. E non è solo colpa dell'abusivismo.

Certo, nel Paese ci sono differenze significative anche nelle strategie di cementificazione. L'Istat sottolinea infatti che nel Centro-Nord si punta sull'espansione delle località esistenti, fino a sommergere tutti gli spazi che separano l'una dall'altra: in Lombardia lo spazio urbanizzato si è esteso in dieci anni di ben 225 chilometri quadrati. Al Sud la tecnica è invece quella di creare nuovi centri abitati. Rispetto al 2001 ce ne sono 1.024 in più, il 42,3% di tutte le nuove località italiane. Dieci anni fa, per esempio, il numero dei centri abitati della Puglia era del 17% inferiore. In Sardegna, del 12,1%; in Sicilia, del 10,2%.

Per consolarci, potremmo ricordare che pure i boschi sono aumentati. Negli ultimi vent'anni del 20%. Secondo Legambiente la superficie forestale ha raggiunto 10,2 milioni di ettari, 1,7 milioni in più rispetto all'inizio degli anni Novanta. Rispetto al Dopoguerra, poi, è quasi raddoppiata. Ma è una consolazione assai parziale: l'incremento delle foreste non è avvenuto a scapito del cemento, che come abbiamo visto continua a sbranare il territorio senza però che si realizzino le infrastrutture necessarie a un Paese sviluppato, bensì dell'agricoltura. Gli alberi si stanno semplicemente riprendendo lo spazio che l'economia rurale aveva loro sottratto. Benissimo per il nostro polmone verde, meno bene per quei territori cui è venuta meno la manutenzione contadina. Settis ricorda che fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata si è ridotta di 3 milioni 663 mila ettari: se consideriamo quelli riconquistati dalle foreste, significa che in tre lustri la natura ha perso 2 milioni di ettari.

Federare il vecchio continente sembra oggi un’impresa quasi disperata, residuo del sogno di visionari che hanno buttato l’occhio troppo lontano nel futuro. La crisi dell’Unione Europea può apparire a molti come una conferma che lo stato nazionale, erede di quello territoriale moderno, sia dopo tutto la forma più stabile di ordine politico, anche nell’età della globalizzazione dei mercati. L’anti-europeismo è imbastito su questa dottrina della sovranità assoluta degli stati. Per i teorici politici che situano lo stato all’apice della evoluzione dei gruppi umani associati, le forme federative o sono nuovi stati a loro volta o sono alleanze per ragioni di autodifesa la cui durata dipende dalla volontà e convenienza degli stati stessi. Quindi, o gli stati sono autonomi o non sono "stati". Questo schema modernista ha per decenni modellato la storia politica del mondo antico, immaginata come il tempo della nascita della polis indipendente proprio come uno stato secondo il dogma otto-novecentesco. Questa versione è stata smentita da ricerche molto puntuali che hanno dimostrato come le polis anziché essere entità autonome erano parti di ampie associazioni, forme federate, spesso nell’orbita egemonica di una polis centrale.

Come scrive Eva Cantarella nella prefazione al libro di Mogens Herman Hansen, Polis. Introduzione alla città-stato dell’antica Grecia (Università Bocconi Editore) con postfazione di Guido Martinotti, gli stati che gravitavano nelle costellazioni delle polis mediterranee erano né più né meno come gli stati europei oggi: individualmente nessuno di loro indipendente eppure indiscutibilmente "stati" che insieme cooperavano e si davano istituzioni comuni, come un esercito, una moneta, una divinità che li proteggesse tutti insieme, mentre individualmente avevano i loro sistemi di sicurezza e di governo delle loro popolazioni. Sovranità interna organizzata secondo le esigenze di politica domestica e sovranità esterna organizzata come sistema federato. Questa fu secondo Hansen, tra i più autorevoli storici e teorici politici dell’antichità, il modo organico di costituzione delle polis del Mediterraneo, un mondo di circa 4.500 città interrelate in qualche modo e con centri di riferimento che come costellazioni tenevano insieme gruppi di città. Il volume, uscito in inglese nel 2006 e appena tradotto dalla casa editrice bocconiana, è di straordinaria importanza. Raccoglie una sintesi dei risultati dell’enorme e complessa ricerca quantitativa e qualitativa sulle città e l’urbanizzazione messa in cantiere dalla Danimarca, che nel 1993 ha finanziato il Polis Centre affidandone a Hansen la direzione.

Il modello della città non appartiene solo al mondo mediterraneo, e greco in particolare, ma a tutti i continenti, ci racconta Hansen. Tuttavia la Grecia ci ha lasciato certamente il modello più straordinario e più documentato. Un modello federativo. E partendo da questa ipotesi Hansen ne formula altre, altrettanto suggestive e importanti: per esempio che la nascita delle istituzioni politiche non pare sia avvenuta al centro ma nelle colonie. La colonizzazione (per esempio quella greca nell’Italia meridionale) era un fenomeno diffuso nell’antichità. Consisteva nell’abbandono della madre patria di membri maschi della comunità che andavano a stanziarsi in un nuovo territorio, dove formavano una nuova città indipendente all’interno ma legata da stretti vincoli alla madre patria. I problemi associati alla nascita delle colonie (per esempio il rapporto conflittuale con le popolazioni locali che avevano lingua e tradizioni diverse) rendevano particolarmente urgente il bisogno di istituzioni politiche – cosicché non è fantasiosa l’idea di Hansen che le leggi scritte e le istituzioni di molte polis siano sorte proprio nella periferia, luogo dove non c’erano come nella madre patria tradizioni sedimentate che fungevano da norma e una popolazione omogenea linguisticamente.

La politica e le istituzioni dunque come soluzione di conflitti e stabilizzazione di equilibri di potere fra classi e popolazioni non omogenee. Il lavoro di Hansen sfata poi un altro pregiudizio, ovvero che le polis fossero mondi chiusi e che l’autogoverno crebbe insieme ad un’economia cittadina autarchica (con l’eccezione miracolosa di Atene). Hansen ci mostra che le polis erano centri di scambi, di commerci, di norme, un sistema di inter-dipendenza. L’ideale di federazione europea, che tanto preoccupa gli stati forti dell’unione (forse più di quanto non preoccupi quelli deboli) ha una matrice antica, certo pre-romana. L’idea che il Polis Centre di Hansen sostiene con l’apporto di dati statistici e analisi comparate conferma un’intuizione ideale che ha accompagnato la cultura federalista e repubblicana da Kant a Sismondi al nostro Spinelli. Che cosa resterà di questo ideale è difficile dire oggi; ma è probabile che chi dopo di noi studierà l’Europa potrà constatare che nel ventesimo e parte del ventunesimo secolo i suoi stati si coordinarono e organizzarono per meglio affrontare le sfide del loro tempo e darsi istituzioni comuni. Proprio come molti e molti secoli prima fecero le polis che si affacciavano sul Mediterraneo.

Continua ad allungarsi, di ora in ora, l’elenco dei danni al patrimonio culturale nell’area terremotata: inatteso, per ampiezza, per chi non ha conoscenza di questi luoghi. E’ un tessuto di edifici e infrastrutture storiche diffuso capillarmente e per questo ne va respinta l’etichetta di “patrimonio minore”: proprio perché costitutivo del volto di intere cittadine e paesi, questo patrimonio ne rappresenta la stessa possibilità di esistenza. Non esiste Finale senza la sua torre dei Modenesi, Palazzo Veneziani, il Duomo, e neppure San Felice senza la Rocca, la parrocchiale eponima, la Canonica Vecchia, Villa Ferri (e la lista è solo esemplificativa, purtroppo).

Non ci sono forse emergenze da lista Unesco, ma un vastissimo repertorio di strutture che, in particolare per quanto riguarda l’architettura militare o quella signorile, testimoniano, nel loro insieme, l’eccellenza monumentale complessiva di un territorio che, fino ad adesso, aveva saputo conservarle con saggezza e competenza.

Fino ad adesso, appunto, perché l’intensità del sisma spiega solo parzialmente la gravità dei danni. Già Jean Jacques Rousseau, dopo il disastroso terremoto di Lisbona del 1755, additava la stoltezza degli uomini, rei di aver costruito troppo, e non la malevolenza della natura come maggiore colpevole della sciagura; così anche ora incuria e insipienza umana hanno aggravato quelli che potevano essere danni ben più sopportabili.

Il fattore moltiplicatore che ha ingigantito l’effetto distruttivo del terremoto sul patrimonio culturale è la mancanza di un programma di manutenzione degno di questo nome. Da anni, per mancanza di risorse e di personale, non vengono più effettuati controlli sistematici, per non parlare dei restauri riservati ormai solo alle “eccellenze”. Le verifiche anche statiche sono episodiche e legate ad eventi particolari. In pratica questo significa l’abbandono ad un destino di inesorabile degrado, accelerato, in questo caso, dall’evento sismico. E bastano davvero pochi anni di mancata manutenzione per aggravare il rischio di vulnerabilità in maniera determinante.

Come è successo per Pompei: non appena si cessa l’opera di ricognizione e manutenzione, i danni possono essere devastanti. Mancano i mezzi ed è sempre più evidente che il Ministero, il Mibac, annichilito dai tagli lineari tremontiani mai più recuperati, non è più in grado di garantire una decorosa operazione di controllo e manutenzione generalizzata e continuativa del patrimonio che è chiamato a tutelare. A questa condizione di impotenza oggettiva sarebbero chiamati a reagire, in prima istanza, coloro che la subiscono tutti i giorni in prima battuta, a partire dal Ministro e dalla dirigenza del Mibac che, al contrario, sembrano di fatto rassegnati ad una situazione di sfaldamento progressivo del sistema di tutela del patrimonio.

E la cecità nei confronti dei rischi territoriali è ormai generalizzata se le amministrazioni locali hanno potuto dar credito ad un incredibile progetto di stoccaggio di gas naturale in unità geologica profonda nel sottosuolo della Bassa Modenese.

Il progetto, contrastato a lungo dalla sezione di Italia Nostra e da Comitati locali e non ancora abbandonato, prevedeva di immagazzinare tre miliardi di metri cubi di gas naturale nel sottosuolo a circa tre chilometri di profondità esattamente nella zona oggi interessata dal terremoto con palese sottovalutazione dei rischi geologici e sismici che oggi si sono puntualmente manifestati in tutta la loro evidenza.

Contemporaneamente i media ci rimandano il mantra ossessivo di un’idea del nostro patrimonio culturale come strumento per generare ricchezza, petrolio a basso costo in grado di rilanciare la nostra economia perché capace di attirare masse di turisti pronti a spendere.

E che fare allora nel caso dei monumenti colpiti da quest’ultimo sisma, turisticamente poco eclatanti e spendibili, “importanti” non per il turista di passaggio, ma per il cittadino che quei luoghi quotidianamente vive?

Eppure anche in questo caso la risposta sarebbe abbastanza semplice: un programma nazionale di riqualificazione urbana, conservazione e restauro dei centri storici, consolidamento e manutenzione del territorio avrebbe sicuramente costi elevati, ma del tutto allineati alle decine di miliardi che l’attuale governo e il ministro Passera, in specie, è intenzionato ad investire nelle così dette “Grandi Opere”. Ma in più garantirebbe un tasso di occupazione addirittura triplo, secondo alcune stime, rispetto a queste ultime. Insomma, più lavoro e la prospettiva di un territorio migliore e di un patrimonio tutelato. Ce l’aveva già spiegato Cederna oltre trent’anni fa: è tempo di cominciare ad ascoltarlo.

L'altra volta, quando venne giù mezza città e dappertutto era pieno di morti e perfino il duca Alfonso II d'Este e la famiglia dovettero accamparsi «come zingari» nel cortile della reggia, i ferraresi accusarono quel menagramo del gabelliere e il pittore Helden disegnò sulle rovine un drago fiammeggiante e il papa Pio V ci vide la punizione di Dio per la protezione accordata agli ebrei.

Qualche secolo dopo, però, è inaccettabile che davanti alle vittime e alle macerie del terremoto ferrarese, non potendo più incolpare draghi ed ebrei, si parli ancora di tragica e imprevedibile fatalità. Certo, i nostri avi li fecero bellissimi ma fragili, quei campanili e quelle rocche che ieri si sono sgretolati aggiungendo dolore ai lutti per le vite umane. Non avevano gli strumenti, le tecnologie, i materiali di oggi per reggere l'urto di un sisma. Ma proprio a Ferrara, dopo il devastante terremoto del 1571, ricordacentroeedis.it, l'architetto Pirro Ligorio, successore di Michelangelo alla Fabbrica di San Pietro, progettò la prima casa antisismica. E se con strazio possiamo accettare il collasso di certe residenze antiche, non possiamo rassegnarci al crollo di palazzine e capannoni ed edifici vari tirati su, nel Ferrarese come altrove, in tempi recenti.

Perché noi sappiamo esattamente quali sono le aree a rischio, già colpite in passato e fatalmente destinate a esserlo ancora. I sismologi storici del gruppo di Emanuela Guidoboni hanno contato negli ultimi cinque secoli, in Italia, 88 disastri sismici dagli effetti superiori al 9° grado della scala Mercalli, cioè più gravi di quello abruzzese. Fate i conti: uno ogni cinque anni e mezzo. Catastrofi che hanno causato complessivamente, solo dall'Unità a oggi, oltre 200 mila morti e danni pesantissimi.

Siamo un Paese ad alto rischio. Forse più di tutti per la densità abitativa e il patrimonio storico, monumentale e artistico di cui siamo (forse immeritatamente…) custodi. Altri fisserebbero norme edilizie rigidissime e farebbero regolari corsi d'addestramento per i cittadini e lezioni in classe per i bambini fin dalla materna. Noi no. Da noi gli ascensori salgono dal piano 12° al 14°, gli aerei non hanno la fila numero 13 e chi ha abusivamente costruito in zone pericolose invoca il condono e meno lacci e lacciuoli antisismici. Come se già due secoli e mezzo fa Jean-Jacques Rousseau, dopo il terremoto di Lisbona, non avesse sottolineato amaro: «Non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani».

Sapete come si intitola un lavoro recentissimo della Guidoboni? «Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato». Vi si spiega che, al contrario di quanto pensavano nel Medioevo, anche sotto la pianura più piatta possono esserci faglie capaci di dare scossoni tremendi e che l'area colpita ieri nell'ultimo millennio aveva contato già 22 «botte» più o meno gravi «eppure quanti sono i cittadini di Ferrara e della sua provincia ad avere percezione della pericolosità sismica dell'area in cui abitano?». Per mesi e mesi gli amministratori locali erano stati martellati: occorre un progetto per affrontare il tema. Risposte? Sorrisi. Ringraziamenti. Rinvii. Perché parlarne se porta iella?

Torri abbattute, chiese sventrate, centri storici mutilati: il terremoto dell’Emilia rinnova la tragedia che periodicamente colpisce il Paese. Con la perdita di vite umane, le distruzioni del patrimonio culturale sono la traccia più violenta che un terremoto si lascia dietro. Feriscono la memoria collettiva.

Feriscono l’accumulo di storia che i nostri padri ci hanno lasciato, e che la Costituzione ci impone di preservare per i nostri nipoti.

Spesso ci vantiamo di quanto sia grande l’arte italiana. Dimentichiamo però quanto sia fragile, perché fragile è il nostro territorio, il più franoso d’Europa (mezzo milione di frane censite nel 2007), il più soggetto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste, anche per «interventi sull´ambiente invasivi e irreversibili» sui due terzi del territorio (dati Ispra). È, anche, il più soggetto a sismi, recentemente censiti da E. Guidoboni e G. Valensise: dall’Unità d’Italia a oggi, 34 terremoti distruttivi e un centinaio di meno gravi, senza contare migliaia di piccole scosse. 1.560 i Comuni colpiti, non meno di 250.000 i morti, 120.000 solo a Reggio e Messina nel 1908.

Avezzano 1915, Garfagnana 1920, Carnia 1928, Irpinia 1962, Belice 1968, Friuli 1976, Noto 1990, Umbria e Marche 1997, Abruzzo 2009: sono le date di altrettante battaglie, anzi di una guerra continua che l´Italia combatte contro i terremoti. Con che esito? È triste constatare che a ogni terremoto ci consumiamo di lacrime, per poi dimenticare e sbalordirci quando il sisma colpisce di nuovo, e sempre nelle stesse aree.

Resuscitare i morti è impossibile, ma sarebbe facile ridurne il numero, e insieme limitare i danni al patrimonio evitando i due principali fattori di rischio: il forsennato consumo di suolo che "sigillando" i suoli agricoli ne riduce l´elasticità e accresce gli effetti di frane e sismi; e l´addensarsi di edifici costruiti in spregio ai criteri antisismici "per risparmiare", cioè perché guadagni di più chi costruisce, condannando a morte i cittadini (per esempio all’Aquila).

L’amnesia collettiva che ci affligge spinge in direzione opposta, come mostrò il famigerato "piano casa" di Berlusconi (2009), che "semplificava" le norme antisismiche, invitando le Regioni a sostituire ogni garanzia preventiva con «controlli successivi alla costruzione, anche a campione» (art. 5). Il terremoto d’Abruzzo (due giorni dopo) bloccò l’approvazione della legge, mai varata anche se tutte le Regioni si affrettarono a fare le loro leggine.

Il piano per la protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico messo a punto nel 1983 da Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, è rimasto lettera morta. Al contrario, il terremoto d’Abruzzo ha segnato una brusca inversione di rotta nella cultura italiana della tutela. Prima di allora (per esempio in Friuli e in Umbria), la ricostruzione dei centri storici era data per scontata: l’abbandono dell’Aquila (fino ad oggi, tre anni dopo) in favore delle new towns amate da Berlusconi e dai costruttori ha calpestato le priorità costituzionali, condannando alla rovina il patrimonio culturale e il tessuto sociale della città.

Accadrà lo stesso in Emilia? Anche stavolta, come col "piano casa" di Berlusconi, la sequenza fra i provvedimenti del governo e gli eventi naturali è drammatica. È di questi giorni l’annuncio del ministro Passera, secondo cui 100 miliardi verranno spesi nei prossimi anni in "grandi opere" per rilanciare l’economia. Ottima notizia, se per "grandi opere" si intendessero le necessarie, urgentissime misure per mettere il territorio nazionale in sicurezza dalle sue mille fragilità e non, come sembra, per continuare in una spietata cementificazione, figlia della mitologia bugiarda di una crescita infinita imperniata sull’edilizia, a scapito dell’ambiente, del paesaggio, dei cittadini. Ma se tutte le "grandi opere" si facessero continuando a ignorare la fragilità del territorio, l’Italia ne uscirebbe più debole, e non più forte. E con essa il suo patrimonio artistico, di cui solo a parole ci vantiamo, abbandonandolo intanto al suo destino (nulla è stato fatto per rimediare agli insensati tagli di Tremonti ai Beni Culturali nel 2008).

Il Presidente Napolitano, in un discorso a Vernazza, la cittadina delle Cinque Terre colpita da alluvione (quattro morti), ha detto che «bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione». Dopo questo saggio monito, l’unico provvedimento concreto è stato, con sinistro tempismo, la "tassa sulla disgrazia" istituita con decreto legge del 15 maggio: in caso di calamità naturali (come il terremoto dell’Emilia), lo Stato se ne lava le mani. Nessuno avrà più un centesimo, se non aumentando le accise sulla benzina, cioè ridistribuendo i costi fra i cittadini (anche i disoccupati, anche i poveri); i cittadini (meglio: chi può) sono inoltre invitati a stipulare un’assicurazione (privata) contro le calamità.

La domanda è dunque: può lo Stato abdicare al proprio compito primario di tutelare il territorio e l’eguaglianza dei cittadini? Può davvero promuovere, all’indomani di un terremoto, nuove cementificazioni e nuovi balzelli?

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