Nei corridoi ministeriali, il piano casa della Regione Lazio presentato un anno fa, milioni di metri cubi di cemento, cavallo di battaglia di Renata Polverini, era soprannominato “discesa”. Notavano, gli ispettori del ministero dell’ambiente, una certa predilezione per le nuove piste da sci del Terminillo, per l’ampliamento esponenziale delle metrature del nuovo aeroporto e, più in generale, un’attitudine alla cementificazione selvaggia e alla speculazione edilizia in una prospettiva in cui l’emergenza abitativa risiedeva all’ultimo posto delle priorità. Con la rissa di ieri tra il ministro Ornaghi (già duro sull’ipotesi a dicembre) e la Regione (“inesattezze”) e dopo due distinti pareri del governo sull’incostituzionalità del piano casa legata “alla pianificazione paesaggistica” datati 13 febbraio e 30 aprile 2012 in cui si bocciava duramente il progetto parlando di “escamotage terminologici”, “vizi di fondo legati alla condonabilità degli abusi”, “formulazioni ambigue e disordinate”, si è capito perché. Tre giorni fa, per mano di Luciano Ciocchetti, assessore all’urbanistica, dell’Udc, la giunta ha presentato nottetempo un maxiemendamento al piano capace di provocare la rivolta dei Radicali e l’uscita di Verdi, Pd e Idv e dall’aula. Emendamento che, diceva Ciocchetti, superava i conflitti relativi all’epoca Galan (l’ex titolare del dicastero, che bocciando il piano casa originario aveva minacciato il riscorso alla Corte Costituzionale) e abbracciava in pieno, dopo opportuno confronto, il gradimento di Ornaghi. Tutto falso secondo l’ex rettore della Cattolica, indignato al pari del ministro del turismo Gnudi, furibondi contro il golpe alla amatriciana di Ciocchetti. Un caos che nel pomeriggio dà vita a una quadriglia di dichiarazioni che portano in prima pagina una partita davanti alla quale Polverini e i suoi, in vista delle elezioni, non possono permettersi arretramenti.
Il governo tuona contro il “falso ideologico”, la Regione parla di inesattezze negando (per la prima volta, un inedito) che ci sia bisogno di un parere del Ministero per procedere e gli ultrà della curva, a iniziare da Teodoro Buontempo, azionano la grancassa delle retorica demagogica utile allo spottone: “Con il nuovo piano casa tutelati i diritti di 1.600 famiglie”. Ora con il caso esploso e non più tenuto nei binari della dialettica civile, si attendono altri interventi, a cominciare da quello della Corte dei Conti. Chi ha incontrato Renata Polverini, ieri, la descriveva terrea. Sul Piano, milioni di euro di investimenti, appalti, indotto, centri commerciali (che c’entrano con il Piano casa?) aveva giocato carte per lei decisive. Non si aspettava sbarramenti. Sono arrivati sulla tutela del paesaggio. Il Ministero, salvata Villa Adriana, aveva già mostrato scarsa inclinazione alla sua devastazione. Con buona pace dei tanti palazzinari che a Roma e sul litorale da decenni, mettono le loro mani avide. Verdi e i Radicali si rivolgeranno al tribunale. Non sono gli unici a ritenere insopportabile che gli enti religiosi abbiano ottenuto l’ennesimo privilegio: la possibilità di edificare nei dintorni di chiese e luoghi di culto anche uffici, case e centri commerciali, in deroga al piano regolatore. Concessioni che secondo Radicali e Verdi “toglieranno terreno utile per la costruzione di scuole, asili e presidi sanitari”. Amen.
«Al bando funambolismi filosofici sull’opportunità o meno di verticalizzare Mestre, “teorizzazioni della lentezza” di qualche grande architetto che cerca visibilità e di chi vuole rimuovere la modernità: il Palais Lumière con il suo investimento di 400 milioni di euro, è un’occasione che oggi ce la sogniamo e che non si ripresenterà nei prossimo trent’anni». È il succo di quanto ha sostenuto il sindaco Giorgio Orsoni giovedì sera a Campalto. Quello della torre di Cardin è solo uno dei temi affrontati dal primo cittadino, invitato alla Festa Democratica, con gran parte della Giunta al seguito, per discutere dei nodi centrali che toccano la terraferma, delle opere che stanno procedendo e di quelle al palo, come le torri dell’ex Umberto I. Orsoni non si è sottratto alle domande dei giornalisti di Nuova (Mitia Chiarin), Gazzettino (Francesconi) e Corriere del Veneto (Zorzi). Palais Lumière. Argomento caldo, in epoca di vacche magre. «Vedremo se si farà, se avremo garanzie, se il giocatore ha le carte giuste o bluffa», mette le mani avanti il sindaco. Di una cosa però è certo: «È un’opportunità che viene offerta al territorio e se davvero accadesse, ci sarebbe solo da leccarsi le dita. Ho letto commenti di grandi architetti che difendono solo la categoria o di chi non ha neanche questi titoli e cerca visibilità. Dobbiamo verticalizzare la città per difendere il suolo è stato detto, una volta che si presenta l’occasione non ci filosoferei tanto su, dovevamo pensarci prima se volevamo tutte casette basse. La torre potrebbe essere l’anticipo di una tendenza che prenderà piede, forse il simbolo di tutto il Veneto, teorizzare la lentezza è fuori luogo, se è un salto, ben venga il passo che darà la linea ad altri per accelerare la conduzione della città». Soprattutto perché, le casse sono vuote.
Spending review. E a questo proposito, Orsoni ha ribadito che la situazione non è rosea. «Sarebbe sciocco non preoccuparsi, a maggio sono sorti dei problemi che sono stati risolti, adesso è tutto legato all’esito dei proventi Imu e quando sapremo come verranno operati. Il taglio che il Governo pensa di affidare ai comuni è di 500 milioni di euro quest’anno, 2 miliardi nel 2012, se qualcuno si salverà adesso, l’anno prossimo sarà ucciso». Da qui la protesta a Roma. Quadrante di Tessera. «Ad impapocchiare la questione, non è stato il Comune», perché la linea era chiara e condivisa, anche nel Pat. Il problema, ruota tutto attorno all’Enac e alla fascia di rispetto, improvvisamente allargata. «Tra l’altro la decisione di Enac è sub judice, non è stata approvata dal Ministero ed è discutibile». Quello che a Orsoni interessa però, non è rimuginare sulle colpe, ma trovare una soluzione. «Stiamo cercando una negoziazione con Enac e solo con Enac, perché queste scelte strategiche vanno effettuate e discusse a livello istituzionale e non governate da interessi privati di chi potrebbe pensare al profitto. Il tavolo è aperto, c’è stato un incontro con i tecnici lunedì scorso, sono state prospettate delle ipotesi di soluzione in tempi rapidi».
Aggiunge: «Soluzioni che consentiranno a chi vuole fare lo stadio, di fare i suoi conti e programmi». Carcere e tram. Un passaggio sul tema della nuova casa circondariale, la cui ipotesi di realizzazione sul territorio è stata a lungo avversata. «Non abbiamo saputo più niente, forse per ragioni di finanziamenti, ma se ci saranno nuove chance, bisognerà favorirne la costruzione per toglierci la macchia di inciviltà che abbiamo addosso». Il tram arriverà a Venezia prima rispetto a quanto prospettato, i disagi sono stati ridotti al minimo, mentre l’allungamento della linea all’Ospedale e all’Aeroporto dipende da Roma e dalle finanze centrali, ma rimane imprescindibile». Centro Mestre. Capitolo a parte, il cuore della città: ex Umberto I, Villa Erizzo, M9: «Il centro di Mestre è uno dei problemi che abbiamo, stiamo studiando dei sistemi per riavviare alcune partite, l’attenzione c’è, stiamo facendo molto, ma non basta, mancano gli imprenditori, le attività economiche che promuovano iniziative». «Dal punto di vista della pianificazione il programma è intenso», fa eco al sindaco l’assessore Micelli, «ma a ciò non corrisponde lo sforzo dei privati che è lento, le difficoltà sono legate alla crisi della finanza e del mercato». Maggioni ha annunciato che dopo l’estate presenterà le linee guida del prosieguo dei lavori di via Poerio. Poi ha aggiunto: «I mestrini devono entrare in un’ottica di collaborazione, è vero che in piazza c’è poca roba, servono spazi di qualità e anche i negozi devono ragionare in questo senso».
Villa Adriana ora rischia concretamente di perdere lo status di patrimonio dell’umanità. Ora le decisioni adottate dal World Heritage Center dell’Unesco, a seguito della 36esima riunione annuale del comitato che si occupa appunto dei siti considerati patrimonio dell’umanità, sembrano confermare se non aggravare l’ipotesi di tale rischio. Il World Heritage Committee “richiede, allo Stato membro – si legge nel report finale – di informare il Whc in tempo utile rispetto a qualsiasi progetto di sviluppo pianificato nell’area buffer, includendo anche il progetto di sviluppo edilizio del ‘Comprensorio di Ponte Lucano’, per il quale deve fornire inoltre una valutazione sull’impatto in relazione al paragrafo 172 delle linee guida, prima di mettere in atto qualsiasi impegno irreversibile”.
La storia, come ilfattoquotidiano.it ha già raccontato, gira intorno a un’operazione urbanistica che porterebbe alla costruzione di nuove palazzine vicino al celebre monumento a cielo aperto. Capofila del progetto la Impreme Spa di Massimo Mezzaroma.
Sostanzialmente l’Unesco, preoccupata della possibile colata di cemento nelle vicinanze del sito protetto, che violerebbe la buffer zone, una sorta di zona cuscinetto stabilita con un accordo internazionale tra la Repubblica e l’Unesco per proteggere l’area archeologica di Villa Adriana, da delle direttive ben precise allo stato italiano: pena la possibile cancellazione dall’elenco dei siti patrimonio dell’Unesco. Il Comitato del Patrimonio mondiale richiede inoltre “di inviare al Whc entro il 1 febbraio 2014 un report aggiornato sullo stato di conservazione del sito”.
“La documentazione depositata dal governo italiano a marzo scorso – spiega Luciano Meloni, responsabile di Italia Nostra a Tivoli – non è sufficiente secondo il Whc. Sostanzialmente il governo non ha motivato come il Comprensorio Ponte Lucano possa essere compatibile con i criteri con i quali è stato inserito nell’elenco dei siti patrimonio dell’Unesco Villa Adriana”.
Violare la zona buffer potrebbe seriamente compromettere lo status di patrimonio dell’umanità ma nell’ultima audizione in Regione, l’assessore all’urbanistica Luciano Ciocchetti, affiancato dall’immobiliarista Roberto Carlino, presidente della commissione Ambiente, ha rassicurato tutti – comitati cittadini e associazioni ambientaliste – dichiarando che la visuale della Villa sarebbe stata salvaguardata.
“Ciocchetti non ha ben chiari i vincoli inerenti alla buffer zone, la visuale non c’entra niente. In questa zona cuscinetto – spiega Meloni – al massimo si possono costruire solo edifici compatibili con il monumento in questione, quindi al massimo si può edificare un albergo, un punto di ristoro o altre cose simili ma solo in funzione del sito in questione, in questo caso la Villa di Adriano. Costruire palazzine da vendere a privati non si può certo dire che sia un’azione compatibile in tal senso. Tra l’altro non può parlare di autorizzazioni regionali per difendere il progetto di Mezzaroma, quando a monte c’è un accordo internazionale tra il governo Italiano e l’Unesco”.
“Alla luce di questo richiamo ufficiale – dichiara Angelo Bonelli, presidente dei Verdi – è assolutamente urgente bloccare la lottizzazione. L’Italia non vuole e non può riempirsi di vergogna nei confronti della comunità internazionali con un sfregio di tale portata ad uno dei monumenti più importanti del mondo, dal punto di vista storico ed architettonico”.
Dall’ufficio coordinamento Unesco del Ministero per i Beni e le Attività Culturali non abbiamo ottenuto nessuna risposta in merito “poiché – hanno comunicato – non è arrivata ancora nessuna nota ufficiale sull’esito della riunione, quindi al momento non ci possiamo pronunciare”. L’Unesco nel frattempo ha sanzionato ufficialmente il nostro Paese con una sorta di cartellino giallo che, se l’Italia non farà chiarezza sulla colata di cemento, si tramuterà in rosso.
Cosa avrà deciso ieri pomeriggio il gip Patrizia Todisco? Avrà davvero firmato «il provvedimento di sequestro (senza facoltà d'uso) degli impianti dell'area a caldo dell'Ilva di Taranto, oppure avrà accolto i miti, unanimi consigli di governo, padronato, sindacato metalmeccanico, ricamati sul giornale della Confindustria? Si sarà fidata dei mediatori della Regione? Per una volta, il giornale non aveva rampogne, ma comprensione e sostegno ai lavoratori che bloccavano le strade nazionali e il centro della Città, si addensavano intorno alle sedi della giustizia e della politica, per difendere il proprio lavoro e insieme l'azienda e i proprietari Riva.
Dal canto loro, i verdi - il presidente Bonelli è consigliere comunale a Taranto - descrivono una città divisa tra gli operai e chi non vuole morire di cancro.
Se i sindacati vogliono «fare presto», è per prendere la guida delle manifestazioni ed evitare che la situazione degeneri e diventi ingovernabile: in effetti si aspettano che la decisione del gip sarà contro di loro. I lavoratori sanno che il fermo dell'area a caldo bloccherà l'intera acciaieria e quindi porterà in un breve futuro al loro licenziamento; altre prospettive di lavoro - a Taranto! - non riescono a immaginarne. Tanto meno riescono a immaginare una città o forse un civiltà prive del loro prodotto, del loro orgoglioso lavoro: fare acciaio, base di tutto il resto che esiste al mondo. Riva è un pessimo padrone, dicono i metalmeccanici; ma spetta a noi dirlo, a nessun altro. Per competente che sia, un giudice non può condannare Riva e costringerlo a chiudere la fabbrica. La fabbrica è anche nostra che lavoriamo, che viviamo lì dentro. «Noi non meritiamo condanne».
D'altra parte la fabbrica di Riva è pericolosa da sempre e sono gli operai i primi a morirne. Nell'udienza preliminare di maggio per 30 dirigenti dell'Italsider, vecchio nome, poi mutato in quello ancora più vecchio di Ilva, risuona l'accusa di aver provocato la morte di 15 operai facendoli lavorare senza protezione in ambienti di gas tossici e amianto.
La risposta, a nome di tutti difensori della «fabbrica siderurgica più grande d'Europa», la fornisce in un'intervista lo stesso ministro dell'ambiente Clini che una volta di più parla all'incontrario su Il Sole 24 Ore: non si può condannare uno per vicende passate. «L'Ilva di Taranto non va fermata. Il giudizio sui rischi connessi ai processi industriali dello stabilimento va attualizzato». Qualche mese prima, in gennaio, dalla perizia veniva anche un'accusa un po' diversa. Emergeva «la quantità rilevante di polveri rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento».
Uno Stato padrone di sé avrebbe imposto un ciclo di riconversione degli impianti, con molti lavori in cui impiegare lavoratori competenti per tutto il tempo necessario. Il nostro Stato è pezzente e incatenato; quel poco che aveva lo ha ceduto all'Europa che lo costringe a non fare niente e poi lo rimprovera per non avere fatto niente. Possiamo sperare che un giudice più potente rovesci la decisione di Patrizia Todisco e si dia così, secondo il modello consueto, «tempo al tempo»?
Facce serie. Giacche abbottonate. Sguardi proiettato al futuro. Il “gioco” è grande, enorme: vale 12 miliardi di euro, quanto due ponti di Messina. Quanto mai nessuna opera in Italia. È il raddoppio delle scalo aereo di Fiumicino, presentato ieri nella Capitale da Aeroporti di Roma. Ma la condizione affinché possa decollare “è avere il contratto di programma, altrimenti saremo costretti a bloccarlo”, spiegano i vertici della società di gestione aeroportuale, presieduta da Fabrizio Palenzona. Tradotto: un adeguamento delle tariffe. Maggiori costi. Parliamo di circa tre euro a biglietto, moltiplicati per gli attuali 35 milioni circa di passeggeri, fanno oltre cento milioni di euro l’anno. “Il progetto per la realizzazione della nuova struttura aeroportuale prevede un incremento della capacità ad oltre 100 milioni di passeggeri annui e gli investimenti che verrebbero attivati sarebbero sostenuti per il 50% da vettori e da passeggeri esteri”, sostengono da Adr.
Peccato che alcune cose non tornano. Primo: lo scalo londinese di Heathrow, tra gli hub più grandi al mondo, ha lo stesso numero di piste del Leonardo da Vinci. Ma gli inglesi non intendono raddoppiarle. Secondo: molte aziende stanno spostando il proprio business verso vettori più grandi. Quindi minori decolli e atterraggi. Terzo: per realizzare l’opera sono necessari 1.300 ettari, la maggior parte dei quali sono di proprietà della azienda agricola Maccarese spa, colosso di proprietà della famiglia Benetton, acquistata dall’Iri per circa 93 miliardi. Adesso sono agricoli, coltivati, riforniscono la Capitale e la provincia di frutta e verdura, impegnano mano d’opera. Sono ossigeno per il territorio. In caso di esproprio la famiglia trevigiana vedrà riconosciuto un indennizzo pari a 20 euro a metro quadrato per circa 1000 ettari. Ottima plusvalenza.
Due anni fa il Fatto si è occupato della vicenda, con i cittadini preoccupati per la propria salute, visti i continui episodi tumorali. Mancavano i numeri, i dati. Ancora non esistono, ma qualche indicazione in più arriva dalla Lombardia: una nota inedita del ministero dell’Ambiente, pubblicata per la prima volta sul nostro giornale, ha rivelato che Malpensa, negli ultimi dodici anni, ha registrato un aumento per mortalità legate alle malattie respiratorie, pari al 54 per cento e un balzo nei ricoveri del 23,8 per cento, contro una media della provincia del 14 per cento. Eppure da Adr parlano solo di presunto sviluppo e di presunta mano d’opera. Oltre ai soldi necessari per realizzarla.
Auriga globetrotter
Francesca Sironi - L’Espresso
Momentaneamente assente. E chissà per quanto. L'Auriga di Mozia, una delle più straordinarie sculture greche, ha lasciato Marsala per fare da star nella mostra olimpionica del British Museum di Londra. Poi sarà trasferito a Malibù e forse anche in Ohio. Tornerà in Italia nel 2014, in un giorno imprecisato. Ma si tratta di un campione molto fragile: ha circa 2450 anni e tanti acciacchi. Per questo — come può rivelare "l'Espresso" - una perizia nel 2008 aveva escluso categoricamente la possibilità che l'opera venisse mandata in tournée. Ma gli assessori della Regione Sicilia l'hanno ignorata, spedendo il capolavoro in una rischiosa missione di propaganda mondiale delle bellezze isolane. Eppure il divieto di espatrio porta la firma di Guy Devreux, responsabile del restauro di marmi dei Musei Vaticani, uno dei massimi esperti in materia. Che scrive: “È impossibile eseguire una fredda descrizione sullo stato di conservazione di questa scultura senza sottolineare che si tratta di un'opera di singolare bellezza, che colpisce in modo indimenticabile ogni visitatore che ha la fortuna di poterla ammirare,,. Il cocchiere è testimone di una rivoluzione: il passaggio da arte arcaica a classica. E’ stato rappresentato "di sbieco", rompendo lo schema arcaico della rappresentazione frontale, e mostra il suo corpo sotto un panneggio "bagnato" tipico della classicità. Lo hanno ritrovato nel 1979 a Mozia, l'isoletta poco distante dalla costa trapanese che ospitava una fiorente città fenicia poi conquistata dai puniti: si tratta infatti, con ogni probabilità, di un'opera saccheggiata a Selinunte dopo l'arrivo dei cartaginesi. Una preda bellica di enorme valore già all'epoca: «Ultima delle più belle sculture sopravvissute dall'antichità», conferma Peter Higgs, curatore della mostra " Winning at the ancient games", realizzata al British Museum per le Olimpiadi.
Ovvio che tutti i musei del pianeta sognino di esporre l'atleta di Mozia. Nel 2007 una direttiva della Regione Sicilia firmata dall'assessore Nicola Leanza lo inserì in una lista di 21 opere inamovibili. Poi l'anno dopo il "certificato medico" dell'esperto dei Musei Vaticani. Ma l'Istituto Culturale italiano di Londra è riuscito a battere il veto. La delegazione sorridente che ha firmato l'accordo col British Museum era formata dall'ormai ex assessore Sebastiano Messineo, il direttore dei beni culturali Gesualdo Campo e il responsabile del servizio museografico siciliano Stefano Biondo. «Il nostro Auriga è la prima statua ospitata nel salone del fregio del Partenone», sottolinea Campo, «ed è un motivo di grande orgoglio e visibilità per la nostra regione. E poi l'Auriga era già destinato a breve ad un altro viaggio». Infatti: dopo Londra, l'Auriga partirà alla volta degli Stati Uniti, per rispettare l'accordo firmato nel 2007 dall'allora ministro Francesco Rutelli. Un'intesa che ha chiuso le trattative per ottenere la restituzione della Venere di Morgantina, trafugata dalla Sicilia e finita al Paul Getty Museum. Così da aprile ad agosto del 2013, il capolavoro di Mozia sarà al Getty di Malibù per la rassegna "Sicily: Between Greece and Rome", esposizione che si sposterà a Cleveland per poi arrivare a Palermo: «Non è detto però che anche l'Auriga vada in Ohio, stiamo ancora discutendo i dettagli dell'accordo», precisa Biondo. Di viaggi comunque si parla, e lunghi. E destinati a riaprire la discussioni su un tema sempre scottante, quello dei prestiti delle nostre opere d'arte.
Come quando, nel 2005, il "Satiro danzante" di Mazara del Vallo venne prestato al Giappone per l'Expo: la Regione aveva promesso che in cambio la sala del museo che ospita il satiro sarebbe stata climatizzata, ma niente è stato fatto. L'anno seguente, per portare il"Cristo Morto" di Mantegna a Mantova Vittorio Sgarbi scatenò una guerra contro la Soprintendenza di Brera: alla fine Rutelli concesse il prestito. E nel 2007, mentre l'Annunciazione di Leonardo veniva preparata per il viaggio a Tokyo, un senatore del Pdl arrivò a incatenarsi al loggiato degli Uffizi per protesta. Ora tocca all'Auriga. E sì che Devrrux era stato categorico: «La scultura del Giovane di Mozia non deve assolutamente più essere trasportata in altre sedi museali. Questo andrebbe a compromettere il suo stato di conservazione in modo irreversibile». Perciò la Fondazione Whitaker; che gestisce il museo di Mozia, ha cercato di opporsi al trasferimento: «Siamo riusciti perlomeno ad ottenere che l'Auriga arrivasse a Londra via mare e terra, e non in aereo», dice Maria Enza Carollo, direttore della Fondazione: «La cabina pressurizzata e le bassissime temperature dell'aereoplano potrebbero danneggiarla gravemente». Negli Stati Uniti però ci andrà di sicuro in jet. E la Fondazione ha scritto una lettera chiedendo dettagli alla Regione. «Ma i malati sono pietre», replica Campo, «molto più solidi di alcuni dipinti che spesso vengono trasferiti in aereo. Non vedo quale sia il problema nell'inviare l'Auriga in America. E poi siamo costretti a farlo nel segno del protocollo del 2007». Su questo punto, il ministero dei Beni Culturali non è d'accordo: il patto con il Getty non indicava quali fossero le opere da scambiare.
Intanto a Mozia i turisti si lamentano. «Abbiamo dovuto risarcire intere scolaresche che hanno rinunciato al viaggio», dice la Carollo, «e la stagione si presenta magra: molti hanno disdetto le prenotazioni». Per l'assessorato, la Fondazione non ha da lamentarsi. In cambio dell'Auriga ha ricevuto per questi mesi dal British Museum l'Apollo di Strangford: una bella statua, ma di certo non una star che possa compensare l'eccezionalità dell'atleta. ll Getty invece, annuncia Campo, «renderà la statua con un nuovo basamento antisismico offerto da loro». Che però non proteggerà l'Auriga nel corso del viaggio per il quale ormai è partito, senza sapere quando tornerà.
Concessioni chi decide?
Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno
Tra le tante ipocrisie che avvolgono e nascondono il sistematico tradimento dell'obbligo costituzionale della tutela del patrimonio storico e artistico una delle più insopportabili riguarda la formazione delle decisioni dell'amministrazione pubblica. Chi decide, ad esempio, cosa si può prestare, o cosa no, ad una mostra? La delicata, e ovviamente discrezionale, valutazione del rischio materiale e dell'opportunità culturale dei prestiti è affidata ad organi tecnici (le soprintendenze, i comitati tecnico-scientifici del Ministero per i beni culturali), ma alla fine la decisione finale spetta agli organi amministrativi centrali del Mibac. Il paradosso è che nei rari casi in cui i tecnici danno parere negativo, prevale una pretesa «ragion di Stato» (in realtà quasi sempre la ragione, privatissima, dell'interesse personale dei promotori dell'iniziativa) e alla fine l'opera viene comunque imballata e spedita. Ultimo caso, l'Auriga di Mozia: il meraviglioso marmo greco del V secolo avanti Cristo prestato al British Museum non per una mostra scientifica, ma come «testimonial del patrimonio artistico e culturale siciliano» (parole dell'assessore alla cultura siciliano) in occasione delle Olimpiadi londinesi, e poi destinato ad un lungo soggiorno sulla Faglia di Sant'Andrea, al Getty Museum. Il prestito è avvenuto contro il motivato parere della Soprintendenza di Trapani, e per volere incontrastabile della Giunta regionale: un prestito dei politici contro i tecnici, un trionfo della cosiddetta “valorizzazione" ai danni della tutela. Il ministro Ornaghi, in visita a Mozia, si è detto, come sempre, tranquillo: «La Regione avrà valutato bene». Tutto va bene, madama la marchesa: almeno finché un capolavoro non finirà in frantumi. Chissà se almeno quel giorno qualcuno comprenderà a cosa servono i pareri dei tecnici.
La vicenda dei concerti pop in Piazza Plebiscito incrocia questioni cruciali, e oggi roventi, nel nostro rapporto col patrimonio storico e artistico pubblico: a cosa serve quel patrimonio, e dunque qual è il suo uso corretto? E poi: entro che limiti, e in che modi, il patrimonio pubblico può generare profitto privato?
Non esiste una risposta condivisa a queste domande, né tantomeno una linea univoca e chiara del Ministero per i Beni Culturali, perpetuamente afflitto da una sostanziale ‘sede vacante’.
La soprintendente di Firenze trova normale far svolgere una sfilata di moda (aperta da guerrieri Masai che corrono brandendo spade e lance), e la relativa mondanissima cena, nel sancta sanctorum dell’arte italiana, la Galleria degli Uffizi. Pochi giorni dopo, al contrario, il soprintendente di Napoli giudica fuori posto un concerto di musica leggera in Piazza Plebiscito.
Mi sembrano entrambe posizioni insostenibili, perché non tengono conto della natura e dei fini dei luoghi monumentali a cui si riferiscono.
Il delicatissimo corridoio cinquecentesco degli Uffizi, gremito di sculture antiche, non è fatto per ospitare eventi mondani che lo mettono a rischio materialmente, e lo tradiscono moralmente: i musei pubblici servono a costruire l’eguaglianza dei cittadini attraverso la crescita morale e culturale, non ad approfondire, attraverso l’esaltazione del lusso, il solco che li divide.
Al contrario, le piazze storiche nascono per accogliere manifestazioni popolari, anche di massa se le dimensioni lo consentono. Il patrimonio monumentale ha senso se è teatro della vita della comunità: un museo e una piazza devono poter svolgere fino in fondo la loro funzione (possibilmente senza confonderle!).
E, francamente, non vedo proprio niente di male nel fatto che Ligabue, o Laura Pausini si esibiscano in Piazza Plebiscito.
Il problema è la tutela dei monumenti sulla Piazza? Se è davvero così, il soprintendente non solo può, ma deve, intervenire con atti formali prima della manifestazione, e non già dopo con un’intervista.
Se il problema è lo sporco, non è certo difficile risolverlo. Due volte l’anno quel salotto gotico che è Piazza del Campo a Siena accoglie trentamila persone, stipatissime per assistere alla corsa del Palio. Quando lasciano la ‘conchiglia’ del Campo, essa è inevitabilmente coperta di rifiuti: che vengono rimossi in meno di due ore. E mi rifiuto di credere che non possa avvenire lo stesso a Piazza Plebiscito.
Il problema è invece l’uso improprio della terrazza di Palazzo Reale? La soprintendenza ha tutti i mezzi per reprimere duramente l’abuso della propria stessa sede: e se è vero che sono stati addirittura staccati gli allarmi notturni del Palazzo, immagino che anche la Procura della Repubblica potrà dare una mano a farlo.
Nel caos che contraddistingue l’utilizzo del patrimonio monumentale italiano c’è un’unica costante: il trionfo dell’interesse privato su quello pubblico.
Anche chi non condivide il mio giudizio sulla sfilata di moda agli Uffizi, trova che aver affittato per la miseria di 30.000 euro il più famoso museo italiano ad un’impresa privata (e al suo marketing) sia stato un’indecenza: una vera svendita di un bene pubblico, i cui contorni dovrebbero destare l’interesse della Corte dei Conti.
Per lo stesso motivo trovo incredibilmente grave lo sconto del 99,9% praticato sulla tariffa pagata da chi occupa Piazza Plebiscito per un’iniziativa che crea un notevole utile privato. Ogni giorno qualcuno ci spiega che per salvare il patrimonio monumentale c’è bisogno di sponsor privati. Personalmente sono assai scettico su questa soluzione, perché l’esperienza insegna che quasi mai i legittimi interessi di lucro del privato coincidono con i fini costituzionali del patrimonio pubblico.
Ebbene, una volta tanto che le due cose coincidono (una piazza è fatta anche per i concerti), cosa fa l’autorità pubblica (in questo caso la Giunta comunale)? Sostanzialmente regala il bene pubblico a chi lo usa per (legittimi) fini di lucro. Si potrebbe ricordare al sindaco, con qualche ironia, che il bene comune non è il bene del Comune: che non può dunque decidere arbitrariamente a chi ‘regalarlo’, ma deve amministrarlo nel vero interesse della comunità.
La prossima volta che qualcuno lamenterà i crolli delle statue sulla facciata di Palazzo Reale verso il plebiscito non dica, per favore, che non si sa come trovare il denaro per restaurarle.
Gli occhi dei senesi e degli italiani che hanno a cuore le sorti del patrimonio storico e artistico della nazione sono puntati su Renato Saccone, prefetto di Siena. Due mesi fa, la sezione senese di «Italia Nostra» gli ha presentato un esposto, rispettoso quanto fermo e documentato.
Il 29 aprile (festa di Santa Caterina: ironia del destino!) del 2011 l’Opera della Metropolitana di Siena (l’ente che da quasi novecento anni mantiene in vita il Duomo) ha ceduto «un ramo d’azienda» ad una società privata con fini di lucro, Opera Laboratori Fiorentini del gruppo Civita, che gestisce dal 1998 tutti i servizi di accoglienza e assistenza alla visita in più di venti musei del Polo Museale di Firenze. Quel «ramo d’azienda» comprendeva «l’accoglienza ai visitatori» e le «attività culturali». Secondo Italia Nostra, supportata da un ottimo ufficio legale, questa cessione è «palesemente illecita, illegittima e perciò nulla» perché avvenuta in violazione dello statuto dell’Opera della Cattedrale.
In sostanza Italia Nostra dice che quest’ultima istituzione non è un’azienda, non agisce per fini di lucro e deve continuare ad operare per l’interesse pubblico: può, al limite, diventare (come è successo) una onlus, ma non già vendere proprie parti ad un’azienda.
Insomma, sarebbe come se il Liceo «Piccolomini» cedesse un suo ‘ramo’ al CEPU, o se tre reparti delle Scotte fossero ceduti ad una clinica privata. È per questo che Italia Nostra denuncia il fatto che questi contratti, «realizzando il soddisfacimento di un interesse privato», contrastano «clamorosamente con l’interesse pubblico».Il mondo che vive delle concessioni del Ministero dei Beni Culturali presenta molti lati oscuri, e non di rado appare un bizzarro ircocervo di clientelismo parastatale d’antan, marketing all’amatriciana, incompetenza e improvvisazione. Di recente, e proprio su queste colonne, l’amministratore delegato di Opera Laboratori Fiorentini ha dichiarato che gli pare normale assumere i parenti dei dipendenti (magari illustri) del Polo Museale Fiorentino: «a parità di condizioni scegliamo qualcuno di cui ci possiamo fidare». Se il Mibac non fosse una perpetua sede vacante, i tempi sarebbero maturi per un azzeramento generale delle concessioni (bloccate da tempo per un incredibile pasticcio legale), e per una azione di moralizzazione e trasparenza che smantelli i monopoli a favore di quell’apertura che, peraltro, ci impone la Direttiva Bolkenstein dell’Unione Europea.Ma nel caso di Siena in gioco c’è molto di più: qui non si tratta di un appalto, ma di una vera e propria alienazione (per di più in cambio di un corrispettivo ridicolo: poche diecine di migliaia di euro) che spezza irreversibilmente una storia plurisecolare. La crisi del Monte dei Paschi e del Comune scuote in profondità uno dei modelli più antichi di governo del bene comune. In questo momento la città ha un disperato bisogno di poter contare sui propri simboli e sulla propria altissima tradizione culturale: e la lunghissima e gloriosa storia dell’Opera della Metropolitana è davvero troppo importante per liquidarla come se fosse una catena di pizzerie da poter dare in franchising.È per questo che in molti aspettano una parola risolutiva da parte del prefetto, a cui spetta la sorveglianza sul fatto che l’Opera Metropolitana di Siena rimanga fedele ai propri antichissimi fini istituzionali, e non venga né spogliata né trasformata surrettiziamente in un’azienda.Se sarà necessario, Italia Nostra è pronta a rivolgersi direttamente al ministro degli Interni e a suscitare su questo caso un vasto movimento di opinione: ma sarebbe assai meglio se Siena dimostrasse di avere ancora gli anticorpi attivi. Ora è il prefetto a dover decidere se dichiarare nulli i contratti tra l’Opera Metropolitana e Opera Laboratori: in molti aspettano la sua risposta.
Sembra incredibile, eppure tra i dieci parchi italiani più belli e di pregio, e allo stesso tempo più a rischio, c’è anche il Parco dell’Appia Antica a Roma. Un‘area verde di rara bellezza, dove secoli di storia e di cultura si incontrano dando vita ad un paesaggio e ad un’atmosfera difficili da dimenticare, e che però l’incuria dell’uomo ha consegnato all’abusivismo e alla speculazione edilizia. La denuncia arriva da Italia Nostra, l’associazione nazionale per la tutela del patrimonio storico, artistico e naturale della nazione, che ha stilato il dossier “Paesaggi Sensibili” sui parchi e le aree protetto più a rischio. Il Parco dell’Appia Antica ha come cardine l’asse della Via Appia, lungo la quale si snodano insediamenti antichi di diverse epoche, ville, villaggi, tenute agricole, centri di culto, oltre a luoghi attrezzati per la sosta del viaggio e per il commercio, e alla serie ininterrotta di sepolcri pagani e di cimiteri cristiani. Un patrimonio paesaggistico e monumentale, artistico e storico che andrebbe salvaguardato e amministrato con coscienza e che invece sconta la mancanza di progettualità e di una normativa d’uso del territorio e del patrimonio immobiliare esistente che avesse anche l’obiettivo di una maggiore fruizione pubblica. Un parco minacciato da costruzioni private, costruzioni abusive “legittimate - si legge nel dossier - dalle tre leggi sui condoni edilizi con procedure che hanno escluso, nella quasi totalità dei casi, i pareri delle Soprintendenze di Stato, in assenza di ogni valutazione di merito, con ignoranza e superficialità imperdonabili”.“La situazione generale - spiega Rita Paris, la studiosa del Mibac che ha curato il dossier sull’Appia Antica - minaccia ogni giorno di volgere al peggio, anche per l’agguerrito fronte di chi ha inteso e intende utilizzare questo straordinario pezzo di storia a fini privati, come mostrano i tanti monumenti inglobati in ville o altro genere di manufatti moderni”. Cosa fare, allora, per salvare il Parco? Secondo gli esperti, la prima cosa è un progetto di ampia portata e condivisione, che punti “ad affermare e valorizzare il concetto che l’Appia deve essere intesa nella sua integralità, insieme alla parte di campagna che la comprende, quale patrimonio culturale da salvaguardare”. Poi serve “una nuova strategia per il ripristino di uno stato di legalità, ponendo fine al perdurare dell’abusivismo. Risolvere come trattare i casi più eclatanti di condoni rilasciati in zone di elevatissimo interesse archeologico, d’intesa tra le due Soprintendenze competenti territorialmente”. “II Ministero - conclude Italia Nostra - si deve impegnare a definire un programma pluriennale, da attuare d’intesa con la Regione, il Comune e l’Ente Parco, nonché con tutti gli altri enti e privati che a vario titolo possano essere coinvolti”.
È STATO presentato un rapporto ufficiale con statistiche eloquenti e, un po’ a sorpresa, un disegno di legge «in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo» che, tra le altre cose, propone con grande coraggio l’abolizione dell’uso da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente.
Il suolo è un bene comune. Una volta cementificato perde fertilità in maniera irreversibile, smette per sempre di produrre cibo, bellezza, cultura. Tre elementi che sono le nostre migliori ricchezze, che continuiamo a sperperare senza ritegno. A tal proposito, sia sufficiente una citazione attribuita all’economista John K. Galbraith: «Penso alla vostra patria, alla bellezza del suo paesaggio, alle vestigia storiche, alla sua agricoltura, al suo turismo. Se voi oggi siete in crisi è colpa vostra».
È colpa nostra bruciare risorse uniche: secondo il rapporto del ministero dal 1971 al 2010 abbiamo perso il 28% della superficie agricola utilizzata, un’area grande come Lombardia, Liguria ed Emilia- Romagna. Ogni giorno si cementificano 100 ettari di suolo e l’agricoltura italiana soddisfa soltanto più l’80% del nostro fabbisogno alimentare.Se per alcuni decenni l’agricoltura hasopperito alla diminuzione dei terreni con l’incremento delle rese delle coltivazioni, oggi ciò non è più possibile per motivi strutturali e di sostenibilità ambientale. L’agricoltura industriale non può andare tanto oltre quanto non si sia già spinta. Intanto il sistema di produzione del cibo soffre profondamente.
Scarsa remunerazione ai contadini, una filiera iniqua che penalizza soprattutto gli agricoltori e una mancanza cronica di giovani che rigenerino le nostre campagne sono un perfetto apripista per la perdita dei nostri terreni fertili, sia per cementificazione, sia per abbandono. La crisi del mondo agricolo è la prima causa del male, perché se distruggiamo i presidi principali del territorio, ovvero le persone che lo lavorano e lo curano, non ci sarà più speranza. Per ritrovarla servono nuovi paradigmi, creatività, nuove priorità. Ciò che giustamente Catania vuole incentivare: «Serve una battaglia di civiltà, per rimettere l’agricoltura alcentro del modello di sviluppo che vogliamo dare al nostro Paese. Immagino uno Stato che rispetti il proprio territorio e che salvaguardi le proprie potenzialità. Noi usciremo vincenti da questacrisi se lo faremo con un nuovo modello di crescita».
Dalla buona agricoltura non si prescinde, e quindi non si deve prescindere dalla tutela dei terreni. Il disegno di legge presentato ieri è un primopasso importante. Intanto perché è una novità assoluta, che recepisce una sensibilità sempre più diffusa tra la società civile. Sono tante le associazioni già al lavoro, e ricordo che è partita la campagna per un “Censimento del Cemento” da parte del Forum Nazionale “Salviamo il Paesaggio – Difendiamo i territori”: è stata spedita a tutti i Comuni d’Italia una scheda per censire gli edifici costruiti e inutilizzati, ma in pochi hanno già risposto. Che si diano da fare però, perché avere dati certi è una base indispensabile per lavorare a una legge più giusta possibile. Intanto il ministero, attraverso il metodo della concertazione, ieri ha saggiamente invitato le associazioni ambientaliste, degli agricoltori e tutte le altre istituzioni a pronunciarsi sul disegno di legge, suggerendo modifiche e migliorie al testo (che potete scaricare dal sito www.slowfood.it). Questo è incoraggiante, a prescindere da alcuni limiti che l’attuale stesura contiene.
Nel disegno di legge c’è però una proposta quasi rivoluzionaria: l’ultimo articolo del testo propone di abolire l’uso degli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni. Ciò significa spezzare il secondo meccanismo principale che porta alla sciagurata cementificazione del nostro Paese: la continua emergenza economica degli enti locali che quasi non possono più esimersi dal sacrificare le proprie terre fertili per fare cassa. Andranno sicuramentepreviste delle compensazioni, perché è arduo pensare di togliere una risorsa così importante mentre si fa fatica a garantire i servizi essenziali, ma il meccanismo prima o poi si dovrà rompere: è un po’ come se durante un inverno freddissimo, quando non funziona più il riscaldamento di casa, iniziassimo a bruciare tutti i nostri mobili. Alla fine rimarremmo senza mobili e intanto il freddo non sarebbe passato: un lentissimo doppio suicidio. È invece necessario puntare alla vita, che può essere ben rappresentata dall’immagine di un suolo fertile che produce cibo, bellezza, piacere e, ve l’assicuro, potenzialmente così tanta nuova economia da riuscire a sovvertire anche lacrisi più nera.
Qui di seguito una “scheda” del disegno di legge dal sito http://www.casaeclima.com
“Ogni giorno 100 ettari di terreno vanno persi, negli ultimi 40 anni parliamo di una superficie di circa 5 milioni. Siamo passati da un totale di aree coltivate di 18 milioni di ettari a meno di 13. Sono dati che devono farci riflettere sul fatto che il problema del consumo del suolo nel nostro Paese deve essere una priorità da affrontare e contrastare”.
Lo ha dichiarato il ministro delle Politiche agricole, Mario Catania, nel corso dell'incontro "Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementificazione", organizzato dal Mipaaf presso la Biblioteca della Camera dei Deputati a Palazzo San Macuto.
Durante il convegno il ministro Catania ha presentato il “Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo di suolo”, che detta principi fondamentali per la valorizzazione e la tutela dei terreni agricoli e per contenere il consumo di suolo. Catania ha spiegato che questo ddl rappresenta una “bozza aperta”, aperta quindi ai suggerimenti da parte delle associazioni agricole e di tutti.
Estensione massima di superficie agricola edificabile
Il disegno di legge prevede, all'art. 2, che con un decreto del ministro delle Politiche agricole, d'intesa con quelli dell'Ambiente e delle Infrastrutture, sia determinata l'estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale. Con atto della Conferenza delle Regioni e delle provincie autonome, la superficie agricola edificabile sul territorio nazionale è ripartita tra le diverse Regioni, le quali a loro volta la definiscono su scala regionale e la ripartiscono tra i Comuni.
Congelamento della destinazione d'uso per 10 anni
All'articolo 3 del ddl viene stabilito che i terreni agricoli in favore dei quali sono stati erogati aiuti di Stato o aiuti comunitari non possono avere una destinazione diversa da quella agricola per almeno 10 anni dall'ultima erogazione. Questo vincolo deve essere espressamente richiamato negli atti di compravendita dei terreni, pena la nullità dell'atto. In caso di trasgressione al divieto è prevista una sanzione amministrativa da 5.000 a 50.000 euro, e la sanzione accessoria della demolizione delle opere eventualmente costruite e del ripristino dello stato dei luoghi.
Incentivi, monitoraggio e registro dei Comuni
Previste anche (art.4) misure di incentivazione per chi realizza il recupero di edifici nei nuclei abitati rurali; l'istituzione di un comitato con la funzione di monitorare il consumo di superficie agricola e il mutamento di destinazione d'uso dei terreni agricoli; l'istituzione di un registro in cui sono indicati, su richiesta, i Comuni che adottano strumenti urbanistici che non prevedono l'ampliamento delle aree edificabili; l'abrogazione della norma concernente gli oneri di urbanizzazione che permette ai comuni di “fare cassa”.
L’ormai prossima Biennale di architettura di Venezia ospiterà tra i suoi eventi collaterali -ai quali si partecipa non su invito, ma a pagamento - una mostra dedicata al gigantesco grattacielo che Pierre Cardin ha deciso di costruire a Marghera. Da quello che si vede nel rendering distribuito alla stampa, l’intervento consiste in 3 torri, alte 250 metri, con 66 piani che contengono alberghi, negozi e residenze di lusso, oltre alla sede di un’accademia della moda. La volumetria prevista supera gli 800 metri cubi. Sull’area, che non à ancora di proprietà di Cardin, insistono attualmente circa 300 mila metri cubi di capannoni industriali. Secondo i portavoce dello stilista, la forma del cosiddetto Palais Lumière evocherebbe l’immagine di tre fiori armoniosamente disposti in un vaso e tenuti insieme da un nastro annodato. Secondo le stesse fonti, diverse opzioni sono state prese in considerazione circa la località dove collocare tale vaso, da Parigi a Mosca, ma la preferenza di Cardin è proprio per questa porzione di terraferma del comune di Venezia. Se la dichiarata e presunta indifferenza per il punto di appoggio dell’opera può sconcertare, perché denota un’assenza di attenzione per il legame tra sito e manufatto che poco si addice alla sensibilità artistica del grande couturier, in realtà la scelta del luogo è molto oculata. Non era facile, infatti, trovare un’area libera o liberabile di adeguate dimensioni e in una posizione dotata di un altrettanto grande valore pubblicitario. Non a caso, a Parigi già circolano brochures promozionali che pongono in vendita gli appartamenti con vista su Venezia, prima ancora che il progetto sia stato ufficialmente approvato.
Il progetto di Cardin è in contrasto con i piani ed i regolamenti vigenti , incluso quello che detta le norme di sicurezza in prossimità dei corridoi d’accesso agli aeroporti. L’Enac, in effetti, ha già espresso un parere negativo, perché l’altezza delle torri supera di oltre 100 metri quella autorizzata, ma tale parere è stato sdegnosamente respinto da Cardin che, da un lato ha prodotto uno studio dal quale risulterebbe che le torri non rappresentano nessun pericolo per il traffico aereo, dall’altro ha dichiarato che “o si fa così o se ne andrà in Cina”. E a conferma delle sue intenzioni, ha indicato la fine di luglio come termine ultimo entro il quale il comune di Venezia deve esprimersi a favore del progetto.
Nel frattempo, a sostegno delle richieste di Cardin, si è schierata la maggior parte degli operatori economici e dei politici locali. Perfino due docenti universitari di diritto amministrativo, Gianfranco Perulli e Flavio Leardini hanno detto che “va fatto ogni sforzo per superare gli schemi e le consuetudini operative nell’ambito dell’urbanistica e dell’edilizia, e dello stato dei luoghi” e hanno suggerito di chiedere un intervento personale del presidente del consiglio Monti che, a loro giudizio, potrebbe emanare “un decreto legge ad hoc senza che questo configuri alcuna prevaricazione agli enti locali”. Preoccupazione, quest’ultima, superflua, dal momento che gli enti locali non hanno bisogno di alcuna prevaricazione per appoggiare senza riserve la grande opera. Dal presidente della regione, che ha paragonato Cardin a Lorenzo il Magnifico e ha rivolto un accorato appello al ministro Passera affinché “ si metta una mano sul cuore di fronte ai divieti posti da Enac”, alla presidente della provincia, secondo la quale il progetto ha una “valenza quasi rivoluzionaria per le prospettive di sviluppo”, le espressioni di entusiasmo per l’arrivo di un nuovo mecenate si succedono. Particolarmente euforico è il sindaco di Venezia, secondo il quale il palais lumiere “non è una banale speculazione edilizia, ma un progetto idoneo a riqualificare il territorio sul piano economico e culturale, un’occasione da non perdere, un progetto da portare a casa” e, soprattutto, ha sottolineato, “Cardin ce lo regala”.
Mentre i notabili locali si esibivano in queste dichiarazioni, si dice che Cardin abbia scritto al capo dello stato Giorgio Napolitano, il quale avrebbe chiesto un’informativa al ministro dello sviluppo per avere lumi sull’iter della vicenda. Non si sa se tale notizia riportata dalla stampa risponda a verità (il che forse potrebbe rassicurare i mercati dimostrando che nel nostro paese la situazione non è seria); certo è che il 23 luglio il sindaco Orsoni ha dichiarato di aver ricevuto una telefonata dal presidente dell’ENAC che gli ha detto “se non ci sono rischi, è OK subito ”, e che il 24 luglio, con 28 voti su 31, il consiglio comunale ha dato mandato al sindaco, con esecutività immediata, di esaminare l’opera in conferenza dei servizi per poi procedere alla stipula di un accordo di programma. L’entusiasmo del sindaco è alle stelle. Non solo ce l’ha fatta una settimana prima della scadenza dell’ultimatum di Cardin, ma anche un mese prima dell’apertura della Biennale. Il che gli eviterà il ripetersi della penosa situazione di due anni fa, quando il progetto del gruppo Benetton per la trasformazione del Fontego dei Tedeschi in centro commerciale venne esposto alla Biennale, prima di essere stato discusso in consiglio comunale.
Per i normali cittadini, l’arrivo a Venezia di un ennesimo benefattore che vuole regalarci una grande opera non rappresenta una novità, né lo saranno gli “imprevisti” costi e danni collaterali a carico dei contribuenti. La vicenda del palais lumière, però, ha alcuni elementi che la differenziano da altre del recente passato, primo fra tutti il fatto che questa volta il mecenate non si è fatto accompagnare da una grande firma dell’architettura. Benché sia stato da alcuni paragonato alla torre Eiffel, da altri definito in termini minimalistici una scultura abitabile, il palais lumiere non è opera di una archistar; l ’unica griffe è quella del committente/investitore. E quasi si trattasse di una mancanza di rispetto nei loro confronti, i notabili dell’architettura italiana hanno reagito bocciando il progetto. Per una volta tutti d’accordo, ex rettori dell’Università IUAV di Venezia ed ex direttori della Biennale di architettura non solo ne hanno individuato i molti e verosimili impatti negativi sulla città ma, soprattutto, si sono lamentati, perché il progetto non è l’esito di un concorso (al quale avrebbero partecipato o come vincitori predestinati o come membri della giuria). Uno di loro, il professor Marino Folin, ha anche detto sdegnato che “se il progetto venisse approvato, vorrebbe dire che qualunque miliardario può venire a Venezia e fare quello che vuole”. Si tratta di osservazioni ragionevoli e condivisibili. E’ un peccato, però, che la credibilità di questi novelli Cappuccetto Rosso sia largamente minata dal fatto che tutti gli interventi che hanno contribuito alla distruzione di Venezia come città e alla sua trasformazione in terreno di caccia e rapina per investitori e speculatori- dal ponte di Calatrava al palazzo del cinema del Lido, dal mulino Stucky alla creazione di nuove isole edificabili in laguna - siano stati promossi, propagandati, dotati di garanzia di qualità, dalle prestigiose istituzioni da loro presiedute.
Links:
Il Palais Lumière è sempre più realtà: il consiglio comunale dà l'ok al progetto
Palais Lumière, appartamenti con vista già in “vendita”
Corsa contro il tempo per la Torre di Cardin:
Orsoni: progetto da portare a casa
Torre Cardin, interviene anche Napolitano
Davvero a Venezia i soldi possono muovere ogni cosa? Non ci possiamo credere! Eppure la storia del grattacielo di Cardin così insegnerebbe. Raccontiamo in due parole la discutibile vicenda per chi ancora non la conoscesse.
Pierre Cardin, novantenne, ha deciso di lasciare su questa terra un segno più duraturo (e visibile) di un bel vestito, di una splendida collezione di moda: una costruzione altissima, tutta di vetro, disegnata da lui stesso. Si tratta di tre torri a vela, alte 250 (250!) metri unite da sei dischi, 60 piani, per la superficie totale di calpestio di 175.000 mq.
E dove vorrebbe costruire il mastodonte? Ma nel posto più visibile e (se anche questa storia va in fondo) meno tutelato al mondo: Venezia. Certo, in Piazza S. Marco è un po’ difficile, ma in gronda lagunare, perché no? Tanto in Laguna si possono scavare nuovi canali portuali, fare nuovi porti, costruire nuove aree logistiche, forse anche metropolitane subacquee. E’ vero, la Laguna, con Venezia, è un sito UNESCO, ma tutto filerà liscio: l’investimento è tutto privato, un miliardo e mezzo di euro, e troverebbero occupazione 4.500 addetti. Si può dire di no? Comune, Provincia, Regione sono festosamente favorevoli all’opera.
Piccolo problema, le norme urbanistiche: il Palav, il PAT etc. non contemplano un simile gigante. Si invoca addirittura un decreto legge ad hoc tanti sono gli ostacoli normativi. Per ultimo, il parere negativo dell’ENAC (Ente nazionale aviazione civile): l’intervento supera di ben 110 metri i limiti previsti dai vincoli di sicurezza per la vicinanza all’aeroporto. Chiunque capirebbe che il rischio di collisione è concreto: qui gli aerei volano anche a 300 metri di altezza.
Il dibattito in città è rovente: «il territorio reggerà una tale dimensione - ovviamente sotto molteplici aspetti -?», si interroga Gianfranco Vecchiato con la speranza che qualcuno convinca Cardin «che entrare nella storia si può da subito L’Arsenale ad esempio, può offrire spazi restaurati per il centro internazionale della moda».
E il palazzone in sé? Per Sandro Mannoni «sembra l’immagine uscita dalla matita di un cartoonist di fantascienza piuttosto che da uno studio di architettura». E Roberto Bianchin rincara: è un «fungo malato», un «delirio luminescente» proposto a Marghera perché lì «si può costruire praticamente di tutto senza vincoli e senza vergogna». Ma Cardin non ha dubbi, seppur non consta che sia architetto - ma potremmo sbagliare -, è fiero del suo palazzo-vaso di fiori (come lo si chiama nelle calli della città, essendo la sua forma ispirata da tre fiori in un vaso visti nella sua casa di Parigi) e lo paragona addirittura al campanile di S. Marco. Per carità, visioni e fantasie comprensibili, se private. «È un regalo che faccio a me stesso, a Venezia e al mondo. I soldi non mi serviranno quando sarò morto», afferma. Se non si correrà tutti ad approvarla se la porterà in Cina (Ohibò! una costruzione nata a Parigi e posata indifferentemente qui o altrove? È architettura questa?). Così Cardin sollecita Monti, scrive a Napolitano (che a sua volta ha scritto a Passera!).
Sappiamo dalla stampa che l’ENAC è «sottoposta in questi giorni a un’enorme pressione politica»: i nostri amministratori sperano che derogherà di 100 metri dal regolamento aeroportuale nazionale che ha recepito la normativa internazionale. Tutto è possibile: oggi la regola è la deroga. In questi termini si è espresso il presidente della Regione, Zaia: «spero che il ministro Passera si metta una mano sul cuore di fronte ai divieti posti da ENAC»; in caso contrario la decisione «sarebbe contro il Veneto e contro tutto in nord». E pazienza per Venezia (da ridere gli scrupoli della commissione di salvaguardia che ha voluto contenere l’altezza degli edifici nel parco di S. Giuliano a 10,5 m!).
Per noi di Italia Nostra il mostruoso gigante, con albergo e ristorante con vista mozzafiato, a 225 m di altezza, rappresenta un’ulteriore manifestazione di un modo distorto di fruire delle meraviglie di Laguna e città, senza preoccuparsi dei ritmi dei luoghi, dello skyline del paesaggio, senza entrare in armonia con esso ma riuscendo solo a stravolgerlo e a piegarlo alle esigenze del profitto. L’edificio-mostro rientra nella logica delle varie mega-navi che attraversano Venezia e delle ruote panoramiche disneyane dalle quale il turista può bearsi di un impatto immediato, mordi-e-fuggi, con Venezia e la sua Laguna, senza curarsi minimamente di stravolgere proporzioni ed equilibri stabiliti da secoli.
E’ una questione di cultura: una città che non consentì a Wright di costruire un palazzetto si fregerà di un enorme, sovradimensionato e arrogante super super palazzo, una sorta di nuova cittadella in elevato?
Tale abominio fuori scala, visibile ovunque da Venezia perché sovrasta qualsiasi costruzione (è più alto del campanile di S. Marco di 150 m!) cambierà per sempre la percezione della città e ci costerà la cancellazione dalla lista dei siti Unesco. Nel 2009 per molto meno Dresda venne espunta: per la costruzione di un ponte perché in parte visibile dalla città barocca. A Venezia il ‘vaso’ di notte, essendo tutto in vetro, sarà illuminatissimo e visibilissimo: Palais lumère l’hanno appunto chiamato. Ricordo cosa rimproverava Anna Somers Cocks (del Comitato ‘Venice in Peril Fund’) ai giganteschi cartelloni pubblicitari sempre illuminati: «They take away the wonderful darkness of Venice», portano via la meravigliosa oscurità di Venezia. Cosa dovremmo dire ora!
La prima precauzione nell’analisi delle politiche pubbliche è quella di diffidare delle etichette: i titoli dei provvedimenti servono spesso più a camuffare che a svelare; tra gli obiettivi espliciti e quelli realmente perseguiti può correre a volte una bella differenza. È così per il disegno di legge regionale sul paesaggio che, dopo il via libera in commissione, approda in consiglio regionale in vista della sua definitiva approvazione, complice magari l’inevitabile disattenzione agostana.
Il fatto è che questo disegno di legge — spesso impropriamente definito in alcuni articoli di stampa come il “nuovo piano paesaggistico” — con il paesaggio e con le procedure previste dal relativo codice, non c’entra proprio niente. È vero invece che esso contiene robusti aspetti di incostituzionalità, che condurranno con tutta probabilità alla sua impugnazione da parte del ministero per i Beni e le attività culturali. Piuttosto, liberato dell’involucro propagandistico, il provvedimento può essere considerato come l’ultima puntata dell’infinita telenovela del “piano casa”, la polpetta avvelenata che il governo Berlusconi ha propinato alle 20 regioni italiane.
Il ragionamento è più o meno questo: per far ripartire l’economia occorre dar fiato all’edilizia, e questo è possibile solo sgombrando il campo da controlli e procedure autorizzative, disboscando energicamente la selva di vincoli, recidendo lacci e lacciuoli che frenano l’iniziativa. È proprio quello che si provvede a fare con il disegno di legge sul paesaggio, il cui esito certo, per ora, è il drastico allentamento dei vincoli precauzionali, a partire proprio dalla zona rossa del Vesuvio, e da territori di importanza strategica compresi nel Piano urbanistico territoriale della Penisola sorrentino-amalfitana.
Tanta audacia è controbilanciata dall’introduzione di sofisticati strumenti di contabilità e compensazione ambientale, già difficili da applicare nell’austera Germania, dove pure sono stati escogitati, con la differenza che lì non ci sono 60 mila alloggi illegali con sentenza di abbattimento, né centinaia di migliaia di pratiche inevase di sanatoria, perché a quelle latitudini il fenomeno dell’abusivismo edilizio semplicemente non esiste.
Appaiono quindi più che giustificate le perplessità sollevate da Aldo De Chiara, un’autorità in materia, sull’opportunità di abbassare la guardia proprio in contesti tanto delicati, a elevata patologia urbanistica, ma la sensazione è quella di una cambiale elettorale giunta inesorabilmente a scadenza.
Resta da capire quanto sia fondato l’assunto che è alla base della legislazione emergenziale del “piano casa”, e per far questo basta girare lo sguardo a occidente, ai nostri cugini spagnoli, che un’esperienza simile l’hanno vissuta su vasta scala, con la lunga deregulation urbanistica di Aznar e Zapatero. Il risultato è che l’economia spagnola, con un rapporto debito/pil intorno al 70 per cento, molto inferiore al nostro, sta morendo a causa dell’esposizione delle banche nei confronti del settore immobiliare, con spettrali città di nuovo impianto invendute, le sofferenze sui mutui, gli sfratti, gli indignados in strada.
Perseverare anche da noi su questa strada è spiegabile solo con una salda fiducia nel metodo omeopatico: la speranza cioè che la malattia possa essere curata continuando a somministrare al paziente la stessa tossina che l’ha provocata.
La proposta governativa di accorpare alcune delle attuali province, per risparmiare soldi, potrebbe offrire l’occasione per una originale operazione culturale ed ecologica. I confini fra le regioni e le province italiane coincidono, in molti casi, con quelli fra gli stati esistenti prima dell’unificazione d’Italia del 1861. Molti di tali confini erano rappresentati dai fiumi che, in quei tempi, erano facilmente difendibili da una invasione nemica e rendevano facile controllare i commerci e riscuotere le imposte: ne sono esempi il Ticino fra Piemonte e Lombardia, il Po fra Veneto e Emilia, eccetera.
La cultura ecologica odierna ha invece riconosciuto che il fiume è punto non di divisione, ma di unione fra terre vicine e ha rivalutato l’importanza del bacino idrografico, quel territorio i cui confini, ben definiti geograficamente, coincidono con gli spartiacque dei monti e colline. Nel bacino idrografico, che comprende il fiume principale e i suoi affluenti, torrenti e fossi, si svolgono tutte le attività agricole, industriali, urbane; nel bacino idrografico vengono immessi tutti i rifiuti solidi, liquidi e anche gassosi, generati dalle attività umane, ma anche i prodotti dell’erosione dei terreni: Tutte le frazioni solubili dei rifiuti, dai residui dei concimi, a quelli industriali, ai rifiuti urbani, immessi nel bacino, si disperdono nelle acque superficiali e sotterranee e vengono trascinate dalle piogge verso il mare che funziona da grande collettore finale di tutti gli eventi ecologici ed umani che si sono svolti all’interno del bacino.
Soltanto nell’ambito di ciascun bacino idrografico possono essere organizzate le azioni di lotta all’inquinamento delle acque e di difesa del suolo mediante rimboschimento. Per inciso, l’acqua che scorre nei bacini idrografici italiani ha un “contenuto di energia rinnovabile” di circa 200 miliardi di chilowattore all’anno, ma di queste solo una quarantina è prodotta oggi come energia idroelettrica.
L’importanza del fiume e del bacino idrografico ai fini dell’amministrazione del territorio fu riconosciuta dall’assemblea costituente della Repubblica nata dalla Rivoluzione francese del 1789; un gruppo di geografi ebbe l’incarico di dividere il territorio francese in dipartimenti a ciascuno dei quali fu dato il poetico nome del fiume principale o della montagna; così da allora si hanno i Dipartimenti della Mosa, della Mosella, dell’Alta Loira, del Basso Reno, eccetera, un centinaio più o meno come le province italiane attuali. Lo stesso criterio fu applicato ai territori italiani ”sotto” la Francia, nacquero così i Dipartimenti dell’Olona (con capoluogo Milano); del Serio (capoluogo Bergamo); del Brenta (capoluogo Padova); del Basso Po; del Reno (capoluogo Bologna); del Taro, dell’Arno (capoluogo Firenze), dell’Ombrone (capoluogo Siena), eccetera. In Francia i dipartimenti col nome di fiumi sopravvivono da due secoli, in Italia furono cancellati dalla restaurazione del 1814.
Nell’attuale divisione amministrativa dell’Italia, i fiumi e i bacini idrografici sono frazionati fra regioni e province vicine, ciascuna delle quali può condurre una politica ambientale differente, al punto che certe attività possono essere vietate su una riva di un fiume e permesse sull’altra riva se questa è “sotto” un’altra regione. Soltanto nel 1989 fu emanata una legge di difesa del suolo e delle acque che prevedeva che le attività nell’ambito di ciascun bacino idrografico, anche se esso si estendeva nel territorio di differenti regioni o province, dovesse essere gestita da speciali autorità di bacino che avrebbero dovuto coordinare le iniziative e pianificare (la legge usava proprio questo termine) gli interventi e le spese, costringendo le regioni a decidere insieme quello che occorreva fare o non fare nel bacino idrografico che ricadeva nei rispettivi territori.
La legge non ebbe mai effettiva applicazione e poi è stata sostituita da altre; la diffusione di una “cultura” di bacino idrografico, quella che avrebbe potuto portare ad una solidarietà fra gli abitanti di ciascun bacino, indipendentemente dalla regione di appartenenza, si è sempre scontrata con interessi politici e amministrativi locali. Ebbene: nella suddivisione e riaggregazione delle varie province i nuovi confini potrebbero coincidere con quelli dei bacini idrografici, magari assegnando alle nuove province il nome del fiume principale. Tanto per fare un esempio, le province di Foggia, Barletta, Andria, Trani potrebbero diventare, senza far torto a nessuno, una “Provincia dell’Ofanto”. Perugia e Terni hanno in comune il bacino dell’”Alto Tevere”; Siena e Grosseto “appartengono” al bacino dell’Ombrone; La Spezia (Liguria) e Massa Carrara (Toscana) hanno in comune il bacino del Magra-Vara (e che siano state costrette a lavorare insieme si è visto nell’alluvione dell’ottobre 2011).
Nel gran fermento di proteste per lesi interessi locali, la presente modesta proposta può sembrare una bizzarria. Forse il governo potrebbe consultare un gruppo di storici e geografi per verificare se è possibile trasformare una operazione di risparmio di soldi, in una duratura riforma amministrativa, culturale e ambientale.
La proposta di Giorgio Nebbia ha un triplice significato positivo: (1) riproporre, come base delle decisioni sul territorio che ne comportano le trasformazioni e l loro governo, la sua natura propria (e il territorio non è una macchina per far quattrini, ma la dimora dell’umanità e di molte altre specie; (2) nel sottolineare, in qualunque discorso o dispositivo che concerna il territorio, il ruolo delle acque che sono, un bene primario per tutti (“universale” più che “comune”); (3) invitare a porre il ragionamento, e le decisioni, sulle province e il loro abbandono su una base appena un po’ più razionale di quella del letto di procuste e delle determinazioni esclusivamente quantitative, e per di più meramente finanziarie e congiunturali.
La questione è: quali sono i problemi del territorio (come città dei cittadini, e non come mero supporto all’incremento di un PIL drogato dalle rendite) che richiedono un governo d’area vasta, e quindi una visione e un insieme di politiche per le quali sia la dimensione locale che quelle sovraordinate – comprese la nazionale e la regionale – si sono rivelate fin dall’inizio incompetenti. Nebbia sottolinea il ruolo delle acque, ed è certamente di grande rilievo, ma non è la sola questione che richiede un governo (e un’istituzione) d’area vasta. C’è poi quello della mobilità e dei trasporti, dell’abitazione, delle attrezzature e dei servizi intercomunali e sovralocali, quello della gestione dei rifiuti e via enumerando.
su eddyburg ci sono numerosi scritti che illustrano le ragioni del governo d’area vasta, del ruolo delle province e di quello della pianificazione territoriale (generale e specialistica)in relazione a qesti problemi. Qui di seguito ne indichiamo qualcuno, Sono una testimonianza del modo in cui se ne discusse, e dei risultati che si raggiunsero nei decenni che precedettero quelli torpidi e insensati nei quali ancora viviamo, sempre più a fatica.
Livelli di pianificazione e livelli di governo, Intervento, Bologna 1984 piano d’area vasta nell’esperienza di Salerno, saggio, Pianificazione e paesaggio nel Mezzogiorno, saggio, Piano per la regione metropolitana di Parigi, Lucio Gambi e la riforma delle circoscrizioni amministrative
Le macerie del municipio ottocentesco di Sant’Agostino - fatto saltare con la dinamite per ordinanza del sindaco, e a favore di telecamere – sono anche le macerie del nostro millenario rapporto con l’arte.
L’assessore ai Lavori Pubblici del comune emiliano ha dichiarato all’Ansa che le decorazioni del salone: “non erano opere di valore: si tratta di opere di soggetto campestre realizzate da artisti locali, e comunque non sarebbe stato facile recuperarle … È anche il segno della ripresa. Ora si potrà partire con un concorso di idee per un nuovo palazzo”.
Sull’ineluttabilità della demolizione è difficile avere informazioni precise: bisogna sostanzialmente fidarsi di chi l’ha disposta. Può darsi che davvero non si potesse far niente per salvare il municipio, anche se è impossibile non notare che, se fosse vero, sarebbe singolare averlo lasciato in piedi per due mesi. È però un fatto che, fin dai primi giorni dopo il terremoto, la sezione emiliana di Italia Nostra ha messo in guardia dagli abbattimenti decisi senza reale necessità e senza rispettare le leggi di tutela.
A far sospettare che la decisione sia stata corriva è il resto della dichiarazione dell’assessore, per il quale non si trattava in fondo di opere ‘di pregio’, e per il quale l’esplosione e il successivo, prevedibile, cemento sarebbero vitalistici e futuristici segni di ripartenza.
Personalmente non riesco a capire come la ripresa possa passare attraverso la dinamite e il cemento. “Solo i vandali possono pretendere che la città moderna nasca dalle macerie della città antica. Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che la salvaguardia integrale del vecchio e la creazione del nuovo nelle città sono operazioni complementari, due momenti indissolubili dello stesso procedimento, che antico e moderno hanno prerogative materiali e spirituali distinte e vicendevolmente necessarie … Insomma, solo chi è moderno rispetta l’antico, e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire la necessità della civiltà moderna”. Lo scriveva Antonio Cederna nel 1956: e a me sembra sempre verissimo.
Quanto al concetto di ‘pregio’. La Costituzione non tutela “le opere di pregio”, ma il “patrimonio storico e artistico della nazione”. Quel patrimonio è il tessuto continuo di cui parla Cederna, non le singole emergenze ‘di pregio’: ed è il martellamento del marketing che pompa i Caravaggio e i Leonardo veri e finti che ce lo ha fatto dimenticare, inducendoci a pensare che la tutela avvenga su basi estetiche.
Con quale coraggio il Comune di Sant’Agostino, e le soprintendenze emiliane che hanno distrutto il municipio, negheranno domani la distruzione di un giardino, o di un padiglione ottocentesco o liberty, al cittadino che vuole farsi l’autorimessa o la piscina? Non potrà dire, quel cittadino, che la sua personalissima ripresa ha da passare per quella distruzione?
Ma per fortuna in Italia non ci sono solo cittadini che inneggiano al cemento e alle ruspe.
A Ferentino, per esempio, un comitato civico ha ingaggiato una sacrosanta battaglia per difendere il contesto architettonico antico della chiesa romanica di Santa Lucia. Dopo aver denunciato la distruzione di un muro, al più tardi rinascimentale, appoggiato alla chiesa, il Centro ricerche e documentazione Ferentinum ha scoperto che la decisione era venuta nientemeno che dalla Soprintendenza archeologica, che non si era consultata con le altre soprintendenze, e che non aveva ritenuto quel muro – guarda un po’ – ‘di pregio’.
Sempre in Lazio, a Colleferro, è in corso un’altra battaglia: questa volta per difendere il castello medievale sito sul colle eponimo. Nonostante una valanga di pareri contrari (tra cui quello della sua stessa Commissione edilizia), il Comune vorrebbe avallare la costruzione di nove palazzine (una di quattro piani e tutte con garage) in un’area verde addossata al Castello. I cittadini reagiscono (li si può aiutare firmando qua), e propongono destinazioni alternative coerenti con l’interesse pubblico.
Il loro slogan è anche la convinzione di quella parte di Italia che pensa che il futuro non passi attraverso la distruzione: “Non possiamo seppellire sotto una colata di cemento le radici stesse della storia!”.
Siamo certi che i celebrati musei stile Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry facciano davvero rifiorire le città? Siamo certi che servano per il marketing urbano, il turismo e la crescita? Contro la retorica dell' «effetto Bilbao» diffusa in gran parte del mondo, retorica che sta portando le città a competere nel collezionare architetture spettacolari, è uscito un libro di Davide Ponzini e Michele Nastasi "Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee" (Allemandi, pp. 146, 30). Ponzini è un ricercatore dell'area urbanistica che ha studiato a lungo le ricadute di queste architetture in chiave economica e sociale ed è intervenuto in recenti convegni internazionali al termine dei quali, riporta la pubblicistica straniera, persino importanti fondazioni sono state indotte a riflettere su alcune aperture di musei futuri. In alternativa all'insistente celebrazione mediatica di ogni architettura nichilista dell'iperconsumo — che comunque rappresenta e rispecchia i nostri tempi — gli autori propongono una lettura critica delle molteplici implicazioni urbane di edifici, piani e progetti per le varie Bilbao, Abu Dhabi, Parigi e New York. L'architettura, infatti, non è solo un linguaggio e, tantomeno, un «evento». E uno dei temi che si è sottovalutato è la rapida obsolescenza architettonica e mediatica di queste gioiose macchine da guerra messe in scena in città non sempre appropriate. Per dirne una — e forse è una buona notizia — appare incerto il destino dell'approvato nuovo Museo di arte contemporanea di Milano firmato da Daniel Libeskind. Fu vera gloria?
Dopo il terremoto che ha colpito Emilia e Lombardia, si affaccia il pericolo che le mafie possano approfittare della situazione di emergenza per investire i soldi provenienti da traffici illeciti nella ricostruzione delle città colpite dal sisma. «La mafia gli affari li fa solamente con il famoso tavolino a tre gambe», spiega Lucia Musti, procuratore aggiunto della procura della Repubblica di Modena e pubblico ministero per diversi anni alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna,«nel senso che una di esse deve essere per forza la politica a livello locale, ossia gli amministratori comunali».
Qualche settimana fa è stato siglato in Regione un protocollo di legalità per la ricostruzione: è la conferma che l’appetito delle mafie è forte?
Le mafie fanno impresa. L’operatività in diversi settori economici costituisce ormai il primo sbocco dell’attività della criminalità organizzata. La mafia seria è quella imprenditrice, che agisce silenziosamente e non è certo quella che spara. È quella che ricicla, reimpiega in attività legali fiumi di denaro provenienti da attività illecite come il traffico di stupefacenti, l’organizzazione del gioco clandestino, lo sfruttamento della prostituzione. I terremoti, che ahimè costellano la storia del nostro Paese, sono certamente un veicolo di reinvestimento sicuro per le mafie e quindi lo è, potenzialmente, anche quello che ha colpito l’Emilia.
Ne parla come si trattasse di un fatto ineluttabile.
Le racconto un fatto che chiarisce bene il mio pensiero. Durante il terremoto de L’Aquila, al tempo in cui ero pubblico ministero della Dda di Bologna e dunque con competenza regionale, mi furono inviati degli atti da una collega di Reggio Emilia. Si trattava di intercettazioni svolte nell’ambito di indagini su un banale traffico di stupefacenti locale, che contenevano una telefonata tra un casalese ed un appartenente alla ‘ndrangheta. Ebbene, i due si stavano organizzando per andare a L’Aquila a far visita a un certo amico assessore di un certo Comune, al fine di pianificare l’inserimento di aziende affiliate alle rispettive organizzazioni nella ricostruzione post terremoto.
Questo evidenzia anche come senza la collaborazione istituzionale gli affari la mafia fa fatica a farli.
Certo. Gli affari la mafia li fa solamente con il famoso tavolino a tre gambe, nel senso che una di esse deve essere per forza la politica a livello locale, ossia gli amministratori comunali. Da questo punto di vista, non intravvedo il rischio che la mafia trovi sponde istituzionali nei territori funestati dal terremoto.
Resta però il fatto che la mafia è presumibile si stia organizzando per tentare di avere un ruolo nella ricostruzione.
È evidente. Le mafie si mobilitano e si organizzano rapidamente. Per loro è una fortuna che ci siano i terremoti, in particolare in zone come queste, ad alta capacità produttiva e dove c’è un’esigenza fortissima di riprendere a produrre nel più breve tempo possibile.
Da chi dobbiamo guardarci in particolare?
I mafiosi non abbiamo bisogno che vengano da fuori, ce li abbiamo in casa: gli affiliati ai casalesi ed alla ‘ndrangheta, i cutresi in particolare, sono già presenti in Emilia Romagna da anni. Sono attivi soprattutto nell’industria del mattone e quindi già pronti a intervenire nel processo di ricostruzione. È un fatto storico che in Emilia Romagna ci sono insediamenti mafiosi, qualcosa in più di una semplice infiltrazione, qualcosa in meno di un vero e proprio radicamento. Le Autorità costituite non possono più chiudere gli occhi, della serie “non vedo, non sento, non parlo” come le tre scimmie sagge…
E quale è la fetta della torta della ricostruzione che le mafie cercheranno di aggredire?
L’ambito dove le mafie possono “mangiare” più facilmente è quello della ricostruzione privata, perché in tale settore è più basso il livello di controlli. Rispetto alle gare pubbliche, la nuova legislazione in materia sicuramente costituisce un filtro all’inserimento da parte di ditte affiliate, poichè crea le condizioni per cui sia possibile ricostruire con precisione tutta la filiera di appalti e subappalti. Poi la normativa in tema di tracciabilità del denaro è un serio ostacolo alle operazioni di riciclaggio e di reimpiego di denaro illecito in attività economiche.
C’è però da considerare che i capi-clan e gli affiliati difficilmente sono a capo delle aziende.
In effetti facciamo i conti con il fatto che le mafie non sono fatte da personaggi che girano con la coppola in testa, privi di istruzione scolastica, ma si reggono anche su professionalità di alto livello (notai, commercialisti, ingegneri, progettisti, eccetera), che mettono appunto a disposizione dei clan competenze e cognizioni. Questo per dire che i clan sono tutt’altro che sprovveduti e cercheranno di aggirare i protocolli ed eludere la normativa. E poi, in genere ci sono i cosiddetti uomini di paglia, le teste di legno in prima linea nella gestione degli affari. Il rischio più grande è che ci sia anche la società di legno, costituita con i crismi della legalità, ma dietro la quale si celano situazioni di malaffare.
Lei crede che le istituzioni regionali e locali, al di là delle dichiarazioni di intenti, profonderanno uno sforzo straordinario perché la ricostruzione non sia inquinata dalle aziende dei clan?
Secondo me sì. Le Istituzioni ora hanno consapevolezza del tema. Consideri che pur tardivamente e dopo quello che io definisco un lungo periodo di sonno, la Regione, per merito in particolare di Simonetta Saliera, vicepresidente della giunta Errani, ha varato due leggi importanti sul contrasto della criminalità organizzata. Una di queste ha stanziato delle risorse per promuovere la cultura della legalità tra le giovani generazioni e questo è essenziale. C’è insomma una nuova consapevolezza sul tema, confermata e rafforzata dalla presenza di una vasta platea di associazioni impegnate contro le mafie.
Sul fronte delle gare pubbliche, molto dipenderà dalla volontà e capacità del Commissario straordinario di evitare ogni possibile contaminazione da parte della malavita organizzata.
Il protocollo siglato rappresenta una dichiarazione di intenti, che va necessariamente tradotta in atti concreti conseguenti. È comunque un primo passo importante. Ciò a fronte di un governo regionale che, allo stato, pare essersi comportato nel rispetto della legalità.
La fame di credito da parte di chi vuole ricostruire velocemente per ripartire al più presto può essere un ulteriore terreno fertile per i clan?
Il rischio che la malavita organizzata faccia, come si suol dire, da banca alternativa, è effettivo. Con la evidente conseguenza per cui la messa a disposizione di somme di denaro a tassi usurari, potrebbe dare luogo a situazioni di asservimento alla malavita organizzata e di inquinamento del tessuto economico-produttivo. Rendiamoci conto che il mercato del credito parallelo è nelle mani dei clan e purtroppo, in una situazione come questa, è più facile che il denaro venga ottenuto da questo canale che da canali ufficiali.
Un’ultima domanda, dottoressa Musti: la mafia può essere vinta?
La mafia esisterà fino a quando esisterà l’essere umano. Guardi non si tratta di avere un atteggiamento arrendevole, quanto invece consapevole del valore del “nemico”. Conosco le potenzialità della mafia, gli strumenti che utilizza. Più andiamo avanti, più crescono gli strumenti della malavita organizzata e più diminuiscono quelli a disposizione dello Stato, che tuttavia fonda la sua più grossa offensiva sul diffuso senso del dovere da parte delle forse dell’ordine e della magistratura. È preferibile un atteggiamento concreto, continuare a lavorare e tenere sempre alta la guardia con la consapevolezza che per il contrasto alle mafie non basta solo l’impegno di coloro che sono preposti a tale compito, ma è necessario anche il sostegno della collettività e la più ampia diffusione della cultura della legalità.
Il PPR DI SORU va difeso. E’ in linea con la Costituzione e per le altre Regioni è un modello insuperato. Pericolo cemento. Tornando indietro l’isola perderebbe paesaggi unici al mondo. I ritardi di Mario Monti. Sui Beni culturali si fa poco e il ministro Ornaghi forse è anche peggio di Bondi
Archeologo e storico dell’arte di prestigio internazionale, accademico dei Lincei, direttore sino al 2010 della Scuola Superiore Normale di Pisa, Salvatore Settis da anni si batte per la tutela del paesaggio e dei beni culturali, anche dalle pagine di Repubblica, di cui è una delle firme più autorevoli. Domani pomeriggio sarà a Cagliari per partecipare ad una tavola rotonda dal titolo “Il valore della Terra”, organizzata da Sardegna Democratica.
Il presidente della Regione Ugo Cappellacci ha presentato il 13 luglio le sue "Linee guida" alla modifica del Piano paesaggistico . Qual è la sua valutazione del progetto della giunta regionale?
«Con incredulità e con dolore, vedo nel nuovo progetto l'intento di devastare la Sardegna, e lo strumento per renderlo possibile. Questa la mia valutazione, ma vorrei specificare. Credo infatti che bisogna rispondere pensando alla Sardegna, ma pensando anche all'Italia.
Pianificare il paesaggio è un tema importantissimo, delicatissimo in tutto il mondo, e in Italia lo è ancor di più, per due ragioni: la straordinaria stratificazione di bellezza e di storia del nostro paesaggio, ma anche la tradizione altissima di civiltà e di cultura che è alla base della normativa italiana di merito. Basti ricordare che la prima legge sul paesaggio è dovuta a un ministro della Pubblica istruzione che si chiamava Benedetto Croce (1920). La legge Croce fu poi riscritta e ampliata in una delle due leggi Bottai nel 1939:leggi di un governo fascista che nulla ebbero di fascista, tanto è vero che nell'Assemblea costituente di una Repubblica nata contro il fascismo nacque l'articolo 9 della Costituzione, che contiene (lo ha scritto Sabino Cassese) la "costituzionalizzazione delle leggi Bottai". Prima al mondo, l'Italia poneva la tutela del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato.
Da questa lunga linea di continuità nasce anche il Codice dei Beni culturali e del paesaggio (2004), che contiene l'attuale normativa. Ora il fatto è che la Sardegna è stata, con la giunta Soru, la regione italiana che ha interpretato questa tradizione con la massima intelligenza e fedeltà alla legge e alla Costituzione, e nel massimo rispetto della storia della Sardegna, ma soprattutto del suo futuro. Quel piano paesaggistico è un modello insuperato in Italia e, data la rilevanza dei paesaggi sardi, ha importanza europea e globale. Buttando via quel Piano, la Sardegna commetterebbe due specie di suicidio: danneggiando irreversibilmente i propri paesaggi unici al mondo, ma anche perdendo l'occasione storica di essere la Regione-modello per tutta Italia».
Uno degli argomenti che vengono portati a sostegno delle modifiche al Ppr è che i vincoli avrebbero causato la perdita di migliaia di posti di lavoro. Argomento fondato? «Da decenni ci vien ripetuto che l'edilizia è il principale motore dell'economia in Italia, che condominii, villette a schiera, autostrade e altre "grandi opere" ci salveranno dalla recessione. Su questa spietata cementificazione del territorio viene posta un'etichetta incoraggiante: sviluppo. E' in nome di questo sviluppo che si sono succeduti, da Craxi in poi, condoni edilizi e ambientali, piani casa, disposizioni in deroga alla legge. Ma se questa retorica dello sviluppo fosse vera, visto che la pratichiamo da almeno quarant'anni, allora come mai l'Italia è in recessione? Perché la crisi economica mondiale è partita dalla "bolla immobiliare" degli Stati Uniti e di altri Paesi, dall'Irlanda alla Spagna? Difendere i posti di lavoro è importantissimo, ma la priorità numero uno oggi in Italia, quella su cui indirizzare l'occupazione, è la messa in sicurezza del territorio, il più fragile d'Europa. Occorre una politica, e una poetica, del riuso degli edifici abbandonati o sottoutilizzati. E' folle continuare a costruire in un Paese in cui ci sono da 2 a 4 milioni di appartamenti invenduti. Dove (credo anche in Sardegna) si lasciano morire interi villaggi di meravigliosa architettura tradizionale per costruire squallide imitazioni di architettura californiana».
La crisi globale spinge a una ridefinizione delle coordinate su cui basare economia e finanza. Ambiente e beni culturali possono svolgere un ruolo? «Abbiamo in Italia, pronto per l'uso, un manifesto da mettere in pratica: la Costituzione. Essa ha al centro l'idea di bene comune, il progetto di costruire una società libera e democratica sulla base dei diritti dei cittadini. Il grande movimento mondiale contro la cieca dominanza dei mercati potrebbe e dovrebbe trovare in Italia un punto di forza. Vorrei dirlo con le parole di un grandissimo economista, Keynes. Egli esortava a liberarsi dell' "incubo del contabile", e cioè del pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta immediati frutti economici. "Invece di utilizzare l'immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, creiamo ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché fruttano, mentre – nell’imbecille linguaggio economicistico – la città delle meraviglie potrebbe ipotecare il futuro". E Keynes continua: “Questa "regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo". Ecco: devastare il paesaggio in Sardegna sarebbe come fermare il sole e le stelle».
C’è anche un problema di tutela del paesaggio agrario. Cosa si sta facendo in Italia?
«Molto si sta muovendo, ma in modo assai disordinato. In alcune regioni (come il Piemonte, la Puglia o la Toscana) sono in corso interessanti discussioni ed elaborazioni di piani paesaggistici, in cui quello sardo della giunta Soru è sempre un cruciale punto di riferimento. In altre manca invece una vera volontà di affrontare questo tema. Ma la vera tragedia è un'altra, la quasi totale mancanza di coordinamento fra le varie regioni, anche quando i loro territori sono confinanti. La Sardegna è un caso a parte, perché è un'isola. Ma Abruzzo e Molise condividono un territorio nel quale c'è un importante Parco nazionale; il Lago di Garda è diviso tra tre regioni. Eppure i coordinamenti sono pochissimi. Manca la capacità politica e culturale del ministero di proporsi come il vero cuore di un coordinamento a livello nazionale, come è prescritto dall'articolo 9 della Costituzione, dove si parla di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione, e cioè in modo uniforme e coordinato in tutta Italia».
E ci sono anche i beni culturali. Come si sta muovendo, su questo terreno, il governo Monti?
«Beni culturali e paesaggio (come dice l'articolo 9) formano in Italia una superiore unità. In questa legislatura la gestione del ministero ad essa preposto ha toccato il fondo dell'abisso. Abbiamo assistito a un continuo calo di risorse e di attenzione, con una micidiale sequenza di tre ministri pochissimo interessati e di nessuna competenza specifica (Bondi, Galan, Ornaghi). E' con dispiacere che, per amore della verità, bisogna dire che dei tre Ornaghi è forse il peggiore. Mario Monti è persona di grande cultura, ma non ha ancora trovato un'ora per accorgersene. Anche lui è dominato dall' "incubo del contabile"».
Le amministrazioni locali sono all’altezza del compito?
«L'inadeguatezza delle amministrazionr locali non è colpa dei sindaci. La giunta Soru aveva istituito un Ufficio del Piano (con fondi adeguati) per supportate i Comuni per l'adeguamento del Puc al Ppr. Ma l''Ufficio del Piano è stato smobilitato e ridimensionati i finanziamenti. Al punto che solo dieci Comuni hanno adeguato il Puc, e luoghi come Arzachena hanno strumenti fermi al 1971! E' in questa programmata disfunzione e inerzia delle istituzioni che alcune lobby di costruttori e di progettisti vorrebbero ritornare alla cosiddetta "urbanistica concertata". Concertata con loro, si capisce, contro la legge, secondo cui le scelte urbanistiche devono essere orientate esclusivamente dal bene comune di tutti e non dagli interessi di pochi».
Con nomi diversi, con caratteristiche proprie di ciascuna specifica civiltà giuridica, la Corte suprema svolge spesso il compito di tenere a freno gli impulsi più classisti del potere politico ed economico di riferimento. Lo ha fatto la Corte negli Stati uniti in difesa della riforma sanitaria di Barack Obama, in Germania la Corte di Karlsruhe ha tenuto duro sul reddito di cittadinanza e in questi ultimi giorni resiste, estremo baluardo europeo, contro il Fiscal compact e contro l'Ems - Meccanismo europeo di stabilità. E in questo è stimolata da Die Linke: segno che perfino in Germania, prima di cedere, la sinistra non rinunciataria le tenta tutte.
In Italia - ieri - un nuovo segnale dalla Corte Costituzionale. La nostra «Consulta» ha addirittura messo in salvo il patto tra cittadini rappresentato dai referendum di un anno fa, i famosi referendum sull'acqua pubblica. Nel sistema italiano un referendum è un secondo modo, diretto, per fare una legge, a fianco dell'altro, più tradizionale, svolto dalle rappresentanze parlamentari. Serve una legge esistente (da abolire), la raccolta di mezzo milione di firme e il voto della maggioranza degli elettori. I poteri forti, nel loro alternarsi, sono rimasti compatti almeno su un punto. Ai referendum non hanno mai creduto, l'hanno sempre scambiati per un giorno di vacanza, un grasso martedì di carnevale, per poi non farne niente, tornare alla politica vera, all'economia delle spartizioni decisive.
Anche in questo caso: i governi, nell'anno successivo ai referendum sull'acqua, hanno scelto la linea di minimizzarne l'esito, tranquillizzare le imprese, nazionali e multinazionali: «Niente cambia, tutto come prima», assicurando i loro decisivi interessi idrici nella futura irrimediabile siccità. L'acqua come grande business promesso per i cent'anni avvenire, con lauti profitti sicuri; l'acqua dolce, privata, da catturare e mettere in circolo, a disposizione dei popoli, delle città, delle famiglie, purché in grado di pagare le salate bollette. Certo i governi di Roma hanno giocato sulle parole e sulle frasi dei referendum in attesa che non fossero del tutto dimenticate, ma nella sostanza hanno spiegato ai futuri padroni dell'acqua che non c'era spazio per ogni e qualsiasi fantasia legata a stravaganti beni comuni, anzi alla "Tragedia dei beni comuni", secondo l'insegnamento di tanti anni fa e ancora per loro validissimo, di Garrett Hardin.
La decisione della Corte italiana, sulla base della richiesta di sei regioni, ha sconvolto i piani. Gli interventi dei quotidiani importanti, a parte la felicità espressa da Mattei e Lucarelli sul nostro manifesto, per conto di noi tutti, hanno mostrato fino in fondo il disorientamento dei grandi poteri. Dopo tutto i beni comuni esistono, o almeno alla Corte costituzionale ci credono, è stata la prima riflessione, seguita dalla seconda: «e adesso che si fa»? L'idea di dover fare i conti con qualcuno (milioni di schede, la maggioranza dei cittadini) e con qualcosa (una scelta opposta alla loro, generosa, solidale) li manda in tilt. Chi glielo dirà ai banchieri dell'acqua, ai boss delle spiagge, del cemento, dei rifiuti, dei tunnel, dei rigassificatori, del petrolio e a chi compra e vende pezzi di natura, che le cose stanno cambiando?
IL LORO arrivo potrebbe compensare la fuoriuscita di capitali speculativi. Quei capitali che abbandonano i nostri Btp per rovesciarsi sui Bund tedeschi, e sono perfino disposti a pagare (interesse negativo) pur di rifugiarsi nella “cassetta di sicurezza” del Tesoro di Berlino. “Cento, mille Valentino!” sembra il nuovo slogan del governo italiano: fa sognare l’operazione da 700 milioni con cui il Qatar ha assunto il controllo della celebre casa di moda. Monti si è spinto sulle montagne dell’Idaho, pur di corteggiare i big del capitalismo hi-tech,
sperando che vogliano investire in casa nostra. Ma quali sono le possibilità concrete di attirare questi capitali produttivi? E chi sono i Signori dell’investimento estero corteggiati da tutti i governi?
Il club dei fondi sovrani vede nei primi 10 posti asiatici e arabi. Unica eccezione la Norvegia. Domina la Cina che tra la State Administration of Foreign Exchange (Safe) e la China Investment Corporation (Cic) amministra oltre mille miliardi di dollari, a cui si aggiungono 300 miliardi di Hong Kong. Seguono gli Emirati arabi uniti che da Abu Dhabi gestiscono 627 miliardi. Poi la Norvegia 593 miliardi, l’Arabia saudita 533, Singapore 400, il Kuwait 296, il Qatar 100 miliardi. Australia e Brasile figurano tra gli inseguitori. La loro liquidità cresce a vista d’occhio, in parallelo con l’attivo commerciale della Cina o i surplus petroliferi dei paesi arabi. Da un anno all’altro gli investimenti dei fondi sovrani nel mondo intero sono cresciuti del 42%. Spesso sono interessati a diventare azionisti stabili (vedi il caso Valentino), non a fare operazioni mordi-e-fuggi.
Attenzione però a non farsi illusioni: ci siamo già cascati. Quasi un anno fa, nel settembre 2011, sembrò che i cinesi della Cic fossero attirati dall’Italia, sia per comprare Btp che partecipazioni nelle nostre aziende. Ci fu all’epoca una grande eccitazione, protagonista l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: proprio colui che aveva indicato nella Cina “la causa di tutti i nostri mali”. Tremonti accolse a braccia aperte il presidente della Cic, Lou Jiwei. Il suo braccio destro, Grilli, si recò a Pechino per corteggiare l’altro fondo sovrano, Safe. I più esperti di “sovranologia” ci ammonirono già allora: non scambiate le manifestazioni d’interesse
per un voto di fiducia verso l’Italia. Avevano ragione. Le speranze si sono rivelate eccessive. Gli investimenti cinesi o arabi in casa nostra restano un rigagnolo rispetto ai flussi che si dirigono altrove.
Per un caso Valentino che fa notizia in Italia, in Francia il Qatar ha fatto ben di più: è entrato nel capitale delle società di servizi urbani e utilities Suez Environment, Veolia, Vivendi. Sempre il Qatar è primo azionista
del gruppo Lagardère (media e tecnologie militari). E’ in trattativa con Starwood per comprare una catena di hotel di lusso francesi. In altri paesi europei il Qatar è azionista di Volkswagen, Harrod’s, Credit Suisse, Shell. Perché l’Italia resta una Cenerentola, rispetto alle nazioni europee? La ragione è svelata in uno studio del Sovereign Investment Lab della Bocconi, un’autorità in materia che viene citata dal Financial Times.
«I fondi sovrani — si legge nel rapporto — privilegiano i grandi gruppi, e quelli che hanno una presenza significativa sui mercati emergenti di Asia e America latina». Ecco spiegate le nostre delusioni. Paghiamo le fragilità strutturali del capitalismo italiano: abbiamo pochissime grandi aziende; e abbiamo accumulato ritardi nell’espanderci sui mercati emergenti. Non a caso una delle poche aziende che attirano i fondi sovrani è la Snam, corteggiata da Abu Dhabi e Qatar grazie alla sua presenza internazionale; così come la Fincantieri per la sua notorietà nel mercato degli yacht. Il bilancio è deprimente: anche se il 36% delle società quotate alla Borsa di Milano ha un fondo sovrano tra gli azionisti, per ora sono briciole, l’investimento totale arriva appena al2% della capitalizzazione di Borsa italiana. Se le nostre aziende sono in maggioranza nane e provinciali, non altrettanto può dirsi del Tesoro: abbiamo il quarto debito pubblico del pianeta. A febbraio ci fu una fugace attenzione dell’Asia verso i nostri Btp, mostrarono un interesse inedito la terza banca giapponese, il primo gruppo finanziario coreano, la prima compagnia assicurativa di Taiwan, attratti da rendimenti cinque volte superiori a quelli asiatici. Ma il fascino dei Btp è durato poco. Perché? Ogni volta che lo spread torna a salire, quegli investitori istituzionali subiscono perdite pesanti in conto capitale. A differenza del singolo risparmiatore, che può tenersi i Btp fino a scadenza incassando le cedole, i grossi investitori devono segnare sui propri bilanci ogni variazione nel valore corrente dei Btp. E quando il rendimento di mercato sale, rispetto ai vecchi Btp, questi ultimi perdono
valore.
Restano le multinazionali. Benché i fondi sovrani siano il fenomeno più recente, il maggior volume di investimenti esteri diretti viene ancora dalle grandi imprese globali. Sono quelle che Monti è andato a corteggiare a Sun Valley: Apple, Google. Più i colossi tradizionali, da Nestlé a Coca-Cola a Sony. L’Italia non appare neppure tra le prime 20 destinazioni dei loro investimenti. Ci superano non solo gli Stati Uniti e i Brics, non solo Germania e Francia, ma perfino il Belgio. Uno studio della Columbia University ci ammonisce: manca a Roma un approccio sistemico, olistico, che intervenga su tutti i fattori di appetibilità dell’Italia inclusa la politica delle infrastrutture, la burocrazia, la giustizia civile.
Fissati i criteri per le Province, il cammino per ridurne il numero e per accorpare territori ora divisi è ancora lungo. Il Consiglio dei ministri ieri mattina ha deciso che sopravviveranno solo le Province con almeno 350mila abitanti e una superficie di 2.500 chilometri quadrati: delle attuali 107 ne rimarrebbero solo 43. La situazione sarebbe paradossale, specie per alcune Regioni come la Toscana che rimarrebbero con la sola Firenze o la Sardegna con la sola Cagliari, oppure altre in cui di due Province ne rimarrà una sola che coincide con la Regione (Perugia per l’Umbria, Campobasso per il Molise). Le Province più piccole invece saranno accorpate, ma sul chi e come il dibattito è già aperto. Il Consiglio dei ministri ha dato infatti poi il via libera alla creazione di Città metropolitane (in rigoroso ordine alfabetico Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Torino, Venezia) che potranno poi assorbirne altre. Gli obbrobri geografici poi si sprecano: la Romagna ad esempio avrebbe la sola Ravenna, Pisa e Livorno dovrebbero unirsi. Poi ci sono tutte le Province che non rientrano nei parametri per pochissimo: Viterbo ad esempio per soli 30mila abitanti o Latina per 49 chilometri quadrati. Probabili quindi deroghe e lunghe discussioni.
Nei prossimi giorni il governo trasmetterà la deliberazione al Consiglio delle autonomie locali (Cal), istituito in ogni Regione e composto dai rappresentanti degli enti territoriali (in mancanza, all’organo regionale di raccordo tra Regione ed enti locali). La proposta finale sarà trasmessa da Cal e Regioni interessate al governo che provvederà all’effettiva riduzione delle Province promuovendo un nuovo atto legislativo che completerà la procedura. Secondo il ministro Patroni Griffi alla fine il riordino potrà portare «intorno alle 40 Province e alle 10 città metropolitane», realizzata
«con legge», mentre sui tempi si punta «a concludere il processo normativo entro il 2012», precisando però «che si può fare anche prima».
Il giudizio dell’Unione delle Province è però positivo: «Il varo della delibera spiega il presidente dell’Upi Giuseppe Castiglione dà il via ad un processo di riforma istituzionale dal quale ci auguriamo esca una Italia più efficiente con una amministrazione più moderna. I parametri stabiliti consentono alle Province che nasceranno di potere svolgere il loro ruolo di enti di governo di area vasta. Il governo ha colto la nostra richiesta di non abolirle continua Castiglione ora spetta al Parlamento assicurare che il percorso avvenga lasciando spazio ai territori: tutte le Province, quelle delle Regioni a statuto ordinario come di quelle a Statuto speciale (per loro varranno le prerogative previste dai rispettivi Statuti: in Sardegna la legge costituzionale dell’Isola prevede Cagliari, Sassari e Nuoro, ndr) con il riordino degli uffici periferici dello Stato intorno alle nuove Province. Il ruolo dei Consigli delle Autonomie locali conclude Castiglione diventa determinante, perché sarà attraverso la condivisione delle decisioni tra Regioni, Province e Comuni che si dovrà portare a termine tutto il percorso».
«BENE LE CITTÀ METROPOLITANE»
Articolato il giudizio del Pd. «Bene le città metropolitane, ma sulla semplificazione delle Province il governo poteva anche osare di più commenta Davide Zoggia, responsabile Enti locali In questo senso il Pd aveva avanzato alcune proposte. In ogni caso, ora è necessario che il riordino concreto degli enti intermedi venga realizzato con il coinvolgimento delle Regioni e dei Comuni, avendo come punto di riferimento, oltre ai criteri numerici, l'efficienza dei servizi reali per i cittadini».
Contento per la conferma delle Città metropolitane è Nicola Zingaretti: «Il via libera alla Città Metropolitana di Roma rappresenta una grande vittoria per chi, come noi, si è battuto fin dal primo giorno per questa prospettiva: finalmente una scelta che colma un vuoto e una nuova opportunità per tutto il Paese», dichiara l’attuale presidente della Provincia di Roma e neo-candidato sindaco alla Comune, anzi, quasi certamente già Città metropolitana di Roma.
Nel Diciottesimo secolo se aveste voluto entrare a Londra da ovest sareste dovuti passare attraverso la porta con pedaggio di Kensington. Arrivando da est, invece, vi sarebbe stato chiesto di pagare il pedaggio a Whitechapel. Erano quelle barriere a segnare i confini occidentali e orientali della metropoli. Oggi ne abbiamo un equivalente moderno. A ovest e a est i confini della Londra consumistica sono contrassegnati da due enormi centri commerciali, di proprietà di una società australiana che si chiama Westfield. Il primo — quello leggermente più piccolo tra i due — si trova a Shepherd’s Bush, incuneato all’incrocio tra West Cross Road e Uxbridge Road. Il secondo è tra la Great Eastern Road, a Stratford, e il nuovo Parco olimpico londinese.A rigor di termini, non è più obbligatorio versare un pedaggio fisso passando in macchina all’ombra di queste due moderne barriere a pagamento. Tuttavia, qualora la curiosità dovesse obbligarvi a fare una sosta e a dare un’occhiata all’interno, è improbabile che ne uscireste senza aver speso almeno qualcosa. Questi due grandiosi monumenti al consumismo suonano per certi versi come una sorta di altrettanti rintocchi funebri per i tradizionali quartieri londinesi dello shopping: indubbiamente, andarsene a passeggio tra la folla di acquirenti ipnotizzati, sulla scintillante superficie dei vasti ambienti a forma di cattedrale di Westfield, è un’esperienza di gran lunga più gradevole che trascinarsi faticosamente su e giù lungo i marciapiedi sempre più malmessi e trascurati di Oxford Street.
Westfield Stratford City — come ormai viene chiamato il più recente dei due shopping centre — è soltanto il più appariscente delle varie strutture architettoniche che hanno portato la nuova Londra olimpica al centro di un’accalorata polemica. La questione più dibattuta è lo status assunto da Westfield di “accesso” allo Stadio Olimpico: in pratica, il settanta per cento degli spettatori che si recheranno ad assistere a un evento olimpico si avvicineranno al Parco percorrendo tragitti pedonali che passano letteralmente attraverso il centro commerciale stesso. In altre parole, sarà impossibileassistere a un evento olimpico senza ritrovarsi sottoposti a enormi pressioni per sborsare, lungo il tragitto, parte dei propri contanti. Da questo punto di vista, quindi, il centro di Stratford Westfield è in senso proprio una barriera con pedaggio. L’ideale olimpico di spirito sportivo e fraternità tra le nazioni è stato messo in linea di collisione diretta brutale — e intenzionale — con la nuova etica consumistica.
La parola più in voga che si sente pronunciare tutto intorno ai nuovi edifici olimpici è “Legacy”, eredità. Esiste perfino un’organizzazione denominata Olympic Park Legacy Company. “Legacy”in questo contesto è una di quelle parole altisonanti e flessibili alle quali nessuno può attribuire un significato inequivocabile. Volendo darne in ogni caso l’interpretazione più benevola, “legacy” esprime la determinazione da parte dei progettisti olimpici a far sì che le nuove grandi e costose strutture realizzate negli ultimi anni costituiscano un beneficio duraturo per questa parte dell’East End, storicamente svantaggiata e trascurata. Saranno molte le persone che vigileranno da vicino che questa promessa non vada infranta. Dopo tutto, quando un paese si trova sull’orlo della recessione e il suo primo ministro, laureatosi a Eton, dice alla popolazione che «ci troviamo tutti sulla stessa barca», è un momento davvero insolito perspendere 9,3 miliardi di sterline per un evento sportivo della durata di due settimane. (E che per altro pare diventare sempre più costoso col passare dei giorni: è stato annunciato da poco che il budget per garantire la sicurezza ai Giochi olimpici è stato quasi raddoppiato, passando da 282 milioni di sterline a 533).
Un gran numero di residenti è piuttosto scettico riguardo ai promessi miglioramenti a lungo termine. Le comunità britanniche urbane — delle quali quella londinese è naturalmente la più grande e la più in vista — un tempo si fondavano su qualcosa di solido: l’industria manifatturiera, per esempio. Westfield Stratford City è stata costruita proprio dove un tempo c’era la Stratford Railway Works, dallaquale uscirono 1.682 locomotive e 5.500 carrozze ferroviarie. Quella fabbrica chiuse i battenti oltre venti anni or sono, e gli industriali contemporanei invece di costruire treni provvedono soltanto a soddisfare l’enormeappetitocheilpubblicohaperibeni di consumo venduti al dettaglio.Gli insoddisfatti residenti dell’East End hanno trovato un portavoce nello scrittore Iain Sinclair, che ha trascorso buona parte degli ultimi cinque anni a documentare la propria costernazione nei confronti dei lavori olimpici e per le modalità con le quali i cantieri hanno cancellato con insolenza secoli di storia locale e di edilizia popolare. Sinclair ha dedicato il suo ultimo libro, intitolato Ghost Milk, alle «baracchette dei Manor Garden Allotment», con riferimento a quel patchwork di orti e giardini urbani che un tempo assicuravano nutrimento e svago a centinaia di abitanti dell’East End e che ora sono stati spianati e spazzati via, scivolando nell’oblio, per lasciare posto al Parco Olimpico. Sinclair considera il cuore di quel Parco una mostruosità uscita dritta dritta dalle pagine di un catalogo Ikea — lo chiama il «flatpack stadium», lo stadio componibile. Secondo Sinclair, l’intero progetto olimpico è un atto di arroganza distruttiva: dice che gli architetti, gli organizzatori e gli sponsor vivono in uno «stato psicotico di smania progettuale», e che il motore trainante di tutto ciò, naturalmente, non è lo spirito comunitario o il senso della storia, bensì il denaro.
Vivo ai margini di Chelsea, lontano dal Parco Olimpico, e quindi a fungere da barriera a pedaggio per la mia zona è il più occidentale dei due centri commerciali. Quella è anche la meta preferita di mia figlia adolescente, che vi trascorre ore spensierate in compagnia dei suoi amici, permettendo alle prime simpatie della sua vita di sbocciare e mettere radici mentre passeggia tra i negozi al dettaglio e i vari fast food. La zona nella quale vivo — a circa due miglia da Westfield — è una delle meno multiculturali di Londra, ma ha una prospera comunità di banchieri di investimento europei ed è quindi un buon punto di osservazione per seguire come gli incessanti afflussi e reflussi di capitali internazionali abbiano un impatto sulla vita quotidiana della capitale. Tra i super-ricchi di Kensington e Chelsea (che sembrano arricchirsi di giorno in giorno, mentre il resto di noi si dibatte con le conseguenze della loro crisi finanziaria) sta dilagando una nuova mania: scavare nel sottosuolo. Londra è una città gremita di persone, lo spazio vitale è prezioso e le amministrazioni comunali stanno dando un giro di vite ai permessi concessi ai residenti per espandere le proprie case verso l’alto o verso il largo. Il che lascia un’unica direzione per espandersi e costruire: verso il basso. E questo è quanto stanno facendo coloro che se lo possono permettere.
Questa è una «smania progettuale» su scala più casalinga rispetto alla follia delle Olimpiadi, ma ciò nonostante mette in evidenza le medesime qualità di arroganza ed eccesso. Abbondano le voci di leggendarie stravaganze: non è chiaro quante di esse siano veritiere, ma per le mogli dei banchieri nelle caffetterie eleganti, come pure a tavola nei ristoranti all’ora di pranzo, costituiscono un ottimo argomento per spettegolare. Si parla, per esempio, di un banchiere londinese che ha scavato un enorme showroom sotterraneo per mettere in mostra la sua collezione di Ferrari. O di uno scavo sotto Pembridge Square a Notting Hill profondo non uno, non due, non tre, ma ben quattro piani, così che qualcuno nella propria piscina sotterranea possa installare anche un trampolino. E ancora, si racconta di sotterranei crollati in piena fase di scavo, e della morte di operai (polacchi, naturalmente). E tutto ciò solo perché gli ultra-ricchi possano imporre alla Londra affollata e sovrappopolata un nuovo movimento architettonico, quello che il giornalista Simon Jenkins ha chiamato «architettura Emmental».
Londra ha una grande capacità di reinventarsi, e una passione sfrenata e incontenibile per tutto ciò che è nuovo. Ma è anche uno spazio circoscritto, ed esistono limiti alle modalità con le quali si può indulgere in tale passione, persino per i suoi cittadini più ricchi e più potenti. In superficie progetti grandiosi come il Parco Olimpico e templi del capitalismo come i centri commerciali Westfied possono essere creati soltanto a spese di comunità più piccole e spontanee che hanno impiegato secoli a evolversi. Mentre nel sottosuolo i segreti luoghi di svago dei super-ricchi stanno erodendo il terreno e l’argilla sui quali sono erette le abitazioni dei loro vicini. In entrambi i casi questi progetti — per quanto capaci di colpire l’immaginazione — assai difficilmente porteranno vantaggi a lungo termine alla maggior parte dei londinesi. Al contrario, molti di questi ultimi potrebbero arrivare a sostenere che stanno minando le fondamenta stesse, spirituali efisiche, sulle quali si regge la loro città.
© , 2012 (traduzione Anna Bissanti)
Se c’è ancora un motivo per perder tempo con la galattica bufala caravaggesca, è che essa mette a nudo gli ingranaggi del bufalificio.
Il modello è quello dell’arte contemporanea: dove, da decenni, un ‘artista’ si crea a tavolino, dal nulla. Come lì non conta nulla la qualità, qua non conta nulla la ricerca: la responsabile del Gabinetto disegni del Castello Sforzesco ha detto che non ha mai visto i due ‘scopritori’ studiare le opere.
Quel che invece conta davvero è la comunicazione: i contatti, i lanci, gli eventi, gli scandali e perfino le risse. E se il contemporaneo è, da tempo, materia più da pierre che da critici o storici dell’arte, siamo sulla buona strada perché la stessa fine la faccia la storia dell’arte antica.
Caravaggio, ormai, è più di là che di qua. Negli scorsi mesi, una campagna martellante ha accreditato l’attribuzione di una seconda Medusa. Basta guardarla per capire che è una copia, più tarda e comunque ottusa, di quella celeberrima degli Uffizi. Ma la società di comunicazione «Once – Extraordinay Events» l’ha lanciata in modo assai efficace, anche grazie alla disponibilità di storici dell’arte ‘ottimisti’. E i risultati sono stati clamorosi. In una puntata di «Chi vuol esser milionario», Gerri Scotti ha chiesto quale soggetto fosse stato dipinto da Caravaggio una sola volta: la concorrente ha indicato («senza l’ausilio di alcun aiuto», narrano le cronache) la Medusa degli Uffizi. Ed aveva perfettamente ragione: ma il ‘pubblico a casa’ è insorto, perché la campagna promozionale era stata tanto pervasiva che tutti sapevano che esisteva un’altra Medusa. Il finale tragicomico è stato che, nella puntata successiva, Scotti si è dovuto scusare.
È istruttivo sapere che Once ha curato anche la recente sfilata di moda agli Uffizi, ed è l’«agenzia di riferimento territoriale che supporta la ricerca» della Battaglia di Anghiari brandita da Matteo Renzi.
Masai agli Uffizi, Caravaggio finti, Leonardi immaginari: tutto fa brodo in un marketing per cui l’arte figurativa è, davvero, «carne da cannone», come scriveva Roberto Longhi. In un paese in cui si fa fatica a spiegare perché i monumenti danneggiati da un terremoto non debbano essere abbattuti con la dinamite, tutto questo non è solo un errore: è un crimine.
Riuscite a immaginare 16 pale eoliche più alte del grattacielo Pirelli piantate su un'antica strada romana a corona del magnifico sito archeologico di Saepinum? Eppure il sovrintendente, poi sconfessato dai superiori e inquisito dal giudice penale e dalla Corte dei Conti, disse sì. E quel «sì» pesa maledettamente. Ponendo un problema generale: fino a che punto la firma di un solo funzionario, magari infedele, può impegnare lo Stato?
Ma la storia non è tutta qui. Sulla trincea opposta, a difesa delle rovine, c'è un altro dirigente che per affermare il rispetto della legge è andato a beccarsi una richiesta danni di 23 milioni di euro, che mai nella vita potrebbe pagare, da parte dei costruttori dell'impianto. E chi risulta essere padrone per metà della società pronta a investire decine di milioni di euro? Un terzo funzionario pubblico.
Ma partiamo dall'inizio. E dal cuore del problema: i resti di Saepinum, una città sannitica e poi romana adagiata nella valle del fiume Tammaro, vicino all'odierna Sepino, in provincia di Campobasso. Scavate a partire dagli anni 50, le rovine hanno una caratteristica: i contadini della zona hanno costruito qua e là delle abitazioni con le pietre a vista recuperate dalle macerie dell'antico insediamento. E tutto l'insieme, i colonnati della Basilica e il Foro e le grandi porte di accesso e le case coloniche offrono un colpo d'occhio che non dev'essere molto diverso dalle visioni che avevano nei secoli scorsi, visitando i nostri siti archeologici, i grandi viaggiatori come Thomas Coryat, Wolfgang Goethe o Alphonse de Sade. Massimo esempio di questa meravigliosa commistione, il Teatro. La cui cavea è circondata da una corona di case in pietra. Luogo di fascino straordinario. Indimenticabile.
È impossibile che chi vuole costruire una palizzata di pale eoliche alte 130 metri sulla cresta delle colline che dominano la valle abbia visitato Saepinum. A meno che, ovvio, non se ne fotta delle bellezze naturali e dei tesori archeologici. Ma ancora più stupefacente è che un sovrintendente addetto a tutelare quel patrimonio sia stato di manica così larga. Per non dire dell'indecente appoggio al progetto della Regione di Michele Iorio.La storia puzza fin dall'inizio. Occhio alle date: la società «Essebiessepower» invia alla Sovrintendenza per i beni archeologici del Molise il progetto per tirar su la gigantesca palizzata eolica sul crinale collinare mercoledì 11 maggio 2005. E il 18 maggio, nonostante il weekend di mezzo, in soli 7 giorni, il sovrintendente Mario Pagano dà la risposta: ok. Un prodigio prodigioso di efficienza. Fatto sta che, nella fretta di concedere il permesso, il funzionario «dimentica» che da un quarto di secolo, dal 1982, lo studio «Saepinum — Il museo documentario dell'Altilia» del professor Maurizio Matteini aveva documentato che proprio lì dove andranno le pale c'è un'antica strada sannitica «risalente ai secoli V-IV secolo a.C. sopravvissuta come callis romana» sicché, scriverà il procuratore regionale della Corte dei Conti Francesco Paolo Romanelli, era fuori discussione «la sua qualificazione come area archeologica».
Poche settimane e appena il superiore diretto del disinvolto funzionario, il direttore regionale per i beni culturali e paesaggistici Gino Famiglietti, viene a sapere della cosa, si mette di traverso, rivendica d'avere per legge l'ultima parola e avverte la Regione di voler imporre un vincolo per «salvaguardare l'incontaminato contesto paesaggistico che incornicia il gioiello archeologico monumentale e paesaggistico di Sepino-Altilia».
Da quel momento (vi risparmiamo i dettagli giuridico-burocratici) si apre una commedia surreale. Di qua la direzione regionale insiste nell'opporsi al progetto eolico, annulla l'autorizzazione concessa dal sottoposto, dà battaglia su tutti i fronti legali e amministrativi per bloccare lo stupro di quelle colline e dell'antico tratturo. Di là, mentre dilaga la rivolta degli ambientalisti appoggiati da un furente Vittorio Sgarbi, Mario Pagano va avanti come niente fosse nel suo rapporto diretto con la «Essebiesse». Un rapporto anomalo, accusa la Corte dei Conti. Soprattutto in due momenti. Il primo è l'impegno a versare 50 mila euro l'anno per 29 anni di sponsorizzazione in favore del parco archeologico da parte dei costruttori che chiedono (sbalorditivo, per uno sponsor) «la massima riservatezza».
Il secondo è l'ok del funzionario, a dispetto delle diffide dei superiori, alla nuova richiesta della società: vuol coprire l'antico tratturo nel quinto secolo a.C. «con misto di cava al fine di preservarlo dal passaggio degli automezzi». Una presa in giro. Ma lui dice sì all'istante. Una scelta che convince infine il magistrato contabile sulla «buona +fede» o no del sovrintendente. Al punto che l'accusa con cui gli chiede 1.147.127 euro di danni archeologici e paesaggistici gronda d'indignazione: «aperto dispregio alle regole», «macroscopica negligente condotta di servizio», «assoluta e inspiegabile arrendevolezza»… Parallelamente, va avanti un'altra partita. Quella avviata dal Tar che, avendo dato la Regione l'ok all'impianto (che importa, ai giudici amministrativi, dei resti archeologici?) decide su ricorso della società di accelerare nominando un commissario ad acta, Vincenzo Caprioli. Il quale, convinto evidentemente che sia la prima parola di Pagano quella che conta, a prescindere dall'annullamento disposto dai suoi superiori, tira diritto: la palizzata eolica s'ha da fare. Anzi, «gli attuali impianti eolici possono costituire anche un ornamento del paesaggio naturale». Sic… Fatto sta che passano i mesi e gli anni. E la battaglia per difendere Saepinum vede entrare in campo, oltre alla Corte dei Conti (udienza il 9 ottobre prossimo) e al ministero, che infine sposta il funzionario a Perugia (mica male, come realtà artistica e paesaggistica, per un uomo così «attento» ai beni da tutelare…), anche la magistratura ordinaria. Che rinvia a giudizio il sovrintendente (processo il 27 settembre) per «danno a bene immobile aggravato dal fatto che si tratta di bene vincolato».
Qualche settimana, insomma, e vedremo come va a finire. Un'ultima curiosità: di chi è questa «Essebiessepower» che sembra avere così buone conoscenze in Regione e non solo? Di un signore di nome Gennaro Spasiano, che in certe carte figura anche come direttore dei lavori a Sepino, e di sua moglie Antonella Del Gaudio. I quali, insieme, da soli o coi figli sono presenti con quote di maggioranza o di partecipazione importante, in altre 11 imprese che si occupano di energia rinnovabile. Un piccolo impero eolico, collegato tramite società in comune a un impero ben più grande: quello di «Fortore energia», gruppo alleato di un big tedesco dell'energia, finito mesi fa, a ragione o a torto, nelle intercettazioni dell'inchiesta sulla cosiddetta P3 del faccendiere Flavio Carboni.
Tutto ciò presuppone tanti soldi di contributi e tanti d'investimento. Ogni pala eolica di quelle progettate a Sepino, per capirci, costa secondo Legambiente intorno ai tre milioni di euro. Tre milioni per 16 uguale 48.
Ma chi è questo Spasiano, un milionario? Macché: è un funzionario della Provincia di Caserta, già sub commissario delegato all'emergenza rifiuti per il Casertano negli anni più controversi e oggi «esperto delle energie rinnovabili» (così dice il sito ufficiale) con uno stipendio lordo di 80.606 euro e 93 centesimi. Tolte le tasse, per comprare una sola pala dovrebbe risparmiare 60 anni.