«Mi vendo!», la canzone di Renato Zero sembra ormai compendiare la triste sorte del MAXXI, il museo, ma forse l’ex Museo delle arti e dell’architettura del XXI secolo di Roma, in via di trasformazione in una sorta d'appendice di un polo del lusso, nascente sotto gli auspici di Bernard Arnault e del gruppo Fendi e Vuitton. Ma sì, la meravigliosa struttura progettata da Zaha Hadid sarebbe destinata a diventare il solito polo multifunzione, in sostanza un pot-pourri all'insegna della commercializzazione».
Faccio in fretta un altro inventario, smonto la baracca e via» recita la canzone di Zero e infatti l'idea è presto detta: al posto dei due edifici ancora da realizzare dell'originario progetto, ecco un bel palazzotto del lusso ad usum Fendi - Vuitton, costruito a spese di Arnault (25 milioni di euro), che lo avrebbe suo per 40 anni al prezzo di circa 500 mila euro l'anno. Dunque, via la biblioteca archivio e via il museo con archivi dell'architettura, largo alla moda, al lusso, all'eccesso: «Io vendo desideri e speranze in confezione spray» cantava Zero. Il progetto nasce dalla direzione di Pio Baldi, prima che la struttura fosse commissariata, ed è perseguito con convinzione dall'attuale commissario Antonia Pasqua Recchia. che al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali riveste anche il ruolo apicale di segretario generale. Chiaro l'intento: racimolare soldi privati per il Maxxi, nato come molte altre Fondazioni sotto i peggiori auspici, vale a dire con un solo socio lo Stato - ma a che serve fare un ente privato di proprietà solo pubblica?-, e per di più quando era ministro Bondi e dunque con un finanziamento miserrimo.
Eppure non poche sono le perplessità: innanzi tutto il nascente palazzotto del lusso, il cui progetto preliminare dovrebbe essere di Zaha Hadid, sorgerebbe su un terreno dello Stato, - difficile capire se dell'Agenzia Spaziale Italiana o del Mibac dunque sarebbe un cosiddetto progetto di finanza (project financing) assegnato al miliardario del lusso Arnault senza bandi o concorsi, cosa discutibile da un punto di vista legale. Anche il manufatto poi sarebbe dello Stato e quindi per la costruzione ci dovrebbe essere un altro bando pubblico, con tutto ciò che comporta di aumento dei costi e probabili ricorsi - basti ricordare o costi del Maxxi stesso pressoché triplicati. Lecito chiedersi se alla probabile crescita della spesa dai preventivati 25 milioni farà fronte lo Stato Pantalone o andrà a detrimento del canone di affitto. Per dirla con Zero «Mi vendo, e già! A buon prezzo si sa», perché anche ammesso tutto funzioni, e sarebbe davvero straordinario, in cambio il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali avrebbe una cifra modesta da girare al Maxxi: 500 mila euro a fronte di un fabbisogno che si aggira sui 10 milioni l'anno.
Ma a comandare sono sempre l'appalto, il cemento e i soldi che portano: in altre parole, molti pensano che il recente commissariamento del Maxxi, con tanto di tradimenti interni alla sua direzione, nasca dalla volontà di «controllare. da vicino gare e assegnazioni da parte di vecchie e nuove cricche. E sono cose che capitano quando il marketing si sostituisce alla cultura. Proporrebbe Zero: «Ti vendo, un'altra identità» perché poi la presenza di un vicino potente e, come capita ai potenti, anche arrogante come la moda e il lusso, probabilmente andrà a infiltrare con logiche di commercializzazione un museo come il Maxxi, già penalizzato da penuria economica ma forse anche da scarsità di idee.
E lo dimostra il fatto che per cercare finanziatori non si sia puntato sull'attività del Maxxi, trovando privati disposti a sostenerla, ma sul sempiterno mattone. Stupisce però che il Mibac usi strumenti come il progetto di finanza che funziona, e non sempre. nell'espansione delle città, ma assai meno nella cultura. E la storia del Maxxi è il simbolo di tante altre strutture pubbliche, costruite a caro prezzo con i soldi dei contribuenti, gestite attraverso stratagemmi come le fondazioni con criteri privatistici -che avrebbero dovuto essere la salvezza di queste stesse strutture- e alla fine svendute ai privati: è il momento di ricominciare pensare a musei pubblici con la pretesa che funzionino. Altrimenti: «Mi vendo la mia felicità, ti dò quello che il mondo distratto non ti dà».
A volte, quando critichiamo Angela Merkel, dimentichiamo quel che sta succedendo in Germania: l'astio che domina tanti commenti di cittadini e politici, contro un'Europa del Sud che sta divenendo loro estranea. L'esigenza democratica, che si mescola ambiguamente a un nuovo nazionalismo e che spinge i tedeschi a fidarsi quasi solo della Corte costituzionale: proprio ieri, la Corte ha iniziato l'esame degli impegni presi da Berlino a Bruxelles, per verificare la loro compatibilità con la sovranità del popolo e del Parlamento. Il Sud Europa non si stanca di ammonire Berlino, evocando l'espandersi di sentimenti antitedeschi. Ma conoscono poco i sentimenti antieuropei che si addensano in Germania.
Citiamo, fra gli epiteti usati dai frequentatori dei giornali sul web, i più significativi: gli italiani, greci, spagnoli, portoghesi sono scrocconi, parassiti, perfidi, svergognati. Puntando l'indice sul passato tedesco, sono soprattutto ricattatori. Sono "cani, e che abbaino pure alla loro altezza". Un lettore conclude: "Chi ha amici simili, non ha più bisogno di nemici". L'astio colpisce anche europeisti come gli ex cancellieri Schmidt e Kohl, i verdi Trittin e Roth, l'ex ministro degli Esteri Joschka Fischer ("un depravato morale"): sono "traditori del popolo", "odiatori della Germania".
Bastano queste citazioni per capire che sarà pieno di insidie, il cammino degli europei verso una progressiva messa in comune dei debiti. La parola solidarietà è vista come una trappola, tesa per costringere i tedeschi a svenarsi per espiare chissà quale colpa. Questo clima va tenuto presente, quando si parla di scudo antispread o Fondi salva-stati, o si celebrano i progressi raggiunti ai vertici europei. È un clima incendiario, che le classi dirigenti tedesche non sanno evidentemente governare: il più delle volte lo lusingano, altre volte lo contrastano, ma avendone paura. Manca tragicamente la pedagogica capacità di spiegare le cose "nei dettagli": è l'accusa, pesante, che il Presidente Gauck ha rivolto sabato al governo. Né serve la politica dei piccoli passi: solo un salto qualitativo (Unione politica, potenziamento della Bce) creerebbe la scossa che calmerebbe gli animi oltre che i mercati. Le misure piccole sono vissute come una tortura della goccia cinese. Ma nessuno osa, e tra chi osa di meno nelle classi dirigenti ci sono gli economisti: una corporazione che ovunque ha mancato - salvo eccezioni - l'appuntamento con la crisi del 2007-2008.
Ben 172 economisti tedeschi, e non dei minori, hanno firmato giovedì un appello in cui intimano al governo di non cedere alle pressioni e ricusare le misure concordate al vertice del 28 giugno, troppo costose per Berlino. Pur non firmando, è d'accordo anche il governatore della Bundesbank Weidmann, ostile a scudi salva-spread e unione bancaria. Weidmann è membro di un'istituzione comunitaria (il Consiglio direttivo della Bce), e l'uscita è quantomeno anomala. All'appello dei 172 hanno risposto due contro-appelli, firmati tra gli altri da Peter Bofinger e Bert Rürup, membri del Consiglio degli esperti economici che nel 2011 suggerì una messa in comune parziale dei debiti: i 172 sono accusati di nazionalismo e incompetenza. Siamo, insomma, di fronte a un grande dibattito che lascerà tracce, non dissimile dalla disputa fra storici del 1986-87 attorno al passato nazista. Oggi è l'economia al centro, e il ruolo più o meno egemonico, o dominatore, che Berlino deve svolgere nell'Unione.
L'economia può sembrare un tema minore, ma per la storia tedesca non lo è affatto. Quando la Repubblica federale nacque dalle rovine della guerra, l'economia prese il posto della coscienza nazionale, statale, democratica. Quanto all'egemonia: molti invitano la Merkel a esercitarla - - Obama per primo - ma Berlino tentenna. Non dubita del proprio modello economico, che giudica anzi l'unico valido, superiore a ogni altro. Quel che fatica a fare, è guidare con efficace magnanimità i paesi deboli dell'Unione, come fecero gli americani col Piano Marshall nel dopoguerra. Irretita in dogmi contabili, la Germania ricade nel passato: sa comandare, non ancora guidare.
Il dogma non è solo quello che impone di mettere la "casa in ordine" prima di creare unioni transnazionali (l'assioma non tiene, perché l'unione sovranazionale muta l'ordine casalingo). Dogmatico è il primato dell'economia, fonte pressoché unica dello Stato e della democrazia. Divenne tale soprattutto nel dopoguerra, quando ai tedeschi era negato il diritto di divenire Stato giuridico, ma ha radici lontane. È dai tempi dell'Unione doganale (il Zollverein del 1834 e 1866) che i tedeschi fanno dell'economia il sifone della comunità politica. L'Unione europea deve ricalcare quel modello, che peraltro fallì quando la Prussia inglobò la Confederazione tedesca del nord: prima viene l'economia, poi la politica, lo Stato, il consenso dei popoli. Come scrive Marco D'Eramo su Micromega, anche in Europa, come nello Zollverein, "è la moneta a "battere" lo Stato invece dello Stato a battere moneta". La Merkel e il ministro Schäuble nuotano contro una corrente forte e anche contro se stessi, quando implorano un'unione politica federale: non ascoltarli, come non fu ascoltato Kohl, è letale.
Il primato economico ha una storia nel pensiero tedesco che va esplorata, se non vogliamo che l'unità europea degeneri in guerra prima verbale, poi civile. Alle origini, c'è l'esperienza d'un paese vinto dalla guerra, dimezzato, che nell'economia vide un surrogato di sovranità statale. Gli artefici del nuovo Stato economico furono Ludwig Erhard e i cosiddetti ordoliberali, che negli anni fra le due guerre avevano osteggiato l'idea keynesiana che i mercati possano, debbano esser governati.
L'ordoliberalismo divenne il credo della Repubblica federale, la via per uscire dallo statalismo nazista. Vale la pena ricordare come ne parla Michel Foucault, nelle lezioni del 1978-79. Le parole-chiave furono quelle che Erhard, futuro Cancelliere e allora responsabile dell'amministrazione nella zona occupata dagli anglo-americani, pronunciò il 28 aprile '48: "Bisogna liberare l'economia dai vincoli statali (...) ed evitare sia l'anarchia sia lo Stato-termite. Solo uno Stato capace di stabilire al contempo la libertà e la responsabilità dei cittadini può legittimamente parlare in nome del popolo". Decaduto lo Stato, solo la libera economia poteva ricostituirlo. Un marco solido, una crescita forte, una bilancia dei pagamenti salda: divennero la sovranità sostitutiva della Germania. "La storia aveva detto no allo Stato tedesco, ma d'ora in poi sarà l'economia a consentirgli di affermarsi", e in più di dimenticare un nazismo che non "parlava in nome del popolo" (Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli 2005).
Mettere la casa in ordine, e soltanto dopo farsi Stato: il prototipo dello Zollverein fu ripreso da Erhard, e ora va applicato all'Europa. Gli Stati sono incitati a cedere sovranità, ma la costituzione europea sarà economica e di marca tedesca, o non sarà. È stupefacente la disinvoltura con cui un uomo intelligente come Thomas Schmid, vicino nel '68 a Fischer e Cohn-Bendit, confonda il comando con l'egemonia, nel carteggio con Ezio Mauro apparso il 28 giugno su Repubblica: "La Germania deve usare la sua forza per aiutare altri, deve diventare un amministratore e garante per la stabilità riconquistata di Stati oggi deboli (...) deve essere egemone, ma in modo amichevole".
Forse è qui uno dei nodi da sciogliere, nelle discussioni fra governi e fra economisti. L'operazione tedesca è singolare. Parla di Federazione, ma intanto tratta i paesi meridionali dell'Eurozona come se fossero nazioni dimezzate e vinte in guerra, i cui Stati hanno perduto non tanto consistenza, quanto legittimità. Come se tutti dovessero percorrere la via tedesca, pur venendo da storie così diverse.
«Un piano per l'Appia? Certo che esiste: l'abusivismo edilizio». Con un paradosso la direttrice Rita Paris sintetizza la situazione del sito archeologico della più famosa antica strada romana, connubio esemplare tra paesaggio e monumenti.
Sul suo tavolo (e presto su quelli del ministero) c'è uno studio commissionato dalla soprintendenza archeologica all'urbanista Vezio De Lucia da cui emergono dati scandalosi: il cemento selvaggio e illegale attorno alla Regina Viarum cresce a ritmi persino superiori rispetto ai decenni del Far West edilizio.
Tra 2002 e 2011 è stata versata una colata di 300 mila metri cubi abusivi, un terzo di quelli depositati nei 35 anni precedenti. è come se in meno di un decennio quasi tre grattacieli come il Pirellone si fossero adagiati illegalmente sull'Appia sotto forma di appartamenti, ville, ristoranti, capannoni, negozi. Nonostante le battaglie ambientaliste, l'istituzione nel 1988 del parco regionale, gli appelli degli intellettuali, le leggi di tutela, ogni tre giorni si costruisce un alloggio abusivo di cento metri quadri.
Risultato: oggi quasi metà delle costruzioni nella zona del parco è fuorilegge. Dal 1967 sono stati edificati 1,3 milioni di metri cubi abusivi. Altrettanti erano stati costruiti dal 312 a.C., quando fu posata la prima pietra dell'Appia, al 1967, quando fu decisa l'inedificabilità di tutta la zona. E la stima del disastro ambientale è prudenziale, perché l'indagine cartografica non rileva la massa di microabusi edilizi (sopraelevazioni, verande trasformate in stanze, locali allargati), i cambi di destinazione d'uso e altre forme di utilizzo del territorio anche senza cemento, come i depositi a cielo aperto.
Dopo anni di denunce inascoltate, per richiamare l'attenzione sull'Appia, la direttrice Rita Paris ha deciso di promuovere un inedito festival intitolato «Dal tramonto all'Appia». Tre serate di eventi gratuiti - mostre, concerti di musica classica, inaugurazione della chiesa medievale di San Nicola, visite guidate, proiezioni, degustazioni gastronomiche - per far conoscere l'Appia, con le sue contraddizioni.
«Nonostante questo territorio sia pieno di ferite aperte, si può fare tanto», spiega la Paris. E così nell'ultimo weekend migliaia di persone hanno potuto «percepire l'idea della bellezza e dei problemi dell'Appia, con eventi culturali diversi da quelli che si trovano in città. Un successo strepitoso».
La storia dell'Appia è tormentata. La prima proposta di realizzare un Museo all'aperto risale al 1809. La prima legge di tutela al 1887. I primi restauri a metà Ottocento, con aree trasferite al Demanio: i monumenti erano tutti visibili e la strada richiamava migliaia di visitatori stranieri, con una media di sessanta carrozze al giorno.
Il piano regolatore del 1931 stabiliva una fascia di rispetto edilizio di 150 metri dalla strada e, per i palazzi più lontani, norme su altezze e materiali. Limiti flebili e mai rispettati, tanto che il piano del 1967, dopo la campagna giornalistica di Antonio Cederna seguita da un manifesto di quindici intellettuali tra cui Brancati, Silone, Moravia e Alvaro, dispose l'inedificabilità e l'acquisizione al patrimonio pubblico di tutta la zona.
Ma oggi solo 200 ettari su 3800 sono pubblici. Comune e Regione hanno condonato gli abusi, incoraggiandone altri. L'ultimo è stato scoperto due settimane fa: uno sbancamento di mille metri quadri per 3 di altezza per realizzare un piazzale (forse un deposito) a due passi dal mausoleo di Cecilia Metella. La soprintendenza denuncia invano.
I guardaparco sono solo 15 in tutta l'area. Monumenti importanti sono abbandonati, rinchiusi in recinti di ville come gazebo per picnic o trasformati impunemente in pertinenze residenziali. Basterebbero pochi milioni di euro per salvare e restaurare importanti monumenti. La soprintendenza fa quel che può, con gli spiccioli cerca di salvare il salvabile.
E poi il traffico: nessuna disposizione né limitazione: il prezioso basolato trattato come l'asfalto di una superstrada. Le auto costringono i malcapitati turisti a schiacciarsi contro il muro delle catacombe di San Callisto per evitare di essere investiti.
Ma la colpa è degli antichi romani che non avevano pensato ai marciapiedi...
Che cosa fai quest’estate? «Vado al campo estivo. A scuola». Un edificio scolastico su tre resta aperto anche in luglio nelle grandi città italiane, con orari perfino più lunghi di quelli delle normali lezioni. E se è vero che i programmi proposti da cooperative e associazioni, ai quali i Comuni appaltano il problema del parcheggio estivo dibambini e ragazzi, sono più vari di quelli scolastici, con visite ai musei e passeggiate nei parchi, è vero anche che di un parcheggio pur sempre si tratta, con orari da rispettare e cancelli da varcare.Tutto il contrario della lunga, oziosa estate di trenta o quarant’anni fa, ma anche delle frenetiche vacanze ante-crisi, quando almeno 15 giorni si passavano al mare, e magari anche il doppio se mamma e papà si alternavano nei turni. Oggi la permanenza media di bambini e ragazzi nei campi urbani promossi dai Comuni, con tariffe che variano secondo le fasce, si è allungata da una a due settimane, e in molti casi può durare anche tre o quattro, coprendo tutti i turni disponibili. Se dipendesse dai genitori, le scuole potrebbero restare sempre aperte, sono i Comuni a imporre un minimo di chiusura anche per ragioni di bilancio (e quando avviene, da Torino a Roma a Napoli, le stesse associazioni offrono il servizio privatamente anche in agosto, utilizzando i centri sportivi).
Prendiamo il caso di Torino, una delle grandi città che negli ultimi trent’anni aveva puntato moltissimo sui servizi per l’infanzia. Quest’anno, complici i tagli alla spesa, le famiglie che scelgono la proposta del Comune (e non le molte possibili in convenzione con gli oratori) possono spaziare tra 27 diversi centri, 25 dei quali non sono altro che normali scuole rimaste aperte. Si continua fino al 3 agosto, si inizia alle 7 del mattino per facilitare mamme e papà che in luglio lavorano, la quota massima per famiglia arriva a 90 euro.
«Cerchiamo di evitare di far passare troppe ore ai bambini tra le mura scolastiche spiega Maura Dotta, responsabile organizzativa della Safatletica, un’associazione nata per lo sport giovanile che negli ultimi anni si è “riciclata” anche in versione estiva — Lavoriamo per il Comune, ma il nostro obiettivo è rendere un buon servizio ai bambini, facendo quello che i genitori, impegnati al lavoro, non possono fare: portarli al parco, farli muovere, far conoscere loro la città. E negli anni ci siamo resi conto che la crisi ha spinto le famiglie a allungare il periodo di permanenza».
«La scelta — suggerisce Angelica Arace, docente associata di Psicologia dello sviluppo all’Università di Torino — andrebbe sempre calibrata tenendo conto delle caratteristiche del singolo bambino o ragazzo. Per molti condividere il tempo delle vacanze restando in città con i compagni può essere piacevole, altri hanno bisogno di più tempo per il riposo, magari in solitudine. Bisogna distinguere tra le esigenze del bambino e quelle dei genitori, che ovviamente non dispongono di tre mesi di vacanza ». A Napoli, l’orario dei campi estivi è ridotto (4-5 ore al giorno) e unisce gite e laboratori tra le mura scolastiche, a Bologna il servizio è “flessibile”, i genitori possono scegliere tra orario breve o lungo, e dura fino a 4 settimane per i piccoli tra i 3 e i 5 anni (15 centri, anche in questo caso gli stessi dell’anno scolastico) e fino a 7 settimane per la fascia che arriva agli 11 anni. E a Padova non si chiude mai, neppure ad agosto, e 213 bambini si sono iscritti anche in quel mese: l’orario finisce alle 16, ma con un sovrapprezzo di 30 euro si possono lasciare i figli fino alle 18.«L’obiettivo è coprire tutta l’estate e presto ci arriveremo — riassume Daniela Ruffino, sindaco di Giaveno e membro della commissione scuola dell’Anci, l’associazione dei Comuni italiani — È vero, gli orari sono lunghi, forse piacciono di più alle mamme che ai bambini, ma se i Comuni impongono alle associazioni un buono standard qualitativo è una soluzione migliore che essere parcheggiati da nonni e zii». Sarà, ma che fatica!
Postilla
Forse se ne sono scordati quasi tutti, adesso, ma fra le varie proposte emerse nel corso delle straordinarie primarie di coalizione per il sindaco di Milano una delle più originali era un organico sfruttamento delle risorse costituite dagli spazi scolastici, luoghi attrezzati e diffusi nel tessuto urbano, ma che a parte la funzione didattica e relativi orari restano esclusi dalla rete complessa della vita metropolitana. Queste idee di colonia estiva urbana, una specie di “vacanza a chilometro zero” indotta dalla crisi economica, curiosamente ripropongono le medesime dinamiche sociali che hanno visto affermarsi l’idea di urbanistica moderna e di quartiere integrato all’inizio del ‘900, e che vedono al centro proprio la scuola. Scuola dove non solo l’argomento città dovrebbe entrare sempre più nei programmi e nelle attività integrative, sotto forma di educazione civico-ambientale a pervadere di sé tutte le materie, ma anche spazio chiave e nucleo centrale di identità per i “vicinati”. Non dimentichiamo che fu proprio studiando nel 1914 le attività spontanee di istituti scolastici, gruppi di genitori, associazioni sportive e culturali annesse, che il sociologo dei servizi Clarence Perry iniziò a tracciare anche delle mappe territoriali di influenza, con raggi massimi e articolazioni per fasce di età e censo. Le medesime riflessioni che negli anni ’20 lo portarono a teorizzare in modo compiuto la Neighborhood Unit. Anche questa delle colonie estive urbane quindi può essere, se ben gestita, molto più di una pura vacanza per poveretti, anzi! (f.b.)
Sulla tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio non devono abbattersi altri tagli di fondi né amputazioni di strutture e di personale dopo quelle già pesantemente inferte nei mesi e negli anni scorsi fino ad intaccare l’ossatura stessa dei Beni Culturali e quindi la copertura territoriale della tutela. Rivolgiamo un appello forte e accorato al governo Monti affinché con la “revisione della spesa” in corso non pratichi né nuovi tagli di risorse né l’assurdo accorpamento burocratico delle Soprintendenze con altri uffici dello Stato, del tutto estranei alla tutela, né il pre-pensionamento di tecnici di grande esperienza e qualificazione di cui si parla in queste ore e che sguarnirebbe in modo decisivo la salvaguardia territoriale.
Il disastroso terremoto che ha colpito l’Emilia-Romagna e i gravi danni subiti dal patrimonio storico-artistico hanno confermato la mancanza di una politica di prevenzione e di messa in sicurezza antisismica del Belpaese e svelato la contraddizione di fondo di quanti pretendono che una parte del patrimonio diventi una “fabbrica di soldi” e però trascurano poi gli elementi fondamentali della conservazione del patrimonio stesso, “redditizio” o no che esso sia.
Nuovi colpi di accetta sui pochi fondi disponibili e nuovi vuoti nella rete della tutela aggraverebbero in modo irreversibile una situazione, già vicina al coma, la quale esibisce al mondo intero i nostri paesaggi aggrediti da cemento e asfalto senza piani regionali e spesso senza neppure controlli pubblici di sorta, con pesanti infiltrazioni malavitose; i nostri centri storici a rischio di svuotamento totale e/o di trasformazione in sempre più volgari “divertimentifici”; i nostri musei, siti archeologici, archivi, biblioteche immersi in crescenti, penose difficoltà; un Ministero ormai inerte da anni, Soprintendenze devitalizzate, disossate, private di fondi, di mezzi, di tecnici, frustrate da commissariamenti fallimentari a base di supposti “manager” (L’Aquila, Pompei, ecc.). Eppure c’è chi, a livello economico, individua la Salvezza nella magica formula “far fruttare i beni culturali”, “sfruttarli a fondo”, monetizzare in chiave privatistica il nostro patrimonio collettivo.
I firmatari di questo appello vogliono dire chiaro e forte:
“Noi non ci stiamo ad assistere inerti al massacro del Belpaese. Una vera, generalizzata politica di tutela dei beni culturali è l’opposto di una politica che riduce fondi, mezzi, strutture e punta contemporaneamente allo sfruttamento dei beni considerati “redditizi” secondo una logica privatistica.
L’Italia ha bisogno di una vera rinascita culturale, ma, per ritrovare un rapporto forte con la cultura, dobbiamo sgombrare il campo da una serie di luoghi comuni economicistici stratificati su cultura e beni culturali. Eliminiamo per sempre dal nostro lessico la frase: “la cultura è il nostro petrolio”. Dizione altamente pericolosa, anche perché equipara la cultura alla rendita fornita da un propellente fra i più inquinanti. La cultura non è una rendita di posizione. E’ un processo creativo continuo che presuppone ricerca, studio, tutela, restauro, conservazione. E’ un patrimonio di tutti.
I siti archeologici o i centri storici, gli archivi o le biblioteche, non sono “giacimenti” industriali sui quali intervenire con misure sbrigative ignorando, oltretutto, la storia specifica dell’amministrazione. Non sono cioè rendite da “sfruttare”: sono beni complessi e delicati, da tutelare, da restaurare, da conservare, da vivere, sì, da vivere con rispetto. Sono la nostra storia, la nostra identità, concorrono a fare la nostra qualità di vita. Come il paesaggio dove tutto si tiene.
Il momento economico è grave, gravissimo per il Paese, ma l’Italia, che è già agli ultimi posti negli investimenti pubblici e privati per la cultura e per i beni culturali (pur avendo un patrimonio ingentissimo), non può rattrappire ancor più questa spesa già modesta e talora avvilente. Non può pensare di “risparmiare” sul personale e sugli strumenti della tutela che provvedono a salvaguardare il Belpaese minacciato da ogni parte da cemento legale e illegale. Né stabilire una gerarchia fra beni maggiori e beni minori.
Verrebbe colpita a morte la cultura del “contesto”, cioè una delle conquiste centrali dalla nostra idea di tutela, da Raffaello in qua. Per noi non c’è edilizia maggiore e edilizia minore, non ci sono “monumenti” scissi dal resto della città antica che quindi si può abbattere, sventrare, diradare, ecc. Questa logica aberrante – proposta di recente dall’Ocse per l’Aquila - ci fa regredire, quanto meno, agli sventramenti mussoliniani. Mentre l’Italia può vantare di aver raggiunto negli anni ’60 e ’70 del ‘900 un autentico primato culturale in materia di restauro integrale dei centri storici (anche della città “vecchia”), di vivibilità, di tutela accurata. Sarebbe quindi una regressione raccapricciante.
Possiamo operare salvaguardie e anche risparmi importanti (per esempio nel dissennato consumo di suolo) riportando in onore la pianificazione. A cominciare dai piani paesaggistici lasciati invece marcire da tutti i ministri, da Bondi a Ornaghi, nonostante il Codice per il Paesaggio. Dobbiamo richiamare Stato, Regioni, Enti locali ai loro compiti strategici, alla responsabilità così chiaramente identificata dall’articolo 9 della Costituzione, uno dei più disattesi negli ultimi anni. Da tutti. Dobbiamo richiamare con energia i partiti, i sindacati, i movimenti politici alle loro responsabilità: così il Belpaese corre verso l’autodistruzione. Senza un piano generale per la difesa del suolo e per la messa in sicurezza antisismica (che darebbero molto più lavoro, e più diffuso, alle imprese delle grandi opere), il Belpaese va incontro ad altri disastri, ad altre vittime innocenti, ad altre dissipazioni di beni preziosi ed irripetibili.
Non dobbiamo stancarci di chiarire che la tanto declamata “redditività” dei beni culturali e paesaggistici è semmai indiretta e non diretta. Non sono i musei, ad esempio, a “fruttare” (i mega-musei come il Louvre non “rendono” un solo euro, ma registrano un forte passivo coperto, per oltre la metà, con denaro pubblico). Può rendere invece, può produrre reddito e occupazione l’indotto turistico creato attorno ad essi, con una rete di accoglienza turistica “virtuosa” e rispettosa. Non il turismo miope e speculativo che sfrutta, invade, degrada e consuma sempre più centri storici e paesaggi.
Siamo pienamente favorevoli ad una seria e trasparente politica di detassazione per le donazioni e per gli investimenti privati nei beni culturali recuperando, ad esempio, i criteri della buona legge Scotti del 1982, che favorì in modo molto concreto gli interventi privati in dimore e giardini storici senza far perdere una lira al fisco. Anzi, facendone guadagnare coi maggiori lavori. Buona legge purtroppo mutilata nella grande crisi del 1992-93.
Siamo anche pienamente favorevoli ad una riorganizzazione in senso tecnico (ma tecnico davvero) dell’Amministrazione dei Beni culturali che la renda più snella, che semplifichi le procedure di spesa riducendo grandemente i pesanti residui passivi: bisogna dare più poteri ai Soprintendenti e insieme garantire tutti con regole inattaccabili sul piano della trasparenza e della qualità degli appalti. Su entrambi i versanti sentiamo di dover lavorare con approfondimenti e proposte.
Noi crediamo infatti alla ricerca, alla cultura e ai suoi beni come straordinario generatore di una nuova, epocale rinascita, anche economica, del Paese. Noi crediamo alla Bellezza come pilastro di tale politica, come diritto civile, come bene sociale fondamentale. Di cui dobbiamo essere assai più coscienti di quanto non siamo stati sinora.
Vittorio Emiliani e Desideria Pasolini dall’Onda (Comitato per la Bellezza), Irene Berlingò (Assotecnici), Marisa Dalai (Associazione R.Bianchi Bandinelli), Alberto Asor Rosa (Rete Comitati), Maria Pia Guermandi (Eddyburg), Donata Levi (PatrimonioSos), Carlo Alberto Pinelli (Mountains Wilderness), Giuserppe Basile (Associazione Cesare Brandi), Marina Foschi (Italia Nostra, presidente regionale Emilia-Romagna), Antonio Pinelli, Licia Borrelli Vlad, Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Luigi Manconi, Salvatore Settis, Arturo Osio, Carlo Ripa di Meana (presidente sezione romana di Italia Nostra), Anna Donati (assessore alla Mobilità del Comune di Napoli), Francesco Caglioti, Cesare De Seta, Andrea Emiliani, Mario Torelli, Rita Paris, Anna Coliva, Rossella Rea, Carlo Pavolini, Nicola Spinosa, Ruggero Martines, Bernardino Osio, Maria Luisa Polichetti, Corrado Stajano, Marino Sinibaldi, Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Jacqueline Risset, Chiara Valentini, Carmine Donzelli, Gianfranco Pasquino, Furio Colombo, Ferdinando Zucconi Galli Fonseca, Tomaso Montanari, Massimo Teodori, Giovanna Borgese, Enrico Menduni, Andrea Purgatori, Chiara Frugoni, Marta Bruscia, Sauro Turroni, Gianni Mattioli, Franca Fossati Bellani, Carla Ravaioli, Annarita Bartolomei, Vito Raponi, Mario Canti, Milton Gendel, Gianni Venturi, Benedetta Origo, Giuseppe Marchetti Tricamo, Elena Doni, Roberto Meneghini, Giuseppe Barbalace, Gianandrea Piccioli, Alfredo Antonaros, Antonio Lubrano, Elio Veltri, Violante Pallavicino, Ivana Della Portella, Paolo Sorcinelli, Toni Jop, Isa e Mario Sanfilippo, Arturo Guastella, Nino Criscenti, Stefano Rolando, Fernando Ferrigno, Pino Coscetta, Gabriella Turnaturi, Massimo Loche, Giovanna Arciprete, Paola Germoni, Stefano Antonetti, Giorgio Cerboni Baiardi, Mario Baccianini, Patrizia Guastella, Valentina Gallenti, Gianluca Guastella, Maria Nicoletta Pagliardi, Fedora Filippi, i consiglieri nazionali di Italia Nostra: Nicola Caracciolo, Maria Teresa Roli, Luca Carra, Giovanni Gabriele, Oreste Rutigliano, Teresa Liguori, Leandro Janni, Franca Leverotti, Maria Rosaria Jacono, Ebe Giacometti, Maria Rita Signorini.
La madre dei Caravaggio è sempre incinta. E se i poveri parti non meriterebbero nessuna attenzione, è invece la madre stessa ad indurre a qualche riflessione.
Due illustri sconosciuti agli studi caravaggeschi (e, più in generale, storico-artistici) che si chiamano Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli annunciano di aver ‘scoperto’ cento (siamo ai saldi estivi, cento al prezzo di uno: «venghino siore e siori!») autografi di Caravaggio nel Civico Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco a Milano.
Si tratta di un fondo ignoto agli studi? Manco per sogno: come hanno ricordato subito i funzionari del museo, esso è noto da sempre, ed è almeno dagli anni cinquanta che gli specialisti di Caravaggio lo frequentano e ne scrivono, interrogandosi su alcuni nessi con l’opera del grande naturalista. Nonostante i dispareri sulla paternità dei singoli fogli, si è concordi nel ritenere che i disegni vadano ricondotti alla bottega di Simone Peterzano (1540-1596), il pittore bergamasco con cui Caravaggio si formò a Milano. Ma ora i due novelli caravaggisti hanno una soluzione geniale, un vero uovo di colombo: quei nessi si spiegano perché i disegni son tutti autografi del giovane Caravaggio. Semplice no? E tanti saluti a quei babbioni degli studiosi che da decenni ci si stillano il cervello.
Le prove? Esilaranti fotomontaggi al photoshop che incollano particolari di disegni, palesemente di mani e di epoche diverse, su quadri di Caravaggio, con effetti tragicomici. Non si fa desiderare l’imperdibile perizia calligrafica che stabilisce che, sì, la scrittura di un biglietto annesso ai disegni è proprio quella di Caravaggio. Insomma, manca solo il Ris di Parma: ma quello ha già dato, avendo autenticato due anni fa le ossa del Merisi a Porto Ercole, nella madre di tutte le bufale caravaggesche.
Non ci sarebbe altro da aggiungere, se non fosse per l’inconcepibile eco mediatica che ogni volta esalta queste operazioni, con l’effetto di trasformare la storia dell’arte in un circo equestre. L’Ansa ha voluto la notizia in esclusiva, dedicandole non so più quanti lanci e parlando di «svolta storica per la storia dell’arte».
Ma nessuno all’Ansa, o per esempio a «Repubblica» (che ha dedicato alla vicenda una pagina francamente imbarazzante), si è posto il problema della credibilità della ricerca. In storia dell’arte, come in fisica, le ‘scoperte’ vengono proposte a riviste riconosciute dalla comunità scientifica, dotate di comitati e basate su un sistema di revisione preventiva che vaglia e seleziona in contributi: e la scientificità di una ricerca (concetto ben presente anche nelle scienze umanistiche) si basa in primo luogo sulla verificabilità delle affermazioni e sul controllo della comunità. Ora, possibile che nessun giornalista si sia chiesto perché una simile ‘scoperta’ non era uscita su nota e autorevole rivista, ma su due ebook di Amazon? O è mai possibile che nessuno sia andato a vedere il sito ufficiale della ‘scoperta’ (http://www.giovanecaravaggio.it/)? Sopra un accompagnamento al piano elettronico degno di un thriller di quart’ordine, una voce da spot di tv locale legge un testo che inizia con queste memorabili parole: «È una autentica rivoluzione del Sistema Merisi, una delle maggiori e articolate scoperte nel campo della storia dell’arte e della cultura». La conclusione è un’apoteosi: «L’operazione Giovane Caravaggio … ha pure un grande valore economico e ricadute istituzionali di enorme valenza: si calcola infatti che solo il valore dei disegni, di proprietà del comune di Milano, possa ammontare a circa 700 milioni di euro». Davvero un geniale omaggio alla ‘valorizzazione del bene culturale’, con ammiccamento alla Giunta Pisapia: che grazie all’intelligenza di Stefano Boeri si è, tuttavia, prontamente smarcata da questo abbraccio mortale. Meno avvertito lo staff del ministro Lorenzo Ornaghi (quello che di solito fa come il Prodi di Guzzanti: sta fermo, non si muove), che si è precipitato a chiamare in Italia da Pechino (dove si trova per festeggiare, con un seguito assai nutrito, la deportazione dei nostri ‘capolavori’ del Rinascimento Fiorentino) per sapere se si poteva cavalcare la tigre caravaggesca, e, chissà, magari girare i 100 disegni da sette milioni l’uno al ministro Passera, per una bella messa all’incanto.
Nessuna redazione potrebbe prendere sul serio una fonte come il sito ‘giovanecaravaggio’, non dico per una notizia politica o economica, ma nemmeno per una di storia politica, per non dire di fisica. Se dichiaro di aver visto a occhio nudo il Bosone di Higgs nel mio salotto, mi portano giustamente alla Neuro: ma se il primo che passa sostiene di aver scoperto un Michelangelo, un Leonardo o un Caravaggio, il circo mediatico lo porta, immediatamente, in trionfo. Quando si parla di storia dell’arte tutto è possibile: in Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. È questo uno dei sintomi più gravi della riduzione di una disciplina umanistica ad escort della vita pubblica italiana: da mezzo per alimentare e strutturare il senso critico, a strumento di ottundimento di massa. E assai prima dell’indegnità della classe politica o dell’insufficienza di fondi, tra le tante cause del disastro del nostro patrimonio storico e artistico c’è anche questa desolante mutazione della storia dell’arte.
Nel mese di maggio del 2006 la Sardegna si è dotata – Giunta Soru – di un Piano Paesaggistico che fissa le norme di tutela dell’unica ricchezza dell’Isola, il Paesaggio. Contro il Piano si scatenarono una parte dei Sindaci dei 380 comuni sardi, le forze politiche di opposizione e la sinistra edilizia. Un furore che generò centinaia di rabbiosi ricorsi amministrativi dai quali il Piano uscì indenne. Ci fu perfino un referendum regionale indetto dagli sviluppisti che furono bastonati. Insomma il Piano si rivelò una costruzione talmente solida che oggi resiste nonostante la stella polare della nuova Giunta sarda sia il mattone in ogni suo travestimento. Edilizia travestita da turismo, travestita da eco sostenibilità, travestita da falso bisogno. Piani urbanistici che prevedono crescite demografiche di fantasia, ma metri cubi reali. Ora vogliono un Piano paesaggistico che dica sì a tutto. E perderanno nelle aule dei tribunali.
In Sardegna appare ogni tanto, dal mare o dal cielo, qualche piccolo dio. Una volta nei panni di un principe ci dà specchietti in cambio della Costa Smeralda. Un’altra, nei panni del petroliere, ci dà fondi di bottiglia per mettere su raffinerie. Insomma, l’elenco delle apparizioni sacre è molto lungo. Regalavano fabbriche fallimentari e tossiche, sogni turistici e conti in rosso. Mai apparse Madonne.
Ora è la volta dell’emiro del Qatar il quale è il nuovo sire della Costa Smeralda e anche dei preziosi 2300 ettari inedificabili, grazie al Piano Paesaggistico, nel territorio di Arzachena, Principato della Costa Smeralda. Il Qatar, dice Amnesty, limita i diritti civili, specie delle donne e degli immigrati. Ma ha un Pil che sfavilla. E non è un Pil di cartapesta come il nostro. Petrolio e gas naturali. Così, per l’ennesima volta, la Sardegna, che non resiste a Pil luccicanti, né a prìncipi, emiri, sceicchi, petrolieri, è in vendita. E il primo atto per venderla senza intoppi consiste nel cancellare le regole del Piano Paesaggistico. A questo lavora la alacre Giunta sarda. Così organizza incontri segreti al vertice con l’emiro. E lassù, in cima, discutono clandestinamente del destino dell’Isola. Intanto molti sardi – appesa la fierezza al chiodo – sognano di vendere la loro terra e, nel silenzio dei discendenti di Lussu, sostengono l’idea di vendere le porzioni migliori all’emiro che non è tipo da mezze porzioni. In cambio avremo il territorio divorato, qualche posto di cameriere. E qualche garçon pipì locale, quello che tiene l’orinale al nobile, si ingrasserà un poco.
Ci siamo ricordati, vedendo tanta sottomissione, la tragica storia del capitano Cook. Il capitano venne considerato dagli hawaiani l’incarnazione del dio della fertilità. Ma quando gli indigeni compresero che il capitano non era un dio, lo fecero a pezzi e un capo tribù restituì le mani e qualche osso alla marina inglese. Eravamo nel 1779. Queste cose non accadono più e nessuno le augura. Ci contenteremmo di sardi che difendono la loro patria e non dimenticano «Vorremmo che che un popolo senza terra si dissolve nel nulla.
Il paesaggio mantovano di Andrea Mantegna è salvo. Non finirà sotto il cemento la sponda del fiume Mincio che il maestro raffigurò nella Morte della vergine, un dipinto del 1462, ora al Prado di Madrid: il Consiglio di Stato ha pubblicato la sentenza con la quale dichiara validi i vincoli posti dalla Soprintendenza e dalla Direzione regionale dei beni culturali della Lombardia, vincoli che rendono inedificabile l’area. E ha rigettato il ricorso di una società immobiliare, la Lagocastello, che lì voleva costruire un quartiere di centottantamila metri cubi - duecento villette, alberghi e altri edifici per milleduecento abitanti.
Si chiude con una sentenza lunga e argomentata, firmata dal presidente della VI sezione Giuseppe Severini, una storia tortuosa che ha diviso Mantova, condizionando anche le vicende politiche e amministrative della città (un sindaco di centrosinistra, Gianfranco Burchiellaro, autorizzò l’intervento, il successivo sindaco, sempre di centrosinistra, Fiorenza Brioni, lo bloccò). L’area interessata dal progetto è proprio di fronte alle mura della città, di fronte al Palazzo Ducale e al Castello di San Giorgio, in un contesto di paesaggio naturale e urbano che racchiude i valori del Rinascimento italiano.
Ed è proprio sulla presenza di questo doppio elemento - natura ed edifici - che si sono
fondati i vincoli posti dalla Soprintendenza e dalla Direzione regionale dei Beni culturali. Anche le sponde del fiume Mincio, che in quel punto si allarga diventando un lago, sono opera dell'uomo e sono modellate in maniera da costituire un sistema che va conservato nella sua interezza, come se fosse un monumento: questo è scritto nel decreto di vincolo.
E a questo elemento il Consiglio di Stato ha dato molta importanza. L'integrità del complesso paesaggistico e la sua percezione verrebbero stravolte dalle costruzioni. Dunque i vincoli vanno mantenuti, scrivono i giudici. Ora i proprietari dell’area annunciano ricorso alla Corte Europea. Ma intanto il paesaggio di Mantegna non verrà intaccato da nessuna villetta.
Sono almeno 400 mila i braccianti arruolati dal caporalato che ogni estate dalla Puglia al Trentino lavorano nelle campagne. I sindacati denunciano lo sfruttamento ma serve una ribellione della società civile. E una legge che punisca i “mandanti”
Tre euro e mezzo per raccogliere un cassone di pomodori da 300 kg sotto il sole a 40 gradi. Due euro e mezzo se si è clandestini. È questa la paga che un immigrato riceve nelle campagne pugliesi, dove fa anche 14 ore al giorno. Lavora a cottimo. I più robusti riescono a portare a casa 20/25 euro al giorno (il 40% in meno di un italiano con le stesse mansioni), al netto di un taglieggiamento su trasporto, cibo, acqua e altre necessità elementari controllate dai caporali che li assumono e distribuiscono il lavoro. Mentre gli italiani iniziano ad andare in vacanza, non lontano dalle spiagge più belle si raccolgono pomodori, meloni e angurie, impiegando migliaia d’immigrati africani extra-comunitari o dei neo-comunitari provenienti dall’Est Europa.
Vogliamo aspettare un’altra drammatica protesta come a Rosarno nell’inverno 2010? O un altro sciopero come quello di Nardò, della scorsa estate, per renderci conto che ciò che mangiamo rischia di essere passato per le mani di uomini ridotti in semi-schiavitù? Non abbiamo garanzie: i pomodori che ci portiamo a casa, o le passate di pomodoro, l’anguria che divoriamo assaliti dalla calura è probabile che siano il frutto di condizioni di lavoro e di vita (in abitazioni di fortuna, senza servizi igienici, elettricità, assistenza sanitaria, sotto costante minaccia) inaccettabili, tanto più per un Paese che si definisce civile.
È una tragedia umana, un incubo per tante persone che si consuma ogni anno, in tutte le stagioni, sotto un pesante velo di omertà e su cui campa buona parte della nostra agricoltura e del nostro decantato made in Italy. Flai-Cgil stima che in Italia ci siano 400mila lavoratori che vivono sotto i caporali. Hanno la loro stagionalità come ce l’ha l’ortofrutta:a luglio e agosto si concentrano in Puglia, soprattutto nella Capitanata in provincia di Foggia o in Salento; subito dopo passano in Basilicata, nella zona di Palazzo San Gervasio dove i pomodori si raccolgono un po’ dopo; ci sono in Campania, nelle province di Salerno (Piana del Sele) e Caserta (Villa Literno e Castel Volturno). In autunno/inverno tocca agli agrumi: la Calabria con la Piana di Gioia Tauro dove si trova Rosarno, la Sicilia dove ci sono fenomeni di caporalato fino a primavera, con la successiva raccolta delle patate e di altri prodotti orticoli.
Ma non è esente il Nord: si segnalano fenomeni in Emilia-Romagna (frutta a Modena e Cesena), in Veneto (Padova), in Lombardia (Mantova e i meloni) e perfino nel civilissimo Trentino Alto Adige per la raccolta delle mele. Fenomeni settentrionali che sono ancora marginali, ma che vista la crisi sono in forte ascesa. Crisi che colpisce i lavoratori stagionali, gli immigrati che accettano loro malgrado di sottoporsi a condizioni sempre peggiori, ma crisi che colpisce anche l’agricoltura e i suoi imprenditori, i quali devono ridurre al minimo il costo del lavoro, per non fallire o lasciar marcire il cibo nei campi.
È una crisi che accentua l’assurdità del nostro sistema del cibo industriale, in cui diventa facile puntare il dito contro i caporali, ma in cui è ora che anche altri soggetti si assumano delle responsabilità. I caporali sono terribili, e rappresentano un fenomeno che riguarda anche altri settori lavorativi, soprattutto l’edilizia. Oggi non sono più soltanto italiani, spesso sono africani come gli sfruttati, scatenando una guerra tra poveri che non è esente da fenomeni d’infiltrazione mafiosa. Gli imprenditori affidano ai caporali il potere di gestire le vite dei
braccianti lontano dei centri abitati come lontani sono i campi: se l’occhio non vede nessuno s’indigna, tantomeno chiede regolarità e legalità. Tutto in nero: si calcola che per l’agricoltura il sommerso incida per il 90% al Sud, per il 50% al Centro e per il 30% al Nord.Altro che far rispettare i contratti, questi lavoratori neanche esistono.
Per fortuna, dopo lo sciopero di Nardò dell’estate 2011, è stato accelerato l’iter per una legge che preveda il reato di caporalato, che tuttavia è stata approvata solo in parte: per esempio non vi è traccia di sanzioni per le imprese e non ci sono meccanismi di tutela per i lavoratori che denunciano i loro caporali. Sono tanti le associazioni e i sindacati che si stanno impegnando su questo fronte, ma non possiamo andare avanti con la loro limitata capacità strutturale di sopperire alle mancanze dei sistemi istituzionale e agricolo che sembrano non volerci sentire. Bisogna colpire duramente gli imprenditori agricoli coinvolti: che lo facciano le leggi, le forze dell’ordine, le associazioni di categoria. Un primo risultato si è ottenuto proprio a Nardò a maggio, dove insieme ai caporali, dopo una lunga indagine, sono stati arrestati anche gli stessi imprenditori, i “mandanti”. Gente che tra l’altro esporta la quasi totalità del proprio prodotto, e che dunque farebbe l’orgoglio di chi si lamenta che la nostra agricoltura «è poco competitiva».
Intanto però bisogna che si sollevi la società civile. Si può fare in diversi modi: lo fanno le associazioni o i sindacati come Flai/Cgil, che parte in questi giorni con “Gli invisibili delle campagne di raccolta” e un “camper dei diritti” su cui viaggiano medici, insegnanti di lingua, avvocati, sindacalisti, volontari e Yvan Sagnet, il leader dello sciopero di Nardò. Toccheranno la Puglia, poi la Calabria e infine il Trentino. Vogliono risvegliare le coscienze dei lavoratori, spesso inconsapevoli dei loro diritti e del potere che hanno quando incrociano le braccia: la frutta e la verdura non si raccolgono da sole, e vanno raccolte al momento giusto.
Però possono mobilitarsi le persone che vivono in quei luoghi, darsi da fare di più per l’accoglienza, trovare coraggio e protestare, sposare le battaglie dei braccianti, non accettare che nel loro territorio accadano tali nefandezze. Infine tutti noi possiamo fare qualcosa. Io mi rifiuto di mangiare prodotti che provengano da quei campi, e voglio sapere con esattezza se provengono da quei campi. Voglio poterli boicottare, e premiare invece chi lavora in maniera trasparente; sono anche disposto a pagare di più, il giusto, se ho queste garanzie. Perché è pur vero che bisogna aiutare i bravi agricoltori.
È ora che il sistema Italia rigetti con forza il caporalato in tutte le sue forme. È urgente, perché intanto queste povere persone sono lì nei campi, a soffrire, in alcuni casi a morire. Sono necessari un intervento del governo (in fondo anche queste sono tasse che vanno recuperate) e della politica locale, un coordinamento nazionale delle forze dell’ordine, l’auto-certifcazione delle aziende virtuose, la nostra scelta quotidiana di un cibo che non sia soltanto buono e sostenibile dal punto di vista ambientale, ma anche giusto: giusto per chi lavora, giusto per chi non vuole diventare complice di questa vergogna italiana.
Con tutta la buona volontà richiesta in tempi di emergenza, non si può onestamente accettare un provvedimento che toglie risorse all’università statale per destinarle alle scuole private. Il piano di tagli agli sprechi messo in cantiere dal governo Monti prevede alla voce scuola una ingiustificata partita di giro che toglie 200 milioni di euro alle istituzioni pubbliche per darli a quelle private. Con una motivazione che ha dell’ironico se non fosse per una logica rovesciata che fa rizzare i capelli in testa anche ai calvi. Leggiamo che si tolgono risorse pubbliche alle università statali al fine di “ottimizzare l’allocazione delle risorse” e “migliorare la qualità” dell’offerta educativa. Stornare risorse dal pubblico renderà la scuola più virtuosa. Ma perché la virtù del dimagrimento non dovrebbe valere anche per il settore privato? Perché solo nella già martoriata scuola pubblica i tagli dovrebbero tradursi in efficienza?
Lo stillicidio delle risorse all’istruzione pubblica e alla ricerca va avanti imperterrito da più di dieci anni, indipendentemente dal colore dei governi e dallo stato dei conti pubblici. Il paradosso, che suona irrisione a questo punto della nostra storia nazionale, la quale documenta di una disoccupazione giovanile che veleggia verso il 40%, è che l’apertura di credito alle scuole private è andata di pari passo all’umiliazione di quelle pubbliche, ottime scuole peggiorate progressivamente quasi a voler creare artificialmente, e con i soldi dei contribuenti, un mercato per il servizio privato educativo che non c’era.
A partire dalla legge 62/2000, concepita come attuazione dell’Art. 33 della Costituzione, le scuole private dell’infanzia, quelle primarie e quelle secondarie possono chiedere la parità ed entrare a far parte del sistema di istruzione nazionale. Ottenere la parità (rispetto al valore del titolo di studio rilasciato) non equivale per ciò stesso a ricevere denaro pubblico. Eppure l’interpretazione della Costituzione che ha fatto breccia alla fine della cosiddetta Prima Repubblica ha imboccato la strada della revisione della concezione del pubblico, un aggettivo esteso anche a tutta l’offerta educativa riconosciuta come “paritaria”. Ciò ha aperto i cordoni della borsa pubblica alle scuole private, che in Italia sono quasi tutte cattoliche e che ricevono denaro dallo Stato sotto forma di sussidi diretti, di finanziamenti di progetti finalizzati, e di contributi alle famiglie come “buoni scuola”. I politici cattolici (trasversali a tutti i partiti) hanno giustificato questa interpretazione della parità con una lettura del 3° comma dell’Art.33 che è discutibile. Il comma dispone che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Ma dice anche che “la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali». Tuttavia il trattamento “scolastico equipollente” pertiene alla qualità educativa e formativa, un bene che spetta alla scuola privata mettere sul mercato, senza “oneri per lo Stato”. L’Articolo 33 potrebbe essere interpretato in maniera diversa.
Nel 1950, uno dei padri fondatori della nostra Costituzione, Piero Calamandrei proponeva una interpretazione ben diversa. E lo faceva mentre elucidava le astuzie e le strategie che potevano essere usate per distruggere la scuola della Repubblica. Le sue parole sembrano scritte ora: «L’operazione si fa in tre modi: (1) rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico... Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione... Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito».
Con il volgere dei decenni i timori di Calamandrei sono diventati realtà e a questo ha contribuito il mutamento nei rapporti di forza tra cattolici e laici con la crisi dei partiti tradizionali. Questo squilibrio di potere pesa come un macigno se neppure un governo tecnico riesce a evitare di farsi tanto politico da discriminare le scuole pubbliche e privilegiare quelle private quando si tratta di dare o togliere finanziamenti. E questa politicità a senso unico rende questo provvedimento ancora più ingiusto.
Nell'icona Piero Calamandrei
Il “principio di realtà” sembra irrompere nella politica solo quando si fanno più drammatiche le questioni dell’economia, alle quali tuttavia si guarda troppo spesso come se in esse si manifestasse una ineludibile legge “naturale”. I mercati “votano”, si attendono le “reazioni” dei mercati. Soggetti onnipresenti e impersonali, alle cui pretese la politica si piega, e palesa le sue impotenze, smarrisce ogni filo razionale, sembra rassegnata alle dimissioni. Di questo contagio la politica è vittima consapevole. Prigioniera della sola dimensione economica, perde la capacità di misurarsi con le grandi questioni della società, di elaborare strategie di più largo respiro e di più lunga durata. E si priva così degli strumenti che possono consentirle di ricominciare a pensare lo stesso mercato come una creazione sociale, non come una entità naturale, alle cui leggi si è costretti ad obbedire.
Nella realtà vi sono più cose da vedere, analizzare, comprendere. A questa ricchezza la politica deve attingere. Non è una impresa impossibile, a condizione che si voglia davvero uscire dall’autoreferenzialità e dalle logiche oligarchiche che si sono impadronite dei partiti. I punti di riferimento non mancano. Questa sembrava l’indicazione venuta dal segretario del Pd quando, lanciando la sua candidatura verso primarie aperte, l’associava con una dichiarata attenzione per le nuove dinamiche sociali, per le richieste di partecipazione, per i diritti civili, per il tema centrale del lavoro, dando la sensazione che si volesse così dar vita ad una agenda politica finalmente espressiva di contenuti concreti, abbandonando le abitudini che hanno trasformato l’azione del partito in una eterna schermaglia tra persone. Solo in questo modo si può evitare che le primarie si trasformino in un’altra tappa verso quell’estrema personalizzazione della politica che è all’origine di infinite distorsioni istituzionali.
Il principio di realtà dovrebbe portare verso una riflessione sulle effettive dinamiche degli ultimi tempi. Tutto quello che usciva fuori dai canali della politica ufficiale è stato sbrigativamente etichettato come antipolitica. Questo non è stato solo un errore analitico. Si è rivelato come un modo per sottrarsi ad un confronto scomodo, non con l’antipolitica, ma con l’altra politica che si è presentata in modo incisivo sulla scena italiana, suscitando nei partiti una reazione di fastidio e di sufficienza, quasi che si trattasse di inutili iniziative “movimentiste” e protestatarie.
Le cose non sono andate così. Tra il 2010 e il 2011 si sono svolte grandi manifestazioni di donne e lavoratori, studenti e mondo della cultura. A questa iniziativa diffusa si deve la reazione che ha bloccato la “legge bavaglio” sulle intercettazioni, fino a quel momento contrastata
blandamente dall’opposizione parlamentare. Quel variegato movimento ha contribuito grandemente ai successi nelle elezioni amministrative dell’anno scorso, non a caso vinte, in città chiave come Milano e Napoli, da candidati scelti fuori dalle indicazioni dei partiti. In quelle campagne elettorali, come ha ricordato Ilvo Diamanti, vi fu una straordinaria e spontanea presenza dei cittadini. Punto di approdo di tutta quella fase fu il voto referendario del 13 giugno dell’anno scorso, quando ventisette milioni di cittadini dissero no alla privatizzazione dell’acqua, al nucleare, alle leggi ad personam.
Altro che movimentismo sterile, del quale disinteressarsi. Quelle sono state tutte iniziative vincenti, che avrebbero dovuto sollecitare la massima attenzione della politica “ufficiale”, rimasta invece sorda, lontana, ostile. Ora proprio a quel mondo si dice di voler rivolgere l’attenzione. Ma questo non è affare di parole.
Non si può dire di voler prendere sul serio i segnali che arrivano dalla
società e poi contribuire a una strategia che vuole sostanzialmente cancellare i risultati del referendum sull’acqua. Sta accadendo proprio questo con una rottura della legalità costituzionale che giustifica un appello al Presidente della Repubblica. Migliaia di cittadini si organizzano in una campagna di “obbedienza civile”, pagando le bollette dell’acqua in base a quel che essi stessi hanno deciso con il referendum. Una convincente nuova politica non può eludere questo terreno, che i cittadini hanno pacificamente occupato non con iniziative sgangherate, ma con il loro voto. Quale credito può recuperare un partito che ignora la voce di ventisette milioni di persone?
Vi è una lezione generale da trarre da questa storia recente. Tutti quei movimenti non hanno mai scelto la strada non solo antipolitica, ma antistituzionale, che altri hanno imboccato o vogliono imboccare. Al contrario. I loro interlocutori sono stati i parlamentari al tempo della legge bavaglio. Gli strumenti adoperati sono quelli della democrazia quando si sceglie di partecipare convintamente alle elezioni amministrative e quando si raccolgono le firme e si vincono i referendum. Se davvero si vuole rafforzare la partecipazione, la via da seguire è nitidamentesegnata.
Tutto questo, infatti, è avvenuto all’insegna della Costituzione, salvata nel giugno del 2006, da sedici milioni di cittadini che, dicendo no alla riforma costituzionale approvata dal governo Berlusconi, indicavano pure una strada da seguire. Se oggi si vuol discutere seriamente di riforma costituzionale, bisogna tenere nel giusto conto le indicazioni venute in questi anni da milioni (insisto, milioni) di cittadini, non dalle intemperanze di gruppetti o dalle pretese di professori (anche se un po’ di attenzione per la grammatica costituzionale non guasterebbe). Queste indicazioni sono chiarissime. Il rifiuto dell’accentramento del potere e di una più intensa personalizzazione dovrebbe essere ancor più tenuto in considerazione oggi, di fronte alla minaccia di pericolose derive populiste. L’attenzione per la partecipazione dei cittadini non può essere ridotta a una giaculatoria. Ma nelle proposte di riforma costituzionale non vi è nulla (insisto, nulla) che vada in questa direzione, anzi si va verso accentramenti e smantellamento di equilibri e garanzie. E questa è una linea autolesionista, al limite del suicidio, perché la stessa democrazia rappresentativa può essere salvata solo da una sua intelligente integrazione con forme di partecipazione dei cittadini. Dall’Europa ci vengono indicazioni che consentono, ad esempio, di rafforzare l’iniziativa legislativa popolare, come vado dicendo da anni.
Ma l’altra politica manifesta pure una fortissima richiesta di diritti, che non può essere sacrificata all’economia con il trucco della politica dei due tempi, come ha benissimo ricordato Chiara Saraceno, né può essere affidata a documenti come quello predisposto dal Pd, elusivo su troppe questioni. I diritti del lavoro sono emblematici del legame scindibile tra economia e diritti, come dimostrano alcuni opportuni interventi dei giudici, resi possibili anche da indicazioni provenienti dall’Europa che, anch’essa, deve essere considerata nella dimensione dei diritti.
Sono molte, dunque, le possibilità concrete di riprendere il filo del rapporto spezzato tra partiti e cittadini. Ma questa, evidentemente, non è una operazione a costo zero. Esige l’abbandono di pessime abitudini e qualche segnale immediato. Torno alla questione dell’acqua come bene comune e ricordo che in Parlamento, su vari temi, giacciono proposte di legge di iniziativa popolare o regionale. Perché non metterle all’ordine del giorno, cominciare a discuterle? I cittadini capirebbero.
Introduzione all’argomento
Il suolo, come lo conosciamo oggi nella sua molteplicità, esiste da circa diecimila anni, e si formò dopo l’ultima era glaciale. Ai Colloqui di Dobbiaco 2012 vogliamo analizzare i pericoli che incombono sempre più pesantemente su questo sottile strato del Pianeta, nella sua funzione di habitat, fonte di nutrimento e di risorse. È sempre più evidente che la cementificazione, compattazione, contaminazione, erosione e depredamento del suolo sono un pericolo per la vita sulla Terra. Al momento, questa minaccia grava soprattutto sul Sud del mondo, ma è chiaro che la distruzione, i conflitti d’interesse per l’utilizzo del suolo (nutrimento, energia, edificazione) e la carenza crescente di terreno fertile, in previsione di un aumento della popolazione mondiale nei prossimi decenni sono una minaccia per tutto il Pianeta. Se negli anni Sessanta ogni abitante della Terra poteva contare, in media, su 0,4 ettari di suolo coltivabile, nel 2050 ne avrà a disposizione solo 0,16, tanto che ormai, parafrasando il “picco del petrolio”, si parla di “picco del suolo”. I relatori e il pubblico dei Colloqui di Dobbiaco 2012 si confrontano sul futuro del suolo e della vita che si sviluppa sopra e sotto di lui, del terreno che sta sotto i nostri piedi, della politica del suolo nei paesi alpini e di altri argomenti correlati. Quali opportunità e prospettive si aprono nella lotta al consumo del suolo? Come si possono difendere i diritti delle popolazioni rurali dalla corsa all’accaparramento di appezzamenti enormi da parte delle multinazionali, soprattutto in Africa? Quale contributo può dare una politica attiva per la difesa del suolo allo sviluppo di filiere produttive ed economiche più ecologiche e sostenibili?
Colloqui di Dobbiaco
Nella località di Dobbiaco, punto di incontro tra due culture, dal 1985 al 2007 i
“Colloqui di Dobbiaco” - ideati e organizzati da Hans Glauber - affrontarono ogni anno
le tematiche ambientali di maggior rilievo proponendo di pari passo delle soluzioni
concrete. Col passare degli anni i Colloqui di Dobbiaco si sono rivelati un prestigioso
laboratorio d'idee per una svolta ecologica nell'arco alpino e non solo. Dopo la
prematura scomparsa di Hans Glauber, il ruolo di “curatore” dei Colloqui di Dobbiaco è
stato assunto da Wolfgang Sachs, dapprima con l'edizione 2008, intitolata “La giusta
misura – La limitazione come sfida per l'era solare” e poi con l'edizione 2009 dedicata
al tema “Osare più autarchia – Energie distribuite per le economie locali post-fossili”.
Nel 2010 è stato affrontato il tema “Il denaro governa il mondo – ma chi governa il
denaro? Percorsi per una finanza eco-solidale” e nel 2011 “Benessere senza crescita”.
In piena continuità con lo spirito di Hans Glauber convinto fautore della nuova era
solare come nuovo progetto di civiltà, i Colloqui di Dobbiaco nel 2012 vengono diretti
da Wolfgang Sachs e da Karl-Ludwig Schibel con il tema “Suolo: la guerra per l'ultima
risorsa”.
L’Appia Antica si prende la sua “notte bianca”, e lo fa con l’orgoglio di signora millenaria capace ancora di sedurre il viaggiatore svelando tesori sconosciuti. Venerdì prossimo aprirà, infatti, la chiesa medievale di San Nicola dopo un restauro di due anni condotto dalla soprintendenza ai beni archeologici di Roma. Tra i gioielli di famiglia della Regina Viarum, il monumento consacrato nel 1303 come parrocchia del Castello Caetani, di fronte al mausoleo di Cecilia Metella, spicca per essere una perla rara, l’unico esempio di architettura gotico cistercense di Roma. Fatta erigere da Bonifacio VIII, caratterizzata dall’originale facciata con il campanile “a vela”, è caduta nell’oblio dell’abbandono fin dal ‘500. E la sua inaugurazione diventa il fiore all’occhiello del festival “Dal tramonto all’Appia”, curato dalla direttrice dell’Appia Rita Paris, tre “notti bianche” dal 6 all’8 luglio, per godersi con lentezza un patrimonio di storia con un programma gratuito di musica live, mostre, videoproiezioni, performance, incontri, visite guidate e viaggi del gusto, dalle 18 a mezzanotte. Un evento nato in stretta collaborazione con la Pierrecicodess, oggi cooperativa Culture.
«San Nicola era una spina nel fianco — dice la Paris — già alla fine dell’800 le carte d’archivio denunciavano lo stato di degrado della chiesa e si decideva di murare la porta d’ingresso per dare stabilità alla facciata». A distanza di oltre un secolo, il portale è stato smurato e la visita regala un’atmosfera romantica col vuoto lasciato dalla copertura crollata nel tempo. Il restauro curato dalla Paris e da Maria Grazia Filetici ha consolidato la struttura muraria della navata unica, con la grande abside semicircolare e la parata di sei finestre per lato, impreziosite da cornici trilobate di marmo bianco, e messo in sicurezza il raffinato sistema dei peducci in peperino a forma di calice decorato con foglie su cui un tempo poggiavano gli archi acuti che sostenevano il tetto. La chiesa entra ora a far parte permanente del circuito di visita del mausoleo di Cecilia Metella con unico biglietto e stessi orari.
Prologo (venerdì alle 18) dei giorni di feste notturne è la mostra «Marmo, latte e Biancospino» a Capo di Bove dove il vissuto dell’Appia e dell’Agro romano viene raccontato da 37 fotografie degli anni ‘50 e ‘60 uscite dall’archivio Cederna e dalla Peer Gallery, che si chiude con uno scatto di scena de “La Ricotta” con Pier Paolo Pasolini e Orson Welles nel parco della Caffarella, set del film che verrà proiettato. “Memorie di luce della via Appia” saranno proiettate sul mausoleo di Cecilia Metella, mentre concerti jazz e classica animeranno il sagrato di San Nicola, a partire da Enzo Pietropaoli (21.30), fino a degustazioni lungo la strada. Tra le curiosità, l’incontro con Luca Spaghetti, autore di “Un romano per amico”, e la presentazione del film “Via (Elegia dell’Appia)” prodotto dalla Soprintendenza.
Info: www.archeoroma.beniculturali.it
C’erano una volta i ragazzi del piano, il gruppo di giovani urbanisti, funzionari pubblici, le cui storie sono state raccontate nel bel libro di Gabriella Corona, il cui percorso umano e professionale a un certo punto ha finito per identificarsi con quello che ha condotto, nel 2004, all’approvazione del nuovo Piano regolatore della città. La notizia di questi giorni è che quel gruppo non c’è più, perché è stato decapitato nel giro di pochi giorni, si potrebbe dire di poche ore, con l’urbanistica napoletana letteralmente allo sbando, priva di guida, proprio nel momento in cui la giunta comunale annuncia alla città provvedimenti rilevanti, come la variante per i 20.000 alloggi nella zona orientale, e l’avvio della manifestazione di interesse per il nuovo stadio Come è noto, Roberto Giannì era già andato via, subito prima dell’insediamento della giunta de Magistris, chiamato dal presidente della Regione Puglia Nichi Vendola a dirigere l’urbanistica pugliese. Un’altra figura di spicco, Elena Camerlingo, è in pensione da pochi giorni. Poi, in un fine settimana convulso, si è improvvisamente dimesso Giovanni Dispoto, che era succeduto a Giannì alla direzione del Dipartimento urbanistica. Mentre tutto il gruppo storico di dirigenti in servizio, a partire da Laura Travaglini, è stato degradato, dopo dieci anni, al rango di semplici funzionari. Tutto ciò per effetto di un vecchio e controverso ricorso, che ha invalidato la graduatoria concorsuale in base alla quale Dispoto e i suoi colleghi erano stati reclutati. Dulcis in fundo, nello stesso giorno, il Comune ha pensato bene di licenziare tutti giovani borsisti che coadiuvavano il lavoro degli uffici.
È inutile precisare che qui non si sta parlando di persone, che pure meritavano ben diverso trattamento per il servizio reso in questi anni alla città, ma del governo dell’urbanistica nella terza città d’Italia. La maniera con la quale l’amministrazione e la giunta hanno assecondato gli eventi, senza uno straccio d’iniziativa in grado di assicurare la continuità di delicate funzioni amministrative, getta ombre lunghe sul futuro. La sensazione è che ci sia un gran desiderio di cambiar rotta; che il modello napoletano dell’ultimo ventennio, caratterizzato nel bene e nel male dal fatto che la programmazione fosse svolta direttamente all’interno degli uffici competenti, con l’idea che questo potesse meglio garantire l’interesse pubblico, sia ritenuto oramai superato.
Perché a ben vedere gli eventi delle ultime ore appaiono come il naturale esito di un processo che parte da lontano, sin dai primi passi della nuova amministrazione, quando ha iniziato a delinearsi il nuovo stile di governo della città, con gli uffici chiamati ad apprendere dalla stampa le
decisioni di volta in volta già assunte, ed il Dipartimento urbanistico relegato in un ruolo marginale in tutte le decisioni di forte rilevanza territoriale, si tratti di Vuitton Cup come della localizzazione degli impianti di compostaggio; dello svincolo della tangenziale spuntato all’improvviso a Bagnoli, come del nuovo stadio.
È come se i ritmi concitati, l’orizzonte temporale compresso che l’amministrazione comunale si è data, non necessitino più di valutazioni complesse, di scala urbana, in grado di contemperare i diversi interessi sociali ed economici di una cittadinanza estremamente variegata; ma vivano piuttosto della sola dimensione progettuale: un annuncio e un progetto alla volta, il cui carattere di urgenza è soprattutto legato agli accordi preventivi che l’amministrazione ha già stipulato con i diversi gruppi di interesse.
È evidente come per governare questi processi risulti più funzionale il lavoro solerte degli staff, anziché quello a volte pedante degli uffici, condannati come si sa al rispetto delle regole, ed allora viene anche da riflettere sui contenuti di una proposta di ristrutturazione della macchina comunale, che circola in questi giorni, nella quale una funzione urbanistica autonoma non esiste più, declassata al rango di articolazione secondaria di una mega direzione “Ambiente”.
In conclusione, se è vero, come recita l’adagio, che “la pianificazione è umana, ma l’implementazione è divina”, è anche vero che disporre di un Prg, al quale pure si assicura assoluta fedeltà, ma non di strutture amministrative adeguate e robuste per il governo quotidiano dei procedimenti che da esso discendono, significa essersi messi proprio in una brutta situazione.
All’amministrazione l’onere di rassicurare tempestivamente le forze politiche e la cittadinanza circa il modello di governo della città pubblica degli anni a venire: dirci se esso sarà basato sulla riflessività e le garanzie delle procedure democratiche, oppure sull’adrenalinica velocità di più efficienti elites e tecnostrutture.
Si vedano, in questa stessa cartella i molti articoli sul PRG094 e sugli “scivoloni” recenti della Giunta De Magistris
Il 6 luglio sarà inaugurato uno ‘spazio museale italiano’ presso il Museo Nazionale della Cina, in Piazza Tian’an men a Pechino, frutto dell’accordo di Stato tra Italia e Cina firmato dai rispettivi ministri della cultura nell’ottobre 2010.
Il primo ‘evento’ italiano sarà una mostra che durerà un anno. Il titolo, originalissimo e inaspettato, è: Rinascimento a Firenze. Capolavori e protagonisti.
Le uniche cose indiscutibili, in questa vicenda, sono l’abnegazione e l’amor patrio con cui il direttore generale per la valorizzazione del Ministero per i beni culturali Mario Resca ha sostenuto questa iniziativa politico-diplomatica.
Alla vigilia della conclusione del suo mandato bisogna riconoscere che - in un Mibac riverso su se stesso, paralizzato dall’incapacità dei ministri e dalla corruzione della burocrazia – l’alieno Resca ha almeno provato a spezzare questa morbosa autoreferenzialità, e ad aprire il patrimonio storico e artistico ai cittadini e al mondo. Ma i burosauri del Mibac si sono vendicati, propinandogli formule che erano già vecchie sessant’anni fa.
Le prime mostre-kolossal all’estero furono fortemente volute da Mussolini (che si vantava, coerentemente, di non essere mai entrato in un museo), e hanno costellato la storia repubblicana fino agli ultimi mesi, in cui si susseguono a ritmo vertiginoso le comparsate di Stato del povero Caravaggio (spesso sostituito da improbabili controfigure): a Cuba, a Mosca, e ora alla Casa Fiat di Belo Horizonte, in Brasile (una sagra del tarocco che evidentemente a Sergio Marchionne non appare folcloristica, a differenza delle sentenze dei tribunali italiani).
Ammettiamo che organizzare scambi di mostre tra Stati non sia un patetico residuo dell’ancien régime, ed abbia ancora un qualche valore diplomatico che superi quello dei buffet che spezzano le trattative sui trattati commerciali. Bisognerebbe, allora, concepire un vero progetto scientifico (con l’intento di aumentare la conoscenza, trattando i visitatori come esseri pensanti e non come barbari da stupire) e con un ‘rischio zero’ per le opere. Lo impone l’articolo 67 del Codice dei Beni culturali (che, in assenza di queste caratteristiche, vieta che le opere varchino i confini della Repubblica), e lo imporrebbe la deontologia degli storici dell’arte: se ci fosse.
Il Rinascimento pechinese è «un’antologia abborracciata, forse dettata unicamente dall’arrendevolezza di alcuni soprintendenti». Sono parole del fulminante articolo con cui Antonio Cederna massacrò, nel 1956, un’analoga iniziativa. E sono perfettamente attuali. Per esplicita ammissione degli organizzatori (il Polo museale fiorentino), il progetto scientifico (obbligatorio) non è scientifico: sostanzialmente si sono prese delle opere a casaccio, badando al fatto che ce ne fossero di grosse e di artisti famosi. Risultato: un grottesco guazzabuglio che riesce a mettere insieme Lorenzo Monaco e Benvenuto Cellini.
Per nulla si è invece badato alla tutela delle opere, scelte in spregio ad ogni criterio, norma, legge. Tra pezzi evidentemente riempitivi, la lista dei deportati comprende ben trentadue dipinti su tavola (tra gli altri di Gentile da Fabriano, Paolo Uccello, Filippo Lippi, Botticelli e Raffaello) e cinque affreschi staccati, tra cui due dei famosi Uomini illustri di Andrea del Castagno, l’Annunciazione di Botticelli degli Uffizi (la bellezza di 5 metri e 50 per 2 e 46!) e il San Girolamo di Ghirlandaio, proditoriamente sottratto alla chiesa di Ognissanti e al suo pendant dipinto da Botticelli. Si tratta di pitture fragilissime, che non dovrebbero viaggiare per nessun motivo: figuriamoci per «una carrettata bassamente propagandistica, una scelta affrettata e fortuita, conforme appunto alla inanità degli scopi confessati» (ancora Cederna).
Come se non bastasse, andrà in Cina anche l’Ercole e Anteo di Bartolomeo Ammannati della Villa di Castello: un gruppo di bronzo, alto due metri e nato per stare su una fontana, che è demenziale esporre al chiuso tra quadri sacri e ritratti. E poi ancora l’analoga Venere Anadiomene di Giambologna, una manciata di robbiane, un disegno di Leonardo e nientemeno che il cosiddetto David-Apollo di Michelangelo, un inestimabile marmo alto un metro e mezzo, conservato al Bargello nei pochi momenti in cui non esercita come commesso viaggiatore.
Ci si chiede come la soprintendente di Firenze, il Comitato di settore (in blocco sotto processo contabile per l’acquisto del famoso pseudo-Michelangelo) e il direttore generale abbiano potuto autorizzare simili enormità: «Grandi equilibristi – è ancora Cederna – disposti sempre all’obbedienza verso i pezzi più grossi di loro, sulla cui mancanza di carattere e di convinzioni generali i vandali sanno di poter contare».
Vogliamo davvero portare ai cinesi un’immagine positiva del nostro Paese? Organizziamo mostre di artisti italiani: non morti da mezzo millennio, ma vivi, e possibilmente giovani. Finanziamo film di grandi registi che raccontino l’Italia di oggi (come quelli meravigliosi di Folco Quilici, sull’Italia vista dal cielo, degli anni sessanta), riproduciamo perfettamente a Pechino qualcuno dei nostri siti monumentali (una Cappella degli Scrovegni in scala uno a uno sarebbe del tutto accettabile alla cultura cinese). Insomma, qualunque cosa che non fotografi un’Italia convinta di avere il meglio della propria storia dietro di sé, ridotta a togliersi le mutande e a far sfilare i propri capolavori, in catene, nella capitale dei nuovi padroni del mondo.
Tutto lascia invece pensare che continueremo a organizzare mostre come questa: clamorosamente inutili, dannose, illegali. Avverando così la profezia del più grande storico dell’arte italiano del Novecento, Roberto Longhi, che nel 1952 si augurava che lo Stato «ponesse un fermo a questa stolida e spesso servile mania esibizionistica dell’Italia all’estero. Mania che, ove non venisse ormai stroncata, finirebbe, oltre agli irreparabili danni materiali, per revocarci stabilmente dal novero delle nazioni culturalmente più progredite».
ROMA - Raggiunge l´ultima curva la spending review. Oggi Mr. Forbici, Enrico Bondi, l´uomo sul quale pesa il compito di recuperare il maggior numero di risparmi nell´ambito della pubblica amministrazione, incontrerà i ministri di spesa, da Balduzzi (Sanità), alla Cancellieri (Interni), a Patroni Griffi (Pubblico Impiego), a Giarda (Programma e Rapporti con il Parlamento). Domani sarà la volta dei sindacati, della Confindustria e delle Regioni. Il decreto potrebbe essere varato giovedì o venerdì, ma non è escluso che slitti alla prossima settimana. I sindacati, con la Cisl, hanno già avanzato un aut aut sugli statali, i ministri di spesa resistono, sul vertice con gli enti locali pesa l´ipoteca della sanità, nell´imminenza del rinnovo del Patto sulla salute. Ieri intanto il segretario del Pd Bersani ha inviato un messaggio all´insegna della cautela: «Pronti a dare il nostro contributo per evitare un ulteriore aumento dell´Iva cui ci hanno inchiodati Tremonti e Berlusconi, ma c´è modo e modo per arrivare all´obiettivo e vogliamo discuterne». Anche sul fronte opposto, il capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto, invita alla prudenza: «Siamo in attesa di saperne di più, è evidente che i partiti dovranno essere informati prima della presentazione dei decreti».
L´obiettivo - come anticipato da Repubblica - è quello di recuperare risorse per evitare l´aumento dell´Iva negli ultimi tre mesi dell´anno (circa 4,2 miliardi, come previsto fin dal varo dell´intera operazione della revisione della spesa); per il 2013, invece, l´aumento resterà, ma dimezzato (un punto invece di due). Sul tavolo del resto si affastellano anche altre urgenze: la questione degli esodati, le spese per il terremoto dell´Emilia, gli interventi urgenti come il rifinanziamento delle missioni internazionali. Senza contare l´aggravamento della recessione: un elemento che, stando allo stesso premier Monti, non dovrebbe dar luogo ad una manovra aggiuntiva in quanto il rapporto deficit-Pil al netto della congiuntura ci consentirà comunque di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. A dare fiato alla fiducia il buon esito del vertice di Bruxelles e gli obiettivi centrati del gettito Imu che ha dato circa 9 miliardi.
Sul fronte dei tagli il sentiero sembra tracciato, ma è proprio sui questo versante che potrebbero aprirsi dei problemi. Mr. Forbici Bondi avrebbe fatto il suo lavoro e sarebbe in grado di portare sul tavolo un menù di tagli per 9 miliardi: a quel punto la decisione sarebbe politica e spetterebbe alla collegialità dei ministri. Lo scambio Iva-statali e Iva-sanità starebbe creando dei problemi anche perché le cifre e le misure sembrano lievitare di giorno in giorno. Tant´è che si parla di spacchettare l´intervento in due tempi.
Sul versante della Sanità sarebbe il ministro Balduzzi a puntare i piedi: il suo pacchetto sarebbe attestato ad un miliardo, ma la spending prevederebbe solo dai farmaci 1,5 miliardi e per beni e servizi 4,4 miliardi. Inoltre alla Sanità sono disponibili a concedere alla centrale acquisti l´operatività su spese alberghiere e prodotti generici, ma vorrebbero una supervisione tecnica sul Tac, medicinali e spese ad alto contenuto specialistico. Anche sul fronte del pubblico impiego sale la tensione: il prezzo sarebbe 10 mila esuberi, prepensionamenti (seppure con sospensione della Fornero), stretta sul turn over, taglio dei buoni pasto, dei distacchi. Regioni, Province e Comuni per ora mandano segnali deboli, ma già parlano di «insoddisfazione», anche in relazione al taglio del fondo sanitario di 1,8 miliardi che viene utilizzato come boccata d´ossigeno di ultima istanza per le Regioni in deficit.
La logica dei “tecnici” al comando è sempre la stessa, ed è quella dettata dalla loro ideologia. Per sanare la crisi determinata dalla sostituzione del Mercato allo Stato, espressione della Politica, riduciamo ancora lo Stato, le sue competenze, i suoi poteri, la sua responsabilità. La politica, ormai ridotta a quel suo simulacro che sono i partiti d’oggi, è del tutto asservita. Lo smantellamento ulteriore dello Stato, del “pubblico”, non ci sarà ostacolato da nessuno. Chi proclamava “privato è bello”, “meno Stato e più Mercato”, ha vinto. Se poi al “privato” e al Mercato hanno sacrificato anche la nostra salute, mbeh, la frittata della “crescita” merita pure che si rompano un po’ di uova, si o no?
Caro Segretario,
grazie di essere venuto all’incontro con Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky, grazie di aver provato a rispondere alle loro e nostre domande, e grazie per i tratti di umanità e simpatia che specie in conclusione trapelavano dalle sue parole. Naturalmente questo ringraziamento introduce una delle mille domande che ancora molti di noi avrebbero voluto rivolgerle – perché è importante che anche da queste nostre domande emergano infine quelle “dieci parole” che devono, secondo il suo pensiero, riassumere le cose da fare, secondo un “progetto di società” che coloro che sceglieranno di votare Pd possano riconoscere come proprio. E’ importante che quelle dieci parole siano davvero scelte con la massima cura – e anche con la massima attenzione a tutte le domande sensate che salgono dai cittadini. Sarebbe bello se questa mia questione non fosse che la prima di una nuova serie, che vada ad aggiungersi a tutte quelle che le sono già state proposte, o a rinforzarle, sfaccettarle, precisarle….
La questione che vorrei sollevare prende avvio dal suo discorso iniziale, nel quale ha accennato a una serie di problemi con cui la cittadinanza e dunque la politica si scontrano, qui ed ora, ma che non nascono qui. Vengono da decisioni prese “altrove” – altrove rispetto ai luoghi deputati della politica “nazionale”, le istituzioni dello Stato, il Parlamento, i partiti. E ha fatto esempi calzanti e familiari – la finanza, il lavoro. Ne ha fatto un terzo che invece non è calzante: l’ambiente.
Non sono un’ambientalista – me ne mancano tutte le necessarie, complesse competenze – ma proprio questo è segno che la questione, DA NOI, non è certamente un lusso per nicchie verdi e nemmeno per no-global, no Tav, no-men di professione. DA NOI, è una questione che le comprende quasi tutte: perché è una questione che punta il dito su quello che non esiterei a chiamare il suicidio morale di una nazione, l’aspetto terribilmente visibile della catastrofe morale e civile che si misura in tasso di corruzione e crescita della zona grigia di contiguità fra politica e – purtroppo – criminalità, più o meno organizzata.
Non sono un’ambientalista anche nel senso che non sono “solo” tale, e lo dico per pregarla, Segretario, di non far spallucce come se fosse una questione di lusso, una questione secondaria nel disastro in mezzo al quale ci troviamo. Di non fare come da sempre fa in questo nostro Paese la sinistra, per la quale la bellezza (l’aspetto visibile di quell’”ordine” che i disastri ambientali distruggono) è un lusso, e prima viene il necessario. La bellezza non è un lusso e la sua distruzione ha lo stesso significato della distruzione di tutti gli altri beni senza i quali semplicemente non vale la pena di vivere. E per i quali, invece, il pane quotidiano è un mezzo (non di solo pane vive l’uomo): la giustizia, la libertà, la ricerca del vero. L’idea che la bellezza sia un lusso ha fatto a questo nostro Paese più danno – infinitamente di più – di qualunque attardata nostalgia di “socialismi reali”, centralismi “democratici” e altre eredità da un pezzo dismesse dalla sinistra italiana. Mentre quell’idea resta purtroppo un’ovvietà mai dismessa dal suo arsenale mentale.
Non sono un’ambientalista, e perciò l’ambiente che ci circonda qui, in Italia, preferirei chiamarlo, con Salvatore Settis, il paesaggio storico, che comprende tanta parte di beni “comuni” – naturali e culturali. Ecco: Zagrebelsky insisteva sulla necessità di chiarire cosa fa la differenza, nelle parole e nei programmi che il Pd proporrà, perché nessuno direbbe “abbasso il lavoro” o “distruggiamo l’ambiente”. Ecco allora una parola nuova e una battaglia specifica, che uno studioso di fama internazionale come Settis propone da molto tempo, pubblicamente e quotidianamente. Ma perché né il Pd né il governo dei “tecnici” sembrano essersene accorti? Perché abbiamo ai due ministeri che per l’Italia sono infinitamente importanti, quelli dell’ambiente e dei beni culturali, due ministri che meno “tecnici”, cioè esperti e appassionati dei problemi specifici, non si può? Cosa ha fatto il Pd perché così non fosse?
Dopo queste tre negazioni potrà immaginare la mia questione senza – speriamo – subito rimuoverla: qual è la linea del Pd sull’ambiente italiano, o meglio sui nostri paesaggi storici – se ce ne è una? I nostri paesaggi storici: vale a dire il volto stesso del nostro Paese, la nostra identità, il nostro marchio di valore agli occhi del mondo, la nostra residua risorsa economica, il (già scarso) futuro dei nostri figli, e inoltre e più in profondità il nostro e loro nutrimento spirituale e culturale, la nostra radice. Ma anche qualcosa che non appartiene a noi, e tanto meno a ciascuna regione o provincia o comune, ma in alcuni casi all’umanità intera. Questo nostro volto, caro Segretario, noi da una ventina d’anni a questa parte lo stiamo distruggendo, con una sistematicità, un’intensità, una rapidità che non ha eguali nei decenni precedenti, compresi gli anni del boom e gli edonistici anni ’80. Per questo l’ho chiamato un suicidio: è l’anima del nostro Paese che stiamo svendendo agli interessi più sordidi quando va bene, e alle mafie che gestiscono l’edilizia quando va male, cioè quasi sempre.
Ne è consapevole, la dirigenza del Partito, di questo suicidio, sintomo della tranquilla disperazione di cui parlava Zagrebelsky, tanto simile agli atti autolesionistici che gli adolescenti depressi tanto spesso compiono? E come intende porvi, pur così tardivamente, rimedio? Ora per precisare davvero il senso di questa mia domanda concluderò sulle ragioni per cui ritengo del tutto inadeguato il suo terzo esempio dei “problemi che vengono da decisioni prese altrove”, oltre i limiti della vita politica nazionale.
No, Segretario, le decisioni sui nostri paesaggi storici non vengono prese altrove, ma nel cuore spesso già devastato di quegli stessi paesaggi. Le decisioni devastanti sono da vent’anni assolutamente bipartisan. Sono purtroppo molto spesso l’opera di quegli amministratori locali, anche quelli della sinistra, che – come lei ha detto – intanto si stanno facendo le ossa per ascendere a ruoli più “nazionali”, nel Partito o nelle istituzioni. Peccato che se le stiano facendo, le loro giovani ossa, a furia di lasciare che vadano in polvere le fragili, antiche ossa di questo Paese, che non sono solo quelle di Pompei o della Domus Aurea che frana. A furia di svendere spiagge e pinete e fiumi e colli e monti e legalità – in cambio di consenso, un consenso criminoso quand’anche diffuso. Con la solita scusa, quella che anche lei, stasera, sembra aver abbozzato a un accenno di Zagrebelsky in questa direzione: c’è prima la questione sociale. C’è la questione dello sviluppo, dicono sindaci e governatori. Certo: lo sviluppo come cementificazione e consumo di territorio, che poi crea semplicemente mostruosità invendibili distruggendo risorse realissime. Distruggendo il motivo per cui da tutto il mondo si veniva in Italia – che non è certo quello di contemplare baie un tempo famose ridotte a periferie industriali, profili collinari dolcissimi stuprate da autostrade e superstrade sempre più ridondanti e inutili, valli montane immortalate nei libri di viaggio dei classici europei sfasciate dalla dinamite e coperte di cemento. Debbo fare qualche esempio? Certo che ci sono lodevoli eccezioni, soprattutto in alcuni (piccoli o piccolissimi) comuni. Ma c’è una tal caterva di esempi terribili, Segretario, lo chieda a qualunque volontario di Italia nostra, vada a guardare il sito “Salviamo il Paesaggio”!
Devo proprio fare qualche esempio simbolico, simbolico tanto dell’anima di questo Paese così amato nel mondo – nonostante tutto – quanto di alcune roccaforti della “buona” amministrazione, del buon governo delle sinistre? Ecco: Assisi è “patrimonio dell’umanità”. Vada una volta a mettersi proprio di fianco al cartello che lo attesta, Segretario, e si affacci da quella terrazza a contemplare la piana sottostante. Non è molto diversa da quella di una degradata periferia semi-urbanizzata, insieme caotica, volgare e miserevole, soprattutto dove ostenta ricchezza. E questo non è una specie di crimine contro l’umanità, quell’umanità di cui Assisi è patrimonio? Oppure, Segretario, vada in Toscana, quel nostro luogo dell’anima il cui solo nome evoca sospiri di nostalgia o di desiderio in tutte – senza eccezione – le persone che ho incontrato all’estero, nelle università di tutto il mondo. Percorra in tutta la sua lunghezza la Riva degli Etruschi: vi troverà una percentuale di “porticcioli turistici” alta come quella del Lazio – infame e ridicola, uno ogni tre o dieci chilometri: e sa di cosa parlo, vero? Immani cementificazioni che sono nella maggior parte dei casi non solo non-funzionali come porti, ma totalmente fallimentari sia dal punto di vista commerciale che da quello immobiliare. Si figuri che a Cecina stanno addirittura spostando la foce del fiume, per far posto a un’opera enorme, che aggraverà enormemente il già gravissimo problema dell’erosione costiera (decine e decine e decine di metri di spiaggia e pineta mangiati in pochi anni). Con una diga marina, la distruzione di due spiagge e relative pinete, l’installazione di quaranta centri commerciali, residences, un numero spropositato di box e perfino un eliporto, e il tutto lo sa dove, Segretario? In Riserva Naturale di Stato (Tomboli di Cecina) e Area Regionale Protetta (ANPIL Fiume Cecina). E cosa dice l’ottimo Presidente della Regione Toscana? Disse, dopo le alluvioni di quest’inverno: mai più costruzioni sull’alveo dei fiumi! Ma cosa fa la Regione Toscana? Dice sì all’accordo fra il Comune di Cecina che regala la foce, e l’azionariato privato che la riceve per farsi il porto, che per di più ottiene gratis lo scavo del fiume, perché la sabbia (velenosissima, inquinata dalla Solvay) verrà riciclata per un’improbabile rinascimento della spiaggia che resta, e questo si può fare col programma anti-erosione della Comunità Europea! E a chi confida, la Regione Toscana, il controllo delle condizioni imposte per la concessione dei permessi? Al Comune di Cecina, implicato fino alle orecchie nell’operazione che dovrebbe controllare! E come risponde, l’Assessore all’Ambiente della Regione Toscana, a una sequela di obiezioni del WWF sul disastro ambientale che l’operazione provocherà (“bomba ambientale” e “stupro paesaggistico” l’hanno definita gli esperti di Italia nostra), una sequela da far tremare i polsi? Ecco come: DECRETA “Queste obiezioni non sussistono”, punto.
Perdoni Segretario se l’affliggo con questi dettagli che ho veduto e letto coi miei occhi: ma non sono queste cose un esempio terribile di complicità con la malversazione che sta facendo naufragare il Paese, con l’aggravio di essere malversazioni presentate dagli stessi che proclamano “gride” manzoniane come “mai più costruire sull’alveo dei fiumi”? Non voglio dire che ci siano consapevoli elementi di malversazione in questi specifici casi – io non lo credo, almeno. Ma c’è forse ancora di peggio: c’è una sottovalutazione talmente inconsapevole e irresponsabile di questo povero valore che ci resta, e che dovremmo tutti difendere con le unghie e coi denti, la bellezza, da far cadere le braccia. C’è un’idea profondamente e dimostrabilmente sbagliata di sviluppo. C’è assoluta ignoranza del fatto che certi paesaggi non appartengono a un comune o a una regione, ma all’umanità tutta intera. E se questi, questi toscani, ad esempio, sono per tradizione i più esperti fra gli amministratori del Pd, i più colti – come saranno gli altri? Come potremo chiedere agli onesti e ai responsabili di credere ancora alla bontà delle amministrazioni locali della sinistra?? E infine, Segretario, a chi risale quella “Legge Burlando” che ha semplificato, appunto, la concessione ovvero la svendita dei terreni demaniali per costruire porticcioli? Se non a uno che fu perfino Ministro, e le cui gesta, in quanto presidente della Regione Liguria, sono narrate nel libro di Marco Preve e Ferruccio Sansa, Il partito del cemento, Chiarelettere 2008 ? A chi si debbono, a proposito di amministratori locali, quelle “costruzioni sull’alveo dei fiumi” che hanno causato addirittura perdite di vite umane?
No, Segretario, queste decisioni non sono mai state prese altrove. Ma qui, nella mente e nel cuore dei luoghi che ne sono stati devastati, nell’opaca quotidianità degli scambi fra politica e affari, dagli eredi di quegli amministratori che per decenni avevano “salvato” il paesaggio. E che negli ultimi vent’anni hanno ceduto, come di schianto, al dilagare della malapolitica. La Spaccamaremma, l’autostrada più assurda del mondo, l’ha voluta Altiero Matteoli. Ma c’è chi dall’altra parte – dalla nostra, Segretario, e questo non è un grido di dolore, è un lungo pianto, che non ha mai risposta – si sta sforzando di fare anche di peggio. Perché? Perché non dite niente?
Lo fermerete, questo suicidio? Se non ora, quando?
Per il ministro del Lavoro la disoccupazione non è mai involontaria, il sindacato può essere espulso dall'azienda se non vi si sottomette, e l'amministratore delegato della Fiat non ha violato alcuna regola.Concludendo la sua intervista, la ministra Fornero ha spiegato al giornale di Wall Street che l'Italia «non è un paese basato sulle regole; si manipolano, si tirano di qua e di là, aggiustandole secondo le proprie convenienze. Questo deve finire». Si riferisce a Marchionne che, quanto a regole, ha in odio anche il «folclore italiano» delle sentenze dei giudici? Non fatevi illusioni. Marchionne è per il ministro del lavoro al di sopra di ogni sospetto. La manipolazione è evidentemente tipica di chi pretende che un posto di lavoro sia un diritto, «mentre deve essere guadagnato, anche attraverso i sacrifici».
Dietro l'avventatezza delle affermazioni, si può intravvedere una posizione teorica. La disoccupazione non è mai involontaria, ma dipende dalle condizioni alle quali i lavoratori sono disposti a lavorare. Evidentemente, fra queste condizioni c'è anche quella di non iscriversi a un sindacato che contesta gli accordi imposti dall'azienda. A un normale lettore può apparire una posizione ideologica spropositata sia del ministro che di Marchionne. Ma dobbiamo ricordarci che Fornero parla a un giornale americano per il quale questa è la norma.
Marchionne non inventa nulla. Cerca solo di importare in Italia il modello di relazioni industriali americano. Il quale si basa su due principi. Il primo è che il sindacato deve essere fuori dai luoghi di lavoro; il secondo è che se vi è presente, deve sottomettersi alle richieste dell'azienda.
Quanto al primo principio, l'esclusione del sindacato è ormai una pratica comune. Naturalmente non è stato sempre così. In passato, se i sindacati potevano far valere l'iscrizione del 50 per cento più uno dei lavoratori di un'unità produttiva, acquisiva automaticamente la loro rappresentanza e il diritto alla contrattazione. Era la famosa legge Wagner voluta nel 1935, in pieno New deal, da Franklin D. Roosevelt. Poi fu modificata nel senso che l'azienda poteva chiedere un referendum di conferma. Le cose non cambiarono, e il sindacato divenne progressivamente il più forte nel mondo. Non a caso John K. Galbraith lo descrisse come un pilastro del sistema economico americano nel suo celebre saggio del 1968, Il nuovo Stato industriale".
Le cose cambiarono con l'avvento di Ronald Reagan che diede l'esempio licenziando in tronco i 12.000 lavoratori addetti alla regolazione del traffico aereo, e spiegando che i lavoratori in sciopero potevano essere sostituiti da altri non affiliati ai sindacati. Le imprese apprezzarono il cambiamento e misero in atto le misure necessarie a impedire che i lavoratori potessero mettere piede nelle aziende tramite la pratica referendaria. Il management convocava i lavoratori in assemblea senza la presenza di sindacalisti e spiegava che l'ingresso del sindacato in fabbrica avrebbe comportato la sospensione degli investimenti, la delocalizzazione di parte dell'impianto e i conseguenti licenziamenti. Naturalmente, non mancavano i militanti che si esponevano, rivendicando il diritto a costituire il sindacato, ma era un'auto-candidatura al licenziamento.
Ma veniamo al secondo principio. Dove il sindacato c'è, al momento del rinnovo contrattuale, l'impresa presenta una propria contro-piattaforma. In un contesto nel quale il sindacato è ridotto a una rappresentanza del sette per cento dei lavoratori del settore privato, e non esistendo contratti collettivi nazionali, il management ha il coltello dalla parte del manico. Le piattaforme aziendali comprendono generalmente due rivendicazioni: un secondo livello salariale più basso per i nuovi assunti, la riduzione o l'annullamento dell'assicurazione sanitaria per tutti, oltre al cambiamento del sistema pensionistico di carattere integrativo.
Con la crisi l'attacco alla contrattazione è diventato ancora più duro e determinato. Sono sempre più numerose le aziende che interrompono i negoziati per il rinnovo dei contratti e attuano la serrata. Scriveva recentemente il New York Times: «I lavoratori americani sindacalizzati, colpiti dai licenziamenti e dalla stagnazione dei salari, si confrontano con un altro fenomeno che li costringe sempre di più sulla difensiva: le serrate... Lo scorso anno, almeno 17 imprese hanno imposto la serrata, affermando che l'avrebbero mantenuta fino a quando i lavoratori non avessero accettato il contratto proposto dal management».
L'esempio più clamoroso è quello dell'American Crystal Sugar, la più grande impresa americana di trasformazione dello zucchero da barbabietola con stabilimenti in North Dakota, Minnesota e Iowa. Nell'estate del 2011, l'azienda, in occasione del rinnovo del contratto, chiese come contropartita la riduzione del salario aziendale per i nuovi assunti, il ricorso all'esternalizzazione di parte del lavoro e una drastica riduzione dell'assicurazione sanitaria. Il 95 per cento dei lavoratori respinse l'accordo sottoposto a referendum il 31 luglio; il 1° agosto l'azienda dichiarò la serrata, lasciando senza lavoro e senza salario 1300 lavoratori. Nelle settimane successive, aprì, attraverso la stampa, una campagna di reclutamento per l'assunzione a tempo determinato di 900 lavoratori in sostituzione di quelli esclusi dal lavoro.
I lavoratori del North Dakota hanno cercato di ottenere una forma d'indennità di disoccupazione sull'esempio degli altri stati dove è presente l'azienda. Ma il governatore del Dakota che è repubblicano ha negato l'indennità. Al tempo stesso, l'amministratore delegato, David Berg, sulla base dei crescenti profitti registrati dall'azienda, intascava alla fine del 2011 un compenso di 2,4 milioni di dollari. Dieci mesi dopo l'inizio della serrata, e dopo ripetuti tentativi di negoziato da parte del sindacato che non mutano nella sostanza la posizione aziendale, il 23 giugno scorso si è svolto un nuovo referendum tra i lavoratori. Il referendum (è il terzo) si è concluso col rigetto da parte dei lavoratori delle condizioni poste dall'azienda.
La serrata continua, mentre la produzione continua con lavoratori non iscritti al sindacato. David Berg aveva spiegato agli azionisti alla fine dell'anno scorso che non bisognava cedere: «Si tratta di un cancro che bisogna estirpare», aveva affermato. Carla Kennedy, trentenne che fa parte dei 1300 che l'azienda è impegnata a mettere in ginocchio, finora senza riuscirvi, ha ricordato in un'intervista come è cominciato tutto: «Il mio ultimo turno di lavoro di notte era cominciato la sera del 31 luglio. Mi dissero di smettere a mezzanotte. Incontrai il capo del reparto che mi prese per un braccio e mi disse: per te qui non c'è più lavoro».
Marchionne - vale la pena di ripeterlo - non inventa nulla. Ha in mente un certo modo di organizzare la fabbrica, di americanizzare i rapporti di lavoro, e cerca di applicarlo. Quella applicata a Pomigliano è una serrata selettiva. Si riferisce solo a una parte dei lavoratori. Stranamente (per lui), un giudice ha osato mettersi di mezzo. Eppure quello che Marchionne si sforza di fare è molto semplice, cambiare un certo modo d'essere del mondo del lavoro, una certa concezione dei diritti e della dignità dei lavoratori, un certo modello di comportamenti. Come ha detto la ministra del lavoro nella sua intervista al Wall Street Journal: «Questa riforma (del lavoro) non è perfetta... ma per gli italiani è anche una scommessa sulla possibilità di cambiare per molti versi i loro comportamenti».
Strano il caso della Villa di Cesare-Massenzio nel comune di San Cesareo alle porte di Roma. Una delle scoperte più straordinarie degli ultimi vent'anni, dove i quasi 20mila metri quadri di strutture antiche, databili dalla fine dell'età repubblicana al IV secolo d.C. hanno restituito mosaici policromi con paste vitree, marmi pregiati, ambienti affrescati, un sontuoso ninfeo e un complesso termale monumentale con una vasca da 600 metri quadri. Una dimora imperiale riconosciuta dagli studiosi come la villa di Cesare, che qui avrebbe dettato il suo testamento adottando Ottaviano, ma anche la stessa residenza che avrebbe accolto Massenzio il giorno in cui fu acclamato Augusto (306 d.C.). Ebbene, invece di essere musealizzata con un destino 'franco' da parco archeologico, rimane ancora in balia dello spettro del piano integrato edilizio 'Parco della Pietraia' voluto dal comune di San Cesareo e realizzato dalla DueG immobiliare srl.
«L'area archeologica versa oggi in uno stato di totale abbandono. I mosaici e le murature nono sono stati adeguatamente protetti e la neve, il gelo e le piogge dei mesi scorsi hanno fatto uno scempio, oltre alle erbacce che ora stanno infestando le strutture», denuncia Paolo Scacco del Comitato Salviamo la Villa di Cesare. Un'incuria che ha spinto Marianna Madia (Pd) a presentare il 22 giugno scorso una nuova interrogazione
alla Camera per chiedere un intervento del ministro per i beni culturali Lorenzo Ornaghi. Una prima conquista la Villa di Cesare-Massenzio l'aveva portata a casa a luglio 2011 grazie all'intervento dell'ex sottosegretario Francesco Giro che si era attivato per l'apposizione del vincolo diretto. «La mobilitazione popolare nasce ora proprio dal fatto che la soprintendenza non ha ancora apposto il vincolo indiretto, non facendo chiarezza su quella che è l'area di rispetto della villa», dichiara Emilio Ferracci esponente del comitato e per 15 anni ispettore onorario della Soprintendenza. «Ad oggi - insiste Ferracci - non abbiamo alcuna informazione su quale piano edilizio sia effettivamente da considerarsi in itinere, visto che il piano approvato dal comune aveva ricevuto solo un parere di massima dalla sovrintendenza e non definitivo».
In ballo, ben 54mila metri quadrati tra palazzine residenziali, un centro commerciale e la nuova chiesa parrocchiale di San Giuseppe. «Mentre non si sa ancora dove arriverà il vincolo indiretto, l'impresa ha acquisito la disponibilità di aree attigue e sta facendo nuovi sondaggi per verificare ulteriori reperti», avvisa Paolo Scacco. Indagini che hanno riportato alla luce un muro perimetrale della villa e l'antico tracciato della Via Labicana. Alla preoccupazione dei cittadini di veder tramontato l'idea di un parco archeologico, si aggiunge la beffa dell'orologio di Giulio Cesare. Nel corso degli scavi è stata ritrovata una meridiana marmorea di epoca cesarea, che invece di rimanere a San Cesareo è stata trasferita lo scorso anno presso il museo archeologico di Sperlonga, di cui direttore Marisa De Spagnolis, funzionario della soprintendenza, risulta responsabile degli scavi della villa a San Cesareo. L'interrogazione della Madia chiede anche la restituzione della meridiana, tanto per ridare a Cesare quel che è di Cesare.
Il berlusconismo è resistente. Appiccicoso, come ampiamente previsto dai politologi. Resistono, seppure acciaccati, i modelli proposti con successo agli italiani. Tra questi gli scenari di uno stile di vita ammirato – le case dove pubblico e privato si intrecciano ancora – evocati nel film proiettato continuamente nelle aule dei tribunali.
Dell'iconografia berlusconiana rimarranno a lungo i cascami in Sardegna. La tenuta sarda di Berlusconi è ancora nelle cronache, concentrato di manipolazioni kitsch proposte in un crescendo imbarazzante – credo soprattutto per gli incaricati di accertare la coerenza con il paesaggio di tutta quella roba assurda che ci mette da anni. L' ultima puntata – il villaggio nuragico nel parco di villa Certosa – era prevedibile e non ci coglie impreparati. Non sorprende gli archeologi, più preoccupati giustamente per la dispersione in diverse sedi dei giganti di Mont'e Prama. Questa sì archeologia marketing, a dispetto di una cultura giuridica che non ammette lo smembramento dei reperti provenienti da uno stesso sito o delle collezioni d'arte.
Marketing come piace a Berlusconi, che non ha mai voluto interlocutori scienziati, estraneo e insofferente al dibattito sui beni culturali che ha visto Giolitti discutere con Croce, Bottai con gli intellettuali di «Primato», Spadolini con gli editorialisti del «Corriere», Urbani con Settis.
Sappiamo dei danni all'immagine del Paese prodotti dall'ex premier intento a dare retta al suo istinto, e ai consigli degli amici più estrosi. Inevitabile che si arrivasse prima o poi al punto: ad avvertire la necessità di cambiare registro, di prendere le distanze dai simboli di un passato diventato improvvisamente scomodo.
Non credo che conterà nel bilancio della stagione turistica in corso, ma una cosa è certa: la politica non farà passerelle in Sardegna questa estate, il cambiamento di rotta è indispensabile. In qualche caso rinnegare il passato da politici-villeggianti in Sardegna può servire a imputati e avvocati, per cui si minimizza il valore di beni al sole sardo, come fa Formigoni per allontanare i sospetti sulla (sua?) casa in Costa Smeralda (in un'altra fascia le mansarde della parlamentare leghista, da grigia periferia metropolitana come nei racconti di Giorgio Falco, più facilmente deprezzabili).
Così la politica per corrispondere ai nuovi modi annunciati – viva la sobrietà – deve stare alla larga dai lidi sardi, specie da quelli che rappresentano l'epopea berlusconiana, e da quel frastuono di incontri in Gallura che ha fatto dire improvvidamente a Giuliano Amato “troppa Sardegna nella vita politica italiana”. Sul «Corriere della Sera» (16 giugno 2012) un servizio sulle ferie estive dei ministri del governo Monti. Un messaggio eloquente per segnare la differenza col passato: per cui non c'è un ministro uno che atterri o veleggi nei pressi dell'isola; e anche il mare sembra bandito. Meglio laghi e montagne.
Troppa Sardegna? Credo che ci siano stati eccessi nella rappresentazione di una Sardegna fiction, di troppi luoghi finti sparsi dappertutto – anche più finti del villaggio nuragico di villa Certosa – una propensione a evidenziare continuamente gli artifici meno eleganti, e spesso pacchiani, per stare nel mercato.
Finito il grande show escono di scena protagonisti e comparse e guardie del corpo. E chiudono gli scenari più compromessi da quella continua ostentazione di volgarità. Chiude pure il “Billionaire”. Ma liberarsi da queste visioni non sarà facile. Cappellacci, uno dei resistenti del berlusconismo, annuncia ieri la imminente controriforma, un nuovo Ppr che accentuerà le contraddizioni dell'isola: per cui a distanza di pochi km dal cartello “vendesi una villa da molti milioni” non ti comprano un gregge di pecore lattifere neppure se ci aggiungi qualche ettaro di pascolo di prima qualità.
Stasera a Milano Libertà e Giustizia ospita in un dibattito pubblico il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. È un primo contatto con la cosiddetta “società civile” in vista delle elezioni del 2013. A discutere con il leader democratico ci saranno Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Il presidente emerito della Consulta apprezza alcune aperture del Pd nei confronti del mondo esterno ai partiti. Come la scelta di votare per il cda della Rai due personalità delle associazioni. Intanto sulle riforme istituzionali si procede in ordine sparso e Berlusconi sembra pronto a far saltare anche quel tavolo.
«Ma davvero crediamo che il discorso sulle riforme costituzionali sia un discorso onesto, fatto cioè per il bene della Costituzione? A me sembra viceversa che serva strumentalmente a creare assi politici particolari, a lanciare messaggi all’opinione pubblica che sono appunto puri messaggi perché non si arriverà mai in fondo. Infine viene usato da alcune persone, anche nel Pd, per accreditarsi come protagonista di un clima costituente strizzando l’occhio all’avversario».
Fa bene Napolitano a difendere l’intesa raggiunta in commissione e ad avvertire la politica che fughe in avanti sono destinate al fallimento?
«Il presidente della Repubblica difende la funzionalità delle istituzioni e in questo svolge il suo ruolo. Ma a me non piace affatto la bozza in discussione. Meglio, molto meglio tenersi la Costituzione che c’è. Altri costituzionalisti la pensano così e loro non trafficano con la Carta, a differenza di quello che fanno i politici. Il rapporto tra Senato federale e Camera è un pasticcio inverecondo, la sfiducia costruttiva ingessa la vita politica estromettendo il presidente della Repubblica dalle sue funzioni di garante. Non sono il solo a essere contrario a certe proposte. Mi piacerebbe che il capo dello Stato rappresentasse anche queste posizioni».
Libertà e Giustizia al di là dei contenuti sostiene che questo Parlamento non è legittimato a cambiare la Costituzione.
«La risposta dei partiti è che l’articolo 138 sancisce la possibilità di modifiche. Definitive con il voto dei due terzi delle Camere, soggette a referendum con maggioranze della metà più uno. Ma quell’articolo presuppone che una larghissima maggioranza parlamentare coincida con la grande maggioranza del Paese. Oggi, siamo sicuri che sia così? Con i risultati delle amministrative, l’astensionismo, con l’esplodere del grillismo, questo Parlamento può pensare di mettere mano in profondità alla Costituzione?».
Però a questo Parlamento chiedete di cambiare la legge elettorale.
«Cambiare il Porcellum sarebbe un atto di resipiscenza attiva. Dopo essersi accorti di aver fatto una schifezza, gli autori corrono ai ripari. Per pentirsi, qualsiasi rappresentanza politica è buona».
Rispetto al Porcellum va bene tutto?
«Con la legge attuale abbiamo raggiunto il punto zero costruendo un sistema rovesciato dove il mondo politico non è al servizio dei cittadini ma il contrario. Però non dobbiamo affidare agli strumenti di tecnica elettorale la soluzione di gravi disfunzioni politiche. Per dire, c’era qualcuno che aveva addirittura immaginato nelle prime bozze tre premi di maggioranza per i primi tre partiti. Ecco dove si può arrivare senza un’opinione pubblica vigile».
Quel qualcuno era il Pd. Con queste premesse il confronto diventerà
un duello.
«Sulle questioni istituzionali LeG ha posizioni nette e vuole risposte altrettanto nette. Ma il dibattito con Bersani nasce nel clima più amichevole e costruttivo possibile. La nostra associazione è legata all’idea che una democrazia senza partiti non esiste. Siamo interessati a partiti che funzionino come canali di comunicazione tra cittadini-elettori e la politica. Temiamo la critica cieca ai partiti perché sappiamo dove conduce».
Bersani si è mosso in questa direzione con la scelta sulla Rai e con l’annuncio di un’apertura delle liste all’esterno?
«La vita politica non è fatta quasi mai di sole buone intenzioni bensì di risposte a necessità oggettive. Credo che il segretario del Pd sia davvero interessato, per convinzione, a un discorso di apertura e partecipazione. Ma anche se non fosse così il problema è recuperare alla vita politica due intere generazioni di elettori e contrastare fenomeni come l’astensionismo e il grillismo. Spero che in Bersani si realizzi un’unione feconda tra buona disposizione e stato di necessità».
Sulla Rai ha prevalso la prima?
«Badi che nessuno di noi ha mai chiesto posti e infatti nessuna associazione ha indicato nomi di propri membri presenti negli organismi dirigenti. La nostra aspirazione non è l’”entrismo”. Chi teme si voglia cercar posti, stia tranquillo. Ci auguriamo che molto presto non ci sia più bisogno di rivolgersi all’esterno per trovare persone degne di fiducia. La richiesta di aiuto è consolante da un lato perché dimostra disponibilità ma dall’altro è un segno di fragilità e impotenza. Perciò il nostro incontro ruota intorno alla domanda: come rianimare la vita politica del nostro paese ridando forza ai partiti e facendoli tornare ad essere attrattivi. Oggi sono repulsivi, soprattutto per le giovani generazioni».
Il rapporto Foreign Investment in Agricultural Land Down from 2009 Peak del Wordwatch Institute, stima che da 2000 al 2010 nel mondo siano stati venduti o affittati a investitori privati e pubblici 70,2 milioni di ettari di terreni agricoli. Si tratta di un'estensione di terra enorme, più o meno delle dimensioni del più grande Paese dell'Africa, la Repubblica Democratica del Congo, più di 20 volte la superficie dell'Italia, l'1,4% di tutte le terre agricole del mondo. Il rapporto spiega che «La maggior parte di queste acquisizioni, che sono chiamate "land grabs" da alcuni osservatori, ha avuto luogo tra il 2008 e il 2010 (l'anno più recente per il quale sono disponibili dati), con un picco nel 2009. Anche se i dati per il 2010 indicano che la quantità di acquisti è scesa notevolmente dopo il picco del 2009, rimane ancora ben al di sopra dei livelli pre-2005».
Si chiami "land grabbing" o "land deal" si ci riferisce sempre alle acquisizioni su larga scala di terreni agricoli da parte degli investitori stranieri, inoltre in questa cifra non sono compresi i contratti di locazione o gli acquisti che coinvolgono compagnie locali. Ad aprile 2012, il Land Matrix Project, una rete globale di ricerca che riunisce 45 organizzazioni della società civile, ha presentato la più grande banca dati esistente di questi tipi di offerte di territori, mettendo insieme 1.006 offerte che coprono 702.000 km2 una superficie grande quanto il Texas (più del doppio dell'Italia che arriva a 301.308 km2). Ma mancano ancora molti dati, visto che è disponibile solo una quantità limitata di informazioni, quindi queste statistiche sono certamente molto "prudenti".
Per quanto riguarda i dati generali del decennio, il rapporto sottolinea che «Di alcune offerte si sa ben poco (per esempio, i dati relativi alla data del contratto sono disponibili solo per 54,7 milioni di ettari di acquisizioni di terreni). Inoltre, i Paesi che hanno un governo aperto e trasparente possono essere sovrarappresentati nel database e il declino delle offerte dopo il 2009 potrebbe riflettere sia gli investimenti ridotti che il calante interesse dei media a tracciare i land grabs».
Dal rapporto emerge anche un crescente land grabbing sud-sud, con l'accaparramento delle terre dei Paesi più poveri da parte dei Paesi emergenti. L'altra tendenza è quella dei Paesi molto ricchi ma con poca terra coltivabile, come le monarchie petrolifere mediorientali, che stanno acquistando terreni nelle nazioni a basso reddito, «Soprattutto in quelli che sono stati particolarmente vulnerabili alle crisi finanziarie e alimentari degli ultimi anni», spiega l'autore del rapporto, Cameron Scherer.
L'80% dei terreni acquistato da soggetti stranieri è in Africa, e costituiscono quasi il 5% della superficie agricola totale del continente. Questo accaparramento avviene sempre più a spese delle comunità locali che si vedono spesso estromesse dalle loro terre ancestrali sulla quali non possono vantare titoli di proprietà, creando così conflitti per la terra e peggiorando la povertà e la fame in Paesi già poveri.
La maggior parte dei terreni fertili viene venduta a Paesi extra-africani e sono sempre più attivi Stati come il Brasile, l'India e la Cina, che hanno acquistato il 24% delle terre censite nel rapporto. Gli altri grandi investitori comprendono altri tre Paesi asiatici: Indonesia, Malaysia e Corea del sud.
Il rapporto del Worldwatch conclude che questi "land deals" di solito provocato l'espulsione dei piccoli agricoltori per impiantare la grande agricoltura industriale, quell'agribusiness delle multinazionali e dei capitalismi di Stato che ha gravi impatti ambientali e che in alcuni Paesi africani ormai interferisce direttamente con le grandi migrazioni dei mammiferi erbivori e quindi anche con la presenza dei grandi predatori simbolo del continente.
Nota: sono passati anni dalla prima presa di coscienza occidentale, ma la situazione pare immutata; si veda una delle prime denunce del fenomeno che abbiamo pubblicato
«Ecco, sarebbe bello che l’amministrazione riprendesse lo spirito di allora e scardinasse la subcultura che intanto si è affermata ». È un po’ una sorpresa. Vezio De Lucia, il padre del piano regolatore, nume tutelare di tutti coloro che vogliono difendere Prg e programmazione, torna a Napoli, invitato da Sel a un convegno sull’urbanistica che sembra fatto apposta per crocifiggere le ultime scelte dell’amministrazione arancione. Non che De Lucia salga sulla barca di de Magistris, però alla fine gli rivolge quasi un appello. E scassa, anche lui, il clima con una rivelazione pessimistica assai sulla città: «Mi sono reso conto che la proposta che facemmo per Bagnoli era in realtà estranea alla cultura di una città che preferisce l’“horror vacui”, che ha paura di godersi la bellezza e un posto in cui passeggiare, e dove invece contano solo il cemento e l’asfalto».
Una requisitoria che lascia sul tappeto anche «tanti geni», come li definisce l’ex assessore. Finiscono nel suo «sillabo» economisti come Mariano D’Antonio, «che sostiene che Napoli non può permettersi 120 ettari di parco, ovvero una cosa come Villa Borghese a Roma». Oppure «l’ex assessore regionale Cascetta: perché hanno cancellato la Metro fino a Bagnoli? Come diavolo ci si arriva ora?».
I guasti del passato sembrano deviare gli strali che parevano dover correre verso l’attuale giunta, peraltro rappresentata in aula dall’assessore Luigi De Falco. Ad aprire il fuoco su Palazzo San Giacomo ci pensa però Carlo Iannello, consigliere di “Napoli è tua”, molto in rotta di collisione con il sindaco. I casi da segnalare sono soprattutto il nuovo stadio e la famigerata Insula proposta dalla Romeo immobiliare. Due esempi di proposte non discusse da una amministrazione che Iannello definisce «disordinata». Si salva De Falco, lodato dagli intervenuti per aver posto il problema della non aderenza della delibera. Mentre De Lucia si dice totalmente d’accordo sui rilievi mossi da Iannello a Insula, che comprendono anche il patto perverso con il quale il Comune dovrebbe poi riconoscere degli introiti al privato in cambio dell’aumento di valore catastale che il suo intervento produrrà agli immobili. La conclusione politica spetta al padrone di casa, il segretario di Sel Peppe de Cristofaro: «Vogliamo dare il nostro apporto all’amministrazione, ma senza esimerci da critiche. E sull’urbanistica poniamo due questioni. Una di metodo, c’è troppo accentramento nelle decisioni. L’altra di merito, ovvero l’esigenza di tenere il piano regolatore come punto fermo».
Vtp non batte in ritirata, un nuovo progetto Numeri da record. E una crescita che non si ferma. Dal 1997, anno di fondazione della società Vtp, popuplink http://www.vtp.it/azienda/ Venezia terminal passeggeri
Una nuova Stazione Marittima a Dogaletto, in cassa di colmata A. Partnership a Ravenna, Cagliari, Catania e Brindisi. E 26 milioni da investire nel prossimo triennio. Altro che ritirata sotto la protesta anti grandi navi. Venezia Terminal Passeggeri, la società delle crociere, raddoppia e rilancia. «Abbiamo pronto uno studio di fattibilità per una nuova Stazione Marittima nel Bacino Sant’Angelo, tra i canali Avesa e Dogaletto», annuncia il presidente di Vtp, l’avvocato mestrino Sandro Trevisanato, «Un luogo ideale, perché ben servito dai collegamenti stradali e vicino al canale dei Petroli, senza rischi ambientali». Una nuova città delle crociere che potrebbe essere pronta fra tre anni. «Aggiuntiva» e non certo alternativa alla Marittima. Che, sottolinea Trevisanato, «è per noi irrinunciabile». Dunque, in laguna centrale è pronto a partire un nuovo grande progetto. Banchine lunghe 400 metri e larghe 20, per ospitare le navi di ultimissima generazione (lunghe fino a 360 metri), troppo grandi anche per i sostenitori del traffico davanti a San Marco. E poi una Stazione marittima di due piani, 10 mila metri quadrati con un parcheggio da 5 ettari. Costo previsto, 100 milioni di euro, di cui almeno 60 per scavere canali e darsena. Un’ipotesi avversata dagli ambientalisti.
Ma, spiega Trevisanato, «quel sito è stato valutato positivamente dalla Regione, che lo ha inserito nel nuovo Piano territoriale, dall’Autorità portuale e dal Magistrato alle Acque. Per noi è un luogo ideale». Non se ne parla, insomma, di estromettere le grandi navi da Venezia, come richiesto da più parti e previsto dal decreto del governo. «Siamo anche stufi di ripeterlo», scandisce Trevisanato, «il porto di Venezia è il più sicuro del mondo. Non ci sono scogli, le misure di sicurezza sono altissime. Davanti a San Marco le navi passano trainate da due rimorchiatori con a bordo un nostro pilota, viaggiano all’interno di un binario, non potrebbero deviare dalla loro rotta per via delle sponde sabbiose». E gli incidenti avvenuti nelle ultime settimane a causa del vento e dei tornado? «Non sono un ingegnere, ma dubito che una nave di quelle dimensioni si possa spostare», dice il presidente. Si rilancia, dunque. In attesa di vedere che fine farà il progetto per il nuovo canale Contorta-Sant’Angelo, che il Porto vorrebbe scavato e allargato per farci passare le grandi navi. L’idea della Vtp è che in realtà le navi stanno bene dove sono. «Siamo passati in pochi anni dal sesto al primo home port del Mediterraneo», spiega l’avvocato, «e la Marittima deve essere raggiungibile. In prospettiva si può pensare a un senso unico, per ridurre il numero dei passaggi». Ma l’attività economica che sta dietro alle crociere, insiste Trevisanato, ha bisogno della Marittima. Poco importa se per arrivarci si deve attraversare il Bacino a passare davanti a San Marco. «Le navi moderne», dice, «inquinano meno. Applicando il decreto faremmo entrare in laguna solo le vecchie carrette, anche se più piccole. E’ ridicolo». Il presidente, da 11 anni al vertice della società, illustra i brillanti risultati raggiunti. «Negli ultimi mesi», dice, «abbiamo vinto le gare per la gestione dei porti mediterranei di Ravenna, Brindisi, Cagliari e Catania. E adesso puntiamo a Istanbul. Grandi navi ancora a San Marco? «E’ un must. Noi vogliamo aiutare la città, abbiamo concluso con il Comune un accordo per un contributo volontario. Ma le navi devono restare».