Il consiglio regionale sardo approva le «linee guida» per cambiare il Piano paesaggistico. La lobby dei costruttori fa festaIl 23 luglio il consiglio regionale della Sardegna ha approvato a maggioranza le «Linee guida alla modifica del Piano paesaggistico regionale» presentate dalla giunta di centro destra guidata da Ugo Cappellacci. È il primo passo verso lo smantellamento della legislazione di tutela delle coste che l'isola si è data durante l'amministrazione Soru (dal 2004 al 2008). Il Piano, approvato nel 2006, considera le coste bene ambientale da preservare, sulla traccia del Codice Urbani e dell'articolo 9 della Costituzione. L'intera fascia costiera viene messa al riparo dalle logiche speculative e/o di pura e semplice profittabilità economica, che, in Sardegna come nel resto d'Italia, hanno portato, in aree vastissime, a uno spaventoso dissesto del territorio. Tutti i comuni sono sollecitati ad approvare Piani urbanistici che limitino le cubature disponibili per le nuove costruzioni e puntino invece al recupero e al restauro del patrimonio immobiliare esistente.
Su questo progetto la giunta Soru, e in particolare il suo presidente, avevano puntato molto. Era un elemento centrale del programma di governo. Il Piano paesaggistico regionale (Ppr) è uno dei risultati positivi di un'amministrazione che contro la devastazione delle coste, mossa dagli interessi di una potente lobby di costruttori e di speculatori, si è schierata sin dall'inizio con coerenza e determinazione; e che questa scelta, alla fine, ha finito per pagare a caro prezzo. Bisogna ricordare, infatti, che la giunta Soru cadde con quasi un anno di anticipo rispetto al termine della legislatura perché il suo presidente dovette prendere atto, con le dimissioni anticipate, della resistenza di una parte cospicua della sua stessa maggioranza ad estendere - come il Codice Urbani prevede - le norme di tutela paesaggistica dalle coste all'intero territorio dell'isola. Nel tardo autunno del 2008 Soru si dimise contando di poter imporre ai suoi alleati il rispetto del programma di governo attraverso una riconferma del mandato che gli elettori gli avevano conferito quattro anni prima. Le cose, però, non andarono così. Durante la campagna elettorale Silvio Berlusconi in persona venne a più riprese in Sardegna per sostenere un candidato, Cappellacci, che dello smantellamento del Piano paesaggistico regionale aveva fatto un punto cardine della futura di agenda di governo. Agitando l'argomento propagandistico secondo il quale il Ppr, bloccando l'edilizia (una delle principali attività economiche di una regione che ha un apparato industriale debolissimo e per buona parte in via di smantellamento), avrebbe causato la perdita di migliaia di posti di lavoro, ilcandidato del centro destra riuscì ad intercettare una fascia ampia di opinione pubblica.
A urne chiuse, nel febbraio del 2009, Cappellacci riuscì a prevalere, anche se di poco, su Soru. Da quel momento la pressione della lobby dei costruttori edili che avevano sostenuto la candidatura del pupillo sardo del Cavaliere, cominciò ad esercitarsi con forza. La cambiale doveva essere pagata, e a meno di due anni dalle elezioni regionali non si può più aspettare.
Cappellacci non ha agito subito perché smantellare il Ppr non è facile. Intanto c'è la resistenza politica dei gruppi ambientalisti e della minoranza di centrosinistra schierata (con sfumature e gradi di convinzione diversi) con un Soru che si muove attraverso la sua associazione, Sardegna democratica, per fermare i cementificatori. E poi il Piano è uno strumento di rigorosa attuazione non solo del dettato costituzionale, ma anche della legislazione nazionale (in primis il Codice Urbani) di tutela del paesaggio. Non ha caso esso ha resistito a diversi ricorsi presentati in sede amministrativa, con il Tar che è sempre intervenuto a respingere i tentativi di invalidarlo in tutto o in arte. Smontarlo significa esporsi ad azioni legali già annunciate da Italia nostra e da Legambiente e anche all'azione di controllo che lo Stato, e in particolare le Sovrintendenze e il ministero dei Beni culturali e ambientali, sono chiamati a svolgere nell'ambito delle loro competenze istituzionali.
È per questo che le «Linee guida» presentate da Cappellacci e approvate dal Consiglio regionale puntano non alla cancellazione del Ppr ma a un suo snaturamento per vie indirette. Un solo esempio. Si legge a pagina 20: «Più che la norma vincolistica che assume efficacia solo nei confronti della conservazione, dovranno emergere maggiormente le prescrizioni e gli indirizzi». Ebbene, questa impostazione in Italia è purtroppo molto diffusa, con esiti nefasti. Si pensi soltanto al «Documento di indirizzo» ideato dalla ex-sindaco di Milano, Letizia Moratti, in sostituzione del Piano regolatore generale del capoluogo lombardo, non a caso prontamente sospeso dalla giunta Pisapia. Indirizzi e non regole certe.
La giunta regionale sarda questo vuole: sostituire alle regole certe stabilite dal Ppr indirizzi generali fissati con una delibera della giunta Cappellacci. Maglie larghe che consentirebbero ai costruttori di riprendere a cementificare le coste seguendo la bizzarra definizione di «sviluppo sostenibile» contenuta alla oagina 15 nelle Linee guida: «Sviluppo sostenibile, ovvero un equilibrio tra esigenze di tutela ambientale e sviluppo economico che consenta da una parte di soddisfare i bisogni delle persone senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i loro bisogni, dall'altra di generare reddito anche nell'immediato. In un quadro che garantisca la mediazione tra la tutela delle risorse primarie del territorio e dell'ambiente e le esigenze socio-economiche della comunità».
«A chi parla di mediazioni tra elementi diversi - commenta Edoardo Salzano, l'urbanista veneziano che ha guidato il gruppo di lavoro che a suo tempo ha redatto il Ppr - bisogna ricordare sempre che il risultato della mediazione dipende dalla diversa forza e consistenza dei due elementi, in questo caso profitti e ambiente, tra cui si vuole mediare. E certamente nella Sardegna e nel mondo di oggi, e in particolare nella compagine di cui Cappellacci è espressione, la forza degli interessi economici basati sull'appropriazione d'ogni bene riducibile a merce e suscettibile di arricchirne il possessore è una forza ben maggiore di quella degli interessi volti a riconoscere e a tutelare il valore delle qualità che natura e storia hanno costruito, che è espressa dal paesaggio: quelle qualità che sono la base di ogni possibile domani migliore».
Il manifesto
Il movimento senza equivoci
di Ida Dominijanni
Renato abitava a pochi metri dal manifesto, e dunque capitava spesso d’incontrarlo, mangiare qualcosa assieme a lui e a Marilù, chiedergli un pezzo che non lesinava mai, scambiare due idee sull’ultimo fatto che ci aveva colpiti o sull’ultima iniziativa che aveva messo in piedi. Due idee o anche solo una battuta, perché l’ironia, caustica, e l’intelligenza, generosissima, erano in lui la stessa cosa, così come la rapidità delle associazioni mentali, della fantasia e dell’inventiva facevano tutt’uno con la profondità dello sguardo e lo spessore del sapere. Adesso come trent’anni fa, il tocco veloce, leggero, imprevedibie, indisciplinato e al tempo stesso meditato e mirato, motivato e progettuale era sempre lo stesso, cifra inconfondibile di una personalità irripetibile, impronta incancellabile di un amico indimenticabile.
Adesso come trent’anni fa, del resto, non era cambiato il tiro dell’azione, culturale e politica, culturale cioé politica, che restava ugualmente alto oggi nella programmazione del Teatro di Reggio Calabria, la città dell’insegnamento universitario, come ieri nella programmazione dell’Estate Romana, la capitale dell’esperimento di governo: e tanto Nicolini si sentiva felicemente radicato in quell’esperimento, quanto lo infastidiva vedersi monumentalizzato e racchiuso solo in quella cornice, che lui non aveva mai considerato né chiusa né conclusa, e casomai altri avevano fatto sì che si chiudesse o non avevano fatto in modo che si riaprisse. Il cordoglio unanime e il riconoscimento corale che accompagnano ora la sua scomparsa testimoniano da soli quanto sia stata in realtà duratura l’impronta della politica del co-iddetto effimero, ma non rendono conto di quali e quanti conflitti, ostacoli, equivoci l’abbiano costellata. L’equivoco, infatti, permane in memoriam: la leggerezza contro il piombo, le luci della notte contro il buio del terrorismo, la cultura in piazza contro le piazze armate, lo spettacolo insomma contro il conflitto, la distrazione di massa contro la durezza del passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta...
Ma non fu questo l’effimero, non fu questo l’Estate romana, non è stato questo Renato Nicolini.Non vale nemmeno la pena, oggi che nelle notti d’estate del più minuscolo borgo d’Italia si intrecciano cultura alta e bassa, fioriscono le arene e fioccano, o con la crisi languono, le sponsorizzazioni, tentare di restituire la dirompenza di un’idea che all’epoca ridisegnò la Capitale, reinventò gli spazi, invertì il giorno e la notte, aprì il centro ai barbari delle periferie, offrì le rovine antiche alla fruizione del presente, incantò e inchiodò giovani vecchi e bambini con le con le loro seggioline a Massenzio davanti ai tutt’altro che leggeri Senso di Visconti o Napoléon di Abel Gance, scoprì o riscoprì, con Nicolini e la sua squadra che non dormivano mai e mangiavano cioccolata per tenersi su, un monumento o uno squarcio o una piazza al giorno. Né vale la pena di ricordare che molti scettici o detrattori di allora, spaventati da questa irruzione di massa sulla sacralità della cultura, hanno finito con l’adottarne nel tempo la convenienza commercia-e senza saperne riprodurre l’energia, le intenzioni e lo spirito.
Merita invece tornare sull’equivoco politico di cui sopra, perché è sintomo di un problema aperto nella memoria collettiva sul passaggio dagli anni Settanta al dopo, e perché a Renato stava a cuore dissiparlo ogni volta che poteva. Ne scrisse per noi in un articolo sul decennale del Ne scrisse per noi in un articolo sul decennale del Settantasette che ripubblichiamo qui sotto, dove raffigura il ’77 e l’Estate romana come due gemelli: non l’una contro l’altro, non la luce dopo il buio o la leggerezza dopo il piom- bo o lo spettacolo dopo il conflitto, bensì l’una incontro all’altro, rispo- sta politica e istituzionale alle do- mande di quel movimento, l’unica risposta giocata sul terreno della contaminazione e non su quello difensivo della immunizzazione dei «buoni» dai «cattivi», dei perbene dai permale, dei rispettabili del centro dai barbari delle periferie, dei colti da ossequiare dagli incolti da indottrinare. Quel movimento e i bisogni che esprimeva e anticipava, scriveva Renato nel 1987, non hanno avuto altre risposte e altri interlocutori politici laddove sarebbero stati necessari: sulla disoccupazione, la ristrutturazione del lavoro, la forma-metropoli, la terziarizzazione.
Era vero allora, resta vero oggi che la crisi economica ci presenta ilconto di una trasformazione trentennale. Era vero allora, resta vero oggi che la crisi della politica paga anche il prezzo della sottovalutazione di figure d’eccezione come quela di Nicolini, o della loro derubricazione a eccentricità effimere legate a una stagione e a una sola. Con la sua politica della vita che sapeva parlare alle vite – biopolitica affermativa, la si chiamerebbe oggi – l’assessore dell’Estate romana avrebbe avuto ancora molto da dire e da dare contro la tanatopolitica triste e depressiva del neoliberismo europeo.
La Repubblica
Se n’è andato Nicolini sognatore
metropolitano
di Valerio Magrelli
“Non adottiamo quegli spettacoli che rinchiudono tristemente poche persone in un centro oscuro, tenendole timorose e immobili nel silenzio e nell’inerzia”. Chi sa se Renato Nicolini, architetto, docente, assessore, ma soprattutto mirabile inventore dell’Estate romana, avrà avuto presenti queste parole che Jean-Jacques Rousseau scrisse oltre due secoli fa.IL GRANDE filosofo ginevrino voleva condannare il teatro e ogni tipo di intrattenimento basato sulla passività del pubblico. In questo, il suo teatro ricorda molto da vicino il nostro cinema (per non parlare di televisione...). Ebbene, a tutto ciò veniva opposto un ideale di gioioso rito collettivo, cui far partecipare l’intera comunità.
Detto altrimenti: una cittadinanza non può restare unita soltanto per ragioni di interesse. L’esistenza comune richiede un rapporto emotivo. Un popolo felice deve saper ritrovare la sua coesione nei giochi, nei divertimenti: «Piantate in mezzo a una pubblica piazza un palo coronato di fiori, ponetevi intorno un popolo, e otterrete una festa ». In tal modo, ha spiegato Paolo Apolito seguendo le ricerche di Mona e poi Ozouf, la festa assume addirittura il compito di «rendere evidente, eterno, intangibile il nuovo legame sociale».
Certo, un simile discorso sembrerà preso un po’ troppo alla larga, eppure, per apprezzare il progetto di Nicolini, occorre ricostruirne la genealogia. Infatti, sotto la cappa degli Anni di piombo, questo studioso in apparenza tanto svagato, ebbe l’idea acutissima e letteralmente rivoluzionaria (nel senso del suo prototipo francese) di trapiantare la festa nel cuore della metropoli moderna, e al contempo di riappropriarsi della notte, ossia di uno spaziotempo che il terrorismo aveva
progressivamente convertito in mesto «coprifuoco». Ebbene, Nicolini «scoprì quel fuoco », lo fece divampare, ma senza più violenza, anzi, nel segno della pura euforia dionisiaca, con balli, canti, letture.
Chi non ricorda la tre giorni di poesia sulla spiaggia di Castelporziano, organizzata da Franco Cordelli nel 1979? Autori italiani e stranieri, il falso annuncio di un concerto di Patty Smith, trentamila spettatori vocianti, l’assalto al cibo e al palco, il crollo di quest’ultimo, la magica apparizione di Allen Ginsberg che, trasformato in Orfeo, placa con un suo mantra la folla inferocita.
E in tutto ciò, al largo, una petroliera in fiamme (o erano due? oppure stiamo entrando in «Apocalipse now»?). Così, fra dada e pop, il teatro fagocitò la poesia, dando vita ad una sensazionale performance.
Ma Nicolini era questo, un apprendista stregone, anche se danni non ne fece mai. Nel frattempo nei parchi cittadini, da Villa Ada a Villa Borghese, e in mezzo ai più maestosi monumenti, la città ritrovava umanità e insieme unanimità.
Se tutto ciò è vero, risulterà evidente che il suo capolavoro fu il rilancio del teatro e del cinema all’aperto. Ai testi di Peter Brook recitati nelle vie del quartiere Prati, rispose il film «Senso» di Visconti, proiettato nell’agosto 1977 sotto le volte della Basilica di Massenzio. Non più poche persone, timorose, immobili, inerti, silenziose, chiuse in un centro oscuro, bensì una folla raggiante e scatenata, vivace e rumorosa, raccolta in platee immense e luminose. Altro che Effimero! Quello che alcuni chiamarono così, fu in realtà la vittoria di Rousseau.
manifesto
La stagione delle arti
d Gianfranco Capitta
Il dolore per la morte di Renato Nicolini è soprattutto quello di una privazione di qualcuno insostituibile. Non solo per le chance che la sua presenza dava a una politica che pure lo ha sempre rifiutato, non gradito, messo ai margini mentre faceva posto, e si teneva stretti in primo piano i mediocri, magari incapaci, magari corrotti. Nicolini è e resterà insostituibile per qualcosa che ha fatto di molto concreto, qualcosa che lui stesso filosofava fosse «effimero», ma che si è rivelato duraturo come il marmo e inoppugnabile come un teorema copernicano. L'invenzione della «estate romana», la voglia di consumo culturale che ha snidato e attratto in centro la sera una popolazione che se ne stava chiusa in casa per paura e sfiducia, e che riscopriva invece, come in una saga delle favole antiche, quanto fosse «bello» vedere un film con altre migliaia di spettatori, vedere spettacoli che non avrebbe mai sognato di vedere, che fossero classici o elaborazione di avanguardia, ma in un luogo riconoscibile e affidabile, dove il centro tornava a essere a disposizione delle periferie, beh quella invenzione ha attirato su di lui una gratitudine e una popolarità plurigenerazionale (il suo nome, come la sua creatura, sono entrati nel linguaggio comune), ma anche tanta animosità e tanto boicottaggio personale.
Ora Renato Nicolini è rimasto vittima di una orribile malattia, che lo ha colpito in meno di un anno prima ai polmoni e poi alla colonna vertebrale (lui che non ricordo fumasse, così come non guidava un'auto), e che ha cancellato in poco tempo quel volto da eterno ragazzo, quel sorriso inconfondibile che si era fatto insieme amorevole e scettico, curioso e insoddisfatto. Aveva settant'anni giusti, compiuti il primo marzo, e si diceva contento di andarsene finalmente in pensione dall'università. Da tanto tempo si sobbarcava ad andare e tornare dalla sua Roma a Reggio Calabria, sua sede accademica, dove però insieme alla sua compagna attrice Marilù Prati da tanti anni si spendevano per dare a quella città un laboratorio teatrale di livello adeguato. Così che erano riusciti a legare università e altri enti nella gestione del Teatro Siracusa, una grande struttura dove dare i classici e Pinter, le riscritture di Adele Cambria e quelle di Francesco Suriano. Con una vitalità e una perseveranza notevoli, che del resto gli venivano sempre da quell'invenzione degli anni 70.
Era stato allora che, giovane architetto, militante per quanto problematico nel Pci (di una genìa di architetti celebri, che contemplava tra gli antenati anche il famoso Piacentini), era stato chiamato a sorpresa dal mitico sindaco Giulio Carlo Argan come assessore alla cultura nella giunta capitolina di sinistra, che poneva termine alla lunga, soporifera e iperdevozionale amministrazione di centrosinistra ad egemonia dc. Poi ci sarebbero stati i sindaci Petroselli e Vetere, ma il nome di Nicolini si era nel frattempo fatto conoscere nel mondo. Perché erano i bui anni 70, e Roma si era chiusa in una spirale cupa di opposizione frontale quanto simbolica. L'invenzione del cinema a Massenzio, con megaproiezioni sotto le famose arcate imperiali di classici del cinema, attrasse irresistibilmente quasi fino all'alba il pubblico romano. Anzi i pubblici, perché c'erano famiglie e intellettuali, studenti e anziani, che si sarebbero moltiplicati ancora quando lo schermo diventò immenso, prospiciente l'arco di Costantino, e la platea si allungò fin quasi al Circo Massimo: e il muto Napoleon di Abel Gance risuonò di una partitura sinfonica dal vivo diretta dal maestro Coppola! I francesi son stati gli ammiratori più sfrenati dell'invenzione nicoliniana: Jack Lang la prese dichiaratamente a modello per costruire la sua fortuna come ministro della cultura della République.
Ma il cinema era solo la punta più vistosa dell'iceberg: tutte le arti hanno avuto da Nicolini, in quella felice stagione, un impulso che a Roma non si era mai visto, scatenando del resto gli studi dei sociologi come le chiacchiere al bar. In teatro il suo intervento non fu meno radicale: dalla conquista dei luoghi meno visibili per farne sede di spettacolo (e neanche facile, se si pensa a uno storico Britannicus di Racine nella chiesa dei Fori) ai molti palcoscenici in contemporanea del Parco Centrale di via Sabotino, alla riapertura degli argini del Tevere e della mussoliniana villa Torlonia, alla stessa nuova funzione fatta assumere al Teatro di Roma, che si convinse a promuovere e realizzare i progetti che provenivano anche dall'assessorato di piazza Campitelli. Nicolini era in grado di far risvegliare i pigri uffici amministrativi e le soprintendenze, con il sorriso e con la cocciutaggine. Se no, non si sarebbe mai realizzato quel vero evento storico del Festival dei Poeti sulla spiaggia di Castelporziano: poeti da tutto il mondo, spettatori da tutta Europa, emozioni da profondità marine.
Oggi, dopo soli 30 anni, tutto questo sembra archeologia lontana; o forse fantascienza, se rapportata ai balbettii insensati e senza fondamento di Alemanno e della sua giunta. Del resto Nicolini assessore, nonostante la fiducia e l'appoggio dei suoi sindaci e del suo pubblico, non ha avuto contro solo la destra più ovvia. Per la nota legge dell'invidia, soprattutto da parte di chi non riusciva a imitarlo pur provandoci incessantemente, lui non era amato certo a Botteghe oscure. Sia per l'incapacità a comprenderlo di quella generazione che lì a due passi dal suo assessorato non riusciva neanche ad affermarsi (ma oggi è ben solida al proprio posto), sia perché nessuna via preferenziale veniva accordata ai progetti provenienti «dal partito». Oltre alla concomitante insofferenza che per lui provavano i socialisti: uno di loro arrivò a farsi nominare vicesindaco pensando di poterlo meglio controllare! Nicolini, bisogna proprio dirlo, è rimasta sempre una persona onesta, giocherellone nei comportamenti quanto rigoroso sulla qualità dei progetti, quando vi scorgeva una radice culturale valida. Del resto così è arrivata Pina Bausch all'Argentina, Bob Wilson e Gavin Briars hanno composto un episodio di Civil War per il Teatro dellOpera, e Klaus Maria Brandauer è stato Jedermann sul Campidoglio come faceva davanti al duomo di Salisburgo. Senza Renato, sembra davvero un'altra era glaciale, di cui c'è rimasto in eredità solo il freddo disincanto.
vedi anche l'articolo di Vezio De Lucia
Il simbolo dell’abbandono è diventato la Torre Galfa occupata dai ragazzi di Macao, quel gigante di vetro e acciaio inutilizzato da quindici anni. Proprio mentre, poco distante, i grattacieli di Porta Nuova stanno cambiando lo skyline. Solo un indirizzo, però, di un’altra Milano: una città fantasma nascosta in altri palazzi, in altri piani, ex cinema, uffici, torri, scali ferroviari, che adesso Palazzo Marino cercherà di ricostruire in una mappa. Un censimento per risalire soprattutto alla proprietà di quegli edifici: perché è solo così, capendo a chi appartengano, che si potrà tentare la svolta. «Intendiamo fare in modo - spiega l’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris - che chi ha immobili in disuso o abbandonati non possa ottenere autorizzazioni per nuovi interventi su aree libere». Un disincentivo forte a costruire ex novo, insomma, prima di aver pensato a come riutilizzare i tanti vuoti della città.
Sono norme precise quelle che sta studiando Palazzo Marino: saranno inserite nel nuovo regolamento edilizio che il Comune sta scrivendo. «Una bozza verrà presentata alla città a settembre» racconta l’assessore De Cesaris. Sarà il primo passo per aprire il confronto con i gruppi consiliari, i partiti, gli operatori; e approvare entro la fine dell’anno uno strumento essenziale per far funzionare pienamente il Piano di governo del territorio, e quindi di progettare la nuova città. «Serve un regolamento aggiornato alle nuove esigenze di Milano - aggiunge De Cesaris - e al nuovo Piano che, allo stesso tempo, possa snellire anche alcuni procedimenti». In quegli articoli, che dovranno stabilire le future regole per qualsiasi intervento edilizio, diventeranno legge anche alcuni punti del Pgt: dal divieto di costruire nei cortili ai premi volumetrici per chi seguirà i criteri di consumo energetico. Fino alla rivoluzione che dovrebbe portare all’impossibilità di far spuntare nuovi palazzi per chi è proprietario di stabili vuoti. Un problema, quello dell’abbandono, che riguarda anche i cantieri che rimangono a metà, magari per anni. «Dobbiamo fare in modo dice l’assessore di essere più incisivi verso i proprietari, introducendo ad esempio obblighi legati al decoro del territorio».
Ma quante sono le torri Galfa a Milano? Per ora, le prime stime alla base di un “progetto di riuso temporaneo dei luoghi dimenticati” che l’amministrazione ha avviato con il Politecnico e con l’associazione Temporiuso.net arrivano a ipotizzare quasi quattro milioni di metri quadrati vuoti tra caserme dismesse (un milione), scali ferroviari (un altro milione), e un patrimonio pubblico e privato che comprende uffici, appartamenti, negozi. Così, ad esempio, solo due piani delle torri di Ligresti di via Stephenson sono occupati, e a molte cascine si aggiungono cinema come l’ex Maestoso di corso Lodi e l’ex poligono di tiro. «È un problema che va affrontato dice l’assessore. L’obiettivo è recuperare l’esistente seguendo il principio del minor consumo possibile di suolo, naturalmente senza preclusioni a nuove proposte di costruzione o al cambio di quello che si è già costruito».
Preparandosi a riprendere in mano il timone del governo, la politica farebbe bene a riflettere sulle ragioni della sua Caporetto, nel novembre 2011. Ciò che ha atterrato l’onorabilità della politica non furono tanto gli scandali sessuali del premier o le diffusissime vicende di corruzione, ma l’impotenza a fare il suo lavoro: governare. L’incapacità, non la disonestà, ha mandato a casa il governo Berlusconi. Questa accusa è molto più grave di quella di corruzione. Poiché mentre la disonestà è l’esito di una deturpazione che non mette in discussione la politica ma alcuni suoi praticanti, l’inadeguatezza a prendere decisioni mette in luce un limite oggettivo della politica democratica. Infatti fu il sapere di dover andare di fronte agli elettori con programmi di rigore e sacrifici, e di rischiare di perdere il consenso, che ha reso il governo Berlusconi impotente. Con il governo dei tecnici è circolata un’idea perniciosa: che la forza di un governo sia in proporzione della sua non rispondenza agli elettori. Questo è il vulnus democratico contenuto nella filosofia di un governo tecnico. L’uscita dal quale deve necessariamente corrispondere alla rinascita della politica delle idee e della progettualità con la quale presentarsi agli elettori.
Difficile prevedere che cosa lascerà il governo Monti. Ma una cosa sembra chiara proprio in virtù di questa premessa: con l’avvento del governo dei “tecnici” la politica dei politici si trova di fonte a un compito impervio, che è quello di dimostrare di essere meglio di un governo senza politica partigiana; che un governo che deve rendere conto agli elettori è migliore e altrettanto capace di un governo tecnico. Ritornare a parlare di programmi e di idee è la via maestra. Ed è urgente. Un problema tra i più urgenti che una politica democratica dovrà affrontare sarà quello della crescente diseguaglianza della società italiana. La diseguaglianza è un problema per la democrazia, soprattutto quando si radica nelle generazioni, perché balcanizza la società e rompe la solidarietà tra cittadini, inducendo i pochi a secedere, se così si può dire, dall’obbligo di contribuire per chi non sente più come uguale.
La società italiana sta da alcuni anni percorrendo una strada a ritroso rispetto a quella nella quale si era immessa dopo la Seconda guerra mondiale: dall’eguaglianza alla diseguaglianza. Lo documentano ricerche effettuate dal 2009 al 2012 da istituti diversi come l’Ocse, la Banca d’Italia e l’Istat. Da circa quindici anni, si assiste a una progressiva disuguaglianza dei redditi e un aumento progressivo della povertà. Come osserva Giovanni d’Alessio in uno studio per la Banca d’Italia di qualche mese fa, il rapporto tra la ricchezza e il reddito è all’incirca raddoppiato negli ultimi decenni; insieme è aumentato il ruolo dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro. In altri termini, la ricchezza sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo mentre declina il ruolo del lavoro. Un significativo aspetto della disuguaglianza riguarda la sua tendenza a trasferirsi da una generazione all’altra, legando sempre di più il destino dei figli a quello dei genitori. È questo un fattore tra i più devastanti e che documenta direttamente la stabilizzazione delle classi. Perché disuguaglianza non occasionale, non per personale responsabilità, ma di classe, un fatto che vanifica ogni più ragionevole discorso sul merito individuale.
Questo trend classista ci dice in sostanza che lavoro dipendente e lavoro autonomo sono divaricati (il reddito del secondo aumenta molto più in proporzione al reddito del primo) e che i punti di partenza (la famiglia) diventano sempre più determinanti e difficilmente neutralizzabili da parte degli individui. Non a caso, insieme alla divaricazione dei redditi autonomi e da lavoro si ha la divaricazione degli accoppiamenti: sempre più persone si sposano con persone con reddito simile. Insomma poveri sposano poveri, ricchi sposano ricchi – e per conseguenza, tendenza al trasferimento delle diseguaglianza e dei privilegi da una generazione all’altra.
La democrazia non ha mai promesso né perseguito l’obiettivo di rendere tutti i cittadini economicamente eguali, ma ha promesso con formale dichiarazione nelle costituzioni e nelle carte dei diritti, di “rimuovere gli ostacoli” che impediscono a uomini e donne, diversi tra loro sotto tanti punti di vista (dal genere al credo religioso alla ricchezza) di aspirare a una vita dignitosa. Vi è nella democrazia politica un invito assai esplicito a mai interrompere il lavoro di manutenzione sociale operando sulle condizioni di accesso o le “capacitazioni” per usare un termine coniato da Amartya Sen. Ecco perché a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale le democrazie hanno dichiarato che i livelli di disuguaglianza nella ricchezza devono e possono essere mitigati agendo sui meccanismi che la determinano, ad esempio con politiche in grado di assicurare che il godimento di alcuni diritti fondamentali raggiunga più pienamente e uniformemente la popolazione. Scrive d’Alessio, che “la scuola pubblica erogando un servizio a tutti, tende a ridurre la disuguaglianza tra i cittadini in termini di conoscenze e di abilità, presupposto di una quota rilevante di quella in termini di ricchezza, riducendo in particolare il divario che caratterizza coloro che provengono dalle classi sociali più svantaggiate”. Lo stesso vale per il servizio sanitario, che rimuove un ostacolo forse ancora più fatale per chi non ha altra ricchezza se non il proprio lavoro. Eppure proprio queste “spese sociali” sono oggi messe in discussione e decurtate. I programmi politici sono quindi determinanti perché a consolidare le classi insieme al declino fortissimo dei matrimoni interclassisti interviene proprio lo smantellamento di quel fattore sul quale si era costruita la democrazia moderna: la politica sociale, che significa la ridistribuzione dei redditi attraverso i servizi destinati alla salute e all’istruzione; in questi due settori chiave che da sempre hanno contribuito a contenere il divario tra le classi lo Stato investe sempre di meno, dimostrando nei fatti di non essere in grado o di non volere più usare la spesa pubblica per obiettivi democratici, per rimuove gli ostacoli alla crescita della disuguaglianza, come promesso dalla Costituzione.
È l’estate dei roghi nelle discariche che sprigionano diossine e altri cancerogeni. L’estate dei veleni nell’aria e nei cibi. Da Caserta a Palermo, passando per la Puglia. Gli incendi di rifiuti accomunano il Sud d’Italia nell’ennesima emergenza tra rimpalli di competenze, ritardi negli interventi e un’altalena di rassicurazioni e allarmismi sul rischio per la salute.
A Palermo brucia da sette giorni la discarica di Bellolampo, quella in cui confluiscono tutti i rifiuti della città. Per fronteggiare i roghi, oltre ai Canadair, è stato mobilitato addirittura l’Esercito.
Le fiamme, hanno accertato gli investigatori, sono dolose e sono state appiccate dai piromani in tre punti, nonostante la vigilanza interna, con precisione chirurgica. Ma chi ha interesse a bloccare l’impianto? Secondo i magistrati di Palermo, il procuratore aggiunto Ignazio De Francisci e il sostituto Gery Ferrara, dietro al rogo si nasconderebbe il business legato allo smaltimento dei rifiuti. Dalla montagna che sovrasta la città si innalza una nube nera che ha già invaso la periferia e si dirige anche verso i paesi della provincia.
Il sindaco Leoluca Orlando al sesto giorno di fiamme è corso ai ripari. Ha scritto al ministro Passera chiedendo la testa dei commissari Amia e ha emesso un’ordinanza che vieta il consumo dei prodotti agricoli coltivati nelle zone più prossime all’incendio. Un provvedimento «cautelare», rassicura Orlando che intanto prescrive controlli sul latte materno e impone il lavaggio di strade e tetti dei quartieri a ridosso di Bellolampo.
L’Arpa, l’azienda regionale per l’Ambiente, ha diffuso solo dati parziali sull’inquinamento dell’aria che già indicano una considerevole concentrazione di benzene, toluene e xileni nell’aria, ma non delle diossine. I risultati completi si dovrebbero avere la prossima settimana, mentre in città si sono accumulate 3.300 tonnellate di rifiuti.
Ma quella di Palermo non è che l’ennesima emergenza di un meridione sommerso dall’immondizia e nella morsa degli interessi milionari che girano intorno allo smaltimento. Un business che alimenta gli appetiti della criminalità organizzata. È quello che succede in Campania e in Puglia dove a cadenza giornaliera si appiccano roghi ai rifiuti speciali nelle campagne.
È accaduto a Foggia e da due mesi si ripete a Bari, dove i cassonetti finiscono in cenere in vari punti della città. L’azienda municipalizzata ha già presentato due esposti denunciando un vero e proprio disegno per boicottare il sistema dei rifiuti. La scia degli incendi continua tra Napoli e Caserta dove i roghi hanno una storia ventennale. Ad appiccarli le bande legate alla camorra che distruggono così i rifiuti speciali — dall’eternit ai pneumatici — abbattendo per conto di imprenditori senza scrupoli i costi di uno smaltimento autorizzato.
Un giovane farmacista di Giugliano, Angelo Ferrillo, da cinque anni racconta sul blog laterradeifuochi. it tutti i roghi, ricevendo centinaia di segnalazioni. Ne viene fuori la mappa di uno scempio quotidiano, da Scampia a Marcianise, da Casal di Principe a Santa Maria Capua Vetere. «A Caserta — racconta Ferrillo — ci sono almeno venti incendi al giorno. All’opera bande di Rom in contatto con gli imprenditori. Abbiamo denunciato sindaci, prefetti e l’azienda regionale per l’ambiente alla commissione europea». In campo è sceso anche il “Collettivo Latrones”, un gruppo di intellettuali e artisti campani che ha scritto al ministro della Salute, Renato Balduzzi, ribattendo polemicamente a una risposta del ministro in Parlamento sull’aumento dell’incidenza dei tumori: «Le nostre abitudini alimentari non c’entrano, qui è in corso uno sterminio che dipende dai roghi dei rifiuti».
La rivolta degli operai dell'Ilva di Taranto contro la chiusura del loro stabilimento, che danneggia gravemente la loro salute e quella dei loro concittadini, ha un significato sinistro per l'avvenire di tutti. Non perché fa balenare la prospettiva di un'alleanza tra imprenditori e lavoratori che metta la difesa dell'occupazione in contrasto con la difesa dell'ambiente. Questa prospettiva è stata indicata da Asor Rosa ed è tutt'altro che irrealistica. A voler essere precisi non si tratta di una prospettiva nuova ma di una contraddizione antica mai effettivamente risolta che ritorna con una brutalità imprevista a distruggere le illusioni di uno sviluppo ecosostenibile, che sono state il frutto più dell'ottimismo di una volontá "politicamente corretta" che della ragione (che avrebbe diversi motivi per essere pessimista).
La globalizzazione ha reso evidente che il futuro del mondo non si giochi nei pochi paesi dell'Europa in cui la difesa dell'ecosistema ha fatto passi incoraggianti e innegabili. La crisi economica sta rimescolando le carte in modo tale che la regressione verso politiche di sviluppo devastanti per l'ambiente e per i diritti dei lavoratori (e, per estensione automatica, di tutti i cittadini) non appare un'ipotesi ardita. Scaricare sulle spalle dei lavoratori la responsabilità di eventi che mettono loro con le spalle al muro, minando perfino, a lungo andare, la loro salute, è la tentazione che può prevalere in tanti, seppure in modo non del tutto consapevole. In una società in cui i sindacati sono impediti nella loro funzione di agenti dell'interesse generale e spinti inesorabilmente verso una prassi di difesa dei posti di lavoro di breve respiro la responsabilità è del governo e delle forze politiche.
Perché la cosa che diventa sempre più evidente è l'irrazionalità del sistema capitalistico che lasciato privo di contrasto, di antagonismo e di controllo produce disperazione e disordine. La vicenda di Taranto è emblematica non per il tradimento possibile dell'interesse collettivo da parte della classe operaia ma perché evidenzia, nel modo più drammatico, il suicidio della qualità della nostra vita a cui ci costringe un sistema di produzione basato su parametri quantitativi sempre più astratti dai nostri desideri e sempre più avversi al loro appagamento. Dobbiamo prima di tutto mangiare affermano alcuni operai a Taranto e non molto diversamente da loro direbbero le popolazioni affamate dei paesi della periferia del sistema capitalistico.
Qualsiasi compromesso di fronte alla propria sopravvivenza fisica non potrebbe che essere lecito sul piano individuale ma sul piano della coscienza collettiva produce smarrimento l'accumulo di una ricchezza di risorse materiali mai vista prima che tende ad affamare più che a sfamare l'umanità. Il vero contrasto non è tra operai (interesse corporativo) e magistrati (interesse collettivo) o tra bisogni materiali elementari e bisogni materiali più evoluti (meglio morire di cancro tra molti anni che morire di fame oggi ha detto un operaio). La gestione puramente quantitativa dell'interesse collettivo, la sua completa sottomissione alla logica dei numeri, è in rotta di collisione con la razionalità della nostra esistenza, produce povertá materiale per i molti e infelicitá affettiva per tutti. La qualità della vita non è una scienza esatta ma non è un’opinione.
Postilla
Lo raccontava già efficacemente Frederick Engels ne La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845) sino a che punto certe distorsioni indotte dal capitalismo riuscissero a deviare completamente coscienza e identità dei lavoratori. I quartieri popolari di Manchester, oltre ad essere malsani e gestiti dagli speculatori, erano letteralmente soffocati dai fumi delle vicine industrie che rendevano l’aria irrespirabile, ma i giovani operai consideravano segno di forza e virilità saper sopportare senza lamentarsi troppo anche questo, sino a fare delle specie di gare di resistenza. Piuttosto sconfortante scoprire (?) sino a che punto ancora oggi certi sedicenti marxisti da dispense settimanali rilegabili pontifichino a nome di tutti sul che fare (f.b.)
Viva il Milan e viva l'Inter, viva l'Atalanta e viva la Sampdoria, viva il Palermo e viva la Salernitana e insomma viva tutti: ma perché costruire uno stadio dovrebbe essere più facile che tirar su una scuola, una caserma dei pompieri o un ospedale? Te lo chiedi leggendo la nuova legge che vorrebbe dare un'accelerata a tutti i nuovi impianti sportivi che abbiano in allegato ipermercati, ristoranti, condomini... Legge votata in mezz'ora, grazie a una tregua-lampo nella rissa tra i partiti, da un'ammucchiata mai vista.
Tema: possibile che un Parlamento capace di rifiutare la corsia preferenziale alla legge sui bilanci dei partiti mentre si consumava lo scandalo dei rimborsi elettorali gestiti dai tesorieri della Margherita Luigi Lusi e della Lega Francesco Belsito, non l'abbia invece negata a un provvedimento come questo, approvato fulmineamente in 30 minuti netti dalle 13.55 alle 14.25 di giovedì 12 luglio, in «sede legislativa» da una commissione di 44 deputati, senza passare per l'aula?
Seconda domanda: perché se n'è occupata la Commissione cultura, scienza e istruzione invece di quelle che hanno a che fare con l'urbanistica o i lavori pubblici? Perché ha competenza sullo sport? Ma «che c'azzecca», per dirla in «dipietrese», con la costruzione di questi trans-stadi-ipermercati-hotel? Ma qui proprio il caso dipietrista pone la terza domanda: come mai, nel bel mezzo di una guerra termonucleare contro tutto e tutti, la stessa Idv s'è associata al coro degli entusiasti della nuova norma?
Tutti, l'hanno votata. O quasi: la sola Luisa Capitanio Santolini, a nome dell'Udc, ha votato contro: era delusa che il testo, frutto «del lavoro condiviso», non fosse «meditato e discusso ulteriormente». Gli altri, tutti insieme appassionatamente. Maria Coscia, del Pd, lo ha benedetto come «un provvedimento di grande utilità per il mondo dello sport». Rocco Crimi, il tesoriere del Pdl, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per la vigilanza sul Coni, già consulente farmacologo della Roma Calcio e dell'istituto di Medicina dello sport Coni-Fmsi, ha esultato per gli «importanti miglioramenti» apportati nella seconda lettura alla Camera dopo il passaggio al Senato nell'ormai lontano 2009. Pierfelice Zazzera, vicepresidente della commissione, dipietrista, ha applaudito. E non è mancata, in chiusura, l'aspersione dell'incenso governativo: operazione assegnata al ministro dello Sport Piero Gnudi, speranzoso d'aver dato il via a «un volano per l'economia». Le firme in calce alla legge, risultato dell'unificazione di più proposte, sono un arcobaleno. Spiccano su tutti gli azzurri Luigi Grillo e Paolo Barelli, presidente della Federnuoto. Ma anche esponenti del Pd quali l'imprenditore farmaceutico Andrea Marcucci, Mariapia Garavaglia o Anna Maria Serafini, moglie di Fassino. E i leghisti? Hanno preferito non sbilanciarsi in dichiarazioni di voto: metti mai che poi i tifosi padani dell'Albinoleffe o della Solbiatese… Ma il loro okay, alla fine, non lo hanno fatto mancare.
La lettura del provvedimento è molto istruttiva fin dal titolo: «Disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione di impianti sportivi anche a sostegno della candidatura dell'Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale». Messa così, sembrerebbe il via libera a uno sforzo per costruire nuovi «Maracanà» o nuovi «Santiago Bernabeu». Insomma: tre o quattro spettacolari strutture in grado di farci fare un figurone planetario.No: per beneficiare della «semplificazione e dell'accelerazione delle procedure amministrative» non serviranno più neppure i limiti previsti dalla versione uscita dal Senato: almeno 10 mila posti a sedere allo scoperto e 7.500 al coperto. Nella nuova stesura ne basteranno rispettivamente 7.500 e 4.000. Col risultato, tremano gli ambientalisti, che la soglia si è abbassata al punto di invogliare alla costruzione di stadi e palazzetti «ibridi», cioè affiancati da ipermercati e hotel e sale gioco e beauty center in deroga ai piani urbanistici, anche nelle cittadine di provincia. Che certo non punteranno mai a ospitare le Olimpiadi o gli Europei. Novità: la società sportiva che realizza l'impianto dev'essere riconosciuta dal Coni. Che si va ad aggiungere alla miriade di enti e istituzioni che hanno competenza sulle opere pubbliche.
Fin qui, direte, è roba di sport. Vero. Ma tutto fa pensare che la «ciccia», quella vera, non sia negli impianti. Ma in quel comma, il numero 2 dell'articolo 4, più insidioso. Che recita: «Il progetto per la realizzazione di complessi multifunzionali può prevedere ambiti da destinare ad attività residenziali, direzionali, turistico-ricettive e commerciali».Poche parole, ma tali da far sospettare a Legambiente, come si legge nel dossier elaborato con l'Istituto nazionale di Urbanistica e il Consiglio nazionale degli Architetti, che «questo provvedimento non è pensato per le squadre di calcio ma per chi vuole realizzare speculazioni edilizie. Perché altrimenti prevedere che si possano realizzare case e alberghi, centri commerciali e uffici? E senza neanche una scadenza legata a un avvenimento sportivo, per cui varrà per sempre come procedura speciale, permettendo in pochi mesi di rendere edificabili terreni agricoli e persino, con alcune forzature, aree vincolate»!
Assurdo, accusa il dossier: «Del resto l'unico grande stadio realizzato in Italia in questi anni, lo Juventus Stadium di Torino, non ha avuto bisogno di procedure speciali, né di essere finanziato dalla costruzione di case e alberghi». Qui no, qui «la vera invenzione è nella formula "complessi multifunzionali" definiti come "complesso di opere comprendente ogni altro insediamento edilizio ritenuto necessario e inscindibile purché congruo e proporzionato ai fini del complessivo equilibrio economico e finanziario"».Parole così generiche da comprendere e consentire tutto.
Le procedure, accusa Legambiente, «sono davvero speciali: si presenta uno studio di fattibilità finanziario e di impatto ambientale, entro 90 giorni la giunta comunale si esprime, convoca una conferenza di servizi per le varianti ai piani vigenti e l'approvazione del progetto da concludersi entro 180 giorni, e poi dopo l'approvazione del consiglio comunale (entro 30 giorni), si può partire con i lavori». Evviva la velocità: ma i rischi? Un solo caso tra i tanti ricordati dal dossier: l'area scelta dalla Lazio, 600 ettari e su cui realizzare 2 milioni di metri cubi, «si trova intorno al km 9,4 della via Tiberina in area di esondazione del Tevere vincolata dal punto di vista idrogeologico ed archeologico».Un pasticcio. Che spacca anche i partiti. A partire dal Pd. Basti leggere le dichiarazioni di fuoco, dopo il via libera della legge alla Camera (adesso deve tornare in Senato ma stavolta dovrà passare per l'aula) di Ermete Realacci o di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, secondo i quali è «una nuova legge-porcellum. Tagliata su misura sugli appetiti speculativi di pochi presidenti di società di calcio. Gli stadi sono solo un pretesto, la vera intenzione è realizzare grandi volumetrie commerciali, residenziali, direzionali fuori dalle previsioni e dai limiti dei piani regolatori». Rispondano anche i tifosi: ne vale la pena?
Il problema può essere di principio, ma può anche non esserlo perché l'analisi marxista della realtà non è obbligatoria. Dire che la colpa è sempre del padrone a qualcuno, magari anche tra i nostri lettori, potrebbe apparire come un pregiudizio ideologico. Allora mettiamola così: ovunque arrivi il padrone dell'Ilva esplode la zizzania tra i lavoratori e, soprattutto, tra i lavoratori e la popolazione vittima dei fumi di Emilio Riva. Ieri è successo a Genova, oggi si ripete a Taranto. Sentire, al termine di una grandissima e difficile manifestazione che tentava di unire i diritti al lavoro e alla salute, i leader di Cisl e Uil che per difendere il diritto al lavoro si schierano al fianco del padrone, oppure ascoltare il capo dell'Ilva che "difende" i lavoratori in sciopero dalle contestazioni, dà il segno di un inquinamento ideologico che si somma a quello, devastante, ambientale.
L'Ilva avvelena chi lavora e chi vive intorno al suo insediamento innanzitutto perché il profitto è stato e resta l'unico parametro di riferimento. Il profitto a tutti i costi, al massimo risparmio, è all'origine del disastro ambientale di Taranto come lo è stato precedentemente di altre città. Se si risparmia sulla sicurezza, sul risanamento dei guasti provocati al territorio nel corso di decenni, se si rinviano le ristruttuzioni del ciclo lavorativo per renderlo compatibile con l'aria che si respira, le cozze che si mangiano, l'erba di cui si nutrono le pecore, perché stupirsi della strage perpetrata dentro e fuori dalle lavorazioni a caldo di Emilio Riva?
Quei sindacati che solidarizzano con Riva e se la prendono con la magistratura, così come coloro che ieri contestando la manifestazione di Taranto scaricavano tutte le colpe sui sindacati, hanno perso di vista il responsabile principale della tragedia.
La magistratura arriva per coprire i buchi lasciati aperti dalla politica e dalle istituzioni, che rappresentano il secondo responsabile della crisi di Taranto.
Esistono, certo, anche responsabilità sindacali per aver concesso troppo al padrone, per aver subito il ricatto di una scelta insensata tra diritto al lavoro e diritto alla salute, per aver accettato scambi inaccettabili con la controparte naturale. Non tutti: i delegati Fiom venivano licenziati per gli scioperi organizzati in difesa della salute e per il miglioramento del ciclo produttivo. Se una colpa esiste, ed esiste, di una parte del sindacato, è di aver rinunciato alla sua autonomia. Accusare la Fiom, come fanno Cisl e Uil, per i disordini di ieri che hanno impedito alla Fiom stessa e alla Cgil di parlare, non è un errore ma il prodotto di un imbarbarimento culturale.
Difendere il lavoro e l'ambiente è possibile se si ha un progetto di riqualificazione e di riconversione della produzione, reso ancora più urgente dalla crisi. L'obiettivo sarebbe più vicino se la politica, la sinistra, si occupassero di questi problemi e se il governo si assumesse le sue responsabilità, invece di ripetere come un mantra che gli imprenditori hanno il diritto di decidere da soli come, cosa e dove produrre per fare più utili.
Così tramonta un simbolo dell’industria italiana
Luciano Gallino
L’acciaio è un materiale composto soprattutto di ferro, nonché di carbonio in misura inferiore al 2 per cento, più una dozzina di altri elementi presenti in una misura che varia da una frazione millesimale (il molibdeno) a oltre il 10 per cento (il cromo). Ha molte caratteristiche positive. Se si varia il tenore dell’uno o dell’altro elemento, si ottengono migliaia di tipi di acciaio dalle prestazioni diversissime quanto a elasticità, capacità di sopportare carichi oppure urti, resistenza alla corrosione, modalità di lavorazione. Grazie alla sua natura proteiforme, l’acciaio è presente ovunque, dalle mollette dei cellulari alle arcate dei viadotti ferroviari e stradali, dalle carrozzerie di auto ed elettrodomestici allo scafo delle navi, dagli strumenti chirurgici alle ruote dei treni. Possiede inoltre la virtù di essere riciclabile senza fine. Presenta però anche, l’acciaio, una caratteristica negativa: la sua produzione è altamente inquinante. Gli impianti siderurgici sono capaci di diffondere sia al proprio interno sia per chilometri quadrati attorno a sé grandi quantità di polveri a grana grossa oppure sottili, più ogni sorta di fumi visibili e di veleni invisibili, dal benzopirene alla diossina. Il maggior problema per l’abbattimento del grado di inquinamento deriva dal fatto che in pratica ciascuno dei tanti pezzi di un impianto contribuisce per conto suo all’inquinamento. In misura variabile diffondono polveri, fumi e veleni le cokerie quanto gli altiforni, la laminazione a caldo quanto quella a freddo, le fornaci elettriche quanto i convertitori.
Al fine di ridurre l’inquinamento sono state seguite nel mondo tre strade. La prima consiste nello sviluppare tecnologie specifiche per abbattere l’inquinamento nel punto preciso dell’impianto in cui si genera. È una strada piuttosto costosa. Un’altra strada è consistita nel costruire impianti più piccoli, le cosiddette mini-acciaierie, che di per sé inquinano meno e costano meno in tema di prevenzione. Esse presentano tuttavia il difetto di non poter produrre molti tipi di acciaio che invece riescono bene nei grandi impianti integrati. Ampiamente
praticata è poi la terza strada, in specie nei paesi emergenti, ma non soltanto in essi. In questo caso la proprietà, spesso con l’assenso del governo nazionale o locale, trasmette per vie dirette o indirette un messaggio: se volete posti di lavoro e reddito, dovete sopportare senza fare storie quel po’ di inquinamento che il nostro impianto genera.
A fronte di queste premesse, dal caso dell’acciaieria di Taranto si possono trarre varie lezioni. Una è locale. Che lo stabilimento sorto a ridosso della città fosse molto inquinante lo si sapeva da quarant’anni, cioè dal momento in cui la Italsider che lo aveva creato ne realizzò il raddoppio. Sarà vero che i successivi proprietari – l’Ilva che fa capo al gruppo Riva – hanno effettuato investimenti notevoli al fine di ridurre l’inquinamento, ma pare evidente che essi non sono bastati.
L’elenco dei tipi di inquinanti e delle loro quantità diffusi negli ultimi anni dall’impianto in questione, messo insieme da varie fonti dalla magistratura di Taranto, è agghiacciante. Ci si dovrebbe
spiegare come mai la Regione, il ministero dell’Industria ovvero dello Sviluppo, i governi che si sono succeduti nello stesso periodo non abbiano saputo intervenire con mezzi efficaci per rimuovere la cappa di veleni che grava sulla città.
La seconda questione è nazionale. Nel 2011 l’Italia ha prodotto 29 milioni di tonnellate d’acciaio. Assai meno della Germania, ma quasi il doppio di quante non ne abbiano prodotte, a testa, Francia e Spagna, e tre volte la produzione del Regno Unito. Più o meno la metà dell’acciaio italiano proviene da Taranto. Si tratta in pratica di una delle ultime produzioni industriali su larga scala che esistano in Italia. Non si può fermarla in gran parte per un periodo indefinito, al fine di consentire alla proprietà di procedere da sola, se e quando ne avrà voglia, per introdurre le tecnologie necessarie ad abbattere sul serio l’inquinamento. Occorre procedere al più presto, d’intesa con la proprietà, a interventi radicali attuati con il massimo e il meglio dei mezzi che si possono mobilitare sul piano interno e internazionale. Senza farsi illusioni. L’impianto di Taranto, che ha il pregio ma anche il difetto di essere il più grande d’Europa, non può materialmente venire convertito in una mezza dozzina di mini-acciaierie. Né si può pensare di fargli produrre in breve acciai di varia e superiore qualità, perché ogni tipo di acciaio richiede macchinari ad hoc, che comporterebbero grossi investimenti addizionali oltre a quelli anti-inquinamento.
Infine c’è la questione globale. Molti settori dell’industria, del commercio e della finanza si sono sviluppati per decenni, creando al proprio interno posti di lavoro ma infliggendo anche a gran numero di persone elevatissimi costi esterni in termini di rischio, inquinamento, distruzione dell’ambiente, condizioni di vita. Taranto è stato tristemente esemplare da questo punto di vista. È arrivato il momento di porre fine a tale scambio perverso. Per diverse vie, con diversi mezzi, i costi esterni dello sviluppo, le cosiddette esternalità, dovrebbero essere drasticamente ridotti o riportati all’interno delle imprese che li generano.
Due diritti da difendere
Stefano Rodotà
È possibile che entrino duramente in conflitto la salute, diritto fondamentale della persona (art. 32 della Costituzione), e il lavoro, fondamento della Repubblica (art. 1)? Sì, è possibile. E non è la prima volta che, nelle piazze italiane, si pronunciano le terribili parole “meglio morti di cancro che morti di fame”. Quando si è obbligati ad associare il lavoro con la morte, si tratti di produzioni nocive o di infortuni, davvero siamo di fronte a inammissibili violazioni dell’umanità delle persone. Il lavoro si trasforma in condanna quotidiana, che non arriva però da una maledizione biblica, ma dal modo in cui è concretamente organizzato il mondo della produzione.
Da dove cominciare per cercare di comprendere queste vicende? Ancora una volta ci aiuta la Costituzione con il suo articolo 41. Qui si dice che l’iniziativa economica privata, dunque l’attività d’impresa, «non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana». Vale la pena di sottolineare la lungimiranza dei costituenti, che posero la sicurezza prima ancora di libertà e dignità. E la sicurezza riguarda il lavoro, ma è pure sicurezza per i cittadini nell’ambiente e per i prodotti che consumano. Quelle parole nella Costituzione piacciono sempre di meno e si cerca di cancellarle,
in nome della legge “naturale” del mercato. In un decreto recente, salvato acrobaticamente dalla Corte Costituzionale, si è messo abusivamente al primo posto il principio di concorrenza, nel tentativo di ridimensionare la portata complessiva di quell’articolo. Lungo è il catalogo dei fatti di cronaca che rendono evidente la mortificazione del lavoro attraverso il sacrificio della salute del lavoratore. Taranto è il nome di un luogo che si aggiunge a Marghera, Casale Monferrato, Val di Chiana, per citare solo i casi più noti. Quando l’attività d’impresa viene organizzata prescindendo dal fatto che la sicurezza dei lavoratori è un obbligo giuridico e un dovere collettivo, sono sempre devastanti le conseguenze umane e sociali.
La soluzione non poteva venire dalla tecnica molte volte usata di monetizzazione del rischio – denaro in cambio di salute. Bruno Trentin sottolineava la necessità di andare oltre l’ottica puramente retributiva e di tutelare nella sua integralità la persona del lavoratore. Né può venire dalla pretesa di un silenzio della magistratura di fronte a violazioni gravi e ripetute di un diritto fondamentale e di specifiche norme di legge.
Sempre più spesso i lavoratori sono vittime di ricatti. Occupazione a qualsiasi prezzo, anche della vita. Occupazione con sacrificio della libertà, come è accaduto con il referendum di Mirafiori sovrastato dalla minaccia della chiusura della Fiat. Questa è la spirale da spezzare. Soluzioni provvisorie possono essere ricercate, ma ad una sola condizione: la restaurazione integrale dei diritti dei lavoratori, che diventa anche la via per tutelare i diritti di tutti, come quello all’ambiente.
Sono tempi duri per i diritti fondamentali, per quelli sociali in specie. In nome dell’emergenza, siamo ormai di fronte a vere e proprie sospensioni di garanzie costituzionali. Si è dimenticato che l’articolo 36 della Costituzione prevede che la retribuzione debba garantire al lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa». Non essere il prezzo della perdita d’ogni diritto.
Fuori aula fioriscono disinvolte giurisprudenze. Fautori della «prerogativa», con lieve sentore d'ancien régime, ammettevano che gl'indaganti palermitani operassero bene quando l'addetto registrava i suoni intercettando telefonate d'un ex ministro ora imputato quale falso testimone sui negoziati Stato-mafia, anziché interrompere l'ascolto lacerando i nastri; e presunta una lacuna, invocavano legge ad hoc o sentenza «additiva» dalla Consulta. Secondo l'ultima massima, non occorrono l'una né l'altra: vale l'art. 271 c.p.p. sulle intercettazioni invalide: carte, nastri, dischi, vadano al diavolo, inauditi dalle parti, in deroga all'art. 268, c. 6. Era un'intrusione sciagurata: lì dentro risuonano emissioni vocali che nessun profano può udire; il tutto avvenga al buio. Non è chiaro se sprofondino nella curva dell'oblio anche i detti dell'interlocutore, talvolta inscindibili.
Il contraddittorio va a farsi benedire. Vengono spontanei dei quesiti: perché inabissare santi discorsi quando il pubblico può trovarvi alimento spirituale?; o la scelta dipende da chi parla, secundum tenorem verborum, nel senso che alcuni siano ascoltabili, altri no? Quesito antipatico ma il punto è marginale. Vogliamo sapere dove stia il divieto d'ascoltare. Non basta esclamarlo, va letto nel testo d'una norma. Qui l'onorevole Gianluigi Pellegrino alza i toni (cattivo segno): sono parole del Presidente, «coperte dalla guarentigia d'inviolabilità»; è vertice dello Stato; comanda le forze armate. Dio sa cosa c'entri. «Guarentigia », parola melodiosa, suona retrò; e così 'inviolabile', aggettivo ignoto al moderno lessico costituzionale, che io rammenti, mentre appare nell'art. 4 dello Statuto Albertino, 4 marzo 1848: «la persona del Re è sacra e inviolabile ». L'oracolo non dà altro, né forniscono lumi i due articoli citati nel decreto 12 luglio.
In lingua italiana l'immunità penale del Presidente (art. 90 Cost.) non significa divieto d'ascoltarlo conversante su linee legittimamente controllate: anche i parlamentari sono immuni, rispetto alle «opinioni espresse e ai voti dati» (art. 68, c.1, Cost.); eppure i colloqui su nastro soggiaciono al contraddittorio regolato dall'art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140. Altrettanto poco interessa l'art. 7 l. 5 giugno 1989 n. 219, dov'è stabilito che intercettazioni, ricerche coattive, misure cautelari possano essere disposte nei suoi confronti solo quando la Corte l'abbia sospeso dalla carica: nessuno gliele aveva inflitte; l'ascolto era accidentale, su una linea captata, e chi frequenta luoghi pericolosi «imputet sibi» gli accidenti. L'avevamo rilevato: i devoti alla prerogativa interpolano nel codice categorie arcaiche da Ramo d'oro o Re taumaturghi;
ma veniamo al quadro casistico.
Cos'avverrebbe se, essendo «inviolabile » il Presidente, un domestico infedele lo spiasse mentre telefona, registrando i suoni: inammissibile la testimonianza in processi su fatti altrui, perché viola l'augusta privacy?; inceneriamo l'abusivo reperto fonico? Rabelais sogghignerebbe, spiritoso qual era nel descrivere gli hommes de loi. Supponiamo ora che il dialogo registrato sia corpus delicti, in quanto configura una condotta penalmente qualificabile: l'art. 271, ultima frase, vieta la distruzione dei reperti, anche se l'origine fosse illegale; il dogma dell'inviolabilità inghiotte tutto? Intavolata una falsa premessa, piovono paradossi.
Sotto gli esclamativi c'era poco, anzi niente, né risultano applicabili i divieti probatori effettivi (ad esempio, l'art. 7 l. 5 giugno 1989). Squagliati i fantasmi, cerchiamo le norme. L'unica reperibile sta nella l. 20 giugno 2003 n. 140: intesa ad attuare l'art. 68 Cost. (immunità parlamentari), contemplava anche il Presidente della Repubblica (giudizi relativi alle «alte cariche dello Stato»), ma i tre commi dell'art. 1 erano invalidi, tali dichiarati perché incompatibili con l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (classico prodotto berlusconiano, reiterato dal cosiddetto lodo Alfano, alla cui vita intrauterina non era estraneo il Quirinale). L'art. 5 contempla intercettazioni fortuite (alias «indirette») dei parlamentari. Caso diverso, dicono i prerogativisti. Sì, ma simile, quindi la regola è analogicamente applicabile (art. 12, c. 2, «Disposizioni sulla legge in generale »): udite le parti, il giudice delle indagini preliminari, inoppugnabilmente ordina la distruzione dei materiali se li ritiene irrilevanti; e salta agli occhi l'inadeguato contraddittorio; sparita la prova, l'eventuale errore diventa irreparabile.
Tale risulta l'attuale disciplina, facilmente diagnosticabile fuori da sedicenti verità dogmatiche. Teoria delle fonti, ermeneutica, sintassi contano ancora qualcosa, finché duri l'ormai anomala sopravvivenza.
Risolta la questione tecnica, va detto qualcosa sullo sfondo ideologico.
Corrono vecchie nomenclature: la persona del Presidente è inviolabile; cade l'aggettivo 'sacra', pudicamente omesso, ma persiste l'idea; spira panico religioso nel preteso obbligo d'interrompere l'ascolto appena risuoni la Voce. Carismi, «guarentigie», immunità, segreto significano arcigna «ragion di Stato» (titolo d'un libro del rissoso gesuita politologo, dimesso dalla Compagnia, Giovanni Botero, Venezia, 1589). Novantun anni prima che Carlo Alberto promulghi lo Statuto, lunedì 28 marzo 1757, dopo le 15, ora canonica delle feste patibolari, in place de Grève ne va in scena una fuori programma da 147 anni: un regicida che sei cavalli non riescono a squartare, previ attanagliamenti, ustioni sulfuree, taglio della mano, ma chiamarlo regicida è gonfia metafora; Robert-François-Damiens aveva lievemente punto Luigi XV, detto l'Amatissimo, atto simbolico; voleva ammonirlo; ed è un mattoide dal sangue bollente (quando gli sale alla testa, se ne fa cavare). Roba futile se il corpo del re non fosse santo: Robert-François sputa l'anima dopo due ore d'uno scempio sul quale Casanova chiude gli occhi inorridito. Non sono più tempi da squartamento a trazione equina ma l'enfasi intimidatoria batte senza tregua, quando sarebbe raccomandabile una sobria ragione laica.
La città eterna in mano agli alemanni: successe nel 1527, e fu il Sacco di Roma; poi con l’occupazione nazista, ed è meglio sorvolare. Se quelle furono tragedie, oggi il tutto ricicla in farsa. «L’irto e increscioso Alemanno» (profetico Giovanni Berchet!) ne ha detta un’altra delle sue.
Nel 2008, dribblando le domande sulla croce celtica che si era fatto benedire a Gerusalemme, aveva sentenziato che gli sembrava un’enormità aver definito il fascismo un male assoluto («molte persone vi aderirono in buona fede»). Oggi aggiunge che nessuno ha spazzolato il Colosseo come Mussolini: «un intervento così forte, così complessivo, così organico, così significativo» non si vedeva, secondo il sindaco, dal 1938. Poco importa che non sia vero (come ha chiarito la direttrice del monumento parlando con la «Stampa»): il punto è la coazione a sciorinare il proprio intramontato orizzonte culturale.
E immagino i sospiri di Della Valle, che certo non aveva in mente proprio quel modello quando ha deciso di investire 25 milioni in un restauro che durerà tre anni, e che aprirà i cantieri entro dicembre. Folclore a parte, gli interrogativi veri riguardano proprio il ruolo dell’imprenditore. Il ministro Lorenzo Ornaghi – indefesso difensore del patrimonio e dell’interesse pubblici – non ha parlato di ‘sponsorizzazione’, ma di «mecenatismo». La differenza è cruciale. Lo sponsor conta di ricavare (legittimamente) un immediato utile economico dal suo investimento: e ciò molto spesso (se non sempre) risulta in irrimediabile contrasto con il fine costituzionale del patrimonio, che non è quello di produrre reddito, ma cultura ed eguaglianza. Il mecenate, invece, ha un obiettivo di legittimazione morale, culturale e sociale non traducibile in denaro: una figura consueta negli Stati Uniti, non solo grazie alla defiscalizzazione delle donazioni, ma grazie ad un diverso modello culturale. Se Della Valle sarà un mecenate o uno sponsor saranno i fatti a dircelo: quale sarà l’uso di quello che oscenamente viene chiamato il ‘brand Colosseo’? Quanto sarà impattante la nuova sede del centroservizi-merchandising che sarà costruito in un’area delicatissima e supervincolata? Quale l’effettivo controllo del Mibac sui restauri, e quale l’accessibilità alla documentazione?
Fin da ora si può notare che un vero mecenate sarebbe forse stato disposto a legare il proprio nome a monumenti ben più in pericolo del celeberrimo anfiteatro. Ma lo Stato non gli può certo imporre come spendere i suoi soldi: non siamo mica ai tempi di Mussolini!
In una delle zone più preziose di Roma, tra la Via Appia Antica, nel suo primo tratto dopo Piazzale Numa Pompilio e le Mura Aureliane, lungo Via delle Terme di Caracalla, da qualche giorno appare un insieme di strutture, di circa complessivi 700 metri quadri, prima celato da una fitta vegetazione.
Stiamo parlando di un’area preziosissima dal punto di vista monumentale, storico e paesaggistico, la cui tutela era stata riconosciuta oltre cinquant’anni fa.
Questi luoghi, di struggente bellezza erano stati vincolati, infatti, con un decreto di vincolo paesaggistico del 10.1.1956, in base all’allora legge di tutela 1497 del 1939. L’attuale Piano Territoriale Paesistico n. 15/12 della Regione Lazio individua per tutta quell’area una tutela integrale anche se il provvedimento è tardivo, così come il vincolo archeologico di recente emanazione.
Il diabolico meccanismo dei condoni edilizi, vero sfregio non solo paesaggistico, ma anche giuridico, non ha risparmiato gli straordinari valori riconosciuti alla zona nel secolo scorso e riconfermati dalle recenti disposizioni di tutela: ci domandiamo come ciò sia potuto succedere e come e quando e per responsabilità di chi si sia potuta dichiarare la compatibilità degli abusi con tali valori.
Risulterebbe che per il complesso, in origine utilizzato a serra/vivaio, oggi si vuole avere la destinazione a “servizi privati” per cui è certo che qualsiasi uso di questo tipo comporterà ulteriori lavori, adeguamenti, recinzioni, parcheggi, aggravando lo sfregio già inferto all’area.
Italia Nostra interroga gli uffici competenti di Roma Capitale e le Soprintendenze del Ministero per conoscere nel dettaglio le procedure che hanno potuto portare alla sanatoria che doveva invece essere negata.
Come è possibile che un’area di così straordinario valore e che vede la presenza di tante tutele sia stata preda di abusi di tale evidenza, per giunta dichiarati condonabili?
Purtroppo l’episodio che denunciamo è l’ultimo di tanti abusi edilizi condonati contro ogni regola, a dimostrazione del fatto che la gestione del territorio e quella della tutela del patrimonio culturale vivono a Roma una stagione di opacità e incertezza, per responsabilità delle pubbliche istituzioni: Comune, Regione e Soprintendenze.
Di fronte allo scempio del patrimonio archeologico, del paesaggio e della legalità, quale mai può essere di fronte ai cittadini e al mondo la credibilità di tali organismi?
Giornata nera per la Galleria Borghese e se è nera per la Galleria Borghese è nerissima per tutto il patrimonio culturale italiano. Dalla facciata dell'edificio, proprio sotto la terrazza, si è staccato parte dello stemma con i simboli dei Borghese, che quell'edificio costruirono all'inizio del Seicento. Un visitatore è stato appena sfiorato. Mentre si allestiva l'impalcatura per mettere in sicurezza il resto dello stemma, indebolito dalle nevicate, alcuni operai smontavano il bar: niente più caffè e acqua minerale per i duemila visitatori che in media ogni giorno visitano la galleria. Che d'estate sono di più e, allibiti, assistevano allo sgombero, dovuto, si sentiva dire, al mancato rinnovo di una concessione, a royalties non pagate... Scaduta è anche la convenzione con il presidio della sicurezza, per cui da ieri non c'è chi controlli l'impianto di climatizzazione o l'ascensore.
E non è finita: domenica è seriamente a rischio l'apertura del museo. I custodi in servizio saranno 6, la soglia minima per garantire la sicurezza delle sale, le poche che comunque saranno accessibili, e i servizi necessari ai visitatori. Se qualcuno si ammalasse, la Galleria Borghese, con l'Apollo e Dafnedi Bemini, il Ritratto d'uomo di Antonello da Messina e poi Raffaello, Canova, Caravaggio, Tiziano, Veronese, Rubens, non potrebbe aprire. Un altro collasso per il Polo museale romano, ancor più tragico della chiusura domenicale di Palazzo Barberini, dove almeno si è riusciti a mettere una toppa per il mese di agosto, consentendo in via eccezionale l'allungamento dello straordinario ai custodi e garantendo che almeno alcune sale siano aperte. Il problema, alla Galleria Borghese come a Palazzo Barberini, è lo stesso: mancano i custodi, gli straordinari sono stati ridotti dal 100 al 50 per cento e in periodi di ferie il sistema si paralizza, anche perché, denuncia qualcuno, il personale di vigilanza è mal distribuito fra tutti i musei romani.
Da tempo la Galleria Borghese è in sofferenza. Sono partite diverse segnalazioni sui rischi che la neve di quest'inverno ha prodotto. Alcune sale restano chiuse e alla cronica penuria di fondi si è aggiunto il fatto che sono saltate due mostre di arte contemporanea, quella di giugno e quella in programma a ottobre, mostre integralmente pagate da sponsor, con i soldi dei quali si riusciva comunque a pagare straordinari ai custodi per tenere aperto tutto il museo. Problemi burocratici, si è detto, autorizzazioni in ritardo: e gli sponsor sono fuggiti. Il ministero tace, impotente, proprio mentre annuncia per dicembre l'avvio dei restauri del Colosseo con i 25 milioni di Diego Della Valle. Da qualche giorno è insediata una nuova direttrice generale alla Valorizzazione, Anna Maria Buzzi, che ha preso il posto di Mario Resca. Ma ieri alla Galleria Borghese erano in visita i direttori della due principali case d'asta di Taiwan e di Hong Kong. Chissà che impressione avranno ricavato dello stato in cui versa il nostro patrimonio d'arte.
Non c’è pace per il paradiso di Malfatano, sulla costa di Teulada: un facoltoso avvocato milanese ha deciso che centinaia di ettari di terra a due passi dal mare, quelli sui quali la Sitas ha costruito in parte un resort per milionari, deve passare in mani arabe. Un po’ come la Costa Smeralda, ma con obiettivi da chiarire. C’è un documento che lo prova: la società cui il legale Paolo Francesco Calmetta ha trasferito i diritti ereditari sull’area, che sostiene di aver acquisito dal pastore teuladino Ovidio Marras e dalla sorella Giovannica, si chiama Ace of Spades Guandong Opportunity Investments limited, la sede dichiarata è Dubai, negli Emirati. Su quest’operazione milionaria infuria una battaglia legale senza esclusione di carte bollate e da qualche mese la Procura di Cagliari indaga contro ignoti per truffa.
L’inchiesta. Chiusa la prima fase di raccolta degli atti da parte della Guardia di Finanza, il pm Giangiacomo Pilia si prepara a volare a Milano per dare una risposta giudiziaria agli interrogativi contenuti in un esposto firmato dall’avvocato Carlo Federico Grosso, il legale incaricato dalla Sitas – l'immobiliare sarda di Caltagirone, dei Benetton, di Toti e della Sansedoni – di contrastare in giudizio l’assalto alla costa di Teulada lanciato da Calmetta. Ma più che interrogativi quelli proposti dal celebre penalista sono sospetti, fondati sull’intreccio di società e di atti costruito da Calmetta perché il giudice civile avalli con una sentenza quello che appare come l’affare immobiliare del secolo: in ballo ci sono decine e decine di milioni.
Milioni di euro. Ma per capire quali interessi ruotino attorno alla proprietà familiare dei Marras occorre fare un passo indietro, fino all’anno scorso quando giornali e canali tv di tutta Italia raccontano la vicenda come fosse il remake del leggendario duello fra Davide e Golia: il pastore ottantenne Ovidio Marras contro il gigante Sitas, Ovidio il tutore di una Sardegna arcaica e spontaneamente ecologica che difende il suo stradello e ottiene dal tribunale la demolizione di un hotel a cinque stelle avversato dagli ambientalisti e fortemente voluto dall'amministrazione di Teulada. Sembrava che il lotto dei contendenti, per quanto squilibrato, fosse circoscritto a questi nomi. Invece, col passare dei mesi, lo scontro aperto sul paradiso di Malfatano è diventato un intrigo internazionale che coinvolge misteriosi personaggi di Dubai e soprattutto lui, l’avvocato d'affari Paolo Francesco Calmetta, vertice di una galassia di società con sede nel Delaware e nel Nevada. Il punto è questo: Calmetta, grazie a un contratto firmato sbrigativamente dai Marras e attraverso la società Zylberberg Fein LLc con sede a Dover nel Delaware, sostiene di aver acquisito dalla famiglia teuladina i diritti ereditari sull'area di Tuerredda, oggi in parte occupata dal resort della Sitas. Ma com’è che il vecchio Ovidio entra in contatto con uno studio legale milanese griffatissimo come il Calmetta Avvocati Attorney Llp, trascinando l’immagine innocente del proprio furriadroxiu, sei pecore e orticello, fra i grattacieli sfavillanti di Dubai?
L’intermediario. Il tramite si chiama Jochen Bruch, imprenditore svizzero che opera a Teulada. E’ lui che ha convinto la famiglia Marras – ormai rassegnata a vedere la propria dimora storica circondata da hotel – a chiedere aiuto a Calmetta. Ovidio non sopportava che per mettere in piedi il corpo centrale del resort gli avessero deviato la stradina sterrata che conduce al suo rifugio spartano. Ma può scomodarsi un legale del calibro di Calmetta per gestire una questione di questo genere? Bruch ha pensato di sì e infatti l'avvocato milanese ha preso in mano la situazione. Prima ha ottenuto dal tribunale un'ordinanza di demolizione dell'hotel, poi ha proposto alla famiglia Marras di firmare un contratto incomprensibile per chi non mastichi a fondo il diritto civile, in base al quale Ovidio avrebbe ceduto gratis alla Zylbelberg Fein srl i diritti ereditari sull'area Sitas, rimasta per complesse ragioni legali in mano ai Marras. Quando la famiglia teuladina s'è accorta del rischio e ha nominato un nuovo legale, l'avvocato Andrea Pogliani, Calmetta ha fatto valere la clausola contrattuale che prevedeva il ricorso a un collegio arbitrale di Milano.
La controversia. Così Ovidio, partito da una lite condominiale, si è trovato a fronteggiare una controversia internazionale dagli esiti imprevedibili. Controversia aperta: mentre l’avvocato Pogliani metteva insieme gli atti per capire come difendere Ovidio e la sorella Giovannica nel giudizio arbitrale, la Zylbelberg Fein non ha perso tempo e ha citato Sitas, Montepaschi Capital Service e Intesa San Paolo davanti al tribunale di Cagliari per ottenere quanto sostiene che gli spetti: i diritti sull'area oggi in gran parte occupata dal resort, a sua volta bloccato dal Tar dopo il ricorso di Italia Nostra.
Ma è qui che messe da parte le stranezze cominciano i misteri. Perché a siglare l'atto di citazione non è Zylbelberg Fein, firmataria del contratto coi Marras: nel documento compare Ace of Spades Guandong Opportunity Investments limited con sede a Al Tower, Sheikh Zayed road di Dubay, negli Emirati Arabi che come racconta l’avvocato Grosso nell’esposto, dice di agire per conto di tale Andreas Moustras, incaricato a sua volta con una procura firmata a Limassol, nell’isola di Cipro. Così che il presunto titolo di proprietà sulle terre di Ovidio e Giovannica Marras danza tra Milano, Dubai, Dover e Limassol mentre sulla vicenda si affacciano personaggi di cui è incerta persino l’identità. Al punto che il giudice Paolo Piana, cui Ace of Spades ha ricorso contro Sitas per ottenere il riconoscimento della proprietà su Tuerredda, anziché decidere punta un faro sugli affari di Calmetta e nell’ordinanza chiede ad Ace of Spades di mettere le carte in tavola.
Personaggi misteriosi. Perché a parte le sedi esotiche e l’impianto piuttosto aggrovigliato della storia, nell'atto di citazione firmato dall'avvocato Vincenzo Cuffaro del foro di Roma l'amministratore si manifesta con due nomi diversi – Andreas Moustras nell'atto di citazione e Andreas Thomas Montrsas nella certificazione rilasciata dall'ufficio del registro della zona franca di Al Kaimaii – e soprattutto non si capisce attraverso quali passaggi e perché i diritti milionari sull'area di Tuerredda siano stati trasferiti il 24 gennaio 2011 a Dubai dove ha sede la società o alle Isole Vergini come compare nella corrispondenza legale intercorsa con Sitas.
Ma c’è dell’altro e l’avvocato Grosso non manca di sottolinearlo nell’esposto alla Procura: perché all'indirizzo di Dubai la società non è reperibile? Grosso spiega di aver disposto ricerche d’ogni tipo, anche attraverso il Cerved Group, il servizio leader nel settore delle informazioni finanziarie: Ace of Spades risulta società «completamente sconosciuta». Ed è il Cerved che raccomanda «massima prudenza in caso di relazioni di affari con la società vista la poca trasparenza che la circonda». Insomma: Ace of Spades, se esiste, non si sa dove sia registrata. A meno che non si debba prestare fede all’intestazione di una nota legale – citata dall’avvocato Grosso nella denuncia – in cui la fantomatica società risulterebbe avere una sede a Tortola, nelle British Virgin Island: «Con questa missiva – osserva il penalista – Ace of Spades è agilmente balzata dal centro della penisola araba al clima subtropicale dell’isola delle Tortore». Salvo poi tornare a Dubai in un’altra lettera del 13 giugno 2011. Peraltro il 6 giugno 2011 un avvocato di nome Michael C. Spencer dello studio Milberg Llp di New York – riferisce Grosso – ha contattato il sindaco di Teulada Gianni Albai, presentandosi come legale della Ace of Spades e «asserendo senza fornire elementi concreti che la Ace of Spades avrebbe acquistato alcuni diritti riguardanti immobili situati nel territorio del Comune di Teulada». Chi è Spencer? E per chi lavora? Ecco perché, travolto dai dubbi, il giudice Piana ordina ai legali di Ace of Spades di chiarire e intanto dispone la trasmissione del provvedimento motivato alla Procura, che delega la Guardia di Finanza a indagare. Un lavoro complicato, quello condotto delle Fiamme Gialle: solo collegare le società che fanno capo al legale lombardo è come affrontare un rebus. Anche perché a scorrere le visure e ad analizzare gli atti si scopre che spesso le società entrano in conflitto tra loro e poi si accordano, con atti firmati per una società da Calmetta e per l'altra ancora da Calmetta, ma per conto dell'amico viennese Jacob Hirchbeck.
Il personaggio. Quarantasette anni, madre tedesca, descritto come uomo affabilissimo e dall'eloquio raffinato, Calmetta si muove preferibilmente sull'asse Milano-Lugano. E' nella città svizzera che abita, in una villa con giardino. A Milano ha studio in via Santo Spirito 14, circa 400 metri e tre box auto alle spalle di via Monte Napoleone. Per muoversi sul medio raggio usa una Mercedes Amg da 220 mila euro, ma la società di Monaco di Baviera che gestisce i suoi leasing offre a lui e agli amici altre vetture come Jaguar e Audi A8. Un tenore di vita che apparirebbe in contrasto con la dichiarazione dei compensi professionali del 2008: appena 8200 euro. Impressionante l'albero geneaologico delle sue società: nel Delaware e nel Nevada – dove non c'è reciprocità giuridica con l'Italia – compaiono la Coldwell e la Zimbalist, in Italia a seconda dell'affare in corso compare l'Immobiliare Ellebi, la Gragnana, la Cantarana o la Mediaonline. Una galassia fortemente interconnessa in cui Calmetta si muove agilmente. Solo che nel caso di Tuerredda-Malfatano e dello strano rapporto d’affari con gli ignari fratelli Marras qualcosa sembra non quadrare: «Si tratta – scrive l’avvocato Grosso nell’esposto – della messa in atto di una strategia ben precisa e coordinata, avviata e condotta a dir poco con buona dose di disinvoltura e in spregio alle più elementari regole di trasparenza, utilizzando un soggetto inafferrabile come Ace of Spades». Conclude Grosso: «Gli artifizi e gli abili espedienti esposti inducono a ritenere di trovarsi di fronte ad una serie di iniziative dalla caratura inesorabilmente truffaldina».
Come è possibile che una giunta che aveva fatto della difesa dei beni comuni il suo principale punto di forza, l’astro guida dell’ampio spettro delle sue politiche, potesse in pochi giorni di fatto smantellare l’ufficio comunale che più di ogni altro aveva nel corso degli ultimi venti anni realmente e concretamente lavorato per tutelare il principale bene comune e cioè la nostra città?
Ho studiato e seguito il gruppo — conosciuto ormai come “I ragazzi del piano”, il titolo del mio libro del 2007 — che ha dato vita agli inizi degli anni Novanta all’Ufficio di Piano e che aveva lavorato insieme fin dalla fine degli anni Settanta a importanti progetti di riqualificazione urbana. Si è trattato di un gruppo molto competente che ha fatto pratica di urbanistica pubblica, realizzata negli uffici comunali, svincolata da interessi speculativi, ispirata ai valori della riqualificazione, della tutela della salute, delle risorse naturali, del paesaggio.
Un’urbanistica che ha guardato alle politiche per il territorio urbano non come interventi giustapposti, e segmentati, ma tenendo conto delle intime e profonde relazioni che legano insieme parti diverse della città. Per svariati anni l’Ufficio è stato un laboratorio dove si sono formati molti giovani urbanisti, e meta di gruppi di stranieri giunti qui per imparare come creare strumenti di politica urbana ispirati ai principi dell’interesse collettivo e della tutela ambientale.
Non sarà che di tutto ciò si è parlato e si continua a parlare poco? Cosa ne sanno i cittadini di Napoli, anche i più colti e informati, di quello che ha realizzato l’Ufficio di Piano? Si sussurra, quasi a vergognarsi, che qualcosa in questa città ha funzionato bene. E infatti, a parte gli articoli di firme autorevoli apparsi su “Repubblica” e la protesta isolata di Carlo Iannello, non assistiamo a un vivace e acceso dibattito pubblico su queste tematiche. Eppure qualcosa di importante che riguarda tutti noi è successo, la cui perdita potrebbe essere immensamente più grande rispetto al guadagno puramente di immagine che deriva dalla Coppa America o dalla costruzione dello stadio o dalle insule di Romeo.
Ho studiato e seguito questo gruppo perché ho sempre fortemente creduto che Napoli abbia bisogno di rappresentarsi anche per ciò che di buono cresce e matura in sé. La reificazione senza fine e senza speranza all’interno del dibattito pubblico locale, nazionale e internazionale dell’immagine della Napoli dell’inefficienza, della corruzione, della speculazione, della clientela, della camorra, del malaffare e via dicendo non solo produce danni gravissimi sul piano economico, ma finisce con l’indurre tutti a confermarla, a non lottare per migliorarla. Lo stereotipo assolutizza una parte della realtà. E le altre?
Ricordiamo qui in estrema sintesi alcune delle principali esperienze realizzate dall’Ufficio del Piano nel corso di due decenni. Innanzitutto l’elaborazione del Piano regolatore generale, la cui elaborazione è durata circa dieci anni dal 1993 al 2004. Il Piano impone vincoli e regole all’attività dei privati (che pure trova grande spazio a dispetto di quanto dicono i suoi detrattori) volti a tutelare un ambiente urbano fragilissimo, come ci ha insegnato la storia della Napoli contemporanea corredata di dissesti idrogeologici e degli effetti più disastrosi di un uso indiscriminato e scriteriato del suo territorio. Ed è nell’ambito del Prg che è stato concepito quel sistema di mobilità su ferro di cui cominciamo a godere i frutti grazie all’apertura delle nuove stazioni metropolitane. Oltre a ciò esso ha consentito l’istituzione del Parco delle Colline, un ampio polmone verde a nord di Napoli che ha salvato quest’area di confine dalla speculazione edilizia e dove di realizza una agricoltura urbana con produzioni pregiate di vino, olio e frutta.
Occorre inoltre ricordare che secondo un dato dell’Unione industriali dall’approvazione definitiva del Piano, i progetti di riuso e riqualificazione a fini sia produttivi che abitativi che sono stati avviati da privati nel suo ambito ammontano nel loro complesso a 3 miliardi di euro. Progetti che portano soldi sotto forma di oneri di urbanizzazione che il Comune può reimpiegare per servizi pubblici come scuole, asili, parchi, impianti sportivi e così via.
Una grande mobilitazione di risorse, dunque, di cui il Comune potrebbe avvantaggiarsi portando benefici alla città proprio in un momento di acutissima crisi finanziaria.
So che l’assessore all’Urbanistica Luigi De Falco, che è persona di sicura provenienza ambientalista, nella sua intervista a Stella Cervasio, ha ribadito che il Prg non verrà messo in discussione. Non è chiaro, tuttavia, quali parti della città rimarranno di competenza del suo assessorato e quali passeranno ad altri. Il ridimensionamento dell’Ufficio del Piano, tuttavia, non è poca cosa e riveste comunque un grande valore simbolico. E la politica, si sa, si nutre di simboli.
In conclusione, l’Ufficio del Piano andrebbe sostenuto, potenziato e rilanciato dalla politica e dall’amministrazione proprio in virtù di ciò che è stato realizzato nel passato e delle straordinarie potenzialità per il futuro che esso incarna. Siamo ancora in tempo? La decisione della giunta suscita serie perplessità. E se dovesse essere confermata, la Napoli dei nostri figli potrebbe pagare amaramente le conseguenze di scelte prive di una visione riformatrice di lungo periodo, non fondate sulla consapevolezza di quale sia l’interesse generale, schiacciate invece sul bisogno del consenso immediato. E sarebbe, ancora una volta, il trionfo della Napoli dello stereotipo.
ERA uno dei simboli della magnificenza formigoniana, un eliporto annesso al grattacielo quasi come negli States. Ma ora lo spazio di decollo e atterraggio realizzato all’altezza dell’undicesimo piano di Palazzo Lombardia non potrà più essere utilizzato come tale, perché viola i limiti previsti dalla legge per le emissioni sonore. A stabilirlo è il Tar della Lombardia, che con una sentenza ha annullato l’autorizzazione rilasciata dall’Enac alla Regione per utilizzare la superficie rotonda come base di partenza e arrivo degli elicotteri. Un giudizio che accoglie il ricorso presentato dai residenti delle case intorno a Palazzo Lombardia, circa trecento famiglie di sei condomini in via Alessandro Paoli (una piccolatraversa di Melchiorre Gioia) che da maggio del 2011 hanno intrapreso una battaglia legale contro l’eliporto.
Di elicotteri, a dirla tutta, non se ne sono visti granché: giusto una manciata di voli tra cui spiccal’atterraggio dei finalistiIsola dei famosi”, arrivati lì lo scorso 5 aprile per disputare le “prove di sopravvivenza” dell’ultima puntata organizzate nella piazza del nuovo Pirellone. Quello che però preoccupava maggiormente i residenti era il progetto, più volte annunciato dalla Regione, di realizzare un servizio di elitaxi per collegare gli aeroporti milanesi con i centri nevralgici della città, che aveva proprio su quella superficie una delle sue “stazioni”. Un incubo per quelle famiglie, considerato che già le poche volte in cui si sono visti elicotteri poggiarsi sulla piattaforma si sono vissuti momenti di panico: vibrazioni fortissime, rumori assordanti e odore di carburante che entrava dalle finestre, spinto da potenti vortici d’aria.
Adesso la sentenza del Tar sembra porre definitivamente la parola fine anche su quel progetto, peraltro mai realmente partito. Secondo il tribunale amministrativo, infatti, il ricorso dei residenti è fondato perché denuncia la «violazione dei limiti previsti dalla legge per le emissioni sonore» e stabilisce il principio per cui il rumore prodotto da un elicottero, per quella zona, è troppo forte. Nella tesi presentata nel testo — e accolta dal tribunale — si sosteneva che l’autorizzazione all’uso dell’elisuperficie era incompatibile con la classificazione acustica del quartiere. Non essendo ancora pronto il piano di zonizzazione acustica del Comune, l’area intorno al nuovo Pirellone rientra quindi nei termini della legge nazionale, che stabiliscono un limite di 50 decibel notturni e 60 diurni. Numeri ben al disotto degli 85 di un elicottero, secondo il comitato.
Per i residenti è una battaglia vinta, anche se la guerra è tutt’altro che finita. «Siamo soddisfatti soprattutto perché il tribunale ha accolto le nostre osservazioni sui livelli di rumore — spiega Anna Fabris del comitato “quartiere Modello” — e questa per noi, che abbiamo sempre combattuto da soli, era la priorità. Adesso comunque è ancora presto per esultare, perché ci aspettiamo un ricorso in Consiglio di Stato». Nel frattempo, però, di elicotteri non se ne vedranno.
Postilla
Quella sanzionata dal tribunale amministrativo parrebbe a prima vista una cosuccia, per quanto positiva a suo modo, che non va oltre la difesa della qualità della vita o magari dei valori immobiliari di un paio di isolati milanesi. E invece si sanziona ufficialmente l’arroganza, di metodo e di merito, con cui il Celeste, i suoi accoliti e clientes, ma ci aggiungere senza problemi il modo di produzione dell’architettura globalizzata e degli annessi uffici di pubbliche relazioni di intendere la trasformazione urbana. Un’area scelta per motivi che nulla hanno a che vedere con la ragionevolezza, con un pur vagamente inteso rapporto con la città, le sue forme, le sue specificità (il confronto facile senza cercare chissà cosa se ne sta lì di fianco nell’ex famosa e occupata torre Galfa). Un gigantesco oggetto di design nato su un remoto tavolo da disegno del tutto “sterile”, e scaraventato appunto dove capita, nel caso specifico dove decide il piccolo despota da pianerottolo Formigoni, con contenuti urbanistici e strategici uguali a zero, basta il potere di volerlo lì e così. Ignorando anche il resto degli edifici che gli stanno attorno, come in certe vecchie stampe newyorkesi prima che lo scempio della massa incombente dell’Equitable Life Insurance Building producesse la prima ordinanza moderna di zoning. Nel fallico Formigon Tower c’è stata anche la cacatina di piccione sopra una torta sufficientemente indigesta da sola, con quella piattaforma di atterraggio davanti ai balconi dei vicini, gerani al sesto piano inzaccherati di scarichi e orecchie sfondate dai rotori, perché il ducetto regionale potesse godersi il panorama insieme a ospiti di rilievo del suo cosiddetto governo del territorio e della società. E lo stop del TAR è solo la punta di un iceberg, la constatazione che ahimè avevano santa ragione Elio e le Storie Tese quando concludendo la loro canzoncina Parco Sempione proprio sul già svettante prodotto di arroganza architettoide, sanzionavano a modo loro: questi grandissimi figli di troia! - Suonerà volgaruccio, ma coglie in pieno. Resta solo un dubbio, chissà se le vittime riuscivano anche a intravedere qualche riflesso delle leggendarie giacchette pacchiane, durante le manovre (f.b.)
Se all'Italia è toccato il «presidente operaio», Firenze non sfugge al «sindaco storico dell'arte». Non conosco altri casi (beninteso, nelle democrazie occidentali) in cui il capo di un governo (per quanto cittadino) firmi una lettera ufficiale in quanto responsabile e,garante di una ricerca scientifica. E’ quanto ha fatto, il 18 luglio, Matteo Renzi scrivendo alla soprintendente Cristina Acidini una lettera che ha trasformato definitivamente la sua personalissima «caccia al Leonardo» in una ricerca di Stato (e Maurizio Seracini in uno storico-scienziato di corte). Siamo in presenza di una serie di dati accertati», scrive il sindaco-storico-dell'arte. Ma quali? Non è certa la parete sulla quale Leonardo lavorò, è del tutto improbabile che qualcosa fosse ancora visibile quando dipinse Vasari, e se ci fosse stato è impensabile che quest'ultimo lo abbia deliberatamente occultato dietro un inamovibile muro affrescato. L'esistenza della famosa intercapedine «sospetta» è stata smentita dal fisico dell'Università di Firenze che progettò e usò il radar nel Salone dei Cinquecento.
A tutte queste obiezioni, Seracini oppose i famosi prelievi che avrebbe effettuato sulla parete retrostante all'affresco vasariano. Quei prelievi avrebbero restituito proprio le sostanze che appaiono in testa all'elenco che Google sputa fuori quando si digitino nel campo di ricerca le parole Leonardo e pigments: sia pure un tale miracolo, ma è concesso fare delle controanalisi in un laboratorio terzo? Lo chiedemmo in tanti, senza ottenere risposte plausibili. Ebbene, ora ci risponde il sindaco-storico-dell'arte: «Il quantitativo di materiale prelevato nei punti di passaggio individuati dall'Opificio non è risultato sufficiente per ulteriori analisi di laboratorio, motivo per il quale dovrebbero essere effettuati nuovi prelevamenti di campione». Questa è sostanzialmente una dichiarazione di bancarotta scientifica: è la candida confessione che le conferenze stampa trionfalistiche e il documentario con il quale National Geographic ha messo a reddito il suo sostegno all'operazione erano fondati su un esperimento non ripetibile. In altre parole: si passa dalla scienza alla fede, e a Seracini o si crede o non si crede, con buona pace di Galileo e del suo metodo, rottamato per l'occasione. Già, perché se anche i nuovi prelievi si facessero, e se «per caso» l'Opificio non trovasse le stesse sostanze, a quel punto la vicenda si avviterebbe in un eterno stallo tra chi potrà provare che ora non ci sono più, e chi comunque continuerà a sostenere di averle trovate, ma poi di averle (destino cinico e baro!) del tutto consumate in laboratorio.
Infine, Renzi afferma che il «professor Maurizio Seracini» avrebbe pubblicato tale ricerca «su riviste scientifiche». E l'allusione è a Medicea, rivista il cui direttore non è uno storico dell'arte né uno scienziato, ma il giornalista portavoce di Cristina Acidini. Con questa lettera Renzi ha compiuto un passo inaudito, perché ha trasformato una serie di ipotesi di ricerca (che godono di credibilità quasi nulla presso la comunità scientifica di riferimento) in una sorta di verità di Stato. Sulla Battaglia di Anghiari, il Comune ha ora la sua dottrina ufficiale: e chi non la pensa così è un nemico del popolo, un dissenziente, un avversario politico. Aspettiamo di sapere quali saranno le ritorsioni per gli intellettuali eretici che osano pensare della caccia alla Battaglia ciò che il ragionier Fantozzi pensava della Corazzata Potemkin: il confino alle Piagge, la rieducazione con la lettura obbligatoria di Stil novo oppure l'abiura in Piazza della Signoria, sul luogo del rogo savonaroliano?
La risposta di Cristina Acidini, al confronto, appare perfino normale. Intendiamoci: appare normale a coloro che sono ormai abituati al tono vetero-democristiano che vela da decenni l'esercizio del potere più forte e meno controllato della città, quello della Soprintendenza. Acidini giudica «interessanti» i risultati, ignorando che i maggiori studiosi di Leonardo e l'intera comunità internazionale degli storici dell'arte hanno firmato una petizione che dice esattamente il contrario. Acidini vieta (giustamente) ulteriori traumi alla parete vasariana, in nome del «mutare dell'inquadramento deontologico della professione» e dell'«evoluzione della teoria del restauro». Ma tace sul fatto che Cecilia Frosinini, massima responsabile del settore all'Opificio, si era rifiutata, per le stesse ragioni, di avallare la campagna di fori che lei stessa ha invece benedetto. Infine, Acidini invoca l'intervento del Comitato tecnico scientifico del Ministero per i Beni culturali, presentato come istanza superiore e oggettiva. Il che fa un po' sorridere quando si rammenti che i quattro membri del suddetto comitato sono (insieme alla stessa Acidini) in attesa di sentenza della Corte dei Conti per l'acquisto del famoso pseudo-Michelangelo. In queste condizioni, su quale terzietà e autorevolezza possiamo contare? La verità è che nessuno, né in soprintendenza né a Palazzo Vecchio, scommette un euro sul ritrovamento del Leonardo perduto: ma l'importante è continuare il palleggio istituzionale, per dare l'idea che la caccia continui. Almeno sui media, almeno fino alle primarie del Pd.
Milano. Dalla Cascinazza di Monza alla Company town di Milano 3. Corre lungo questo perimetro l’ultimo sogno edilizio di Paolo Berlusconi. Nel primo caso, però, il fratello del Cavaliere, dopo vent’anni di trattativa, ha visto naufragare il progetto e si è ritrovato indagato per istigazione alla corruzione. Nel secondo, invece, l’affare, che mette sul piatto, nel comune di Basiglio, quasi 300mila metri cubi di cemento per un utile netto stimato in 150 milioni di euro, sembra non trovare ostacoli. Tanto più che qui il business plan, a differenza del progetto monzese, non ha bisogno di variante ma rientra nel nuovo Programma di governo del territorio, voluto da Marco Flavio Cirillo, sindaco Pdl al secondo (e ultimo) mandato, già in lizza per la carica di coordinatore provinciale del Popolo della libertà, poltrona poi persa a favore del larussiano Sandro Sisler.
Ai nastri di partenza dell’ennesima speculazione, che si svilupperà tra un campo da golf e un laghetto, ci sono l'Immobiliare Leonardo e la Green Oasis. La prima è partecipata al 100% dalla Finsec, srl di Paolo Berlusconi (95%) e della figlia Alessia (5%). Amministratore delegato della Leonardo è Antonio Anzani, architetto storico di Arcore, presente con la sua Milano real & Com.
Lo stesso Anzani può vantare una carica di consigliere nella Milano Serravalle Engineering, società di progettazione partecipata al 100% dalla Milano-Serravalle, detenuta per il 52% dall'Azienda sviluppo e mobilità, a sua volta riferibile (per l'82%) alla Provincia. Ha sapore berlusconiano anche la Green Oasis. La società entra nella partita dopo aver rilevato le quote della In House srl (già titolare dei terreni). Patron dell’operazione è l'imprenditore Fulvio Claudio Monteverdi, il quale, nel gennaio 2010, firma l'atto di compravendita. A dicembre In House viene incorporata nella Green Oasis riconducibile sempre a Monteverdi. La società è partecipata per il 30% dalla Deb Holding fondata da un ras della finanza come Daniel Buaron, il quale con la sua First Atlantic (poi Idea Fimit), pur non indagato, finirà in mezzo all'inchiesta sull'Enpam (Istituto di assistenza previdenziale dei medici), per alcune compravendite di immobili.
Tra gli assetti societari della Deb Holding compare anche Maurizio Carfagna, consigliere della Banca Mediolanum di Ennio Doris e di Molmed, azienda specializzata nelle ricerca nucleare con un goloso libro soci composto, tra gli altri, da Fininvest, dal San Raffaele di don Luigi Verzé e da Marina Del Bue, il cui fratello Paolo è tra i fondatori di Arner, la banca d'affari accusata dalla Procura di Milano di aver gestito i fondi neri della stessa Fininvest. Tutto bene, dunque? Non proprio perché sul Pgt di Basiglio si allunga la protesta dell’Associazione per il Parco sud Milano e del Comitato cittadino per il territorio di Basiglio. Loro, dicono, questo mare di cemento non lo vogliono. “La popolazione – sostengono – è in diminuzione, oltretutto il 10% delle case presenti risultano vuote”.
Le due associazioni, inoltre, si mettono, ventre a terra, a raccogliere firme per un referendum consultivo, che faccia esprimere la popolazione. A luglio il via libera e in poche settimane il comitato referendario mette in fila oltre 1.500 firme. Quorum raggiunto. Si voterà. Il risultato non sarà, però, vincolante. Il sindaco potrà anche non tenerne conto e procedere con il Pgt.
Eccoci, dunque, a sud-ovest di Milano. Poco oltre, il cemento di Rozzano, le bretelle ingolfate di traffico, i centri commerciali. Accanto il comune di Basiglio (il più ricco d'Italia): 500 anime fino al 1975, quando le gru della Edilnord di Berlusconi trasformano prati e rogge in una città satellite a pochi chilometri dal Duomo. Tanto cemento, ma in fondo, non troppo. Il verde viene salvaguardato. Nel 1993, però, Paolo Berlusconi torna alla carica. Tenta una variante al Pgt: 257 metri cubi di cemento e utile netto di 300 miliardi di lire. In prima fila la Cantieri Riuniti Milanesi di Berlusconi junior. Finirà male. Operazione bloccata. Decisivo un referendum, voluto e messo nel regolamento comunale dall'allora sindaco Dc Alessandro Moneta, un manager vicino al Cavaliere di Arcore.
Adesso, vent'anni dopo, la storia sembra ripetersi. E mentre buona parte della popolazione lancia l'allarme, la giunta comunale affida una consulenza (per il 2011) in materia urbanistica ad Antonino Brambilla, già coinvolto in Mani Pulite e che da lì a poco (gennaio 2012) verrà arrestato per corruzione assieme al consigliere regionale Pdl Massimo Ponzoni. Dubbi, ombre, domande che il Fatto Quotidiano ha rivolto al sindaco Cirillo attraverso il suo ufficio stampa, senza, però, ricevere risposta.
Sta per essere svelata la vera natura dei Tumuli degli Orazi sull’Appia Antica. È stata scoperta la “porta” dei monumenti attribuiti dalla tradizione attribuisce agli eroici fratelli romani che sotto Tullio Ostilio, a metà VII secolo a. C., affrontarono i Curiazi per affermare la supremazia di Roma su Albalonga. E ne cambia l’interpretazione: non si tratterebbe solo di cenotafi commemorativi, ma di tombe vere e proprie. È stata la campagna di scavi guidata da due professori dell’università olandese di Nijmegen, Eric Moormann e Stephan Mols, appena conclusa, a riportare in luce un’imponente struttura in opera laterizia, con le sole fondamenta di 8 metri per 4, sul versante ovest del “tumulo nord”. Merito dell’istituto olandese che ha ricevuto per otto anni, dalla soprintendenza, la concessione dell’area del V Miglio per uno studio sistematico con fondi propri.
«La struttura sembra attaccata al tumulo nord, dove potrebbe trovarsi l’entrata della tomba monumentale — racconta Eric Moormann — La sua presenza suggerisce che siamo davanti a una vera tomba anziché a un cenotafio ». Confermata la datazione alla seconda metà del I secolo a. C. «È evidente che si tratta di un luogo di memoria, come diceva Tito Livio — sottolinea Moormann — Se i tumuli sono tombe vere, i committenti hanno scelto questo luogo per evidenziare la propria importanza o per suggerire un legame, vero o mitico, con gli Orazi». L’importanza del sito è forte: qui il rettifilo dell’Appia disegna una curva, tracciata, secondo Livio, per rispettare i tumuli più antichi.
In autunno le indagini proseguiranno sulla superficie dei tumuli: «Con metodi geofisici possiamo rintracciare elementi di pietra fino ad una profondità di oltre un metro — avverte Moormann — Dovremmo stabilire se c’è qualcosa sotto il corpo di terra ». Un’altra scoperta di rilievo riguarda il muro in tufo di età repubblicana immortalato già dal Piranesi nel ‘700: «La funzione non è ancora chiara — avverte Stephan Mols — Ma è troppo grande per essere il recinto di una pira funeraria dove si bruciavano i corpi di uomini illustri. Potrebbe invece essere un vero campo militare, connesso ai leggendari fratelli Orazi». Accanto allo scavo, l’équipe olandese con la direzione dell’Appia sta portando avanti il progetto “Mapping Via Appia”: «Grazie ad un finanziamento del Cnr olandese — annuncia la direttrice Rita Paris — stiamo realizzando con sofisticate tecnologie di indagine una mappa archeologica del V Miglio, che vedrà una prima applicazione a ottobre».
Chiusure festive, orari ridotti, l'umiliazione dei biglietti rimborsati. Notizie dai nostri beni culturali lasciati a sé stessi. Con la perdita di importanti introiti La Galleria Barberini, restaurata con 24 milioni di spesa, non si può visitare la domenica, iI turismo culturale è una delle poche voci che continuano a "tirare", ma l'Italia sembra fare di tutto per spegnerla. Anche questo governo e il ministro Lorenzo Ornaghi lesinano somme molto modeste perdendo introiti importanti e sfregiando la nostra immagine nel mondo. La domenica rimane clamorosamente chiusa quella Galleria Nazionale di Arte antica del colossale Palazzo Barberini che, dopo anni di lavori e 24 milioni di spesa, con le sue 37 sale rinnovate, fresche, munite di audio-guide in più lingue, col favoloso salone affrescato da Pietro da Cortona, dovrebbe essere fra le formidabili novità di Roma e d'Italia. Mancano i fondi per un paio di custodi, si perde la faccia, si fanno imbestialire i turisti, si rinuncia ad un incasso non trascurabile.
Non ci si poteva mettere attorno ad un tavolo e studiare un tipo di orario meno oneroso di quello su tre turni? Non c'è addirittura una Direzione generale per la Valorizzazione creata per Mario Resca, ex McDonald's, ex Casinò di Campione, che ora la lascia senza glorie particolari per l'Acqua Marcia? E al Polo Museale di Roma l'articolo non interessa? «Il MiBAC (ministero dei Beni e le attività culturali) è imbottito di burocrati, per giunta bizantini», si commenta, «mentre i direttori generali regionali sono dei "nominati" di fatto dalla politica». Con scarsa capacità di controllo se il funzionario addetto agli appalti nel Lazio, Luigi Germani, ha potuto sparire nel nulla, mesi fa, con 5 milioni di euro.
Minacciata di chiusura è la stessa Galleria Borghese, museo unico al mondo, dove la malattia di un custode già provoca drammi e dove si operano umilianti chiusure parziali col rimborso di parte del biglietto. Inoltre due mostre attraenti, per le quali c'erano già gli sponsor, sono già saltate nel 2012 perché la direttrice del Polo Museale romano, Rossella Vodret, bocciata in due concorsi, non ha ritenuto di doverle autorizzare. E il Collegio Romano? E il ministro? Tacciono. «Almeno Bondi si scusava di non poter fare granché», si osserva. Lorenzo Ornaghi ha tacciato di «valori grossolani» "Italia Nostra" contraria all'ultima "esportazione" a Pechino di opere d'arte come articoli-civetta, comprese tavole delicatissime che viaggiare non dovrebbero proprio. Poi si è chiuso nel solito mutismo. Del resto, non ha sostituito col suo giovane segretario nel consiglio di amministrazione della Scala il finanziere-musicofilo Francesco Micheli, suscitando l'ira di Giulia Maria Crespi e del sindaco Giuliano Pisapia? Siamo alla desertificazione della cultura.
La situazione operativa è drammatica ovunque si fa tutela e valorizzazione con musei e siti archeologici strepitosi, difesi dall'impegno personale di chi se ne occupa. Archeologi, storici dell'arte, architetti, archivisti, bibliotecari costretti a usare i loro cellulari, a spendere del loro, visto che "godono" del lauto stipendio (meno della metà delle medie europee) di 1.700 euro che a chi va in pensione frutterà il "grasso" mensile di 1.400, dopo decenni. Dal 2011 sono scomparsi anche i 120 euro al mese del Fondo Unico per l'Amministrazione e, dal 2010, gli incentivi. E i concorsi per la progressione economica da quegli abissi? In cronico ritardo. Il 12 maggio scorso centinaia di funzionari, fra cui le direttrici delle Gallerie Borghese, Barberini, Corsini, di Palazzo Massimo, Colosseo, Appia Antica hanno inviato alle più alte cariche dello Stato una drammatica lettera-appello dove denunciano la follia suicida dello stato in cui sono lasciati beni culturali invece essenziali per rilanciare cultura ed economia. Qualcuno ha loro risposto? Nessuno. O meglio, indirettamente ha replicato un sociologo del tempo libero ritenuto importante. Sul "Corriere della Sera" romano li ha così ritratti: «La gestione storico-artistica è affidata ai soprintendenti: persone colte, topi di biblioteca, che di mestiere dovrebbero scrivere libri. Li attornia uno stuolo (sic!) di addetti, creativi mancati, che avrebbero voluto fare i pittori o gli architetti: gente frustrata, che si mette sempre di traverso “. Volete commentare?
Cinque luglio 2012, ore 17.35: l'Ansa batte, in esclusiva mondiale, una notizia clamorosa: «Caravaggio, trovati cento disegni mai visti». Peccato che i disegni fossero ben noti e, soprattutto, peccato che non siano di Caravaggio. Ma questa è solo l'ultima delle «bufale» storico-artistiche propalate negli ultimi mesi: il Sant'Agostino «di Caravaggio», la «vera» Visione di Ezechiele di Raffaello, l'Autoritratto «di Bernini», il «Guercino» esposto a Castel Sant'Angelo e la seconda Gioconda del Prado. E, naturalmente, il discusso Cristo «di Michelangelo» comprato da Sandro Bondi: per non parlare della ricerca delle ossa del solito Caravaggio o della povera Monna Lisa o della tragicomica caccia al fantasma della Battaglia di Anghiari. Cosa è successo alla storia dell'arte? Perché la rigorosa disciplina di Roberto Longhi ed Erwin Panofsky si è trasformata in un simile allevamento di bufale?
Da una parte questa mutazione è uno dei sottoprodotti del ruolo che la storia dell'arte gioca nel discorso pubblico, specialmente in Italia. Essa è ormai, per il pubblico, sinonimo di «grandi mostre», anzi di «grandi eventi». E nella logica dell'intrattenimento spettacolare è assai difficile mantenere vive le regole, anche le più elementari, del sapere critico. Assai più che nella storia o nella filosofia, nella storia dell'arte si è così verificata una frattura verticale tra l'autoreferenzialità di chi studia seriamente, ma non ha né l'interesse né la possibilità di trasmettere la sua ricerca al grande pubblico e l'improvvisazione di chi ha invece accesso ai media, ma solo per fare «marketing» degli eventi. Ma, d'altra parte, bisogna riconoscere che l'involuzione investe ormai i meccanismi intimi della disciplina. In altri termini, l'incredibile vicenda dei «cento disegni di Caravaggio» è il sintomo (in sé assai poco serio) di una malattia che si sbaglierebbe a non prendere sul serio. Si stenta ormai perfino a dirlo, ma la storia dell'arte è una scienza storica e l'attribuzione (cioè la capacità di riconoscere gli autori delle opere d'arte) non è una dote innata, ma il frutto di un lungo e faticoso esercizio, una tecnica che si impara e che si insegna, un metodo del quale si può dar conto razionalmente e i cui risultati si possono verificare e falsificare.
Ma, perché tutto questo funzioni, occorre che la comunità scientifica si autogoverni e si autocontrolli: per esempio attraverso riviste autorevoli dotate di comitati di studiosi che vaglino preventivamente e trasparentemente le proposte e che in base a tutto ciò siano poi valutate. Invece, nella storia dell'arte di oggi le riviste sono troppo spesso legate a circoli chiusi e «parrocchiali». Peggio: le sedi completamente autoreferenziali e slegate da ogni controllo preventivo (come i cataloghi delle troppe, e spesso dannose, mostre, le strenne bancarie, i libri a vario titolo autofinanziati) sono importanti quanto, e più, delle riviste o delle collane dotate di vaglio scientifico. La storia dell'arte sta così rinunciando ad esercitare il giudizio critico su se stessa e rischia oggi di trasformarsi in uno «studio della domenica» assolto da ogni rigore.
Una situazione che si è man mano sfilacciata fino ad arrivare alla moda delle «scoperte» pubblicate sui quotidiani e ora addirittura ai cento disegni di Caravaggio lanciati in due ebook di Amazon, a cui altri hanno risposto (seppur in buona fede) non attraverso recensioni scientifiche, ma attraverso l'istituto, non particolarmente scientifico, del comunicato stampa. La comunità degli storici dell'arte ha dunque una ragione tutta speciale per accettare di buon grado i meccanismi di valutazione e autocontrollo della qualità scientifica, che (seppur con molte contraddizioni) l'Agenzia nazionale per la valutazione dell'università e della ricerca sta cercando di introdurre anche in Italia e anche nei refrattari studi umanistici.
E’ vero che un controllo troppo stretto può, alla lunga, indurre al conformismo e rallentare il progresso della ricerca, ma in questo momento la storia dell'arte ha bisogno di iniezioni massicce di serietà e credibilità: se non vogliamo trasformarci in guardiani delle «bufale» dobbiamo provare a chiuderne l'allevamento. La risorsa sprecata del turismo culturale
DOPO la comprensibile indignazione nell’impressione che l’interesse pubblico sia stato sacrificato per proteggere piccoli interessi privati, cerchiamo di capire le ragioni del Consiglio di Stato senza pensar male, senza vedere complotti.Il Consiglio di Stato nel sospendere Area C potrebbe avere ragionato in questo modo: c’è un interesse offeso per cui ci occupiamo di questa vicenda? Sì, c’è, è quello dei ricorrenti, il parcheggio a rotazione che perde clienti a causa del ticket antitraffico. C’è un motivo per cui il provvedimento Area C potrebbe essere illegittimo? Sì, c’è, è il fatto che non s’inserisce in un piano generale del traffico o della mobilità vigente. I piani approvati anni fa sono scaduti.
Difatti questo è stato per molto tempo uno dei problemi dei Comuni, dover rivedere, re-impostare e approvare ogni cinque anni il Piano del traffico. Cosa che non è stata più fatta dopo il 2003. È vero che era invigore già Ecopass, ma Area C non è stata istituita come modifica di Ecopass, bensì come provvedimento nuovo. E si è trattato di una semplice delibera di giunta, non di Consiglio. Ammettiamo dunque che questa osservazione di “non adeguato inquadramento” del provvedimento sia giustificata. È però assurdo che il Consiglio di Stato sospenda direttamente Area C invece di dare un termine al Comune per inquadrare e motivare il provvedimento. Cos’è questa improvvisa riscoperta dei principi di programmazione e perché la si applica anzitutto a uno dei provvedimenti più dibattuti e condivisi (referendum) della storia di una città italiana?
Perché si son lasciate fare tante singole varianti urbanistiche senza nuovi piani generali? Perché si lasciano partire i lavori dei vari Tav e di varie autostrade senza pretendere una programmazione delle priorità di un Piano nazionale di logistica e trasporti?E addirittura: perché si possono falcidiare le Province senza un piano generale di riassetto degli enti locali? E così via.Certo, vista la situazione, è bene che il Comune nel frattempo motivi e inquadri Area C e se necessario gli cambi il nome. Ma chiediamo anche una legislazione più aggiornata, logica, eco-logica. Se è giusto richiedere al Comune un piano aggiornato della Mobilità e del Traffico, perché far decadere una limitazione (in questo caso con pedaggio) del traffico, e non il suo contrario? Forse perché si considera normale la cosiddetta libertà di circolazione delle auto ed eccezionale — e da motivare — la limitazione. E perché non potrebbe essere il contrario? Il Comune spieghi perché lascia libera circolazione alle auto in corso Buenos Aires, altrimenti il Consiglio di Stato blocca il traffico...
E' con stupore che il Comitato Notunneltav ha appreso delle denunce nei confronti di alcuni partecipanti alla manifestazione che si tenne il 1 marzo 2012 a sostegno dei cittadini della Valle di Susa.
Fu una manifestazione pacifica, non accadde nulla che potesse offendere anche le più delicate sensibilità perbeniste.
Stride fortemente la distanza tra la violenza che fu agita in quei giorni nei confronti dei cittadini piemontesi (inseguiti fin dentro le case e i negozi per essere manganellati) e il “reato” di aver bloccato per qualche minuto il traffico fiorentino, del quale sono accusati alcuni attivisti politici.
La tattica comunicativa adottata dalla politica a favore delle grandi opere inutili è monotona e ripetitiva:
Pubblichiamo il capitolo introduttivo del Rapporto. In allegato il dossier completo.
Il problema
L’Italia sta perdendo terreni agricoli in un trend negativo e continuo. Secondo l’ISTAT, dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi l’Italia ha perso una superficie agricola (Superficie Agricola Utilizzata – SAU) pari a Liguria, Lombardia ed Emilia Romagna messe insieme. Perché? E cosa ne è del territorio sottratto all’agricoltura?
Le molteplici variabili che incidono sulla perdita di superficie agricola possono essere ricondotte a due macro fenomeni: l’abbandono dei terreni da parte degli agricoltori e l’avanzamento delle aree edificate. Attualmente l’abbandono riguarda la porzione più ampia dei terreni sottratti all’agricoltura. Tuttavia, la cementificazione, o impermeabilizzazione del suolo per utilizzare la terminologia scientifica1, è il fenomeno che desta maggiori preoccupazioni. Essa, infatti, oltre ad essere irreversibile e con un elevato impatto ambientale, interessa i terreni migliori sia in termini di produttività che di localizzazione: terreni pianeggianti, fertili, facilmente lavorabili e accessibili quali, ad esempio, le frange urbane, le aree costiere e quelle pianeggianti. Al contrario, l’abbandono riguarda i terreni meno fertili, spesso situati in aree montane e/o a bassa infrastrutturazione. Si tratta, inoltre, di un fenomeno potenzialmente reversibile che, nonostante influisca sull’organizzazione e sulla gestione del territorio e del paesaggio, non impedisce lo svolgimento delle funzioni naturali ed ecologiche del suolo, quali l’assorbimento dell’acqua piovana, la produzione di biomassa e la sua capacità di immagazzinare CO2.
La cementificazione, al contrario, non solo insidia l’organizzazione del territorio, del paesaggio e degli ecosistemi in maniera irreversibile ma erode anche la sicurezza alimentare sottraendo all’agricoltura i terreni maggiormente produttivi.
Finora la globalizzazione ha mitigato, nei Paesi di prima industrializzazione, il problema della sicurezza alimentare consentendo, attraverso il mercato, un agile approvvigionamento dei beni di consumo non disponibili all’interno dei confini nazionali. Il sistema, tuttavia, si regge sull’assunto che qualcuno su scala globale sia in grado di produrre indefinitamente surplus agricolo da immettere sul mercato: un assunto fragile messo in crisi dall’incremento demografico, dalla crescita del potere d’acquisto dei Paesi emergenti e dell’avanzare della cementificazione.
Secondo l’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale, ogni giorno in Italia vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali e poiché il fenomeno esula dai confini nazionali le sue conseguenze non possono essere ammortizzate su scala globale.
Questo dossier ha lo scopo di descrivere il problema della cementificazione e le sue conseguenze sul comparto agricolo e sulla sicurezza alimentare del nostro Paese affrontandone le cause, gli effetti e le possibili strade da intraprendere per limitare l’avanzata della cementificazione.