Ha fatto rumore ieri la notizia del rischio del fallimento della regione Sicilia a causa di un debito consolidato di 17 miliardi. L'isola ho poco più di 5 milioni di abitanti: ogni siciliano - neonati compresi - ha un debito di 3.400 euro ciascuno.
Roma, per esplicita ammissione del sindaco Alemanno, ha 11 miliardi di debito consolidato. A questa cifra spaventosa va aggiunto il debito di alcune municipalizzate (Atac e Ama in primis dove sono stati assunti senza concorso un numero imprecisato di amici e camerati della prima ora) e quello dovuto agli espropri per opere pubbliche non perfezionati: si arriva a 15 miliardi. La popolazione di Roma è di circa 2 milioni e 600 mila abitanti: ogni romano - neonati compresi- ha un debito di 5.800 euro ciascuno. Se la regione Sicilia rischia di fallire, la capitale non ha neppure il beneficio del dubbio: è alla bancarotta.
Il debito della regione Sicilia è frutto della irresponsabile politica clientelare di rigonfiamento degli organici nelle istituzioni pubbliche e della spesa per opere spesso inutili e controllate dalle organizzazioni criminali. La cura per il rientro dal debito è chiara, anche se non immediata: dimagrire l'elefantiaca pubblica amministrazione. Il presidente Lombardo, formalmente dimissionario, aveva invece continuato ancora in questi ultimi giorni ad assunzioni a spese della collettività.
Il debito della capitale è solo in parte riconducibile al rigonfiamento della pubblica amministrazione, che pure esiste, come dicevamo. La causa principale del debito romano sta piuttosto nel dissennato modello di crescita che ha causato una espansione urbana incontrollata: periferie che generano altre periferie sempre più lontane e costringono l'amministrazione comunale ad indebitarsi per portare servizi, trasporti, strade e per la quotidiana gestione.
La cura per il rientro del debito è dunque chiara anche in questo caso: bloccare qualsiasi ulteriore espansione urbana e razionalizzare la città esistente. Il sindaco Alemanno sta invece cercando in questi giorni di far approvare dal Consiglio comunale una ulteriore gigantesca crescita urbana: nuovi quartieri residenziali per un totale di 66 mila alloggi; venti milioni di metri cubi di cemento che cancelleranno per sempre oltre 2 mila ettari di territorio agricolo.
Nuove aree agricole, dunque, in deroga alle già irresponsabili dimensioni delle espansioni previste dal piano regolatore approvato dalla precedente giunta Veltroni (prevedeva 400 mila nuovi abitanti in una città che non cresce più da venti anni). Il pretesto è quello dell'emergenza abitativa: mancano le case per le famiglie più povere e la generosa rendita fondiaria risolverà il problema dei senza tetto a patto di regalargli una plusvalenza di centinaia di milioni di euro. Poi, inevitabilmente, il comune che ha già il debito di 15 miliardi dovrà accollarsi le spese per i servizi. E' evidente che l'approvazione del pacchetto urbanistico di Alemanno sarebbe il colpo finale per una città in grave crisi.
Il presidente del Consiglio ha intimato al governatore Lombardo di dimettersi poiché sta attuando politiche che aggravano ulteriormente il debito siciliano: perché non usa lo stesso metro con il sindaco di Roma così da impedirgli di portare alla definitiva bancarotta la capitale?
In attesa di una convincente risposta resta da formulare una proposta. Alemanno è costretto a portare fino in fondo la scellerata proposta: tra pochi mesi inizia la campagna elettorale amministrativa e dopo l'evidente fallimento della sua amministrazione non può permettersi di scontentare i suoi migliori alleati, i costruttori e gli immobiliaristi romani. L'opposizione -fatta eccezione per Alzetta e Azuni- non batte un colpo, prigioniera della mancata riflessione critica sull'approvazione del piano regolatore 2008 che ha provocato il nuovo sacco edilizio. Non resta allora che venga sottoscritto da chiunque si candiderà alle prossime elezioni un solenne impegno: revocare la delibera che verrà approvata nei prossimi giorni. La città ha bisogno di segnali di discontinuità: non si può continuare a fondare il futuro di Roma sull'espansione urbana mentre ci sono almeno 100 mila alloggi nuovi invenduti che da soli risolverebbero la questione.
L’avvilente sesto posto di Roma nella classifica dei luoghi in grado di sfruttare al meglio la risorsa costituita dai beni culturali la dice lunga sull'indifferenza che circonda il nostro incredibile e ricchissimo patrimonio artistico, architettonico e archeologico. Abbiamo i monumenti più importanti del pianeta e li gestiamo come un fastidioso intralcio alla circolazione automobilistica. Prova ne sia quel gigantesco spartitraffico chiamato Colosseo che assiste ogni ora, come ha dimostrato una recente indagine di Legambiente, al passaggio di oltre duemila veicoli senza che il rumore scenda mai al di sotto della soglia limite di 70 decibel. In quale altro Paese del mondo sarebbe accettabile una tale assurdità? Crediamo nessuno. Altrove l'Anfiteatro Flavio e i Fori Imperiali, compresa magari piazza Venezia, sarebbero parte di una splendida ed enorme area pedonale a destinazione turistica. Invece qui, sembriamo più angosciati dal destino di qualche finto centurione che si aggira tra le rovine per accalappiare turisti sprovveduti impugnando una spada di legno, che interessati a tutelare e far rendere al meglio gli inestimabili tesori che ci sono toccati immeritatamente in eredità. Il circuito Colosseo-Palatino-Fori Imperiali (stiamo parlando di una zona archeologica che non ha confronti nel mondo intero) genera ogni anno introiti lordi per circa 35 milioni di euro: per capirci, non basterebbero venti anni di quegli incassi per tappare il buco delle perdite accumulate fino al 2010 nel bilancio dell'Atac. I soli servizi aggiuntivi (bookshop, ristorante, bar, parcheggio...) del Metropolitan Museum di New York garantiscono un fatturato doppio. Mentre l'incasso annuale del Louvre parigino supera quella cifra di tre volte e mezzo. Umiliante. Studi internazionali dimostrano che il riconoscimento dato dall'Unesco come patrimonio dell'umanità accresce mediamente del 30 per cento la redditività economica di un sito. Ma non in Italia, Paese che tuttavia ha più luoghi storici e paesaggistici tutelati dall'Onu di qualunque altra nazione. Meno che mai, poi, da queste parti. La dimostrazione è a pochi chilometri da Tivoli. Nel dicembre 1999, l'area archeologica di Villa Adriana, dove si possono ammirare i resti della meravigliosa reggia dell'imperatore Adriano, ha ottenuto anch'essa l'agognato bollino dell'Unesco. Ebbene, da allora, il numero dei visitatori paganti è crollato, riducendosi di oltre 1140 per cento: i biglietti sono scesi da oltre 1843 mila a meno di no mila. Un ventesimo rispetto ai turisti che, ogni anno, vanno alle rovine di Efeso in Turchia. Nel frattempo, lo stanziamento pubblico per la conservazione di Villa Adriana è ai minimi termini. Il bello è che qualcuno ancora si stupisce perché un prefetto, nominato commissario, insieme a qualche politico stravagante, avevano progettato di mettere a 800 metri dal sito archeologico una enorme discarica destinata ad accogliere i rifiuti della città di Roma. Capito in che mani siamo?
È giustificato l’allarme delle associazioni ambientaliste sull’inclusione del Dipartimento di pianificazione urbanistica nella Direzione Ambiente del comune di Napoli? Si teme — pare — una confusione fra controllato e controllore: «Interesse speculativo e conservativo: sono in contrasto e non possono essere accentrati nelle stesse mani, dicono gli oppositori del provvedimento » (la Repubblica, 14 luglio, II di Cronaca).
A parte il dubbio circa l’identificazione dell’interesse speculativo con una delle due articolazioni degli uffici, mi sembra che si debba discutere anche — e prima — di altre cose. Tento di contribuire, in modo schematico per brevità.
Il Prg vigente ha il merito di aver costruito un convincente sistema di regole per la tutela, manutenzione, riqualificazione e valorizzazione sostenibile delle parti di territorio in cui si riscontrano pericolosità o si registrano valori storico-culturali, naturalistici e/o paesaggistici. È questo uno dei contenuti fondamentali della componente strutturale della pianificazione. Deve essere difeso e conservato anche nelle future strumentazioni per il governo del territorio.
L’altro contenuto fondamentale è di tipo strategico: quali trasformazioni si vogliono realizzare per migliori condizioni economico- sociali dei suoi cittadini? Pure per questo aspetto, il Prg ha assunto scelte rilevanti: l’incremento dei servizi e degli spazi pubblici; l’intermodalità dei trasporti basata sulla centralità del ferro; un sistema di grandi parchi, da Bagnoli ai Camaldoli e al Sebeto. Anche queste scelte vanno confermate.
Ma non possono ritenersi sufficienti. In primo luogo per i confini: si evoca di continuo la dimensione metropolitana, ma non si compie alcun passo concreto per uscire dal generico richiamo verbale. E poi per la consistenza e la qualità dell’apparato economico e dell’organizzazione sociale.
Napoli, quella vera, da Monte di Procida ai Regi Lagni a Nola e Castellammare, non può vivere di turismo e di costruzioni (comparto a cui appartengono anche infrastrutture e attrezzature pubbliche), specie nella crisi, che fra l’altro falcidia le finanze pubbliche. E l’edilizia nel Napoletano è troppo spesso speculativa aggressione ad ambiente e paesaggio. Occorre un grande rilancio produttivo di segno alternativo, soprattutto una pervasiva e articolata green economy: rinvio per brevità alla terza rivoluzione industriale di Jeremy Rifkin, che qui può trovare condizioni più che favorevoli se si dà vita a coesione sociale e cooperazione pubblico-privato. Ma occorre una forte regia istituzionale che indirizzi e coordini — anche nel breve termine operativo — le iniziative private secondo linee convergenti, se non proprio secondo un disegno unitario. Anche perché il disagio sociale è a Napoli esteso e profondo e di ciò si deve tenere costantemente conto (per fare un esempio, non servono tanto più case, quanto più case per i ceti a debole capacità finanziaria).
Il Prg ha oltre un decennio di vita e vige da otto anni, nei quali hanno avuto avvio numerosissime iniziative edilizio-urbanizzative di varia dimensione e portata, a riprova della falsità
dell’accusa di impostazione generalmente vincolistica. Il punto è che tali iniziative sono scaturite di volta in volta dalla specifica convenienza del privato di turno, su cui l’azione pubblica non è spesso andata oltre il controllo del rispetto della norma, in assenza di un’organica e complessiva prospettiva di sviluppo. E c’è da temere che le cose non stiano cambiando con la nuova giunta: gli interventi per la Coppa America, il progetto “insula” di Romeo, lo “stadio del tennis”, il nuovo stadio di calcio (fra l’altro tutto nei confini comunali, come se Napoli fosse un’isola).
Se di una cosa le riflessioni sulla sostenibilità hanno convinto, questa è la necessità di valutare preventivamente gli effetti di ogni intervento sia sotto il profilo ambientale che sotto quello sociale. Il governo del territorio non può che essere perciò integrato, articolato per orizzonti temporali differenziati, frutto di un’attività plurale e interdisciplinare, adeguatamente coordinata, condotta da competenti.
Non ha senso, dunque, contrapporre ambiente e pianificazione. Ha senso impegnarsi nella costruzione di strategie istituzionali adeguate per migliorare la vivibilità urbana e la sua base economica in una prospettiva di vera solidarietà sociale. E certo — a tali fini — occorre compiere ogni sforzo per non disperdere e per utilizzare al meglio competenze ed esperienze di grande valore, quali quelle pervenute al Dipartimento di pianificazione attraverso una lunga vicenda (ne sono stato testimone e inizialmente co-artefice) iniziata con il Piano quadro delle attrezzature e il Piano delle Periferie, consolidatasi con il Programma straordinario post-sisma e culminata con la redazione del Prg. È questa la priorità organizzativa da garantire.
Il museo chiude di domenica. Non un piccolo museo, che chiuso sarebbe comunque una ferita, ma la Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini a Roma, che ospita la Fornarina di Raffaello, l’Annunciazione di Filippo Lippi, il Ritratto di Enrico VIII di Hans Holbein. I custodi non sono sufficienti e non possono più cumulare straordinari, le maggiorazioni festive sono troppo salate e così, dopo aver tenuto sbarrate alcune sale nelle domeniche di primavera, da domenica scorsa si è adottata la soluzione più drastica: niente visite. Tutti fuori. E pazienza che a restare senza Raffaello, ma anche senza Mattia Preti e Pietro da Cortona, fossero tanti turisti stranieri, che in questi giorni si accalcano nelle vie di Roma.
Palazzo Barberini off limits di domenica (anche la prossima e quelle successive) è uno smacco per il sistema dei Beni culturali in Italia. Che va ad aggiungersi agli orari ridotti della Ca’ d’Oro e di Palazzo Grimani a Venezia (i cui custodi sono stati trasferiti per tenere aperte alcune sale delle Gallerie dell’Accademia). Alle tante domus non visitabili a Pompei. Alle sezioni inaccessibili del Museo Nazionale Archeologico di Napoli. Alle difficoltà di tenere aperti altri musei meridionali, come quelli archeologici di Pontecagnano e di Buccino, in provincia di Salerno, da poco restaurati anche con fondi europei. Oppure al paradosso del museo di Baia, in provincia di Napoli, dove le sale sono accessibili solo di mattina perché alcuni restauratori si sono trasformati in custodi.
Una lista dolorosa, e incompleta, effetto dei tagli ai finanziamenti e della drastica riduzione dei custodi. Ma le conseguenze dell’asfissia in cui giace il nostro patrimonio si scontano anche altrove. L’Istituto centrale per i Beni sonori e audiovisivi, l’ex Discoteca di Stato, ha perso la propria autonomia. Poche righe nelle norme della spending review ne hanno decretato il trasferimento presso la Direzione generale dei Beni librari, lasciando nell’incertezza assoluta il direttore e i quasi 40 fra funzionari e tecnici che custodiscono un immenso archivio sonoro (le voci e le musiche che hanno fatto la storia d’Italia, raccolte su oltre 500 mila supporti).
In grave affanno è anche l’Archivio centrale dello Stato a Roma. La goccia che potrebbe far traboccare un vaso colmo da anni è la decisione della direzione di non rinnovare il contratto a cinque giovani precari addetti a recuperare i faldoni nei depositi. Ma, appunto, è solo una goccia. Sullo sfondo c’è la crisi in cui si dimena una delle strutture fondamentali per la memoria di un paese, l’Archivio che in 140 chilometri di scaffalature custodisce le carte in cui quella memoria è consegnata. Falcidiato dai tagli, con un personale sempre più scarso, invecchiato, mortificato eppure tenace nel non abbandonarsi allo sconforto, l’Archivio centrale condivide la sorte di altre strutture della tutela in Italia. Ieri si è svolta un’assemblea dei lavoratori e il direttore, Agostino Attanasio, ha garantito che troverà una soluzione per i cinque giovani precari. I quali lavorano all’Archivio da otto anni, sono stati addestrati a un compito solo apparentemente manuale e invece essenziale per recuperare una media di 70 mila buste l’anno. L’alternativa alla quale aveva pensato la direzione era di rivolgersi all’Ales, una società del ministero che dal prossimo anno dovrebbe essere liquidata: ma, assicurano all’Archivio, il costo sarebbe maggiore rispetto a oggi e per un numero di addetti minore, il che renderebbe ancora più difficile il funzionamento del servizio.
Su Palazzo Barberini si scaricano i paradossi che gravano su tutto il ministero. Per sistemare nell’edificio la Galleria si sono attesi decenni, a causa del braccio di ferro ingaggiato con il Circolo ufficiali che lì era installato. Una battaglia memorabile. Finalmente, nel 2007, Palazzo Barberini ha recuperato la destinazione a museo. Ci sono voluti però altri quattro anni di costosi (22 milioni) e accurati restauri perché le oltre 500 opere, che vanno dai crocifissi duecenteschi ai dipinti neoclassici, fossero ospitate in 37 sale. Ora l’allestimento è di fascinosa bellezza. Ma, a dispetto dell’impegno profuso, un anno dopo la fine dei lavori, si scopre che il personale di custodia è insufficiente. 30 persone su 3 turni sono poche. Con gli straordinari dimezzati si è andati avanti tenendo chiuse la domenica alcune sale. Domenica scorsa i custodi sarebbero stati appena 2. Non c’era altra scelta che chiudere. Fuori al portone sono comparsi i biglietti amareggiati o infuriati di persone venute da tutto il mondo. All’indirizzo elettronico di Palazzo Barberini anche la mail indignata di un professore di Anversa, Willem Lemmens, che lamenta «l’assoluta mancanza di intelligenza delle cose » di chi in Italia gestisce il patrimonio culturale.
La grande Tav europea perde pezzi: via Lisbona e via Kiev, niente Slovenia, Ungheria e Polonia, la Spagna non ha soldi. E l'alta velocità si conferma per Madrid il più grosso fattore di default producing. Solo in Italia c'è ancora chi, nel Pd, teorizza la formazione di capitale finanziario a debito
La Spagna non resta al centro dell'attenzione per i cento miliardi di euro di "soccorso europeo", che ovviamente non vanno agli spagnoli, ma alle banche del paese, piene di poste insolvibili, di debito pubblico e privato. Ma cosa hanno finanziato negli anni scorsi con capitale che adesso si è liquefatto? A cosa sono dovuti i titoli tossici che oggi il grande management politico - finanziario si affanna a voler rimuovere? Al finanziamento di un modello di sviluppo vacuo, fasullo e dispendioso, che nel recente passato ha posto la Spagna in perfetta linea con l'iperconsumismo folle e dannoso che ha caratterizzato praticamente tutto il sistema economico occidentale; fino a sprofondare nella crisi attuale.
Si sono allora favoriti anche in quel paese mutui privati per prime, seconde e terze case, villaggi turistici, alberghi, esercizi e centri commerciali. Mentre si spingeva il settore pubblico "verso l'Europa", con un'inflazione di grandi opere: l'unica direttrice di mobilità iberica che avrebbe giustificato l'alta velocità (il più grosso fattore di default producing , come ammesso dallo stesso Zapatero) era la Barcellona- Madrid. Invece di limitarsi alla realizzazione di quella linea, gli spagnoli si sono fatti travolgere dall'arrogante, quanto stupida ed interessata, retorica delle grandi opere per modernizzare il paese, collegarsi al continente e simili panzane che ascoltiamo quotidianamente anche dalle nostre parti. Si sono così realizzate cinque tratte di alta velocità, aprendo una voragine di risorse pubbliche; all'inizio coperte dall'azione degli istituti bancari e finanziari, ma che lo stato oggi non riesce a rifondere.
Tra le altre si è realizzata la discutibile linea Barcellona -Lione, che dovrebbe adesso proseguire con la Torino-Lione, una direttrice la cui domanda di traffico non giustificherebbe neppure i lavori di ristrutturazione della vecchia linea storica, ma che trova invece massimo sponsor nella fondazione Banco San Paolo,una struttura in grado di condizionare molta governance, il cui vicepresidente è oggi l'ex "bravo sindaco" di Torino, Chiamparino, da sempre un ultrà della Tav in Val Susa.
Se si vanno invece a verificare la condizioni del famoso corridoio 5 Lisbona - Kiev, in nome della cui urgenza si bastonano i valsusini, si scopre che quasi non esiste, neppure nella pianificazione ufficiale Ue, al di là di qualche schema di massima e delle note stampa. Dal punto di vista dell'attuazione reale si è davvero in alto mare: il tratto portoghese è stato cancellato ufficialmente da quel governo; del tratto spagnolo oltre Barcellona, l'attuale governo iberico non vuole neppure sentire parlare (ovvio per un'economia già affogata da grandi opere); poi c'è il citato tratto Barcellona - Lione, quindi il contestatissimo segmento fino a Torino -per la gioia dei valsusini- e quello fino a Milano, realizzato, ma tuttora non usato (ad oggi l'alta velocità passa per la linea storica). Il tratto Milano - Brescia dovrebbe essere almeno progettato con la prossima cascata di miliardi promessa da Passera. Per il resto della tratta italiana non c'è neppure il progetto di massima. Usciti ad est dall'Italia, della linea non esiste praticamente nulla: la Slovenia ha addirittura interrotto i collegamenti storici con Trieste, in Ungheria e Polonia non sanno di cosa si parla, l'Ucraina chiede un sistema di collegamenti moderno per l'area metropolitana di Kiev, non l'AV.
In Italia invece sembra di essere ancora nello scorso decennio, se non nel novecento. Non solo in Val Susa, ma anche a Firenze, dove istituzioni locali e Rfi insistono nel volere attraversare la città con un megatunnel ed una stazione sotterranea ad altissimi impatti e costi, litigando anche con l'università che rilancia il semplicissimo passaggio di superficie.
In questo Bassanini e Violante teorizzano ancora la formazione di capitale finanziario a debito, mirato alle grandi opere per l'Europa, la modernità, la crescita, e amenità varie, condizionando tuttora la dirigenza del Pd ed evidenziando ancora -ove ce ne fosse bisogno- i legami tra apparati di partito e imprenditoria finanziaria e immobiliare. Rischiando però su questo di acuire uno dei fronti di crisi più aspri per qualsiasi potenziale coalizione politico elettorale di centro- sinistra (a meno di voler rinunciare alle grandi soggettività che hanno permesso di vincere, oltre al referendum, le amministrative di Milano, Napoli e Cagliari prima, di Palermo e Genova più di recente). E Grillo incombe.
Già, perché l'idea della centralità delle strutture finanziarie bancarie è contestata, oltre che da parti rilevanti della sinistra istituzionale e radicale (da Idv a Sel a Fds) certamente dai rappresentanti dei movimenti, compresa la neonata "Alba", che richiedono la priorità di politiche sociali (lavoro) a forte connotazione ambientale (beni comuni).
Il Pd dunque deve riuscire a fare i conti realmente con la fase attuale, e assumere la centralità di temi come lo stop alle grandi opere e al consumo di suolo, la necessità di una green economy territorializzata a base locale, la creazione di lavoro su istanze socialmente innovative di cui il paesaggio fornisca limite e cifra, qualitativi, quantitativi ed eco morfologici. Oppure è bene che quel partito segua il suggerimento di D'Alema, E lasci provare ad una nuova classe dirigente realmente democratica e progressista di candidarsi a governare l'Italia in nome degli interessi della società presente e futura e non delle lobby.
Avevo ascoltato il presidente Cappellacci al convegno “Finestra sul paesaggio indetto dal Consiglio superiore della Magistratura nell’Aula magna del Tribunale di Cagliari. Il suo caloroso apprezzamento del PPR guidato da Renato Soru. Mi era sembrato il segno di un deciso cambiamento di orientamento: aveva abbandonato la demagogia becera delle pagine a pagamento pubblicate (a spese del contribuente) sui giornali dell’Isola, o perché improvvisamente illuminato dallo Spirito Santo oppure perchè convinto da una più attenta riflessione o magari dal consenso registrato da quel piano, in quell’aula e nel mondo, pconer i suoi e per le speranze che apriva per una piena messa in valore delle qualità dell’Isola e delle sue coste.. Ingenuità mia, ovviamente.
Oggi possiamo dire che quelle parole d’elogio erano solo fumo negli occhi. Il documento preliminare al nuovo PPR in discussione al Consiglio regionale, benchè si appropri, come ha scritto Sandro Roggio su questo giornale (16 luglio), di molte parole del piano di Soru, ne comporta il completo ribaltamento e conferma il generale cambiamento di rotta che la giunta Cappellacci ha operato: un cambiamento nella visione della Sardegna, nella progettazione del suo futuro, nel ruolo che al paesaggio viene attribuito.
Come ha scritto Monia Melis sul Fatto quotidiano (12 luglio) il nodo fondamentale è la mediazione tra “la tutela delle risorse primarie del territorio e dell’ambiente con le esigenze socio‐economiche della comunità, all’interno delle strategie di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale”. A chi parla di mediazioni tra elementi diversi bisogna ricordare sempre che il risultato della mediazione dipende dalla diversa forza e consistenza dei due elementi tra cui si vuole mediare. E certamente nella Sardegna e nel mondo di oggi, e in particolare nella compagine di cui Cappellacci è espressione, la forza degli interessi economici basati sull’appropriazione d’ogni bene riducibile a merce e suscettibile di arricchirne oggi il possessore è una forza ben maggiore di quella degli interessi volti a riconoscere e tutelare il valore delle qualità che natura e storia hanno costruito, che è espressa dal paesaggio: quelle qualità che costituiscono la base di ogni possibile domani migliore
L’espressa volontà d’inserire o comunque di rendere compatibili col piano paesaggistico, i devastanti provvedimenti per i campi di golf (e annessi) e per il “piano casa”, testimonia il senso della “mediazione”, mentre la proposta di frammentare la tutela della fascia costiera in una molteplicità di vincoli rivela il livello culturale al quale l’intera operazione si colloca.
La speranza di fermare la nuova avanzata dei saccheggiatori della Sardegna e della sua bellezza è ancora intatta per almeno tre ragioni. Innanzitutto, perché nel Consiglio regionale siedono persone e gruppi che non sono tutti devoti alle stesse divinità (e agli stessi interessi) dell’attuale presidente della Regione; si spera che essi comprendano quale sia la posta in gioco e assumano la responsabilità che hanno nei confronti del mondo intero (poiché la bellezza della Sardegna, non è patrimonio solo di quanti oggi vi abitano). In secondo luogo, perché la tutela del paesaggio (e in particolare la paternità del PPR) non è competenza della sola Regione, ma di tutte le istituzioni della Repubblica, e in particolare dello Stato, in assenza del quale il piano paesaggistico non esiste. Infine, perchè in Italia c’è ancora qualcuno che sa far rispettare le leggi. Non vorrei passare dall’ingenuità all’eccessiva malizia, ma forse fu proprio la consapevolezza di quest’ultima ragione che spinse il presidente Cappellacci a pronunciare parole di elogio per il PPR di Soru, nell’Aula magna del Tribunale di Cagliari, nel dicembre scorso.
Quasi nessuno, tra i politici italiani, e in particolare tra quanti sostengono Monti, sembra propenso a pensare che il declassamento notificato venerdì da Moody’s sia in connessione con l’annuncio di un ritorno di Berlusconi alla guida dell’Italia. Ritorno confermato da Alfano due giorni prima, ma da tempo evocato, invocato, dai fan dell’ex premier sui siti web. C’è stata invece un’unanime insurrezione, molto patriottica e risentita, e l’inaffidabilità delle agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor’s) è stata non senza valide ragioni denunciata: le stesse agenzie che sono all’origine della crisi scoppiata in America nel 2007, continuano infatti a dettar legge, fidando nell’oblio di cittadini, governi, istituzioni internazionali. Ciononostante, quel che veramente conta resta nell’ombra: non in Italia, ma ovunque in Europa, il verdetto di Moody’s (che pure non nomina il fondatore di Forza Italia) viene d’istinto associato all’infida maggioranza di Monti, e più specialmente alla decisione di Berlusconi di tentare per la sesta volta la scalata del potere: per ridiventare premier o salire al Quirinale, ancora non è chiaro. Monti sarebbe insomma un interludio, non l’inizio di una rifondazione della Repubblica.
È quanto dicono le radio francesi, gli editoriali sulla
che senza infingimenti adombra la possibilità di una ricomparsa in Italia del
Der Pate, Teil IV,
il Padrino parte IV: il nomignolo, si aggiunge, è da anni diffuso in Europa. Accade spesso che lo sguardo esterno dica verità sgradevoli a Paesi che da soli non osano guardarsi allo specchio: è successo nell’Italia postmussoliniana come nella Francia dopo il fascismo di Pétain. La
Sueddeutsche
chiede che l’Europa lanci «un segnale chiaro: con Berlusconi il Paese si riavvicinerà al baratro», e non a causa dei festini a Arcore. Il commentatore Stefan Ulrich non sarà probabilmente ascoltato, perché purtroppo così stanno le cose nell’Europa della moneta unica: paradossalmente i governi autoritari godono di margini più ampi di libertà, da quando le loro economie sono tutelate da Bruxelles.
I parametri finanziari vengono prima della democrazia. L’Unione s’allarma assai più del bilancio greco che dello Stato di diritto calpestato in Ungheria, Romania o Italia, ottusamente trascurando i costi immensi della non-democrazia, della corruzione, dell’impunità, della consegna alle mafie di territori e attività economiche. Resta lo sguardo severo, molto più del nostro, che da fuori cade su di noi. Si pensi al candore con cui l’economista Nouriel Roubini dice, a Eugenio Occorsio su
la Repubblicadel
15 luglio: «Sicuramente Monti ha molto credito presso la Merkel, infinitamente più del suo predecessore che si faceva notare solo per la buffoneria e i comportamenti personali diciamo eccentrici. Guardate che i mercati stanno cominciando a considerare con terrore l’ipotesi di un ritorno di Berlusconi al potere. Sarebbe un incubo per l’Italia, per il suo spread e per il suo rating. So per certo che la Merkel non vorrebbe neanche guardarlo in faccia».
C’è dunque qualcosa di malsano nella rabbia suscitata in Italia da Moody’s, quali che siano gli intrallazzi dell’agenzia. C’è una sorta di narcotizzata coscienza di sé. Una nube d’oblio ci avvolge, coprendo pericoli che altri vedono ma noi no: il rientro di Berlusconi è considerato dagli italiani o normale, o un incidente di percorso. Significa che da quell’esperienza non siamo usciti. Che questo governo, troppo concentrato sull’economia e troppo poco su democrazia e diritto, non incarna la rottura di continuità che pareva promettere.
Non ne sono usciti i partiti, se l’unico aggettivo forte è quello di Pier Luigi Bersani: «agghiacciante». Che vuol dire agghiacciante? Nulla: è il commento di un passante che s’acciglia e va oltre. Più allarmante ancora l’intervista che Enrico Letta (vice di Bersani) ha dato alCorriere della Serail 13 luglio, e non solo perché preferisce «che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo» (le accuse rivolte a Grillo possono esser rivolte a gran parte del Pdl e alla Lega). La frase più sconcertante viene dopo: «Non vorrei che si tornasse alla logica dell’antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il Cavaliere». Per la verità, di ammucchiate antiberlusconianese ne sono viste poche in 18 anni. Altro si è visto: la condiscendenza verso il Cavaliere, la rinuncia sistematica, quando governava la sinistra, a tagliare il nodo del conflitto d’interessi e delle leggi ad personam. Non solo: l’ascesa di Berlusconi fu permessa, favorita, nonostante esistessero leggi che avrebbero potuto allontanare dal potere un grande magnate dei mezzi di comunicazione. Fu Violante, il 28 Febbraio 2002 alla Camera, a rivelare i servizi fatti dai Ds a Berlusconi: «Per certo gli è stata data la garanzia piena,non adesso ma nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni, questo lo sa lui e lo sa Gianni Letta. Comunque la questione è un’altra: voi ci avete accusato di regime, nonostante non avessimo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, avessimo aumentato di cinque volte durante il centrosinistra il fatturato di Mediaset». Morale (o meglio immorale) della storia: Berlusconi poté candidarsi nonostante un decreto (30 marzo 1957, n° 361) che dichiara
ineleggibili i titolari di pubbliche concessioni.
Questo significa che il primordiale male italiano (l’assenza di anticorpi, che espellano da soli le cellule malate senza attendere i magistrati o la Corte costituzionale) resta non sanato. Che un esame del berlusconismo tuttora manca. Il conflitto di interessi è anzi diventato normale, da quando altri manager «scendono in campo». Montezemolo sarà forse candidato, e nessuno l’interroga sugli interessi in Ferrari, in Maserati, nel Corriere della Sera,nel Nuovo trasporto viaggiatori (Ntv). Il silenzio sul suo conflitto d’interessi banalizza una volta per tutte quello di Berlusconi. Non è antipolitica, la convinzione che i manager siano meglio dei politici?
Viene infine il governo. Un governo di competenti, che non sembrano attaccati alla poltrona. Una persona come Fabrizio Barca lavora senza pensare a carriere politiche. Dice addirittura che per fare riforme per la crescita servono «visioni del capitalismo che solo un mandato elettorale può attribuire», e solo un «governo nato da una competizione elettorale vera» può attuare (la Repubblica,
) 15 luglio.
Monti ha fatto molto per ridare credibilità all’Italia. Quando parla dell’Unione, è senza dubbio più preparato di Hollande e della Merkel. Ma a causa della maggioranza da cui dipende, molte cose le tralascia. Ha tentato di restituire indipendenza alla Rai, ma sulla giustizia i compromessi sono tanti: a cominciare dalla legge contro le intercettazioni che potrebbe passare que-st’estate, fino ai legami tuttora torbidi che conferiscono al clero un potere abnorme sulla politica.
L’ultimo episodio riguarda la Banca del Vaticano, lo Ior. Risale al 4 luglio l’ordine che il governo ha dato alle autorità antiriciclaggio della Banca d’Italia, invitate a dire quel che sapevano sui traffici illeciti dello Iot, affinché tenessero chiusa la bocca in una riunione degli ispettori di Moneyval, l’organismo antiriciclaggio del Consiglio d’Europa convocato a Strasburgo. Talmente chiusa che Giovanni Castaldi, capo dell’Unità di informazione finanziaria (Uif, organo di Bankitalia), ha ritirato i suoi due delegati dall’incontro.
Gli anticorpi restano inattivi, se certe abitudini persistono. Se il governo si piega a poteri non politici. Se lascia soli i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Se non garantisce che il vecchio non tornerà. Non solo il vecchio rappresentato dal debito pubblico. Anche il vecchio che per anni ha offeso lo Stato di diritto. Possibile che Il Padrino-Parte IVsia un film horror per i giornali tedeschi, e non per gli italiani?
Un grido di dolore si leva da coloro che amano la natura e vorrebbero preservarla. Una parte di costa abruzzese sta per essere cementificata brutalmente, legalmente, con il solito argomento della crescita e dello sviluppo.
«Abbiamo perso l'opportunità di salvare il rarissimo tratto di fascia costiera non ancora edificato», scrive il Comitato riserva naturale regionale Borsacchio. Al posto della spiaggia «avremo palazzine e stabilimenti e al posto della splendida pineta, strade e piazze coperte di asfalto».
Stiamo parlando di una riserva naturale che si trova nei comuni di Roseto degli Abruzzi e Giulianova con spiagge pulite e pinete intatte chiamato Riserva del Borsacchio. Nata nel 2005, da anni la Riserva è nelle mire di chi vorrebbe costruire megavillaggi e casette a schiera. Eppure, come spiegano quelli di Legambiente, «centinaia di appartamenti costruiti negli ultimi lustri rimangono sempre più desolatamente inutilizzati e invenduti».
«Perché tanta indifferenza del governatore, dei sindaci e di buona parte dei consiglieri regionali e comunali, che pur potendo non lo hanno impedito?» si chiedono preoccupati. «Avranno una sola buona ragione? Purtroppo sembra che l'unica spiegazione del loro comportamento sia di non sapere dire no a chi, con mezzi economici convincenti, impone il solo interesse realmente tute
lato in questa brutta vicenda, lo spessore del suo portafoglio».
«L'area protetta del Borsacchio del Teramano è stata oggetto di numerosi interventi legislativi finalizzati alla modifica della linea di confine per rispondere agli appetiti della speculazione edilizia», commenta Fabio Celommi del Comitato.
I cittadini in maggioranza si sono schierati contro la divisione in due della Riserva che verrebbe a perdere gran parte della sua pineta e le foci del Tordino e del Borsacchio, per cui si avrebbe «una Riserva del Borsacchio senza il Borsacchio medesimo», come dice Pio Rapagnà che da anni difende coraggiosamente le ragioni della comunità... Ma come al solito, gli appetiti degli speculatori si dimostrano più forti della volontà popolare.
C'è chi si riempie la bocca della magica parola «sviluppo». Ma è cieco e sordo chi pensa che lo sviluppo consista solo nella moltiplicazione delle case e nelle gettate di asfalto. Oppure è in malafede e usa la comoda parola per nascondere le ingordigie di grossi investitori.
Ormai lo sanno tutti: lo sviluppo non sta nel costruire su ogni angolo di costa rimasto intatto, ma al contrario nel preservare la bellezza, l'integrità dell'ambiente che oltre a proteggere il territorio da allagamenti, slavine, desertificazione, dà vita al turismo e quindi porta anche guadagni. I turisti cercano l'ombra degli alberi, la pace di una spiaggia pulita, un mare non inquinato. E la gente del luogo lo sa. Sono gli speculatori che fingono di non sapere. E gli amministratori pubblici che usano in malafede la parola «sviluppo».
Il ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi ha scritto al «Corriere della sera» per rispondere ad una doppia lettera aperta in cui Italia Nostra ed alcuni storici dell’arte (tra cui il sottoscritto) gli chiedono spiegazioni sulla mostra del Rinascimento fiorentino a Pechino e sulla designazione del filosofo del diritto Francesco De Sanctis alla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali.Nel breve testo, tuttavia, di risposte non ce ne sono. Il ministro non parla della sicurezza delle fragilissime opere d’arte spedite in giro per il mondo come agenti di commercio (Italia Nostra chiedeva di sapere «quante opere vengono prestate ogni anno, quali e quante opere sono tornate danneggiate, quale è stato il “ritorno” in termini economici e di prestigio culturale»), né si degna di spiegare perché ha messo un filosofo del diritto nel ruolo che fu di Federico Zeri e Salvatore Settis.
In compenso, sotto il belletto un po’ avariato di un’involuta prosa curiale cova un veleno non meno curiale: Ornaghi ne fa una questione di stile. Il «fraseggio» della lettera di Italia Nostra e i valori su cui essa si fondano gli paiono «ideologicamente grossolani». Se preoccuparsi per l’incolumità del patrimonio è «grossolano», ci si chiede quali siano i parametri di giudizio del massimo tutore (per fortuna pro tempore) di quello stesso patrimonio: non dimettersi dalla carica di rettore della Cattolica infischiandosene dei mille conflitti di interesse deve apparire ad Ornaghi una mossa ideologicamente raffinata; designare al vertice del Consiglio superiore dei Beni culturali l’ex rettore di un’altra università privata senza alcuna competenza deve sembrargli raffinatissimo; nominare nel consiglio di amministrazione della Scala il proprio assistente personale dev’essere per lui un vero vertice di raffinatezza.
Ma la lettera di Ornaghi tocca l’apice laddove ‘rettifica’ una frase della lettera di Italia Nostra relativa alla nomina di Marino Massimo De Caro alla direzione della Biblioteca dei Girolamini: «non ho mai nominato De Caro a un tale incarico», precisa, risentito, il ministro. Ma si guarda bene dall’aggiungere che De Caro (oggi in carcere per averla svaligiata, quella biblioteca) fu nominato grazie ad un improvvido nulla osta del suo ministero; che un’ispezione ministeriale ai Girolamini fu insabbiata per ragioni su cui la magistratura sta indagando; e soprattutto sul fatto che egli ha incluso De Caro tra i propri consiglieri personali. Tutti atti che gli devono apparire così poco «grossolani», anzi così fini, da non doversene minimamente scusare.
Fino ad oggi il ministro ha detto di aver confermato De Caro perché parte del ‘pacchetto’ ereditato da Giancarlo Galan (il che non è comunque vero, perché due di quel gruppo furono espunti), lasciando intendere di non aver avuto sostanzialmente alcun rapporto con il detentore dell’imbarazzante primato di essere il primo consigliere del ministro dei Beni Culturali finito in carcere per aver saccheggiato una biblioteca statale.Ma a giudicare da quanto si legge sull’ultimo numero dell’Espresso, le cose non stanno proprio così. Il 25 febbraio scorso De Caro comunica al suo mentore Marcello Dell’Utri (allora momentaneamente espatriato in America latina, in attesa del verdetto della Cassazione sui suoi rapporti con la mafia) che i senatori del Buongoverno (il gruppo di Dell’Utri coordinato dallo stesso De Caro) hanno presentato un subemendamento per esentare dall’Imu gli edifici storici di proprietà della Chiesa. Il consigliere De Caro può anche riferire al senatore che Ornaghi (ministro-e-rettore-della-Cattolica) «è contentissimo» (strano, vero?). Memorabile il commento di Dell’Utri che, con un piede nella latitanza, benedice l’operazione: «È cosa di giustizia, sottoscrivo».
A legger tutto ciò si capisce, finalmente, perché il ministro Lorenzo Ornaghi scriva al «Corriere» che le preoccupazioni di Italia Nostra sarebbero «ideologicamente grossolane»: egli coltiva frequentazioni assai più pragmatiche e pratica conversazioni assai più raffinate.
Su Roma una nuova pioggia di case: la campagna nelle mire dei palazzinari
Due mila ettari di terreno lasceranno il posto a 66 mila case. Merito degli "ambiti di riserva", aree selezionate dal Comune per circa 200 mila abitanti. Tanti quanti quelli di Salerno o Brescia. Legambiente denuncia che nella Capitale già esistono più di 250 mila appartamenti vuoti. Alemanno promette che questi alloggi, fuori dal Piano Regolatore del 2008, saranno in parte destinati all'edilizia popolare. Ma è necessario costruire ancora?
Il titolo è burocraticamente innocuo: "Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata". Il senso è un altro. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Le lottizzazioni sono sparse per ogni dove nelle "erme contrade", come Giacomo Leopardi chiamava nella Ginestra la cintura agricola intorno alla città - e "erme" vuol dire solitarie.
Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell'Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un bel quartiere con 3 mila abitanti. L'allarme è alto. Sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini preparano barricate. Nei giorni scorsi si è svolto un sit-in davanti al Campidoglio. È intervenuto anche l'Istituto nazionale di urbanistica (Inu). E due deputati di Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, hanno presentato un'interrogazione parlamentare.
Ma, prima di tutto: c'è bisogno d'altro cemento a Roma? Il Piano regolatore, approvato appena quattro anni fa dalla giunta di Walter Veltroni, prevede edificazioni per 70 milioni di metri cubi, un diluvio di calcestruzzo che sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni - la terribile "macchia d'olio" descritta cinquant'anni fa da Antonio Cederna -, ma che non trova giustificazioni nella crescita demografica: l'ultimo censimento inchioda la popolazione residente a 2 milioni 600 mila abitanti, appena 50 mila in più rispetto al 2001. I 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, cioè sono oltre quelli del Piano, molti dei quali appena costruiti giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che con i costruttori si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Si attendono i dati dell'ultimo censimento, ma nel 2001 risultavano 193 mila appartamenti inutilizzati che, secondo molti, è una cifra molto sottostimata. Legambiente calcola almeno 250 mila appartamenti vuoti a Roma.
Uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano riserva come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento urbanistica del Comune di Roma: "Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente". Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato e sottoutilizzato, fosse già carta straccia. Inoltre, fa notare l'Inu, non vengono attuati 35 Piani di Zona già approvati per realizzare case popolari, cioè case di proprietà pubblica.
Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all'urbanistica, Marco Corsini, arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l'insediamento in Campidoglio nel 2008 per fronteggiare l'emergenza abitativa, molto alta nonostante le troppe case che si costruiscono ma che restano inaccessibili ai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. Che vuol dire case ad affitti agevolati, realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. Sei euro al metro quadrato, assicurano al Comune, l'importo di un affitto agevolato, 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, cucina e soggiorno. Ma su questa materia non esistono norme di legge, tutto dipenderà dalle convenzioni fra Comune e costruttori.
Appena eletto, Alemanno lanciò un bando per dare casa, diceva, a chi casa non se la poteva permettere - giovani coppie, single, studenti fuori sede, famiglie a basso reddito. Ma neanche poteva accedere alle liste per vedersi assegnato un alloggio popolare, che a Roma come in tutta Italia si costruiscono sempre meno. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l'approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che ha tempi molto più lunghi di quelli che mancano alla fine della legislatura (primavera 2013). Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune generi aspettative sfruttabili elettoralmente, faccia sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti e soprattutto inneschi meccanismi di valorizzazione fondiaria (un terreno edificabile vale enormemente di più rispetto a uno agricolo). Circolano depliant di cooperative edilizie, se ne parla sui social network.
Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la mappa degli "ambiti di riserva" che compare in rete è un florilegio di puntini neri sparpagliati dovunque, quasi un fiotto di coriandoli lanciati per aria e piovuti al suolo, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell'autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina.
I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell'Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale.
"Dal bando per l'housing ci aspettavamo un disastro", sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, "ma i risultati che Alemanno vorrebbe approvare sono peggiori di qualsiasi incubo. L'associazione dei costruttori aveva chiesto l'1 % del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2 %. Una brutta ipoteca sul futuro, visto che il sindaco non potrà mai vedere attuata prima delle elezioni l'assurda variante generale al Piano Regolatore scritta sulla base dei risultati di un bando, ma rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più". Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice "assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta ad una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell'Agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all'emergenza abitativa".
A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 insediamenti, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. In questi due Municipi risiede il Parco di Veio, da dove sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a Nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell'edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Segni, un edificio storico sull'Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito, insieme agli altri 159, nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di Roma.
L’intera inchiesta con video, interviste, documenti su repubblica on-line
Il 13 luglio all’Isola del Giglio si è svolta a 6 mesi di distanza la cerimonia di ricordo delle 32 vittime che persero la vita nel naufragio della Costa Concordia, un ricordo che non svanisce ma tende a replicarsi nella fantasia dei superstiti, quasi incombesse su di essa una coazione a ripetere, iscritta nella stupidità umana, come ha detto uno dei testimoni. In realtà è un fenomeno tutt’altro che irrazionale, sol che si rifletta alla motivazione del tutto frivola, ancorché fruttuosa dal punto di vista pecuniario, che ha suggerito al comandante come ai suoi predecessori, di far correre un rischio tutt’altro che imprevedibile ai suoi passeggeri pur di offrir loro il brividodi sfiorare le rocce.
La verità agghiacciante di questo rischio mi è apparsa all’improvviso ripercorrendo, con una diversa attenzione che nel passato, un luogo assai lontano dall’arcipelago toscano e, cioè, il Bacino San Marco e i canali lagunari che gli fanno corona. Un paesaggio visto più volte con ammirata emozione, ma ormai senza sorpresa, all’improvviso mi generava un senso di assurdità, di inconcepibile provocazione, di ridicola sceneggiatura messa in piedi da un pazzo con pieni poteri cui fosse stata affidata la sorte della Città dei Dogi, secondo un modello allucinatorio, che riprendeva su scala lagunare il raid della Costa Concordia riprodotto nella sua follia dalla sproporzione tra il minuscolo borgo marittimo e la gigantografia della maxi-nave che ne sfiorava gli scogli. Una cronaca realistica che va oltre l’evento mi è stata fornita da un sapiente resocontista, Silvio Testa, con un incipit meritevole del Campiello: «Immensi scatoloni galleggianti passano per il Bacino di San Marco: sono bianchi, li chiamano navi, e in effetti lo dovrebbero essere, ma delle splendide navi di un tempo hanno solo la funzione di portare passeggeri, tanti, il più possibile. Queste navi non hanno né raffinatezza né buon gusto, sono ispirate ai Casinò di Las Vegas, a bordo mantengono quel che promettono: una vacanza davillaggio turistico per quei croceristi che fan parte di quei 30 e più milioni di visitatori all’anno che soffocano Venezia».
La Stazione marittima è uno dei principali varchi d’entrata e di passaggio “mordi e fuggi” che permettono a questi viaggiatori una “toccata e fuga” a qualche metro dai tetti dei palazzi e delle chiese. Così uno dei luoghi più belli del mondo si trasforma da un minuto all’altro in uno dei più brutti dell’universo, La fonte dello scempio nasce dall’idea diabolica del “fuori scala”. Le cosiddette navi-giganti non hanno linea, si ergono per oltre 60 metri di altezza mentre le case della città non superano in media i 15 m. I passeggeri inerpicati sui punti più alti delle navi guardano dall’alto in basso campi, campielli, case, calli perdendo ogni cognizione della città, della sua fragilità, del suo bisogno di rispetto. Le autorità e i gruppi d’interesse inneggiano comunque al moltiplicarsi delle presenze . Nel 2009 i passaggi o le “toccate” (tipo Isola del Giglio) delle grandi navi nel Bacino di San Marco sono stati 1300 (metà all’andata, altrettante al ritorno). Sovente approdano in un giorno 12 condomini galleggianti e le banchine portuali non bastano; si ricorre alla Riva dei Sette Martiri. Nella zona i motori sono accesi giorno e notte, vibrazioni, fumi inquinanti, avvelenamenti elettromagnetici si susseguono. Le proteste dei cittadini che chiedono una struttura portuale in mare aperto con un sistema di ormeggio compatibile con la sopravvivenza di Venezia non vengono ascoltate. Ma è soprattutto l’ipotesi che una mega-nave in transito nel Bacino di San Marco finisca per infilarsi nella facciata di San Giorgio o in quella di Palazzo Ducale viene liquidata in poche righe da un rassicurante studio affidato dalla Autorità portuale a una società locale la quale afferma che basta usare in modo corretto la strumentazione esistente per raggiungere gli standard di sicurezza necessari. In altri termini, se non ci sono errori non ci sono incidenti.
Nuovo Ppr: è più impudente la presentazione del contenuto. Dopo i ripetuti annunci qualcosa si comincia a capire: ma la conclusione del primo impegno di Berlusconi (e quindi di Cappellacci) con gli elettori sardi è ancora una promessa arruffata. Di un centinaio di pagine di illustrazione delle intenzioni, più della metà riportano le linee guida del 2005, inutilmente. Perché quel documento, interpretato da chi all'epoca non lo ha condiviso, ha esaurito la sua funzione dando vita al Ppr, e questo, caso mai, meriterebbe di stare in premessa.
Il resto ha un profilo vago, punteggiato di formule un po' apodittiche e retoriche (“Il paesaggio dell'isola è di tutti i sardi”) e un po' scontate e generiche (“Conoscere, governare e valorizzare per una progettazione consapevole dei paesaggi”). Ricorre il ritornello minaccioso: viva “l'approccio dinamico al paesaggio”, contro quello statico, ovviamente riprovevole. L'incitamento futurista è a non essere spettatori renitenti alla costruzione di nuovi paesaggi – senza dirci quali (ma noi che ci guardiamo attorno e abbiamo fantasia riusciamo a immaginarceli i paesaggi che hanno in mente).
Ci siamo assuefatti allo stile del solito Cappellacci, riluttante a dire chiaramente le intenzioni, che rinnega le spacconate della campagna elettorale e abusa delle parole dell'ambientalismo intransigente facendosene scudo, manipolandole. Come la destra fa ordinariamente con riferimento a principi fondanti della convivenza – "democrazia", "libertà", "giustizia" – svuotandoli di senso.
Il succo del documento in una decina di pagine. La trovata: si prendono le disposizioni del piano casa – le norme intruse sulla pianificazione paesaggistica – e si trasferiscono, insieme a quelle sul golf, nel Ppr da domare. Poco importa se le leggi da innestare sono impugnate dal governo e per le quali è stata depositata una proposta di legge di consiglieri della maggioranza (n.378/2012) per rimediare ai difetti di costituzionalità.
L'idea di fondo è quella di abbassare il livello di tutela dappertutto e di ogni componente del paesaggio.
Ma la variante più pericolosa e che supporta il resto – sempre in chiave futurista – riguarda la “fascia costiera”, concentrazione di paesaggi preziosi (che è bene immaginare statici o pressoché invariabili) e di interessi molteplici che li insidiano da mezzo secolo. Per la “fascia costiera”, disciplinata in modo univoco nel Ppr 2006, è previsto un declassamento. Smette di essere bene paesaggistico per assumere il titolo fantastico “sistema ambientale ad alta intensità di tutela”. Un bel titolo (potrebbe essere di un'opera di Boccioni) utile esclusivamente a togliere di mezzo quell'altro molto più impegnativo, riferito al Codice dei beni culturali del 2004, ma dimenticando che serve per questo la concertazione con lo Stato.
Nella fretta di rinominare – a scapito della completezza – non si dà conto delle diverse valutazioni alla base di questa nuova scelta, molto distante dalla tutela del paesaggio insistentemente evocata nell'intervento del presidente. Alla “fascia costiera”, identificata nelle carte, è stato già attribuito un valore grazie a un complesso di studi, per cui sarebbe doveroso precisare le ragioni tecniche della retrocessione. Nè basta la parola di Cappellacci, secondo cui tutto si regge perché frutto del processo partecipativo “Sardegna nuove idee”. O perché c'è bisogno di alimentare la stessa bolla immobiliare che ha inguaiato la Spagna.
L' approvazione del documento, ambiguo e reticente, corrisponde a una delega alla Giunta che potrà interpretarlo molto liberamente. Per questo serve svelarne la doppiezza, spiegando la contraddizione chi si propone insieme fautore di “alta intensità di tutela” e custode di interessi palazzinari.
Paolo Berdini Calcio e politica all'ultimo stadio
L’affarismo esce daglistadi e invade il territorio. O viceversa? Forse un feice incontroIl manifesto, 16 luglio 2012
L'effetto Europei di calcio ha dato i frutti sperati. Chissà se fuori dell'agenda protocollare se ne è parlato anche nella cerimonia di ringraziamento generosamente concessa al Quirinale: fatto sta che a quindici giorni dal fischio di chiusura del campionato europeo, alla camera dei deputati è stato approvato il provvedimento di legge che concede alla società di calcio la facoltà di realizzare, in deroga a qualsiasi regola urbana, nuovi stadi, ipermercati, alberghi e alloggi. Insomma, la solita overdose di cemento.
La legge sugli stadi in discussione alla camera parte con tutta evidenza da un presupposto oggettivo: il deficit della squadre di calcio è arrivato a una voragine pari a un miliardo di perdita nei tre campionati, dovuti a spese folli e a gestioni irresponsabili.
Nella nostra società a dominio finanziario, questo enorme debito mette in affanno le già affannate banche. Chi non ricorda la complessa trattativa sulla vendita della Roma Calcio effettuata lo scorso anno sotto la regia di Unicredit, fortemente esposta con la società calcistica romana. Che di legge a favore della speculazione immobiliare si tratti non c'è dubbio. Sempre le statistiche della Lega calcio ci dicono che gli introiti delle partite rappresentano soltanto il 18 per cento dei bilanci societari, mentre soltanto i diritti televisivi valgono più del 50 per cento. Non saranno dunque i nuovi stadi a rimettere a posto i bilanci delle società calcistiche, la legge approvata alla camera è l'ennesimo regalo al sistema bancario.
Ne saranno felici Monti, Passera e i ministri che provengono da quel mondo. Ma non ne saranno felici i milioni di cittadini che in ogni città italiana vedranno crescere, in luoghi incontaminati in aperta campagna, nuovi quartieri strade e, forse, anche gli stadi.
Si dirà che questo è un quadro fosco, o prevenuto. Basta allora ripercorrere l'incredibile vicenda avvenuta a Roma nel mese di aprile, quando è apparso su tutta la stampa nazionale un bando per cercare le aree dove costruire lo stadio della Roma Calcio promosso dalla Cushman & Wakefield, società controllata dalla Exor della galassia Fiat. Evidentemente chi non sa più produrre automobili sa invece come produrre plusvalenze immobiliari, perché la Cushman & Wakefield chiedeva ai proprietari delle aree la loro disponibilità ad alloggiare il nuovo stadio della Roma compreso albergo, ipermercato e quant'altro. L'importante era avere dieci ettari di territorio incontaminato.
Questo è il provvedimento che è stato approvato alla camera dei deputati e che sta per essere inviato al senato, speriamo soltanto che ci sia un sussulto da parte di alcuni dei partiti, in particolare di chi fa opposizione al governo Monti, e da coloro che all'interno del partito democratico, come Roberto Della Seta, sono risolutamente indipendenti dalla cultura che domina quel partito. La legge andrà in discussione al senato e speriamo che invece di continuare con il sistema delle deroghe si ricominci a parlare di ripristinare le regole e a mettere i bisogni sociali al primo posto dell'agenda politica
DAI mercati finanziari italiani sono arrivate venerdì tre buone notizie: i Bot a dodici mesi sono stati oggetto di ampia domanda e collocati a tassi molto più bassi rispetto a quelli registrati appena un mese fa; i Btp a tre anni hanno avuto anch'essi notevole successo e anch'essi hanno segnato un tasso inferiore di un punto rispetto a giugno. Infine la Borsa di Milano ha snobbato il declassamento dell'Italia con un aumento dell'1 per cento rispetto al giorno precedente.
Dunque risparmiatori e operatori italiani e stranieri hanno ricominciato a comprare i titoli emessi dal Tesoro e non solo a breve ma anche a medio termine. Lo "spread" del Btp decennale è ancora molto elevato sul mercato secondario, ma il Tesoro ha saggiamente deciso di rallentare le emissioni a lunga scadenza in attesa che il meccanismo di intervento deciso dall'Europa entri concretamente in funzione. Ci vorranno alcuni mesi e fino ad allora le emissioni quinquennali e decennali saranno ridotte al minimo senza alcun nocumento per il finanziamento del fabbisogno.
Queste le buone notizie. Ma il "downgrading" di Moody's , anche se Piazza degli Affari ha risposto con un'alzata di spalla, non è campato in aria. Non è un declassamento economico ma politico, segnala un elemento negativo per il dopo-Monti e a ragione perché quegli elementi negativi esistono e il "rieccolo" di Berlusconi è uno di quelli e va quindi analizzato con estrema attenzione.
Berlusconi sa che avrà un flop elettorale, questo è già nel conto. Se dovesse arrivare al 20 per cento dei consensi sarebbe oggettivamente un successo clamoroso. Ma il suo problema non è questo. Il suo problema è di mantenere in vita un simulacro di partito e impedirne l'implosione in mille frammenti. Questo risultato l'ha già ottenuto, è bastato l'annuncio della sua ri-presentazione per bloccare la fuga dei quadri, delle clientele e dei rimbambiti del "Silvio c'è". Moderati? Ma quali! Conservatori? Non se ne vedono in giro. Liberali? Forse Ostellino, ma con lui non si va lontano.
Niente di tutto ciò, ma i suoi colonnelli ex An restano in linea, Cicchitto anche, Quagliarello e Lupi pure, perfino Scajola, perfino Galan. Forse arriva Storace. Certamente Micciché. E Daniela. Daniela è la vera vincitrice. I Santanché-boys non valgono più dell'1 per cento, ma è il "folk" che conta. Il partito non c'era, non c'è mai stato e continua a non esserci, ma le clientele sì, quelle ci sono sempre state e adesso serrano i ranghi.
Certo, ci vuole una legge elettorale che assecondi. E poi quel pizzico di bravura nell'ingannare i gonzi, specie quelli di mezza età. Sono tanti in questo Paese e per lui sono l'ideale. Allora forza con l'aquilone tricolore, forza coi discorsi del predellino. E se ci fosse un pazzoide che gli tirasse un sasso in faccia come avvenne a Piazza del Duomo qualche anno fa, beh quello sarebbe l'ideale.
Il partito non c'è mai stato, ma volete che non ci sia un 15 per cento di allocchi che poi, su un 60 per cento di votanti sarebbe più o meno il 7 per cento della platea elettorale?
Questo è l'obiettivo. Ma ci vuole una legge elettorale come si deve e questo è lo strumento necessario.
* * *
Niente più bipolarismo, niente più sistema maggioritario. Per raggiungere l'obiettivo ci vuole un sistema proporzionale, su questo non si discute.
Chi altri vuole quel sistema? Certamente la Lega. Certamente Casini. Dunque la maggioranza c'è. Soglia di sbarramento alta ma ragionevole (serve a scoraggiare le possibili liste del para-centro, diciamo alla Montezemolo). Un premio al primo partito, ma molto ridotto, diciamo il 10 per cento. Preferenze o collegi, oppure un mix tra liste con preferenze e collegi.
Un sistema proporzionale di questo tipo va a pennello per la Lega e per Berlusconi. Anche per Casini che in quel caso sarebbe molto più forte nella possibile alleanza post-elettorale con il centrosinistra. Se prevalesse un sistema maggioritario l'alleanza Casini-Bersani dovrebbe essere pre-elettorale; col proporzionale si fa dopo e ci si fa tirare per la calzetta. La differenza è evidente.
Diciamo: il partito dell'Aquilone al 15-18 per cento, l'Udc all'8-10, il Pd (con Vendola in pancia) al 25-30 e al 35 col premio. Non c'è maggioranza se non tutti e tre insieme. E tutti e tre al governo. E Monti che li presiede.
Questo è il progetto, pacatamente ma fermamente sponsorizzato da Giuliano Ferrara. Non malvisto dai montiani del Pd. Per il Berlusca un terno al lotto. Per Casini anche. Per la spazzatura mediatica anche: campane a festa per il "Giornale", campane a festa per "Libero" e campane con doppia festa per il "Fatto" che potrebbe di nuovo sparare col suo fucile a due canne non solo contro la casta di centrosinistra ma anche contro quella berlusconiana che sembrava scomparsa.
Un governo lobbistico presieduto da un anti-lobbista. Grillo all'opposizione ma un po' spompato (lo è già). Maroni pronto a rientrare in gioco ma a ranghi ridotti.
Non è un cibo digeribile. Allora la domanda è questa: c'è un'alternativa?
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Prima di ragionare sulla possibile alternativa debbo però formulare due osservazioni, pertinenti e non marginali.
Ernesto Galli della Loggia ha descritto sul "Corriere della Sera" che cos'è in realtà la classe dirigente italiana e che cosa sono nella loro maggioranza gli italiani: un Paese che da trent'anni si è auto-paralizzato dandosi una struttura corporativa, clientelare, mafiosa in tutti i sensi. Insomma una casta nazionale, mondo dei "media" compreso e senza eccezioni.
Consento in gran parte con la diagnosi di della Loggia, ma non su quest'ultimo punto. L'informazione castale ha avuto le sue eccezioni, caro Ernesto, e tu lo sai bene. L'eccezione principale è stata "Repubblica" fin da quando esiste, cioè dal 1976. E prima di Repubblica l'eccezione era stata "L'Espresso". Nei pochi anni della sua direzione l'eccezione fu anche il "Corriere" diretto da Piero Ottone.
La seconda osservazione riguarda invece la "scivolata" di Mario Monti sul tema della concertazione, che sarebbe stata "dannosa per l'Italia perché ha determinato la formazione d'un sistema assistenziale che favorisce i privilegi di pochi a scapito della libera partecipazione di molti e specialmente dei giovani. E perché ha reso possibile la creazione d'un debito pubblico enorme che è la causa delle nostre attuali difficoltà".
Questa "scivolata" - come già è stato scritto nei giorni scorsi sul nostro giornale - è storicamente sbagliata. La concertazione fu introdotta da Giuliano Amato e soprattutto da Carlo Azeglio Ciampi nel 1992-93 e rese possibile il superamento della crisi in quegli anni e l'ingresso in Europa durante il ministero Prodi-Ciampi. Ma prima di allora, dieci anni prima d'allora, senza bisogno di concertare, il sindacalismo operaio - come allora lo si chiamava - aveva imboccato da solo la via dell'austerità per realizzare la piena occupazione. Luciano Lama fu il vessillifero di quella politica e la proseguì fin tanto che rimase al suo posto, fiancheggiato da analoga posizione di Giorgio Amendola e poi anche di Enrico Berlinguer.
La differenza di ora rispetto all'allora sta nel fatto che la classe operaia non somiglia più in nulla a quella di Lama e di Amendola. Non è più un blocco sociale portatore di valori e interessi generali, ma un coacervo di contratti, di precariato, di immobilismo parcellizzato. Uno sfrizzolio innumerevole. Dalla spigola al sale - direbbe uno chef - al fritto misto.
In questa situazione Camusso e Bonanni cercano di tutelare il fritto misto. Che cos'altro potrebbero fare? Perciò, caro presidente Monti, lei condanna un fenomeno che non c'è più e che, quando ci fu, risultò positivo e non vincolante perché - come Ciampi può testimoniare meglio d'ogni altro - a monte e a valle della concertazione restava sempre e comunque la decisione del governo e del Parlamento. Quanto al debito pubblico, fu creato dalla partitocrazia dell'epoca come tante altre magagne che abbiamo ancora sulle spalle.
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L'alternativa è la sinistra e il centro che debbono crearla e debbono farla, pena l'irrilevanza in cui stanno precipitando. Anzi: in cui sono già precipitati.
Ho letto nei giorni scorsi due articoli scritti da persone con biografie politiche diverse ma tutte e due marcatamente di sinistra: Alfredo Reichlin sull'"Unità" e Alberto Asor Rosa sul "Manifesto". Tutti e due gli autori arrivano a conclusioni analoghe: la sinistra deve scoprire nuovi orizzonti e ad essi improntare la sua azione. Non esiste più la sinistra autarchica operante nei singoli Stati nazionali. Esiste già un'economia globale; esisterà - se vuole sopravvivere - un'Europa-Stato.
In queste nuove condizioni la sinistra non può che esser riformista. Radicalmente riformista. Deve coniugare i valori della libertà con quelli dell'eguaglianza. Deve togliere le bende che l'hanno da tempo mummificata. Deve disciplinare la concorrenza con le regole. Deve smantellare i privilegi, le mafie, le clientele, a cominciare dalle proprie.
E il centro deve fare altrettanto. Non è più tempo di radunare i moderati. Bisogna radunare i liberali, quelli veri e non quelli fasulli. Quelli che non vogliono i privilegi, le rendite, i monopoli, che detestano la demagogia e la legge del più forte.
A quel punto si accorgeranno - il centro e la sinistra - che non solo il loro obiettivo, ma la loro stessa natura è identica. Questa è l'alternativa.
A me ricorda lo slogan "giustizia e libertà"; ad altri potrà legittimamente ricordare Giuseppe Di Vittorio, Lama e Amendola, Antonio Labriola e Gramsci, ad altri ancora Giustino Fortunato e Danilo Dolci, ed anche Luigi Einaudi delle "Lezioni di politica sociale".
Andate a rileggerli quei testi, voi Bersani, voi Casini, voi Vendola, voi Pisapia, voi Tabacci. Giorgio Napolitano li conosce bene, lui è sempre stato un uomo di sinistra anche se da Capo dello Stato ha appeso quella vocazione all'attaccapanni prima di varcare la soglia del Quirinale.
Un uomo di sinistra, di quella sinistra. Non c'è un'altra strada. Quella è la sola vincente e l'obiettivo è di rifondare l'anima dei democratici e chiamare a raccolta gli spiriti liberi e forti del Paese. Forse è la maggioranza degli italiani, ma se non lo fosse pazienza, si lavorerà per il futuro. Nell'uno come nell'altro caso sarà comunque una vittoria.
Berlusconi - ovviamente - con queste prospettive non ha niente a che fare. Lui rappresenta l'Italia di Santanché che certo non è la nostra.
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il Kazakistan. Così Moody's, l'agenzia di valutazione dei rischi finanziari, considera oggi i titoli di stato italiani: «Baa2». La repubblica ex-sovietica ha petrolio quanto basta per garantire un debito pubblico pari ad appena il 10% del Pil, mentre l'Italia viaggia intorno al 123%. Per la finanza non conta più nulla lo sviluppo di un paese, solo la possibilità d'insolvenza. Ma davvero scambiereste un Bot con un titolo del governo di Astana? Con i criteri di Moody's, il petrolio di Trinidad e Tobago, Russia e Messico, e l'austerità selvaggia della Lituania garantirebbero i creditori meglio di Roma. Se cadessimo ancora di un gradino, ci troveremmo in compagnia di Spagna, Azerbaigian, Namibia, Lettonia e Cipro, il prossimo paese ad essere investito dall'euro-crisi. Più che la classifica del rischio, questa è la lista delle opportunità di speculazione. E qui Moody's arriva tardi: l'agenzia di rating cinese Dagong aveva già tolto la «A» all'Italia nel gennaio 2011, retrocedendola da «A meno» a «Bbb».
Lo schema è sperimentato. Si declassano le vittime designate, gli investitori internazionali vendono titoli, i rendimenti si alzano fino a un livello - ieri il 6% sui titoli italiani a dieci anni - tale da far saltare i conti pubblici (quest'anno pagheremo forse 95 miliardi di euro di interessi sul debito), le aspettative si auto-realizzano, insieme ai guadagni speculativi. La politica asseconda la finanza con «fondi salva-stati» e «scudi anti-spread» che premiano gli speculatori e puniscono le vittime. Il conto lo paga l'economia reale: siamo al 25% di produzione industriale in meno rispetto al 2008, ed è sbottato perfino il capo degli industriali Giorgio Squinzi. Un sassolino in quest'ingranaggio è venuto ieri dalla procura di Trani. I vertici di Moody's sono stati messi sotto inchiesta per aver manipolato il mercato con un rapporto sui rischi bancari del maggio 2010 che portò a un crollo di Borsa delle banche italiane.
Per la finanza l'estate è da sempre la stagione più avventurosa. Servirebbe una politica capace di fermare gli avventurieri, ma partiti e governi - in Italia e in Europa - sono disposti a sacrificare le persone sull'altare del rating.
In questo enorme vuoto politico, che parta qualche inchiesta giudiziaria è un piccolo segnale. Ma quello che servirebbe è convocare un Tribunale internazionale contro i banchieri. Come quello sui crimini della guerra in Vietnam.
Zero dubbi, zero ripensamenti. Chi ce li ha se li scordi. Si va avanti, lo spettacolo dell'alta velocità deve continuare. Così è per il governo italiano. Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ne è certo: non c'è nessuna ipotesi di modifica da parte della Francia nella realizzazione della Torino-Lione.
«Ho parlato con il ministro dei Trasporti Frédéric Cuvillier e mi ha confermato l'importanza del progetto, che è totalmente confermato da parte nostra e dai francesi. Eventuali dubbi - ha poi spiegato il ministro parlando dei francesi - riguardano solo i progetti non ancora definiti, mentre quello della Torino-Lione è definito e avviato, sancito da accordi internazionali tra i due Paesi».
Il giorno dopo le indiscrezioni, riportate da Le Figaro, sull'intenzione di Parigi di riesaminare ed eventualmente rinunciare a diverse tratte ad alta velocità, l'esecutivo italiano prova a mettere una toppa alle perplessità e lo fa in modo deciso. La Francia conferma l'importanza del progetto: «La Tav - sottolinea un portavoce del ministero francese dei Trasporti - si farà», ma, vista la crisi economica, «è necessario stilare un nuovo accordo tra Roma e Parigi che tenga conto dei finanziamenti disponibili a livello europeo». Ecco, però, palesarsi una nuova variabile nel solco delle ostentate certezze. Da Bruxelles, il commissario europeo ai trasporti Siim Kallas frena sulla richiesta: «L'opera è principalmente un progetto franco-italiano e i fondi devono arrivare soprattutto da Italia e Francia, il ruolo della Commissione europea può essere modesto. Non possiamo distribuire soldi che non abbiamo». Le incertezze dunque permangono.
La recente riflessione francese sull'utilità del Tav (costi e strategie) è stata ovviamente ben accolta in Val di Susa. «Sono gli stessi argomenti che noi sosteniamo da anni», ha detto Guido Fissore, consigliere comunale a Villar Focchiardo, uno dei 46 indagati per gli scontri della scorsa estate. Per Ezio Locatelli, segretario Prc Torino, «l'ostinazione del governo Monti è segno di ottusità e subalternità al blocco politico-affaristico dell'alta velocità».
E mentre continua l'udienza preliminare, gli indagati denunciano un «accanimento punitivo» nei confronti di tre di loro, ancora in carcere. Giorgio Rossetto ha, infine, lanciato un appello perché si faccia chiarezza su cosa è accaduto a un coindagato, Matteo Schiaretti, 32 anni di Parma, scomparso ad aprile dopo aver lasciato un biglietto in cui annunciava la volontà di togliersi la vita.
La chiusura di Cinecittà e la trasformazione degli storici studi nell’ennesima speculazione fondiaria forniscono la migliore chiave interpretativa del profondo tunnel in cui è piombata l’Italia. Il primo elemento riguarda il disvelarsi della nefandezza dell’ideologia dellaprivatizzazionea tutti i costi, che ha dominato la cultura di questi due ultimi decenni. Non che non ci fosse il bisogno di dismettere pezzi di attività che non attengono a una moderna concezione dello Stato. Il problema è che in questo caso, come in quello della Telecom, delle Autostrade, dell’Alitalia e tanti altri ancora, la privatizzazione è servita per creare un monopolio privat o per lanciare nuovi“capitani coraggiosi” che si sarebbero poi rivelati come modesti speculatori. Nel 1997 la proprietà di Cinecittà passa a una holding guidata daLuigi Abete, famiglia di imprenditori romani con grandi presenze nel sistema creditizio. Non si fanno investimenti e i gloriosi studi cinematografici declinano verso un inevitabile fallimento.
E qui arriva la secondo pilastro su cui questa irresponsabile classe dirigente ha pensato e pena di trovare la base per il futuro italiano: laspeculazione fondiaria. Un futuro dal cuore antico se si pensa che la storia dell’Italia unita – a iniziare dallo scandalo della Banca Romana del 1887-88 – è stato caratterizzato da ignobili speculazioni e scempi del territorio. I due edifici gemelli di piazza Esedra a Roma, ad esempio, versavano proprio negli stessi anni della privatizzazione di Cinecittà in condizioni di degrado. Il maggior industriale alberghiero italiano, Boscolo, si candida per trasformarne uno in un albergo di prestigio ma pretende un regalo in termini speculativi: aumentare l’altezza dell’edificio di un piano per costruirvi piscina e spazi comuni. L’amministrazione comunale guidata daFrancesco Rutelliaccolse entusiasticamente la proposta e così la prima piazza della Roma piemontese che ebbe vita da un concorso internazionale vinto dall’architetto Koch nel 1888 è stata sfregiata per sempre.
Si perdonobellezza e memoriain cambio di modesti risultati. Come a Cinecittà, dove un’attività di oltre settanta anni di produzione aveva creato una rete importante di piccole aziende specializzate, di tecnici di grande bravura e professionalità; di maestranze in grado di dare soluzione alle richieste dei più grandi registi del mondo. Questa straordinaria cultura del lavoro e della qualità delle risorse umane viene cancellata per creare l’ennesima (Roma ha otre 100 mila posti letto in alberghi) struttura ricettiva in cui lavoreranno al gradino più basso della specializzazione, addetti alle pulizie e inservienti.La ricchezza dei saperi e dei mestieri sacrificata alla speculazione. E qui si apre l’ultimo capitolo dell’incapacità dellaclasse dirigenteitaliana a delineare un futuro possibile. La monocultura del mattone ha funzionato per oltre un secolo, ma oggi non ha più alcuna possibilità. Gli operatori più avveduti e le ricerche di settore più autorevoli ci dicono che il numero degli alloggi invenduti in ogni parte d’Italia rischia di creare unabolla immobiliarecome quella che ha travolto l’economia spagnola e che sta sfiorando persino la solida Olanda. A Roma le stime più prudenti parlano di centomila alloggi invenduti, ma basta girare per l’intero paese per vedere una selva di alloggi vuoti, di capannoni abbandonati e di cartelli con la scritta “vendesi”.
Ma se esiste questa situazione di squilibrio di mercato, perché i dirigenti di Cinecittà o delle tante operazioni speculative che punteggiano il paese danno vita a nuove iniziative edilizie? Se non c’è mercatonon si vende: quindi il cemento si dovrebbe fermare. Invece non si ferma: la risposta sta nella condizioni strutturali. Le leve dell’economia urbana sono nelle mani delle grandi istituti di credito che negli anni scorsi si sono esposti oltre misura nel finanziare la comoda speculazione edilizia. Devono oggi rientrare a tutti i costi delle loro esposizioni: ecco il motivo del progetto Cinecittà o dellascandalosalegge sugli “stadi” approvata ieri alla Camera dei Deputati che consente alle società di calcio, indebitate fino al collo con le banche, di costruire in deroga rispetto a qualsiasi regola urbanistica, alberghi, centri commerciali e quant’altro. Come a Cinecittà. Nella guerra senza quartiere che caratterizza questa convulsa fase dicrisi economicae finanziaria ciascuno cerca di scamparla o di ridurre le perdite. Se si perde la storia produttiva, se si cancella una città intera o un’economia intera non interessa più. Lo sguardo di quella che fu classe dirigente si ferma al breve periodo, a speculazioni che denunciano soltanto un tragico vuoto di prospettive.
La gestazione è stata lunga, e non poteva essere altrimenti. Passano gli anni ma in Sardegna il piatto forte resta sempre il Piano paesaggistico regionale e la sua revisione. Ingredienti: ambiente e cemento. Attorno è battaglia, politica ed economica, tra chi teme la speculazione edilizia lungo le coste e nelle campagne e chi da sempre ha contestato lo strumento voluto dalla giunta dall’ex governatore Renato Soru nel 2006 perché troppo restrittivo. Qualche giorno fa la giunta di Ugo Cappellacci (Pdl) ha dato l’ok alle linee guida, e domani verranno illustrate davanti al Consiglio regionale riunito in seduta straordinaria. I tempi sono maturi: il nuovo Piano paesaggistico era una delle voci più importanti anche in campagna elettorale e già in autunno era stata diffusa una bozza che allentava i vincoli. La discussione di domani, non obbligata visto che l’atto è amministrativo, si annuncia già incandescente, con una maggioranza incrinata. Ma in ogni caso le decisioni definitive spetteranno alla giunta.
I punti fondamentali.
Nelle linee guida volute dalla giunta Cappellacci cambia l’impianto: se finora la costa sarda è considerata “bene paesaggistico” nel suo complesso, secondo le linee guida potrebbe diventare “sistema ambientale ad alta intensità di tutela”. Da garantire con alcune misure di salvaguardia, caso per caso. Quindi meno vincoli globali ma “regole più precise e quindi più trasparenti”, nonché “la maggiore qualità della pianificazione e la massima cura delle peculiarità paesaggistico‐ambientali”, si legge nel documento.
Tre le parti fondamentali: la prima illustra il Ppr attuale, la seconda fa riferimento al cosiddetto Piano casa 1 (all’articolo 11, legge regionale 4 del 2009) che prevede la revisione e nell’ultima, appunto i principi. Per le campagne, in virtù anche dell’ultimo Piano Casa (legge regionale 21, n. 11) si prevede una sorta di ricognizione dell’esistente “in contrasto con il frazionamento” che, tradotto, potrebbe significare sanatoria di chi ha costruito nelle campagne. Questi gli intenti del Ppr: “Analizza e regola il fenomeno dell’edificato urbano diffuso, costituito da edifici residenziali, localizzati nelle aree agricole limitrofe alle espansioni recenti dei centri maggiori”. Aree in cui spesso si è costruito senza regole, abusivamente, attorno all’hinterland di Cagliari, ma anche sulla costa orientale, in Ogliastra, anche a pochi passi dal mare. E quest’estate si è assistito alle prime demolizioni delle case fantasma, secondo quanto disposto dalla Procura di Lanusei.
Altro nodo fondamentale è la mediazione tra “la tutela delle risorse primarie del territorio e dell’ambiente con le esigenze socio‐economiche della comunità, all’interno delle strategie di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale”. E si fa riferimento sia ai già contestati Piani casa, sia alla legge sul golf (n. 19, 2011) che prevedeva 20 nuovi campi in tutta l’Isola con altrettanti alberghi e strutture ricettive, soprattutto vicino all’agognata costa. Legge impugnata dal governo su cui dovrà esprimersi la Corte costituzionale. In mezzo c’era stata addirittura una campagna pubblicitaria istituzionale della Regione sui due principali quotidiani sardi che spiegava, con linguaggio e metodo messo in discussione anche dall’Ordine dei giornalisti, i motivi delle modifiche. Come la “libertà di chiudere una veranda” o “aprire una stanza in più”. Un uso dei soldi pubblici considerato “partigiano” dai consiglieri di opposizione.
Le reazioni. Alcuni sono già sul piede di guerra. Per Luciano Uras, capogruppo Sel in consiglio regionale, le linee guida ricevute in questi giorni “legittimano quanto è stato prodotto in questi anni, i vari Piani casa e la legge sul golf”. Non solo, i tempi potrebbero allungarsi ancora per anni e la Sardegna, così, sarebbe di nuovo di fronte a un Far West, senza regole. Si riferisce ai vari Piani urbanistici comunali, quasi tutti non in linea con il Ppr, materia calda in tanti centri, sul mare ma non solo, su cui si concentrano gli interessi e per cui sono cadute alcune giunte (Alghero). Anche il vicesegretario regionale dell’Italia dei valori, Salvatore Lai, condanna le nuove linee guida e teme una strategia di corto respiro: “In Sardegna si è costruito già troppo – afferma – e adesso non è possibile né allentare i vincoli che nella passata legislatura hanno impedito l’assalto alle coste, né concedere le nostra campagne alla speculazione edilizia come vorrebbe fare il centrodestra”.
In una lunga intervista alla Nuova Sardegna scende di nuovo in campo il principale sponsor del testo in vigore, Renato Soru, ora consigliere Pd. Difende il suo Ppr e parla anche lui di “nuovo assalto alle coste” e di “cementificazione delle campagne”. E difende lo strumento delle deroghe, sotto accusa da parte della maggioranza di centrodestra perché ha dato il via libera ad alcuni interventi con volumetrie ingombranti. Altri del Pd chiedono comunque una nuova legge urbanistica. Ognuno al posto di combattimento, insomma.
Dall’altra parte Matteo Sanna (Fli), presidente della commissione Urbanistica, storce il naso: “Sono accuse ridicole – dice al telefono – nel documento non si parla né di metri quadri, né di metri cubi. C’è solo la filosofia. Il vecchio piano non è tutto da buttare, e non sarà stravolto. Saranno corrette alcune storture. I comuni devono diventare protagonisti e poi bisogna essere coraggiosi: non si può dire che una cosa è bella o brutta perché è a 300 metri dal mare o a due chilometri”. Nessuna distruzione, assicura il consigliere dell’Mpa, Franco Cuccureddu, ex sindaco di Castelsardo: “ma attenzione all’esistente e a una visione d’insieme e soprattutto ai beni identitari”. Intanto la Cna Sardegna con un certo tempismo diffonde i dati del settimo anno di crisi per l’edilizia isolana, che registra un meno 36 per cento.
Avevo ascoltato il presidente Cappellacci al convegno Finestre sul paesaggio indetto dal Consiglio superiore della Magistratura nell’Aula magna del Tribunale di Cagliari. Mi era sembrato quasi eccessivo il suo caloroso apprezzamento del PPR guidato da Renato Soru. Mi è sembrato il segno di un deciso cambiamento di orientamento: aveva abbandonato la demagogia becera delle pagine a pagamento pubblicate (a spese del contribuente) sui giornali dell’Isola, o perché improvvisamente illuminato dallo Spirito Santo oppure perchè convinto da una più attenta riflessione sul consenso registrato, in quell’aula e nel mondo, a elogio e difesa del piano. Ingenuità mia, ovviamente. Ma credo che sarà utile, a mia discolpa, pubblicare su eddyburg le poche (ma calorosissime) frasi che il Presidente pronunciò in quella sede. A pensarci adesso, mi viene il dubbio che ad esprimere quelle parole lo abbia spinto , più dei moventi che gli attribuivo, la severità dell’Aula; ma non vorrei trascolorare dall’ingenuità alla malignità.
Mi esprimerò sul documento in discussione quando avrò potuto esaminarlo con attenzione. Ma quello che i comunicati e i giornali hanno rivelato è sufficiente a chiarire il cambiamento generale di rotta (rispetto al PPR vigente e alla sua matrice culturale) nella visione della Sardegna, del suo futuro, e del ruolo che la tutela del paesaggio può svolgere. Come ha scritto Monia Melis su il Fatto quotidiano « nodo fondamentale è la mediazione tra “la tutela delle risorse primarie del territorio e dell’ambiente con le esigenze socio‐economiche della comunità, all’interno delle strategie di sviluppo territoriale e sostenibilità ambientale”. A chi parla di mediazioni tra oggetti diversi bisogna ricordare sempre che il risultato della mediazione dipende dalla diversa forza e consistenza dei due oggetti. Ed è indubbio che nella Sardegna e nel mondo di oggi, (e in particolare nella compagine di cui Cappellacci è espressione) la forza degli interessi economici basati sull’appropriazione d’ogni possibile bene riducibile a merce e suscettibile di arricchirne oggi il possessore è ben maggiore della forza degli interessi volti a riconoscere e tutelare il valore delle qualità che natura e storia hanno costruito, che è espressa dal paesaggio, e costituiscono la base di ogni possibile futuro
Italia Nostra non si unisce al coro di quanti ritengono che la revisione-cancellazione del PPR rappresenterà il motore dello sviluppo dell’economia sarda. Ritiene anzi che il processo di cancellazione della pianificazione paesaggistica regionale metterà ancora più in crisi la traballante economia della Sardegna.
Assistiamo all’ennesimo tentativo di “revisionare” il PPR giustificando tale scelta con slogan privi di senso e di fondamento economico. Continuare ad affermare che costruire inutili case lungo le coste dell’isola potrà rilanciare l’economia, significa non aver capito che proprio la bolla immobiliare è tra le principali cause di questa crisi economica. La distruzione delle coste, funzionale agli interessi di qualche imprenditore privo di scrupoli, darà il colpo di grazia alla stessa industria turistica della Sardegna.
Il Consiglio Regionale si accinge in questi giorni a derubricare la fascia costiera da bene paesaggistico a terra di conquista, trasformando le aree agricole in terreni marginali al servizio della nuova speculazione immobiliare. La “revisione” del vincolo paesaggistico presente sui colli di Tuvixeddu e Tuvumannu, inoltre, renderà nuovamente edificabili le aree attualmente tutelate.
Il Ministero dei Beni Culturali, parte fondamentale del procedimento, non può e non deve condividere l’annientamento delle misure di protezione esistenti.
Per rappresentare le “ragioni del paesaggio”, forse dimenticate da quanti si apprestano a demolire il più avanzato progetto di pianificazione paesaggistica realizzato in Italia, l’Associazione ha reiterato la richiesta, presentata più volte all’Assessorato Regionale all’Urbanistica e agli organi periferici del Ministero dei BBCC, di partecipazione alle riunioni di valutazione tecnica indette ai sensi degli articoli 143 e 156 del Codice Urbani e dell’articolo 49 delle norme tecniche di attuazione del PPR.
Italia Nostra ha, infine, ricordato che il mancato coinvolgimento dell’Associazione, in assenza di motivato diniego, rappresenta motivo di illegittimità degli atti adottati dalla Regione e comporta un concreto rischio di danno erariale, considerato che per il procedimento di revisione del PPR sono stati stanziati ben 14 milioni di euro.
Cagliari, 12 luglio 2012
Sono un bene comune, ma costituiscono un affare privato. Anche se appartengono giuridicamente allo Stato, e quindi a tutti i cittadini, le spiagge italiane vengono sfruttate – sul piano ambientale ed economico – da 30 mila aziende titolari delle concessioni demaniali con un esercito di 600 mila operatori, compresi quelli dell’indotto. Dal 2001 a oggi, gli stabilimenti sono più che raddoppiati, passando da 5.368 a circa 12 mila, fino a occupare 900 chilometri di costa: un quarto di quella adatta alla balneazione, su un totale di ottomila chilometri. In pratica, uno ogni 350 metri, per un’estensione complessiva che arriva a 18 milioni di metri quadrati. A fronte di oneri concessori nell’ordine dei 130 milioni di euro all’anno a favore dell’erario, il fatturato di questa “industria delle spiagge” varia dai 2,5 miliardi dichiarati dai gestori (i contribuenti italiani più “poveri”, con una media di 13.600 euro a testa) ad almeno uno di più stimato dalla Guardia di Finanza, per raggiungere i 6-8 ipotizzati da alcuni esponenti ambientalisti.
È contro lo sfruttamento intensivo di questo patrimonio pubblico che il Wwf diffonderà oggi un nuovo dossier, presso la Riserva naturale delle Cesine, in Puglia, sulla costa salentina. Contemporaneamente, inizieranno i lavori di bonifica e rimozione dei rifiuti stratificati da anni lungo l’arenile, al confine dell’area. In poche settimane, la spiaggia tornerà così al suo originario splendore. «Questa è una giornata importante che ci permette di ringraziare tutti gli italiani, gli amici e i partner che hanno contribuito alla campagna “Un mare di Oasi per te”, presentando il risultato concreto della loro partecipazione», dice Gaetano Benedetto, direttore delle Politiche ambientali dell’associazione.
E ora il Wwf chiede di condividere con la Regione e gli altri enti locali un progetto di manutenzione costante, per garantire la bellezza e la vivibilità della spiaggia. Un fenomeno particolarmente allarmante riguarda la progressiva scomparsa delle dune di sabbia, “costruite” nel tempo dall’azione del vento e invase ormai dalle file di ombrelloni e sedie a sdraio, dai chioschi, dai campetti di calcio o beach-volley. Nell’ultimo mezzo secolo, si sono ridotte da una lunghezza complessiva di 1.200 chilometri a circa 700. Ma quelle ancora “attive”, in grado cioè di svolgere la loro funzione naturale di barriera protettiva, coprono appena 140 chilometri.
In un periplo ideale della Penisola, il Wwf presenta un check-up generale delle spiagge nelle quindici regioni costiere italiane. L’associazione ambientalista ha accertato così che nella maggior parte dei casi non è stata stabilita neppure una percentuale minima di arenile da riservare alla libera balneazione. Anche la “fascia protetta” di cinque metri dalla battigia molto spesso è più affollata di una strada dello shopping e diventa quindi impraticabile. La Regione più virtuosa risulta la Puglia, con una quota di spiagge libere pari al 60 per cento del litorale, comprese però le foci dei fiumi e le infrastrutture, come i porti. Altrove, si aggira intorno al 20-25 per cento. Ma in genere la competenza viene delegata ai Comuni e ognuno si regola come crede. Qui manca il Piano paesaggistico regionale, lì non esistono norme, né programmi specifici per la tutela delle coste. In questo bailamme, c’è perfino chi propone in Parlamento di estendere le concessioni demaniali da 20 anni a 50, con il rischio di favorire così la trasformazione di strutture stagionali in impianti fissi o addirittura in edifici, stimolando un’ulteriore cementificazione del litorale. Eppure, dal 2006 una direttiva comunitaria sulla circolazione dei servizi - che prende nome dal politico ed economista olandese Frederik Bolkestein – impone la modifica di questi contratti con lo Stato, in base alle regole della concorrenza. Evidentemente, una spiaggia assegnata in concessione a un privato per mezzo secolo non sarà mai più pubblica né tantomeno libera.
Pare (lo sostiene Le Figaro), che il governo Hollande abbia scoperto che non ci siano i soldi per tutte le grandi opere avviate da Sarkozy e che occorra stabilire delle priorità. Tra i progetti in forse c’è anche la linea ferrovia-ria Torino-Lione, malamente soprannominata Tav. Apriti cielo! Ma non era un progetto irrinunciabile, da cui non si poteva tornare indietro, e che la Francia tutta voleva realizzare? Anche Hollande si era espresso a favore durante la campagna elettorale. Ma poi, forse, un qualche realismo ha prevalso, anche indipendentemente dalla crisi. Molti studiosi francesi indipendenti avevano infatti già espresso forti dubbi, esattamente come in Italia; e anche lì altrettanto inascoltati, dato il peso degli interessi intorno a queste “fontane di soldi pubblici”.
É un bene per l’Italia? Non sappiamo ancora, né sappiamo se la Torino-Lione uscirà dall’elenco o no. Ma sicuramente è un bene che si evidenzi l’assoluta necessità di determinare una gerarchia tra progetti. C’è da sperare che questa gerarchia sia determinata sulla base di valutazioni economiche e finanziarie trasparenti, democraticamente conoscibili e discutibili. Questo è il nocciolo della questione, che non vuol dire che alla fine la scelta non debba essere politica, anzi. Ma esplicita sì, si tratta di un prerequisito irrinunciabile, quando ci sono in gioco tantissimi soldi pubblici e lobby molto potenti.
In particolare, il quadro macroeconomico (per entrambi i paesi) richiede che ogni euro di spesa pubblica sia indirizzato a creare la massima occupazione possibile, il più rapidamente possibile. Dobbiamo rilanciare la domanda interna e farlo rapidamente. I lavoratori spendono subito, non possono accumulare. Le grandi opere hanno caratteristiche opposte: per ogni euro, creano poca occupazione rispetto alle piccole opere e alle manutenzioni, e la creano nel lungo periodo. Poi il settore ferroviario richiede molti più soldi pubblici di quello stradale, nonostante le sue benemerenze ambientali (che spesso vengono sovrastimate, e non certo in modo innocente). Speriamo che il governo Monti faccia tesoro di questa evoluzione francese, e si decida a fare un po’ di analisi economiche indipendenti e comparative, cosa mai fatta fin’ora da nessun governo.
Ieri i giornali di informazione hanno enfatizzato oltre i limiti del ridicolo il «piano città» del ministro Passera e del viceministro Ciaccia. Di fronte alle carenze strutturali e allo stato di abbandono delle nostre città che non riescono a competere con le città dell'Europa, in tutti i titoli si leggeva che erano stanziati niente meno che 2,1 miliardi di euro. Lavoce.info - sempre puntuale e preziosa - ha dimostrato che i 224 milioni, gli unici veri della partita perché il resto sono anticipazioni della Cassa depositi e prestiti, non sono neppure tutti nuovi perché verranno dai tagli di interventi di edilizia già programmati. Ma fermiamoci sulla cifra stanziata. Sono 20 le città con popolazione superiore o vicina ai duecento mila abitanti. A ciascuna di esse toccherà poco più di un milione di euro di finanziamento e circa 80 milioni di prestito. Cifre ridicole come si vede, indegne di un paese serio. E invece di sottolineare la sua miope miseria, quel finanziamento è stato presentato come il pilastro della ripresa, con le solite cifre sparate a casaccio: addirittura 100 mila nuovi posti di lavoro!
A questo punto, pare di sentirlo, scatta puntuale il refrain: che volete, non ci sono risorse. Il ministro Passera ha rifinanziato appena due settimane fa l'ennesimo piano delle grandi opere inutili con 100 miliardi destinati a tacitare le voraci grandi imprese che assediano il governo. Il vice ministro Ciaccia si era peraltro occupato di esse con un altro ruolo, quello di amministratore delegato della banca BIIS del gruppo San Paolo Intesa.
Ricapitoliamo, dunque. Nello stesso mese di giugno 100 miliardi sono stati assicurati alle lobby del cemento e dell'asfalto. Al sistema urbano nel suo complesso andranno 2 miliardi fatti in gran parte di prestiti! Ha ragione su queste colonne Sandro Medici a denunciare (ieri, 26 giugno) che manca ancora l'assunzione della centralità del tema della riqualificazione urbana. Questo governo, al pari dei precedenti, non comprende che soltanto finanziando il rinnovo urbano e non la crescita, la creazione di sistemi di trasporto non inquinanti e non ulteriore asfalto, la messa in sicurezza dei servizi, delle abitazioni e dei corsi d'acqua, si potranno creare le premesse per una nuova fase economica che privilegia imprese che adottano nuove tecnologie.
E anche in termini di efficienza della spesa deve essere ricordato che nel 2005 l'Associazione nazionale dei Costruttori edili aveva calcolato che il 53% dei progetti di grandi opere avevano trovato difficoltà operative ed erano stati costretti a varianti progettuali. Ma di questo non si parla: la palla al piede dello sviluppo sono i vincoli, i sindacati e i lavoratori, mica chi sbaglia progetti lautamente pagati.
Il finto piano città svela ancora una volta che il governo dei «tecnici» si limita ad assicurare ai poteri forti un altro fiume di denaro pubblico senza avere una proposta convincente per il sistema paese. Un governo prigioniero dei legami che alcuni dei suoi uomini avevano stretto in anni passati e non consentono oggettivamente di cambiare musica. Ciaccia è stato anche presidente di Arcus, la società nata dal ministero dell'Economia per finanziare i beni culturali. Arcus era assurta agli onori della cronaca per il caso del palazzo di Propaganda Fide restaurato con i nostri soldi per la felicità della cricca. Era ministro Lunardi, c'era il cardinale Sepe e De Lise era uno degli esponenti di quel gruppo di potere. Oggi non c'è più Lunardi, ma De Lise resta nel ruolo di arbitro delle infrastrutture generosamente finanziate da Passera-Ciaccia.
Il presidente Monti ha affermato che deve assolutamente portare la cancellazione dei diritti dei lavoratori nel prossimo vertice internazionale. Con qualche sforzo potrebbe portare anche il segnale di una rigorosa pulizia della macchina statale di cui c'è immenso bisogno. Ma non lo farà. Aspettiamo impazienti che richiami con gli onori che meritano Balducci e Bertolaso.
Non solo Pompei. E non solo Sud. La crisi dei beni culturali nel nostro Paese va oltre i nomi eclatanti e le aree geografiche. Affonda i grandi siti archeologici e le città d’arte . Colpisce al cuore la nostra cultura. Che si disgrega, giorno dopo giorno, come le rovine di Pompei. L'elenco delle cose che non vanno è lungo: musei chiusi, aree archeologiche segnate dai crolli, opere d'arte colpite dall'incuria, progetti avviati e mai finiti. Difficile sperare in un'inversione di tendenza in un'Italia che destina al settore 1,4 miliardi, lo 0,19 per cento del Pil. Meno di un terzo degli altri paesi europei.
L'allarme è generale ed arrivato persino a Torino, ex città industriale che ha puntato molto sulla riconversione nella cultura. Il 18 marzo scorso, alla chiusura della Galleria Sabauda destinata alla Manica nuova di Palazzo reale, «caldo e umidità soffocanti erano all'origine degli scollamenti che tutti abbiamo visto nelle pezzette messe in fretta sulle tele di una collezione in rovina» racconta uno storico dell'arte del calibro di Enrico Castelnuovo. Sotto accusa finisce il disegno di lasciare le vecchie sale al Museo egizio, secondo alcuni dettato dalla fretta degli sponsor e dalla subalternità dello Stato. La soprintendente Edith Gabrielli al telefono nega tutto, il direttore regionale, Mario Turetta minimizza ma non nega: «Il problema è durato un giorno e mezzo, non ha provocato danni ed è stato subito risolto».
A volte, poi, la cattiva tutela è quasi peggio della natura che torna a essere matrigna . Il terremoto in Emilia danneggia pesantemente chiese e campanili. Che poi vengono rasi al suolo per ragioni di sicurezza. Secondo gli esperti , però, con troppa precipitazione. A Poggio Renatico e Buonacompra la campana adesso tace. Sparite anche le ciminiere di Bondeno e del Molino Parisio a Bologna. «Dopo il terremoto nel reggiano del 1996, i campanili di Correggio, Villa Sesso, Bagno in Piano, simili a quello di Buonacompra, vennero messi in sicurezza e salvati. Lo smantellamento della tutela sta provocando un olocausto del patrimonio: il ministero non c'è più, al suo posto c'è la Protezione civile» spiegano Elio Garzillo e Pier Luigi Cervellati di Italia Nostra.
Quando non c'è il terremoto basta l'uomo (e le poche risorse a disposizione) a fare danni. A Venezia, tanto per dire, la Galleria dell’Accademia è aperta. Tutto bene? Insomma, perché Ca’ d’Oro e Palazzo Grimani, sono a orario dimezzato per mancanza di personale. Senza dimenticare l’acqua che, quando piove, lambisce i dipinti di Brera a Milano. O i Grandi Uffizi a Firenze, il cantiere infinito in cui si è esercitata la «cricca» P4 dei vari Balducci e Anemone.
A Roma a soffrire particolarmente è l'area archeologica centrale. Lo scorso autunno le piogge hanno fatto esondare le fogne che finiscono abusivamente nell’antichissima Cloaca Massima , finche hanno inondato il Foro. Millenni di storia tra i liquami. Al Palatino, d'altro canto, rimangono aree tutte da investigare e altre che possono essere spazzate via da una frana da un momento all'altro. «I restauri richiederebbero molto di più dei 30 milioni arrivati» spiega Maria Grazia Filetici, responsabile di opere di consolidamento ispirate alle tecnologie antiche e autrice di un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per la dignità del lavoro nel settore (a cominciare dagli stipendi) rimasto inascoltato.
A volte, anche se raramente, il problema non sono le risorse: «È la carenza di tecnici che impedisce la capacità progettuale. Si rischia di perdere finanziamenti, di mandare avanti progetti superati o di demotivare i privati» racconta Giuseppe Morganti che scava nella Domus Tiberiana, sul Palatino . In effetti l'area è piena di cantieri avviati e mai finiti, di zone restaurate di nuovo a rischio per mancanza di manutenzione, senza parlare del degrado delle uccelliere Farnese. Altro punto dolente è l'Archivio centrale dello Stato: praticamente la memoria della nazione. Una mostra di qualche tempo fa ha «svelato» depositi semi abbandonati, con intere zone funestate dalle infiltrazioni di acqua e con molti documenti in deperimento. L'Archivio è in affitto dall'Ente Eur, proprietario dello stabile: nel 2012 la spesa sarà di 7 milioni di euro.
Si scende al Sud. Precisamente nell'Anfiteatro Flavio di Pozzuoli. Per terra alcuni blocchetti caduti dalla volta. Nulla di irreparabile, certo. Ma un nuovo segno di uno stillicidio che si consuma quasi tutti i giorni. E se i sotterranei della cavea sono in buono stato (grazie ai fondi Ue), il resto della struttura versa in una condizione disastrosa con le volte puntellate alla meno peggio. Un piccolo museo allestito nell’ambulacro interno è una rovina nella rovina, con reperti coperti di polvere, animali morti e pannelli deteriorati. Se si aggiunge che il giorno della visita il sito è chiuso per mancanza di custodi con scolaresche venute per niente che protestano fuori dal cancello , il quadro è completo. Stessa sorte toccata al Rione Terra, il centro storico di Pozzuoli svuotato e scavato, che doveva diventare un polo turistico e che invece è una città spettrale.
«Le risorse sono inadeguate persino per le emergenze», spiega la soprintendente archeologica di Napoli e Pompei Teresa Cinquantaquattro. «Con venti milioni l'anno, la metà in spese morte, cosa possiamo fare?». Lasciando fuori Pompei, solo l'Anfiteatro di Pozzuoli richiederebbe sei milioni di euro. Un'altra decina per Cuma, «mangiata» dalle acque marine. Senza parlare del Castello di Baia, consacrato nel 2008 "il più bel nuovo museo d'Italia" in attesa di essere completato, con il maschio incastonato nella villa di Giulio Cesare, che cade in rovina. La direttrice Paola Miniero, 1700 euro al mese di stipendio per un lavoro con responsabilità civili e penali, spiega: «Per rimanere aperti abbiamo proposto ai restauratori attività di “monitoraggio conservativo”. In pratica se un custode va in pensione, chiudiamo». A qualche chilometro, nella famosa Piscina Mirabilis, lavora, per uno "stipendio" di 360 euro netti l'anno, l’ottantenne signora Giovanna. Il giorno della nostra visita, però, è chiuso. E lei, alle prese con una dolorosa flebite, urla da lontano verso chi la disturba.
L'emergenza di Napoli città , invece, è quella dei beni artistici. Il soprintendente Fabrizio Vona racconta che può contare solo su 25 storici dell’arte che, assicura, «lavorano giorno e notte». Come Serena Mormone, per esempio, direttore del Gabinetto dei disegni e delle stampe, curatore del fondo grafico dell’Accademia, responsabile dei depositi esterni e di più di una chiesa, che al museo di Capodimonte gestisce le collezioni di Ottocento e Novecento. Vona ci racconta delle finestre rattoppate e delle perdite d’acqua quando piove a Villa Floridiana, che ospita una collezione di ceramiche tra le più belle del mondo. Poi ci mostra anche i sotterranei gotici della Certosa di San Martino, museo dimenticato della scultura napoletana dove le opere giacciono in mezzo a erbacce, calcinacci e umidità. Senza contare alcune delle duecento chiese del centro. Troppe per un bilancio di 3,7 milioni l'anno, che se ne vanno per la metà in bollette. Basta entrare nel Sacro Tempio della Scorziata per rendersi conto della devastazione: spazzatura, topi e puzzo di fogna. Più che sacro, profano.
«Il Mibac sta interrompendo il passaggio generazionale delle conoscenze in un blocco del turnover che dal 2001 al 2011 ha visto il passaggio da 25mila a 18mila dipendenti. Oggi rimangono troppi amministrativi e non abbastanza tecnici. D'altronde, una volta, il ministero lavorava con le soprintendenze, non contro» conclude con amarezza Vona. Il viaggio finisce a Napoli ma potrebbe concludersi a Palermo o a Reggio Calabria dove il museo dei 150 anni di un'Italia in crisi aspetta di essere aperto. E i bronzi di Riace sono sottratti da tre anni alla vista del pubblico.
«Mi vendo!», la canzone di Renato Zero sembra ormai compendiare la triste sorte del MAXXI, il museo, ma forse l’ex Museo delle arti e dell’architettura del XXI secolo di Roma, in via di trasformazione in una sorta d'appendice di un polo del lusso, nascente sotto gli auspici di Bernard Arnault e del gruppo Fendi e Vuitton. Ma sì, la meravigliosa struttura progettata da Zaha Hadid sarebbe destinata a diventare il solito polo multifunzione, in sostanza un pot-pourri all'insegna della commercializzazione».
Faccio in fretta un altro inventario, smonto la baracca e via» recita la canzone di Zero e infatti l'idea è presto detta: al posto dei due edifici ancora da realizzare dell'originario progetto, ecco un bel palazzotto del lusso ad usum Fendi - Vuitton, costruito a spese di Arnault (25 milioni di euro), che lo avrebbe suo per 40 anni al prezzo di circa 500 mila euro l'anno. Dunque, via la biblioteca archivio e via il museo con archivi dell'architettura, largo alla moda, al lusso, all'eccesso: «Io vendo desideri e speranze in confezione spray» cantava Zero. Il progetto nasce dalla direzione di Pio Baldi, prima che la struttura fosse commissariata, ed è perseguito con convinzione dall'attuale commissario Antonia Pasqua Recchia. che al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali riveste anche il ruolo apicale di segretario generale. Chiaro l'intento: racimolare soldi privati per il Maxxi, nato come molte altre Fondazioni sotto i peggiori auspici, vale a dire con un solo socio lo Stato - ma a che serve fare un ente privato di proprietà solo pubblica?-, e per di più quando era ministro Bondi e dunque con un finanziamento miserrimo.
Eppure non poche sono le perplessità: innanzi tutto il nascente palazzotto del lusso, il cui progetto preliminare dovrebbe essere di Zaha Hadid, sorgerebbe su un terreno dello Stato, - difficile capire se dell'Agenzia Spaziale Italiana o del Mibac dunque sarebbe un cosiddetto progetto di finanza (project financing) assegnato al miliardario del lusso Arnault senza bandi o concorsi, cosa discutibile da un punto di vista legale. Anche il manufatto poi sarebbe dello Stato e quindi per la costruzione ci dovrebbe essere un altro bando pubblico, con tutto ciò che comporta di aumento dei costi e probabili ricorsi - basti ricordare o costi del Maxxi stesso pressoché triplicati. Lecito chiedersi se alla probabile crescita della spesa dai preventivati 25 milioni farà fronte lo Stato Pantalone o andrà a detrimento del canone di affitto. Per dirla con Zero «Mi vendo, e già! A buon prezzo si sa», perché anche ammesso tutto funzioni, e sarebbe davvero straordinario, in cambio il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali avrebbe una cifra modesta da girare al Maxxi: 500 mila euro a fronte di un fabbisogno che si aggira sui 10 milioni l'anno.
Ma a comandare sono sempre l'appalto, il cemento e i soldi che portano: in altre parole, molti pensano che il recente commissariamento del Maxxi, con tanto di tradimenti interni alla sua direzione, nasca dalla volontà di «controllare. da vicino gare e assegnazioni da parte di vecchie e nuove cricche. E sono cose che capitano quando il marketing si sostituisce alla cultura. Proporrebbe Zero: «Ti vendo, un'altra identità» perché poi la presenza di un vicino potente e, come capita ai potenti, anche arrogante come la moda e il lusso, probabilmente andrà a infiltrare con logiche di commercializzazione un museo come il Maxxi, già penalizzato da penuria economica ma forse anche da scarsità di idee.
E lo dimostra il fatto che per cercare finanziatori non si sia puntato sull'attività del Maxxi, trovando privati disposti a sostenerla, ma sul sempiterno mattone. Stupisce però che il Mibac usi strumenti come il progetto di finanza che funziona, e non sempre. nell'espansione delle città, ma assai meno nella cultura. E la storia del Maxxi è il simbolo di tante altre strutture pubbliche, costruite a caro prezzo con i soldi dei contribuenti, gestite attraverso stratagemmi come le fondazioni con criteri privatistici -che avrebbero dovuto essere la salvezza di queste stesse strutture- e alla fine svendute ai privati: è il momento di ricominciare pensare a musei pubblici con la pretesa che funzionino. Altrimenti: «Mi vendo la mia felicità, ti dò quello che il mondo distratto non ti dà».