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Così usava chiamarla ironicamente Bersani: dalla militanza comunista ai Ds fino al Partito democratico. Il segretario del Pd delegò Penati come suo emissario nel Nord Italia, prima di sceglierlo come braccio destro a Roma. Per un decennio gli sono state affidate relazioni delicate con ambienti imprenditoriali, soprattutto nel settore delle infrastrutture.

È impensabile che Penati le abbia coltivate prescindendo da una visione condivisa.
Per questo gli atti resi pubblici dalla magistratura di Monza con la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione, concussione e finanziamento illecito dei partiti, esigono un chiarimento politico per il quale non serve attendere gli esiti giudiziari della vicenda. Cavarsela ricordando che Penati si è autosospeso dal partito, tanto più ora che Bersani avanza la propria candidatura al governo del paese, apparirebbe come una reticenza inspiegabile.
Dalla lettura degli atti istruttori emergono domande squisitamente politiche: è opportuno che un dirigente di partito rivesta una funzione reticolare di intermediazione con aziende private e cooperative, finalizzata alla spartizione di appalti e licenze?

E ancora: è accettabile che gliene derivino finanziamenti trasversali per l’attività politica di partito e sua personale? Infine: che lezione intende trarre il Partito Democratico sui rapporti fra politica e affari evidenziati dalle inchieste sull’Autostrada Milano Serravalle e sulle aree industriali dismesse di Sesto San Giovanni? Il ricorso a professionisti di fiducia e l’inserimento nei cda di funzionari legati al partito, deve essere considerata una prassi necessaria?


La consuetudine palesata da Penati, ad esempio, con l’impresa della famiglia Gavio, da sempre bene introdotta nei più diversi ambienti politici, merita una riflessione. Nel settore delle infrastrutture finanziate con fondi pubblici non è stata svolta un’azione regolatoria a tutela della libera concorrenza e nell’interesse della collettività, ma piuttosto riscontriamo l’opposto: il mercanteggiamento delle concessioni con reciproco vantaggio, all’insegna del “ce n’è per tutti”.

Un clima equivoco in cui perfino un banchiere come Massimo Ponzellini riteneva conveniente staccare assegni per la “Fondazione Metropoli” di Penati.
Non è purtroppo un caso se esplodono in parallelo gli scandali lombardi del sistema dominante Formigoni e del sistema Penati, subalterno ma a quanto pare non così marginale. Colui che il Pd aveva candidato a ribaltare l’egemonia del centrodestra in crisi, ha rivelato una concezione accomodante dell’opposizione, preoccupato di non restare tagliato fuori dalla spartizione della torta. E difatti, prima ancora dell’intervento della magistratura,
è stata l’economia della regione nel suo insieme a non reggere più, dentro la crisi, questi metodi consociativi e affaristici. Lo conferma anche il fatto che gli accusatori di Penati siano imprenditori dal comportamento equivoco, sodali fin che gli conveniva e divenuti ostili nella disgrazia.
Tanto più vero ciò appare nell’epicentro del sistema Penati: a Sesto San Giovanni. Dove sono entrati in azione, per acquisire il controllo redditizio delle aree industriali dismesse, protagonisti più vicini politicamente alla corrente di Penati: le cooperative rosse e due imprenditori pugliesi considerati dalemiani come Roberto De Santis e Enrico Intini.
Mi auguro che Bersani rifugga dalla tentazione di liquidare gli interrogativi posti dall’inchiesta sul “sistema Sesto” come un attacco dei poteri forti ai settori economici più vicini al suo mondo di provenienza. Questa tentazione è riemersa di recente, quando la Corte d’Appello di Milano ha assolto i manager dell’Unipol, Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, insieme all’ex governatore Antonio Fazio, dall’accusa di avere concertato nell’estate 2005 la scalata alla Bnl. Si è parlato di un vero e proprio complotto contro la finanza rossa, ad opera della stampa asservita ai salotti buoni del capitalismo italiano. Come se la ristabilita verità giudiziaria, di cui è doveroso prendere atto, cancellasse anche i rapporti intrattenuti con i Fiorani, Gnutti, Ricucci e furbetti del quartierino vari, in una logica di schieramento cui non si sottrassero i dirigenti Ds. Con la medesima apprensione di accesa tifoseria, del resto, certi ambienti di sinistra stanno seguendo l’intricata acquisizione di ciò che resta del gruppo Ligresti da parte dell’Unipol. Quasi che una preordinata ostilità politica tentasse di impedire alla finanza rossa di consolidarsi sulla piazza di Milano.
La vicenda Penati necessita di una considerazione serena ma severa, rifuggendo tali pregiudizi. Anche perché le sue ripercussioni nel Pd lombardo e milanese continuano a manifestarsi pesanti.

C’è un vuoto di leadership. Ci sono dirigenti che vedono ancora in lui il proprio riferimento naturale. C’è disorientamento fra i militanti. Ne risente l’efficacia dell’opposizione alla pericolante giunta Formigoni.
Viene quindi da chiedersi, di fronte al quadro gravissimo delle attività di Penati delineato dalla pubblica accusa, se non avverta egli lo scrupolo di dimettersi dal Consiglio Regionale, essendo palesemente compromesso il rapporto di fiducia con un elettorato del quale non può essere più il rappresentante.
Ma intanto un discorso di verità da parte di Pier Luigi Bersani aiuterebbe la sinistra del Nord a delineare la svolta necessaria nel rapporto fra politica e affari. Tema ineludibile nella sfida per risanare l’economia e governare il paese.

Ho lanciato qualche tempo fa, sul manifesto, con il collega Piero Bevilacqua, l'appello, che non solo ha avuto un notevole successo, ma ha prodotto una serie di assemblee culminate negli Stati generali dell'Università italiana (il 31 marzo a Roma), da cui è poi scaturito, in un paziente lavoro di raccolta di suggerimenti, aggiunte, correzioni e revisioni, un documento che abbiamo chiamato Carta di Roma (ora sui siti www.amigi.org e www.historiamagistra.it).

Su questa base numerosi docenti di vario ambito disciplinare, organizzati in commissioni di lavoro, stanno provando a disegnare un progetto radicalmente alternativo all'università che in una sostanziale continuità (sia pure con qualche momento di timida rottura), ha portato da Luigi Berlinguer all'attuale ministro Profumo, toccando la punta più efferata nella cosiddetta riforma Gelmini. In attesa di ottenere qualche risultato pratico, ci tocca ancora assistere o subire le nefandezze del sistema.

Sono, come si sa, ormai pochissimi i concorsi per l'assunzione di personale docente e ricercatore e sono pressoché tutti seguiti da ricorsi dei concorrenti sconfitti. Normale, si dirà, in una situazione di terribile lotta per la vita, ove si pensi che ormai ci sono decine di migliaia di precari della ricerca che reggono larga parte del peso didattico e organizzativo dei nostri atenei, tutti senza prospettiva, e la gran parte più vicina ai 40 che ai 30 anni, e non pochi sono coloro che hanno traguardato il mezzo secolo di vita. E oltre. Dunque la lotta è durissima: come sempre guerre tra poveri determinate da politiche miopi (che purtroppo hanno accomunato largamente governi di centrodestra e di centrosinistra), da strutturali carenze di fondi, via via aggravate dai famigerati tagli lineari e dal micidiale combinato disposto di incapacità organizzativa e pochezza culturale.

Malgrado questo, l'Università italiana, vittima negli ultimi anni di una sistematica campagna di diffamazione basata su cifre truccate (Giavazzi-Alesina e Perotti, tanto per far qualche nome: consiglio l'illuminante librino di Francesco Coniglione, Maledetta Università, Di Girolamo editore), e inique generalizzazioni, non è affatto tra le peggiori del mondo, come amava ripetere la passata ministra.

Eppure le sue colpe le ha. E non vuole emendarsene. La maggiore concerne appunto il cosiddetto reclutamento. Ovvero i concorsi. Quelli che producono ricorsi. Malgrado oggi l'attenzione della pubblica opinione sia diventata assai più forte, e a dispetto delle sentenze dei Tar che cominciano a dar ragione ai ricorrenti, i membri delle Commissioni giudicatrici continuano a comportarsi come padreterni, convinti di poter imporre le loro scelte anche quando del tutto implausibili, certi dell'impunità, anche se vanno contro le leggi e i regolamenti; e, soprattutto, fiduciosi che nell'Accademia nessuno si muoverà per esprimere un dissenso, levare una voce di protesta, perché tutti aspettano il proprio turno per compiere in autonomia, ossia prescindendo dal valore dei candidati, le proprie scelte: ossia far vincere chi deve vincere.

Ora, intendiamoci, ci sono ottime ragioni per sostenere la cooptazione, e personalmente le ho esposte, per iscritto e oralmente, in molte circostanze, anche su questo giornale, su MicroMega rivista e on line, nel dibattito che ha accompagnato e predisposto la Carta di Roma. La cooptazione è il mezzo attraverso cui si formano le scuole, lo strumento col quale un maestro passa il testimone agli allievi migliori, dopo averli formati, selezionati, accuditi, fatti crescere, insegnando loro metodo e tecniche. Ma la cooptazione, lecita, e a mio avviso giusta, deve avere un limite: bisogna che il candidato da cooptare abbia i requisiti minimi, ossia non sia palesemente inferiore agli altri concorrenti (in ogni caso attraverso la cooptazione il maestro si qualifica o si squalifica). Di solito per ovviare a questo problema si fanno concorsi blindati: ossia i titolari di una certa disciplina si accordano tra loro affinché nessuno vada a "rompere le scatole" (così si dice nel lessico accademico), mandando i propri allievi a concorrere a un posto che è stato richiesto e bandito con un vincitore in pectore, designato dal cattedratico di quel certo ateneo e facoltà. In questo modo l' "interno" avrà vita facile: i candidati forti saranno dirottati ad altro concorso, invitati cioè ad aspettare il proprio turno, quello che il cattedratico indicherà, con l'accordo, se possibile, dei seniores di quella certa disciplina. E se vi saranno dei riottosi, toccherà ai loro padrini convincerli a rinunciare. O saranno gli stessi commissari a esercitare pressione, se si sono presentati, affinché si ritirino. Tanto più il vincitore in pectore è debole, tanto meno numerosi debbono essere i suoi competitors. Ovvio.

Ma esistono altre pratiche, quando il sorteggio (sempre ove si creda ai sorteggi effettuati presso il Ministero, senza alcun controllo esterno; io personalmente ci credo poco) sia sfavorevole: ossia due commissari si accordano sul vincitore ancora prima che la commissione sia insediata; e il vincitore, ovviamente, è di solito l'allievo/a di uno dei due, e fanno carte false per farlo prevalere, semplicemente contando sulla forza della maggioranza, a prescindere dal cosiddetto ius loci (il diritto di far prevalere l'interno, quanto meno a parità di merito), e soprattutto a prescindere dalla giustizia e dalla verità.

Clamoroso il recentissimo caso di Catania, per un posto da ricercatore a tempo determinato (3 anni, più 2 eventuali) di Storia contemporanea nel quale, contro l'evidenza, il buon senso e persino la normativa vigente, la commissione ha fatto vincere un'architetta, tale Melania Nucifora (ignota alle cronache della storiografia), addirittura priva del titolo di Dottore di ricerca (oggi praticamente obbligatorio), e con una produzione scientifica incongruente col settore disciplinare (Msto/02), a danno di un candidato incomparabilmente più forte, provvisto di ben 4 monografie. Un episodio che suona come un'offesa alla stessa università che ha bandito il posto, e che, pur davanti alla sentenza del Tar che ha dato ragione al ricorrente (Giambattista Scirè, apprezzato studioso, già ben noto alla comunità degli storici), sembra disinteressarsi della vicenda. Altrettanto, gli storici contemporaneisti. Cane non mangia cane. Ma non sarebbe ora di rompere il silenzio? E di rialzare la schiena? La commissione, invitata dal Tar a rivedere il suo giudizio, clamorosamente incongruo rispetto alla realtà dei candidati, e da molti punti di vista, illegittimo, non ha fatto una piega. Si è nuovamente riunita e ha riconfermato pari pari il giudizio. Ammettere di aver sbagliato? Giammai! Complimenti ai colleghi. Ora è pendente alla Camera una interrogazione sul caso, svolta da un deputato del Pd, a sua volta storico di professione. E aspettiamo con curiosità la risposta del ministro o di chi per lui.

A Catania insomma ha prevalso, nella maniera più brutale, lo ius loci (ma non la cooptazione; là non c'è scuola che tenga, e la candidata, sebbene legata a qualcuno dei commissari da collaborazioni varie, non è certo l'allieva che si sta formando, provenendo da tutt'altri studi, che poco o nulla attengono alla stessa storiografia).

Invece a Torino un concorso - avviato, da molto tempo e non concluso - ha seguito l'altra strada, quella che ho indicato come alternativa (altrettanto inaccettabile) allo ius loci. Prima ancora di avere preso visione di titoli e pubblicazioni dei candidati, due commissari, in combutta tra loro, si sono presentati avendo già in tasca il nome del vincitore, anzi della vincitrice, nella persona dell'allieva e collaboratrice della presidente della Commissione: candidata palesemente tra i meno meritevoli di coloro che si sono presentati (numerosi perché qui non c'è stato l'accordo preliminare con il commissario interno all'Ateneo che ha bandito: «Non far presentare tizio e la prossima volta ti prometto che...»). Anzi, una candidata le cui pubblicazioni non erano neppure pienamente congruenti al settore disciplinare (Sps/02, Storia delle dottrine politiche). Il terzo commissario, l'interno, ha dichiarato di rinunciare a combattere per la persona per la quale, secondo il principio della cooptazione, aveva chiesto e ottenuto il posto (posto assai appetito, trattandosi di ricercatore a tempo indeterminato!). E aveva invocato un «vero concorso». Ossia, prescindiamo da tutto, e valutiamo i concorrenti al di fuori di ogni altra logica che non sia il famoso "merito" di cui dal ministro in carica, ai commentatori professionali, fino agli ignari avventori del Caffè Sport si riempiono la bocca, tra un cornetto e un cappuccino: troviamo un candidato oggettivamente meritevole sul quale far convergere i nostri voti. La risposta dei colleghi è stata: noi siamo due, tu sei uno.

A questo punto, con una dura lettera di denuncia alle autorità del suo Ateneo (dalle quali si è sentito non sostenuto), ha presentato le dimissioni. E ha ripreso la sua battaglia. Non più per far vincere il/la migliore, ma almeno per mostrare che cosa siano i concorsi farsa. Invece di firmare la solita relazione di minoranza, e aspettare il ricorso di un candidato, ha preferito passare subito al disvelamento. Non servirà? Ma gutta cavat lapidem. Se tutti facessero lo stesso, invece di tacere in attesa delle proprie rivincite, ossia di commettere loro domani, a danno di qualcuno, le ingiustizie di cui oggi sono vittime i propri allievi o comunque "protetti", forse si accelererebbe il processo di modifica di questi demenziali meccanismi di reclutamento, che per loro natura favoriscono arbìtri, e producono iniquità, provocando l'ovvio, progressivo scadimento del livello scientifico e dello stessa funzione culturale e civile dell'Università italiana.

Davanti a fatti come quelli qui accennati, non ci possiamo limitare ai discorsi, magari a mezza voce. Occorre squarciare il velo omertoso che avvolge il sistema e che rischia di divenirne il sudario.

No. Non è questa l'Università che vogliamo.

La decisione di fornire al governo spagnolo fino a cento miliardi di euro per salvare le banche eliminerà probabilmente il rischio di un collasso immediato di sistemi bancari europei, ma non è certo una novità. Anche nei casi della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo le erogazioni ai governi di quei Paesi, fatte dal fondo cosiddetto salva Stati, era servito a salvare le banche. Anche questa volta ha vinto la Germania e i fondi non saranno dati direttamente alle banche spagnole, ma allo Stato affinchè li giri alle banche. La novità, si dice, è che questa volta non verrebbe imposta come condizione l’accettazione di una pesante politica di austerità, ma quella politica il governo spagnolo l’ha già adottata sin dai tempi di Zapatero.

Il risultato sarà che vedremo il debito pubblico spagnolo, che prima della crisi era il più basso d’Europa, impennarsi ancora e quasi raggiungere il livello di quello italiano e che il governo spagnolo, nel mettere i quattrini dei contribuenti europei dentro le banche, dovrà decidere quale governance dare ad esse, e se intende ancora una volta salvare insieme alle banche anche i responsabili dei loro fallimenti. Si discute anche dell’unificazione dei sistemi bancari europei, che vuol dire regole comuni, un unico controllore, un meccanismo comune per la gestione di eventuali default di banche. Sarebbero positive novità ma appaiono decisioni lontane. Il sostegno alle banche spagnole, invece, se anche frenerà la fuga dei risparmiatori dalle banche spagnole, appare l’ennesimo intervento all’ultimo minuto per evitare di cadere nel baratro, ma senza cambiare la direzione di marcia. Nonostante il gran parlare della necessità di crescita economica, le uniche decisioni pesanti riguardano ancora la finanza. La crisi col suo movimento circolare ci ha riportati al punto di partenza: siamo partiti dal salvataggio delle banche e lì stiamo tornando. E bisognerebbe chiedersi perché. E bisognerebbe capire come mai le banche europee, quelle inglesi, tedesche e francesi in testa, sono le più indebitate al mondo e hanno accumulato una quantità di asset, dai quali provengono i rischi di perdite, mediamente pari a tre volte il Pil europeo. L’enorme squilibrio finanziario generatosi nell’area euro è intrecciato alla crescita delle divergenze fra Paesi forti e quelli deboli. Fino a che tale divergenza non sarà aggredita lo squilibrio finanziario tenderà a rafforzarsi. Ancora una volta, comunque le banche vengono salvate con il denaro dei contribuenti. Appare, inoltre, chiaro il paradosso per cui Stati costretti con politiche di austerità a ridurre il debito pubblico tagliando pensioni, investimenti, spese per l’istruzione, vengono simultaneamente indotti ad aumentare quel debito per salvare le banche. E i titoli che emetteranno per il maggior debito contratto per i salvataggi saranno in buona misura acquistati dalle stesse banche aumentando il rischio complessivo.

Arriviamo così al cuore del problema che si racchiude in questo fatto: la crisi ha avuto origine da un livello record del debito totale - debito privato e pubblico - nei Paesi avanzati; a cinque anni dall’inizio della crisi il livello del debito totale non è diminuito, in Europa è aumentato. Nessuna meraviglia che tornino le crisi finanziarie. Concludendo la presentazione di un rapporto speciale sul debito, nel 2010, The Economist sosteneva che «per il mondo sviluppato, il modello finanziato dal debito ha raggiunto il suo limite, ciascun governo dovrà trovare la sua via per ridurne il peso. La battaglia tra creditori e debitori può essere lo scontro determinante della prossima generazione». Siamo nel bel mezzo di tale scontro e poiché creditori e debitori non sono solo singole persone, ma anche Stati, soprattutto fra Stati. Le politiche seguite finora sono andate a vantaggio dei creditori. Nessuno dei modi con i quali in passato si è ridotto il livello dell’indebitamento è stato accettato. Non i default guidati delle banche; non la ristrutturazione dei crediti (quello del debito greco è stato accettato obtorto collo e tardivamente); non l’aumento del tasso di inflazione come proponeva anche il Fmi. L’esperienza storica, attestata da recenti ricerche, ci dice che da situazioni di eccesso di indebitamento generalizzate si esce con una svalutazione dei debiti. Qui non si tratta solo di un problema pur importante di equità. Si tratta di vedere anche quale è la strada che favorisce il rilancio dello sviluppo. Onorare fino in fondo il debito, onorarlo magari con i quattrini di chi quel debito non aveva contratto, significa mantenere sul sistema economico un peso impossibile e colpire le nuove generazioni due volte: facendogli pagare il debito e menomando il loro futuro.

ROMA— La grande scritta sulla vetrata a volta si vede già da lontano, arrivando sulla via Ostiense, oltre il Gazometro e il Porto Fluviale, tra ponteggi di restauri industriali e vecchi docks sul Tevere. “Eataly”: il nome spicca tra le arcate del famoso Air Terminal progettato dall’architetto spagnolo Julio Lafuente per i mondiali di Italia 90, struttura all’avanguardia costata cinquanta miliardi di denaro pubblico e quasi mai utilizzata, simbolo di spreco e degrado, ridotta negli anni a rifugio per senzatetto, profughi e diseredati.

È qui, in questo panorama completamente ridisegnato e restituito alla città, che è approdato “Eataly Roma” l’ultima creatura dell’imprenditore di Alba Oscar Farinetti, che dopo aver fatto prosperare la catena di negozi di elettrodomestici “Unieuro”, sta facendo riscoprire all’Italia (e non solo), il gusto del cibo di qualità, con un business che per il suogruppo ormai sfiora i 300 milioni di euro l’anno. “Eataly Roma”, che aprirà al pubblico il prossimo 21 giugno, è un gigantesco, immenso villaggio del buon mangiare e del buon vivere, 17mila metri quadri dedicati al gusto e alle eccellenze gastronomiche di ogni angolo d’Italia, no, anzi, alla bellezza, come dice Farinetti, perché, in genere, «chi cerca l’armonia mangia bene». E dunque un grande luogo conviviale, un po’ piazza, un po’ mercato, un po’ ristorante un po’ caffè, con librerie e aule didattiche, dove «il cibo italiano di alta qualità si può comprare, mangiare e studiare», scelto, cucinato e insegnato da grandi chef e chef emergenti, produttori doc piccoli e grandi, in collaborazione con Slow Food, e dove ogni scelta ha il suo perché.

La mozzarella di bufala ad esempio. Quella di Eataly è prodotta, a vista, nel suo “Mozzarella Show” da Roberto Battaglia, che oltre a saperla fare secondo la più rigorosa tradizione casertana (tutto latte di bufala senza aggiunta di latte vaccino), è anche uno dei pochi produttori che ha denunciato i boss della camorra che lo perseguitavano. O gli aperitivi dell’associazione “Vino libero” che si impegnano a produrre etichette prive da concimi chimici, diserbanti e solfiti aggiunti. Eccolo allora “Eataly Roma”, il più grande dei 19 Eataly sparsi in tutto il mondo, Tokio e New York compresi, una vera sfida imprenditoriale in una Capitale fortemente impoverita e depressa. Progetto nel quale Farinetti e il suo gruppo hanno investito oltre80 milioni di euro, acquistando e ristrutturando il vecchio Terminal Ostiense, immagine fino a ieri di uno dei grandi sprechi italiani, e assumendo 500 giovani lavoratori.

Dice Nicola Farinetti, figlio di Oscar e responsabile di “Eataly Roma”: «Abbiamo puntato su Roma perché ci dispiaceva che il nostro negozio più grande e famoso non fosse in Italia ma all’estero, a New York. E abbiamo pensato a Roma perché è l’unica vera metropoli italiana, immaginando un luogo frequentato sia da romani che da turisti, dove si possa mangiare, bene, a partire dai 4 euro di un panino, o ai 5 euro di una pizza margherita. Le nostre aspettative: 35mila visitatori e seimila pasti al giorno. Una sfida enorme…».Entrando è la luce delle vetratedisegnate da Lafuente riflessa in lampadari color acqua che colpisce prima di tutto, nei quattro piani collegati da scale mobili, tra spazi dove i decori dei tavoli e delle sedie ricordano il rosso della carne, l’ambra della birra, l’azzurro della pescheria. Tutto a Eataly si può comprare o consumare in loco, che sia una bistecca del presidio Slow Food “La Granda”, o un piatto di culatello di Zibello, un fritto misto nel “cuoppo” (cartoccio) di Pasquale Torrente da Cetara, o un piatto di spaghetti espressi ma soltanto dei pastifici di Gragnano.

E partendo dal piano terra si passa dai panini d’autore di “Ino”, alla piadineria dei “Fratelli Maioli”, costruita come i chioschi delle spiagge romagnole negli anni Venti. E poi la cioccolateria Venchi, dove la crema gianduia, con nocciole Piemonte ed emulsionata con olio extravergine Roi di olive taggiasche, sgorgherà ancora calda da rubinetti cromati per la gioia (e lo sballo) dei golosi. Racconta Nando Fiorentini, anima e cuore di tutte le pescherie diEataly: «Vorremmo insegnare alla gente a mangiare, anche il pesce povero, quello che non si conosce, e di cui invece i nostri mari sono ricchi …».

Oltre l’immenso reparto salumi e formaggi, oltre le pizze napoletane con farina macinata a pietra, l’ultimo piano è quello degli chef. Per il ristorante Italia, lusso con vista su Roma, Gianluca Esposito, 29 anni, per la cucina dei grandi eventi Massimo Sola. Il 14 giugno apertura di gala per politici e ministri. Ma attenzione: al pubblico ad inviti sarà servito un “non pranzo”. «Offriremo soltanto acqua minerale a tutti — raccontano i collaboratori di Oscar Farinetti — e devolveremo i soldi del pranzo ai terremotati dell’Emilia.

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Slow Food rappresenta i buoni, quindi questa iniziativa sponsorizzata è automaticamente buona. Mi pare già di immaginarlo, anzi lo provo anch’io, l’automatismo da vittima della pubblicità occulta. Ma mi scatta anche l’altro automatismo, quello di provare a collegare una cosa all’altra, come del resto ha fatto anche la giornalista nel titolo: il parco giochi dell’alimentazione, la Disneyland della pastasciutta, l’outlet della cucina della mamma … Ricorda qualcosa, no? Ricorda per esempio come anche i primi osservatori non adolescenti del parco tematico originale negli anni ’50 notavano una cosa, ovvero che dentro il recinto la gente andava a cercare esattamente quello che stava sparendo (che si stava facendo consapevolmente sparire) fuori, ovvero la via tradizionale, la piazzetta dove ci si ritrova, le relazioni amichevoli semplici e spontanee. Secondo un criterio commercialmente ineccepibile: rendo scarsa una risorsa e la rivendo in esclusiva. Ora, è vero che magari Eataly “recupera” cose perdute o difficili da trovare, ma secondo quale percorso? È una specie di monastero benedettino dove si ricopiano pazientemente codici in attesa di tempi migliori per ristamparli e farli leggere a tutti, o l’ennesimo scatolone introverso a pareti cieche con ingresso a pagamento, dove si compra quello che prima era gratis, o quasi? Chilometro zero, o conto chilometrico a parecchi zeri? Ovviamente una risposta io non ce l’ho, chiedete magari a Slow Food (f.b.)

Si disegna la Città metropolitana. Il primo passo intrapreso da Palazzo Isimbardi si chiama Ptcp, piano territoriale di coordinamento provinciale urbanistico della Grande Milano; è stato adottato e sarà approvato entro la fine di ottobre.

Parola d’ordine zero consumo di suolo.

Si viaggia controcorrente: se tra il 1999 e il 2007 il cemento ha coperto circa 60 chilometri quadri di terreno (ovvero quasi 5.500 campi da calcio, per rendere l’idea) l’obiettivo è recuperare le aree dismesse e salvaguardare la vocazione agricola del territorio, a partire dai suoi parchi regionali come il Parco Agricolo Sud Milano e il Parco delle Groane. Alle tutele già previste sono stati aggiunti ulteriori vincoli per evitare «cattive interpretazioni» e speculazioni edilizie

Sarà potenziata anche la «rete ecologica» con la creazione di due nuove dorsali verdi tra le quali la «Ovest, Valle dell’Olona».

Nelle linee guida anche il potenziamento del trasporto pubblico: è previsto il prolungamento della M2 da Gessate a Trezzo sull’Adda e da Assago a Binasco, della M3 da Comasina a Paderno e della M4 da Linate a Segrate e successivamente fino a Pioltello. Nuove fermate delle linee suburbane a Opera e San Giuliano e interscambi d’interesse sovracomunale a Magenta, Castano Primo, Parabiago, Rho, Garbagnate, Paderno, Sesto, Pioltello, Melegnano, Locate Triulzi e Albairate. Infine sono previste quote obbligatorie minime che tutti i Comuni dovranno riservare all’housing sociale.

«L’adozione del Piano territoriale di coordinamento provinciale, rappresenta il primo passo verso l’istituzione della Città metropolitana – sottolinea il presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà -. Sono sempre stato convinto, infatti, che un territorio caratterizzato da un continuum di Comuni e densamente popolato come si presenta la Grande Milano possa essere amministrato con maggiore efficacia e minori costi attraverso l’adozione di politiche di area vasta almeno in materia di trasporti, infrastrutture, ambiente, urbanistica e gestione delle risorse idriche e dei rifiuti».

«È un risultato importante per il territorio e per i suoi abitanti, che potranno contare su nuove tutele ambientali e su una maggiore competitività a livello europeo – ribadisce l’assessore al Territorio Fabio Altitonante -. La nostra Provincia, concentrando circa il 10% del Pil nazionale, ha un grande potenziale, che dobbiamo valorizzare attraverso uno sviluppo strategico e sostenibile del territorio». Il diktat ora è passare da una visione «milanocetrica» a una rete, che metta in connessione il capoluogo ai 24 Comuni dell’hinterland.

postilla

Parte della minoranza in consiglio (non citata da questo articolo un po’ declamatorio) osservava che come spesso accade con questi piani di coordinamento c’è qualche discrasia fra obiettivi e strumenti reali, ad esempio nell’effettiva tutela delle superfici agricole. E riguardo al Grande Disegno Metropolitano, val la pena osservare come, contemporaneamente a queste solenni affermazioni (e alle innocue righe colorate su una mappa che sarebbero le nuove linee del trasporto pubblico) si inaugura col sostegno delle cariche della polizia il cantiere della Tangenziale Esterna, che secondo la manualistica territoriale da alcuni decenni a questa parte costituisce la premessa alla classica espansione edilizia che si dice di voler contrastare ad ogni costo. Mah! (f.b.)

L’espressione è forte, pulizia etnica. Sta a indicare le demolizioni di campanili e di torri nei paesi emiliani flagellati dal terremoto. E a usarla è Italia Nostra, dietro le cui insegne si ingrossa la schiera di chi vorrebbe metterli in sicurezza, quei monumenti, e non abbatterli. L’espressione la spiega l’architetto Elio Garzillo, fino al 2004 soprintendente e direttore regionale dei Beni culturali in Emilia Romagna: «Quando si demoliscono edifici dicendo che sono di scarso valore, si procede in base al principio che in architettura si può salvare solo ciò che è d’altissimo pregio. È un’idea culturalmente arretrata ».

Il j’accuse viene rilanciato oggi in un incontro promosso a Bologna da Italia Nostra (oltre a Garzillo, partecipano l’architetto Pierluigi Cervellati, Giovanni Losavio e Anna De Rossi, presidenti delle sezioni di Modena e di San Felice sul Panaro, ed Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti). Dopo il sisma del 20 e del 29 maggio, una delegazione di Italia Nostra ha battuto l’area più colpita. Urbanisti e architetti hanno visto ciò che resta dei campanili demoliti a Poggio Renatico e Buonacompra, della ciminiera di Bondeno o del Mulino Parisio a Bologna.

Mentre si aspetta di conoscere la sorte delle torri di Reno Centese, Castelmassa, Ficarolo, San Giacomo Roncole e Suzzara, è soprattutto il ministero dei Beni culturali, il bersaglio di roventi critiche: «Le strutture statali di tutela hanno dimostrato un’inedita disponibilità ad autorizzare o tollerare tutte le demolizioni».

Il punto è questo, secondo Garzillo: la sicurezza dei cittadini poteva essere garantita con interventi di consolidamento dei monumenti, senza ricorrere alle demolizioni, per le quali — come a Poggio Renatico — si è usata anche la dinamite. O agli “smontaggi controllati”, secondo alcuni un ipocrita eufemismo, secondo altri la condizione indispensabile per un’eventuale ricostruzione.

La memoria torna al terremoto in provincia di Reggio Emilia del 1996. «A Correggio e a Villa Sesso — racconta Garzillo — siamo intervenuti per incatenare e imperniare i campanili. A Bagnolo in Piano la torre campanaria era completamente sfalzata, sembrava un mazzo di carte sparpagliate. Abbiamo messo putrelle e proceduto con incollaggi. Il lavoro è durato sette giorni e costato 50 milioni di lire. Sono operazioni di prevenzione nell’emergenza, tutte ampiamente documen-tate: basta spulciare gli archivi della Soprintendenza e della Direzione regionale». E invece? «E invece ora si è assecondata la Protezione civile, che fa bene il proprio lavoro, ma deve trovare negli organi del ministero per i Beni culturali un interlocutore consapevole del proprio compito. Che è quello di salvaguardare un monumento e di demolire solo in casi di assoluta necessità».

Secondo Giovanni Losavio, magistrato di Cassazione, il vizio d’origine è nel decreto del ministero che attribuisce il coordinamento degli interventi alla Direzione regionale e non alle Soprintendenze. «Ma la Direzione regionale », spiega Losavio, «è un organo prevalentemente ammini-strativo e non ha le competenze operative e tecniche proprie delle Soprintendenze. In questo modo la tutela è condannata a essere subordinata alla Protezione civile ».

In molti casi le demolizioni sono chieste a gran voce dalle stesse popolazioni. Alcuni sindaci, come Alberto Silvestri di San Felicesul Panaro, hanno spiegato che «tutti i monumenti hanno pari diritti ». Invoca abbattimenti l’assessore della Provincia di Mantova, Alberto Grandi, («dolorosi, ma inevitabili»), beccandosi da Salvatore Settis l’appellativo di Attila.

La memoria di Garzillo corre indietro nel tempo. Giovane funzionario della Soprintendenza napoletana, visse il terremoto del 1980 in Irpinia e Basilicata. «L’allora ministro dei Beni culturali Oddo Biasini mandava ispettori a chiedere a ognuno di noi quanti pronti interventi avevamo realizzato, quanti monumenti avevamo messo in sicurezza. Operazioni che praticavamo sfidando anche le ire di altre istituzioni. Ora la prassi è molto più accomodante».

Il programma di sinistra

È il tempo delle scelte. I metalmeccanici invitano le forze politiche a battersi contro «un'ingiustizia sempre più profonda». Dall'articolo 8 alla scuola: le tute blu hanno un piano. In mancanza della Cgil

La concretezza delle tute blu non sopporta giri di parole fumose. E la politica italiana, anche a sinistra, è abituata da troppo tempo al tatticismo, agli «schieramenti elettorali» che prescindono dal «che fare?» una volta in Parlamento; senza più attenzione agli interessi materiali e politici dei «rappresentati». Specie per quanto riguarda i lavoratori.

La Fiom ha rovesciato l'ottica. «Non aspetteremo che i politici, in piena campagna elettorale, vengano a prometterci il possibile e l'impossibile». Li «chiamiamo noi» per dire con chiarezza cosa vogliamo e «chiedere risposte». Perché «non consentiremo che i lavoratori vadano a votare senza sapere come si potrà recuperare la profonda ingiustizia che anche in queste ore si sta legiferando».

Nella grande sala del Parco dei Principi, il segretario generale Maurizio Landini espone un vero e proprio programma di governo per una sinistra «necessaria», più che possibile. Fatto di punti concretissimi, che ribaltano come un guanto le politiche del lavoro e industriali applicate finora. È stato sciocco chi ha provato a descrivere l'appuntamento come la trasformazione di questo sindacato in una nuova forza politica. «Noi siamo un sindacato autonomo e indipendente, ma non indifferente», che «può parlare alla pari con tutti: imprese, partiti, governi». Un sindacato che da oltre un secolo è parte integrante della sinistra, ma non ha più un partito di riferimento. «Vogliamo discutere di un programma alternativo a quello del governo Berlusconi, ma anche del governo Monti». Perché «la crisi è molto profonda e non se ne vede la fine; quindi «va avviata una fase costituente in cui tutti si rimettono in gioco».

Di conseguenza, mette giù una griglia di argomenti che devono selezionare gli interlocutori, testarne la serietà. Sarebbe stato logico che l'avesse fatto tutta la Cgil, ma ieri era presente e solidale solo uno dei segretari confederali, Nicola Nicolosi.

Legge sulla rappresentanza sindacale. L'unità sindacale sarebbe una buona cosa, ma quando non c'è - come oggi - i lavoratori debbono avere il diritto di scegliersi il sindacato e soprattutto di votare accordi e contratti che poi loro saranno chiamati a rispettare. Il rischio, altrimenti, è che le aziende si scelgano o si facciano il loro sindacato finto.

Cancellazione dell'art. 8. La «manovra d'agosto» di Berlusconi-Sacconi ha inserito una bomba a tempo nelle relazioni industriali, con questo articolo che consente agli accordi aziendali - firmati magari da sindacati di comodo - di andare «in deroga ai contratti e alle leggi». Anti-costituzionale, ma conservata da Monti.

No a questa riforma del mercato del lavoro. L'art. 18 è stato svuotato completamente, togliendo la possibilità reale del reintegro (al contrario di quanto sostengono sia il Pd che Susanna Camusso, ndr). Va ripristinato nella sua forma originaria ed esteso, perché da questo dipende il diritto del singolo lavoratore di poter aprire bocca e di fare il delegato senza timori. Va ridotto drasticamente il lavoro precario; introdurre il principio che a parità di lavoro e mansione ci deve essere parità di salario e diritti.

Ammortizzatori sociali. Vanno estesi, non ridotti (come sta facendo il Parlamento); le risorse vanno trovate facendo pagare il contributo anche a quelle categorie economiche che oggi non hanno la cig, ecc.

Reddito di cittadinanza. Un principio europeo che il nostro paese non ha mai reso attivo, che può garantire il diritto allo studio e ridurre il ricatto sul salario.

Pensioni. I lavori non sono tutti uguali; stare in fonderia o in corsia non è come fare il prof. universitario. Va riconosciuto il peso che hanno sulle aspettative di vita, altrimenti è una tassa sulla vita. Il «metodo contributivo» non può esser l'unico; già con Prodi si era fissato il criterio (non rispettato) di portare l'assegno pensionistico minimo almeno al 60% del salario di categoria. I soldi dei fondi pensione andrebbero investiti solo per rilanciare l'economia interna.

Fisco. Patrimoniale, progressività delle imposte, tassazione delle rendite finanziarie, combattere la criminalità nell'economia.

Occupazione. Ridurre l'orario di lavoro (come in Germania) per non perdere competenze.

Nuovo modello di sviluppo. Cosa, come, per chi produrre, e in modo ambientalmente sostenibile. Politica industriale. Non se ne parla più. Ma Finmeccanica (pubblica) vuol tenere solo la produzione militare e dar via tutto il civile avanzato (treni, nucleare, ecc).

Riforma della scuola. Garantire parità di condizioni di partenza per aumentare la «mobilità sociale».

Europa. Dopo 20 anni, il sistema rischia di esplodere. Servono regole per la finanza, intervento pubblico: No al pareggio di bilancio in Costituzione.

E intanto ci si mobilita ancora. Il 13 e il 15 a livello territoriale (scioperi e presidi); il 14 sotto il Parlamento, a Roma, contro la riforma del mercato del lavoro e lo spacchettamento di Finmeccanica. Un programma da imporre con la lotta, insomma, non una lista di richieste a una politica distratta.

L'INTERVENTO DEI «PROFESSORI»

La Costituzione non basta più La cultura di fianco al conflitto

Parole dure contro la politica da Rodotà, Revelli, Pianta, Flores. Tronti: «Rompere le compatibilità»

Gli intellettuali. Se ne riscopre l'indispensabilità quando l'orizzonte diventa confuso e si cerca una bussola. I migliori tra loro tornano dentro la «rude razza pagana» quando quella domanda diventa un tuono. Ieri mattina sono stati in diversi a prendere la parola. Differenti per scuola e specializzazione, tutti hanno finito per confrontarsi con gli «sbreghi alla Costituzione» apportati in successione da Berlusconi e Monti. Stigmatizzando la retorica che accomuna sotto la presunta «antipolitica» l'universo delle critiche ragionevolissime contro questa classe politica, il governo che sostiene, gli interessi che difende e quelli che calpesta. Un universo che, per esempio sull'acqua pubblica, ha messo in piedi un'altra politica. Per di più vincente.

Stefano Rodotà scatena l'applauso ricordando «la riforma costituzionale fatta all'insaputa dei cittadini», quella modifica dell'art. 81 che introduce il «pareggio di bilancio» nella Carta e impedisce qualsiasi azione pubblica in deficit. Ma la lista è lunga. C'è la «svalutazione dell'art. 41», quello per cui la libertà d'impresa «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; ma che prima Berluska, ora Monti, vorrebbero riscrivere mettendo come «valore» la competizione e la concorrenza. Mentre la dignità svanisce come nelle risposte di quegli operai costretti a votare «sì» al «modello Pomigliano» per pagare il mutuo o mandare il figlio all'università.

Un ragionare che ritorna anche nelle parole di Marco Revelli e Mario Pianta, sempre a cavallo tra aggressione ai diritti costituzionali dei lavoratori e andamento della crisi economica. Da qui, infondo, parte quell'«imbarbarimento pazzesco della società europea» obbligata a forza a cancellare le sue conquiste costate secoli., Frutto anche di una «costruzione dell'integrazione europea» fondata su due assi: «la «totale libertà di mercato per la finanza globale» e «l'illusione nella razionalità del libero mercato».

Il risultato? Nel 2012 l'Italia impegnerà il 10% della propria spesa pubblica per il pagamento dei soli interessi sul debito pubblico. Naturalmente questa è l'unica quota della spesa che «non si può tagliare»; tantomeno dopo che sarà stato reso funzionante il «fiscal compact, quel vincolo che costringe a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in 20 anni. Per l'Italia significa una finanziaria di tagli da 45 miliardi l'anno, da qui al 2033. Altro che barbarie, «sono gli effetti di una vera e propria guerra».

La speranza, qui viene in parte dalla vittoria di Hollande, che «ha spezzato l'asse neoliberista con la Merkel». Ed è sorprendete che siano gli intellettuali a dover far notare che mentre la nuova Francia e la Germania merkeliana hanno grosso modo deciso il via libera a una Tobin Tax europea (contraria solo l'Inghilterra, al momento), il prode Monti si guarda bene dal premere su questo tasto con i suoi partner della Ue.

Tocca a Mario Tronti ripercorrere l'intreccio continuo tra movimento operaio e sviluppo, facendo notare che - statisticamente - «nella storia c'è stato sviluppo capitalistico quando c'è stata piena occupazione, diritti, salari alti». Al contrario, disoccupazione di massa, caduta della credibilità della classe politica e crisi economica hanno spesso aperto le porte alla reazione e al declino. Alle nostre spalle, negli ultimi anni, «c'è stato un terremoto di magnitudo 10», una «distruzione creatrice» furibonda e cieca. Il compito oggi, a suo giudizio, è «recuperare capacità offensiva». Un concetto che riguarda prima di tutto la cultura politica: bisogna essere in grado di «rompere le gabbie d'acciaio delle compatibilità di sistema», quelle che rendono impossibile difendere gli interessi dei lavoratori».

Sull’argomento vedi anche l’eddytoriale 144 e la bozza di “visita guidata Il lavoro su eddyburg

Alberi e varchi d'accesso sul confine del Lazzaretto, un sistema interno di mini-rotatorie e gobbe stradali. Sull'asfalto, sui pali: una nuova segnaletica dedicata. I marciapiedi, sui due lati: più larghi. Negli spazi pedonali: panchine e rastrelliere per le bici. Su tutto, a riordinare la viabilità della prima isola ambientale della giunta Pisapia, un limite di velocità più stringente per le auto: trenta chilometri orari anziché cinquanta. Il Comune vara l'operazione «Zone 30» e parte dal reticolo di strade appena oltre Porta Venezia, uscendo dall'Area C, sulla sinistra di corso Buenos Aires. Eccoci. Via San Gregorio e via Casati, via Palazzi e largo Bellintani, via Panfilo Castaldi, via Settala, via Lecco e via Tadino. C'è la mappa, il «progetto pilota» è stato condiviso con il parlamentino di Zona 3, ha già incassato il via libera del comitato di residenti Baires Futura e l'ok dei commercianti delle Vie dello shopping. I cantieri preliminari apriranno nelle prossime settimane, tra fine giugno e luglio.

La riforma delle «Zone 30» è uno dei pilastri del programma urbanistico-ambientale dell'amministrazione Pisapia: «Vogliamo salvaguardare le fasce più deboli della mobilità». La revisione dell'impianto viabilistico nelle aree più «delicate» del tessuto cittadino è sollecitata da tempo dalle associazioni di ciclisti e pedoni, è stata rilanciata dal referendum civico del giugno 2011 ed è raccomandata dalla «Risoluzione del Parlamento europeo sulla sicurezza stradale in Europa 2011-2020». Dunque: si farà. Il Comune inizia dal Lazzaretto perché ha le caratteristiche adatte per accogliere le modifiche: strade a senso unico, traffico leggero e sosta ordinata sui lati. Spiega l'assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran: «Tutti i nostri provvedimenti, a cominciare da Area C, vogliono restituire spazio ai cittadini a dispetto delle auto. Le future Zone 30 rientrano in questa strategia. Si parte dal Lazzaretto dove i cittadini si son dimostrati molto sensibili».

Qui, in via Casati, è già stato sperimentato il progetto «car free» davanti alla scuola elementare: divieto di accesso alle macchine mezz'ora prima e dopo l'ingresso-l'uscita dei bambini. Questa Ztl temporanea, nei prossimi mesi, sarà inglobata nell'isola ambientale: «Siamo assolutamente favorevoli — commenta Riccardo Bacci, presidente del consiglio d'istituto —. Le famiglie chiedono sicurezza per i loro figli. La Ztl è stata il primo passo e contiamo che sarà riproposta a settembre. La Zona 30 è un'ulteriore buona notizia. Ora aspettiamo le piste ciclabili». Prima, per gradi, sarà posizionato un nuovo arredo urbano, saranno installati cartelli e totem informativi e verranno segnalati i varchi d'accesso al quartiere: «Per far rispettare un limite di velocità così stringente — sottolinea Maria Berrini, presidente dell'Agenzia Mobilità, Ambiente e Territorio — predisporremo un mix d'interventi che diano agli automobilisti la percezione netta di muoversi in uno spazio diverso, regolamentato e sorvegliato. I luoghi saranno caratterizzati e riconoscibili».

Il piano per rallentare il traffico: 30 chilometri orari, carreggiate più strette, misure per migliorare «le condizioni di visibilità o sicurezza» agli incroci. Gli investimenti leggeri sono già stati finanziati. Per i cantieri strutturali «pesanti» bisognerà verificare la disponibilità di spesa prevista nel bilancio 2013.

postilla

Allora, tanto per cominciare il riferimento d’obbligo è al sistema delle Isole Ambientali prese nel loro insieme, perché agire “per progetti” serve solo come test: ci vuole un piano, e quello è un piano. Poi ci vuole un’idea di città, e quella è più difficile da definire dopo trent’anni di sparate a vanvera, di solito a nascondere il vuoto dentro cui si tuffavano a piene mani interessi particolari. Ivi compresi quelli, apparentemente piccoli e per errata definizione buoni, dei singoli protagonisti della mobilità urbana, la miriade di residenti e city users ciascuno portatore, soggettivamente, della ricetta risolutiva. Ovvero piste ciclabili ovunque (magari le costosissime “autostrade ciclabili” tanto amate dal sindaco di Londra e dalla recente campagna sulla sicurezza sposata senza pensarci troppo anche a sinistra), o la pedonalizzazione coatta e chi se ne frega di cosa succede fuori, o dall’altra parte i megatunnel, i parcheggi sotterranei a go-go, le arterie di scorrimento veloce verso il nulla, o meglio verso lo sprawl metropolitano. Il piccolo quadrato nell’area a griglia ortogonale dell’ex Lazzaretto, al suo interno e nei rapporti con le aree circostanti, potrebbe diventare il test di una idea di area metropolitana meno stupidamente avvitata nella sua guerra tra bande di poveri pedoni, ciclisti, automobilisti, abitanti/utenti della città che spesso si scordano di stare sulla stessa barca, ivi compresi gli isterici del furgone bianco mordi e fuggi. Anche a loro, è dedicato questo piano modulato sulla carota di un quartiere dove si può anche entrare e guidare, ma dove non manca il virtuale bastone di uno spazio esplicitamente regolamentato, dove chi sgarra lo capisce da solo. Speriamo bene, insomma, anche se un conto è lavorare sulla città consolidata, e un vero brivido pensare invece a quei baracconi un po’ anni ’30 lasciati in eredità della destra pubblico-privata (f.b.)

Titolo originale: How an Austrian Mountain Village Ended Up in China – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ad appena un anno dall’annuncio dell’ambizioso progetto di copiare un minuscolo idilliaco villaggio di montagna austriaco, i costruttori cinesi hanno inaugurato il loro clone. Appena fuori dalla città sud-orientale di Huizhou, il nuovo villaggio assomiglia in tutto e per tutto a Hallstatt, Vienna, completo di schiere di chalet color pastello, particolari architettonici e anche una replica fedele della torre dell’orologio, segno caratteristico dell’originale da 900 anni. Coordinato e realizzato da Minmetals Land Inc., il progetto per un investimento da 940 milioni di dollari è stato inaugurato sabato con l’apertura ai turisti alla presenza del sindaco di Halstatt, Alexander Scheutz.

L’estate scorsa, quando si era diffusa la notizia del progetto, gli abitanti di Hallstatt si erano ritenuti offesi dall’idea del falso cinese, minacciando di fare appello all’UNESCO per bloccarlo. Si sono comunque presto ricreduti, dopo aver capito che si trattava di una grande occasione promozionale. All’inaugurazione questo fine settimana Scheutz ha partecipato dopo la firma ad un accordo di scambi culturali con l’amministrazione locale, esprimendo orgoglio per la partecipazione comune all’idea.

Come riferisce l’agenzia Reuters, la riproduzione cinese di Hallstatt si compone di residenze per i nuovi ricchi della città, a cui si aggiungono spazi e negozi per turisti. La piazza centrale, modellata su quelle del mercato austriache, espone fotografie caratteristiche del luogo, e c’è personale incaricato che costantemente innaffia e cura tutto il verde interno e circostante il villaggio. Funziona benissimo, secondo i costruttori cinesi e la delegazione austriaca in visita. I turisti cinesi nella Hallstatt originale praticamente non esistevano cinque anni fa, ma col progetto a quanto pare si è innescato un importante flusso, e a migliaia sciamano verso i pascoli alpini. È da vedere se anche alla Hallstatt ricopiata arriderà il medesimo successo.

Mario Monti ha deciso ed ha spiazzato un po’ tutti sulle nomine Rai attese da settimane in una situazione di stallo sempre più imbarazzante. Dei tre nomi avanzati due sono noti: per la presidenza Anna Maria Tarantola vice-direttore generale di Bankitalia dov’è ininterrottamente dal 1971, lombarda, formatasi alla Cattolica di Milano, laureata con Luigi Frey; per la direzione generale un altro esperto di questioni finanziarie, Luigi Gubitosi, già Ad di Wind Telecomunicazioni fino all’aprile 2011, dopo un passaggio in Fiat, ora country manager alla Bank of America per l’Italia, docente alla Luiss. Per il consigliere che dovrà rappresentare il Ministero dell’Economia, ha fatto il nome di Marco Pinto che viene dritto da quello stesso Ministero, dove è stato braccio destro di Tremonti. Quindi un altro guardiano dei conti.

Nel ’93, di fronte ad un bilancio Rai disastrato, con la prospettiva di portare i libri in Tribunale, i presidenti delle Camere nominarono i cinque consiglieri di amministrazione, chiamati poi “i professori”, i quali, secondo la legge allora vigente, elessero al loro interno l’economista Claudio Dematté presidente. Gli altri quattro erano Feliciano Benvenuti, amministrativista, Tullio Gregory, filosofo, Paolo Murialdi, giornalista, ed Elvira Sellerio, editore. Direttore generale, il giornalista Gianni Locatelli, ex direttore del “Sole 24 Ore”. C’era comunque una certa varietà di competenze, anche se quelle specificamente radiotelevisive non spiccavano molto.

Oggi,di fronte a difficoltà finanziarie meno drammatiche, forse, di quelle di un ventennio fa, il capo del governo avanza designazioni tutte finalizzate, culturalmente, al riassetto economico-finanziario. Fra l’altro, secondo la legge, il direttore generale deve essere proposto dal CdA all’azionista della Rai, ricevere da esso l’approvazione e convalidare in via definitiva la nomina. Per ora non si vede nelle nomine varietà di competenze, tantomeno in senso radiotelevisivo. Per i conti della Rai andranno anche bene, ma l’emittente di Stato non soffre soltanto sul piano economico-finanziario, è in crisi di identità come servizio pubblico, presenta una rete, Raidue, presso che in caduta libera, riesce a perdere talora il confronto con la stessa Mediaset colpita gravemente dalla crisi della raccolta pubblicitaria (crisi potenziata dalla perdita di Palazzo Chigi per Silvio Berlusconi), ma ancor più da una crisi di creatività da far tremare. E da far pensare che la prospettiva di un ingresso in Telecom non sia poi una prospettiva lunare.

Il governo manda in Viale Mazzini persone che sanno certamente maneggiare i conti e i numeri nel modo più efficace, ma che non hanno dimestichezza alcuna col telecomando o con la manopola della radio. Per ora molti punti interrogativi rimangono sospesi sul vertice della più grande azienda culturale del Paese che produce tante cose, informazione, cultura, intrattenimento, musica, spettacolo, sport, cinema, fiction, programmi per ragazzi, e l’elenco potrebbe continuare a lungo, un’azienda dalla grande rete tecnologica, passata al digitale terrestre senza avere capitali da investire in prodotti nuovi e in canali veramente nuovi. Sbarcheranno gli alieni, come dice qualcuno, o i marziani in Viale Mazzini e a Saxa Rubra?

Siamo oramai alla vigilia di Rio+20, il grande summit dell’Onu sullo stato del pianeta, che si terrà in Brasile dal 20 al 22 giugno, e sulle pagine dei giornali di tutto il mondo è già apoteosi della green economy. Come lo fu vent’anni fa lo "sviluppo sostenibile". Cambiano gli slogan, la retorica rimane identica. Formule magiche per tentare di conciliare irriducibili contraddizioni: l’aumento delle rese economiche e la salvaguardia degli ecosistemi. Capitale e natura non vanno d’accordo. Il primo s’è mangiato la seconda. Vent’anni di fallimenti, di promesse mancate, di convenzioni e di protocolli disattesi non bastano a far ammettere ai capi di governo e al mondo della politica ciò che è sempre più evidente: la crescita delle attività economiche mirate ad aumentare i profitti, accumulare la ricchezza finanziaria, investire in sempre nuove attività imprenditoriali non può che far peggiorare gli impatti del sistema umano sui cicli bio-geochimici della Terra.

Il metabolismo di questo sistema economico ci dice che il consumo di natura – sia per quanto riguarda i prelievi, sia sul versante degli sversamenti, delle emissioni e dei rifiuti – procede a ritmi insostenibili, nonostante i benefici venuti dalla prolungata crisi. La green economy revolution è una chimera: sostiene che sarebbe possibile un disaccoppiamento (decoupling) tra crescita illimitata dei profitti, dei salari, dei consumi e del Pil da una parte, e diminuzione dei materiali primari impiegati nei processi produttivi e di consumo (throughput). Il miracolo sarebbe opera, per l’appunto, delle tecnologie verdi e blu, ad impatto zero, capaci di imitare i cicli naturali, che notoriamente funzionano a cascata e a riciclo continuo. La dematerializzazione delle produzioni e la decarbonizzazione dell’energia sarebbe a portata delle innovazioni tecnologiche in essere: nanotecnologie, miniaturizzazione degli strumenti, bioingegneria, energie rinnovabili, ecc. applicate intelligentemente (smart cities) grazie all’informatizzazione dei processi.

Bio+Web, qui starebbe la svolta salvifica, la via di uscita dalla crisi, i nuovi posti di lavoro, il ritorno ad un rapporto armonioso con la natura, insomma la grande riconversione ecologica dell’economia, il new deal verde. I nostri figli troveranno un lavoro soft, bello e buono, noi mangeremo più sano, le città saranno un fiorire di orti urbani. Grazie alla green economy anche Obama (forse) riuscirà ad essere rieletto e speriamo che anche Ermete Realacci (ultimo il suo: Green Italy, Chiarelettere, 2012) possa avere più successo nel suo partito. Cos’è che non va, allora? The end of growth è il titolo di un libro di Richard Heinberg. Ma ci sono anche altri pensatori che la vedono allo stesso modo. Per esempio, Chris Marthenson, un analista finanziario che ha venduto tutto e che sul suo sito consiglia di comprare terra e metalli preziosi. La loro analisi si basa sulla convinzione che il Pianeta, allo stato delle tecnologie disponibili oggi e nei prossimi vent’anni, non è in grado di fornire sufficienti materie prime per fronteggiare l’impatto dell’aumento demografico e della moltiplicazione dei consumi. «Il problema non è solo il picco del petrolio, ma il picco di tutto il resto» per usare un’espressione dell’analista finanziario Jeremy Grantham.

La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti sulle "terre rare", necessarie proprio per produrre energie alternative e le tecnologie necessarie alla green economy, sembra confermare queste diagnosi. Non basterà nemmeno aumentare di un fattore 10 l’efficienza nell’uso delle materie prime per far fonte ad una crisi da rarefazione delle risorse naturali in un pianeta che ha esaurito il 95% delle riserve conosciute dimercurio; l’80% del piombo, dell’argento, dell’oro; il 70% dell’arsenico, del cadmio, dello zinco; il 60% dello stagno, del selenio, del litio; il 50% del rame, del manganese del bellerio. L’aiuto che ci può venire dalla ricerca scientifica è certamente indispensabile per tentare di sopravvivere il più a lungo possibile con ciò che abbiamo a disposizione, ma ciò sarà possibile solo se scienza e tecnologia saranno liberate dai meccanismi e dalle logiche del mercato, cioè dai loro committenti. Nemmeno un guru della sostenibilità come Jeremy Rifkin sembra rendersi conto del paradosso cui è immersa la green economy. Egli ha infatti sostenuto la necessità di un forte investimento finanziario a favore di idrogeno, rinnovabili, case intelligenti, smart grid, auto elettriche, poiché «senza investimenti non ci può essere crescita» (la Repubblica del 1 giugno).

Ecco che torna il «dilemma» (come lo chiama Tim Jeckson) della green economy: strumento, occasione, opportunità … per rilanciare e allargare il mercato ingrassando di denaro chi detiene i brevetti (da far pagare ai paesi in via di sviluppo; versione aggiornata del colonialismo, questa volta, del sapere) ovvero via di uscita dell’umanità per liberarsi dalle logiche ossessive e suicide, accrescitive, lineari, esponenziali … quindi insostenibili del mercato? Per dirla altrimenti; non basta un’altra tecnologia, servono nuove forme di collaborazione internazionale, «un nuovo paradigma economico», come afferma il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon, per consentire una vita dignitosa per sette (oggi) otto (nel 2030) o nove miliardi di esseri umani (nel 2050) e anche nuove politiche demografiche, che consentano alle donne il controllo della propria fertilità. Il nuovo rapporto del centro Nuovo modello di sviluppo di Pisa sulle Top 200 multinazionali ci dice che due terzi del commercio internazionale è controllato da loro. Non c’è nessuna tecnologia leggera che ci potrà liberare dal loro potere se non viene accompagnata da politiche forti.

Dovrebbero lavorare 2.222 anni Rosa Lanteri e i suoi due colleghi

della Soprintendenza di Siracusa, per pagare i danni che vengono loro chiesti per aver fatto il proprio dovere. Cioè preteso d'applicare la legge che vieta di cementificare il Porto Grande ricordato dagli scrittori dell'antichità. E lo Stato che fa? Invece che dare loro una medaglia d'oro fa impazzire quei suoi servitori tra le scartoffie. Senza precipitarsi a difenderli.

Il decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana del 30 settembre 1988 è chiarissimo fin dal titolo: «Dichiarazione di notevole interesse pubblico del bacino del Porto Grande e altre aree di Siracusa». Vi si dice che «constatato che lungo la costa che dal Castello Maniace va sino alla punta della Mola si gode lo spettacolo affascinante di Ortigia, dello stesso Castello Maniace, dello scosceso Plemmirio, e da lì la foce dei fiumi Ciane e Anapo e l'area delle Saline di Siracusa, il tutto dominato, sullo sfondo, dall'altopiano dell'Epipoli su cui si erge la fortezza del Castello Eurialo con la cinta delle Mura Dionigiane» e che «lo spettacolo di mare costituente l'insenatura portuale, oltre ad essere ricordato da Tucidide a Diodoro a Cicerone, è stato teatro di avvenimenti di fondamentale importanza»: il bacino è «un insieme unico al mondo». E va dunque vincolato. Dubbi interpretativi? Zero.

Tutte le zone nevralgiche di quella che è stata probabilmente la più importante città della Magna Grecia dovrebbero stare a cuore agli amministratori. Basti ricordare che già nel 1947 il soprintendente alle antichità Bernabò Brea ammoniva che il turismo dovrebbe essere «la maggiore risorsa economica di Siracusa. La cura della propria bellezza, il rispetto e la valorizzazione dei propri monumenti non sono quindi per Siracusa solo un lusso o l'adempimento di un dovere verso la cultura, ma un'intima ragione di vita e di benessere, anche dal punto di vista economico».Parole al vento. Per decenni il territorio è stato preso d'assalto dalla speculazione più insensata. Non solo nella parte nord dell'Ortigia, dove è tutto un ammasso di capannoni e ipermercati. Ma fin dentro la grandiosa cinta muraria di 21 chilometri fatta costruire dal tiranno Dioniso I, che secondo Diodoro impiegò sessantamila contadini e si spinse ad affiancarli nei lavori più pesanti così che «il muro fu terminato, al di là di ogni speranza, in 20 giorni».

In un paese serio, in una città seria, quelle mura sarebbero sacre e intoccabili. Tanto più che il Castello Eurialo che domina Siracusa è l'unica fortezza di quel periodo esistente al mondo. E invece? Invece, come denunciano Italia Nostra, Wwf, Legambiente, «Energie nuove» e mille altre associazioni che si riconoscono in «SoS Siracusa» guidata da Enzo Maiorca, hanno costruito dappertutto minando seriamente il Parco delle Mura Dionigiane. Villette a schiera sulla balza della Neapolis. Un centro commerciale ai piedi del castello. Un progetto per 840 alloggi di edilizia popolare in contrada Tremilia...

Tutti edifici tirati su in aree, sulla carta, di rispetto. Sul giornale «La Civetta» Marina De Michele ha denunciato la costruzione di una villetta (autorizzata, pare!) perfino dentro una «latomia», cioè un'antica cava teoricamente protetta. Per non dire di un progetto di lottizzazione alla Pirillina, un magnifico tratto di costa a sud, dove gli ambientalisti tra i quali c'è don Rosario Lo Bello, un prete cugino di Ivanhoe, il leader degli industriali protagonista della svolta nella guerra alla mafia, lottano contro la costruzione di un mega villaggio turistico di 80 mila metri cubi di cemento. Bloccato (per ora) dal vincolo provvisorio che riconosce la necessità di una riserva naturale.

Ma torniamo al Porto Grande. I porti turistici previsti sono in realtà due. Il primo, in fase di realizzazione, si sviluppa a partire dal già esistente Molo sant'Antonio, si chiama «Marina di Archimede» (ogni speculazione è meno vistosa con un nome poetico: c'est plus facile), ha dietro Francesco Caltagirone Bellavista, già finito in manette per il porto a Imperia e, dice il sito web, «prevede opere a terra per 49.467 mq e opere a mare su una superficie di oltre 97.000 mq» per 500 posti barca. Il secondo si chiama «Marina di Siracusa», ha dietro il gruppo Di Stefano, e allargandosi in mare perfino con un'isola artificiale di 40 mila metri quadri a partire dai ruderi di una fabbrica per la spremitura di olio, la «Spero», vorrebbe offrire ai suoi clienti anche 54 appartamenti.

La legge che vincola lo specchio d'acqua, prima citata, è chiara: manco a parlarne. Eppure, miracolo miracoloso, sia il primo sia il secondo porto sono riusciti ad avere qualche anno fa il via libera della allora soprintendente Mariella Muti, moglie dell'architetto Amilcare la Corte, progettista e direttore lavori di una edificazione sulla Balza di Acradina, lavori bloccati perché l'area è sotto vincolo paesaggistico. Quella della Muti è una storia esemplare: il 10 dicembre 2010, dopo aver dato l'ok anche al piano regolatore che prevedeva una zona di concentrazione volumetrica sul pianoro dell'Epipoli (dove c'è l'«inedificabilità assoluta»), se ne andò in pensione a 55 anni grazie alla legge 104 perché doveva accudire la madre malata. Cinque giorni dopo giurava come assessore comunale alla cultura del municipio sul quale per 7 anni aveva «vigilato». Pazzesco? Ma no, spiegò a Panorama: «Fare l'assessore non è poi così impegnativo».

Fatto sta che, fuori lei, il Dirigente generale dei beni culturali siciliani Gesualdo Campo si è messo di traverso con una nota durissima ai lavori e ai progetti in corso ricordando che non c'è deroga che possa consentire nuove strutture ricettive entro la fascia di 150 metri dalla battigia. Il che ha convinto «Aquamarcia» a fermarsi per capire meglio. Quanto all'altro porto, i nuovi dirigenti della Soprintendenza Rosa Lanteri (archeologia), Alessandra Trigilia (paesaggio) e Aldo Spataro (beni architettonici) hanno chiesto la revoca della concessione mettendo paletti rigidissimi.

Il verbale della conferenza dei servizi del gennaio scorso è netto. No al progetto perché «rispetto all'intervento principale, ovvero la realizzazione di un porto turistico, la prevalenza delle opere previste (vi è anche una piscina) è evidentemente l'edilizia». E poi no perché il porto ha «un parcheggio multipiano» e «ricade nella buffer zone» dell'Unesco e «non c'è alcuno studio del rischio tsunami» e altererebbe «lo sky-line della città» e via così … Tutte obiezioni basate sulla legge. Fatte invocando la legge. In nome dello Stato.La risposta? Un ricorso al Tar con la richiesta di condannare i tre funzionari a pagare 200 milioni di euro di danni. Pari appunto, per Rosa Litari e gli altri due, a quanto guadagnerebbero in 2.222 anni. Della serie: guai a te. E lo Stato? Non sarebbe il caso che battesse un colpo ai livelli più alti?

Alcuni giorni fa sono arrivato alla stazione Centrale con il Frecciarossa da Roma all'una di notte con un ritardo di circa un'ora e un quarto (dovuto a problemi tecnici); da conoscitore della stazione mi sono avviato verso una delle uscite laterali tramite la scalinata (e non seguendo il lungo percorso dei nuovi tappeti mobili) ma con grande sorpresa ho scoperto che le uscite verso via Andrea Doria erano sbarrate e così pure quelle vicine alla biglietteria. Era ancora aperta un'unica porta centrale presidiata da un poliziotto privato.

Il taxista mi ha poi spiegato che da tempo la stazione Centrale viene chiusa la notte per problemi di sicurezza; a mio parere non è corretto che la tutela della sicurezza sia fatta causando disagi ai cittadini o agli ospiti stranieri: mi sono immaginato qualche anziano oppure turista mentre vagava per la stazione alla ricerca dell'uscita, perché, ed è questo l'aspetto sconcertante, non vi era alcuna informazione visibile riguardo alla chiusura delle porte; e sarebbe semplicemente bastato un annuncio a bordo del treno!

E a proposito di informazione, quando arrivano a notte fonda treni con questi ritardi, non sarebbe giusto da parte di Trenitalia (o di GrandiStazioni) avvisare la centrale dei taxi che è in arrivo una grande quantità di passeggeri? Lo stesso taxista mi ha detto infatti che dopo una certa ora, difficilmente si trovano auto pubbliche fuori dalla stazione.

Enrico Grisanti

Informazioni ci vorrebbero, su questo non ci piove. Annunci sui treni o anche soltanto scritte in stazione, bene in vista. Per avvisare della chiusura ma, anche, come giustamente lei suggerisce, per allertare le centrali dei taxi di eventuali grandi ritardi. Sarebbe un servizio ai passeggeri non così gravoso, mi sembra: basterebbe che i responsabili tentassero, ogni tanto, di mettersi davvero nei panni di chi viaggia. Quanto alla chiusura in sé di quasi tutti gli ingressi, da frequentatrice abituale della Centrale devo dire che ne riconosco bene la necessità.

Da quando, infatti, alla funzione di capolinea dei treni vi si è affiancata quella di centro commerciale a tutti gli effetti, con negozi di ogni genere che, in verità, poco hanno a che fare con il viaggio, c'è una gran massa di mercanzia da proteggere nelle ore notturne, e con tutti gli ingressi aperti sarebbe molto più difficile. Ma conoscendo un poco l'ambiente che circonda la stazione, immagino che anche la sicurezza dei passeggeri possa, in effetti, venire garantita meglio a porte chiuse. E mi scuso se ho citato prima quella delle merci, ma così, purtroppo, mi pare vada la vita.

Isabella Bossi Fedrigotti

postilla

Abuso indebito di posizione dominante: in questi giorni si discute per altri motivi delle nomine dell’autorità antitrust, ma anche questa faccenda delle stazioni meriterebbe in teoria uno sguardo più attento. Il ruolo particolare e privilegiato di tutto ciò che è di pertinenza ferroviaria nelle città, deriva storicamente come noto dalla funzione pubblica svolta da questo genere di trasporto, oltre che dalla originale proprietà pubblica dell’ente e degli immobili. Però, come senza troppi giri di parole ci conferma anche il dialogo fra il lettore Enrico Grisanti e la signora Bossi Fedrigotti, la funzione trasporto collettivo non è più quella determinante nell’uso degli spazi, e lo è invece quella commerciale. Organizzata, come ormai ben sappiamo tutti, in quella logica gaglioffa che i creativi dell’architettura qualche anno fa avevano battezzato della “città temporanea”, ma che risponde tutto sommato al vecchio e autoritario modello dello shopping mall introverso, scaraventato in un ambiente centrale urbano. E una volta appurato questo aspetto, sorge spontanea la domanda: che diritto ha un gigante commerciale di occupare militarmente per fatti suoi ampie porzioni urbane, producendo automaticamente e prevedibilmente degrado, pericolo, insicurezza, forse anche crollo di alcuni valori immobiliari (di sicuro dell’abitabilità) dei quartieri? La risposta teorica ce l’hanno già data decine di studiosi, da Jane Jacobs a Anna Minton solo per citare una delle prime e una delle più recenti. Quella operativa la stiamo ancora aspettando, ma di sicuro non arriverà da certi centellinatori sottobanco di peso relativo dei cosiddetti stakeholders: mentre stiamo cercando sul vocabolario cosa diavolo voglia dire, qualcuno ci sta già chiudendo un’altra uscita di sicurezza (f.b.)

Recentemente nel dibattito sulla riforma complessiva del sistema di pianificazione britannico (che non comprende solo gli aspetti urbanistici, ma anche la legge sul localismo e la partecipazione, i provvedimenti per la casa legati all’assistenza sociale ecc.) si è inserita autorevolmente la Town and Country Planning Association, con un documento di ampio respiro che auspica un ritorno allo spirito originario delle Città Giardino, declinate secondo i contemporanei criteri della sostenibilità e della risposta ai nuovi obiettivi sociali, economici, climatici, energetici. Di particolare interesse, visto il tipo di interlocutore politico governativo, a dominanza Tory, era il sostanziale ottimismo con cui la TCPA sembrava leggere tutto il percorso di riforma prospettato e sin qui attuato dalla coalizione conservatori-liberali, in particolare riguardo alle potenzialità di un nuovo patto fra stato centrale e territori, fra pubblico e privato, fra esigenze ambientali e di crescita economica.

Anche altre associazioni, come la Campaign to Protect Rural England, o il prestigioso National Trust (che conta fra i suoi iscritti tale David Cameron) pur nella chiarezza delle posizioni rispetto alla riforma del Planning Framework avevano dato segnali analoghi. Ma questo atteggiamento, a ben vedere e abbastanza ovviamente nella logica conservazionista, si spiegava in sostanza “in negativo”, ovvero una volta messo al sicuro il proprio territorio di beni culturali e paesaggi da tutelare, il resto non importava gran che. Profondamente diverso il caso TCPA, che nell’evocare alcuni caratteri del programma originale di Ebenezer Howard (un po’ meno le prospettive stataliste delle New Town post belliche) indicava linee forti di possibile sinergia coi programmi neoliberali di nuova partecipazione pubblico-privata allo sviluppo nazionale, in una prospettiva di sostenibilità al tempo stesso ambientale ed economico-sociale. Ora però arrivano i fatti, che come tutti sanno aiutano a capire meglio cosa c’è dentro le dichiarazioni di principio.

Non paiono tanto consolanti, questi fatti. Lo si era visto già con i progetti in joint-venture delle eco-città all’epoca di Gordon Brown, miseramente crollati proprio studiandone la sostenibilità, spesso ridotta a trucchetti ridicoli come travestire burocraticamente da “recupero di area dismessa” la cementificazione di ettari di pascoli, o calcolare la riduzione delle emissioni senza tener conto dei trasporti privati. Ma si trattava appunto di progetti di iniziativa privata, anche se in collaborazione con comuni e contee. Quello che è stato pubblicato questa settimana dal Warwick District Council però è un piano urbanistico, o per meglio dire un allegato-linea-guida che rafforza (o dovrebbe rafforzare) gli indirizzi generali del nuovo piano urbanistico, oggi nella fase di dibattito pubblico. Il titolo riecheggia esplicitamente e volutamente proprio quello della TCPA: Garden Towns, Villages and Suburbs: a Prospectus. ma chi ci cercasse, con tutte le attenuanti del caso, una vaga ombra della carica utopica e riformatrice di Howard, sarebbe a dir poco deluso. Al massimo, siamo dalle parti di uno di quegli opuscoletti in stile new urbanism che qualche amministrazione americana prova cautamente a inserire nei piani locali, sperando di convincere gli operatori ad allontanarsi un pochino dal modello della villettopoli coatta. Ma niente di più.

Ecco, se la Città Giardino è evocata, in questa prima piccola prova “istituzionale” del nuovo corso urbanistico di centrodestra, lo è nei suoi aspetti storicamente deteriori, ovvero prima nella citazione del villaggio tradizionale britannico voluta a suo tempo e abbastanza casualmente da Raymond Unwin (e che non a caso tanti critici avevano sfottuto), e poi nel lodevole ma sconfitto modello di adattamento alla mobilità automobilistica introdotto da Stein-Wright a Runcorn, non certo prototipo di sostenibilità come voleva essere, ma madre involontaria di tutti i cul-de-sac dell’urbanizzazione dispersa. L’allegato al piano del Warwick District Council, insomma, più che insediamenti sostenibili evoca certa comunicazione immobiliare da televisioni private, naturalmente di alto profilo, e altrettanto naturalmente inserita in un programma di sviluppo locale anziché appesa al nulla di uno svincolo o di una rotatoria in mezzo ai campi.

Si legge anche dell’esigenza di coordinare casa, servizi, posti di lavoro, trasporti … ma pare proprio il minimo, trattandosi appunto di un documento urbanistico pubblico. Resta aperto il dubbio: ma saranno tutti così, questi piani sedicenti sostenibili? Queste Città Giardino che ricordano più la omonima lottizzazione speculativa immersa nel verde voluta in pieno ‘800 dal magnate Alexander Stewart, che non l’utopia sociale di Ebenezer Howard a cavallo fra i due secoli? Vedere per credere, disegnini compresi, nel pdf scaricabile di seguito.

Senza grandi divinazioni il futuro si può già vedere oggi. È sufficiente cambiare occhiali. Togliersi quelli della politica, che non ha mai fatto così tanta difficoltà a capire cosa succede. Ma via anche gli occhiali di quegli intellettuali immersi nel paradigma socio-economico che ci ha portato a una crisi generalizzata.

Cominciamo a scoprire che la necessità di cambiamento sta diventando un sentimento avvertito un po’ da tutti. Si registrano perfino improvvise "conversioni". Vediamo che c’è chi inizia a sostenere che un po’ di utopia forse fa bene alla salute e alla società. Siamo circondati da movimenti della società civile che riescono a imporsi: gli indignados, i tanti occupy, le piazze Nord-Africane, ma anche soltanto quelli che negli Usa hanno bloccato in un anno 166 nuove centrali a carbone. Oppure il Forum dei Movimenti per l’Acqua in Italia con i suoi referendum vittoriosi; i tanti comitati locali che, su altre tematiche, con passione ed energia fanno politica con il porta a porta, con la rete, e arrivano lontano.

Siamo sempre più d’accordo che il cambiamento serve e si comincia a intravedere, ma non ce ne siamo accorti fino a ieri, e tanti continuano a non capire. Per esempio se qualcuno dice che è necessario un "ritorno alla terra", una rivalutazione delle economie agricole, dei mestieri manuali e dell’artigianato, di sistemi produttivi e di consumo locali e sostenibili, viene immediatamente visto come un personaggio naif e fuori dal mondo. Ben che vada come una specie di guru che dice cose interessanti, ma pur sempre irrealizzabili. Invece è necessario cambiare occhiali, e allora si comincia a vedere. Si capisce che nel mondo tutto questo sta già avvenendo, da anni. Perché le buone pratiche che si possono mettere in atto riguardo al cibo, all’agricoltura, all’ambiente, agli antichi saperi che rimodernizzano i mestieri, sono tutte in essere in molte parti del Pianeta. Compresa la nostra Italia, che da questo punto di vista ha un serbatoio di memoria ed esempi virtuosi cui attingere senza pari. Molti giovani stanno distinguendosi, ma non soltanto loro. Più viaggio nel nostro Paese e più ne incontro: sensibilità per l’ambiente, nuovi progetti di vita partendo da tradizioni sopite o ritenute passate e marginali. Il segreto è semplice: se è vero che queste sono buone "pratiche", la gente allora può metterle in pratica. E i cittadini i cambiamenti li realizzano così: iniziando a fare. Chi, come quasi tutta la nostra politica, potrebbe semplicemente guardarsi attorno per capire cosa sta succedendo (e quindi come sarà il futuro), si rifiuta di farlo o è distratto da altro: indossa gli occhiali sbagliati. In questo momento la politica non intercetta chi sta cambiando il mondo a casa propria, non bisogna dunque escludere che è proprio da questi che nascerà la classe politica del futuro.

Il ritorno alla terra, foss’anche un diverso modo di fare la spesa, per coloro che vestono vecchi occhiali è utopico o "di nicchia". Ma sono sicuro che tante piccole realtà li travolgeranno, relegandoli, loro sì, in una nicchia dimenticata. Nessuno pensa - anche molti profeti del cambiamento - che queste persone stiano facendo vera economia. Ma oggi un pastore giovane riesce a fare più economia reale di tanti che vi sarebbero preposti, ve lo garantisco. «Finalmente la primavera sta arrivando», mi ha detto un entusiasta Ermanno Olmi una sera a margine di un convegno dedicato ai nuovi mestieri del cibo e dell’ambiente dove sono intervenuti tanti giovani già impegnati. Sottoscrivo in pieno, e gli altri si mettano il cuore in pace. La primavera sta arrivando: si può sentire, si può vedere.

Questa mattina il Consiglio di Stato ha accolto l’istanza cautelare di sospensiva presentata da Italia Nostra contro la costruzione del Crescent, l’enorme complesso condominiale che il Comune di Salerno ha autorizzato a pochi metri dal Lungomare e dal centro storico, nell’area più pregiata della città. Una mezzaluna di cemento alta più di 30 metri e lunga oltre 280 che deturperebbe per sempre il paesaggio creando una barriera tra il mare e il centro antico. “Oggi si è fatto un primo passo per il bene della città – ha commentato Raffaella Di Leo, presidente di Italia Nostra Salerno – Il Crescent è una scelta che non condividiamo perché non va nella direzione della tutela del paesaggio e del territorio”.

La IV sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno evitare che la prosecuzione dei lavori per la realizzazione di un edificio di cospicue dimensioni, in una situazione controversa, produca una trasformazione dello stato dei luoghi difficilmente reversibile e tale da determinare per la collettività un pregiudizio grave e irreparabile.

“Il ricorso è stato un atto dovuto - chiarisce Raffaella Di Leo - successivo alla mancanza di un confronto proficuo con la Pubblica Amministrazione di Salerno sull’intervento che si è programmato e si sta realizzando nell’area di Santa Teresa, interessata inoltre dalla presenza di un vasto bacino idrogeologico e del torrente Fusandola, deviato nel suo corso per permettere l’edificazione del Crescent”.

L’opera, allo stato eseguita per la parte delle fondazioni solo in alcuni lotti, è da oggi bloccata. Il Consiglio di Stato ha disposto, in via cautelare, di “sospendere l’esecutività della sentenza impugnata” (quella del novembre 2011 emessa dal Tar di Salerno ndr) e di fermare il cantiere, rimettendone la riapertura alla pronuncia di una eventuale sentenza favorevole nel merito.

“Aspettiamo adesso di poter entrare nel merito della vicenda che presenta diverse irregolarità”, conclude Raffaella Di Leo che ringrazia, oltre allo staff dei legali, i tanti salernitani che hanno supportato l’associazione ambientalista in questa battaglia legale a difesa del paesaggio dall’aggressione violenta del cemento: “In particolar modo i Figli delle Chiancarelle che hanno ampiamente contribuito alle spese per l'appello al Consiglio di Stato."

l'Italia arretra scendendo all'ottavo posto tra i paesi industrializzati, su ciascun cittadino il Censis stima un debito di 31 mila euro. Naturalmente la crisi ha ragioni strutturali profonde, europee, globali, ma può contare su un contributo italiano di assoluto rilievo. Nell'arretramento economico registrato dal centro studi di Confindustria, maturato nell'ultimo ventennio e oggi alimentato dal governo tecnico, non è affatto secondario il ruolo cruciale svolto dalla comunicazione, dal potere straordinario della televisione, dalla subalternità della sinistra alla sottocultura liberista e populista del berlusconismo.

Il micidiale triangolo economico, politico, culturale è operante ancora oggi quando un governo di centrodestra è finito e l'uomo che lo incarnava è stato sostituito dal governo dei professori. Lo dimostra la lottizzazione dei membri dell'Agcom (uno al Pd, due al Pdl, uno all'Udc) e di quelli dell'autorità della Privacy (uno al Pd, che avrà anche il presidente, uno alla Lega, uno al Pdl) decisi con un voto parlamentare, di camera e senato. Antipasto che probabilmente annuncia la prossima abbuffata quando i partiti si occuperanno delle nomine per il Cda della Rai.

Per sette anni l'autorità delle comunicazioni (Agcom) deciderà quali regole dovranno governare lo sviluppo di infrastrutture strategiche del paese: banda larga, frequenze, par condicio, televisione, mercato pubblicitario, il diritto d'autore on line. Le funzioni decisive di una democrazia moderna sono ancora affidate ai custodi berlusconiani dell'etere, a un funzionario della camera dei deputati gradito a Casini (offerto dal Pd), a un tecnico indicato dal partito di Bersani. Pennellata finale: Augusta Iannini, magistrato, moglie di Bruno Vespa, entra nell'autorità della privacy, probabilmente per controllare la cronaca al sangue di Porta a Porta. Non fosse vero sembrerebbe una scenetta di quelle che Beppe Grillo recita nelle piazze.

Diceva Peppino Impastato che “la mafia è una montagna di merda”, elegante accostamento però fuorviante almeno su un punto: l’una si può solo distruggere, l’altra si ricicla. Il problema della montagna si fa però particolarmente grave quando diventa urbana, intesa come rifiuto solido urbano, visto che ne muta radicalmente la composizione, ben diversa dalla puzzolente ma tutto sommato gestibile biomassa rurale. Ecco, proviamo a leggerlo così il futuro prossimo dell’umanità: sempre più urbana, e con quella montagna sempre più incombente, ingestibile, minacciosa, composita. Tradotto in cifre, il nostro stile di vita cittadino globale dieci anni fa voleva dire poco meno di tre miliardi di persone intente ad aggiungere ogni giorno su quel mucchio 640 grammi di schifezze composite ciascuno, dalle bucce alle pile scariche al giocattolo rotto (in totale, facendo un mucchio annuale unico, 680 milioni di tonnellate).

Ma il progresso, lo sappiamo tutti, è inarrestabile se sappiamo impegnarci. In questo caso l’impegno non è mancato di sicuro: oggi noi cittadini siamo un po’ più di tre miliardi, e orgogliosamente sforniamo ogni giorno un chilo e due etti di porcherie da smaltire (1,3 milardi di tonnellate l’anno). Ancora più luminoso il futuro della monnezza previsto per il 2025, quando i residenti urbani saranno 4,3 miliardi, alacremente intenti ad ammucchiare poco meno di un chilo e mezzo di rifiuti ciascuno al giorno, 2,2 miliardi di tonnellate l’anno. Per tornare alla mafia che si citava all’inizio, e ricordando certi interessi in certi metodi di gestione dei rifiuti, pare di vederli esultare davanti a cifre così: appalti truccati per gli inceneritori, una rete globale di discariche abusive, o magari eclatanti sinergie con le grandi opere pubbliche, basta pensare a quel tizio che usava l’autostrada Brescia-Milano in costruzione per stendere decine di chilometri di strato velenoso sotto l’asfalto, in eredità alle generazioni future.

Battutine un po’ sceme a parte, il tema è assai serio, come appare evidente accostando alcune immagini che di solito colpevolmente consideriamo separate. Sui giornali, alla televisione, o anche su questo sito, si parla spesso del rapporto fra urbanizzazione e progresso sociale in tutto il mondo, e la cosa appare abbastanza evidente nei casi di paesi emergenti come India o Cina. Dai villaggi rurali prima i lavoratori poi intere famiglie si trasferiscono nelle mega-città (o magari anche in centri intermedi) dove al minimo aumentano il reddito, le aspettative, iniziano a usufruire di qualche servizio e diritto. Cambiano anche stile di vita, come pure vediamo chiaramente anche solo guardando le immagini di slum e quartieri urbani: i loro rifiuti aumentano, e dalla semplice biomassa delle campagne diventano la composita e micidiale miscela delle città. Lo fanno intuire immagini e buon senso, lo confermano ahimè le cifre raccolte e elaborate dall’ultimissimo rapporto pubblicato per la serie Quaderni Urbani dalla Banca Mondiale, What a waste: a global review of solid waste management, dove in un centinaio di pagine con poche parole e molti dati si fotografa una tendenza. Come sempre al tempo stesso inquietante e ricca di potenzialità: la metropoli è una malattia che contiene storicamente in sé i principi della terapia.

Gli amici cinesi o indiani che respirando i fumi della propria motoretta o dei furgoni altrui si arrabattano giorno dopo giorno a migliorare il loro tenore di vita, iniziano ad ammucchiare sulla porta di casa qualcosa di sempre più simile a quanto sta davanti ai gradini del nostro ingresso la sera, e che l’amministrazione municipale si porta via nella notte. Noi nel frattempo, non paghi dei risultati ottenuti, ci diamo da fare per incrementare e diversificare quella quota pro-capite, e il problema monta, come sanno ormai abbastanza bene i cittadini napoletani, per esempio. Ecco: moltiplichiamo un caso Napoli per le quantità demografiche, territoriali, di consumi collettivi di qualche megacittà asiatica, e cominciamo a farci un’idea. Ma c’è anche qualcosa in più, raccontato nel rapporto What a waste, e che lega la montagna globale di monnezza urbana a un altro aspetto forse ancora più inquietante dei nostri tempi: la minaccia del cambiamento climatico.

Perché esiste un rapporto diretto, forte, immediato, fra la produzione di rifiuti solidi urbani e l’emissione di gas serra, le due curve crescono parallele. Le emissioni post-consumo vengono calcolate a circa il 5% di quelle globali, e in generale ne incorporano di fatto molte altre, ad esempio nel caso della carta (enorme componente della montagna di spazzatura urbana) le cui emissioni si verificano nel ciclo di produzione e distribuzione precedente lo scarto. In questo come in altri casi lavorare in modo integrato nella riduzione dei rifiuti solidi urbani significa anche risalire la corrente, per toccare i nostri modelli di sviluppo là dove si originano i problemi. Lavorare in modo integrato significa anche e soprattutto approccio generale: che tipo di esistenza urbana conduciamo, quali sono i suoi bisogni attuali e le risposte possibili, in quali tipi di spazi e contesti si svolge la nostra esistenza lavorativa, di consumo, di relazioni sociali, come abitiamo, come concepiamo la ricchezza e le sue manifestazioni esterne. Intervenire a partire dai rifiuti solidi urbani è anche una strada per verificare e rafforzare l’azione municipale in generale, sia programmatica che di erogazione dei servizi, e momento di verifica della macchina organizzativa.

Concludendo, al solito, con le raccomandazioni propositive, il rapporto indica alle città gli strumenti della

PARTECIPAZIONE e coinvolgimento dei cittadini attraverso programmi di informazione e educazione a comportamenti virtuosi (il riuso, riciclaggio ecc.)

MECCANISMI ECONOMICI per stimolare altri comportamenti virtuosi da parte di cittadini e imprese, dal differenziare le tariffe alla tassazione su alcuni prodotti particolarmente complessi da gestire nella loro vita

SENSIBILIZZAZIONE DIRETTA legando alcune azioni a momenti di vita della cittadinanza, per esempio il compost da rifiuti organici usato nei parchi pubblici, o negli orti di quartiere, o il decentramento di una parte del processo di riuso.

E c’è da stare sicuri almeno di una cosa: la capacità di adattamento dei cittadini, le loro potenzialità di migliorare le politiche urbane pubbliche con l’interazione, sapranno certamente nel giro di una generazione (basta vedere cosa sta accadendo nel campo della mobilità dolce) accelerare tantissimo i processi. Una ipotesi realistica: la montagna di spazzatura incombente forse non ci franerà sulla testa. Ma tocca darsi da fare da subito.

(il rapporto della Banca Mondiale è scaricabile qui in fondo)

Mi sono detta che bisogna andare all’Aquila, per vedere attraverso questa lente speciale come l’Italia rischia d’affrontare i disastri: il disastro che colpisce oggi l’Emilia, ma tante altre sventure. Andare all’Aquila è scoprire che storia sciagurata c’è dietro l’oggi, se non schiviamo tutti assieme il baratro in cui è stata gettata la bellissima capitale dell’Abruzzo, dopo la scossa che l’ha frantumata il 6 aprile 2009 alle 3 e 32 di notte. Mi sono accinta dunque a una sorta di archeologia del presente: per giudicarlo nelle sue stratificazioni, per non scordare l’Aquila pensando l’Emilia. Perché di questo muore ogni giorno di più la capitale abruzzese, e i 56 Comuni franati con lei: di una diffusa amnesia, di un’ipnosi senza fine.

L’Operazione Aquila è stata questo, e se non vai e non vedi continuerai a credere nella favola raccontata per tre anni da Berlusconi, scortato da un’avida schiera di affatturatori: da Guido Bertolaso al Tg1. Da gennaio le cose sono in mano al ministro per la Coesione territoriale, Fabrizio Barca, ma non è chiaro se lo scempio iniziale - l’esautorazione di poteri locali e sovrintendenze da parte della Protezione civile, la verità occultata - sia davvero combattuto. Gli affatturatori hanno ottenuto che nelle teste degli italiani (ma non più in quelle abruzzesi) la menzogna attecchisse: l’Aquila rinata, la catastrofe vinta.È il più gigantesco teatro d’illusioni che l’ex premier abbia apprestato, nella sua storia politica e prima ancora.

Far vivere gli italiani nell’illusione fu sempre il dispositivo centrale della sua macchina (Milano2 nacque negli anni ‘70 con lo stesso proposito: incapsulare gli abitanti in una specie di supercondominio, non esposto agli infiniti azzardi delle metropoli) e ogni illusionismo politico secerne l’osceno. Siamo abituati a chiamare osceni i festini di Berlusconi. Ma la vera pornografia è qui, nel cratere sismico dell’Aquila. Difficile descrivere diversamente un cataclisma trasformato prima in show dell’illusionista, poi in planetario spettacolo al G8 del 2009, poi in affare e malaffare. Questo è infatti pornografia: rappresentare in maniera compiaciuta, ossessiva, soggetti e immagini ritenuti sconci per stimolare eroticamente chi guarda. Qui si trattava di stimolare la stasi dei cervelli, seducendo non solo gli abruzzesi ma tutti noi con immagini che adulterassero la rovina, la sottraessero alla vista, offrissero calmanti anziché rimedi agli abbandonati e umiliati.

La pornografia suscita all’inizio eccitazione e sfocia presto in noia, quindi oblio: questo è accaduto nel cuore d’Abruzzo. La manovra è pienamente riuscita perché proprio oggi, che in Emilia bisognerebbe far memoria dell’Aquila e salvare l’una e l’altra, quasi nessuno nomina l’Abruzzo, confermando così che l’inferno di nuovo incombe. In una rappresentazione teatrale allestita in aprile da Antonio Tucci e Tiziana Irti (Mille giorni-racconti dal disastro dell’Aquila) la protagonista prima finisce in un accampamento, poi in una delle New Town pomposamente sparse attorno al capoluogo. Dice, accovacciata nella sua tenda blu: «Noi, qua, stiamo come dentro una bolla, e ci galleggiamo... Che fine faremo? Secondo me, prima o poi... Bum! scoppia!».

È veramente scoppiata, quando Berlusconi se n’è andato ed è subentrato Monti? Di certo son cambiati gli uomini: Fabrizio Barca difficilmente accetterà l’andazzo degli affatturatori. Ma se vai all’Aquila, nei borghi ormai invasi dall’erba, nelle città satellite, ti rendi conto che tutto è fermo, che l’operazione-depistaggio non è correggibile se non la denunci a chiare lettere. Che la devastazione è lì, cadavere inalterato che s’aggiunge ai 309 morti del 6 aprile. Esattamente come la descrive nel 2010 Sabina Guzzanti, nel film Draquila. Esattamente come la raccontano Salvatore Settis (Repubblica, La Pompei del XXI secolo, 7-4-12) o Tomaso Montanari, professore di storia dell’arte a Napoli (Il Fatto, 16-3-12), o il giornalista Giustino Parisse (sul quotidiano Il Centro), da quando nella sua Onna perse il padre e due figli.

Ogni atto di seduzione si prefigge di creare mondi artificiali: nel mito, è talento demoniaco. L’Aquila che ho visto è questo artificio, che dà il capogiro. È un enorme buco nero, un luogo di non-vita dove tutto è restato allo stadio di detrito, di avanzo. Esito, come davanti a un corpo vivisezionato, a elencare quel che s’intravvede negli squarci dei muri: una moka rimasta sui fornelli, le piastrelle illese d’un bagno, una foto appesa alla parete. L’antropologo Antonello Ciccozzi, dell’Università aquilana, spiega il naufragio della sua città, nel bel documentario di Luca Cococcetta e Iginio Tironi (Radici-L’Aquila di cemento): «Mentre in una situazione normale esiste un nucleo abitativo e un anello di circolazione, all’Aquila si è prodotto un anello abitativo e un nucleo di circolazione». La città com’era prima (come dovrebbe essere ogni pòlis) è cancellata, non solo dal terremoto: la sua metamorfosi in centro commerciale è possibile. L’Operazione Aquila è stata una macchina mobilitata contro l’idea stessa di città, di democrazia cittadina.

L’invenzione seduttiva di Berlusconi aveva questa diffidenza come fondamento: la diffidenza per la città che si fa comunità, che non è un mucchio di alloggi e individui ma relazione fra cittadini, spazio pubblico, incontro ineluttabile, e fecondo, con il diverso. Quando atterrò all’Aquila l’8 aprile 2009, e incontrò il sindaco Cialente, il Premier offrì subito un rimedio rivoluzionario che conosceva bene, dai tempi di Milano2. La soluzione erano le New Town, poi le casette o i cosiddetti Map, Moduli abitativi provvisori. Le New Town avrebbero regalato quel che i terremotati, secondo Berlusconi, amavano di più: non la pòlis, ma la tana casalinga. Le tane sarebbero nate presto: entro sei mesi, sotto la guida colonizzatrice della Protezione civile.

Son dunque andata a vedere le New Town: a Bazzano, Paganica, Onna. A volte sono immensi caseggiati spalmati su piastre antisismiche, rette da pilastri. Ce ne sono 19. Qualcuna è colorata di giallo-marrone, altre sono biancastre e paiono carceri. Quasi ogni borgo distrutto ha, accanto, uno di questi abitati paralleli. Altre volte sono casette, allineate come loculi. Le ho osservate a Paganica: vedo tendine, stradine, fazzolettini d’erba davanti alle porte, e nient’altro. Ogni diminutivo ha dietro di sé una ferocia, sempre.

Nulla accomuna le tane a una città, nulla accomuna le persone spossessate che incontro a cittadini. Il primo gesto di verità dovrebbe consistere nell’abbandono di queste parole - città, cittadini - per salvarle. Perché non c’è civiltà urbana senza piazza, chiesa, servizi comuni, luoghi di ritrovo. Senza quelle che Leopardi, nella Ginestra, chiama le conquiste dell’uomo: riconoscere l’immane danno che può nascere dalla natura, e per questo confederare gli uomini, stringere «i mortali in social catena», dar vita al conversar cittadino, diffidare di chi annuncia magnifiche sorti e progressive, e stipa l’umana gente in New Town attizzando oblio e paura: paura di riprendersi la città, di non superare il trauma, di sapere.

Le New Town sono anti-città: sono dormitori, fanno pensare all’autistico rinchiudersi in casa che i giapponesi chiamano hikikomori. Sono un’insidia perversa, inoltre. In pratica sono regalate, in comodato gratuito: il comodante le consegna al comodatario perché se ne serva per un tempo determinato, con l’obbligo di restituirle intonse. Non puoi portare mobili della tua casa. «La gratuità è un disincentivo a riappropriarti della vecchia abitazione - mi dice Luisa Ciammitti, aquilana, direttore della Pinacoteca Nazionale di Ferrara - blocca ogni rapporto tra pari». Se hai paura di nuove scosse, se non vuoi spendere, vivacchi senza comunità, ma vivacchi almeno. Naturalmente se sei solo e anziano, o non hai l’automobile, sei perduto: chi farà la spesa per te, nei lontani centri commerciali?

È vero quel che disse Berlusconi, quando fece il miracolo di casette e New Town: il panorama è fantastico, a Paganica vedi il Gran Sasso, il verde, gli alberi. E se non vai in estasi guardando dalla finestra, volti le spalle ed ecco l’altro panorama, più vero ancora del vero: il fluorescente rettangolo della TV. Da 40 anni, è il fulcro delle città berlusconiane. Già nel 1977, parlando con Camilla Cederna, un Berlusconi «con faccino tondo, nemmeno una ruga, un nasetto da bambola», s’apprestava a trasmettere la sua Telemilano (futuro Canale 5) che avrebbe irrigato Milano2. (Serve una città? Chiama il Berlusconi - Espresso, 10-4-1977)

È strana, la storia delle New Town. I ministri di Monti farebbero bene a studiarla, visto che chiedono meno spese. I costi delle Città Nuove per lo Stato sono stati smisurati: ben 2800 euro il metro quadro. Le abitazioni sono perfettamente antisismiche, è vero. Ma chi sogna la ricostruzione dell’Aquila e dei borghi (una decina ridotti in polvere) ha idee ben diverse. Si poteva risparmiare molto, mi dice Mario Ciammitti, un ingegnere che ristruttura edifici distrutti nella zona. L’alternativa c’era: i container hanno dato ottime prove nell’80 in Irpinia. «Oggi ce ne sono di molto accoglienti. Costano circa quattro volte meno delle New Town (800 euro il metro quadro) ed essendo davvero provvisori spingono a ricostruire la città perduta, e non modificano il paesaggio in modo definitivo».Quanto tempo si resterà invece nelle New Town? Quanto durerà quella che tanti, qui, chiamano «deportazione»? Una signora dislocata nelle tane di Bazzano con marito e due figlie mormora che la voglia di ritorno è grande, ma lo è anche il vantaggio della rinuncia: «E poi il terremoto ci ha cambiati dentro. Di continuo ci snerviamo, ci spazientiamo». Le New Town sono sedativi potenti, e questo spiega forse l’inane spreco. Non meno inane l’aeroporto di Preturo, inaugurato da Berlusconi il 2 luglio 2009 («Sarà il punto di partenza della rinascita dell’Abruzzo e della sua economia!»). È stato usato per i viaggi del Premier, poi per una visita di Paolo Barilla nell’agosto 2009. Costo: 30 milioni di euro. Dice ancora Mario Ciammitti: «Con quei soldi si potevano rifare almeno 100 abitazioni in Aquila centro». Lo stesso si dica per le operazioni-spettacolo: il G8, e ben tre auditori tra cui quello di Renzo Piano (costo: 6 milioni). Anche qui, Eventi e Show hanno ignorato i bisogni dei cittadini-non più cittadini.E L’Aquila vera, e i borghi? Fasciati in scatole di ferro, le case se ne stanno buie, scheletriche: insensate e dispendiose scatole, visto che tanti palazzi occorre abbatterli per rifarli. Giri nel centro dell’Aquila e senti un silenzio come in un non-luogo: non utopia ma distopia, mondo indesiderabile sotto tutti i punti di vista. Dagli spiragli dei portoni escono folate di freddo, eppure è quasi estate. Si capisce che da tre anni non sono abitate da calore. Ancor peggio a Onna, ma Onna ha avuto una fortuna in mezzo alla sfortuna. È quanto confida un dirigente della Proloco: «Senza l’aiuto dei tedeschi e del comune di Trento non ce l’avremmo fatta a ottenere le casette qui accanto, dove gli onnesi son restati vicini, i nuclei familiari non sparpagliati come in genere è avvenuto». Con gratitudine si evoca una persona, in particolare: l’ex ambasciatore Michael Steiner, che adottò il borgo dissolto. Che ha vegliato, puntiglioso, sulla sopravvivenza del sentimento di comunità. Che ha insistito perché nel villaggio artificiale ci fosse una chiesa di legno dove gli onnesi resuscitano una parvenza di conversar cittadino. Un eccidio avvenuto l’11 giugno 1944 - furono fucilati 17 abitanti - è all’origine di questa solidarietà. «La strage ha creato un legame», dice un onnese. Gli occhi gli si riempiono di lacrime, non sa come continuare. La gratitudine, il ricordo di chi si spese aiutando e sorreggendo: è una stampella che tiene in piedi quasi più dei ponteggi. Ovunque, sulle mura di case e palazzi, i vigili del fuoco hanno lasciato tracce del loro passaggio. Angeli, li chiamano qui.Ma la riscossa c’è. È scattata subito dopo la lettura delle intercettazioni sulla cricca che profittò del terremoto. Ricordo quando Carlo Bonini, su Repubblica, pubblicò la famosa conversazione fra Piscitelli, direttore tecnico dell’impresa Opere pubbliche, e il cognato Gagliardi, la notte del sisma («Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto»). Era l’11 febbraio 2010. Il 14 febbraio, a san Valentino, centinaia di aquilani sfondano le transenne della zona rossa presidiata dai militari, si mettono a raccogliere e catalogare detriti, ricominciano la città. Nasce il popolo delle carriole. È l’equivalente delle Trümmerfrauen («donne dei ruderi») che nel dopoguerra tedesco ricostruirono le città bombardate. Dice Eugenio Carlomagno, del comitato Centro storico da salvare: «Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c’è un teatro, non c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta». Speriamo che la loro battaglia sia ascoltata, a Roma. Solo così rinascono le civiltà, e il conversar cittadino.

«A i cittadini dovevamo dare questa risposta perché qui si trattava di una situazione di diritti negati». Ha detto proprio così il sindaco di Vibo Valentia Nicola D'Agostino felice per avere portato a termine un'operazione che in un altro Paese civile sarebbe stata impossibile: l'acquisto da parte del Comune, dal demanio, dei terreni sui quali, una dopo l'altra, per decenni, sono state costruite centinaia di case abusive. Ma così abusive da non poter approfittare né del primo condono del 1985, né del secondo del 1994 né del terzo del 2003.

Il problema degli abitanti fuorilegge di località Pennello, un tratto di costa calabrese stuprato da orrende palazzine costruite spesso praticamente sulla spiaggia e senza alcun rispetto per ogni norma idrogeologica (basti ricordare lo straripamento di vari torrenti ostruiti da costruzione demenziali e la conseguente alluvione del 3 luglio 2006 costata la vita a tre persone) è sempre stato quello: era impossibile condonare le loro schifezze di cemento.

In un Paese serio, il primo cantiere abusivo aperto su terreno demaniale, cioè appartenente a tutti i cittadini italiani, sarebbero arrivati i vigili urbani. E dopo i vigili i carabinieri. E dopo i carabinieri le ruspe. Per anni e anni, invece, decisi a non rischiare di perdere il voto degli abusivi alle elezioni, sindaci e amministratori hanno fatto finta di non vedere. Spingendo la gente a pensare che fosse loro consentito tutto. E il problema è andato in cancrena.

Cosa fare? La soluzione individuata dall'amministrazione è stata quella di convincere il demanio a cedere al municipio i 150.550 metri quadrati di terreni pubblici (un'«opera di ingegneria giuridica», secondo laGazzetta del Sud) sui quali sorgono le palazzine fuorilegge. E il demanio, dopo lunghe resistenze, non solo ha ceduto, ma dopo avere concordato un prezzo di 2 milioni di euro ha chiuso giorni fa facendo un mega sconto. Prezzo finale: un milione e 200 mila euro. Tirati fuori per metà dagli abusivi, che versando 20 euro al metro quadrato (20 euro!) adesso sono certi che il nuovo proprietario del terreno non romperà più le scatole in tribunale contro di loro, e in parte dal Comune che ha utilizzato i fondi Pisu, Progetti integrati di sviluppo urbano. Soldi appartenenti a tutti cittadini italiani. E soprattutto anche a quelli di Vibo Valentia che hanno sempre rispettato la legge e che si ritrovano nella parte dei cornuti.

Una soluzione dopo tanti decenni andava trovata? Certo. Ma è insopportabile, agli occhi degli italiani che seguono le regole e non costruiscono su terreni altrui, è quella affermazione del sindaco sui «diritti negati» agli abusivi. E più ancora l'esultanza di un parlamentare della Repubblica italiana, il pidiellino Francesco Bevilacqua che a dispetto del suo ruolo e della sua professione (insegnante!) è arrivato a dire che «la zona che adesso è nel degrado dovrà tornare al suo splendore». Splendore? Dopo quella violenza cementiera? Ma la domanda più urgente è un'altra: il catasto e la Corte dei conti sono d'accordo con questa soluzione?

Titolo originale:Target Looking at Downtown Denver Sites for Urban Store– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Target sta mettendo gli occhi sul centro di Denver per realizzare un suo negozio, nel quadro della migrazione del marchio verso le zone urbane. La compagnia di Minneapolis seconda una fonte informata del settore, sta già anche discutendo di questa possibile area a Denver. Il primo di questi punti vendita urbani di nuova concezione, chiamati City Target, si inaugurerà il mese prossimo a Chicago nel centrale Loop. Ne sono in calendario altri per Los Angeles, Seattle, San Francisco e Portland, Oregon. La Target ufficialmente non conferma né smentisce il progetto per Denver. “Per quanto riguarda Denver, non ho informazioni particolari" ha dichiarato la portavoce Molly Snyder.

Ma alcune fonti locali che seguono gli scenari immobiliari commerciali del centro spiegano che sono in corso negoziati. Una delle aree prese in considerazione sarebbe l’isolato fra la Quindicesima, la Sedicesima e le perpendicolari Welton e California; ottima posizione fra Denver Pavilions e Hyatt Regency Denver al Colorado Convention Center. “Non posso sicuramente parlare in modo preciso di cosa sta succedendo” commenta Jim Kirchheimer, vicepresidente della Downtown Denver Partnership. “Ma stiamo discutendo, e l’interesse è reciproco. Ci piacerebbe molto avere un marchio del calibro di Target in centro a Denver”.

Il formato City Target è un po’ più piccolo del corrispondente suburbano, dai 6.000 ai 9.000 metri quadrati rispetto agli oltre 12.000 dei normali negozi Target. Anche l’offerta commerciale è diversa. Nei City Target ci sono meno prodotti e con una composizione più mirata all’abitante urbano e ad altri che frequentano quel luogo per altri motivi. “Per esempio invece di proporre l’arredo giardino da sei pezzi si trova quello da tre per spazi più piccoli” spiega Snyder. “la confezione di carta igienica invece che da 24 rotoli è in pacco da sei”. È almeno da 2004, che la Target sta discutendo di questa localizzazione centrale a Denver e soprattutto per l’isolato fra le vie Welton e California. Ma va detto che in generale la spinta di Target verso le zone urbane si deve alla parallela tendenza all’incremento residenziale nei centri.

A Denver questa popolazione centrale oggi è di 63.000 abitanti con un incremento del 60% dal 2000. In centro lavorano anche 110.000 persone, e ogni anno ci vengono anche 12,8 di turisti e frequentatori di convegni, secondo i calcoli della Downtown Denver Partnership. “Credo che in centro Target possa riuscire benissimo” commenta l’esperto immobiliare Stuart Zall della sede della Zall Co. Di Denver. “Occupa un vuoto. Col tipo di densità residenziale attuale, a cui si aggiungono turismo e convegni, un negozio Target attira le masse”. I City Target comprendono anche un supermercato alimentare, servizio che da lungo tempo sia spettava in centro. “Denver potrebbe essere una scelta importante per Target” commenta Paul Washington, direttore esecutivo del Denver Office of Economic Development, “specie considerando la crescita di popolazione, la composizione demografica, e il fatto che si tratta di una delle città più vivaci del paese”.

postilla

Anche se ovviamente il marchio Target non è presente in Italia, e alcuni aspetti, contesti e meccanismi sono diversi dai nostri, anche di molto, l’articolo richiama almeno un aspetto che ci riguarda da vicino: lo strapotere della grande distribuzione nel determinare assetti urbani. E non mi riferisco alla sola prepotenza dei ricatti “variante urbanistica in cambio di posti di lavoro” ben nota a chiunque abbia vissuto o studiato tanti casi, ma anche agli effetti striscianti, forse inconsapevoli da parte degli operatori. Ovvero la suburbanizzazione della città, prima con lo strumento diretto della pressione da traffico automobilistico, poi con quello meno diretto ma altrettanto potente della trasformazione dei consumi di spazio-tempo, e infine con l’affermazione graduale di un modello di vita tale da azzerare alcuni modelli di interazione urbana, o confinarli nelle riserve indiane delle zone pedonali in centro storico, col saxofonista a gettone e i negozi griffati. È questo il genere di trasformazione strisciante di molte periferie, e avviene con la solita allegra ignoranza di una intera classe politica e amministrativa, tutta intenta a riempirsi la bocca di sciocchezze e banalità. Per non parlare del vuoto culturale di chi, davanti all’invasione degli ultracorpi, spesso (magari in ottima fede, ma senza speranza: studiate la storia!) evoca improbabili ritorni a modelli improponibili o caricaturali, a partire dal centro storico delle botteghe tradizionali, sperimentatamente incompatibile con gli stili di vita attuali e i rapporti casa-lavoro-tempo libero. La risposta, come sempre, non è una ricettina della nonnina, ma discutere, anche aspramente, di idea di città, e provare anche a guardarsi attorno, nel frattempo (f.b.)

Le immagini del degrado abissale di Palazzo Reale mandate in onda da Sky equivalgono ad un salutare e ben assestato calcio nel sedere. Non che non esistano luoghi monumentali di Napoli messi anche peggio: la climax dello sfascio del patrimonio storico e artistico è inesauribile. Quel che è significativo, e perfino simbolico, è che ad esser ridotto in questo stato sia proprio Palazzo Reale: e non solo perché è come se a versare in condizioni allucinanti fosse Palazzo Pitti a Firenze, o Palazzo Madama a Torino.

Il punto è che Palazzo Reale è la sede della Soprintendenza per i beni architettonici, paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologici per Napoli e provincia, retta in questo momento da Stefano Gizzi.

Quale credibilità può avere un’istituzione che non riesce, non sa o non vuole tutelare nemmeno la propria (straordinaria) sede? Come non immaginare che qualunque cittadino napoletano che da oggi riceva un richiamo da parte della Soprintendenza non risponda: «medico, cura te stesso»?

O il soprintendente Gizzi intenderà forse concedere il bis delle sue stupefacenti dichiarazioni sui Girolamini, dicendo che anche questa volta si tratta di un complotto ordito dalla stampa per favorire chissà quali riposti interessi, e che Palazzo Reale è in verità tenuto come Versailles? E che almeno ci si risparmi l’intollerabile ipocrisia della rituale giustificazione economica, per cui la cronica mancanza di fondi giustificherebbe lo sfascio.

Qualcuno ricorda la ‘decorazione’ della cupola della sala prove ipogea del San Carlo, denunciata da questo giornale nell’ottobre del 2010? Un dosso di cemento, irto di cavalli dalla testa di alluminio e compresso tra due alti muri di pietra che lacera la prospettiva architettonica del Palazzo Reale visto da Castel Nuovo, vulnerando un segno fondamentale delle vedute che hanno consegnato a tutta Europa il ritratto di Napoli. I soldi per ferire l’identità storica di Palazzo Reale si sono trovati: come sostenere che non ce ne sono per la manutenzione ordinaria?

E cosa dire della mostra sulla regina Margherita, tenutasi esattamente un anno fa a Palazzo Reale? Una docu-fiction ‘culturale’ composta da tavole apparecchiate con pasticcini veri, grandi schermi che proiettavano improbabili dialoghi ‘storici’, e molti oggetti scelti perché ‘facevano Savoia’. Una mostra senza progetto scientifico, realizzata da una fondazione che produce format espositivi sui soggetti più disparati. E soprattutto una mostra il cui allestimento invadente e grossolano devastava le sale storiche di Palazzo Reale, coprendone gli arazzi e rendendo impossibile il godimento di molti capolavori pittorici.

Ebbene, per quella mostra i soldi si sono trovati eccome. Il Palazzo Reale di Napoli ha dunque tutte le carte in regola per diventare il simbolo della ‘valorizzazione’ all’italiana: lasciar andar in malora tutto il nostro patrimonio all’infuori di qualche sala rileccatissima che possa servire da location per Grandi Eventi.

La vera domanda suscitata dalle immagini di Sky non è «come possiamo cambiare le cose?», ma: «perché, in fondo, non ci interessa cambiarle?». Finché non rispondiamo a questa domanda, nulla davvero cambierà.

I beni culturali, "binomio malefico, un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote riforme verbali; un enorme scatolone vuoto entro ci avrebbe dovuto trovar posto, secondo l'aulico programma spadoliniano, l'identità storica e morale della Nazione, salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l’ultimo o penultimo dei Ministeri». Parole di Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, che nel 1983 dedicò un libro e una mostra alla Protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico.

Quel concreto progetto, ispirato dalla semplice idea che prevenire è meglio che curare, stimava le spese (allora) in qualcosa come 2.700 miliardi di lire (5 miliardi di euro), ma cadde nel vuoto. Afflitti da amnesia cronica, i nostri governi fingono di ignorare che l’Italia è un Paese sismico, pronti a stracciarsi le vesti a ogni scossa o a inventarsi soluzioni placebo.

L’incapacità di prevenire i danni dei terremoti non si può certo attribuire all’attuale ministro Ornaghi, ma fa un certo effetto sapere che a coordinare gli interventi del suo ministero non sarà un Soprintendente ma un prefetto, e che dopo i primi ottimismi («numeriamo le pietre e ricostruiamo tutto», 21 maggio) si è passati alla disperazione («sospese le verifiche sui monumenti », 30 maggio). O che, dopo le lesioni alla Basilica del Santo a Padova e l’allarme sulla Cappella degli Scrovegni, le notizie “tranquillizzanti” vengano non da un Soprintendente, ma dal Comune, lo stesso che ha autorizzato a un passo dalla Cappella la costruzione di due alte torri residenziali, le cui fondamenta profonde accentueranno le infiltrazioni d’acqua, già presenti a pochi centimetri dagli affreschi di Giotto.

Ma la causa principale di queste e altre (peggiori) disfunzioni dei Beni culturali non è Ornaghi, bensì l’intrinseca debolezza di quel ministero. Inventato da (o per) Giovanni Spadolini nel 1975, si chiamò ministero per i Beni culturali e ambientali, dizione che restò in piedi fino al 1999, anche dopo il 1986 quando fu creato un separato ministero dell’Ambiente.

Per tredici anni, dunque, vi fu sulla carta un “ambiente” (competenza di un ministero) senza “beni ambientali” (competenza di un altro ministero), e per converso i “beni ambientali” senza “ambiente”. In questo contesto traballante, i Beni culturali furono il fanalino di coda di ogni governo, con ministri e sottosegretari spesso imbarazzanti; è su questa scia di marginalizzazione ormai strutturale che, forse senza intenzione ma certo senza attenzione, Ornaghi divenne il solo ministro decisamente non-tecnico in un governo “tecnico”.

Intanto, si gonfiava negli anni la struttura del ministero, moltiplicando burocraticamente le direzioni generali e aggiungendo le direzioni regionali. In compenso le soprintendenze, glorioso baluardo della tutela sul territorio, venivano minate e delegittimate (anche con pretestuosi commissariamenti), svuotate di personale, borseggiate di risorse, lasciate alla deriva.

Lo sfortunato ministero nacque dalla costola della Pubblica istruzione, dove a dire il vero stava molto bene: anche un ministro come Benedetto Croce, più interessato alla scuola, seppe varare la prima legge sulla tutela del paesaggio (1920).

Si può ancora salvare un ministero ormai agonizzante? Tre proposte diverse sono state fatte negli scorsi anni. Lettera morta è rimasta la prima (Argan - Chiarante), che voleva accorpare i Beni culturali con Università e ricerca, altro “derivato” della Pubblica istruzione. L'idea era di puntare sull’intersezione fra professionalità e campi del sapere, esaltando la ricerca sul campo (essenziale alla tutela), la didattica (per esempio del restauro) e il valore educativo del patrimonio culturale.

Passò invece la riforma Veltroni (1999), che ai Beni aggiunse le Attività culturali, intendendo per tali anche sport, spettacolo e turismo: infelice connubio, che comportò una nuova marginalizzazione del core business del ministero.

Resta in campo la terza proposta, che va anzi rilanciata con forza: formare un ministero forte e funzionale accorpando Beni culturali e Ambiente. Questo fu il progetto di Giovanni Urbani, teso a «una politica della tutela fondata sul rapporto fra beni culturali e ambientali» (1989). Io stesso l’ho riformulato, nel mio libro Paesaggio Costituzione cemento (2010) e altrove; e vi è tornato ora Gian Antonio Stella sul Corriere del 25 maggio, proponendo di aggiungere le competenze sul Turismo.

L’accorpamento ambiente-paesaggio-beni culturali è ovvio: lo mostrano vicende recenti, dalla discarica che minacciava Villa Adriana a quelle a ridosso del Real Sito di Carditello o di Pompei. Lo mostrano le cento fragilità del Paese, dal rischio sismico a quello idrogeologico, che richiedono interventi organici e coordinati di recupero e prevenzione.

Ai disastri sismici stiamo reagendo in modo assai improprio, ridistribuendone i costi sui cittadini con l’aumento della benzina (“tassa sulla disgrazia”) e ipotizzando un’assicurazione obbligatoria contro i terremoti. Bizzarro palliativo, che comporta la finale abdicazione dello Stato al suo compito costituzionale primario, la messa in sicurezza del territorio.

Il teatrino dell’“assicurazione obbligatoria” pretende di archiviare decenni di inadempienze dietro uno scaricabarile indegno di questo (e di qualsiasi) governo. Se lo Stato ha speso 137 miliardi di euro per i danni sismici negli ultimi 40 anni, quale compagnia privata di assicurazione coprirà cifre analoghe? E a quali costi per i cittadini? Che farà chi è troppo povero per pagare le alte tariffe che verrebbero richieste? E chi pagherà l’assicurazione degli edifici abusivi o fabbricati con materiali scadenti, il costruttore (colpevole) o il proprietario (spesso innocente)? Quale stato di polizia va instaurato per obbligare i riluttanti a pagare, anche se disoccupati, il dovuto balzello alle imprese private? 137 miliardi, dopo tutto, sono più o meno l’ammontare dell’evasione fiscale in un solo anno.

100 miliardi, ha dichiarato Passera pochi giorni fa, saranno spesi per le “grandi opere”: ma la prima e maggiore “grande opera” è la messa in sicurezza del territorio e del patrimonio culturale. O no?

La ventilata assicurazione obbligatoria contro i terremoti è una prova d’orchestra: se passa, la prossima mossa (inevitabile) sarà l’assicurazione obbligatoria sulla salute, cioè l’abolizione dell’assistenza sanitaria pubblica, la fine del diritto alla salute sancito dalla Costituzione (art. 32).

Ma proteggere la vita dei cittadini, il paesaggio e l’ambiente è un valore costituzionale primario e assoluto. Richiede un’Italia memore di se stessa e non ansiosa di svendersi a compagnie private.

Richiede un lavoro di prevenzione, necessariamente pubblica, che deve essere guidato da un forte ministero del Patrimonio, che unisca ambiente, paesaggio, beni culturali.

Anche il turismo, purché ci ricordiamo che non è per i turisti, ma per noi stessi, che la Costituzione ci impone la tutela della nostra storia e del nostro territorio.

Postilla

L’analisi di Salvatore Settis è, come sempre, drammaticamente puntuale e quasi del tutto condivisibile.

Sicuramente lo è per quanto riguarda la situazione di crisi ormai irreversibile del Mibac che la gestione del terremoto emiliano sta puntualmente sottolineando. Ormai completamente incardinati nella struttura della protezione civile, gli organi territoriali preposti alla tutela sono scomparsi, in questi giorni, dal territorio e l’attività del Direttore Regionale si riduce quasi esclusivamente alla sottoscrizione di ordini di demolizione.

Sembra quasi che l’esercizio della tutela sia considerato ostativo o comunque incompatibile con le più urgenti iniziative di primo soccorso e messa in sicurezza.

Ma se è ormai urgente una riforma del Ministero, la liaison suggerita con il turismo torna ad appiattire le finalità del nostro patrimonio culturale proprio su quell’aspetto mercantile che ha rappresentato una delle derive più evidenti di questi ultimi lustri.

Dietro la concessione di Settis (“anche il turismo”), si intravede il tentativo di respingere le critiche di sempre: non ci sono più risorse per mantenere decentemente l’insieme del nostro patrimonio culturale, inutile fare le anime belle. Tanto vale rassegnarsi cercando di sfruttare la coperta offerta dalle entrate turistiche. Che si tratti di una liaison dangereuse è ben noto allo stesso autore che sui rischi di un turismo rapace e dissipatore si è espresso sempre con chiarezza esemplare.

Ma la situazione è forse così grave che occorre chinarsi ad un compromesso. Forse, ma i dubbi restano e non solo sui pericoli che un turismo sregolato possa rappresentare su di un patrimonio così fragile come il nostro, ma sulla stessa efficacia per entrambi i settori di un legame contronatura.

Non si tratta tanto di demonizzare il turismo, ma mentre quest’ultimo rappresenta un’attività a pieno titolo economica (la prima industria mondiale), la tutela del patrimonio è e deve restare un servizio al cittadino pari ad altri quali istruzione e sanità. E per conseguenza essere governata da altre logiche che non siano quelle del profitto.

Piuttosto sarebbe necessario e urgentissimo che, in un rapporto chiaro ed equilibrato, un’industria turistica finalmente aggiornata nelle strutture e nella stessa cultura imprenditoriale, contribuisse con fondi finalmente adeguati alla salvaguardia di quel patrimonio e di quel paesaggio che ne costituiscono la prima risorsa. La discussione è aperta. (m.p.g.)

Basta girare con gli occhi aperti per il nostro Paese, anche e soprattutto nelle sue parti più popolose, per accorgersi di quante costruzioni (capannoni, industrie, palazzoni, caserme, magazzini, eccetera) risultino inutilizzate, sottoutilizzate o più frequentemente abbandonate al degrado.

La natura «rubata»

Se poi consideriamo, nella ricorrenza di oggi della Giornata Mondiale dell'Ambiente e a pochi giorni dalla Conferenza Rio +20, la situazione planetaria, vediamo che, se nel 1700 il 95% dell'intera biosfera si trovava in condizioni di naturalità e solo il 5% mostrava i segni delle trasformazioni apportate dall'uomo, oggi la maggioranza delle terre emerse risulta interessata da aree agricole e urbanizzate, meno del 20% si trova in uno stato seminaturale e solo un quarto può essere considerato ancora in uno stato di naturalità.In Italia — con una densità di 200 abitanti al chilometro quadrato assiepata soprattutto nelle scarse aree pianeggianti — il fenomeno della trasformazione cementizia e asfaltica del suolo (che secondo una ricerca del FAI e del WWF invade 33 ettari al giorno) oltre a divorare aree naturali e agricole, disperde sul territorio le scorie di un irrazionale e bulimico sviluppo edilizio.

Il progetto

Per affrontare questo inaccettabile spreco di risorse e di suolo, il Wwf lancia oggi, con l'aiuto di docenti universitari ed esperti, la campagna «Riutilizziamo l'Italia», invitando cittadini e «addetti ai lavori» a segnalare un'area o un edificio dismessi o degradati da recuperare a fini sociali e ambientali. «Lo scopo di questa iniziativa — dichiara l'architetto Adriano Paolella, direttore generale del WWF Italia — è di avviare il più grande processo di recupero del territorio italiano, dopo quello che nel Dopoguerra ha interessato positivamente i centri storici salvandoli dal degrado che in altre nazioni ne ha devastato le fisionomie in nome di uno sviluppo disordinato e insensibile».

Il patrimonio «inutilizzato»

I dati sul patrimonio inutilizzato o abbandonato che potrebbe essere recuperato con vantaggi incalcolabili sull'occupazione e sulla crescita sostenibile, sono impressionanti.Su 29 milioni di abitazioni, quasi 5 milioni risultano non occupate o case di vacanza sottoutilizzate. Solo a Milano sono 3,5 i milioni di metri cubi di edifici pubblici o privati non più in uso (ex fabbriche e scali ferroviari, cascine abbandonate, cabine elettriche) di cui 880.000 sono uffici sfitti.Sono 6.977 in Italia i chilometri di ferrovie chiusi e abbandonati con tutte le infrastrutture connesse (caselli, stazioni e relativi parcheggi, depositi e binari di deposito).Nell'immenso universo nazionale di strutture militari non più in uso, solo in Sardegna ci sono aree e edifici demaniali per 144.230 ettari, per una superficie costruita di 467.000 metri quadrati e un volume di circa 4,5 milioni di metri cubi.

Infine, i capannoni al centro delle polemiche legate ai disastri del sisma. Nel nostro Paese, secondo l'Agenzia del Territorio, esistono 701.978 capannoni che coprono con le loro pertinenze (annichilendo aree rurali e paesaggi di pregio) 2.000 km quadrati, 17 volte l'estensione della città di Napoli, soprattutto in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. In un nuovo e rivoluzionario quadro di sviluppo sostenibile, il recupero e riutilizzo di queste entità partendo dal basso e da iniziative spontanee, potrebbe avere grandi effetti di incentivazione dell'occupazione giovanile e di freno al debordante consumo di suolo.

I casi virtuosi

Campania: a Napoli, il Parco «Lo Spicchio» trasformato dal WWF con un cofinanziamento del Comune, da «discarica urbana» a laboratorio didattico. Nel cuore del quartiere Vomero, 14.000 mq dell'ex gasometro si trovano in via di riqualificazione per creare un Parco Agricolo.

Emilia: a Reggio Emilia il complesso Ex Polveriera, riconvertito da area militare in parcheggio, sede di associazioni cittadine e un centro per disabili.

Friuli Venezia Giulia: grazie ai fondi di un progetto Life dell'Ue, il Comune di Rivignano (Udine) sta ricostruendo l'antico habitat della pianura friulana, creando 32 ettari di foresta planiziaria con essenze autoctone su un'area sovra-sfruttata dall'agricoltura intensiva.

Lazio: l'ex mattatoio posto nel centro storico di Roma, inattivo dagli anni ‘70,ospita oggi la «Città dell'altra economia», il museo di arte contemporanea MACRO, la facoltà di Architettura di Roma Tre e un centro sociale.

Lombardia: il Parco delle Noci a Melegnano (Milano), nato su un'area prima agricola, poi trasformata in industriale e infine abbandonata al degrado e alle discariche, è oggi uno spazio verde con stagni, piantagioni di alberi e ambienti naturali padani, dedicato all'educazione ambientale. A Trezzo sull'Adda, nell'Oasi WWF Foppe di Trezzo ricavata su una ex cava di argilla, si è ricostituito l'ambiente originario della Pianura Padana con tutta la flora e la fauna originaria.

Toscana: sottratta al degrado e all'avanzata di un caotico sviluppo urbano, l'Oasi WWF Stagni di Focognano nella piana di Firenze, è divenuta un punto di eccellenza per la sosta e la nidificazione di molti uccelli migratori, soprattutto aironi di varie specie, oltre che punto di ritrovo e studio per i ricercatori.

Veneto: i 48 ettari dell'antico Forte Marghera presso Venezia, non più militare dal 1966, ospitano attività artigianali e le sedi di numerose associazioni. Attualmente questo spazio rischia di essere oggetto di velleità speculative che ne altererebbero l'attuale funzione pubblica.

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