“Stiamo cercando di proteggere le persone, e non il loro posto di lavoro. Deve cambiare l’atteggiamento delle persone. Il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso sacrifici”. Su questa frase, affidata dal ministro del Lavoro Elsa Fornero al Wall Street Journal (“Work isn’t a right; it has to be earned, including through sacrifice”), si è scatenata la bufera. Le reazioni politiche hanno circondato la titolare del Welfare e così la Fornero è stata costretta a precisare: “Il diritto al lavoro non può essere messo in discussione perché è riconosciuto dalla Costituzione”.
La precisazione non è ufficiale. Ma fonti del dicastero precisano che nell’intervista la Fornero ha fatto riferimento “alla tutela del lavoratore nel mercato e non a quella del singolo posto di lavoro, come sempre sottolineato in ogni circostanza”. Insomma: il diritto è del lavoro, non del posto di lavoro. Ma non è bastato per placare la reazione dei partiti, in particolare quelli di opposizione. Antonio Di Pietro ha parlato di asineria politica, la Lega si chiede se il ministro abbia giurato su Topolino, il segretario di Rifondazione Ferrero le definisce parole aberranti.
“A quanto pare – ironizza il leader dell’Italia dei Valori sul suo blog – la badessa Fornero ha riscritto, tutta da sola e senza chiedere il permesso a nessuno, l’articolo 1 della Costituzione. Cara professoressa, questa è un’asineria bella e buona”. “La nostra Costituzione – continua Di Pietro – dice l’esatto contrario. Secondo la Carta, infatti, il lavoro è un diritto, così come lo è l’essere messi in grado di condurre una vita dignitosa in cambio del lavoro prestato. Questo governo, invece, continua a comportarsi come se l’articolo 1 della nostra Costituzione dicesse che l’Italia, anziché ‘una Repubblica democratica, fondata sul lavoro’, sia ‘una Repubblica oligarchica, fondata sulle banche e sulle caste’. Prima di capovolgere così il principio fondamentale della Repubblica, non sarebbe opportuno che i professori Monti e Fornero consultassero gli italiani per capire se sono d’accordo?”.
All’arrembaggio anche la Lega con il senatore Gianvittore Vaccari: “Il lavoro è un diritto. Il ministro Fornero ha giurato sulla Costituzione o su Topolino?”. “Napolitano richiami al suo dovere il ministro del Lavoro” aggiunge il senatore ricordando, oltre all’articolo 1, anche l’articolo 4 della Carta: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Probabilmente, conclude Vaccari, “la Fornero ha dimestichezza con troppi testi ma con pochi luoghi di lavoro”.
Le parole della Fornero sono “aberranti” secondi il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero che rincara la dose: ”La riforma che il governo sta blindando in queste ore con la fiducia alla Camera è un provvedimento pessimo, altro che buono: via libera ai licenziamenti con la demolizione dell’articolo 18 e precarietà per tutti”. E annuncia un referendum per ristabilire la vecchia forma dell’articolo 18.
“La prossima correzione sarà ‘il posto è un diritto, non il salario’ – attacca il responsabile Lavoro di Sel, Gennaro Migliore – La ministra ‘del non lavoro’ Fornero usa bene le parole per illustrare ai mercati il suo decreto”. “Un tempo si chiedeva ‘lavorare meno per lavorare tutti’, oggi con il decreto Fornero si passa a ‘lavorare? Dipende se sei figlio di papà e mamma’. Chi approverà il decreto del non lavoro romperà il patto di solidarietà costruito in cinquant’anni di lotte”. “Il ministro del Lavoro – chiosa Angelo Bonelli, presidente dei Verdi – dovrebbe contare fino a dieci prima di parlare o inciampare in stupidaggini come quella sul diritto al lavoro”.
Interviene anche il Pd, con il capogruppo in commissione Bilancio Pierpaolo Beretta: “‘Quella approvata oggi e’ una buona riforma, fortemente innovativa. E mi auguro che il governo spieghi questo agli italiani e agli interlocutori istituzionali, piuttosto che enfatizzarne gli aspetti di dissenso e sminuirne il significato con dichiarazioni controproducenti. Per noi il lavoro è un diritto. Mai pensato che i diritti siano senza fatiche e sacrifici. Peraltro, chi lavora onestamente lo sa bene. Ma guai a pensare che merito e competenza, che debbono essere alla base di una sana cultura del lavoro, possano attenuare il principio che ciascuno possa poter lavorare, e per questa via emanciparsi come persona e come cittadino”.
Infatti, tra le nubi della tempesta sulla gaffe, la Camera approverà entro oggi la riforma del mercato del lavoro. Proprio l’articolo che prevede il “nuovo” articolo 18 è stato approvato con i voti di fiducia di ieri. In vista del voto definitivo la Fornero si è recata a Palazzo Chigi per incontrare il presidente del Consiglio Mario Monti. L’approvazione avviene di corsa proprio per richiesta esplicita del presidente del Consiglio che vuole presentarsi al tavolo del Consiglio dell’Unione Europea di domani presentando quelli che ha definito i “progressi dell’Italia”, tra i quali appunto la riforma del lavoro.
Il provvedimento esce quindi da Montecitorio senza alcuna modifica rispetto alla versione approvata dal Senato. “Continuo a considerare questa riforma una buona riforma” ha spiegato la Fornero oggi. Ma ha ribadito che “il governo è disposto a fare cambiamenti”. I partiti, che hanno concesso la delega all’esecutivo non senza malumori, si aspettano ora che sulla questione degli esodati, sugli ammortizzatori e sulla flessibilità in entrata, l’esecutivo intervenga “al più presto”. Protestano i sindacati, con la Cgil che organizza a piazza Montecitorio un ‘grande presidio’ contro un provvedimento che giudica “dannoso”.
Contestazioni in piazza in occasione degli stati generali del Sociale a Roma, dov’è intervenuta la stessa Fornero: un gruppo di manifestanti ha lanciato pile elettriche, zucchine e uova contro gli agenti della Guardia di Finanza. Qui il ministro ha ripetuto che la riforma va fatta partire perché ha novità importanti per i giovani.
I sindacati ribadiscono la loro contrarietà alla riforma: la Cgil è scesa in piazza in tutta Italia, mentre secondo Raffaele Bonanni della Cisl, “non risponde a quello che si era detto dall’inizio, e cioè che da queste norme ci sarebbero stati più posti di lavoro”. Anzi, aggiunge, “meno si tocca il testo e meglio è, perché lo si vuole toccare solo per peggiorarlo”.“Il governo ha avuto un dialogo di circa tre mesi con le parti sociali per arrivare a un documento condiviso, da tutte le parti sociali tranne la Cgil” è la risposta del ministro del Lavoro.
Domani si riuniranno a Bruxelles, nei dintorni del Parlamento europeo, coloro che hanno partecipato all'elaborazione della Rotta d'Europa, proposta da Sbilanciamoci con la collaborazione del manifesto. Sono gruppi diversi, associazioni, movimenti che, assieme a molti esperti, hanno lavorato non solo all'analisi della crisi ma ad alcune proposte essenziali per impedirne la precipitazione. Siamo infatti ormai da un paio di anni sull'orlo d'un disastro che ha già coinvolto diversi paesi della cosiddetta periferia sud, ha fatto a pezzi la Grecia, ha costretto qualche giorno fa la Spagna ad accettare i diktat della troika per avere un prestito, e stringe l'Italia a una politica di rigore unilaterale, accettata da otto mesi da un parlamento unanime - nuova anomalia peninsulare. Già nel continente la crescita è a livelli minimi, la disoccupazione non cessa di salire, lavoratori - precari o no - e pensionati sono costretti a un sempre più pesante regime di sacrifici per evitare, se mai lo eviteranno, di sprofondare nella trappola del debito.
Non basta. Perfino il rigorista Monti si trova un po' in difficoltà fra il pessimo umore che sente montare in Italia e la rigidità della Germania, padrona illegittima ma indiscussa d'Europa. Sempre domani, contemporaneamente a noi ma con ben altri poteri e solennità si riunirà a Bruxelles il Consiglio d'Europa, e assisteremo a un suo ennesimo incagliarsi fra interessi contrastanti, unito soltanto dalla sordità verso le proteste dei deboli. Proteste che non trovano nessuna rappresentanza nelle nostre istituzioni elettive, che pur decidono in ultima istanza. È dunque dal gruppo di esperti, associazioni e movimenti che assieme o in parallelo con noi hanno lavorato, che domani verrà avanzata una serie di misure d'urgenza, che metteremo a confronto ed a punto. Già sappiamo, per i rapporti che sono intercorsi in questi mesi, gli incontri e i documenti, che esse hanno al centro una tassazione sulle transazioni finanziarie, il mutamento della regola che impedisce alla Bce di prestare agli stati all'interesse dell'1%, consentitole soltanto con banche o istituti che li prestano a tassi almeno sei volte maggiori ai paesi in difficoltà (in Grecia a venti e oltre, se questa non è usura come chiamarla?), consentono la rinegoziazione del debito, delineano una regolamentazione fiscale omogenea di tutta la zona a Ue senza la quale ogni paese debitore è esposto a speculazioni indecenti, inizia a togliere dalle nebbie i vari progetti di finanziamento comunitario come gli eurobonds, riflette su una assunzione continentale del debito come nel regime federale degli Stati Uniti e di una crescita attraverso un progetto di reindustrializzazione che poggia su due assi, il primato di una green economy e una omologazione sociale avanzata dei regimi sociali, il cui disordine è alla base delle funeste delocalizzazioni.
Nulla di questo è impossibile, e nemmeno grandemente rivoluzionario; è una gestione delle risorse meno disordinata, meno crudele e anche - a guardarne i risultati - meno stupida di quella compiuta dalle scelte liberali, e permessa dall'ambiguità dei poteri comunitari oggi oscillanti, fra sovranismi e subalternità, verso una democrazia zero. Le scelte economiche comportano infatti anche scelte istituzionali finora sospese e da correggere, in una comunità cominciata male e che rischia di finire in peggio.
ALLA vigilia del vertice europeo di domani, l’economista greco Yanis Varoufakis scruta l’incaponita ottusità delle politiche con cui i governi dell’Unione pretendono di salvare la moneta unica, e si stupisce di fronte a tanto guazzabuglio dei cuori e delle azioni. Un’attesa quasi messianica di palingenesi si combina all’abulia dei politici, alla pigrizia mentale degli economisti, alla sbalorditiva mancanza di leadership. Ancora una volta siamo alla vigilia di un vertice definito cruciale.
Ci sarà un prima e un dopo, decideremo cose grandi o fatalmente naufragheremo. In Italia, chi punta allo sfascio annuncia che Monti avrà fallito, se fallisce il summit: come se il guazzabuglio europeo fosse suo, come se le responsabilità di Berlusconi si dissolvessero in quelle del successore. Alcuni si esercitano a contare i minuti: l’euro non vivrà più di tre mesi, dicono, pensando forse che l’orologio stia fermo. Sono anni che i mesi di vita sono quasi sempre tre.
È quello che spinge Varoufakis a fare due paragoni storici che impaurano a pensarci. Il primo rimanda alla crisi del ’29, e alla condotta che il Presidente americano Hoover ebbe a quel tempo. La ricetta era uguale a quella di oggi: ridurre drasticamente la spesa pubblica, tagliare salari e potere d’acquisto, il tutto mentre l’economia Usa implodeva. Seguirono povertà, furore, e in Europa fine della democrazia. Non meno inquietante il paragone con la guerra del Vietnam: negli anni ’60-’70, gli uomini del Pentagono erano già certi della sconfitta. Continuarono a gettar bombe sul Vietnam, convulsamente, perché non riuscivano a mettersi d’accordo su come smettere un attivismo palesemente sciagurato. Riconoscere l’errore e cambiar rotta avrebbe salvato migliaia di vite americana, centinaia di migliaia di vite vietnamite, e risparmiato parecchi soldi. Disfatte simili a queste lo storico Marc Bloch le chiamò «strane», nel 1940: le avanguardie politico-militari sono senza visione né guida, mentre nelle retrovie società e classi dirigenti franano. Chi guida oggi l’Europa è animato dalla stessa non-volontà (l’antico peccato di nolitio): la crisi delle banche e dei debiti non è guerra armata, ma certi riflessi sono identici. Il povero cittadino perde la testa, non si raccapezza.
Sono mesi che si succedono vertici (a due, quattro, diciassette, ventisette) e ognuno è detto risolutivo. Sono mesi che sul palcoscenico vengono e vanno personaggi, declamando frasi inalterabili. Merkel e Schäuble entrano in sala di Consiglio, si siedono, e recitano: «Non si può fare, prima della solidarietà ognuno faccia ordine a casa». E sempre c’è qualcuno, della periferia-Sud, che invece di negoziare sul serio implora: «Ma fate uno sforzo, qui si sta naufragando!». Sembra la musica che nei dischi di vinile d’improvviso s’incantava. Si siedono e ripetono se stessi (Ecolalia è il termine medico), come i generali quando continuavano a cannoneggiare i vietnamiti nella speranza che la guerra, come i mercati, si sarebbe placata da sola, esaurendosi.
Qualcosa, è vero, sta muovendosi in Europa. Grazie alle pressioni di socialdemocratici e verdi, il governo tedesco ammette d’un tratto che qualcosa bisogna fare per la crescita (una parola vana come quando i generali in guerra dicono: pace). Nella riunione a 4 che si è svolta a Roma tra Merkel, Hollande, Monti, Rajoy si è deciso di mobilitare 120 miliardi di euro (una bella somma ma sporadica, visto che contemporaneamente non si vuole un aumento del comune bilancio europeo). Si è anche deciso, finalmente, di ignorare le riserve inglesi e svedesi e di approvare una tassa sulle transazioni finanziarie, per dar respiro all’eurozona. Chi da anni lotta per la Tobin tax spera che nasca, per la prima volta, una vera fiscalità europea: il gettito previsto è di 30-50 miliardi all’anno, senza aggravi per i contribuenti. Ma la tassa ha difetti non ancora risolti: come pensare che l’Unione possa avviare con propri soldi investimenti congiunti, se il gettito non andrà nella cassa comune? Il 29 marzo, sulla Zeit, il ministro delle finanze austriaco si felicitò in anticipo per la tassa, i cui proventi erano già iscritti nel bilancio del 2014: nel bilancio austriaco, non europeo. Passi avanti sono stati fatti, assicurano i governi, ma l’essenziale manca: ancora non si possono emettere eurobond, e Berlino esita sul progetto – concepito in novembre dal Consiglio tedesco degli esperti economici – di una redenzione parziale dei debiti. «Ci vuole un salto federale», si comincia a sussurrare, ma anche queste parole rischiano di tramutarsi in nomi nudi, apparenti: come crescita, pace. Perfino cultura della stabilità diventa nome nudo, senz’alcun rapporto con l’idea che ci facciamo di una vita stabile. La sostanza che resta è il dogma tedesco della casa in ordine.
E resta il nuovo potere di controllo sui bilanci nazionali, conferito alla Commissione di Bruxelles. Ma un potere strano, di tecnici che censurano e castigano. Non un potere che edifica politiche, dispone di proprie risorse, è controbilanciato democraticamente. Non dimentichiamolo: le spese federali in America coprono il 24 per cento circa del prodotto nazionale. Quelle dell’Unione l’1,2. Quanto alla tassa sulle emissioni di biossido di carbonio (carbon tax), nessuno ne parla più.
Il fatto è che le misure non bastano perché il male non è tecnico: è politico. Ci siamo abituati a criminalizzare i mercati, a dire che l’Europa non deve dipendere dalla loro vista corta. Ma li ascoltiamo, i mercati? Sono imprevedibili, ma se diffidano dei nostri rimedi significa che c’è dell’altro nella loro domanda: «Siete proprio intenzionati a salvare l’Euro? La volete fare o no, l’unione politica che nominate sempre, restando fermi?». Se i mercati somigliano a una muta aizzata è perché fiutano un’Europa e una Germania che il potere non se lo vogliono prendere, che scelgono l’irrilevanza mondiale. Si calmeranno solo di fronte a un piano con precise scadenze (importa dare la data, anche se non immedia-ta): un piano che preveda un fisco europeo, un bilancio europeo credibile, un controllo del Parlamento europeo, una Banca centrale simile alla Federal reserve, un’unica politica estera. Hanno ragione a insistere. Anche perché stavolta, manca l’America postbellica che spinse alla federazione. Obama chiede misurette all’Europa, non un grande disegno unitario.
In una conferenza dei verdi tedeschi, domenica a Berlino, Monica Frassoni, Presidente del Verdi europei, ha detto parole giuste: «Quello di cui tutti (mercati compresi) abbiamo bisogno è che la parola
più Europa significhi qualcosa», non sia flatus vocis.
Deve esser chiaro in maniera lampante che Grecia, Italia, Portogallo, Spagna non potranno sanare i debiti con terapie che il debito addirittura l’accrescono. Urge un cambio di passo, dunque «una dichiarazione che dica: non si permetterà a nessuno Stato di fallire; la Bce interverrà comprando titoli delle nazioni indebitate se il Fondo salva-Stati non basta; l’Unione si darà un bilancio federale degno di questo nome, capace di avviare una crescita diversa, ecologicamente sostenibile ».
Il salto federale di cui c’è bisogno, pochi vogliono compierlo. Hollande dice che l’unione politica voluta da Berlino è accettabile solo se subito c’è solidarietà. La Merkel non esclude la solidarietà, ma prima chiedel’unione politica (anche se ieri ogni idea di scambio è svanita: « Finché vivrò non
accetterò gli eurobond»). Qualcuno dunque bluffa. È come la scena del film Gioventù bruciata: due ragazzi guidano simultaneamente le loro auto verso un dirupo. Il primo che sterza sarà chiamato coniglio o pollo (per questo si parla di chicken game). Se entrambi insistono nella corsa finiranno nella fossa. È tragico il gioco, perché riproduce il vecchio equilibrio di potenze nazionali che ha condotto il continente alla rovina. L’Unione europea era nata per abolire simili gare di morte.
Ci sarebbe di che rallegrarsi, all'annuncio che il governo ha deciso di stanziare un paio di miliardi da spendere per una serie di progetti urbani, deviando per una volta dai consueti foraggiamenti alle banche. Un lampo di keynesismo che illumina il fosco panorama monetario e che lascia intravvedere un po' di sano e concreto strutturalismo economico. Se non fosse che il modello individuato è desolatamente il solito, sviluppo edilizio e poco più: tondini e calcestruzzo, betoniere a pieno regime, ruspe e sbancamenti, travi e pilastri. Siamo sicuri che è così che si rilancia un'economia in crisi, siamo sicuri che il ciclo del mattone sia la molla che slancia crescita e occupazione e che, soprattutto, sia utile allo sviluppo metropolitano delle nostre anemiche città?
La domanda è insomma la seguente. Si può continuare a ritenere che la spesa pubblica d'investimento debba concentrarsi sul solo sostegno all'industria edilizia, a riproposizione dell'eterno modulo invasivo che consuma territorio, deposita immobili senza qualità e spesso neanche riqualifica l'assetto urbanistico? Napoli, Genova, Roma, Bologna e le altre città che beneficeranno di queste risorse hanno davvero bisogno di nuove forse inutili edificazioni, seppur mimetizzate da progetti di risanamento e/o di pubblica necessità?
Con il tempo ci si è accorti che questo genere di progettazioni urbane, tranne alcune (poche) eccezioni, finiscono per rivelarsi perniciose e addirittura devastanti. Non solo perché, essendo bisognevoli di cofinanziamenti privati, si portano dietro generosissime concessioni affaristiche e speculative, che sovraccaricano e a volte vanificano gli obiettivi di partenza. Ma soprattutto perché corrispondono a una strategia di sviluppo ormai del tutto esausta, obsoleta nel metodo e arcaica negli obiettivi, una prospettiva che sempre più rischia di disattendere le intenzioni originarie, e in alcuni casi perfino tradirle.
Questo nostro paese non ce la fa più a sostenere processi di sfruttamento territoriale, grandi opere, infrastrutturazioni invasive e deturpanti, soffocanti plateatici cementizi. E' tempo di smetterla con queste scelte distruttive, che da decenni stressano coste e città, monti e campagne, compromettendo equilibri naturali e sociali. Le proposte di Monti e Passera sono solo vecchiume politico, immobiliarismo sfiorito al servizio di rendite e profitti. Non rilanceranno un bel niente e ci lasceranno ancor più appesantiti e incrostati.
Al contrario, ci sarebbe bisogno di un keynesismo leggero e intelligente, multiforme e incoraggiante, che sfugga alla rituale dialettica pubblico/privato, favorisca la micro-impresa, la cooperazione, il no-profit e s'incentri sull'autogoverno di processi produttivi né pubblici né privati. Una prospettiva d'intervento rivolta all'unica grande opera di cui l'Italia ha bisogno: la propria manutenzione, la propria valorizzazione. E' nel risanamento urbano e territoriale che è necessario investire per creare nuove economie e nuova occupazione, salvaguardando l'ambiente fino a trasformarlo in risorsa strategica, riconvertendo l'esistente dismesso per offrire servizi, e lasciando che a gestire tutto ciò siano nuove forme collettive di ricerca e manifattura.
C'è da riavviare un grande programma di risanamento della terra, lasciandola respirare e (ri)utilizzandola per la produzione agricola, per le coltivazioni di pregio, quelle stesse per cui il mondo apprezza il nostro stile alimentare, e per la loro trasformazione virtuosa, in uno sforzo d'integrazione agro-urbana.
I soldi pubblici vanno spesi per rigenerare il nostro immenso patrimonio artistico e culturale, strappandolo dall'immiserimento in cui le politiche di tutti i governi l'hanno condannato, lasciandolo deperire saccheggiare. Da questa inestinguibile miniera si può estrarre tutto il necessario per sviluppare lavoro e ricchezza, energia e salute, piacere e conoscenza. Si tratta di mettere a valore la nostra storia millenaria, l'archeologia, le arti figurative, l'architettura, l'espressività, la contemporaneità; ma anche la grazia e il garbo del paesaggio, il nostro straordinario ecosistema, il magnifico mare, le splendide montagne.
Quando si ragiona di queste cose, tornano alla mente le parole di Robert Kennedy a proposito di modelli economici. Egli spiegava che tra i coefficienti che determinano il calcolo del Pil mancano proprio quelli che riguardano il benessere degli uomini e delle donne. Che è un po' la riproposizione dell'odierna protesta contro la dittatura finanziaria, laddove si sostiene che una persona è più importante di una banca. Una vigna di malvasia puntinata è più importante di un edificio abitativo, un reperto archeologico è più importante di un centro commerciale. Monti e Passera non lo sanno (o non vogliono saperlo), ma il guaio è che questa loro ignoranza per noi diventa una condanna.
Domenica scorsa Madonna ha noleggiato gli Uffizi. Così la popstar ha potuto vedere i quadri del popolo italiano senza il popolo italiano tra i piedi, e col vantaggio di noleggiare contestualmente anche la soprintendente di Firenze, che le ha fatto da guida di lusso. Il giorno dopo, lo stilista Stefano Ricci ha organizzato due sfilate nel Corridoio di Ponente degli Uffizi: una è stata aperta da una tribù di Masai, che correvano brandendo scudi e lance di fronte al Laocoonte di Baccio Bandinelli, sotto lo sguardo incredulo dei ritratti cinquecenteschi della Gioviana. Per la gioia di un Occidente narcisista e neocoloniale che balla sull’abisso, tutto è merce, tutto è in vendita: gli abiti griffati, il museo e perfino i Masai, portati a Firenze come bestie da serraglio e numero da circo.
Le cronache locali permettono di capire che il vero tema della serata non erano gli abiti, né tantomeno la storia dell’arte, ma il lusso come valore assoluto: il parterre comprendeva “uno stuolo di clienti danarosi arrivati per l'occasione dai cinque continenti, molti dei quali hanno dovuto ripiegare sull'aeroporto di Pisa per parcheggiare il loro jet privato”. Alcune fotografie – che sembrano ritagliate da Roma di Federico Fellini – documentano poi la cena “esclusivissima” che l’Enoteca Pinchiorri ha servito sulla terrazza degli Uffizi, ospite d’onore un Matteo Renzi immemore dell’austerità che grava sul Paese che egli si candida a guidare. Una nota comunica che, in questo trionfo della sobrietà, l’obolo pagato per ‘privatizzare’ i pubblici Uffizi è stato davvero risibile: 30.000 euro. È vero che altri 100.000 euro Ricci li ha spesi per realizzare l’impianto di illuminazione della Loggia dei Lanzi da lui stesso progettato, ma parliamo di cifre irrilevanti. Pochi giorni fa, per esempio, il Louvre ha accolto un ricevimento di Ferragamo, che aveva sponsorizzato la mostra di Leonardo. Nemmeno quello è stato un bel segnale, ma i francesi hanno tenuto la sfilata fuori dalle sale del Museo, ben alla larga dalle opere (tutto si è svolto nel Peristilio Denon): e ciò nondimeno hanno ottenuto “alcuni milioni”. Come dire: se si arriva a vendere il decoro pubblico, almeno che lo si venda caro. Ma il punto non è questo. Gli Uffizi noleggiati a ore, appartengono oggi al popolo italiano. Che li mantiene con le proprie sudatissime tasse non perché siano ‘belli’, ma perché sono un potentissimo strumento di educazione alla cittadinanza e di innalzamento spirituale. L’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Il patrimonio storico e artistico della nazione (menzionato – caso unico al mondo – sempre tra i principi fondamentali della Carta, pochi articoli dopo) è precisamente uno degli strumenti che permettono alla Repubblica di rimuovere quegli ostacoli, e di rendere effettiva la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Uscito da una messa in cui aveva sentito predicare gli atti di misericordia corporale, il piccolo Luigi Pirandello tornò a casa seminudo perché aveva rivestito del suo abito un bambino che aveva visto coperto di stracci. Ma, una volta a casa, egli venne aspramente rimproverato: e comprese, una volta per tutte, che nessuno prendeva sul serio il cristianesimo. Allo stesso modo, ogni tentativo di mostrare il valore civile dei musei è annullato dal noleggio degli Uffizi.
Se gli Uffizi diventano lo sfondo della “quaglia farcita ai funghi porcini con fagioli al fiasco”; se gli Uffizi diventano una location dove ostentare e celebrare l’onnipotenza del lusso, la diseguaglianza sociale ed economica e il trionfo del denaro di pochi; se gli Uffizi diventano la prosecuzione delle scarpe e delle borse con altri mezzi; se gli Uffizi vengono risucchiati da questo turbine di volgarità e ignoranza provinciali; se non è più possibile distinguere tra gli Uffizi e il Billionaire, ebbene, la Repubblica italiana prende un potentissimo strumento di educazione e di eguaglianza, che mantiene a caro prezzo con i soldi di tutti, e lo trasforma deliberatamente in un altrettanto potente mezzo di diseducazione e discriminazione.
Come dice il comico americano Bill Hicks, “piantatela di mettere il maledetto segno del dollaro su ogni fottuta cosa di questo pianeta”.
San Giuliano di Puglia(Campobasso). Siamo abituati a parlare degli anni berlusconiani come di un’epoca di torbidi: torbidi nei palazzi di potere, nei rapporti tra esecutivo e magistratura, nei partiti che avrebbero potuto, se lo avessero voluto, fermare la degradazione della politica, il discredito terribile che oggi l’affligge. Siamo meno abituati a considerare le cicatrici che questi anni hanno lasciato sul corpo fisico dell’Italia, sul suo paesaggio, sull’idea che gli italiani si fanno delle proprie città, sul modo in cui le abitano. Sono sfregi profondi (si aggiungono a più antichi sfregi: il sacco di Palermo negli anni ‘50-’70 fu l’acme) e in ampie zone d’Italia sono indelebili: ci hanno cambiato antropologicamente, nessun’alternanza riuscirà a eliminarli. Parlo delle ferite non rimarginate all’Aquila, città che ho visto rinserrata nei ponteggi, dopo oltre tre anni, come un prigioniero impietrito di Michelangelo. Parlo di San Giuliano di Puglia, dove sono andata per capire e vedere com’è iniziato questo strazio cui dovremo ormai dare il nome che merita: urbanicidio, rito sacrificale che ha immolato tante città terremotate, riducendo in polvere la parola stessa che usiamo associare alla polis: il vivere urbano che incivilisce l’uomo, che lo rende conviviale, aperto al diverso. È stato Antonello Caporale a consigliarmi questo viaggio («Vai lì, è lì che tutto è cominciato») ed è lui a guidarmi nel borgo che Berlusconi ha rifatto, truccato, storto, e usato.
Tutti ricordiamo il giorno in cui la terra a San Giuliano tremò. Era il 31 ottobre 2002, e alle 11.32 crollò la scuola: schiacciati dalle macerie, 27 bambini della prima elementare morirono con la loro maestra, Carmela Ciniglio. Ricordiamo l’orrore, poi la sera i fari e le telecamere che s’accesero per filmare l’arrivo del Presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Non aveva telefonato a nessuno prima, neanche al sindaco Antonio Borrelli che nel sisma aveva perso la figlia. Aveva bisogno di telecamere e fu davanti a esse che promise la redenzione se non la resurrezione, da vero Re Guaritore. Ripetutamente usò l’avverbio prediletto: assolutamente.
Assolutamente sarebbe sorta «una nuova San Giuliano». Assolutamente avrebbe «realizzato un quartiere pieno di verde, con la separazione completa delle automobili dai percorsi per i pedoni e le biciclette ». Entro 24 mesi, assolutamente, gli abitanti avrebbero ricevuto «nuovi appartamenti funzionali, innovativi, costruiti secondo le nuove tecniche della domotica, in un ambiente verde».
Fu uno sgargiante teatro della morte, il filmato che Porta a Porta trasmise quella sera sul Premier in missione. Volti segnati dal dolore, occhi scintillanti, parole che promettevano miracoli in tempi perentoriamente dati per certi. E che visione alla grande!
Una scuola già pericolante, mai collaudata dopo una ristrutturazione criminosa, era stata distrutta, le altre case avevano crepe ma erano intatte, e nonostante ciò un intero paese andava rifatto ex novo, come la mappa immaginaria di Borges che è così esaustiva da coprire per intero l’universo del reale, fino a sostituirlo e renderlo del tutto inutile, ininfluente.
È la Superfetazione dei terremoti denunciata da Antonello Caporale: letteralmente, l’affastellarsi di aggiunte ricostruttive decise in un secondo tempo, e superflue. Un pleonasmo. Conta la mappa, non la realtà con le persone che contiene. Nella sceneggiatura cominciarono a proliferare, accanto all’avverbio assolutamente, i diminutivi che nel 2009 all’Aquila avrebbero impregnato la neolingua delle disgrazie italiane: le casette, gli angioletti, i praticelli, e via vezzeggiando, trasformando la messa in scena del dolore in kitsch. La San Giuliano che ho visto non è la cittadina d’un tempo. È divenuta l’occasione di un ciclopico esperi mento urbanistico, e un inaudito spreco di denaro pubblico che ancor oggi paghiamo. È stata invenzione di bruttura, disumanizzazione di una città, spudorata circolazione di denaro dello Stato a vantaggio di una cricca chiusa: le tre cose vanno insieme. Un paese minuscolo, di circa 1.000 abitanti, è stato metamorfosato in una sorta di metropoli: con fontane monumentali, con un parco della memoria che imita il memoriale dell’olocausto a Berlino, una scuola mastodontica che potrebbe ospitare migliaia di bambini e invece ne accoglie non più di 98. All’elenco si aggiungono altre assurdità: una piscina olimpionica (il paese è essenzialmente abitato da anziani), un Palazzo dello Sport, una strada di 700 metri attorno alla città costata 5 milioni di euro, un auditorium, un mega edificio per la succursale dell’università del Molise, un centro polifunzionale necessario all’accademia. L’università è accostata alla nuova scuola: la targa all’ingresso pomposamente certifica la destinazione dell’edificio, ma l’università qui non è venuta mai. Chi c’è qua dentro? Un call center. I quartieri, gli appartamenti ipermoderni, le grandi opere annunciati da Berlusconi sono tutti monumen-tali, tutti sconfinatamente sovradimensionati. Tutti pensati non per gli abitanti che hanno ricevuto quest’inattesa e misteriosa manna, ma per magnificare il taumaturgo, per far scena, come facevano scena Nerone o Pietro il Grande. Il vice del Re Guaritore è Guido Bertolaso, l’angiolone della Protezione civile.
Ed ecco come si presenta la Nuova Gerusalemme molisana: nella città bassa la piazza 31 ottobre 2002, teatrale e fredda, le case disegnate e colorate con le sue forme bizzarre, che nulla hanno a vedere con il vecchio paese. La piazza è quasi sempre vuota, mi dicono in città: è dissuasiva. Ci sono scalinate in pietre pregiate, strisce pedonali non dipinte ma di marmo, e a ridosso della piazza una strada inutile, addirittura in porfido. Il visitatore, se non è guidato, difficilmente si raccapezzerà. Avrà l’impressione di una manna grandiosa ma misteriosa, appunto. Nessun mistero invece, come Caporale spiega perfettamente (Terremoti Spa, Rizzoli 2010, in particolare il capitolo su «teoria e pratica del terremoto infinito»). Sin da principio la strategia fu chiara, ineluttabile: perché il cataclisma possa essere convertito in occasione, occorre che il fabbisogno di soldi e di ricostruzione diventi infinito, che il numero di terremotati incongruamente lieviti, che i comuni sfasciati si moltiplichino ad libitum. L’area sismica andava estesa: perché più largo il cratere, più si spende, si specula e si scrocca. Michele Mignogna, condirettore del giornale Il Ponte online, mi ricorda i nomi della cricca che confezionò in vitro il modello emergenziale, ingrossando le spese e lucrando. In primis Claudio Rinaldi (nel frattempo indagato per abuso d’ufficio e corruzione: uomo di Bertolaso, amico di Balducci e Anemone. Bertolaso stesso. Michele Iorio, Presidente della Regione e Commissario alla ricostruzione (nel frattempo condannato in primo grado per abuso di ufficio, indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato, concorso formale per reato reiterato, e per aver «esteso abusivamente l’area del cratere non avendone la competenza né la legittimazione»).
È il paradigma dell’Italia che viviamo. I governi colpevolizzano gli italiani che vivono al di sopra dei loro mezzi, ma sbagliano bersaglio quando impudentemente pontificano. Sono loro che pur di sceneggiare e lucrare ci hanno fatto vivere sopra i nostri mezzi. È così quasi ovunque: in Campania dal terremoto dell’80, in Molise, in Abruzzo. Nel suo bel libro su camorra e immondezza campana, Tommaso Sodano racconta molto bene come malaffare politico e malavita, in combutta, abbiano fatto dell’Italia uno dei più corrotti, indebitati paesi del mondo. Non c’è calamità naturale, non c’è dramma dei rifiuti, che non diventi banchetto, robba da divorare, terra da stuprare, morte oscenamente trasfigurata in opportunità da presunti Uomini Nuovi. Le parole d’ordine dell’homo novus — scrive Sodano — sono «passato, disastro, cambiamento, novità, futuro». Altro non fu il terremoto in Irpinia: «appalti agli amici e spreco di denaro pubblico». (Tommaso Sodano, La Peste, Rizzoli 2010). Abbiamo visto come i diminutivi siano il marchio dell’homo novus.
A chi visitasse San Giuliano consiglio uno sguardo sulla Fonte degli Angeli, in vetro di Murano e ceramica, ideata da Sabino Ventura e dalla giapponese Yumiko Tachimi. È installata nel patio nella nuova scuola “Angeli di San Giuliano”: ventisette obesi putti bianchi, ventri e sederi ridondanti, che ridono ebeti sotto gli spruzzi d’acqua. Chiara D’Amico, un’amica che viene dal vicino comune di Jelsi, mi guarda smarrita. Dice che non riesce a guardare, le si rivolta lo stomaco. I putti ricordano il Pegaso fatato Papo che piace ai bambini in età d’asilo.
A questo serve la struttura emergenziale. Nell’emergenza tutto è permesso, le leggi e normali gare vengono aggirate, il cittadino sgrana gli occhi, infantilizzato. Si formano piccole cerchie: sono gli invitati al banchetto. E quando finisce la fase dell’emergenza se ne apre un’altra subdolamente affine: la fase della «criticità » (Monti ha finito col chiuderla). Mi dice Michele Petraroia, ex segretario della Cgil, vicino all’associazione Libera di Don Ciotti, oggi consigliere regionale del Molise: «San Giuliano servì da cavia per il modello Berlusconi-Bertolaso. Un meccanismo preciso: il Commissario per la ricostruzione diveniva Presidente della Regione, la Protezione civile prendeva ogni potere esautorando gli amministratori locali, Palazzo Chigi accentrava le operazioni garantendo risorse. Il mezzo erano le ordinanze della Presidenza del consiglio, che fissavano i criteri di ricostruzione e la ripresa economica della zona, e grazie alle quali venivano eluse leggi e gare d’appalto. Solo grazie all’ultimo governo Prodi divenne obbligatoria la cosiddetta rendicontazione. Il piano è costato in dieci anni 1 miliardo di euro: un torrente spropositato rovesciato su zone che spesso non ne avevano alcun bisogno». I comuni terremotati erano 25-30 (secondo altre stime 18). Divennero 84. Il risultato? «Una ricostruzione fermatasi al 35 per cento, le scuole non messe in sicurezza, il calo demografico, le imprese chiuse, lo spopolamento di San Giuliano». Si parla poco degli architetti, che si sono prestati alla creazione delle città-cavia. Si parla poco dell’offesa, dell’umiliazione che il brutto secerne, soprattutto in un paese come l’Italia. L’urbanicidio è fatto anche di questo, e un giorno gli architetti dovranno ripensare la loro responsabilità.
Tra le persone straordinarie che ho incontrato nel Molise, vorrei ricordarne una in particolare: è Don Antonio Di Lalla, parroco di Bonefro e delle annesse, fatiscenti casette provvisorie che ancora ospitano 10 famiglie di sfollati. Dirige un giornale indispensabile per chi voglia conoscere l’Italia che si oppone agli scempi: La Fonte — Periodico dei terremotati o di resistenza umana. Dice Don Antonio: «La domanda che dobbiamo porci è: che fine ha fatto tutto il danaro messo a disposizione? Il fatto è che si preferisce il superfluo — mentre parla penso alla
domotica, alle strade in porfido, alla scuola abnorme di San Giuliano — ma si lascia incompiuto l’essenziale, in modo tale che si eterni questo clima di dipendenza nei confronti di chi distribuisce risorse. Ci sono stati sprechi enormi, ma i soldi sono stati dati per opere morte; opere fatte e chiuse (come l’università fantasma). Non per opere dove l’uomo ricominci il lavoro e la vita cittadina normale».
Il Consiglio Direttivo di Italia Nostra riunito oggi 23 giugno 2012 si riconosce, sostiene e condivide l’analisi e le critiche espresse nei confronti dell’azione del Ministero dei beni culturali nella conferenza stampa dell’11 giugno 2012 promossa dalle sezioni dei territori colpiti dal sisma.
In particolare respinge:
- l’esautorazione delle Soprintendenze territorialmente competenti e capaci di gestire i problemi della messa in sicurezza del patrimonio culturale.
- l’illegittimo incardinamento degli organi di tutela - che significa acritica subordinazione - alla protezione civile che ha dimostrato scarso interesse alla difesa del patrimonio culturale colpito, come evidenzia il numero ancora imprecisato di demolizioni già realizzate o programmate.
- la tendenza, frutto di ignoranza culturale, di dividere il patrimonio storico delle zone colpite in edifici di serie A da conservare ed edifici di serie B da tutelare.
- l’abbandono del concetto di centro storico come complesso indivisibile da tutelare nel suo insieme, così come Italia Nostra, a partire dalla Carta di Gubbio, ha sostenuto sempre. Il centro storico rappresenta per la popolazione elemento indispensabile di identità civile e sociale.
Segnala con vivissima preoccupazione:
- i ritardi delle operazioni di ricognizione del danno e di messa in sicurezza degli immobili
- la mancanza di trasparenza e di coinvolgimento di queste fasi post-sisma, pericolosa anche sotto il profilo della tenuta democratica.
Vista la gravità e l’urgenza dei problemi, Italia Nostra richiede un incontro immediato con il Ministro Lorenzo Ornaghi ai fini di esporgli nel dettaglio le criticità della situazione attuale e proporgli immediate azioni correttive, senza le quali il Ministero rischia di uscire definitivamente screditato.
La gestione aquilana è un’esperienza da archiviare e Italia Nostra metterà in atto ogni azione legittima affinché non si ripeta.
Roma, 23 giugno 2012
Oggi, lunedì, comincia a Pieve di Cento la complessa operazione di estrazione dalla Collegiata di Santa Maria Maggiore delle grandi tele di Guido Reni (l’Assunzione misura 4 metri x 2,80), di Guercino, di Lavinia Fontana, di Scarsellino e di altri ancora, nonché del grande crocifisso ligneo di fine ‘200. La volta della chiesa è crollata con la seconda forte scossa di terremoto (la messa in sicurezza antisismica degli edifici s’impone ovunque, senza indugio). Le pale d’altare – che bisognava sottrarre ai pericoli di una chiesa scoperchiata - verranno ricoverate nella vicina Cento. I pievesi infatti si sono ribellati all’idea che andassero più lontano. Temevano di non rivederle più. Com’è capitato ai loro antenati con le altre tele di Guercino presenti nella Collegiata. Segno di un forte attaccamento ai propri beni storici, all’identità comunitaria che gli stessi concorrono a mantenere viva. Come il museo della canapa, coltura sviluppata per secoli, fino a metà del ‘900, o quello della liuteria, rifiorita a Pieve con l’arrivo, nel 1900, del faentino Luigi Mozzani (1869-1943), il “Paganini della chitarra”, liutaio non meno pregevole.
Ma questo amore per la conservazione, per la tutela percorre davvero tutta l’area del sisma? E da Roma si è veramente compreso lo sciagurato errore commesso, scientemente, all’Aquila esautorando le Soprintendenze e affidando il timone alla Protezione Civile? Non mi pare. La degenerazione sottoculturale del berlusconismo ha inquinato i pozzi delle politiche della tutela e del restauro. I tagli feroci inferti da Tremonti – e da nessuno riparati – hanno indebolito e in più casi annichilito le Soprintendenze, ridotte con pochissimi tecnici e mezzi. Le dichiarazioni post-terremoto del segretario generale del MiBAC, Antonia Pasqua Recchia, parevano andare in una direzione opposta rispetto all’Aquila, cioè verso una ricostruzione di tipo friulano o umbro-marchigiano. Ma alla guida (si fa per dire) del Ministero c’è un ministro, Lorenzo Ornaghi, che “tecnico” proprio non è e che lascia fare o non fare. Né si avverte la voce del suo sottosegretario, Roberto Cecchi che tecnico è, ma che definì “una cartolina virtuale” il restauro di Venzone.
Così il governo “dei tecnici” si è riaffidato in toto, con una circolare, alla Protezione Civile: le Soprintendenze della zona colpita “dovranno riferirsi esclusivamente alla direzione generale territorialmente competente (…) l’unica struttura del MiBAC” collegata alla Protezione Civile. In tal modo – nota il magistrato modenese Giovanni Losavio già presidente nazionale di Italia Nostra – le Soprintendenze “di merito” vengono “mortificate e in pratica escluse”, sottraendo loro quel “pronto intervento” con cui potevano “adottare immediatamente le misure conservative necessarie”. “Inammissibile, illegittima lacerazione nel compatto tessuto della tutela” che burocratizza e spegne le Soprintendenze.
Nasce così, anche secondo altri esponenti di “Italia Nostra” - l’ex soprintendente arch. Elio Garzillo, e l’archeologa Maria Pia Guermandi – la “questione dei campanili”abbattuti qui in gran fretta. Mentre nel 1996, dopo un pesante sisma, nella Bassa reggiana vennero messi subito in sicurezza e salvati. Inoltre, si è riaperta una pericolosa discussione sul “valore” degli edifici, la stessa che tende di nuovo, dopo decenni di meritato oblio, a distinguere fra beni maggiori, o monumenti, e beni minori. A questa inopinata, micidiale resurrezione – essa marcia assieme alla monetizzazione dei beni culturali (redditizi e non redditizi) – dovrebbero opporsi i soprintendenti e anche i sindaci. “Gli uomini e le loro “cose” non costituiscono più un unicum inscindibile”, commenta Garzillo. “I restauri verranno riservati soltanto alle eccellenze?”, si chiede Maria Pia Guermandi. Le preoccupazioni sono tali che a livello nazionale “Italia Nostra” chiede in merito un incontro urgente al ministro Ornaghi. “La gestione aquilana”, si denuncia nella richiesta, “è un’esperienza da archiviare”.
Finalmente il berlusconiano direttore generale alla Valorizzazione, Mario Resca, ha traslocato dal MiBAC alla privata Società Acqua Marcia senza aver valorizzato nulla né attratto a Brera fondi privati considerevoli. E però gli anni in cui Giovanni Urbani, direttore dell’ICR, elaborava il Piano di prevenzione antisismica dell’Umbria e all’Istituto Centrale del Restauro si lavorava, con fatica ma con passione, alla Carta del Rischio, pur temporalmente vicini, sembrano culturalmente remoti dopo la desertificazione inferta al MiBAC e ai suoi organi tecnico-scientifici. Un’esortazione al commissario-presidente Vasco Errani che ieri ha ribadito di voler “ricostruire” (e non costruire): guardi ai buoni esempi della sua Regione, ai lavori dell’Istituto per i Beni Culturali, ai censimenti, ai restauri filologici, riapra il dialogo con le Soprintendenze, ascolti le voci delle associazioni territoriali.
Il Rinascimento del Lido tramonta ad Est (Capital). Scelgono l’ironia i comitati dell’isola per commentare la clamorosa notizia, pubblicata dalla Nuova e ieri confermata dagli interessati, della rottura del contratto tra Est Capital (attraverso la sua società Real Venice 2, i cui azionisti sono le imprese del Mose) e il Comune. Lettera dei privati, risposta del Comune che ha chiesto l’intervento del giudice civile. Le imprese contestano due inadempienze a Ca’ Farsetti (il progetto delle bonifiche e il permesso di costruire il nuovo centro dei servizi sanitari) e vogliono risolvere il contratto e rientrare dell’anticipo già versato di 31 milioni di euro. «Non firmeremo il rogito», conferma il presidente della Mantovani Piergiorgio Baita. Il Comune replica che la responsabilità è dei privati. Adesso il giudice, che già ha respinto la prima richiesta delle imprese, si dovrà pronunciare il 4 luglio.
Rottura e vie legali, dopo un idillio durato qualche anno. Ma soprattutto il rischio concreto che il grande progetto di rilancio del Lido finisca adesso nel nulla e che il bilancio del Comune – che ha già impegnato i 61 milioni della vendita dell’ospedale al Mare – possa andare in default. I comitati si sono riuniti in assemblea dopo aver saputo della notizia, e hanno deciso di passare all’attacco. «A pagare il conto stavolta potrebbe non essere soltanto l’ambiente o il territorio», si legge in un comunicato di AltroLido, «ma anche il bilancio e dunque tutti i cittadini veneziani».
«Est Capital ha le sue ragioni», continuano ironici i comitati, «perché l’origine dei guai di oggi sta nel contratto preliminare di vendita sottoscritto fra Est Capital e il commissario straordinario Vincenzo Spaziante il 30 dicembre 2010». L’abbattimento del Monoblocco, che ospita i servizi sanitari dell’isola, è stato definito «condizione essenziale». Ma è irrealizzabile se il corrispettivi a carico di Est Capital è di 9 milioni di euro e il suo costo è invece di 18. Quali i motivi dell’improvvisa retromarcia dei privati, decisi oggi più che mai ad abbandonare la partita? L’evoluzione negativa del mercato immobiliare, prima di tutto. Anche se, fanno notari i comitati, nelle clausole del contratto è già previsto un risarcimento danni fino a 3 milioni e mezzo di euro, oltre al rimborso delle spese. «Forse», ipotizzano, «Est Capital punta a una nuova contrattazione più adeguata ai suoi interessi. Non sarebbe un fatto nuovo, è già successo due volte. Perché all’inizio il prezzo era di 81,5 milioni di euro, e ancora non c’era la possibilità di realizzare a San Nicolò una darsena da mille posti barca su aree demaniali. Che fare adesso? secondo i comitati è necessario riscrivere il progetto di rilancio del Lido, in trasparenza e ascoltando la città, liberandosi delle «mani forti». «Gli obiettivi su cui si basava l’intera operazione», ricorda il portavoce Salvatore Lihard, «sono tutti falliti: la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, ma anche il miglioramento dei servizi sanitari e la riquailiicazione dell’isola».
Dunque, addio progetto. Un’ipotesi che però al Comune non piace. Se il giudice civile dovesse dar ragione a Est Capital il 4 luglio, i privati potrebbero pretendere la restituzione delle somme versate. E il bilancio comunale andrebbe in rosso, con un rischio concreto di comnmissariamento. Ipotesi che il sindaco Giorgio Orsoni esclude. «Noi siamo in regola, abbiamo rispettato il contratto», dice. La partita continua. E stavolta, vista la sede giudiziaria dove si giocherà, il rischio che salti tutto è molto concreto.
Il progetto bipartisan di sfruttamento immobiliare del Lido di Venezia, nato con l’avallo culturale, politico, amministrativo e patrimoniale del comune, dello Stato e della regione incontra difficoltà interne, oltre a quelle costituita dalla vigorosa opposizione dei comitati del coordinamento Per un altro Lido. Il buon senso non ha impedito il nascere e il consolidarsi della perversa intenzione di svillettare e commercializzare un forte ottocentesco, di progettare una gigantesco porticciolo turistico, di distruggere un ospedale eccellente sotto il profilo sanitario e quello architettonico, di distruggere aree verdi e spazi pubblici, calpestando leggi, statuti e regole d’ogni ordine e grado. L’argomento è ampiamente trattato in questa stessa cartella di eddyburg (vedi tra l’altro uno scandalo bipartisan,e nel sito unaltrolido.com.
Resca lascia (nel caos) i Beni Culturali. In concomitanza cominciano a emergere i risultati dei suoi circa 3 anni di servizio per lo Stato, di cui il caso più emblematico e grottesco sono i bandi per i servizi aggiuntivi, oramai nel caos. Arriva al Mibac nel 2008 per la luminosa intuizione dell'allora ministro Sandro Bondi, che vuole un super manager come lui, già in Mc Donald Italia e gran sodale di Berlusconi, tanto da essere anche nel CdA di Mondadori, e lo piazza al comando della neonata Direzione alla valorizzazione del patrimonio. Uno stratega aziendale per portare i metodi del management nei beni culturali e far largo ai privati, e non ci sarebbe settore più indicato per dare spazio alla libera impresa come quello dei servizi aggiuntivi.
Per intenderci si tratta delle biglietterie - in appalto- e di bar, ristoranti, librerie, audioguide, visite guidate -in concessione - che si dovrebbero trovare nella maggior parte dei nostri musei. È stato il ministro Ronchey nel lontano 1994 ad aprire questo settore al partenariato pubblico/ privato. I bandi indetti negli anni '90 ebbero un esito valutato come positivo forse con eccessiva fretta. In una analisi recente - pubblicata da II Giornale dell'arte e mai smentita- infatti è emerso che per i cinque grandi poli di attrazione (archeologico e artistico di Roma, Pompei, Napoli e Firenze) che secondo i dati Mibac del 2009 assommavano il 91% dei visitatori paganti in Italia, i servizi aggiuntivi erano finiti a tre grandi gruppi, che agivano anche con società satellite: Civita servizi (facente capo a Luigi Abete) Electa Mondadori del gruppo Fininvest (e di chi volete che sia?), e infine Prc Codess, appartenente a un gruppo cooperativo.
Esempio tipico della leale concorrenza del nostro libero mercato, l'assegnazione dei servizi aggiuntivi dava l'impressione di essere una spartizione politica da qualche centinaio di milioni di euro. Lo ripetiamo, è un'impressione ma, se è possibile, peggiorata dal fatto che una volta scaduti i contratti per questi servizi, al Mibac nessuno si è peritato di fare nuovi bandi andando avanti con proroghe annuali, cristallizzando un monopolio e incorrendo quindi in varie reprimende della Commissione Europea nonché in salatissime sanzioni - paga Pantalone, no? A questo andazzo pensa di mettere fine Buttiglione che, come ministro nel 2005, con accigliatissima circolare impone di indire i bandi al più presto: ma dall'anno dopo il suo successore Rutelli in materia sonnecchia. Così, quando nel 2009 le gare da bandire per i servizi aggiuntivi sono assegnate alla sua Direzione alla valorizzazione è una occasione d'oro per Resca di mostrare l'efficienza e la moralità del super-manager a confronto della lassista e opaca gestione ministeriale. Invece di fare tesoro di quanto di buono e di cattivo era stato fatto con i precedenti bandi, Resca affida la stesura delle linee guida delle nuove gare a società esterne (Roland Berger Strategy Consultant e Price Waterhouse Coopers) che si prendono un bel po' di soldi (200 mila euro) e un anno di tempo per studiare il caso.
A scanso di equivoci i gestori dei servizi aggiuntivi sono prorogati indefinitamente, fino all'assegnazione dei nuovi bandi -una pacchia per Civita, Prc ed Electa Mondadori di cui Resca è membro del CdA. Le stazioni appaltanti, vale a dire le Direzioni regionali e le Soprintendenze speciali del Mibac, fanno molte osservazioni in merito alle linee guida, che ritengono inadeguate, ma Resca tira diritto, e i funzionari del Mibac si adeguano, sedendosi sulle rive del fiume ad aspettare - non sarà edificante, ma sono sfiniti dai continui attacchi di ministri come Bondi, Brunetta, Tremonti e via dicendo. Si arriva al 2010 inoltrato quando finalmente appaiono le «Sollecitazioni alla domanda di partecipazione»: una specie di pre-bando, redatto seguendo alla lettera le linee guida, per selezionare quanti hanno le caratteristiche per partecipare alle gare. Il bando vero e proprio arriva dopo, trasmesso unicamente alle imprese che hanno passato questa prima fase e che per iscritto e in solido si impegnano a non divulgarne il testo - ennesima prova luminosa della trasparenza negli italici appalti pubblici. Del resto non sorprende, in ballo ci sono ben 22 gare tra cui quelle succulentissime per i già ricordati grandi poli di attrazione (Roma archeologico e artistico, Pompei, Firenze e Napoli). A questo punto, e siano oramai nel 2011, scoppia il caos: già le “Sollecitazioni alla domanda», appaiono piene di incongruenze - a esempio si chiedeva a chi aveva una concessione di fare anche la sorveglianza notturna!!! -, scritte oscuramente, tanto che la pagina Faq (dei chiarimenti) del sito Mibac viene presa d'assalto dalle richieste di delucidazione (ancora oggi periziabili sul sito). Con i bandi veri e propri le cose vanno perfino peggio: fioccano i ricorsi al Tar, con gragnuola di sentenze in favore dei ricorrenti e conseguenti controricorsi.
Le pagine scritte in nome del Popolo italiano dal Tar di Firenze, che l’11 aprile scorso con malcelata ironia sberleffa il Mibac per le grossolane imprecisioni, meriterebbero di apparire a imperitura memoria in un'antologia della letteratura italiana. Ma si tratta realmente di errori? In certi casi sì, il dubbio invece sopraggiunge riguardo a una serie di misure vessatorie imposte dalle linee guida, il cui scopo sembra essere quello di restringere la concorrenza a pochi eletti (o Electi che dir si voglia). È il caso di onerosissime fideiussioni - e materia di plurimi ricorsi - richieste come si trattasse di appalti per lavori pubblici - es. la costruzione di un ponte -, e non di concessioni per dei servizi, come una libreria di un museo. Così, al solito, tutto si blocca e i precedenti gestori continuano a regnare indisturbati: delle 22 gare a oggi ne risultano assegnati appena 3, Paestum, Ravenna e Cerveteri/Tarquinia. Da un punto di vista economico si tratta di realtà minori, eppure anche in questo caso qualcosa non funziona. Si prenda Paestum dove era stata messa a bando anche una biglietteria per il sito archeologico dei templi: ma sul cancello campeggia l'avviso che per comprare i biglietti bisogna raggiungere il vicino museo. Perché nessuno controlla? Resta una domanda: perché con tutta la prosopopea di Resca sull'intervento dei privati, proprio la sua Direzione generale sembra aver originato il blocco delle poche imprese che si affacciavano nei beni culturali, cosicché lo Stato Pantalone rischia di dover pagare salatissimi indennizzi a causa dei ricorsi per i servizi aggiuntivi? Senza rimpianti: Goodbye mister Hamburger.
RESCABOLARIO
Benchmark
Alla Valorizzazione del Mibac snocciola benchmark (tabelle) con mirabolanti risultati: per il 2010 l'aumento è del 12,2% di presenze. Arrivano i complimenti di Berlusconi. Dalle statistiche del Mibac risulta però che al Pantheon, privo di biglietti o tornelli per contare gli ingressi, cambia il metodo di stima approssimativa dei visitatori, che da 1.740.00 mila del 2009 svettano così a 4.721.000 nel 2010. Senza questo aumento di 3 milioni di presenze ”stimate», i visitatori dei luoghi d'arte italiani si sarebbero attestati sui livelli dei 2008. Complimenti mister H!
Fundraising
Propugnatore dell'intervento dei privati nella cultura, una volta nominato nel 2010 commissario straordinario alla Grande Brera, dichiara alla stampa, anche all'Unità, che sarebbe riuscito a reperire dai privati tutti i fondi per la realizzazione del nuovo museo. Quando il suo mandato scade, qualche settimana fa, per Brera il fundraising sui privati ammonta alla mirabolante cifra di euro 0 (zero) e gli unici finanziamenti a disposizione sono pubblici e provenienti dal Cipe. Complimenti mister H!
Know-how
Mentre infuria la polemica sullo sponsor Tod's per Il Colosseo, dichiara alla stampa che dopo quell'accordo lui è costretto a chiedere a Della Valle se può usare l'anfiteatro Flavio per altre sponsorizzazioni. Malgrado lavori da oltre un anno al Mibac non ha ancora il know-how: tali concessioni vanno chieste alla Sovrintendenza competente (i.e. Roma). Oppure gli secca che la più importante sponsorizzazione nel settore Beni culturali non sia arrivata dalla sua direzione? Complimenti mister H!
Al vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro Susan George non c’è. Troppo prevedibili gli esiti, troppo smaccati – sostiene la chair of board del Transnational Institute di Amsterdam – i tentativi messi in atto dalle grandi corporation transnazionali: trasformare anche la natura in merce, privatizzarne l’accesso, escluderne i più poveri. Una deriva mercantile che l’autrice di Le loro crisi, le nostre soluzioni (Mondi media 2012), fiera oppositrice del modello neoliberista, contesta da decenni, e a cui sin dal 2007 oppone un «New Green Deal»: un nuovo grande piano di investimenti, che punti al rinnovamento ecologico del sistema produttivo ed energetico, coniugando sostenibilità ambientale e giustizia sociale. Nulla a che vedere con il concetto di green economy, tiene a precisare Susan George;Dopo giorni di incontri, dibattiti, accese discussioni e contestazioni, si è concluso il vertice di Rio. Qual è il suo giudizio?
«A Rio tutto questa volta è andata perfino peggio del solito, se possibile. Il World Business Council per lo sviluppo sostenibile, la Camera di commercio internazionale e altre lobbies delle corporation hanno perseguito la stessa agenda per 20 anni, e pare che siano riuscite ad aggiudicarsi una vittoria importante: le Nazioni Unite hanno completamento abdicato e si sono ritrovate a sostenere l’agenda di questi attori, a discapito di tutti gli altri, rimasti esclusi. Da quel che ho avuto modo di leggere o ascoltare, non mi sembra che i governi abbiano avuto niente di veramente “progressista” da dire. L’unica cosa degna di nota, che andava seguita, erano gli eventi laterali, quelli che hanno fatto capo a People Rio+20, la contro-conferenza del vertice».
Lei non ha mai nascosto il suo scetticismo nei confronti del concetto di «green economy», di cui molto si è discusso a Rio. Ci spiega meglio il suo punto di vista?
«Sulla green economy continuo a mantenere posizioni critiche, come quasi tutti gli altri sostenitori della giustizia climatica e della sostenibilità intesa nel senso più genuino del termine, perché sono le corporation che ne stanno definendo i contenuti, secondo i propri interessi. Non è un caso che stiano per essere introdotti dei prezzi veri e propri per i “servizi” che la natura fornisce all’uomo; che i principi mercantili stiano per essere installati in ogni settore, incluso quello della conservazione della natura, mentre i “prodotti” della natura vengono progressivamente privatizzati. Oggi bio-diversità non significa altro che un’ulteriore fonte di materiali grezzi, da cui trarre profitto. A ben guardare, le compagnie che si occupano di biologia sintetica sono così avanti rispetto a noi che non abbiamo ancora la minima idea delle conseguenze delle loro attività, penso per esempio agli organismi ibridi o alle “chimere”, che renderanno gli Ogm, che abbiamo a lungo contestato, delle innocue verdure da orto domestico. Su questo, dovremmo provare a chiedere qualcosa a Pat Mooney, dell’Etc Group, l’associazione che monitora il potere connesso alle tecnologie»
Per lei dunque dietro il concetto di green economy si nascondono molte insidie; eppure per molti bisogna comunque puntare sulla green economy, nonostante i rischi che implica, perché possiede quella carica «evocativa» necessaria affinché tutti riconoscano che è ora di trasformare le nostre società...
«Se mi sta chiedendo se dobbiamo tentare di prevenire il cambiamento climatico e mitigare a tutti i costi l’innalzamento delle temperature, allora rispondo di sì, che sono d’accordo: se il mondo del business è l’unico in grado di farlo, allora che lo faccia, visti i rischi enormi che abbiamo di fronte. Ma rifiuto di adottare un atteggiamento così rinunciatario, perché sono convinta che ci sia ancora l’opportunità di investire in un “Green New Deal”, riappropriandoci del nostro sistema finanziario, impazzito e disfunzionale, socializzando le banche, tassando le transazioni finanziarie a livello internazionale e investendo nel bene comune, in altri termini in quello che definisco, appunto, “Green New Deal”. Ciò significa che dovremmo tenere a mente, come priorità, le preoccupazioni sociali, i bisogni umani, la preservazione e la condivisione delle risorse scarse, e allo stesso tempo rispettare le comunità indigene. La green economy è tutt’altra cosa. Non dimentichiamo poi che ogni volta che abbiamo ceduto alle richieste o alle lusinghe del mondo del business abbiamo sempre dovuto pagare un prezzo eccessivo. Si guardi alla crisi attuale, ormai al suo quinto anno. Se dovessimo cedere anche questa volta, perderemmo tutto, inclusi i beni comuni, materiali e immateriali, probabilmente per sempre»
Chiude Rio+20 Per le ONG
una «occasione sprecata»
cronaca di Emidio Russo
Oggi si chiude, non senza polemiche, il vertice Onu sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro con 190 Paesi. Dopo vent'anni dal primo summit sulla Terra, che ha lasciato eredità importanti soprattutto sul clima, Rio+20 ha prodotto un testo che ha diviso la comunità. Bene per i Paesi decisori, anche se la Bolivia ha aperto un fronte contro il «colonialismo ambientale» seguita da altri Stati dell'America latina e alcuni africani, sonora bocciatura da parte delle associazioni e della società civile che in una lettera parlano di un documento «mediocre» e di un esito del vertice «segnato da gravi omissioni». Il documento presentato ai capi di Stato e ai rappresentanti di governo tre giorni fa, e ormai, a meno di sorprese dell'ultima ora, destinato a essere il testo finale, mette nero su bianco la green economy e avvia un lavoro per arrivare a inserire il conto ambientale nei Pil dei Paesi. Greenpeace, Oxfam, Wwf , Legambiente, ma anche la società civile e i popoli che hanno manifestato in questi giorni restano convinti della debolezza del vertice. Il Wwf parla di «occasione sprecata» ma sottolinea anche che «lo sviluppo sostenibile ha già messo radici e crescerà». Ieri è arrivato anche il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che propone un nuovo meccanismo di sovvenzioni per l'energia pulita.
La dichiarazione finale del vertice Rio+20 è un documento di 49 pagine e 283 articoli per lo sviluppo sostenibile. Le «Politiche di economia verde» sono definite «uno degli strumenti importanti» per lo sviluppo sostenibile; non dovranno imporre delle «regole rigide» ma «rispettare la sovranità nazionale» dei singoli Paesi senza diventare «mezzo di discriminazione» o «restrizione al commercio internazionale». Per quel che riguarda la governance mondiale per lo sviluppo sostenibile, il testo chiede un «rafforzamento del quadro istituzionale» mentre la Commissione ad hoc esistente viene sostituita da un «forum intergovernativo ad alto livello». Nel testo viene anche riaffermato il ruolo del programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente, rafforzato mediante delle risorse finanziarie «sicure» (ad oggi sono su base volontaria) e con una rappresentanza di tutti i Paesi membri dell'Onu (ad oggi sono solo 58). Obiettivi dello sviluppo sostenibile: sul modello degli obbiettivi del Millennio dell'Onu (con scadenza nel 2015) il vertice insiste nel fissare delle mete «in numero limitato, concise ed orientate all'azione».
SUSAN GEORGE, Economista, è considerata una delle maggiori studiose sulla fame nel Terzo mondo. Già vicepresidente di Attac France e membro del Board di Greenpeace
«Credette Cimabue ne la pittura tener lo campo»: e si sbagliava alla grande – si potrebbe dire, massacrando per par condicio anche Dante –: perché il suo campo non è la pittura, ma il marketing.
L’addetto culturale italiano a Washington, Renato Miracco, è venuto ad Arezzo per spiegare al sindaco Fanfani, all’assessore alla cultura Macrì, al Soprintendente Bureca e al vescovo Fontana perché dovrebbero precipitarsi a spedire negli Stati Uniti il grandissimo Crocifisso di Cimabue conservato nella chiesa di San Domenico. L’opera dovrebbe essere esposta a Washington nel 2013 (in occasione dell’Anno della cultura italiana in America) insieme al Satiro danzante di Mazara del Vallo: non perché qualcuno veda un nesso tra le due opere (almeno spero), ma perché si tratta di due ‘capolavori assoluti’ e ‘rarissimi’.
L’assessore Macrì ha prontamente commentato: «Siamo di fronte a un’occasione irripetibile che offre ad Arezzo due eccezionali opportunità. La prima è di legare, negli Stati Uniti, la cultura italiana alla nostra città. Gli eventi programmati in occasione dell’Anno della Cultura avranno formidabili riflessi mediatici in America e noi saremo sotto la luce dei riflettori. Essere stati scelti per rappresentare l’Italia è una gratificazione, ma soprattutto un “treno promozionale” che non può essere assolutamente perduto».
Non discuto le ottime intenzioni dell’assessore. Ma l’effetto di queste parole è terrificante: dipingono l’Italia come una vecchia aristocratica decaduta che per mantenersi deve prostituire le sue bellissime figliole, con i mezzani che si fregano le mani quando c’è un cliente col portafoglio gonfio. Guai a perdere l’occasione. Ma è davvero a questo che serve, Cimabue? Io credo di no, e credo che spedirlo in America sia profondamente sbagliato per almeno quattro ragioni.
La prima è che è pericoloso. Se tra i giganti dell’arte italiana ce n’è uno raro, fragile, sfortunato, ebbene quello è Cimabue. Il tempo, le alluvioni e i terremoti hanno decimato il corpus di questo patriarca della lingua figurativa italiana, e noi non possiamo mettere a rischio una delle sue poche opere sicure e ben conservate: un colosso di 3 metri e 36 per 2 e 67, dipinto a tempera su legno quando Dante aveva meno di cinque anni. Come possiamo anche solo pensare di caricarlo su un aereo per fargli fare l’uomo-sandwich del turismo aretino? L’anno scorso, l’arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori provò a spedire a Mosca un’opera analoga per importanza e dimensioni, il Crocifisso di Giotto di Ognissanti, ma per fortuna l’Opificio si mise di traverso: e c’è da sperare che anche questa volta gli organi di tutela battano un colpo.
La seconda è che è illegale. L’articolo 9 della Costituzione dice che la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della nazione italiana. E l’articolo 66 del Codice dei Beni culturali dice che «può essere autorizzata l'uscita temporanea dal territorio della Repubblica» delle opere vincolate solo per «manifestazioni, mostre o esposizioni d'arte di alto interesse culturale, sempre che ne siano garantite l'integrità e la sicurezza». Ma in questo caso non c’è alcun valore culturale, e la natura eccezionale dell’opera rende impossibile garantirne davvero la sicurezza.
La terza è che è diseducativo. Come dimostrano alcune sentenze della Corte Costituzionale, l’articolo 9 dice che il patrimonio serve ad aumentare la cultura, non a fare da volano allo sviluppo economico. Forse mi sbaglio, ma mi aspetterei che un sindaco, un assessore alla cultura, un soprintendente e un vescovo mettessero al primo posto la formazione dei cittadini: e non si strappa un crocifisso da una chiesa, un’opera dal suo contesto originario. E non si assoggetta al mercimonio un testo poetico e sacro così alto.
La quarta è che è inutile. Nessun economista pensa che ci sia davvero un nesso tra l’esposizione del Crocifisso di Cimabue a Washington e il turismo americano ad Arezzo: non c’è alcuna ricaduta, se non per l’immagine personale di coloro che organizzano l’‘evento’, i quali sono gli unici a guadagnarci.
Tutti gli altri – Cimabue, la città di Arezzo, la cultura italiana – hanno solo da perderci.
Il castello di Sergio Marchionne si è disfatto come una formina di sabbia quando arriva un'onda più potente e distrugge la costruzione con le torri allestita dal bambino in costume. Anche il castello di Marchionne era costruito sulla sabbia e una sentenza del tribunale di Roma l'ha buttato giù, semplicemente rimarcando un dato ovvio ma mai acquisito davvero: in Italia la legge vale anche per la Fiat. La Fiat ha discriminato gli operai iscritti alla Fiom per le loro idee e per colpire il sindacato da cui hanno deciso di farsi rappresentare. Su 2091 nuovi (si fa per dire) assunti non ce n'è uno solo con quella tessera in tasca. E questo non si può fare da noi, neanche invocando la produttività e la globalizzazione, il dio mercato e la madonna spread. Di conseguenza la multinazionale, già torinese, è costretta dalla sentenza ad assumere subito, oggi, nella nuova società di Pomigliano - nuova solo per mettere fuori il sindacato di Landini - 145 operai iscritti alla Fiom. E a pagare 3 mila euro a ciascuno dei 19 lavoratori che hanno intentato causa all'azienda, l'intero gruppo dirigente dei metalmeccanici Cgil sotto il Vesuvio.
Non basta. Siccome una sentenza precedente targata Torino obbliga la Fiat a riconoscere il diritto della Fiom a eleggere le sue rappresentanze, ora che 145 militanti di questo sindacato rientreranno in fabbrica automaticamente potranno darsi una rappresentanza e riprendere quell'attività democratica che nel castello di sabbia di Marchionne era stata loro impedita. Non è una vittoria della Fiom ma della democrazia perché riconosce ai lavoratori il diritto di scegliere il proprio sindacato e condanna la pretesa della Fiat di decidere al loro posto.
La sentenza di Roma rappresenta la vittoria di una straordinaria comunità operaia che ha resistito all'aggressione di un padrone prepotente che ha tentato in tutti i modi, con l'aiuto dei sindacati complici, dei governi, della politica subalterna di espellere i diritti dalla fabbrica. Franco non riesce a trattenere le lacrime, Antonio che è appena sbarcato da un congresso internazionale del sindacato dell'industria a Copenhagen si stropiccia gli occhi assonnati e non riesce a parlare. Maurizio Landini fatica a nascondere una commozione sincera e per primi ringrazia gli operai di Pomigliano che hanno resistito a minacce, ricatti e sirene che consigliavano di consegnare lo scalpo in cambio del posto. La controprova della discriminazione messa in atto dalla Fiat sta nel fatto che 20 operai di Pomigliano sono stati assunti solo dopo aver stracciato la tessera della Fiom. Ciro invece ringrazia le mogli e le compagne degli operai discriminati per aver sopportato e anch'esse resistito. «La cosa più bella questa mattina è stato il pianto a dirotto di mia moglie quando ci hanno telefonato la notizia della sentenza».
Dignità e orgoglio sono i pilastri di una resistenza durata due anni, due anni terribili in cassa integrazione perché marchiati a fuoco, con i figli che ti guardano negli occhi «e tu quasi ti vergogni», con i negozianti che non ti fanno più credito, i vicini di casa che non ti salutano, gli ex compagni di fabbrica che se ti incontrano abbassano la testa. Quella di Pomigliano è una storia modernissima che ricorda tante storie del Novecento e persino dell'Ottocento, quando non c'erano la globalizzazione e lo spread e i padroni delle ferriere facevano il bello e soprattutto il cattivo tempo. C'erano anche comunità di resistenti, mondine, minatori, ferrovieri, operai. Poi finalmente l'Italia postfascista si è data una Costituzione e persino uno Statuto dei lavoratori. Poi sono tornati i padroni delle ferriere, la politica è stata a guardare o ha applaudito l'uomo della provvidenza con il golfino, i sindaci democratici hanno detto che se fossero stati operai avrebbero detto sì a Marchionne che cancellava lo sciopero, la mensa, i riposi, la Fiom. I governi hanno assecondato e a Pomigliano sono stati costretti a fare come le mondine, i minatori, i ferrovieri, gli operai dell'Ottocento e del primo Novecento. I media si sono messi in linea. Sono tenaci questi operai ribelli, e generosi perché lottano per tutti e chiedono che tutti e 5 mila tornino al lavoro. E se di lavoro ce n'è poco, si possono sempre fare i contratti di solidarietà seguendo l'esperienza della Volkswagen. Dice Ciro: «Mando un pensiero anche a chi non ce l'ha fatta, a chi preso per la gola ha piegato la testa con la speranza di tornare al lavoro e magari ancora aspetta una chiamata. Non li abbandoneremo. Spero che questa sentenza dia coraggio a chi è stato vinto dalla paura».
Anche nella Cgil in molti avevano «consigliato» agli operai di Pomigliano e in seguito a quelli di Mirafiori di mettere da parte orgoglio e principi per mantenere il diritto a fare sindacato in fabbrica. Bella roba. Andrea non si tiene, in un misto di rabbia e di gioia quasi grida: «Marchionne dovrebbe finalmente capire che da questa fabbrica non riuscirà mai a cacciarci». Insomma, Corvo rosso non avrai il mio scalpo.
Come dice il commosso Landini, che deve il suo successo sindacale e mediatico anche all'orgoglio di questa comunità operaia e lo riconosce, «Marchionne dovrebbe capire che la determinazione, la voglia di lavorare e lavorare bene di queste persone farebbero funzionare meglio le sue fabbriche». Chissà che pensa Marchionne, tutti si chiedono cosa potrà mai inventarsi questa volta. Con quale faccia potrebbe reagire annunciando la dipartita dall'Italia (che sta praticando da mesi) perché vogliono fargli rispettare le leggi e le sentenze? La verità è che dei cinquemila dipendenti della vecchia fabbrica di Pomigliano ne ha riassunti solo duemila, perché la Panda non si vende e la Fiat continua a perdere quote nei mercati italiano ed europeo. Però Marchionne pensava di avere almeno spezzato le reni a quei ribelli della Fiom che come dice Crozza gli tirano i gatti morti sul finestrino. Ha sbagliato i conti, se non si investe in nuovi prodotti si esce dai mercati e infatti investe soltanto negli Usa dove la Chrysler non sta uscendo dal mercato. E sbaglia perché non ha capito di che farina sono fatti gli operai della Fiom di Pomigliano. Resta la speranza, seppur vaga, che tanti errori possano insegnargli qualcosa. Ma è già una grande soddisfazione, questo ci sia consentito, vedere questi nostri amici partenopei piangere di gioia e immaginare la natura diversa delle lacrime di Marchion
Avevamo, purtroppo, ragione qualche settimana fa (il manifesto del 5 scorso) a gettare l'allarme alla notizia che il Pdl si apprestava a far proporre dai suoi senatori la trasformazione della forma di governo della Repubblica da parlamentare in semipresidenziale, con un emendamento al disegno di legge costituzionale, detto ABC, esemplare, già da solo, di quello che non può essere, per decenza, un progetto di legge di revisione costituzionale. Di emendamenti poi ne sono stati presentati nove. Ce ne vorrebbero il doppio, il triplo ed anche più se fosse logicamente, giuridicamente, democraticamente concepibile una siffatta proposta.
Infatti, non lo è. Perché non è immaginabile che si possa modificare la forma di governo di un Paese civile in assenza di una informazione estesa, dettagliata, meditata, di una proposta discussa, esaminata, dibattuta. Senza cioè che le elettrici e gli elettori ne sappiano qualcosa. Senza che i membri del Parlamento possano esibire qualche straccio di mandato politico. Contro, radicalmente contro la volontà netta, chiara, univoca espressa sei anni fa dal corpo elettorale con referendum oppositivo al una deliberazione legislativa parlamentare diretta ad analoghi fini, quelli di concentrare poteri in un solo organo. Una dichiarazione di volontà che confermava la forma di governo parlamentare e quindi ne rinnovava la validità e l'efficacia. Non è concepibile quell'emendamento e cento altri di quel tipo - ed è per chi scrive la ragione risolutiva - perché la forma di governo è sottratta al potere di revisione costituzionale dall'articolo 139 della Costituzione.
Ma certi settori dello schieramento politico italiano non limitano la loro vocazione ad indignare. Come se non bastasse quello o quelli sul semipresidenzialismo, un altro emendamento risulta presentato al Senato sul disegno di legge costituzionale ABC. È l'emendamento volto ad aggettivare il Senato col termine "federale". Alla modifica della forma di governo verrebbe aggiunta così quella del tipo di stato. Una pretesa abnorme, impossibile a pensarci. Si tratterebbe di sconvolgere l'intera struttura dello stato-soggetto, di tutti i suoi apparati, di tutte le competenze, di tutti i poteri pubblici, l'intera distribuzione delle risorse pubbliche e dei debiti dello stato. Si tratterebbe cioè di erigere un altro stato. Lo si vorrebbe con un emendamento.
Non è follia, come appare. Si tratta della più recente manifestazione dell'uso illegale del potere legale a fini distorti, privati, eversivi. È l'uso che abbiamo tante volte denunziato in questo ventennio. Oggi viene sperimentato in sede di revisione costituzionale per ottenere dalla Lega i voti per il semipresidenzialismo dando in cambio una denominazione al Senato del tutto ingannevole, che potrebbe ben prestarsi però a scardinare l'unità della Repubblica.
La Lega mirerebbe a compensare con una falsa denominazione l'uso privato del denaro pubblico che ne vede dimezzati i consensi. Il Pdl, nel disegno delle sue frange estreme, guadagnerebbe invece l'ultima possibilità di offrire al suo capo lo strumento per sperimentare ancora una volta le sue uniche qualità, quelle di imbonitore che ha già determinato tante sciagure all'Italia.
La combinazione dei due "emendamenti" riserverebbe alla Repubblica l'intruglio letale. Alla democrazia italiana l'inavvertita scomparsa.
Nel decreto Sviluppo è prevista la realizzazione di un piano nazionale per le città, per riqualificare le aree urbane. Ancor prima di vederne i dettagli, s’impongono due questioni. La prima è il filo diretto con i comuni e il ruolo marginale assegnato alle Regioni: una scelta che potrebbe rivelarsi poco opportuna. La seconda riguarda il finanziamento del progetto. Già di per sé piuttosto modesto, sorgono alcuni dubbi sulla sua effettiva disponibilità. Perché si tratta di risorse dirottate da altri piani di spesa. E alcune sono già state impiegate.
Il decreto legge sullo sviluppo, dopo qualche falsa partenza, è finalmente in carreggiata di marcia. Prevede anche la realizzazione di un piano nazionale per le città, per riqualificare le aree urbane, particolarmente quelle degradate; dovrebbe tradursi nella realizzazione di nuove infrastrutture, in interventi di riqualificazione urbana, nella costruzione di parcheggi, case e scuole. Una cabina di regia sovrintenderà alla sua attuazione, che necessiterà, verosimilmente, di atti amministrativi specifici. In attesa che la fisionomia del piano si delinei con più precisione, è comunque opportuno soffermarsi su due questioni rilevanti per il suo successo.
UN FILO DIRETTO STATO-COMUNI?
Lo strumento al quale si prevede di ricorrere per attuare il piano è il “Contratto di valorizzazione urbana”, con il quale vengono definiti e disciplinati gli impegni di tutti i soggetti, pubblici e privati, che realizzano interventi in una determinata area. Il piano nazionale per le città è costituito dall’insieme dei contratti di valorizzazione promossi dai singoli comuni e selezionati dalla cabina di regia.
Il baricentro delle decisioni è perciò individuato nelle amministrazioni comunali, mentre diventa marginale il ruolo delle Regioni, che invece finora ha prevalso nelle politiche relative all’edilizia e alla riqualificazione delle città. Per esse è prevista la sola partecipazione alla cabina di regia di un rappresentante della loro conferenza. È un orientamento dovuto, forse, alla convinzione di accelerare per questa via i tempi del piano, e non costituisce una novità assoluta. Già il governo Prodi nel luglio 2006 finanziò, con 99 milioni di euro, direttamente 13 comuni metropolitani per realizzare interventi per ridurre il disagio abitativo. Prima di puntare di nuovo così decisamente sui soli comuni, converrebbe forse capire quale è lo stato di attuazione di quel programma .
Né ci sarebbe da stupirsi se la sottovalutazione del loro ruolo in un piano di tale importanza spingesse le Regioni sulla strada di un contenzioso costituzionale. E potrebbe anche valere la pena di interrogarsi sull'opportunità di rigenerare e riqualificare grandi ambiti urbani senza coinvolgere il livello istituzionale che definisce i contesti di programmazione territoriali e settoriali di ampia scala: è una scelta che farà pendere la bilancia più dal lato dei benefici o da quello dei costi?
NOZZE CON I FICHI SECCHI?
Gli interventi da realizzare con il nuovo piano devono essere, si legge nel decreto, “di pronta cantierabilità”. Condizione, questa, indispensabile per un’iniziativa che vuole contribuire a invertire il ciclo congiunturale negativo e rilanciare l'economia. Non solo l’obiettivo non è supportato da un adeguato finanziamento, ma la distribuzione temporale di quest’ultimo non è coerente con l’intenzione di un rapido avvio degli interventi. Nel complesso, lo stanziamento, modesto, è di 224 milioni di euro (che confluiscono in un apposito fondo istituito presso il ministero delle Infrastrutture e trasporti), diluito nei sei anni dal 2012 al 2017: quest'anno sono disponibili 10 milioni di euro, 24 il prossimo, 40 nel 2014 e 50 per ognuno dei successivi tre anni. Prescindendo dal loro ammontare, sarebbe, però, opportuno accertare la loro effettiva disponibilità. La quasi totalità, 219,5 milioni di euro, proviene dalle economie dell'articolo 18 della legge 203/1991 (che finanziava la costruzione di alloggi da assegnare agli appartenenti alle forze dell'ordine) “già destinate all'attuazione del piano nazionale di edilizia abitativa” (specifica il decreto sviluppo), promosso dall'articolo 11 della legge 133/2009; questa cifra dovrebbe, quindi, essere “libera”, nel capitolo del bilancio statale sul quale sono allocate le risorse di quel piano. Non sembra, però, sia così. Per il piano dell’edilizia sono stati stanziati 844 milioni di euro. Cifra, questa, racimolata tra economie e residui di precedenti leggi e per circa 550 milioni di euro revocando i finanziamenti assegnati alle Regioni per la realizzazione di un programma di edilizia residenziale pubblica, in qualche caso già in fase di attuazione al momento della revoca. Un'indagine della Corte dei conti evidenzia che, al 20 dicembre 2011, degli 844 milioni di euro ne erano già stati impegnati 728; i 116.228.083 euro ancora disponibili a quella data sono stati ripartiti tra le Regioni con il decreto 19712/2011 del ministero delle Infrastrutture (non furono allora censiti come impegni dalla Corte dei Conti, che registrò il decreto nel gennaio 2012). Il piano per l’edilizia abitativa non sembra, dunque, avere risorse libere da travasare in quello per le città. Per liberarle occorrerebbe revocare finanziamenti già assegnati a programmi che sono in avanzata fase di progettazione o anche di realizzazione. Ma se ciò dovesse verificarsi sarebbe come richiamare in vita le vacche che Benito Mussolini spostava da una fattoria all'altra man mano che si procedeva alla loro inaugurazione.
Le preoccupazioni di Lungarella sono ragionevoli, ma non sono le uniche né, forse, le peggiori, se teniamo conto del clima e dei precedenti. Il primo segnale di pericolo è nel titolo del nuovo strumento: “Contratto di valorizzazione urbana”. Sappiamo fin troppo bene che, quando si parla di “valorizzazione” nelle politiche urbane e territoriali ci si riferisce all’aumento della rendita urbana e della quota di essa che ne viene a quelli che una volta si chiamavano speculatori, e oggi “investitori immobiliari. Sappiamo che dal pensatoio (si fa per dire) dal quale emergono questi strumenti, sono nati e proliferati quei progetti speciali, battezzati con accattivanti denominazioni, tutti orientati a facilitare gli affari degli “investitori immobiliari derogando dalle regole di una corretta pianificazione urbanistica e di un’adeguata partecipazione sociale. A chi serviranno i pochi spiccioli sottratti ad altri programmi pubblici. A migliorare la qualità dei quartieri investiti dalla valorizzazione” per i loro attuali abitanti, ad accrescere la quota dello stock di edilizia residenziale utilizzata da chi non può accedere al “mercato”? o a migliorare il “portafoglio titoli” dei soli noti. Vigilate, genti, vigilate.
Benvenuti a Rio meno 20. Al vertice mondiale sullo sviluppo sostenibile vincono la burocrazia e la governance che ha prodotto la crisi. A perderci sono l’umanità e la democrazia, ostaggi degli interessi di banche e multinazionali. Il documento scaturito da quello che è ormai un circo itinerante non contiene assolutamente nulla di concreto per affrontare la realtà del disastro ecologico e della crisi sociale ed economica. Una visione economicista pregna un documento vago e privo di qualsiasi ambizioni. L’assenza dei capi di Stato dei principali Paesi responsabili della degradazione planetaria e delle politiche finanziarie che hanno collassato l’umanità, rende impossibile pensare di ottenere cambiamenti e impegni concreti nella due giornate finali del vertice. La green economy che emerge dal testo è indefinita e si affida al mercato, rivendicando libertà di azione e nessuna regola. Con buona pace di chi ha colpevolmente affidato le proprie speranze alle inesistenti virtù di quello che è ad oggi un palese tentativo di finanziarizzazione della crisi ecologica. Il documento elogia addirittura il ruolo positivo dei grandi organismi finanziari nel raggiungimento dello sviluppo sostenibile. Come dire che la centrale Enel a carbone di Porto Tolle è green economy e fa bene alla salute.
Molte delegazioni governative affermano che non si poteva fare di più. Ma perché non si poteva fare di più? Chi e cosa impedisce di prendere le decisioni di cui abbiamo bisogno per il nostro futuro? È questo il grande tema che interroga l’etica e la politica, più che la tecnica e la scienza. Il forum dei popoli oggi ha indetto la grande manifestazione per la Terra. «La speranza è nelle strade e nelle piazze che si riempiono di nuove soggettività impegnate a difendere ed affermare diritti, beni comuni, economie sostenibili, lavoro e democrazia. Le strade e le piazze sono gli unici luoghi rimasti pubblici dove si può fare politica. Dentro i palazzi della burocrazia non c’è più niente che possa aiutarci», il commento del sociologo portoghese Boaventura De Sousa. La sfida è quella di costruire nuovi paradigmi e modelli in grado di farci superare le crisi.
ONU Vertice verde. La conferenza dei negoziatori scodella un documento di compromesso per il vertice onu sullo sviluppo sostenibile. Cancellati i punti controversi, sulla natura vince il mercato
RIO DE JANEIRO .Oggi Dilma Roussef dà l'avvio ufficiale al vertice. Mentre i movimenti mondiali scendono in piazza
Alla fine, dopo una notte di attesa e di continui rimandi, ieri mattina il governo brasiliano ha imposto con forza la sua linea al termine di un negoziato confuso e problematico, scodellando il testo della dichiarazione finale del vertice di Rio. Molte punti controversi sono così state «tagliati». La presidente Dilma Rousseff voleva avere un testo quasi finale da distribuire al G20 di Los Cabos, in modo da ricevere una legittimazione anche dai tanti presidenti e capi di stato, Barack Obama e Angela Merkel in testa, che non si sono presi la briga di volare dal Messico fino in Brasile viste le persistenti turbolenze economiche e finanziarie mondiali.
Per i padroni di casa il Vertice delle Nazioni unite sullo sviluppo sostenibile, che si apre oggi, si deve chiudere a tutti i costi con una qualche forma di consenso. Ma c'è di più: oramai il Brasile, come gli altri paesi Brics, ha l'ambizione di accreditarsi quale potenza globale capace di gestire i conflitti e negoziare materie economiche alla pari con i paesi più forti, non necessariamente nell'interesse del resto dei paesi del Sud del mondo. Proprio la parte «finanziaria» del testo, cara al gruppo dei G77 che comprende 130 paesi in via di sviluppo, è stata «spostata» al G20 nella convinzione che il vertice di Rio non sia adatto a trattare tali questioni. D'altronde i Brics hanno finalmente messo sul tavolo i contributi destinati all'Fmi per salvare l'Europa dalla crisi, e chiedono qualcosa in cambio.
Dunque Rousseff ha portato a Los Cabos un testo al ribasso, chiedendo un'accettazione del compromesso sui fondi richiesti dai paesi in via di sviluppo per pagare la transizione verso l'«economia verde». In cambio i paesi ricchi l'hanno spuntata su molte questioni, annacquando gli impegni siglati alla conferenza di Rio del 1992 e ricevendo il via libera a un'idea di green economy che privilegia la logica di mercato senza cambiare gli equilibri esistenti, né preservare l'ambiente.
Analizzando il testo approvato a fatica dai negoziatori, sorprende che la definizione di economia verde non faccia riferimento al principio 7 della carta di Rio su una «responsabilità condivisa ma differenziata» tra paesi del Nord e del Sud del mondo. Così manca ogni riferimento forte al bisogno di controllare l'operato delle multinazionali e del settore privato. Una vittoria netta per gli Usa. Di contro, le pressioni della società civile e di alcuni governi del Sud sono riuscite a tenere fuori dal testo il riferimento al commercio dei servizi degli ecosistemi, e la forte enfasi sul settore privato come principale attore dell'economia verde.
L'Unione europea è riuscita a strappare il processo richiesto per la definizione dei nuovi obiettivi di «sviluppo sostenibile» che dopo il 2015 andranno a rimpiazzare i già limitati obiettivi di sviluppo del millennio, probabilmente non raggiungibili. Di nuovo, le questioni economiche e l'approccio differenziato Nord-Sud restano fuori da questo processo. Il programma delle Nazioni Unite sull'ambiente, dominato da visioni liberiste, sarà rinforzato, anche se non come pretendeva l'Ue prima del vertice. La menzione del diritto umano all'acqua per fortuna ha resistito, ma nella sezione sull'energia manca alcun impegno serio a tagliare i sussidi ai combustibili fossili.
Il Sud del mondo porta a casa qualcosa, ma non tutto quello avanzato nella sua proposta di compromesso per la sezione sui mezzi di attuazione degli impegni, ossia finanza e trasferimento di tecnologie. Sarà definita una strategia per finanziare lo sviluppo sostenibile in un processo intergovernativo alle Nazioni Unite, e almeno in questa sede si potrà discutere anche di questioni economiche. Ma non c'è nessun impegno sui fondi, se non l'invito alle solite e controverse istituzioni finanziarie internazionali a produrre risorse adeguate per i poveri. Gli impegni già presi e ormai vuoti sull'aiuto allo sviluppo sono ribaditi per far contenti i paesi africani, ma in pochi ci credono. E il trasferimento di tecnologie resta su base volonaria, una barzelletta se si pensa alle occasioni perse.
Da vedere ora chi oserà, anche tra i paesi del Sud del mondo, rompere le uova nel paniere al governo brasiliano nel giorno di apertura del vertice. Lo stesso fronte potrebbe finire per spaccarsi, come successo in altri casi nei negoziati sul clima. Alla fine è l'ennesimo fallimento, e in futuro sarà difficile riporre fiducia nei processi Nazioni Unite. Ma i movimenti mondiali prenderanno le strade di Flamengo oggi proprio quando Dilma avvierà il vertice ufficiale, rigettando l'economia verde delle élite globali e cercando altre strade per risolvere le crisi del pianeta e del capitalismo.
Dighe devastanti ma «pulite»
di Antonio Tticarico
Di fronte alla crisi energetica e ai cambiamenti climatici, nel dibattito sull'economia verde e sulla ripresa economica incoraggiata dalle grandi infrastrutture, le grandi dighe stanno ritrovando spazio sull'agenda di governi e settore privato. Il vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro non fa eccezione, anzi. Nonostante i devastanti impatti sociali e ambientali che hanno segnato la storia dei mega sbarramenti nel Novecento, l'idroelettrico viene sempre più promosso come energia «verde».
In Brasile più di un milione di persone ha dovuto lasciare le proprie case e terre per far spazio ai bacini delle dighe. Ben 24mila chilometri quadrati di terre sono state sommerse, 1.500 riserve naturali sacrificate, il 70 % degli impattati non ha ricevuto alcun risarcimento. Nel paese sono state costruite più di 615 mega dighe e 64 sono in costruzione. Negli ultimi anni il governo ha riaffermato la centralità dell'idroelettrico nella strategia energetica nazionale. Entro il 2020 sarà necessario trovare 45.000 megawatt aggiuntivi, che deriveranno in buona parte dalle dighe. Ma a differenza di quanto reclamizzato dalle istituzioni, alla fine l'idroelettrico non risulta così economico. Il Brasile è il quinto paese al mondo per le tariffe elettriche più elevate e 2,7 milioni di persone non hanno ancora accesso all'elettricità, soprattutto nelle aree dove sono state realizzate le dighe!
Dopo una lunga controversia legale, nel nord del paese è ormai in fase di costruzione la diga di Belo Monte, che sarà la terza più grande al mondo. Proprio questo mastodontico progetto è diventato il simbolo della resistenza del Mab, il movimento nazionale degli «impattati delle dighe», che oggi come membri attivi include più di 20mila famiglie. Non è un caso, visto che i grandi sbarramenti in Brasile sono sinonimo di violazione dei diritti umani: la stessa Commissione sulla biodiversità, promossa dall'allora presidente Lula, lo ha ammesso, evidenziando le paghe da fame de lavoratori.
La strategia del Mab è un'ispirazione per tutti i movimenti sociali. Per uscire dalla criminalizzazione della resistenza, il movimento ha puntato sulla strutturazione a livello locale per radicarsi così nella società brasiliana e promuovere un ampio dibattito su un nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.
Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché «l'acqua e l'energia non devono essere merci!».
nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.
Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché «l'acqua e l'energia non devono essere merci!».
Dighe devastanti ma «pulite»
RUBRICA - ANTONIO TRICARICO
Di fronte alla crisi energetica e ai cambiamenti climatici, nel dibattito sull'economia verde e sulla ripresa economica incoraggiata dalle grandi infrastrutture, le grandi dighe stanno ritrovando spazio sull'agenda di governi e settore privato. Il vertice sullo sviluppo sostenibile di Rio de Janeiro non fa eccezione, anzi. Nonostante i devastanti impatti sociali e ambientali che hanno segnato la storia dei mega sbarramenti nel Novecento, l'idroelettrico viene sempre più promosso come energia «verde».
In Brasile più di un milione di persone ha dovuto lasciare le proprie case e terre per far spazio ai bacini delle dighe. Ben 24mila chilometri quadrati di terre sono state sommerse, 1.500 riserve naturali sacrificate, il 70 % degli impattati non ha ricevuto alcun risarcimento. Nel paese sono state costruite più di 615 mega dighe e 64 sono in costruzione. Negli ultimi anni il governo ha riaffermato la centralità dell'idroelettrico nella strategia energetica nazionale. Entro il 2020 sarà necessario trovare 45.000 megawatt aggiuntivi, che deriveranno in buona parte dalle dighe. Ma a differenza di quanto reclamizzato dalle istituzioni, alla fine l'idroelettrico non risulta così economico. Il Brasile è il quinto paese al mondo per le tariffe elettriche più elevate e 2,7 milioni di persone non hanno ancora accesso all'elettricità, soprattutto nelle aree dove sono state realizzate le dighe!
Dopo una lunga controversia legale, nel nord del paese è ormai in fase di costruzione la diga di Belo Monte, che sarà la terza più grande al mondo. Proprio questo mastodontico progetto è diventato il simbolo della resistenza del Mab, il movimento nazionale degli «impattati delle dighe», che oggi come membri attivi include più di 20mila famiglie. Non è un caso, visto che i grandi sbarramenti in Brasile sono sinonimo di violazione dei diritti umani: la stessa Commissione sulla biodiversità, promossa dall'allora presidente Lula, lo ha ammesso, evidenziando le paghe da fame de lavoratori.
La strategia del Mab è un'ispirazione per tutti i movimenti sociali. Per uscire dalla criminalizzazione della resistenza, il movimento ha puntato sulla strutturazione a livello locale per radicarsi così nella società brasiliana e promuovere un ampio dibattito su un nuovo modello energetico. Allo stesso tempo ha forgiato alleanze inaspettate con i sindacati e con i movimenti campesinos nella «Piattaforma operaia e contadina per l'energia», che rivendica una legge che riconosca agli impattati delle dighe diritti e compensazioni. Il Mab crea anche progetti per aiutare le popolazioni a rimanere sul territorio con agricoltura sostenibile ed energia solare autoprodotta. Il movimento promuove con accademici e altre organizzazioni corsi di formazione sulla crisi energetica e del capitalismo. Allo stesso tempo in nome della solidarietà internazionale fa alleanze in tutta l'America Latina con gli impattati dalle mega opere costruite dalle imprese brasiliane, come per esempio Oderbrecht.
Il governo ha dovuto aprire un tavolo negoziale con la nuova piattaforma del Mab, anche se la presidentessa Dilma Rousseff si rifiuta di attuare la nuova legge sul catasto che aiuterebbe le persone danneggiate. Ma i rischi all'orizzonte sono tanti: il governo sta favorendo una nuova stagione di partnership pubblico-privato per agevolare la privatizzazione del servizio idrico; si parla di nuove dighe in Amazzonia, e soprattutto nell'economia verde prende lustro l'idea, già sperimentata in Australia e Cile, di introdurre un sistema di commercio dei diritti sull'acqua. Lo stesso tema di cui si discute oggi in Europa e altrove. Ma il Mab non demorde e pianifica già per il marzo del 2013 il terzo incontro nazionale di tutti gli impattati, perché
Questo sisma che non cessa – ancora la terra trema mentre scrivo queste note – ha provocato una immane serie di devastazioni: il patrimonio culturale ha subito danni così rilevanti da rendere irriconoscibili interi centri abitati. Si tratta di un tessuto di edifici e infrastrutture storiche diffuso in modo così capillare da risultare costitutivo del volto di intere cittadine e paesi. E’ quell’insieme di rocche, castelli, ville signorili, edilizia rurale, chiese, conventi, torri che rappresenta la stessa possibilità di identità – e quindi di esistenza - di intere cittadine, da Finale Emilia a Mirandola, da San Felice a Medolla. Per questo ne va respinta l’etichetta di “patrimonio minore”: in questa bassa emiliana, come quasi ovunque in Italia, il patrimonio culturale coincide con lo spazio vitale, il luogo dove si vive e si lavora. Perderlo significa condannarsi ad uno spazio senza identità, un ‘non luogo’ senza storia, nè memoria.
Proprio per questo avremmo voluto vedere, in queste settimane, una reazione immediata ed immediatamente operativa degli organi di tutela territoriali. Al contrario, dobbiamo constatare con amarezza che il modello – negativo – aquilano che ha già provocato il degrado, forse irreversibile, di uno dei più importanti centri storici italiani continua ad essere adottato. il Mibac si è “autoesautorato” dai propri compiti statutari: ormai completamente incardinati nella struttura della protezione civile, gli organi territoriali preposti alla tutela sono scomparsi, in questi giorni, dal territorio e l’attività del Direttore Regionale si riduce quasi esclusivamente alla sottoscrizione di ordini di demolizione. Quasi che l’esercizio della tutela sia considerato ostativo o comunque incompatibile con le più urgenti iniziative di primo soccorso e messa in sicurezza.
Il terremoto ha così evidenziato con spietatezza lo stato di debolezza del sistema di tutela del nostro patrimonio culturale: mancano i mezzi ed è sempre più evidente che il Mibac, annichilito dai tagli lineari tremontiani mai più recuperati, non è più in grado di garantire una decorosa operazione di controllo e manutenzione generalizzata e continuativa del patrimonio che è chiamato a tutelare.
Da anni, per mancanza di risorse e di personale, non vengono più effettuati controlli sistematici, per non parlare dei restauri riservati ormai solo alle “eccellenze”. Le verifiche anche statiche sono episodiche e legate ad eventi particolari. In pratica questo significa l’abbandono ad un destino di inesorabile degrado, accelerato, in questo caso, dall’evento sismico. E bastano davvero pochi anni di mancata manutenzione per aggravare il rischio di vulnerabilità in maniera determinante. Come è successo per Pompei: non appena si cessa l’opera di ricognizione e manutenzione, i danni possono essere devastanti.
La mancanza di un programma di manutenzione degno di questo nome è quindi divenuto il fattore moltiplicatore che ha ingigantito l’effetto distruttivo del terremoto sul patrimonio culturale.
Eppure, anche in questo campo, il Mibac è stato per molti anni un punto di riferimento a livello internazionale, almeno per quanto riguarda le metodologie. A partire dal piano di prevenzione antisismica elaborato da Giovanni Urbani all’inizio degli anni ’80 e da quella Carta del Rischio costituita, faticosamente, a partire dagli anni ’90 dall’Istituto Centrale del Restauro: entrambi i progetti abbandonati per mancanza di risorse e di una visione di politica culturale di ampio respiro.
Da lì occorre ripartire, senza incertezze, abbandonando le chimere della crescita drogata delle Grandi Opere: Italia Nostra propone quindi che le risorse – tutte – previste per la costruzione di infrastrutture quali la pedemontana o la bretella Sassuolo – Campogalliano siano destinate all’opera di ricostruzione e di riqualificazione degli immobili con l’adozione di regole antisismiche finalmente cogenti.
Subito dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980, Antonio Cederna puntò il dito immediatamente sulla mancanza di normative antisismiche e sul dissesto idrogeologico: “Il terremoto è dunque un aspetto di quell’autentico sisma permanente che è il saccheggio generalizzato del territorio e delle sue risorse.”
Forse non è ancora troppo tardi per cominciare ad ascoltarlo.
Da cittadini e da abbonati dobbiamo augurarci che arrivino designazioni spedite dalle associazioni alle quali, con felice intuizione, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, ha chiesto due nomi da votare per il CdA Rai in Vigilanza. Si tratterebbe di una soluzione non partitica che anche le altre forze dovrebbero adottare per uscire da una palude altrimenti micidiale. Non si cambierà in tal modo il «governo» Rai che l’oscena legge Gasparri fa dipendere dall’esecutivo e dai partiti, ma se ne mitigheranno gli effetti disastrosi. Specie se per il Consiglio di Amministrazione si sceglieranno persone, oltre che oneste, capaci e competenti nella gestione di un’azienda tanto complessa. Il tutto in attesa, ovviamente, della indispensabile riforma della «governance», oggi lontana da ogni formula e garanzia europea.
Certo, i conti rappresentano un problema chiave per la Rai. È in grave crisi la raccolta pubblicitaria drenata, come ad altre tv generaliste, nelle forme più varie e insidiose. La Sipra, nel 2011, è rimasta sotto dell’8,2 per cento rispetto all’obiettivo di 1.050 milioni e il suo 2012 rischia di risultare anche più magro. Nel contempo il canone di abbonamento, aumentato a 112 euro (+1,5), continua ad essere il più basso d’Europa (la Francia è a 123, l’Irlanda a 160, la Gran Bretagna a 183, la Germania a 213, l’Austria a 264 e via salendo) e anche il più evaso.
Poi va registrata la perdita della Formula Uno a beneficio di Sky. I diritti tv del circus della F1 sono passati all’emittente satellitare: Sky trasmetterà in esclusiva 11 dei 20 Gran Premi della prossima stagione mentre i restanti 9 saranno “girati” anche alle televisioni in chiaro. L’addio alla F1, sommato a quello del Moto GP e, in prospettiva, dei Mondiali di Calcio, indeboliscono la “fedeltà” dell’abbonato. Del resto, negli ultimi sette anni l’azienda ha ridotto di circa 300 milioni i costi gestionali e tuttavia quelli per il personale sono saliti di 150. Ma i programmi di maggior qualità e impatto sono da tempo prodotti all’esterno.
Sono soltanto conti questi, per i quali occorrono guardiani severi quali la presidente Annamaria Tarantola (Bankitalia) e il direttore generale designato Luigi Gubitosi? E però chi si occuperà di contenuti, di programmi, di palinsesti diversificati e attraenti? È problema tecnico-finanziario l’aver cancellato nel recente passato programmi come quelli di Santoro e di Fazio-Saviano, di alto ascolto e di non meno alto ritorno pubblicitario? O l’aver espulso via via tutta la satira italiana, presente in blocco in Rai fino al 2002, in testa Corrado Guzzanti ora a Sky? È problema tecnico-finanziario il pluralismo politico-cul turale nei tg e nei giornali radio del servi zio pubblico, nazionali e regionali? È pro blema tecnico-finanziario la crisi complessiva di identità della Rai nel quadro delle tv pubbliche europee, l’oscuramento del la sua “mission” di radio- televisione pubblica? Pesano in questo soltanto i conti?
Il rischio che il cavallo di Viale Mazzini, ulteriormente salassato da una cura soltanto finanziaria, stramazzi è facile da prefigurare per chi conosce dall’interno la Rai. A forza di attaccare quasi unicamente la “casta” si sono illusi gli italiani che, tagliati certi costi della politica, tornerebbe florido il bilancio dello Stato. Una fesseria palese, avallata però dai sondaggi. Discorso analogo vale per Viale Mazzini.
Si dirà che Mediaset sta anche peggio. Verissimo. Uno dei più acuti osservatori del settore, Marco Mele, sul Sole 24 Ore, ha scritto di recente: «I debiti (della Rai) sono pari a circa 300 milioni: per ora non sono preoccupanti (Mediaset è vicina ai 3 miliardi), ma rischiano di crescere se la pubblicità continuerà a calare e gli ascolti a frammentarsi con il digitale. La tv è un’industria di contenuti e la Rai, assente dalla paytv, ha crescenti difficoltà a competere».
Mario Monti ha prefigurato un vertice a due dai poteri, di fatto, commissariali: e allora almeno uno dei due doveva essere un vero manager della multimedialità, un conoscitore profondo del mondo radio-televisivo. Tanto più che rimane del tutto irrisolto il problema delle “garanzie”: qua le organismo garantirà infatti alla maniera inglese, francese o tedesca la reale autonomia dall’esecutivo e dai partiti del nuovo CdA e soprattutto del duo di comando?
Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
Così sul parigino le Figaro il 20 febbraio 1909 il nostro Filippo Tommaso Marinetti lanciava il suo Manifesto del Futurismo. Diventato poi come sappiamo, volenti o nolenti, anche il manifesto della nostra coatta esistenza quotidiana: spiegateglielo voi al precario isterico imbottigliato col furgone nell'ingorgo, che il suo carico di sedie da giardino pieghevoli, che consegnerà quando ormai è buio, " è più bello della Vittoria di Samotracia"! Eppure c'è ancora chi canta il futuro luminoso del bolide sfrecciante, tanto più luminoso quanto più ingrassa i conti correnti degli investitori. Poco importa se sotto le rombanti vetture scompaiono per sempre i pochi ettari di campagna padana scampati all'alluvione sviluppista del Novecento.
Il modello è il cosiddetto "superluogo" ovvero l'atterraggio in spazio vuoto (almeno così lo considerano gli interessi immobiliari) di un formato deciso a tavolino, dove entrano o dovrebbero entrare in sinergia varie attività: una a fungere da ancora, le altre apparentemente aggiunte. In realtà il rapporto è ribaltato: lo stadio, l'aeroporto, la fermata o svincolo della grande linea di trasporto, sono poco più che una scusa. Così come lo sono la cosiddetta domanda del mercato o le ricadute occupazionali. Ciò che conta è la valorizzazione immobiliare e tutto ciò che ne deriva in termini di investimenti finanziari e di interessi privati.
Comunque per comprendere i termini della faccenda, vi invitiamo a leggere il dossier, predisposto dal circolo Legambiente Il Tiglio di Vigasio, scaricabile qui di seguito. Potrete sapere, tra l'altro, che saranno urbanizzati 458 ettari di pianura (7 volte l'estensione di Gardaland), che la superficie commerciale equivale alla somma dei dieci maggiori centri commerciali della provincia, che si prevede la costruzione di una bretella a quattro corsie lunga una decina di km per collegare il sito all'autostrada. Scorrendo le pagine, leggerete i nomi dei promotori e dei loro soci e potrete confrontare questa iniziativa con altre simili, previste dal Piemonte alla Sicilia. Infine, una rassegna delle dichiarazioni dei politici locali.
Buona lettura.
La cosa incredibile è che ogni volta lo dicono con l’aria di chi ha avuto una grande idea. Innovativa. E invece è un concetto noto da millenni in ogni famiglia: ci sono quelli che si vendono la casa per pagare i debiti. Lo Stato italiano da oltre vent’anni, cioè da quando il debito pubblico ha raggiunto livelli stellari, pensa di tappare i buchi vendendo i suoi immobili. Nel solco della tradizione corrono idee strampalate e numeri a caso. Quanti sono gli immobili pubblici che si possono almeno in parte mettere in vendita? Secondo la Cassa Depositi e Prestiti valgono 500 miliardi di euro, su un totale del patrimonio statale di 1.800 miliardi. Secondo la Ragioneria dello Stato valgono invece 56 miliardi. Una differenza da uno a dieci, non poco per due pensatoi entrambi del ministero dell’Economia.
Ai tempi gloriosi di Giulio Tremonti fu coniato il marchio “finanza creativa”, e l’architrave dell’inventiva tremontiana era la mitica “cartolarizzazione” degli immobili. Ma anche il governo Monti non scherza. Prima annuncia che la spending review affidata al mastino Enrico Bondi dovrà portare tagli di spesa per 4,2 miliardi. Ieri è stata affidato alle agenzie di stampa (con l’impagabile formula “secondo quanto si apprende”, che con tutta evidenza non significa niente, se non che qualcuno del governo ti ha chiesto di dare la notizia senza dire che te l’ha detta lui) l’annuncio che dalla spending review arriveranno risparmi non più per 4,2 miliardi in un anno ma per 30 miliardi in tre anni. E così forse non ci sarà il temuto l’aumento dell’Iva.
Ma in questa disperata ricerca di denaro per fare fronte al debito, cioè al risultato finale di una spesa pubblica senza controllo, è sempre la vendita degli immobili a fare la sua figura. Annunci a cui non fanno mai seguito risultati apprezzabili, a parte quelli conseguiti da banche, avvocati e immobiliaristi: per loro, ogni volta, il guadagno è assicurato. Il primo inventore della vuota formula fu, come spesso è accaduto, Giuliano Amato. Nel 1992 il suo governo, alle prese con la gravissima crisi finanziaria dell’estate, dopo aver sottratto nottetempo il famoso sei per mille ai conti correnti degli italiani, varò la società Immobiliare Italia, che doveva fare quello che da vent’anni tutti hanno continuato a rifare: censimento degli immobili pubblici, valorizzazione, vendita.
Immobiliare Italia ha concluso così poco che anni dopo fu lo stesso Amato a ironizzare, convinto che come sempre gli italiani si fossero dimenticati che l’idea era stata sua: “Era meglio chiamarla Immobile Italia”. Nel frattempo era arrivato al governo l’Ulivo di Romano Prodi, che puntualmente avviò un censimento degli immobili pubblici, in vista della valorizzazione e vendita. Infatti il censimento è il momento chiave dell’incontro tempestoso fra politici e tecnici. Il governo Amato, nel ‘92, mise in vendita anche il monte Cristallo e le Tofane, cioè i gioielli dolomitici affacciati sulla conca ampezzana. Nessuno ha mai capito chi mai avrebbe dovuto comprarsi il Patrimonio Spa, monte Cristallo e per farci che cosa, e soprattutto a che prezzo. Nessuno al tempo fece notare ad Amato, molto più fantasioso nella progettazione della sua pensione d’oro, che per risanare i conti pubblici avrebbe fatto molto prima a tassare come si conviene i frequentatori di Cortina e delle Tofane.
Poi venne Tremonti, e con la collaborazione di un altro inventore non da poco, Domenico Siniscalco, suo direttore generale al Tesoro e poi suo successore, lanciò nel 2002 Patrimonio Spa, che doveva vendere gli immobili pubblici, ma servì solo per dare una poltrona a Massimo Ponzellini ed è finita nel nulla, come Immobiliare Italia. Però Tremonti ha fatto le cartolarizzazioni, passate alla storia come Scip 1 e Scip 2. Ha messo dentro queste società veicoli immobili degli enti previdenziali per 16 miliardi di euro, sono stati venduti per 5 miliardi di euro, lo Stato e gli enti ci hanno rimesso 5 miliardi. Nel frattempo banche d’affari, consulenti, studi legali e immobiliaristi, hanno emesso parcelle per centinaia di milioni di euro. Perché da vent’anni questa è la costante: quando partono le vendite di immobili pubblici non si sa quanto ci guadagnerà (o perderà) lo Stato. Ma si può dire in anticipo con la massima certezza chi sta già pregustando l’affare della vita.
Con lo sviluppo dell’inchiesta guidata dal procuratore aggiunto di Napoli Giovanni Melillo, la devastazione e il saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini assumono proporzioni inaudite.
Uno dei punti chiave riguarda il ruolo di Marcello Dell’Utri, padrino politico del direttore Marino Massimo De Caro, ora in prigione con l’accusa di peculato e associazione a delinquere finalizzata alla sottrazione dei preziosissimi libri.
Dall’ordinanza cautelare del GIP Francesca Ferri, resa nota per stralci dalle pagine napoletane di «Repubblica», si apprende che De Caro riuscì ad impedire la perquisizione di un appartamento romano a lui collegato sostenendo che, essendo utilizzato dal senatore siciliano, sarebbe stato coperto dall’immunità parlamentare. E d’altra parte, nelle intercettazioni telefoniche della collaboratrice di Dell’Utri (Maria Grazia Cerone, anch’essa indagata) si legge: «Sinceramente la roba è tanta, la roba è tanta, eh... Tante scatole, perciò è impossibile portarle via».
Dubbi non meno inquietanti emergono circa il ruolo del Ministero per i Beni culturali. Nella stessa ordinanza si legge che la nomina di De Caro alla direzione dei Girolamini è avvenuta «ad onta di ogni regola e grazie all’influenza politica correlata all’incarico fiduciario di consigliere dell'ex ministro per i Beni e le attività culturali Gianfranco Galan».
Tale nomina fu il passo decisivo di «un piano criminale studiato in ogni dettaglio», reso possibile dalla «perdurante assenza di controllo e vigilanza da parte degli organi del Ministero a ciò deputati».
Galan ha chiesto pubblicamente scusa per aver nominato De Caro come consigliere, su richiesta di Dell’Utri. Ma ora si apprende che un altro consigliere ministeriale dette l’allarme sulla figura e l’opera di De Caro fin dall’estate del 2011: perché né Galan né il suo staff ne tennero conto? Si apprende inoltre che l’ex direttore generale per le biblioteche del Mibac, Maurizio Fallace ha riferito ai magistrati «delle insistenti pressioni ricevute affinché rilasciasse il nulla osta della sua direzione generale alla nomina di De Caro, ciò che di fatto avvenne lo stesso giorno».
La Corte dei Conti dovrà ben porsi il problema delle responsabilità dell’enorme danno erariale (oltre che culturale) provocato da una simile condotta: ed è intollerabile che, a fronte di questo tradimento dei vertici del Mibac, i due bibliotecari fedeli che hanno fornito le prime prove dei furti siano tuttora precari (dopo trent’anni), e rischino addirittura il posto.
Il silenzio di Lorenzo Ornaghi è, dunque, ogni giorno più grave. In un paese serio, un ministro il cui consigliere personale finisse in galera per aver saccheggiato una biblioteca pubblica avrebbe un’unica strada dignitosa: le dimissioni. Ma perfino in Italia Ornaghi non può non spiegare perché il suo Ministero non vigilasse, non controllasse e invece obbedisse a «insistenti pressioni»; perché egli stesso abbia confermato De Caro come proprio consigliere (quando invece ne licenziò altri due, egualmente di Galan ma ben più innocui); perché l’ispezione ministeriale che avrebbe permesso di scoprire quelle enormità già a febbraio sia stata congelata fino a ben dopo la denuncia del «Fatto».
Ma il caso dei Girolamini spinge a riflessioni più ampie. La procura di Napoli è riuscita a gestire esemplarmente l’inchiesta perché esiste un pool specializzato in reati contro il patrimonio: non sarebbe l’ora di applicare ovunque questo modello? Non è poi possibile lasciare i carabinieri del Nucleo di tutela sotto il controllo diretto del Ministro dei Beni culturali: troppe vicende degli ultimi mesi (dal Crocifisso ‘di Michelangelo’, al prezioso mobile settecentesco svincolato contro ogni norma, fino allo scandalo colossale dei Girolamini) dimostrano che il patrimonio va difeso anche dalle troppe deviazioni del Mibac.
Un abuso edilizio in piena regola nel cuore dell’Appia Antica e a due passi dal mausoleo di Cecilia Metella. La “bonifica”, così chiamata dal proprietario dell’ettaro protetto da vincoli paesaggistici e ambientali, consiste in uno sbancamento lungo 25 metri eseguito con delle ruspe. Lo spazio era destinato a un piano carrabile, forse per realizzarvi un deposito o un parcheggio. Sul posto è intervenuta la soprintendenza ai Beni archeologici, che ha bloccato le ruspe, sequestrato il terreno e denunciato il proprietario. Ma le difficoltà continuano: gli addetti al controllo sono solo 15 e gli abusi sono sempre più frequenti.
«STO facendo la bonifica del terreno». È questa la giustificazione che B. C. ha dato ieri mattina ai due guardiaparco dell’Appia Antica che si sono presentati nel suo terreno, alle spalle del “Castrum Caetani”. Con la particolarità che la presunta “bonifica” consisteva in uno sbancamento lungo 25 metri, largo 40 e alto oltre tre, eseguito con fior di ruspe, messo in atto abusivamente per livellare un’antica collina e realizzare un piano carrabile, forse per un’attività commerciale legata a un parcheggio o a un deposito di mezzi pesanti.
Un abuso edilizio che si stava consumando in un’area nascosta,
interclusa da altre proprietà delimitate da via del Pago Triopio, a soli sessanta metri dall’Appia Antica e dal suo straordinario mausoleo di Cecilia Metella. Un ettaro di terra privata sottoposta a tutti i vincoli previsti dalla legge italiana, da quello archeologico a quello ambientale e paesaggistico.
La segnalazione è arrivata ieri mattina presto alla soprintendenza ai Beni archeologici, che ha subito dato l’allarme al quartier generale dei guardiaparco, il corpo di polizia giudiziaria dell’ente regionale Parco Appia, che sono intervenuti bloccando le ruspe, sequestrando il terreno e denunciando il proprietario. «Ha livellato la collina e messo il pietrame che ha compresso e compattato il terreno per realizzare uno spazio carrabile — racconta il guardiaparco Guido Cubeddu — Un intervento che fa pensare ad una probabile attività commerciale di parcheggio o deposito di materiali dove comunque mezzi pesanti possano fare manovra ». Si tratta di un personaggio non nuovo per i guardiaparco, che ha collezionato segnalazioni e denunce a partire dal 2004, quando un incendio scoppiò nella sua proprietà distruggendo buona parte della vegetazione. Quell’episodio fu seguito da altri sbancamenti nel 2005 e nel 2010, sempre più vicini all’Appia Antica: «È partito da 300 metri di distanza, e oggi è arrivato a 60», commenta Cubeddu.
«Siamo di fronte ad un continuo tentativo di commettere reati a danno del patrimonio archeologico e paesaggistico — denuncia la direttrice dell’Appia Antica, Rita Paris — Questo sbancamento ha distrutto non solo un lembo di macchia mediterranea, ma anche un prezioso strato della storica colata lavica di Capo di Bove, alla base originaria dell’Appia, di cui oggi solo un piccolo tratto è stato musealizzato nel complesso di Cecilia Metella. È una ferita che fa male ad un monumento come l’Appia, di cui cerchiamo con fatica ogni giorno di salvaguardare storia e bellezza».
Ma a fronte del tempestivo blitz di ieri, il corpo dei guardiaparco soffre i tagli delle risorse: «Abbiamo 15 addetti per tutta l’area, un territorio difficile dove l’abusivismo è una delle note dolenti — dichiara il presidente dell’ente regionale Parco Appia, Federico Berardi — Per il futuro, nonostante la Regione Lazio risenta di una crisi generale, auspichiamo di poter avere qualche unità in più. Ma anche ora, nel-l’attività di contrasto all’illegalità, l’ente non abbassa mai la guardia. E l’operazione di oggi ne è un segno».
Il progetto del Fontego dei Tedeschi "spacca" anche l'Iuav, l'Università di Architettura di Venezia,che ha organizzato l'affollatissimo incontro dedicato alle relazioni pericolose tra antico e nuovo che ha avuto al centro l'intervento di Rem Koolhaas, il famoso architetto olandese che ha progettato per il gruppo Benetton la trasformazione dell'edificio di origine cinquecentesca - ristrutturato negli anni Trenta dalle Poste - in un centro commerciale. L'incontro, organizzato dal professor Giancarlo Carnevale, già preside della Facoltà di Architettura, è stato infatti disertato, e non casualmente, dal rettore dell'Iuav Amerigo Restucci, in polemica con la decisione di ospitarlo, "legittimando" così un progetto a cui si dichiara fortemente contrario. «Ho trovato del tutto inopportuno - spiega il professor Restucci - un dibattito "schierato" sul progetto di Koolhaas da parte dell'Iuav su scelte urbanistiche e architettoniche che competono alla città di Venezia e ai suoi cittadini e che riguardano la trasformazione in centro commerciale di un edificio dell'importanza storico e architettonico come il Fontego dei Tedeschi. Un progetto in cui si sono già espressi con chiarezza in senso negativo gli organi di tutela, a cominciare dal Comitato per i Beni Architettonici e Paesaggistici del Ministero dei Beni Culturali, ma anche studiosi come Salvatore Settis e,per restare all'Iuav, un autorevole docente di Restauro come Mario Piana. Non si tratta, come ha fatto Koolhaas a Palazzo Badoer l'altro giorno, di fare un elogio dei centri commerciali nella società odierna, che siano la Galene Lafayette a Parigi o La Rinascente a Milano, per giustificare le sue scelte progettuali. Qui siamo a Venezia, parliamo di un edificio di straordinaria importanza per la città come il Fontego, sul quale, come ha rilevato il Comitato per i Beni Architettonici, non è stata compiuta alcuna seria analisi storica e archeologica prima di stilare il progetto e che si vuole realizzare a tutti i costi per la forza del capitale, in questo caso quello del gruppo Benetton, con radicali trasformazioni, dalle scale mobili inserite all'interno, alla terrazza panoramica ottenuta demolendo il tetto, a una enorme struttura galleggiante di fronte ad esso in un punto critico e delicatissimo della città come quello adiacente al ponte di Rialto, creando tra l'altro un pericoloso precedente per altri interventi di questo tipo in città, a cui sarà poi arduo dire di no. Per questo il dibattito dell'altro giorno con Koolhaas, rischia di far apparire l'Iuav come un "fiancheggiatore" improprio di un progetto di trasformazione di un edificio storico che nessuno vuole lasciare abbandonato o in disuso, ma le cui scelte competono alla Soprintendenza, al Comune, ai cittadini di Venezia». Prende le distanze dall'iniziativa anche il professor Giuseppe Cristinelli, fino a pochi anni fa ordinario di Restauro Architettonico all' Iuav e che tra pochi giorni, sarà uno dei protagonisti dell'incontro pubblico che Italia Nostra - il 22 maggio - organizzerà all' Ateneo Veneto, dal titolo provocatorio "Venezia patrimonio dell'umanità", che avrà al centro proprio il progetto "targato" Benetton per il Fontego dei Tedeschi e la vendita da parte del Comune di Ca' Corner della Regina alla Fondazione Prada, due casi su cui l'associazione di tutela ha suscitato una campagna nazionale, rivolgendosi anche alla magistratura. «Il dibattito con Koolhaas - spiega il professor Cristinelli - è la plastica dimostrazione che ormai l'Iuav non si occupa più di restauro e la contrapposizione tra antico e nuovo è ormai un fatto anacronistico, visto che lo sollevava già Bruno Zevi nel 1965, sostenendo la prevalenza dei "nuovisti". Nel caso del Fontego, Koolhaas non dà di fatto alcuna importanza alle strutture cinquecentesche che ancora esistono, sulla base degli interventi compiuti successivamente dalle Poste negli anni Trenta, ma se invece avesse pensato di recuperarne la spazialità originaria e i percorsi che queste trascurate strutture determinavano, non avrebbe certamente alterato violentemente il senso dell'insieme con soluzioni come le scale mobili, la terrazza, la super-altana, la trasformazione totale della copertura, la demolizione dei parapetti e così via». La trasformazione del Fontego dei Tedeschi secondo il progetto di Rem Koolhaas, insomma, resta in laguna materia incandescente, che divide la città e i suoi protagonisti e dietro al quale c'è anche quello sull' idea di Venezia e sul suo tormentato rapporto con la modernità.
NOTA
Su eddyburg trovate quinumerosi articoli e documenti sulla vicenda del Fontego dei tedeschi e, più in generale sulla vera e falsa “modernità” di Venezia anche qui. Sull’”idea di città” dei governanti che si sono succeduti dagli anni Novanta a oggi vedi anche i piccoli saggi della Collana Occhi aperti su Venezia, in particolare Benettown e Imbonimenti di Paola Somma, Tessera city di Stefano Boato, Lo scandalo del Lido e La Laguna di Venezia, di Edoardo Salzano. Alla legittimazione culturale dell’intervento devastatore Koolhaas-Benetton al Fontego dei Tedeschi, dalla quale il Rettore dell’Iuav prende le distanze, avevano partecipato, tra gli altri, Giancarlo Carnevale, Bernardo Secchi, Tonci Foscari, esprimendosi ovviamente con diverse modulazioni, (ma tutte suonate sul piffero dell’ideologia dominante della “modernità”).