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Un privato rifà il look alla prima parte di via Oberdan. La giunta ha approvato ieri il progetto di riqualificazione della zona compresa tra via Oberdan, vicolo Tubertini, Mandria, e Limbo. Un progetto che comprende rifacimento del manto stradale, illuminazione, riordino della segnaletica, rimozione e sostituzione dei cassonetti e delle cabine Telecom, tutto spesato dall’immobiliare Immobildue, che sta eseguendo il restauro di palazzo Tubertini e torre degli Uguzzoni.

«Ci hanno detto che lo fanno loro, ben venga» ha detto ieri il coordinatore di giunta Matteo Lepore presentando la delibera, che assicura costo zero per il Comune, e rivalutazione della zona per il privato. Il totale dei fondi spesi per il restyling è di soli 35mila euro, per un complesso di interventi che vanno dalla sistemazione della strada, a quella dell’illuminazione. Un modello, quello della sempre maggiore iniziativa del privato anche nella riqualificazione di spazi pubblici, già sperimentata non senza difficoltà per Piazza Minghetti. In questo caso però, tutto è in mano al privato, grazie al regolamento approvato dal commissario Annamaria Cancellieri nel 2011, che consente «la realizzazione di microprogetti di miglioramento

dello spazio pubblico da parte della società civile », purché non superino il valore massimo di 200mila euro. Immobildue promette di eliminare

e sostituire i cassonetti dei rifiuti e le cabine telefoniche, «spesso oggetto di vandalismi». In arrivo anche nuove luci e nuovo acciottolato. Tutto approvato da Telecom, Hera e dalla Soprintendenza, che non ha mancato di far avere il suo parere, bocciando la nuova pavimentazione «in lastre di granito per agevolare il transito dei portatori di handicap » e imponendo invece l’acciottolato. Ma se il restyling avrà il prezzo contenuto di 35mila euro circa, l’intero progetto di restauro di palazzo Tubertini prevede «una galleria con negozi e caffetteria al piano terra e abitazioni private al piano di sopra». Nella parte dell’edificio che si trova tra i vicoli Mandria e Tubertini, infine, «verrà realizzato un parcheggio sotterraneo multipiano automatizzato, di pertinenza della residenza».


Tutti i dubbi dell’urbanista “Senza criteri si rischia la babele” intervista a Pier Luigi Cervellati

L’architetto Pierluigi Cervellati, ex assessore di Zangheri

«La privatizzazione dello spazio pubblico è pericolosa, perché senza un piano urbanistico del centro storico, che attualmente non c’è, si rischia di finire nella categoria del “gusto”, invece che in quella del “bene comune”». È molto scettico, l’urbanista ed ex assessore tra gli anni ’70 e ’80 Pierluigi Cervellati, quando sente parlare di privati che riqualificano spazi pubblici.

Lei non è d’accordo?

«Mi domando cosa ottengano in cambio, intanto. Che ci guadagnano? E poi si può fare solo se c’è una adeguata partecipazione al progetto da parte dei cittadini. Il problema comunque è un altro».

Quale?

«Sarebbe anche accettabile lasciare che siano i privati a investire nel restyling di strade e piazza, ma solo se esistesse una normativa complessiva per il centro storico, un piano, un disegno che invece non esiste più, e che dovrebbe fissare i criteri da seguire e non seguire. Altrimenti ognuno fa quel che vuole».

Per questo non c’è la Soprintendenza?

«Ma anche la Soprintendenza, se non ha criteri condivisi con le amministrazioni, non basta. Così rischia di diventare una Babele, un complesso di progetti che seguono il gusto dei privati che li propongono, e che mescolano moderno e antico».

Come è successo per Piazza Minghetti?

«Esatto, il problema è che manca il principio di città storica come bene comune. Senza quello, c’è solo confusione».

Centinaia di chilometri di coste distrutti da ogni genere di abusivismo. Centri urbani stravolti da una crescita cancerosa. Il degrado spicca in Calabria, ma il quadro non è molto diverso nel resto d'Italia, in Val d'Aosta come sulle Riviere liguri. Paradossalmente l'unico Paese che nella Costituzione si proclama tutore del paesaggio assiste impassibile al suo massimo strazio.

Così scriveva ieri sull'editoriale del Corriere Ernesto Galli della Loggia. E Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani ed ex ministro dei Beni culturali, «condivide totalmente» la sua denuncia: lo scempio del paesaggio italiano è il risultato della pessima qualità delle classi politiche locali e della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale.

«Uno degli atti più sciagurati compiuti nel nostro Paese — sostiene lo storico dell'arte 73enne — è la riforma del Titolo V della Costituzione. La Repubblica, che dovrebbe tutelare il paesaggio e i beni artistici, di fatto non è più una, diretta dal centro, ma un guazzabuglio di tutto: le regioni, le province, i comuni, fino ai consigli di quartiere. Istituzioni governate il più delle volte da personaggi mediocri, con le conseguenze che vediamo».

Ne è talmente convinto, Paolucci, da farne quasi un punto di autocritica rispetto alla propria passata attività ministeriale nel governo Dini, tra il 1995 e il 1996. «Fossi di nuovo ministro — afferma lo studioso — mi impegnerei ancora di più per frenare la deriva particolaristica che è seguita alla pessima riforma costituzionale del 2001. Forse allora non riuscii a immaginarne del tutto le implicazioni e le conseguenze».

Prima della riforma un sovrintendente rispondeva al governo centrale; mentre nel sistema attuale, con i poteri di tutela distribuiti tra i vari livelli locali, le competenze sono frammentate, i poteri dei tecnici ridimensionati e, in caso di contenziosi, il Tar dà quasi sempre ragione agli enti locali. Con l'effetto di intimidire ancor più l'azione dei controllori.

Eppure i sovrintendenti sono stati spesso accusati di essere, a loro volta, un centro di potere che paralizza ogni trasformazione urbanistica. «Certo, è l'eterna accusa di bloccare tutto, di essere nemici della modernità. Ma è un'accusa ingiusta. Il mestiere dei sovrintendenti è controllare. E, quando si controlla, a volte si deve bloccare. È una missione svolta per tutti. La tutela dei boschi dell'Aspromonte o degli acquedotti laziali interessa tutti gli italiani, anche quelli di Bolzano. Interessa la patria, e pazienza se a qualcuno la parola non piacerà o sembrerà retorica. Non lo è».

A proposito di parole. Le brutte cose, così come le belle, tendono a trasferirsi nel linguaggio, rivelando talvolta sinistre mutazioni culturali. Il degrado ambientale, sottolinea l'esperto, ha contaminato anche la lingua italiana. «Tanto che il termine "paesaggio", forse perché rigoroso, o considerato elitario, è stato sostituito con il più comodo concetto di "territorio", che implica utilizzo, sfruttamento, svincoli, parcheggi. Una parola amata da assessori e geometri, ma anche da molti urbanisti. E "godimento" è stato rimpiazzato da "fruizione", riducendo la Venere del Botticelli alla stregua di un servizio pubblico (di cui, appunto, si fruisce) o di un'esenzione fiscale».

Che fare? Il direttore dei Musei Vaticani ritiene che si debba «rimettere la palla al centro», restituendo potere all'amministrazione dello Stato, un'amministrazione che venga opportunamente riqualificata. Ma la vera sfida è coordinare gli interventi tra i vari ministeri: dai Beni culturali allo Sviluppo economico. «L'Italia è la repubblica delle individualità, un connotato che rappresenta la sua bellezza. Siamo il luogo delle differenze. Dobbiamo impegnarci a salvaguardarle ma in un quadro di coordinamento centrale».

Quasi un ossimoro, Paolucci lo sa bene. Da dove può arrivare la conciliazione di questi due estremi? La tutela del paesaggio, ricorda lo studioso, nasce in Italia cinque secoli or sono, quando Papa Leone X Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, crea la potestà normativa dei beni culturali affidandone la sovrintendenza a un «tecnico». Ma non a un tecnico qualunque: a Raffaello. Così nasce la «civiltà italiana della tutela». Gli altri due momenti essenziali, nel Novecento, sono la legge Bottai del 1939 («opera del miglior ministro dell'Italia moderna») e l'articolo 9 della Costituzione, anch'esso unico al mondo.

Tutte azioni figlie di grandi personalità intellettuali. Grazie a quelle leggi, grazie a quell'operato, il patrimonio culturale italiano è arrivato quasi intatto fino a noi. Da un certo punto in poi però il Paese non è stato più in grado di tutelarlo, nelle stagioni della crescita economica. La recessione, pur con tutti i suoi mali, potrebbe forse spingere brutalmente verso qualche ripensamento benefico, anche per l'economia. «O almeno c'è da augurarselo».

Postilla

Fra gli adepti della difesa del nostro martoriato paesaggio, registriamo dunque un altro arrivo, quello dell’ex ministro per i beni culturali. Di irrilevante azione in quel ruolo (e però in ottima compagnia, da questo punto di vista), l’attuale direttore dei Musei Vaticani fu per molti lustri sovrintendente fiorentino del polo museale e vero dominus della politica culturale della città. Con risultati non certo indimenticabili, visto il lunghissimo sonno che caratterizza le istituzioni fiorentine dal punto di vista della produzione culturale.

Da circa tre decenni, durante i quali non solo nulla è stato fatto per contrastare l’affermazione di quell’one company town (definizione dello stesso intervistato) responsabile dello stravolgimento e del degrado del centro storico fiorentino, ma pieno è sempre stato il concerto con quelle classi politiche locali che nell’articolo si definiscono di pessima qualità, in generale, come peraltro le inchieste della magistratura stanno dimostrando nel caso specifico.

Se il centro di Firenze è un immane suk a cielo aperto e gli Uffizi sono ridotti ad un bancomat per denaro pronta cassa e per opere d’arte da spedire in giro per il mondo a coronamento dei più improbabili eventi, i responsabili vanno cercati non solo a Palazzo Vecchio.

Come eddyburg sostiene da sempre, è perfettamente vero che la realizzazione di un federalismo improvvisato e mirato esclusivamente a scopi predatori ed elettorali è causa primaria del degrado del nostro paesaggio e del nostro patrimonio culturale, ma occorre cominciare a dire che questa resa dello Stato è avvenuta spesso con l’acquiescenza e il vero e proprio aiuto della sua classe dirigente, disponibile, ben oltre il mandato istituzionale, ad accordi di ogni tipo con i politici locali. Si è trattato, e parlo dei più alti livelli, di una vera e propria trahison des clercs di cui bisognerà cominciare a scrivere la storia.

Come – parallelamente – sarà utile esercizio verificarne gli atteggiamenti di disponibilità, ai limiti della sudditanza o peggio, nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche, alle quali sono state fatte e si continuano tuttora a fare concessioni indebite a danno del patrimonio della nazione e quindi di noi tutti.

Il federalismo di cui si denunciano ora i danni, insomma, non è solo un perverso meccanismo istituzionale che ha costretto alla cessione di poteri e deleghe, i buoni – lo Stato – a vantaggio dei cattivi – gli enti locali.

Altre realtà nazionali dimostrano che i processi di decentramento possono essere governati in modo da produrre un vantaggio per i cittadini in termini di maggiore efficienza della pubblica amministrazione.

In Italia, invece, questa denominazione è in realtà servita a coprire nè più meno, nè meno che la svendita del patrimonio di tutti – che fosse il territorio, o i beni culturali o i servizi sanitari - a vantaggio, personale e familistico, di pochissimi: speculatori privati, politici locali e nazionali e boiardi di Stato. (m.p.g.)

La democrazia rappresentativa è in crisi. Lo si legge con frequenza quotidiana. A questa, che sembra ormai una verità assodata, manca un codicillo di non poca importanza: non è in crisi dovunque. Né la sua riuscita è percepita come problematica ovunque. La democrazia rappresentativa è in crisi in Italia più che in Germania o in Finlandia o in Francia. Contestualizzare è necessario. Anche per comprendere bene la portata della partita che si sta giocando, non soltanto fra poteri eletti e non eletti all’interno dei confini nazionali, ma soprattutto fra gli stessi Paesi europei, tra quelli nei quali la democrazia è un fatto acquisito e quelli nei quali pare lo sia meno. Abbiamo appreso anche di recente che da Oltralpe si guarda con preoccupazione all’eventualità – che è un atto dovuto, costituzionale – che in Italia ci siano nuove elezioni e che Monti possa non essere più primo ministro. Leggiamo il testo preoccupato riportato qualche giorno fa su questo giornale in un articolo di Alberto D’Argenio: «Sul medio periodo il pericolo maggiore per l’Italia è che vengano smontati pezzi delle difficili riforme strutturali approvate dal governo Monti, così come il timore che ci siano arretramenti rispetto alle misure prese per mettere in sicurezza i conti pubblici». Il riferimento alle future elezioni è qui abbastanza chiaro e diretto. Nell’Europa dei Paesi nordici, dove c’è lo stesso sistema democratico che c’è in Italia, si teme che il ritorno dei partiti, e quindi le libere elezioni, metta fine all’impegno italiano di rientrare nei ranghi, riportando Roma ad essere un problema per il Continente. La democrazia rappresentativa preoccupa quando è praticata in Italia come non preoccupa quando lo è altrove. Nessuno si sarebbe sognato di mostrare preoccupazione prima delle elezioni francesi. Nessuno si sogna di dirsi preoccupato se Angela Merkel non verrà rieletta. Ma la democrazia rappresentativa praticata in Italia incute timore e desta preoccupazione.

La crisi della democrazia rappresentativa è allora una crisi di credibilità nella e della politica elettorale nel nostro Paese. Il Sud dell’Europa è sotto tutela – chi più chi meno, dalla Grecia giù giù fino al Portogallo, alla Spagna e all’Italia. È l’Europa non protestante o quella che, come la Francia, ha avuto il suo protestantesimo politico (come Piero Gobetti chiamò la Rivoluzione francese) a nutrire dubbi sull’uso della democrazia nell’Europa non protestante e non nordica. Questa preoccupazione è una forma di pensiero del quale temere gli effetti perversi. Si sente l’eco delle parole di Martin Lutero sulla libertà dei cristiani: una libertà perfetta nei cristiani riformati, e via via meno perfetta negli altri, sapendo i primi soltanto obbedire alla legge senza bisogno di un guardiano esterno. Letta questa diagnosi con le lenti politiche di oggi, si potrebbe dire che Oltralpe si pensa che non tutti siano capaci di sopportare la libertà, di vivere sotto un governo democratico usando bene la libertà politica. La pratica della democrazia come un bene che è di difficile uso, quindi, perché le sue scelte possono avere conseguenze preoccupanti. Questo sembra sia oggi il senso delle elezioni in Italia: una libertà che desta preoccupazione.

Noi diamo l’impressione dellala fragilità. La democrazia dei partiti da noi desta preoccupazione. È questo il segno della crisi della «nostra» democrazia rappresentativa. Ed è questo il senso della distanza che separa le democrazie del Nord Europa da quelle del Sud Europa (e l’Italia come centro del Sud). Una distanza molto visibile poiché, a leggere i giornali in questi giorni, nel Sud la politica democratica è meno sicura che al Nord e forse ha più scettici che al Nord. Stessi regimi, a Nord come a Sud, stesse procedure: eppure lassù la democrazia rappresentativa segue le sue regole senza sostanziali scossoni e senza destare problemi, mentre quaggiù i capipopolo sono sempre in agguato, e rendono le regole democratiche meno funzionali, più incerte negli esiti. E, come nei secoli passati, anche nell’Europa quasi unita (ma mai una), sembra che si torni ad accarezzare l’idea che il governo libero (leggi la democrazia rappresentativa) si adatti meglio ai paesidel Nord che a quelli del Sud, o comunque che non si adatti a tutti egualmente.

Ad alcuni, sembra di leggere tra le righe, si può adattare meglio un dispotismo illuminato, cioè, in fondo, un governo dei tecnici che può in prospettiva diventare un governo di esperti confermati per plebiscito, purché non scelti nella lotta dei partiti, attori di un’opinione politica non saggia, di un mercato elettorale confuso, incerto, poco coraggioso e molto propenso a portare acqua al proprio mulino. La democrazia dei confermati per plebiscito può diventare la forma moderna del dispotismo illuminato. Ed è una tentazione che sembra catturare l’attenzione di molti, Oltralpe e, purtroppo, anche nel Paese. Un pericolo da sfuggire a tutti i costi. Un pensiero nefasto che dà alla politica un’ulteriore responsabilità perché solo ad essa spetta la determinazione a volerlo ribaltare.

Trascorrere qualche giorno in Calabria — dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola — significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.

Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l'originaria amenità del paesaggio. Dal canto loro i centri urbani, di un'essenzialità scabra in mirabile consonanza con l'ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d'auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento. L'inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d'Italia non è troppo diverso: dalla Valle d'Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell'Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.

Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L'occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall'altro — questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell'identità italiana — per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull'intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e — perché no? — una tradizione gastronomica strepitosa. È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all'irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?

Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull'importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall'inizio perdente.

Il punto chiave è stato ed è l'indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d'intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l'infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione. Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l'abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l'impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno). Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d'ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d'installare pale eoliche dovunque). D'altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace — fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti — se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.

Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un'inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un'iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell'opinione pubblica, per l'appunto nazionale, se ancora n'esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell'Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all'opera dovunque.

Invito i lettori di questo blog a firmare l’appello che chiede al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio e al ministro per i Beni Culturali di non imboccare la strada della privatizzazione della Pinacoteca di Brera.

Negli ultimi due post del blog (e in non pochi dei vostri commenti), troverete alcune delle ragioni per cui credo che la creazione della fondazione di diritto privato della ‘grande Brera’ sia un errore in sé, e un primo, micidiale passo verso la privatizzazione del patrimonio storico e artistico italiano. Ma c’è una ragione morale, e dunque più profonda e radicale, della quale finora non ho parlato e che però è stata evocata dalle reazioni milanesi.

In un’intervista al Corriere della sera, il ministro Lorenzo Ornaghi ha smentito di voler privatizzare, ma ha contemporaneamente dichiarato che la sua missione principale, nel caso di Brera e non solo, è quella di «trovare finanziatori privati illuminati».

Ma quale progetto di nazione tradisce un’affermazione come questa? Certo non il progetto che la nostra Costituzione ha tracciato.

Con l’articolo 9 della Carta il patrimonio storico e artistico cambia funzione: dopo secoli in cui esso ha rappresentato il dominio dei sovrani degli antichi stati italiani, ora esso rappresenta visibilmente la sovranità dei cittadini. Di più: esso è uno straordinario strumento per costruire l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e attuare l’unità nazionale. Brera appartiene a Mario Monti come al portiere del suo condominio: e a un milanese come a un pugliese. E lo garantiscono il fatto che Brera sia mantenuta con le tasse di tutti, e il fatto che sia governata da storici dell’arte assunti, per merito, con un concorso pubblico.

Conferire Brera a una fondazione vuol dire spezzare questo fascio di significati. Quando Stefano Boeri plaude alla scelta del ministro, conformandosi alla ‘Milano ornaghiana’, lo fa sostenendo che in questo modo il museo sarà più vicino al territorio: ma questo miope cedimento culturale al leghismo non tiene conto del fatto che Brera appartiene alla comunità nazionale, anzi ne è un segno visibile. Quando gli enti locali lombardi nomineranno i vertici della ‘loro’ Brera e quelli campani faranno altrettanto con il loro Capodimonte, cosa rimarrà del progetto per cui i costituenti vollero il patrimonio ‘della nazione’ tra i principi fondamentali dell’Italia nuova?

E quando Ornaghi cerca «finanziatori illuminati» egli fa regredire il patrimonio in una condizione di dipendenza dalla ricchezza privata: una minorità da ancien régime, aggravata tuttavia da un fatto capitale. La ricchezza privata, in Italia, drena la ricchezza pubblica per colpa di un’evasione fiscale così massiccia da renderci interlocutori non credibili agli occhi degli altri stati membri dell’Unione europea. Dunque, da una parte lasciamo illecitamente la ricchezza nelle tasche private a detrimento della cassa pubblica: e poi mendichiamo l’aiuto della ricchezza privata per mantenere il patrimonio artistico di tutti. Derubati, supplichiamo i ladri di mantenere i beni di tutti.

Ma questo aiuto non sarà dato gratuitamente. Il Museo Egizio di Torino è presieduto da un membro della famiglia reale italiana, quella degli Agnelli. Il quale tra pochi giorni lascerà il posto alla moglie del presidente di Telecom Italia e Generali. Così il patrimonio che doveva servire alla costruzione dell’eguaglianza torna a veicolare e legittimare significati di profonde differenze sociali. Non è difficile immaginare Brera nelle mani della Milano già da bere, fino a ieri cupamente berlusconiana, e quindi crepuscolarmente formigoniana.

L’Egizio prima e ora Brera tornano simboli del primato della Casta: un primato fondato sul privilegio, e sull’illegalità dell’evasione fiscale più gigantesca d’Europa. Anzi, meno che simboli: orpelli da affidare ai cadetti incapaci, o alle mogli (relegate da una delle borghesie più maschiliste del mondo ad occuparsi del ‘bello inutile e innocuo’ dell’arte). I musei gestiti con la condiscendenza della beneficenza: luoghi da cui bandire il rigore della scienza e la formazione dei cittadini, e da piegare invece fino a ridursi cornici docili per i riti di autocelebrazione di una ricchezza incivile e ignorante. Il mito è, naturalmente, quello americano: ma si dimentica che i musei americani sono collezioni di milionari infine consacrate alla proprietà e al godimento pubblici, quelli italiani saranno collezioni pubbliche privatizzate contra legem. La diffidenza – direi l’odio – per lo Stato che trasuda dai commenti dei fautori dell’ingresso dei privati nel governo di Brera viene motivata con un’esigenza di efficienza: ma è palpabile l’insofferenza per tutto ciò che è ‘pubblico’.

La Fondazione di Brera non è solo uno sfregio alla Costituzione e al Codice dei Beni culturali, una lesione dei diritti dei lavoratori, una minaccia allo statuto scientifico del museo e alla libertà e al primato della conoscenza. No, è anche un passo drammatico verso la perversione del patrimonio: da strumento pubblico (cioè di tutti) di costruzione dell’eguaglianza costituzionale a trofeo del nuovo feudalesimo castale che sta nascendo dalle ceneri di un Paese senza progetto.

L'appello su eddyburg

Per firmare l’appello

Brera ai privati? No, grazie

Luca Del Fra

E’ intorno alla Grande Brera che si combatte la nuova battaglia della cultura italiana: insorgono

intellettuali, storici dell’arte, tecnici, giornalisti,asserragliati e combattivi attorno a un appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Indirizzata anche al Presidente del Consiglio Mario Monti e al ministro Lorenzon Ornaghi, la missiva ha sollevato un vespaio poiché sotto i toni pacati nasconde un j’accuse contro l’ennesima privatizzazione di una delle più importanti istituzioni culturali italiane.

Di grande intorno a Brera infatti per ora si profila solo l’ennesimo pasticcio, ovvero la creazione

di una fondazione privata che prenda in gestione la sede e il patrimonio della Pinacoteca Nazionale,

un classico colpo di mano agostano, inserito all’articolo 8 al momento della conversione in legge del decreto sviluppo, provvedimento peraltro a firma di Passera, ministro dell’Economia e non del suo collega Ornaghi dei Beni Culturali. Nelle sonnacchiose giornate estive la cosa era passata quasi inosservata finché non ha sollevato il caso su l’Unità Vittorio Emiliani, primo firmatario dell’appello, cui hanno aderito circe 120 intellettuali tra cui Settis, Asor Rosa, Guermandi, Ginzburg, Montanari, oltre a restauratori, funzionari del Mibac, e il vicepresidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena. «È pienamente costituzionale un simile trasferimento» della gestione a una fondazione privata? Domandano al capo dello Stato, e proseguono: «Rappresenta

davvero l’applicazione della tutela garantita dall’articolo 9» della Carta?

Naturalmente sono domande retoriche, visto che tutti i grandi musei europei, tra cui quelli italiani, sono dello Stato e non privati. Così, prosegue l’appello, si apre la strada a una privatizzazione degli Uffizi, della Galleria Borghese e così via, malgrado la fondazione privata si sia dimostrata un modello gestionale spesso disastroso, come il ministro Ornaghi sa bene avendo ancora per le mani i cocci del Maxxi, il Museo delle Arti del XXI secolo, nato appena tre anni fa proprio come fondazione privata e di recente commissariato.

Ma è soprattutto il rilievo finale degli appellanti a essere decisivo: «Nell’ultimo comma dell’articolo 8 –scrivono– si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i Beni Culturali”. Dunque può anche non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega la Pinacoteca Nazionale al Ministero e al personale tecnico scientifico». Secondo il provvedimento, insomma, la grande collezione di Brera potrebbe essere affidata perfino a un personale non qualificato. Un rischio più reale di quanto si creda, considerandola progressiva sparizione degli egittologi dal Museo Egizio di Torino dopo la sua trasformazione in fondazione privata.

Il fronte del no alla fondazione in queste ore si è molto allargato, arrivando a includere perfino

Mario Resca, manager che non ha mai nascosto la sua simpatia per i metodi del «privato nella cultura» e conosce bene la situazione essendo stato per tre anni commissario straordinario di Brera:

«Costituire una fondazione –ha dichiarato–, significa abdicare, è uno smacco». L’affidamento a

una fondazione dei locali di Brera poi corrisponderebbe allo sfratto di altre istituzioni culturali

che coabitano con la pinacoteca: l’istituto Lombardo di Scienze, Lettere e Arti, la Biblioteca Braidense, l’Orto Botanico, l’Osservatorio astronomico oltre all’Accademia di Belle Arti, la prima scintilla da cui è nato l’intero complesso, cui è stata comunque già affidata una nuova sede, ancora da restaurare. «È una coabitazione difficile –spiega la docente di Storia dell’arte Francesca Valli– ma rappresenta una importante eredità dell’Illuminismo lombardo che andrebbe conservata».

All’eredità culturale si aggiungono le osservazioni di Patrizia Asproni presidente di Confcultura,

che benché da posizioni ultraliberiste osserva: «In questo Paese la creazione di nuovi “enti” porta

alla superfetazione normativa, burocratica e alla corsa alla poltrona. Pensare al contenitore giuridico, prima che al contenuto è quello che accade sempre in Italia. Da un governo di tecnici ci

aspettavamo qualcosa di meglio».

Un cavallo di Troia per far saltare il sistema statale

Vittorio Emiliani

Nasce di soppiatto malgrado il nome ambizioso, la fondazione di diritto privato Grande Brera, e nasce male, senza quel serio, informato dibattito preventivo che un’operazione di questa portata esige. Nasce con un articolo infilato, all’ultima ora, nella balena del decretone per lo sviluppo, lasciando fuori dal «concerto» interministeriale il ministro per i beni culturali. Roba da matti. Ma

Ornaghi è felice, la sostiene e porta alcuni esempi. A partire dal Museo Egizio di Torino, che sin qui ha suscitato più polemiche che altro: non tutte le collezioni sono state devolute alla Fondazione con una perdita di valore fondamentale; il personale tecnico-scientifico ha preferito rimanere con lo Stato e quindi alla Fondazione è mancato un apporto unico, in compenso il CdA ha nominato direttrice (caso unico) una non egittologa… Questo il luminoso precedente?

Ornaghi cita Venaria Reale che nulla ha che fare con la complessità della Pinacoteca di Brera nata nel primo ‘800 da una razzia «politica» di migliaia di opere soprattutto umbre, marchigiane, emiliano-romagnole ad opera del figliastro dimNapoleone e dalla successiva stratificazione di donazioni. Pinacoteca, fra l’altro, venuta dopo l’Accademia di Belle Arti e altre istituzioni culturali importanti, espressione del miglior illuminismo lombardo. Con problemi, certo, che non risolverà la privatizzazione e quindi la sua scissione da quel contesto storico. Nella Fondazione entreranno il Comune (soldi pochi), la Regione (idem), la Camera di Commercio e i privati. Questi ultimi vorranno dei benefici, dei ritorni, magari dei profitti, specie con l’Expo 2015.

Ma nessun museo europeo o americano - non il Grand Louvre, non il Metropolitan Museum - è autosufficiente o «rende». Ha invece bisogno, di puntuali iniezioni di denaro pubblico, federale, locale, nazionale. Lo stesso ex soprintendente di Brera Carlo Bertelli è prudente, suggerisce una indagine ministeriale sul reale funzionamento delle Fondazioni italiane. Perplessa pure Patrizia Asproni (cultura di Confindustria), che pure ad un convegno romano sbottò: «Io il Ministero dei

Beni culturali lo butterei e darei tutto all’Economia». Inaspettatamente negativo Mario Resca fresco ex commissario di Brera, che caldeggia, con buon senso, una seria politica di detassazioni per i privati. Questo ci si aspettava da un governo di tecnici per rilanciare cultura e ricerca, motori di una

nuova economia, e invece….

C’è chi propone un Polo Museale Brera-Cenacolo autonomo per tenersi a Milano gli incassi. Attenti perché il Polo Museale romano ha speso 3,5 milioni (di cui 700.000 per l’allestimento) per la solita solfa caravaggesca, stroncata dai più, lasciando i propri musei al verde. Ci vuole una politica nazionale per i beni culturali. Ci vogliono progetti seri e fondati da proporre ai privati. Non un ambiguo e macchinoso cavallo di Troia destinato a far saltare il sistema museale statale.

Per firmare l’appello contro la privatizzazione di Brera

— Questa è la storia di una laguna che è diventata una mangiatoia. Una laguna malata e mai bonificata. Un buco nero di sprechi e veleni nel quale lo Stato ha annegato 100 milioni. È una storia di fanghi al mercurio e commissari indagati, di canali otturati e analisi creative. Per raccontare lo scandalo della laguna di Grado e Marano basterebbe dire come è iniziato e come sta (forse) finendo. È iniziato con uno stato di emergenza (3 maggio 2002, ministro dell’Ambiente era Altero Matteoli) e la nomina di un commissario da parte dell’allora boss della Protezione civile Guido Bertolaso (dall’anno dopo e fino allo stop di Monti si andrà avanti col sistema della deroga che ha causato le porcate del G8 e della ricostruzione post-terremoto dell’Aquila).

Lo scandalo sta finendo con la richiesta di rinvio a giudizio per 14 persone (tra commissari e soggetti attuatori; diversi i politici di entrambi gli schieramenti). Dovranno rispondere di peculato, omissione e truffa ai danni dello Stato. Non solo: si sta prefigurando anche il reato di disastro ambientale. Perché — ha scoperto Viviana Del Tedesco, il sostituto procuratore di Udine che indaga sulla vicenda e ha firmato le 40 pagine d’accusa — i lavori per l’eliminazione dei fanghi inquinanti («un falso presupposto »), in questi dieci anni — ecco l’ulteriore beffa — hanno provocato, a loro volta, seri danni alla laguna. «Sia alla morfologia che all’ecosistema». Per la serie: non bastava sprecare 100 milioni per non risolvere un problema; bisognava anche aggravarlo.

Un pasticcio all’italiana. Con tutti gli ingredienti al loro posto e qualche chicca. Per esempio l’immancabile cognato (indagato) di Bertolaso, quel Francesco Piermarini esperto di cinema ma anche

di bonifiche, ma forse più di cinema se dopo il flop della Maddalena (72 milioni per ripulire i fondali che però sono ancora pieni di idrocarburi) l’hanno imbarcato (47mila euro) anche in questa folle operazione nell’Alto Adriatico finita nella maxi-inchiesta della procura di Udine. L’hanno chiamata, non a caso, “finta emergenza del Sin” (sito inquinato di interesse nazionale, la laguna appunto).

In origine è lo stabilimento Caffaro di Torviscosa. La Caffaro sta alla chimica come l’Ilva sta all’acciaieria. Fondata nel 1938 alla presenza di Mussolini come sede produttiva del gruppo “Snia Viscosa”, più di 25mila tonnellate di prodotti venduti ogni anno. Adesso l’azienda è chiusa (il gruppo Snia è in amministrazione straordinaria). Per anni, però, la Caffaro ha sputato veleno. Fango al mercurio trascinato in laguna dai fiumi Aussa e Corno. Il risultato è che lo specchio d’acqua antistante lo stabilimento si è riempito di metalli. I canali (cinque) si sono intasati rendendo sempre più difficile la navigazione e mandando su tutte le furie

le marinerie di Aprilia Marittima (si costituiranno parte civile assieme a Caffaro). «Era chiaro fin da subito che l’inquinamento riguardava solo una minima parte della laguna di Grado e Marano — osserva il pm Del Tedesco —. Ma qualcuno ne ha approfittato». È il 2001, iniziano le sorprese. La commissione fanghi nominata dalla Regione deposita un progetto definitivo per i drenaggi di tutti i canali. Lo studio viene consegnato il 28 febbraio 2002. Resterà nel cassetto per dieci anni. Due giorni fa la Guardia di finanza di Udine va a prenderlo a Trieste negli uffici della Regione.

Una scoperta «interessante». Per due motivi: primo, il 3 maggio del 2002 — tre mesi dopo il deposito della ricerca — il ministero dell’Interno decreta lo stato di emergenza. Che manda il progetto in soffitta. Secondo: il piano “dimenticato” dalla Regione (quanto è costato?) prevedeva di rimettere i fanghi tolti dai canali in laguna (come si fa dai tempi della Serenissima) e non certo, come si è deciso dopo, di portarli a Trieste o a Venezia, o stoccarli come rifiuti speciali in vasche di colmata che cadono a pezzi. Perché si sono scordati del progetto? La risposta ce l’hanno i magistrati. «Hanno voluto e poi cavalcato lo stato di emergenza per abbuffarsi di incarichi, consulenze, nomine, poltrone ». Un valzer costato 100 milioni in dieci anni. I commissari che si avvicendano sono tre. Il primo (giugno 2002) è Paolo Ciani, consigliere e segretario regionale di Fli, già assessore all’ambiente. pidiellino Riccardo Riccardi.

L’anno scorso il premier Monti, d’accordo col ministro Corrado Clini e con il nuovo capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, decide che può bastare: stop al commissario della laguna. I fari della magistratura sono già accessi. Il prosciugamento del denaro pubblico è iniziato con le analisi dei fanghi. Costate 4 milioni, si rivelano inutili perché mai validate da nessun organismo pubblico. I carotaggi vengono affidati alla Nautilus, un’azienda calabrese all’epoca sprovvista del certificato antimafia. Poi arrivano gli altri “investimenti”. Gettati, è il caso di dire, nel fango. Vasche di raccolta e palancole (paratie di ferro) garantite 64 anni che a distanza di seianni stanno crollando (il metallo si sbriciola e inquina la laguna). I commissari ottengono strutture da 30 persone, gli stipendi schizzano da 5 a 11mila euro al mese.

Una bengodi per tecnici e soggetti attuatori. Una piccola Maddalena, con la sua cricca. Persino grottesche alcune iniziative messe in campo: dopo il decreto dello stato di emergenza per inquinamento ambientale, all’Università viene commissionato uno studio di fattibilità per installare un’attività di allevamento di molluschi nella stessa laguna. In tutto questo non può mancare la ciliegia sulla torta: al netto dei 100 milioni spesi, l’area Caffaro — secondo alcuni l’unica inquinata, secondo altri l’epicentro della presunta pandemia dell’intera laguna (1600 ettari) — , non è stata mai bonificata. È il colmo. La giunta regionale tace. Sulla vicenda l’unica a martellare è l’emittente televisiva locale “Triveneta”. Intanto i magistrati vanno avanti. Malata curabile, immaginaria o terminale, per la laguna gli orizzonti sono sempre meno blu.

Sarà che era lunedì e si era a corto di titoli ma i giornali hanno enfatizzato oltre i limiti del ridicolo il piano città del ministro Passera e del viceministro Ciaccia. Di fronte alle carenze strutturali e allo stato di abbandono delle nostre città che non riescono a competere con le capitali dell'Europa, in tutti i titoli si leggeva che erano stanziati niente meno che 2,1 miliardi di euro.

Lavoce.info - sempre puntuale e preziosa - ha dimostrato che i 224 milioni, gli unici veri della partita perché il resto sono anticipazioni della Cassa depositi e prestiti, non sono neppure tutti nuovi perché verranno dai tagli di interventi di edilizia già programmati. Ma fermiamoci sulla cifra stanziata. Sono 20 le città con popolazione superiore o vicina ai duecento mila abitanti. A ciascuna di esse toccherà poco più di un milione di euro di finanziamento e circa 80 milioni di prestito. Cifre ridicole come si vede, indegne di un paese serio. E invece di sottolineare la sua miope miseria, quel finanziamento è stato presentato come il pilastro della ripresa, con le solite cifre sparate a casaccio: addirittura 100 mila nuovi posti di lavoro!

A questo punto, pare di sentirlo, scatta puntuale il refrain: che volete, non ci sono risorse. Il ministro Passera ha rifinanziato appena due settimane fa l'ennesimo piano delle grandi opere inutili con 100 miliardi destinati a tacitare le voraci grandi imprese che assediano il governo. Il vice ministro Ciaccia, come noto, si era peraltro occupato di esse con un altro ruolo, quello di amministratore delegato della banca Biis del gruppo San Paolo Intesa.

Ricapitoliamo, dunque. Nello stesso mese di giugno 100 miliardi sono stati assicurati alle lobby del cemento e dell'asfalto. Al sistema urbano nel suo complesso andranno 2 miliardi fatti in gran parte di prestiti!

Ha ragione su queste colonne Sandro Medici a denunciare che manca ancora l'assunzione della centralità del tema della riqualificazione urbana. Questo governo, al pari dei precedenti, non comprende che soltanto finanziando il rinnovo urbano e non la crescita, la creazione di sistemi di trasporto non inquinanti e non ulteriore asfalto, la messa in sicurezza dei servizi, delle abitazioni e dei corsi d'acqua, si potranno creare le premesse per una nuova fase economica che privilegia imprese che adottano nuove tecnologie.

Ed anche in termini di efficienza della spesa deve essere ricordato che nel 2005 l'Associazione nazionale dei Costruttori edili aveva calcolato che il 53% dei progetti delle grandi opere avevano trovato difficoltà operative ed erano stati costretti a varianti progettuali. Ma di questo non si parla: la palla al piede dello sviluppo sono i vincoli, i sindacati e i lavoratori, mica chi sbaglia progetti lautamente pagati.

Il finto piano città svela ancora una volta che il governo dei tecnici si limita ad assicurare ai poteri forti un altro fiume di denaro pubblico senza avere una proposta convincente per il sistema paese. Un governo prigioniero dei legami che alcuni dei suoi uomini avevano stretto in anni passati e non consentono oggettivamente di cambiare musica. Ciaccia è stato anche presidente di Arcus, la società nata dal ministero dell'Economia per finanziare i beni culturali. Arcus era assurta agli onori della cronaca per il caso del palazzo di Propaganda Fide restaurato con i nostri soldi per la felicità della cricca. Era ministro Lunardi, c'era il cardinale Sepe e De Lise era uno degli esponenti di quel gruppo di potere. Oggi non c'è più Lunardi, ma De Lise resta nel ruolo di arbitro delle infrastrutture generosamente finanziate da Passera-Ciaccia.

Il presidente Monti ha affermato che deve assolutamente portare la cancellazione dei diritti dei lavoratori nel prossimo vertice internazionale. Con qualche sforzo potrebbe portare anche il segnale di una rigorosa pulizia della macchina statale di cui c'è immenso bisogno. Ma non lo farà. Aspettiamo impazienti che richiami con gli onori che meritano Balducci e Bertolaso.

agosto). “Gli scandali culturali e la loro riduzione a fatti economici o di bilancio tormentano, in un degrado sonnolento, il nostro futuro”, continua il giurista, che cita il saccheggio della biblioteca napoletana dei Girolamini, denunciato dal Fatto, e “lo scempio che sta perpetrandosi a Venezia con le navi che devastano il Canal Grande e il Canale della Giudecca. E le presuntuose ristrutturazioni commerciali operate da altrettanto presuntuosi archistar, di edifici storici, o progetti di nuove opere, autorevolmente con vigorosa preoccupazione denunciate da Salvatore Settis”. Se non di questo, di che si occupa il ministro Ornaghi?

Dopo il mio articolo sull’avvio della privatizzazione della Pinacoteca di Brera (Fatto, 17 agosto) e uno analogo di Vittorio Emiliani (Unità, 20 agosto) decine di intellettuali stanno firmando una durissima lettera in cui si chiede a Napolitano e a Monti di fermare il processo imposto a Ornaghi dal supercollega Corrado Passera, e di aprire un vero dibattito pubblico sulla gestione del patrimonio storico e artistico della nazione tutelato dalla Costituzione.

Il primo atto di questa discussione si è svolto ieri sul Corriere, dove un’intervista al ministro Ornaghi sembra il manifesto del disimpegno, del pilatismo, dell’abdicazione dello Stato dalla propria missione .

“Non ci sono manovre di svendita ai privati. Meno che mai progetti di privatizzare gli Uffizi o la Galleria Borghese”, dice Ornaghi. Che nelle stesse righe, tuttavia, dichiara che bisognerà trovare dei privati disposti a finanziare la Grande Brera. Ci faccia capire, signor Ministro. Lei i soldi per Brera non li chiede a Monti o a Passera, ma li chiede ai privati: gli stessi privati ai quali garantisce di non voler fare nessuno spazio nella conduzione dei musei. E, di grazia, chi sarebbero i privati disposti a regalare alla comunità quei milioni che la comunità non sembra più disposta a impiegare per se stessa? Dove sarebbero i mecenati pronti a finanziare gratuitamente il patrimonio di una nazione immemore di se stessa? Quali sarebbero gli strumenti legislativi e fiscali, e dove l’orizzonte culturale, di un mecenatismo all’americana, disposto a finanziare i musei per ottenere dividendi di legittimazione culturale? Io vedo solo enti locali pronti a lottizzare i Cda dei grandi musei (chi sarebbe felice di un Formigoni che mette bocca nelle nomine di Brera, di un Renzi che governa gli Uffizi o di un De Magistris che gestisce Capodimonte?), sponsor che mirano a piegare il patrimonio al proprio marketing (come nel caso del Colosseo concesso a Della Valle), e ministri che si affrettano a costruire gli strumenti giuridici per cui tutto questo sia possibile.

“Siamo seri”, ammonisce Ornaghi, minimizzando l’allarme. Bene, siamo seri: e cominci lei, signor ministro, a provarci. Le pare serio aver nominato nel Consiglio d’amministrazione della fondazione della Scala (quella che, secondo lei, dovrebbe far da modello a Brera) un suo affezionato creato? Le pare serio aver designato a guidare il Consiglio superiore dei Beni culturali un ignaro filosofo del diritto? Le pare serio non aver ancora messo piede nel centro dell’Aquila devastato dal terremoto di tre anni e mezzo fa, e mai ricostruito? Le pare serio spedire a Pechino delicatissime opere del Rinascimento per ragioni promozionali?

Le pare serio non aver ancora spiegato come sia stato possibile che un suo consigliere abbia svaligiato la biblioteca pubblica che dirigeva, complice la struttura del ministero che lei dirige? Mi rendo conto che è assai più facile per lei – programmaticamente “neoguelfo” – esibirsi in un dibattito su fede e bellezza al meeting di Cl, confrontandosi nientemeno che con un vescovo , con la soprintendente di Firenze sotto processo alla Corte dei Conti per aver acquistato un crocifisso (non) di Michelangelo brandito da prelati in tutta Italia come un vessilo sanfedista, e con un professore della Cattolica di cui lei è (scandalosamente) ancora il rettore. Ma, se l’obiettivo è quello di essere seri, lei dovrà dare ben altre risposte a chi le chiede di rispettare il giuramento di fedeltà alla Costituzione e dunque di trovare i mezzi con cui la Repubblica (cioè lo Stato-persona) continui a tutelare il patrimonio della nazione, cioè dello Stato-collettività, cioè di noi tutti.

Il suo problema, signor ministro, non è quello di “trovare dei finanziatori illuminati”, come ha dichiarato al Corriere, la sua missione non è quella di fare “fund-raising” appaltando agli enti locali o ai privati i pezzi pregiati del patrimonio, in un’ottica per cui tutto ciò che non sarà appetibile sarà destinato alla rovina. No, il suo dovere è conservare e rendere accessibile un patrimonio che si potrebbe mantenere con il 5% dell’evasione fiscale annua che il suo governo sta cominciando a combattere.

Ma finché lei non farà nulla di tutto questo, non potremo che domandarci, con Guido Rossi, “di che si occupa il ministro Ornaghi?”.

Più ancora degli stupri che devastano Roma e che tutti insieme, a partire dall'irresponsabile numero uno Gianni Alemanno, per pietas dovremmo sottrarre alle speculazioni politiche, è il crollo del muro del Pincio, segno di incuria ordinaria e di vandalismo amministrativo, ad anticipare il previsto, inesorabile conto alla rovescia per il sindaco di Roma.

Il crollo del Pincio è infatti il muro della modernità, non le rovine e le vestigia delle mura aureliane che continuano a sgretolarsi, sasso su sasso, dopo il disastro del 2007, ma i mattoni dell’architetto Valadier, pietre lavorate e disegno, i confini belli normali e solidi della città viva, il simbolo dell’eleganza e del garbo dei romani, la scena della bella époque italiana, dei primi baci, delle fughe adolescenziali, delle poesie di Pascarella e degli struggimenti di D’annunzio: «L’autunno moriva dolcemente».

Ebbene, il sindaco Alemanno e il sovrintendente Broccoli dicono che «la colpa del crollo del Pincio è della neve, della pioggia e del caldo secco», e nessuno ormai ride di loro perché nella città più scettica e più sgamata del mondo anche la comicità si è esaurita, e non funziona più l’antico sberleffo che sembrava eterno: «Facce ride’».

Sino a un mese fa proprio in quel tratto del paesaggio segnato dal nomos di Valadier era aperto un grande cantiere di restauro per il decoro della fontana e di alcuni dei busti che arredano come un Pantheon civile il bellissimo giardino. Vi si aggiravano, ben pagati, geometri e geologi, ingegneri, urbanisti, architetti, muratori e ovviamente i soliti professori responsabili della Sovrintendenza. Come mai nessuno si è accorto che quel muro stava per cedere? Eppure tutti mettevano i piedi su una pietra, che secondo il sindaco e il suo fidato Broccoli, era malata di meteoropatia più che di meteorologia.

Dare la colpa al tempo è il più facile dei luoghi comuni. E tutti sappiamo che Alemanno è diventato bersaglio di frizzi e lazzi di ogni genere perché ha imprecato e inveito contro la pioggia, la neve, il caldo. Una volta ha definito gli acquazzoni «un terremoto », poi si è battuto contro la neve andando in giro con una pala per domandare altro danaro al governo. Insomma Alemanno ha fatto del cattivo tempo il capro espiatorio di ogni cosa, dalla morte degli alberi ai crolli dei monumenti, alle buche nella strada… Il sindaco denunzia, sia in estate sia inverno, un’indomabile emergenza clima, una leopardiana natura matrigna. Ma a Roma, per rispondere alle emergenze, ci sono commissari per tutto, in qualche caso da oltre 15 anni. È commissariata la Sanità: il commissario è il presidente della Regione. È commissariata la mobilità: il commissario è il sindaco sin dal 1999, con rinnovi annuali. È commissariata la gestione dei rifiuti: prima fu affidata al presidente della regione, poi a vari politici, quindi ai prefetti e ora al prefetto Sottile. È commissariato il bilancio del comune: per la gestione dei debiti accumulati fino al 2008 il commissario, che prima era il sindaco, oggi è un dirigente del ministero del tesoro. Bisogna dunque commissariare anche la meteorologia con compartimenti specifici, uno per la pioggia e uno per la grandine, un assessore al vento e uno alla nebbia, e un sovrintendente per il cielo coperto e le nuvole a pecorelle.

E però il crollo del Pincio non contiene solo lo spauracchio del cattivo tempo ma, come una matrioska, nasconde e rivela anche il disastro del bilancio, che è filosofia politica prima ancora che cattiva amministrazione. Alemanno applica infatti la logica e la matematica delle professionalità speciali, delle squadre speciali, delle attenzioni sempre più speciali ad ogni evento, sia pioggia sia crollo. E si tratti di accumulo dei rifiuti o di risse nel centro storico, di aumento della criminalità e persino di stupri, Alemanno chiede finanziamenti sempre più speciali. E Roma, come il sud dei piagnistei, diventa l’ospizio di tutti gli eccessi, cresce la criminalità e la capitale si fa mafiosa. Alemanno chiede soldi del governo anche contro l’abuso di quella cartellonistica che è nelle mani di una cosca che controlla e vende gli spazi illegali alla pubblicità, tappezza clandestinamente di orrori le vie consolari e l’intera città come nessuna altra metropoli civile. E la cartellonistica invade, anche legalmente, il centro storico, al punto che in via Veneto non c’è palo della luce e orologio pubblico che non abbiano il suo piccolo obbrobrio pubblicitario. Il Comune, che guadagna sugli spazi legali, combatte solo a parole l’illegalità dei cartellonari, vere e proprie famiglie, piccole aziende potentissime, di cui io evito qui di fare i nomi.

Dunque Alemanno coglie anche l’occasione del crollo del Pincio per chiedere una proroga al patto di stabilità, vale a dire altro danaro. Come dicevamo prima, applica a Roma la scienza dell’emergenza che è tipica del Meridione. Invece di mettere a frutto le proprie capacità e i propri mezzi, come avviene per esempio nell’Emilia terremotata, Alemanno come i Cuffaro e come i Lombardo, sceglie la strada del pianto, del circo dell’emergenza che assale come le mosche l’animale ferito e pretende risorse, e non perché vuole rubare ma perché questa è politica, è macchina elettorale.

Ma il Comune, che non ha soldi per la manutenzione del Pincio, ne ha tanti per organizzare, nientemeno, una festa celebrativa della battaglia di ponte Milvio e dell’imperatore Costantino contrapposto al pagano Massenzio: la croce in cielo, in hoc signo vinces, contro l’aquila di Roma. Alla festa, che costerebbe un’ira di dio, Alemanno vorrebbe la presenza del Papa: preferisce la manutenzione elettorale alla manutenzione dei muri e delle strade di Roma.

E però il bilancio 2012 del Comune che, grazie ad un rinvio, sarà presentato addirittura ad ottobre, è già in deficit da buco nero, nonostante le mille deroghe e i mille rivoli finanziari per Roma capitale ottenuti in un profluvio di nuovi simboli, di inaugurazioni, di tagli di nastri e di chiamate in scena dei semi-vip. L’ultima “vittoria di civiltà” di questa spuma sociale è il trasferimento da Cortina nella capitale degli incontri mondani da cinepanettone intellettuale dei coniugi Cisnetto, sacerdoti e guru del generone romano e specialissimi consiglieri politici del sindaco.

Ma il crollo del Pincio rimanda anche al decoro complessivo che Alemanno dice non potere garantire senza altri soldi: «Scriverò al ministro Ornaghi per chiedere di intervenire sul governo perché si possa avere una deroga per gli interventi più urgenti». E mette le mani avanti: «Senza lavori continuativi c’è il rischio di altri crolli». Ogni giorno, per la verità, le cronache raccontano di crepe e di ferite, e nel giugno scorso addirittura alcuni frammenti di cornicione si staccarono dalla Fontana di Trevi. Anche allora il sindaco disse: «La colpa è della neve». E anche allora si rivolse al ministero: «Abbiamo pochi soldi e poco personale».

Ma al ministero, quando sentono la parola “personale”, mi fanno notare riservatamente che «non c’è nella storia dei comuni italiani un esempio di scandalo nepotista così grande come quello dell’azienda dei trasporti di Roma, l’Atac» dove sono state assunte sorelle, figli, nuore, segretarie, mogli, nipoti e fidanzate di assessori, di senatori e di deputati del Pdl, di sindacalisti della stessa Atac e di dirigenti di un’azienda che ha ora 120 milioni di debiti ed è molto vicina alla bancarotta

Ecco dunque che dal crollo del Pincio si arriva anche all’Atac, vale a dire all’emergenza trasporti, alla viabilità e al traffico che spinge Roma sempre più a Sud, sempre più simile a Palermo e a Napoli. Secondo i dati forniti dall’associazione “Roma si muove” «il 67 per cento dei romani si sposta con mezzi privati, auto e moto, e solo il 27 per cento con i trasporti pubblici che, per appena un terzo, sono su ferro (treno, metrò, tram)». Le conseguenze sono che la Roma di Alemanno ha il primato negativo per morti e feriti sulla strada e per emissioni di anidride carbonica. L’associazione “Roma si muove”, lanciata dall’ex assessore alla Cultura Umberto Croppi, dal segretario radicale Staderini e dal segretario dei verdi Bonelli sta raccogliendo le firme per nove referendum propositivi, uno strumento previsto ma mai attuato dal Comune. Dai trasporti all’uso delle spiagge, dal testamento biologico alle famiglie di fatto, dalla lotta all’abusivismo edilizio alla spazzatura (“zero rifiuti” è lo slogan) questi referendum, se mai si facessero, libererebbero Roma da Alemanno perché esprimono finalmente una politica, condivisibile o meno, nel senso della polis, della città come luogo veramente abitato, luogo della convivenza.

E vedremo se i referendum arriveranno a liberare Roma prima che l’emergenza rifiuti la faccia affogare insieme al suo sindaco. I dirigenti dell’Ama sostengono che, senza la nuova discarica, basterebbe un blocco di 48 ore e le 4000 tonnellate di rifiuti che i romani producono ogni giorno sommergerebbero la città. Non è dunque catastrofismo immaginare un autunno di tanfi e fetori che costringerebbero la gente ad indossare anche a Roma, persino a Roma, la mascherina per strada e a fare slalom tra dossi e cunette in fermentazione.

Un muro che crolla non è mai soltanto calcinaccio e polvere. Ogni muro, infatti, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, crolla due volte. Lo sgretolamento del muro del Pincio sgretola anche Alemanno e scopre una Roma a rischio Sudamerica, piccola capitale con tutti vizi della megalopoli, dalle favelas alla violenza quotidiana, alle mafie ai debiti quarantennali con le banche per costosissime metropolitane che non si faranno mai: la linea D è stata definitivamente cancellata, la C rischia di fermarsi a San Giovanni, la B1 degrada la B… Ecco perché quel muro che crolla ci avverte che probabilmente non basta più discaricare Alemanno. Persino Ciarrapico, che comprò la Casina Valadier, ne aveva un rispetto così grande che voleva a tutti i costi portarci gli uomini migliori, come Carlo Caracciolo per esempio: «Ce devi veni’, per far vedere alla gente che qui non ce vengono soltanto i burini come me».

Si è parlato in questi giorni dell’iniziativa intrapresa dal Comune per porre ordine nella “piaga” ultraventennale del condono edilizio. Qualcuno ha equivocato (o volutamente inteso) che si tratti di una riapertura di termini o di dare spazio a nuove attività abusive. C’è solo malafede dietro queste interpretazioni, e il desiderio, ingenuamente malcelato, di insinuare che l’amministrazione de Magistris strizzi l’occhio agli abusivi dell’ultim’ora.

Non mi spendo molto a dire quanto i fatti viceversa dicono: 100 demolizioni è il programma del Sindaco per il 2012, 85 eseguite nello scorso anno. Inconfrontabili i numeri degli anni passati: 15 nel 2010, 32 nel 2009. Significativa la demolizione dello scheletro dell’Arenella, lì da trent’anni.

La strada è tuttavia in salita in una città come Napoli dove l’abuso è nel sangue di molti. Ma è sull’abuso e sulle necessità dell’abusivo che si è> allattata la malapolitica. Quella fondata sulla tutela delle illegalità e non sulla difesa dei beni comuni: il territorio tra questi. La Giunta de Magistris ha decretato il “no” a nuovi condoni, spesso camuffati dietro iniziative di legge d’altro tenore, nazionali e regionali, e pure ribadendo la propria contrarietà a qualsiasi provvedimento che potesse interrompere le demolizioni delle opere abusive insanabili per legge. Il provvedimento della Giunta è stato recepito integralmente anche dal Consiglio comunale, a larghissima maggioranza. Larghissima, ma a maggioranza e ciò lascia pensare. Perché a Napoli c’è pure una minoranza che, a buon diritto, la pensa diversamente.

Oltre all’abusivismo, il condono è una vera piaga sociale: riguarda 45 mila pratiche ancora inevase da uffici comunali storicamente depotenziati. Ma è stato pure argomento politicamente “utile”. Fino a ieri. Utile perché su quelle 45 mila pratiche ci sono 45 mila cittadini (o nuclei familiari) che attendono di risolvere il problema e non ci riescono. E’ qui l’appagante arma politica del bisogno. “A Frà che te serve?” era la frase attribuita ad Andreotti che così si dice si rivolgesse al suo Evangelisti. E “che glie serve” a quei 45 mila richiedenti o meglio, moltiplicati per tre, 135 mila cittadini? E “che glie’ servito” a quei 28 mila che il condono l’hanno avuto? Provvedimenti centellinati da uffici sempre più decimati. 29 mila le pratiche concluse e la legge risale al 1985: 27 anni, mille pratiche l’anno. Dunque 45 anni ancora, se le pratiche sono 45 mila. Si dice che la colpa è della Soprintendenza. Falsità: la Soprintendenza non va certo a prendere le carte al Comune, ma è il Comune che deve inviarle, ma prima deve istruirle. Delle 45 mila, sono 25 mila le domande che riguardano aree di tutela in gran parte idrogeologica o paesaggistica. Sulle prime l’Autorità di Bacino ha riferito che nelle zone ad alto rischio di condono neanche a parlarne.

Col rischio non si tratta. Sul vincolo paesaggistico il caso è diverso. Sinora si è ragionato valutando se l’opera fosse sanabile “se bella piuttosto che se brutta”. La discrezionalità dietro tale criterio è enorme. Il legislatore ha voluto superare questo criterio, senza dubbio degenerante, quando ha stabilito nel 2008 (decreto n. 63) che i provvedimenti di vincolo debbano obbligatoriamente essere “vestiti”. Che significa? Per legge le Regioni, con il Ministero beni culturali, dovevano stabilire quali opere, nei territori vincolati, potessero essere ammesse e quali no. E se le Regioni non avessero attivata la procedura, il Ministero le avrebbe sostituite, facendo da solo. Ma in Italia (e in Campania) le Regioni non si sono mai attivate. I vincoli (a Napoli risalgono agli anni ’50-‘60) sono ancora senza “vestito” e le Regioni (Campania compresa) avrebbero dovuto per legge trasferire queste nuove prescrizioni nelle norme dei nuovi Piani paesaggistici. Intanto, sulla newsletter numero zero dell’assessore regionale all’urbanistica si legge che “redigere il Piano Paesaggistico Regionale è stata una vera e propria sfida”. Ma dove sono i vincoli “vestiti” la cui redazione competeva alla Regione e al Ministero, e dal 31 dicembre 2009 al solo Ministero, che per legge dovranno essere assorbiti nel nuovo Piano Paesaggistico? Dove i decreti di vincolo integrati con le norme di trasformazione possibili nelle aree di pregio paesaggistico?

Per il momento abbiamo (Dio ce li conservi) i piani ministeriali vigenti sulle aree cosiddette “Galasso”. Intanto il Comune di Napoli spiega alla città come si condona e come non si condona all’interno di quelle aree, nel rispetto di quelle condivise indicazioni che pervengono dai piani paesaggistici del Ministero. Il Sindaco ha quest’obiettivo ineludibile: regole chiare, diritti irrinunciabili e certi, quanto i doveri. Tutto qui.

Domanda: ma a chi verrà dato il condono verrà concesso il privilegio di mantenere la propria villa con piscina nelle aree di più elevato pregio? Risposta: no. Anche qui l’amministrazione comunale decide di obbligare i condonati a riunirsi in “comparti” per il successivo trasferimento delle consistenze sanate (demolendo) in siti alternativi, realizzando anche piccoli condominii, ma riducendo il consumo di suolo, liberando e trasferendo al patrimonio comunale quelle aree rimediabilmente recuperabili per più naturali funzioni che il prg individua nel verde dei parchi. Nelle aree compatibili si realizzeranno invece le attrezzature per lo sport e l’istruzione dell’obbligo, gli asili nido, le biblioteche, i luoghi per lo svago.

E’ tutta un’ invenzione? No. Era già scritto nella legge 47 del 1985, quella che istituì il condono. All’articolo 29, disatteso a Napoli come altrove, si dispone che le regioni disciplinano le “varianti” ai piani regolatori per il recupero urbanistico degli insediamenti abusivi in un quadro di convenienza economica e sociale, prevedendo il razionale inserimento territoriale dell'insediamento, un’adeguata urbanizzazione delle aree, il rispetto degli interessi storici, artistici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici.

La Campania ha sì disciplinato, ma rinviando il problema a quando i Comuni dovranno redigere i Puc (piani urbanistici comunali), ovvero chissà quando, mentre la legge 662/96 obbligava le Regioni, decorso il 9 aprile 1997, a commissariare i Comuni che risultavano inadempienti. Napoli sta allora semplicemente anticipando i tempi… con 27 anni di ritardo, e rispettando le regole. A dimostrare che, anche attraverso l’urbanistica, la vera rivoluzione sta “semplicemente” nell’amministrare, lasciando agli altri i proclami e le promesse.

L’autore è assessore all’urbanistica del Comune di NapoliIl testo che eddyburg pubblica in anteprima, costituisce anche la risposta e il commento all’articolo del Mattino del 21 agosto scorso, dal titolo a dir poco fuorviante: In città è pronto il condono per diecimila abusi (m.p.g.)

Eh, no, “non è un anno come gli altri” va ripetendo Luca Zevi, il responsabile del Padiglione Italia della 13esima mostra di architettura della Biennale di Venezia in calendario dal 29 agosto (negli stessi giorni decolla la mostra del cinema) fino al 25 novembre. “Non è certo grazie alla finanza che la svangheremo dalla crisi. Serve un grande progetto per le imprese d’eccellenza del Made in Italy”. Ricordando, non copiando, il modello di Adriano Olivetti del dopoguerra.

Il padiglione italiano si dipana lungo quel magnifico spazio d’antico lavoro e tipicamente veneziano che sono le Tese delle Vergini all’Arsenale e lì l’architetto romano ha approntato un titolo vivaldiano, “Le quattro stagioni” con un sottotitolo esplicativo: “Architetture del Made in Italy da Adriano Olivetti alla Green Economy”. Scandisce il percorso in quattro “stagioni”: la prima appunto su Olivetti; la seconda sull’ “assalto al territorio” a partire dagli anni ’80, documentata da un video; la terza parte su “progetti architettonici d’eccellenza” dell’ultimo quindicennio; infine la puntata su imprese e Green Economy in vista dell’Expo 2015 a Milano. Il modello: rileggere– senza venerare - la lezione di Adriano Olivetti e da lì ripartire per un modello culturale e architettonico a misura di paesaggio, territorio, persone, bisogni.

Architetto, cosa intende con “le quattro stagioni del made in Italy”?

Intendiamo un modello di modernizzazione del paese legato a caratteri costitutivi del paese. Il primo riferimento è ad Adriano Olivetti perché lui ha tentato di dare una stagione modernissima all’Italia delle cento città che è meravigliosa perché ha centri urbani piccoli e medi di straordinaria qualità. Olivetti capisce che il nostro territorio è costituzionalmente policentrico, capisce che l’imprenditore italiano è fortemente individualista e creativo. Di conseguenza si distribuisce sul territorio con una azienda piccola e media, una grande originalità del prodotto e un forte radicamento del territorio , incluso quello agricolo.

Oggi però una miriade di capannoni ha devastato molte zone. Basti ricordare quanto lamentava e denunciava un poeta Zanzotto riguardo alla campagna veneta.

L’invasione dei capannoni avviene anche per l’incapacità della cultura e della politica di seguire quanto succede. E si torna ad Adriano Olivetti: dalla sua scomparsa negli anni 60 un’operazione culturale ancor prima che politica lo ha fatto passare come un personaggio legato all’800 sostenendo invece che la prospettiva è la grande fabbrica, la grande città con il quartiere periferico. Ma questo non era nella genetica produttiva italiana per cui il ciclo della grande fabbrica si conclude in una ventina d’anni. Invece il modello olivettiano si sviluppa in maniera incontrollata: quando le grandi fabbriche entrano in crisi esplode questo processo di piccoli centri produttivi, il territorio viene invaso perché la cultura architettonica e urbanistica non si dà come tema il decentramento produttivo in un’Italia policentrica.

E questo travolge anche l’agricoltura

L’agricoltura ne risente in modo pesante. Il paesaggio italiano è tutto un progetto, è la sua meraviglia, è realizzato e mantenuto con amore dall’uomo. È quindi architettura della stessa qualità delle città che viene invasa dai capannoni a causa di una sottovalutazione della politica e della cultura negli anni del mito dell’industrialismo.

E di cosa parlate quando parlate di Made in Italy?

Parliamo del rilancio della piccola e media impresa, dell’agricoltura piccola che ha inventato ad esempio la produzione a chilometro zero o, in città, gli orti urbani: sono segnali non necessariamente coordinati ma ci sono.

Cosa si vedrà nel padiglione italiano?

Proponiamo una rilettura dell’esperienza di Olivetti, non un omaggio. Diciamo: quello era il progetto, l’effimero è stata la produzione massiccia che sembrava la modernità. Con l’invasione del territorio si consolidano circa quattromila piccole-medie imprese con prodotti di eccellenza che diventano leader nel mondo e devono rappresentarsi architettonicamente e realizzano centri di qualità.

Esempi?

Da Aguzzini a Recanati, Cucinelli, la Ferrari, Prada, diventano poli territoriali che condensano interventi più importanti come il chilometro rosso della Brembo a Bergamo fatto da Jean Nouvel. Contemporaneamente, grazie anche alla presenza di Expo 2015, mostriamo anche le cantine firmate da architetti importanti e la centralità dell’agricoltura per una nuova architettura del paesaggio agricolo. Certe politiche europee hanno favorito le monocolture che sono invasive, ad esempio in Sardegna c’è una quantità smisurata di campi di girasole. Anche qui si rilancia valorizzando la caratteristica multiculturale e differenziata del nostro paesaggio.

Documentate l’assalto al territorio?

Lo documentiamo con immagini di questa occupazione indifferenziata: capannoni, impianti petrolchimici, l’Ilva di Taranto. È un modello di sviluppo che ha portato più difficoltà: dagli anni 80 è un fenomeno generalizzato favorito anche da terremoti che hanno moltiplicato i finanziamenti. Al sud si sono finanziati capannoni mai entrati in produzione, ma è successo dappertutto.

A suo parere, come recuperare uno slancio produttivo e un territorio ferito?

Non usciremo dalla crisi con una politica centrata sulla finanza bensì sulla capacità di lavorare creativamente. La nostra vera efficienza è ecologica, è multiculturale e solidale e si fonda su una comunità operosa con un equilibrio sociale: questo è il modello di sviluppo, un grande progetto con caratteristiche che non sono state riconosciute né dalla cultura né dalla politica. E ora in zone come le Marche ogni giorno chiude una di queste aziende. Quindi o nasce un progetto per fare di tutti questi spazi come una grande Olivetti collettiva che manda avanti l’Italia o non saranno le operazioni finanziare per lo spread a salvarci. Dobbiamo assolvere a questi impegni ma serve un grande rilancio produttivo con al centro questi soggetti: non è detto che la svangheremo, se continuiamo a essere banche e finanza non credo.

Il Padiglione Italia così sembra più una proposta di idee.

Il nostro programma non ha un curatore che sceglie architetti perché non è un anno come gli altri. Sarà un Padiglione inusuale perché la crisi è inusuale. Per questo abbiamo chiamato intellettuali di tutti i campi e soprattutto conoscitori dell’Italia vera per delineare una prospettiva in cui lavorare. Viviamo una grande confusione culturale e se non sappiamo quali sono le nostre vere risorse non ne usciamo. L’importante è puntare sui nostri veri punti di forza.

Questo discorso sfiora anche una polemica che Settis ad esempio tiene alta e riguarda proprio Venezia: l’invasione pericolosissima delle mega navi nel delicato e fragile tessuto della città lagunare. A chi critica l’arrivo di questi colossi dell’acqua la risposta è che portano soldi. Lei come la vede?

Sono come cattedrali industriali nel deserto. Se vogliamo un rilancio del made in Italy come lo intendiamo qui allora Venezia deve essere frequentata nel modo giusto. Si faccia un approdo appropriato per le grandi navi creando lavoro dove è giusto che stia ma che non è piazza san Marco o Riva degli Schiavoni. Le grandi navi sono una realtà, ma non è affatto necessario che sbarchino a San Marco. L’economia giri sul modo giusto e ce ne sarà per il turismo e una per il trasporto si spera di qualità.

«It's the economy, stupid»: era stato questo lo slogan vincente di Bill Clinton nella campagna contro George Bush (senior) vent'anni fa. Forse oggi è il caso di riprendere quelle stesse parole contro il ragionier Monti, economista di fama mondiale, che non riesce a spiegarsi come mai, avendo «messo i conti in ordine», lo spread italiano continui a essere il triplo di quello di altri paesi quasi altrettanto indebitati e senza quell'avanzo primario (la differenza tra entrate e spese dello Stato destinata al pagamento degli interessi) che nessun altro in Europa può vantare.

Le borse non sono cieche: spread alto ed economia a pezzi vanno insieme Il fatto è che con le sue misure «salvaitalia», «crescitalia», spending review e «spremilavoro» Monti ha letteralmente strangolato, e continua a strangolare, l'economia italiana: la sua base produttiva e occupazionale, le sue imprese, le sue potenzialità; mentre con il pareggio di bilancio in Costituzione e il fiscal compact ha posto le premesse perché nei prossimi anni e decenni l'economia italiana non possa mai più riprendersi: esattamente come in Grecia. Perché allora la finanza internazionale (e nazionale), che guarda alla sostanza delle cose e non ai discorsi, non dovrebbe aspettarsi che un programma del genere porti diritto al fallimento?

Lo spread è la dimostrazione che, in barba ai cosiddetti «fondamentali», la scommessa è proprio questa. A difesa di Monti si potrebbe argomentare che a non capire questa cosa elementare (o a fingere di non capirla, per nascondere altri obiettivi) non è solo lui ma che è in buona compagnia.

Innanzitutto del suo governo e dei partiti che lo sostengono; che continuano a blaterare di un "dopo Monti", come se questo governo non stesse mettendo le premesse (addirittura in Costituzione!), perché il dopo non si differenzi minimamente dal prima (compreso il «prima di Monti», con cui è sempre più evidente la sostanziale continuità, a parte lo «stile» al posto del carnevale). Ma dietro o accanto a lui, a confermarlo nella sua pretesa di salvatore della patria, c'è tutto l'establishment della finanza internazionale, a partire da Goldman Sachs che lo ha allevato insieme al suo socio Draghi. Entrambi si presentano come i demiurghi dalle cui decisioni dipendono le sorti non solo dell'Italia ma anche quelle dell'euro, e insieme all'euro, dell'Unione europea - e per inevitabile contagio, come ben ha capito Obama, prigioniero anche lui, però, dello staff di finanzieri nelle cui mani si è messo contando di addomesticarli e non di esserne addomesticato - dell'economia mondiale. Ma entrambi cominciano a capire che il gioco in cui si sono messi è più grande di loro (nonostante tutta la «potenza di fuoco» che Draghi sostiene di voler mettere in campo); e forse più grande di chiunque altro al mondo.

Perché il modo di operare della finanza non è una congiura, ma un meccanismo cieco che nessuno in realtà governa: giacché è un contesto in cui ciascuno, anche le maggiori potenze del mondo, non può più agire se a difesa del proprio, per quanto immenso, «particulare»: che nel corso del tempo si è andato riducendo sempre più alla contabilità dei margini realizzati giorno per giorno: magari e per lo più, come si sta scoprendo giorno per giorno, attraverso meccanismi truffaldini: come la manipolazione del libor e dei rating, le scommesse contro governi o investitori di cui si è consulenti (i famigerati Cds, spacciati per il loro contrario, cioè assicurazioni contro il fallimento). O le modificazione delle regole delle vendite allo scoperto: quella con cui Draghi, allora ancora Governatore di Banca d'Italia, ha a suo tempo spianato la strada alla nomina di Monti.

Le regole con cui tenere sotto (parziale) controllo gli spiriti mortiferi della finanza, messi a punto tra la crisi del 1929 e la conferenza di Bretton Woods (a favore, per la verità, di una parte ridotta e privilegiata delle nazioni) sono state abolite da tempo in nome del pensiero unico, della deregolamentazione e della libera circolazione dei capitali. E con un solo obiettivo: privatizzare tutto e riprendere ai lavoratori quel poco che avevano conquistato in più di un secolo di lotta di classe.

Non saranno quindi né Monti né Draghi a porre un freno o a invertire questo processo. La partita tornerà ben presto in forme drammatiche e in un contesto tumultuoso e privo di mediazioni - distrutte o rese insignificanti dalla degenerazione della «politica» - nelle mani delle vittime del loro operato: ma in un contesto nazionale e internazionale carico di rischi autoritari e di elementi di confusione. È questo il quadro di riferimento di ogni possibile discussione sulla «ripresa» d'autunno

0 > Città e territorio > Temi e problemi > Consumo di suolo

Perdiamo terreno

Data di pubblicazione: 20.08.2012

Nell’inchiesta di Salari e il commento di Cianciullo, l’analisi della situazione italiana sul consumo di suolo a partire dal dossier di WWF e Fai “Terra rubata”. repubblica on-line, 20 agosto 2012 (m.p.g.)

Così stanno uccidendo l'Italia agricola. Quei 600 mila ettari rubati dal cemento

di Gabriele Salari

Una superficie artificializzata grande quanto il Friuli Venezia Giulia. Nonostante la stabilità demografica in 50 anni c'è stato un forte incremento del territorio urbanizzato: 8.500 ettari all'anno. Un aumento del 500% dal Dopoguerra ai primi anni Duemila. Siamo i primi produttori di cemento in Europa e il business alimenta anche la diffusione delle cave di calcare sui fianchi di colline e montagne.

Cinquecento per cento. Di tanto è aumentata la superficie impermeabilizzata dal cemento o dall’asfalto in Italia tra il 1956 e il 2001. Questo crescente consumo di suolo è avvenuto a prescindere dallo sviluppo economico o demografico. Il caso del Molise, la cui popolazione ha una consistenza numerica pressoché costante dal 1861, è significativo: la superficie urbanizzata è passata dai circa 2.316 ettari del 1956 ai 12.030 del 2002, con una variazione positiva quindi di circa 9.700 ettari, pari a un consumo giornaliero di circa mezzo ettaro. Lo stesso si può dire però per tutta l’Italia dove la stabilità demografica contraddistingue gli ultimi decenni, ma dove, tra il 1991 e il 2001, l’Agenzia Ambientale Europea rileva un incremento di quasi 8.500 ettari l’anno di territorio urbanizzato (il doppio della media europea) e l’Istat ben tre milioni di ettari di territorio, un terzo dei quali agricolo, perso tra il 1990 e il 2005. Gli ultimi anni non sono serviti affatto a invertire questa tendenza.

L’allarme, lanciato da Fai e Wwf nel recente dossier “Terra Rubata”, arriva in un momento in cui a livello globale si riscontra la stessa tendenza. La Cina, ad esempio, cerca di accaparrarsi terreni agricoli in Africa per sopperire alle proprie necessità di produzione alimentare. È il suicidio dell’Italia agricola, giardino d’Europa, che ha rinnegato le proprie origini per inseguire l’industrializzazione e che ora, nell’epoca postindustriale, continua a disseminare il territorio di capannoni, invece di recuperare le aree dismesse ed evitare nuovo consumo di suolo.

In Italia è praticamente impossibile tracciare un cerchio di 10 chilometri di diametro senza incontrare un nucleo urbano, con tutto ciò che ne consegue, sia per l’isolamento dei francobolli di natura rimasti che, guardando le cose dal punto di vista opposto, quanto a difficoltà di individuazione di siti idonei per impianti come le discariche che dovrebbero sorgere lontano da un centro abitato.

La nostra economia incentrata sul Pil ha visto nel settore delle costruzioni un suo punto di forza e l’ultimo decennio non ha fatto eccezione, anzi: il 2007 è stato il nono anno consecutivo di sviluppo del settore in Italia, qualificandosi come l’anno in cui i volumi produttivi hanno raggiunto i livelli più alti dal 1970 ad oggi.

Felici di coprire l’Italia di cemento quindi e pazienza se quel suolo è perso per sempre, non potrà più tornare ad essere suolo agricolo. In un’epoca in cui non si prevede crescita demografica e in cui il paesaggio è forse una delle risorse più importanti del Paese, una scelta poco sensata. Anche l’IMU, introdotta dal federalismo fiscale, si conferma come un introito per i Comuni ancora proporzionale in larga parte alla quantità di edifici senza, almeno per ora, vincoli particolari di utilizzazione e quindi del tutto analoga all’ICI negli effetti nefasti sulla trasformazione del suolo.

In uno studio che ha riguardato circa la metà del territorio italiano, si è visto che l’area urbana si è mediamente moltiplicata di quasi 3 volte e mezza dal Dopoguerra ai primi anni 2000, con un aumento di quasi 600.000 ettari in circa 50 anni, cioè una superficie artificializzata pari quasi a quella dell’intera regione Friuli Venezia Giulia.

Il business del cemento, del quale siamo i primi produttori in Europa, alimenta anche la diffusione delle cave di calcare per cementifici che infliggono pesanti ferite al paesaggio, visto che sorgono sui fianchi di colline e montagne, e risultano visibili a chilometri di distanza, assumendo il tipico aspetto di enormi cicatrici color bianco abbagliante. Eccezionale la situazione nel Casertano, con cave spesso fuorilegge a ridosso di centri abitati, come denuncia il dossier “Terra rubata”, che segnala come questo tipo di cave sia spesso in mano all’ecomafia.

La piaga dell’abusivismo edilizio nel Meridione amplifica a dismisura il fenomeno del consumo di suolo, sia in aree a forte vocazione agricola che in aree dove il buon senso (oltre che la legge Galasso) impedirebbe di costruire, come le pendici dei vulcani. Il Vesuvio è un caso emblematico anche perché a case e altri manufatti, si aggiunge la presenza di cave e discariche, a fronte di un territorio fertile in cui si coltivano diversi prodotti tipici.

Il sacrificio delle pianure dove costruire conviene

Gabriele Salari

Gli operatori immobiliari hanno meno vincoli urbanistici, edificare costa di meno e il diffondersi dei centri commerciali aiuta ad incentivare le lottizzazioni. La geografia dell'Italia è in rapido cambiamento: non più piccoli centri storici tra vigne e uliveti, ma campagne dentro le città. Degli effetti ce ne accorgiamo durante le alluvioni

Quasi il 60% delle aree urbanizzate è collocato in aree pianeggianti, indubbiamente più comode per ciò che riguarda i collegamenti e più vantaggiose in relazione ai costi di costruzione. Sono bastati alcuni decenni di crollo dell’agricoltura nelle più piccole pianure italiane per provocarne il sacrificio. In pratica, si è consumato più suolo e in modo più estensivo dove questa risorsa era più disponibile e dove costava meno, anche quando i suoli utilizzati erano ad alta vocazione agricola.

“La speculazione legata ai cambi di destinazione d’uso delle aree agricole e all’edificabilità dei suoli ha generato spesso un intreccio tra costruttori e Amministratori pubblici che ha in molti casi stravolto ogni tentativo di seria programmazione e gestione territoriale” spiega Franco Ferroni, responsabile biodiversità del Wwf Italia. “Gli interessi dei grandi costruttori sono molto spesso coincidenti con quelli fondiari, chi costruisce case da tempo compra le terre su cui edificare e non sempre le comprano con l’edificabilità già sancita nei piani regolatori. Il guadagno in questo caso si moltiplica, e di molto”.

Basti considerare che in un’area di fondovalle di Umbria o Marche i terreni ad alta vocazione agricola possono avere costi ad ettaro di 15.000 - 20.000 euro che salgono facilmente a 70.000 - 90.000 euro ad ettaro se il terreno diventa edificabile con un centro residenziale o commerciale che sostituisce i seminativi. O ancora, quanto può rendere di più un agrumeto della Costiera Amalfitana se invece che produrre il limone sfusato di Amalfi, il terreno viene impiegato come parcheggio dai turisti che affollano d’estate la località di mare?

Andando su e giù per lo Stivale si nota come si stia sfaldando il tessuto italiano fatto di piccoli centri storici immersi in orti e vigneti, campi e pascoli. I centri medioevali si svuotano di abitanti perché vengono considerati “scomodi” visto che spesso non si può posteggiare l’automobile sotto casa. Costruire su spazi verdi extra-urbani costa poi meno rispetto ai costi di recupero e di adeguamento del patrimonio immobiliare esistente e gli operatori immobiliari nei territori extra-urbani trovano minori vincoli urbanistici. Non solo, il diffondersi di grandi centri commerciali periferici incentiva ulteriormente la nascita di lottizzazioni extraurbane e l’uso dell’automobile. Più case isolate e più centri commerciali portano alla necessità di più strade e quindi a una crescita esponenziale del consumo di suolo.

“Un’altra causa del fenomeno è rappresentata dalla possibilità per i Comuni di utilizzare fino al 50% degli oneri di urbanizzazione per pagare le spese correnti. In carenza di altre risorse questa norma ha incentivato da parte delle amministrazioni locali il cambio della destinazione d’uso dei terreni agricoli in aree edificabili anche in assenza di un reale fabbisogno, per aumentare le entrate nei propri bilanci e mantenere i servizi essenziali” spiega Ferroni.

I dati a disposizione indicano che in Pianura Padana il 9,9% della superficie è occupato da opere d’urbanizzazione, cave e discariche, con punte del 12,5% nelle aree dell’alta pianura e del 16,9% in corrispondenza delle colline moreniche. In Versilia e nelle pianure interne della Toscana, Umbria e Lazio il consumo di suolo per attività extra-agricole raggiunge il 10,6% della superficie. Vi sono aree in cui l’urbanizzato copre addirittura il 50% del suolo ed è la campagna a trovarsi all’interno dello spazio urbano e non viceversa.

Accade per esempio nell’ampia regione che ha come vertici Bergamo-Lecco-Como-Varese-Milano oppure intorno a Bologna, da Parma a Cesena. “Negli ultimi 15 anni il diffondersi degli insediamenti si è proposto con forza anche in alcune zone della pianura irrigua che fino a un ventennio fa ne erano rimaste immuni e che da alcuni erano pensate come il possibile cuore verde della megalopoli padana” scrivono Stefano Bocchi e Arturo Lanzani in “Campagna e Città” (Touring Club Italiano).

Il problema è che stiamo assistendo a una “padanizzazione” delle nostre pianure in tutto il Paese. Nonostante già prima della crisi economica molti alloggi e molti capannoni industriali fossero vuoti, si continua a costruirne degli altri e ogni città si sviluppa ormai lungo le principali strade di comunicazione fino a saldarsi con la città successiva. Questo lo si percepisce chiaramente percorrendo la superstrada da Perugia a Spoleto, nella Valle Umbra, oppure la Pontina, da Roma a Latina. Difficile capire dove finisce un centro abitato e ne inizia un altro: è la cancellazione della campagna.

L’impermeabilizzazione delle pianure produce effetti di cui ci accorgiamo in occasione delle alluvioni, visto che l’asfalto limita le aree di espansione naturale delle piene. Servirebbero dunque vincoli sulle modificazioni d’uso dei terreni agricoli, ma anche incentivi per chi intraprende l’attività agricola. Nel 2009, secondo le stime dell’Unione europea, mentre il reddito reale per lavoratore nel settore è sceso in media del 12%, in Italia il calo è stato di oltre il doppio.

In Europa il suolo è un valore e si difende

Gabriele Salari

Mentre in Italia mancano i meccanismi di gestione e controllo del territorio, nel resto del Vecchio Continente si tenta di porre un limite al consumo del territorio. La prima è stata la Francia, con tre leggi negli anni 90. Poi la Gran Bretagna con le 'Green Belts', che impediscono alle città di saldarsi tra loro. La Germania si è posta un obiettivo: non più di 30 ettari al giorno entro il 2020.

La Germania è stato uno dei primi paesi che si è occupato della tutela del paesaggio e ha fissato un limite quantitativo al consumo di suolo, dopo aver rilevato nel 2002 un tasso di crescita di 129 ettari al giorno (in Italia siamo oggi a 75 ettari).

Il limite, da raggiungere entro il 2020, è di 30 ettari al giorno e si sta cercando di raggiungerlo con una politica di riutilizzo dei suoli già impermeabilizzati, ad esempio, prevedendo una diversa tassazione sugli immobili a seconda che siano realizzati o meno su aree già urbanizzate.

Nel 1999 è entrata in vigore una vera e propria legge per il suolo, che vede l’inserimento della tutela dei suoli in tutte le regolamentazioni e norme di settore e l’inserimento del principio di prevenzione. Un approccio normativo così completo e puntuale è stato portato avanti con una contemporanea attività di ricerca e analisi per la misurazione del fenomeno.

In Gran Bretagna, invece, si è riusciti a impedire che le città si saldassero tra di loro, grazie a un’intuizione del 1995: le Green Belts, le cinture verdi che circondano i centri urbani costringendoli in confini non valicabili per l’espansione edilizia. In quell’anno l’estensione delle Green Belts era di 1.556.000 ettari, circa il 12% del suolo inglese, mentre oggi siamo arrivati a una superficie di quasi 1.700.000 ettari. Un vero successo che ha consentito di proteggere la campagna e le attività che vi si svolgono, ma anche di conservare le caratteristiche specifiche delle città storiche con il loro contesto e aiutare la rigenerazione urbana, incoraggiando il riutilizzo di aree urbanizzate abbandonate.

Almeno il 60 % delle nuove abitazioni in Gran Bretagna devono essere realizzate su suolo già urbanizzato, intendendo aree ed edifici che sono stati abbandonati o sono in stato di degrado oppure utilizzati ma che potrebbero essere riqualificati. A sostegno di questa politica, il “National Land Use Database” viene aggiornato annualmente e contiene informazioni sui suoli già impermeabilizzati ed edificati in Inghilterra.

Anche in Francia tre diverse leggi, entrate in vigore alla fine degli anni Novanta si occupano della gestione del territorio, mentre in Italia manca ancora questo tipo di meccanismi di pianificazione e perfino il Catasto delle aree percorse dal fuoco, previsto dalla legge quadro sugli incendi 353/2000, per impedire l’edificazione nei boschi dati alle fiamme, è uno strumento che molti Comuni non applicano, facendo mancare così un ulteriore argine al consumo di suolo.

Con villini e capannoni ci rimette la nostra storia

Antonio Cianciullo

La bellezza del nostro territorio rischia di essere cancellata da una sfilata di villini, strade e capannoni. Sono necessarie leggi più severe, ma soprattutto un'operazione strutturale che dia importanza ai piccoli centri. Dall'agricoltura multitasking al ribaltamento della centralità attraverso internet e la capillarità dei trasporti

Campi abbandonati, perché non più redditizi, riconquistati dal bosco. Una campagna accanto a una città, mangiata dalla lottizzazione. Sono due esempi molto diversi che spiegano perché è difficile leggere i numeri sulla perdita di suolo agricolo: un’interpretazione sbagliata rischia di offrire sintesi che non corrispondono alla realtà.

Diamo quindi al bosco quel che è del bosco e non calcoliamo come cementificate le aree abbandonate dall’agricoltura e restituite agli alberi o agli arbusti. Il dato che resta è comunque drammatico: la superficie annualmente coperta da cemento e asfalto si misura nell’ordine di qualche centinaio di chilometri quadrati l’anno.

Si tratta dunque di costruire dei paletti in grado di fermare la perdita di territorio che rischia di trasformare le pianure in un sfilata ininterrotta di villini, capannoni, svincoli, strade, fabbriche, centri commerciali: un unicum di asfalto e cemento che cancella la nostra storia e le basi della nostra cultura materiale. Su questo sono tutti, o quasi, d’accordo. Ma qual è il sistema più efficace per raggiungere l’obiettivo?

Molti insistono sulla necessità di leggi più severe. E questo è senz’altro necessario. Le green belt volute dai britannici a difesa delle loro città si sono rivelate uno strumento efficace. In Italia perfino la semplice applicazione di normative già esistenti ma spesso ignorate, come quella che vieta le costruzioni sulle aree devastate dagli incendi, potrebbe fare molto.

Ma anche le leggi più severe rischiano alla lunga di essere aggirate se non si compie un’operazione più strutturale capace di restituire valore alla cosiddetta Italia minore, che poi è l’Italia che fa maggiore il nostro appeal: un appeal basato sulla grande diversità della nostra cultura, sui mille campanili, sull’arte di godersi la vita che prende forme diverse provincia per provincia, città per città.

Difendere la vivibilità dei piccoli centri nelle aree interne e montuose significa costruire un sistema di trasporti moderno in grado di assicurare anche i collegamenti trasversali e minuti, non solo le grandi tratte dell’alta velocità. Significa garantire la possibilità di essere al centro del mondo abitando in un paesino sperduto grazie all’accesso al web ad alta velocità. Significa mettere in piedi l’Internet dell’energia trasformando milioni di case in punti di produzione di elettricità e calore in modo da rovesciare il concetto di centralità che ha governato il ventesimo secolo.

Difendere la vivibilità economica delle imprese agricole significa prima di tutto frenare la fuga dai campi, che è dettata principalmente da ragioni economiche e che in 10 anni ha portato all’abbandono di un milione e 800 mila ettari. In questa direzione va la proposta di un’agricoltura multitasking che permetta a chi vive nei campi di far quadrare i conti utilizzando, a integrazione del reddito, altri strumenti: dall’agriturismo ai piccoli o mini impianti di rinnovabili passando per una più corretta valutazione economica del lavoro svolto in termini di difesa idrogeologica.

Già oggi - ricorda Andrea Segré preside della facoltà di agraria di Bologna - le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l’ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall’uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.

“I residui delle colture agricole hanno un potenziale energetico quattro volte superiore a quello che l’agricoltura utilizza per le proprie attività”, aggiunge Giampiero Maracchi, docente di climatologia a Firenze.“Sole, vento, biomasse, biocombustibili, biogas sono tutte forme di energia che possono essere prodotte dalle attività agricole, dando al paese più del 30 % dell’energia di cui ha bisogno”.

Gli strumenti da utilizzare, come si vede, possono essere vari. Quello che conta è ribaltare la logica economica che finora ha premiato i Comuni per le attività più devastanti (gli incassi legati alla concessione di licenze edilizie) e trasformato in un costo le attività di difesa dell’ambiente e della bellezza del territorio

Con villini e capannoni ci rimette la nostra storia

Antonio Cianciullo

La bellezza del nostro territorio rischia di essere cancellata da una sfilata di villini, strade e capannoni. Sono necessarie leggi più severe, ma soprattutto un'operazione strutturale che dia importanza ai piccoli centri. Dall'agricoltura multitasking al ribaltamento della centralità attraverso internet e la capillarità dei trasporti

Campi abbandonati, perché non più redditizi, riconquistati dal bosco. Una campagna accanto a una città, mangiata dalla lottizzazione. Sono due esempi molto diversi che spiegano perché è difficile leggere i numeri sulla perdita di suolo agricolo: un’interpretazione sbagliata rischia di offrire sintesi che non corrispondono alla realtà.

Diamo quindi al bosco quel che è del bosco e non calcoliamo come cementificate le aree abbandonate dall’agricoltura e restituite agli alberi o agli arbusti. Il dato che resta è comunque drammatico: la superficie annualmente coperta da cemento e asfalto si misura nell’ordine di qualche centinaio di chilometri quadrati l’anno.

Si tratta dunque di costruire dei paletti in grado di fermare la perdita di territorio che rischia di trasformare le pianure in un sfilata ininterrotta di villini, capannoni, svincoli, strade, fabbriche, centri commerciali: un unicum di asfalto e cemento che cancella la nostra storia e le basi della nostra cultura materiale. Su questo sono tutti, o quasi, d’accordo. Ma qual è il sistema più efficace per raggiungere l’obiettivo?

Molti insistono sulla necessità di leggi più severe. E questo è senz’altro necessario. Le green belt volute dai britannici a difesa delle loro città si sono rivelate uno strumento efficace. In Italia perfino la semplice applicazione di normative già esistenti ma spesso ignorate, come quella che vieta le costruzioni sulle aree devastate dagli incendi, potrebbe fare molto.

Ma anche le leggi più severe rischiano alla lunga di essere aggirate se non si compie un’operazione più strutturale capace di restituire valore alla cosiddetta Italia minore, che poi è l’Italia che fa maggiore il nostro appeal: un appeal basato sulla grande diversità della nostra cultura, sui mille campanili, sull’arte di godersi la vita che prende forme diverse provincia per provincia, città per città.

Difendere la vivibilità dei piccoli centri nelle aree interne e montuose significa costruire un sistema di trasporti moderno in grado di assicurare anche i collegamenti trasversali e minuti, non solo le grandi tratte dell’alta velocità. Significa garantire la possibilità di essere al centro del mondo abitando in un paesino sperduto grazie all’accesso al web ad alta velocità. Significa mettere in piedi l’Internet dell’energia trasformando milioni di case in punti di produzione di elettricità e calore in modo da rovesciare il concetto di centralità che ha governato il ventesimo secolo.

Difendere la vivibilità economica delle imprese agricole significa prima di tutto frenare la fuga dai campi, che è dettata principalmente da ragioni economiche e che in 10 anni ha portato all’abbandono di un milione e 800 mila ettari. In questa direzione va la proposta di un’agricoltura multitasking che permetta a chi vive nei campi di far quadrare i conti utilizzando, a integrazione del reddito, altri strumenti: dall’agriturismo ai piccoli o mini impianti di rinnovabili passando per una più corretta valutazione economica del lavoro svolto in termini di difesa idrogeologica.

Già oggi - ricorda Andrea Segré preside della facoltà di agraria di Bologna - le attività di servizio connesse al lavoro agricolo (compresa l’ospitalità negli agriturismi) valgono un quinto del fatturato delle aziende del settore. Senza calcolare i profitti derivanti dall’uso energetico degli scarti di lavorazione, dal mini eolico e dal solare.

“I residui delle colture agricole hanno un potenziale energetico quattro volte superiore a quello che l’agricoltura utilizza per le proprie attività”, aggiunge Giampiero Maracchi, docente di climatologia a Firenze.“Sole, vento, biomasse, biocombustibili, biogas sono tutte forme di energia che possono essere prodotte dalle attività agricole, dando al paese più del 30 % dell’energia di cui ha bisogno”.

Gli strumenti da utilizzare, come si vede, possono essere vari. Quello che conta è ribaltare la logica economica che finora ha premiato i Comuni per le attività più devastanti (gli incassi legati alla concessione di licenze edilizie) e trasformato in un costo le attività di difesa dell’ambiente e della bellezza del territorio.

Su Roma una nuova pioggia di case
la campagna nelle mire dei palazzinari

Di Francesco Erbani

Due mila ettari di terreno lasceranno il posto a 66 mila case. Merito degli "ambiti di riserva", aree selezionate dal Comune per circa 200 mila abitanti. Tanti quanti quelli di Salerno o Brescia. Legambiente denuncia che nella Capitale già esistono più di 250 mila appartamenti vuoti. Alemanno promette che questi alloggi, fuori dal Piano Regolatore del 2008, saranno in parte destinati all'edilizia popolare. Ma è necessario costruire ancora?

ROMA - Il titolo è burocraticamente innocuo: "Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata". Il senso è un altro. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Le lottizzazioni sono sparse per ogni dove nelle "erme contrade", come Giacomo Leopardi chiamava nella Ginestra la cintura agricola intorno alla città - e "erme" vuol dire solitarie.

Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell'Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un bel quartiere con 3 mila abitanti. L'allarme è alto. Sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini preparano barricate. Nei giorni scorsi si è svolto un sit-in davanti al Campidoglio. È intervenuto anche l'Istituto nazionale di urbanistica (Inu). E due deputati di Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, hanno presentato un'interrogazione parlamentare.

Ma, prima di tutto: c'è bisogno d'altro cemento a Roma? Il Piano regolatore, approvato appena quattro anni fa dalla giunta di Walter Veltroni, prevede edificazioni per 70 milioni di metri cubi, un diluvio di calcestruzzo che sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni - la terribile "macchia d'olio" descritta cinquant'anni fa da Antonio Cederna -, ma che non trova giustificazioni nella crescita demografica: l'ultimo censimento inchioda la popolazione residente a 2 milioni 600 mila abitanti, appena 50 mila in più rispetto al 2001. I 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, cioè sono oltre quelli del Piano, molti dei quali appena costruiti giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che con i costruttori si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Si attendono i dati dell'ultimo censimento, ma nel 2001 risultavano 193 mila appartamenti inutilizzati che, secondo molti, è una cifra molto sottostimata. Legambiente calcola almeno 250 mila appartamenti vuoti a Roma.

Uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano riserva come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento urbanistica del Comune di Roma: "Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente". Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato e sottoutilizzato, fosse già carta straccia. Inoltre, fa notare l'Inu, non vengono attuati 35 Piani di Zona già approvati per realizzare case popolari, cioè case di proprietà pubblica.

Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all'urbanistica, Marco Corsini, arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l'insediamento in Campidoglio nel 2008 per fronteggiare l'emergenza abitativa, molto alta nonostante le troppe case che si costruiscono ma che restano inaccessibili ai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. Che vuol dire case ad affitti agevolati, realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. Sei euro al metro quadrato, assicurano al Comune, l'importo di un affitto agevolato, 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, cucina e soggiorno. Ma su questa materia non esistono norme di legge, tutto dipenderà dalle convenzioni fra Comune e costruttori.

Appena eletto, Alemanno lanciò un bando per dare casa, diceva, a chi casa non se la poteva permettere - giovani coppie, single, studenti fuori sede, famiglie a basso reddito. Ma neanche poteva accedere alle liste per vedersi assegnato un alloggio popolare, che a Roma come in tutta Italia si costruiscono sempre meno. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l'approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che ha tempi molto più lunghi di quelli che mancano alla fine della legislatura (primavera 2013). Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune generi aspettative sfruttabili elettoralmente, faccia sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti e soprattutto inneschi meccanismi di valorizzazione fondiaria (un terreno edificabile vale enormemente di più rispetto a uno agricolo). Circolano depliant di cooperative edilizie, se ne parla sui social network.

Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la mappa degli "ambiti di riserva" che compare in rete è un florilegio di puntini neri sparpagliati dovunque, quasi un fiotto di coriandoli lanciati per aria e piovuti al suolo, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell'autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina.

I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell'Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale.

"Dal bando per l'housing ci aspettavamo un disastro", sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, "ma i risultati che Alemanno vorrebbe approvare sono peggiori di qualsiasi incubo. L'associazione dei costruttori aveva chiesto l'1 % del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2 %. Una brutta ipoteca sul futuro, visto che il sindaco non potrà mai vedere attuata prima delle elezioni l'assurda variante generale al Piano Regolatore scritta sulla base dei risultati di un bando, ma rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più". Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice "assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta ad una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell'Agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all'emergenza abitativa".

A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 insediamenti, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. In questi due Municipi risiede il Parco di Veio, da dove sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a Nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell'edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Segni, un edificio storico sull'Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito, insieme agli altri 159, nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di Roma.

16 luglio 2012

Il boom delle case non aiuta nessuno. Manca un’idea urbanistica di Roma

Giovanni Caudo intervistato da Francesco Erbani

"Costruire nuovi alloggi non basta a fronteggiare l'emergenza abitativa". Si allargherà il disagio delle famiglie e si abbasserà la qualità della vita nella Capitale. Ne risentiranno anche gli operatori immobiliari che ora credono di arricchirsi. Parla Giovanni Caudo, professore di Urbanistica a Roma 3

Giovanni Caudo insegna Urbanistica all'università Roma 3. Da anni studia le trasformazioni della capitale, in particolare il disagio abitativo che a Roma raggiunge livelli di emergenza e le politiche attuate per fronteggiarlo, compiendo raffronti con le principali realtà europee.

Professor Caudo qual è la logica urbanistica degli "ambiti di riserva"?

«Non c'è logica urbanistica. Da anni a Roma si fa urbanistica senza avere a cuore la cura per la città. Le scelte non incontrano i bisogni dei cittadini: si fanno più case, molte restano invendute, ma il disagio abitativo si allarga sempre di più».

Si può quantificare questo disagio?

«Sono 163 mila i romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato Roma per spostarsi nei comuni della provincia, si tratta della popolazione di una città come Cagliari. Sono gli stessi anni in cui si elaborava il Piano regolatore, con scelte urbanistiche presentate come "moderne" e "innovative"».

Che hanno prodotto quali effetti?

«Un urbanistica senza città e senza un'idea di città. Questo degli "ambiti di riserva", poi, è un provvedimento che ci allontana dalle altre città europee e ci avvicina a quelle del sud America, dove chi ha il suolo costruisce e il resto non conta».

Quale può essere l'effetto sull'emergenza abitativa?

«La prima conseguenza è sulle regole: viene affossato il Piano approvato appena nel febbraio del 2008. Un affossamento, va detto, programmato dagli stessi autori del Piano, che con un articolo delle norme di attuazione, il numero 62, hanno costruito il dispositivo che ne può scardinare il contenuto. Anche se le 160 proposte considerate compatibili non impegnano l'amministrazione, è altrettanto evidente che si alimentano delle aspettative che prima o poi peseranno».

Questo per le regole, e per le case a chi ne ha più bisogno?

«Il Comune con il Piano casa del marzo 2010 ha stimato il fabbisogno abitativo in 25.700 alloggi e ha deciso di utilizzare gli ambiti di riserva per collocarvi la quota di alloggi che non si riesce a reperire con altre iniziative. Non c'è un dimensionamento preciso, ma una stima prudente parla di 7 mila alloggi. Le 160 proposte compatibili portano però a un dimensionamento che è almeno dieci volte superiore».

Quindi l'obiettivo è altro?

«Bisognerebbe fare attenzione a usare il disagio abitativo. Per alcune famiglie è un dramma cresciuto negli stessi anni in cui a Roma si registrava un boom delle nuove costruzioni: dal 2003 al 2007 si sono costruiti quasi 52 mila alloggi, diecimila ogni anno. Un incremento percentualmente doppio di quello di Milano. Negli stessi anni il disagio abitativo è diventato insostenibile. Abbiamo visto quanti romani sono stati espulsi dalla città (il costo medio di un alloggio in provincia è del 43 per cento più basso rispetto alla media di Roma); gli sfratti eseguiti crescevano in un solo anno dell'8 per cento e quelli per morosità erano quasi l'80 per cento».

Ma le diverse amministrazioni hanno riflettuto a sufficienza su questi dati?

«L'espressione "emergenza abitativa" neanche compare nella relazione del Piano. Ripeto: crescevano le case costruite e aumentavano le persone senza casa. Alla Biennale Architettura del 2008, Francesco Garofalo dedicò il padiglione italiano al tema della casa: "Housing Italy. L'Italia cerca casa". In una mostra di architettura sostenevamo che costruire case non basta per contrastare l'emergenza abitativa, che c'è bisogno di politiche per la casa che toccano aspetti diversi e che ruotano attorno a una sola questione: aumentare la dotazione di case a costo accessibile, sia in affitto che per l'acquisto».

Non basta costruire.

«Occorre chiedersi per chi si costruisce, e il per chi si porta appresso il come, sia rispetto ai modelli costruttivi che a quelli della gestione degli immobili. In una parola bisogna fare delle politiche per l'abitare e non solo case. Roma avrebbe bisogno di un piano per "riabitare la città abitata", altro che cementificare l'agro romano».

Il sindaco Alemanno parla di housing sociale. «"Il cavallo di troia dell'housing sociale è ormai un gioco troppo scoperto perché qualcuno possa ancora abboccare. La sola cosa che sta a cuore a questa amministrazione è far costruire, non interessa dove purché sia».

Chi trae vantaggio da questa operazione?

«Gli operatori immobiliari, i proprietari del terreno che da agricolo diventa edificabile e che incassano incrementi di valore consistenti, le imprese che si sono assicurate la promessa di vendita del terreno nel caso che riescano a portare in porto l'operazione. Ma vorrei azzardare che si tratta di vantaggi apparenti, o per lo meno momentanei».

Che vuol dire?

«Nei momenti in cui il sistema economico produce ricchezza reale il settore immobiliare se ne avvantaggia perché patrimonializza quella ricchezza. E questo è stato anche l'uso anticiclico che si è fatto del settore edilizio in Italia. Tutto questo ormai appartiene a un'altra epoca, al secolo scorso. Oggi che il nostro sistema economico è in difficoltà strutturale, che ricchezza da patrimonializzare ce n'è sempre meno ci si illude di poterla inventare costruendo. Il sindaco Alemanno nella sua relazione al seminario sulle varianti urbanistiche dell'aprile scorso l'ha proprio teorizzato questo approccio quando ha parlato di "moneta urbanistica"».

Moneta urbanistica? La città come una banca dalla quale si incassa rendita?

«Più che una banca, direi che Roma diventa una zecca: non possiamo più stampare la lira e allora a Roma stampiamo metri cubi. Le centralità definite dal Piano regolatore, già cariche di cubature, in alcuni casi vedono raddoppiate le previsioni edificatorie; il bando sugli ambiti di riserva; i milioni di metri cubi promessi al privato in cambio della costruzione della metropolitana; le valorizzazioni dei depositi ATAC; poi le caserme e le altre iniziative di questo tipo: si rischia di inflazionare la "moneta urbanistica" e di produrre una perdita di valore complessivo. Gli alloggi invenduti sono il segnale che non basta fare leva sull'offerta; come dire: è inutile portare il cavallo a bere se non ha sete.»

La dissociazione fra politica e democrazia rappresentativa. Si è ormai consumata. Anche se si continua a parlare “come se”. Tutto fosse come prima. Quando l’arena “politica” era occupata dai partiti e i “politici”, di conseguenza, erano gli eletti dai cittadini.Nelle liste promosse e proposte dai “partiti”. Eppure non è così. Oggi in modo particolarmente esplicito ed evidente. Basta riflettere sulle vicende al centro del dibattito “politico” in questi giorni. Anzitutto, la polemica intorno alla presunta trattativa fra Stato e mafia, che vede coinvolto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “intercettato” durante le indagini, da un lato. I magistrati di Palermo, titolari dell’inchiesta, dall’altro. Accanto ad essi, altri soggetti istituzionali importanti. La Corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla legittimità dell’intercettazione e, soprattutto, del suo uso ai fini dell’inchiesta. Inoltre, il capo del governo, Mario Monti, il quale ha parlato di “abusi” nell’ambito delle intercettazioni. E, ancora, l’Anm, intervenuta a sostegno dell’azione della Procura di Palermo. Ma potrei elencare altri nomi, di altre figure, titolari di altre cariche istituzionali. Uno per tutti: Mario Draghi. Protagonista delle vicende relative all’economia e ai mercati. Le questioni che attraggono maggiormente l’attenzione pubblica. Il discorso non cambierebbe di significato. Per l’assenza, pressoché totale, di leader e soggetti di partito. “Eletti” in assemblee “elettive”. Segno che oggi la politica, in Italia, è guidata e influenzata da soggetti non direttamente espressi dai canali della rappresentanza democratica. Della democrazia rappresentativa.

Naturalmente, i magistrati (inquirenti, giudicanti e costituzionali) interpretano istituzioni e poteri “costitutivi” della democrazia. Che concorrono a “garantire” e sorvegliare. Il Presidente della Repubblica e il Capo del governo: hanno un ruolo di primo piano, nel sistema politico. E sono, ovviamente, espressi dagli organismi rappresentativi. Per primo: il Parlamento. I giornali e i giornalisti, gli intellettuali: sono gli attori protagonisti dell’Opinione Pubblica. Prerogativa e condizione essenziale della democrazia rappresentativa.

A conferma, però, che i partiti, oggi, partecipano al “campo politico” in misura laterale e subalterna. Questa situazione è stata provocata, anzitutto, da comportamenti e situazioni di privilegio che la crisi economica ha reso ancor più inaccettabili, per i cittadini. Ma anche dall’importanza assunta, sulla scena politica, da altri ambiti e canali. Anzitutto i media e la televisione. I teleschermi hanno, infatti, sostituito le piazze, la comunicazione e l’immagine hanno rimpiazzato il rapporto diretto con il territorio e la società. I “politici”, cioè gli uomini di partito, eletti nei parlamenti nazionali e anche locali, per conquistare il consenso, si sono mascherati da “gente comune”. Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari.

Per conquistare voti, per vincere le elezioni, i “politici” si sono presentati come “antipolitici”. Cioè: contro i partiti e i politici eletti nei partiti. Anche se, per essere eletti, hanno formato e fondato nuovi (anti) partiti.

Un’altra importante causa di delegittimazione della politica e dei politici è di tipo “tecnologico”. Questa, infatti, è l’epoca della Rete e del Digitale. Che influenzano tutto. L’economia, la politica, la vita quotidiana. I mercati: sono sempre aperti, dovunque. Scossi da emozioni e sentimenti a ciclo continuo. Fiducia e Sfiducia si propagano in tempo reale. E, si sa, Fiducia e Sfiducia sono il fondamento dei Mercati. Ma anche della Politica. Visto che la Politica, oggi, si fonda sull’andamento dei Mercati.

Ed essa stessa, a sua volta, è un “mercato”.

Le tecnologie della comunicazione: hanno trasformato anche e soprattutto le nostre abitudini quotidiane. Noi siamo in contatto con tutti, dovunque, in qualunque momento. Attraverso i computer, i telefoni cellulari, i tablet. E ora gli smartphone. Che sono computer, telefoni cellulari e tablet al tempo stesso. Tutti comunicano in tempo reale. Su Fb e Twitter. D’altronde, ciò che prima era custodito in immensi giacimenti cartacei oggi è digitalizzato.

Conservato in archivi immateriali. Siamo nell’era dell’Opinione Pubblica sempre in Rete. In cui tutti possono parlare ed essere ascoltati. Intercettati. In cui ogni documento, anche il più segreto, può essere scrutato, captato e divulgato. In Rete. Dove le Democrazie temono l’eccesso di trasparenza e di libertà. Dove Assange e Wiki-Leaks diventano la peggiore minaccia per le Patrie della Democrazia e dei diritti, come gli Usa e l’Inghilterra. Dove una band di ragazze diventa un rischio inaccettabile per un potere centrale e centralizzato, come quello della Russia. Che, più della protesta in piazza, teme il “ridicolo” diffuso in Rete. E si ribella alla ribellione “pop”. Pardon: punk.

In Italia, la rivoluzione digitale, la Rete, insieme alla degenerazione della Democrazia del Pubblico – portata alle estreme conseguenze da quasi vent’anni di berlusconismo – hanno minimizzato il ruolo e l’importanza dei “politici di partito”. E dei “partiti politici”. Oscurati dai Tecnici, dai Magistrati, dai Professionisti della Comunicazione. Non a caso, i soggetti politici di maggior successo, oggi, sono un Professore senza Partito, come Mario Monti (accolto con entusiasmo all’inaugurazione del Meeting di Rimini) e un protagonista della Rete e della Comunicazione (con grandi competenze nello spettacolo), come Beppe Grillo. Inseguito, a fatica, da un Magistrato Politico, come Di Pietro. Personalmente, mi preoccupa l’eclissi della democrazia rappresentativa e dei soggetti che, tradizionalmente, la interpretano. Tuttavia, ritengo la democrazia diretta, che corre in Rete, utile a correggere e arricchire la democrazia rappresentativa. Non a sostituirla.

Così, ci attendono tempi insidiosi. Perché non vedo futuro per la democrazia rappresentativa “senza” partiti. Ma neppure “con questi” partiti. Rischiamo altrimenti di assuefarci a una politica che si svolge fuori, oltre e sempre più spesso contro. I partiti.

Anni fa per Ferragosto impazzava la speculazione di Borse più folle. Oggi il governo dei “tecnici” nella pancia del Decreto Salvaitalia decide di varare la privatizzazione di uno dei maggiori Musei italiani – la Pinacoteca statale di Brera – aprendo con essa le porte alla privatizzazione proposta da Giuliano Urbani ministro berlusconiano e contro cui insorsero i direttori di tutti i maggiori musei del mondo. Nel torrido agosto 2012 quasi nessuno commenta la clamorosa notizia. Non c’è un ex ministro, un ex sottosegretario, un responsabile culturale di qualche partito importante, nessuna associazione (temo) che alzi un grido di allarme e di dolore. O almeno un vagito.

Che il ministro per i Beni culturali, il Magnifico Ornaghi, fosse persino più latitante del mellifluo Bondi lo sapevamo. Ma che lasciasse al più potente collega Corrado Passera il compito di dare il via alla maxi-privatizzazione tutta “politica” di Brera non era prevedibile. Fra l’altro il disegno di legge (al cui articolo 8 si prevede la privatizzazione di Brera) è stato “concertato” da Monti coi ministri dell’Economia, dello Sviluppo economico, della Giustizia, delle Politiche agricole, della Cooperazione e del Turismo, assente il solo Ornaghi (forse l’hanno lasciato dormire…).

Si crea infatti la “Fondazione la Grande Brera” col compito di “valorizzare” e gestire “secondo criteri di efficienza economica” il museo creato da Napoleone e dal figliastro Eugenio di Beauharneis razziando opere di grande pregio in tutta Italia (Piero delle Francesca a Urbino, Raffaello a Città di Castello, Barocci a Ravenna, ecc.). Il decreto stabilisce “il conferimento in uso alla Fondazione mediante assegnazione al relativo fondo di dotazione, della collezione della Pinacoteca di Brera e dell’immobile che la ospita” (un sontuoso palazzo del Piermarini dal quale tempestivamente il commissario Mario Resca ha cacciato la più antica Accademia di Belle Arti). Nella Fondazione di diritto privato “La Grande Brera” entreranno rappresentanti dei privati e degli Enti locali. Saranno loro a nominare i tecnici? Pensiamo proprio di sì. Quale primo atto si potrebbe aprire nel cortile piermariniano un bel ristorante tipico meneghino con risòtt e luganeghìn. Quale miglior valorizzazione?

Ma è costituzionale affidare ad una Fondazione privata un patrimonio pubblico ingentissimo, anche per qualità, arricchito da donatori privati (soprattutto nel ‘900) illusi di rendere ancor più grande la principale Pinacoteca statale di Milano e della Lombardia? Noi pensiamo proprio di no e ci meravigliamo che nessuno, sin qui, insorga e se ne indigni. E poi, cosa vuol dire uniformarsi nella gestione ai “criteri dell’efficienza economica”? Che i direttori dei musei italiani sono tutti degli incapaci perché non sanno trasformarli in “macchine da soldi”? Qui bisogna avvertire il ministro Passera (Ornaghi lasciamolo dormire) che i suoi super-ragionieri non sanno nulla della redditività dei musei: non sanno, ad esempio, che lo Stato francese copre ogni anno per il 60 % il passivo del Grand Louvre, dotato di servizi come un ipermercato (forse loro, in vacanza premio, lo credevano in attivo), o che il Metropolitan Museum di New York copre con le entrate proprie soltanto la metà dei costi. Vuol dire che a Brera si faranno mostre decisamente commerciali (magari Caravaggio ch’el tira tant), manifestazioni d’alta moda e simili, presentazioni di auto (se Marchionne ne produrrà ancora in Italia) e non più ricerca, mostre di ricerca, studi e indagini scientifiche? Vuol dire che, invece di far entrare gratis, come avviene, civilmente da noi, circa la metà degli utenti (anziani, giovani, scolaresche, studiosi, ecc.), si esigerà da tutti – al pari dei Musei Vaticani - un salato biglietto d’ingresso? “I beni culturali sono il nostro petrolio”, lo sentenziò l’on. Pedini Mario, ministro dei Beni Culturali, di cui si ricorda soltanto che faceva parte della Loggia P 2.

Al di là dell’ironia, la decisione del governo Monti, lungi dall’essere “tecnica” (come quella di vendere un po’ di gioielli pubblici), realizza in pieno le linee della politica che Berlusconi-Tremonti con la “Patrimonio Spa” e col discusso Museo Egizio di Torino ebbero soltanto modo di abbozzare. Ora essa viene varata col gran pavese. In nome, fate largo, dello Sviluppo. Tutti zitti?

Chi saranno i nuovi padroni della Pinacoteca di Brera? Non più i milanesi, né il popolo italiano: o almeno non solo.

Il Decreto Sviluppo varato dal ministro Corrado Passera il 26 giugno scorso, infatti, non si occupa solo di edilizia, trasporti o settore energetico, ma – all’articolo 8 – stabilisce che «a seguito dell’ampliamento e della risistemazione degli spazi espositivi della Pinacoteca di Brera e del riallestimento della relativa collezione, il Ministro per i beni e le attività culturali, nell'anno 2013, costituisce la fondazione di diritto privato denominata “Fondazione La Grande Brera”, con sede in Milano, finalizzata al miglioramento della valorizzazione dell’Istituto, nonché alla gestione secondo criteri di efficienza economica». Il decreto prevede «il conferimento in uso alla Fondazione, mediante assegnazione al relativo fondo di dotazione, della collezione della Pinacoteca di Brera e dell'immobile che la ospita», e prevede l’ingresso, come soci, degli enti locali lombardi e, quindi, di «soggetti pubblici e privati».

In poche parole: il governo Monti fa il primo grande passo verso la privatizzazione di uno dei principali musei italiani. Un passo sulla cui costituzionalità ci sarebbe molto da dire: possibile che conferire l’intera collezione di Brera ad una fondazione di diritto privato non leda l’articolo 9 della Carta? Ma i problemi non sono ‘solo’ di principio.

Esiste un unico precedente, quello del Museo Egizio di Torino: e non è un precedente brillante. E non tanto per la folcloristica presidenza di Alain Elkann (che scadrà a settembre), quanto per le gravi e paradossali conseguenze di una ‘privatizzazione all’italiana’. Le collezioni dell’Egizio sono state devolute alla Fondazione solo in parte (spezzando tra giurisdizioni diverse complessi archeologici unici), il personale scientifico ha optato di rimanere nello Stato (privando il Museo della più essenziale delle sue componenti) e il consiglio di amministrazione ha nominato la direttrice secondo logiche da manuale cencelli, senza nemmeno consultare il comitato scientifico. E le cicatrici di tutti questi gravi errori, solo in parte recuperati, sono ancora ben visibili.

Ora, ci si chiede, come si comporteranno gli enti locali lombardi, una volta insediatisi sulla plancia di comando della nuova Fondazione? Sarà bene non dimenticarsi che fino a qualche giorno fa ci saremmo potuti trovare la Minetti direttrice di Brera. L’invadenza degli enti locali in un museo di livello e interesse nazionale è un nodo cruciale: non a caso tra i sostenitori di questo tipo di soluzione si conta Dario Nardella, il vicesindaco di Matteo Renzi a Firenze, che come giurista caldeggiava già nel 2003 la cessione degli Uffizi ad una fondazione in cui gli enti locali avessero un peso decisivo. Altro che baloccarsi con l’idea di costruire la facciata michelangiolesca di San Lorenzo o di cercare il Leonardo fantasma sotto il Vasari di Palazzo Vecchio: vi immaginate l’escalation di strumentalizzazione politica della cultura se Renzi potesse nominare il direttore degli Uffizi?

Ma il punto più grave è un altro. Il decreto di Passera (ministro, di fatto, anche dei Beni culturali, vista la sostanziale sede vacante determinata dal sonno di Ornaghi) dice che il fine della fondazione saranno la valorizzazione (eventi, mostre, visibilità mediatica) e la diminuzione dei costi di gestione. Ma un museo come Brera è soprattutto un istituto di ricerca: che riesce a comunicare il suo patrimonio ai cittadini solo in quanto è in grado di produrre e innovare continuamente la conoscenza delle opere che conserva. E la stella polare del cda della Fondazione Brera non sarà certo la scienza, ma il marketing: e così un altro polmone di libertà intellettuale passerà sotto il ferreo dominio del mercato e del denaro.

L’esperienza ventennale della concessione ai privati dei cosiddetti servizi aggiuntivi dei musei italiani «assomiglia ad una soluzione di abdicazione rispetto a competenze centrali da parte degli enti pubblici di gestione» (così, già nel 2009, Stefano Baia Curioni e Laura Forti, economisti della Bocconi). La strada, ancora più radicale, della trasformazione dei grandi musei in fondazioni segnerà un’abdicazione dello Stato ancor più radicale: e con essa un inevitabile allontanamento dagli interessi della collettività.

E non è che l’inizio di un lungo autunno in cui, per pagare la speculazione mondiale sull’enorme debito contratto grazie al Partito Unico della Spesa Pubblica (ancora saldamente aggrappato ai vertici dello Stato), la generazione dei bancarottieri chiuderà in bellezza vendendosi i beni che i padri avevano lasciato alla comunità.

Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d’un tassello, anzi del perno, di tutt’intera un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la “trattativa” tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c’è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l’esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo

di nasconderla.

Questa è una prima considerazione. Ma c’è dell’altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come “potere dello Stato”, possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch’egli ritenga insidiate da altri poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d’una controversia sui caratteri d’un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona. Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d’una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull’altra, l’autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l’esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per

la sua parte, sono entrambi “custodi della Costituzione”. Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l’uno che l’altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d’una alleanza in vista d’una sentenza schiacciante. A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d’irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d’essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell’interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell’interesse della tranquillità del diritto.

C’è ancora dell’altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall’esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell’opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento. “In ogni caso”, dice la norma, l’intercettazione deve essere disposta da un tale “Comitato parlamentare”. che interviene nel procedimento d’accusa con poteri simili a quelli d’un giudice istruttore. Nient’altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d’accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull’utilizzabilità, sull’inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente. A questo punto, si entra nel campo dell’altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un “consapevole silenzio” dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell’art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell’esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione. La “irresponsabilità” comporterebbe “inconoscibilità”, “intoccabilità” assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest’interpretazione, che è una delle due: l’una e l’altra hanno dalla loro parte l’opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l’irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l’appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d’essere presidente della Repubblica. Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un’alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall’altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?

Coinvolgimento in una “operazione”, inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n’è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l’ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso “plusvalore” di chi dispone dell’autorità; un’altra cosa è l’informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità.

Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo “decreto” del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino “precedenti” tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori. Nella Repubblica, l’integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l’acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D’altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo.

Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata “leale collaborazione”, di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira – la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica – attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c’è d’un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s’è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d’applicare lealmente la legge?

UNA funzione essenziale delle leggi consiste nell’impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole. I giudici di Taranto nelNel caso di Taranto sembra accertato che la parte più forte, la proprietà dello stabilimento, abbia permesso che esso infliggesse da anni alla parte più debole, i lavoratori del sito insieme con l’intera popolazione della città, un tasso di inquinamento che i periti della Procura hanno ritenuto letalmente elevato. Nel caso di Pomigliano è comprovato, stando alla sentenza della Corte d’appello, che la Fiat abbia proceduto ad assunzioni discriminatorie, applicando il singolare principio per cui un’impresa assume soltanto quei lavoratori che abbiano in tasca una tessera ad essa gradita, o meglio nessuna.

Adesso ambedue le vicende sono giunte a un punto critico. I giudici di Taranto hanno disposto il blocco dell’attività produttiva sino a quando l’impianto non sia dotato di tecnologie antiinquinamento adeguate. Non si vede come avrebbero potuto decidere altrimenti. Un impianto siderurgico integrato tipo quello tarantino presenta due caratteristiche: tutti i suoi componenti, dal reparto sinterizzazione sino ai treni di laminazione, sono fortemente inquinanti; al tempo stesso non si può fermarne uno per metterlo a norma perché in un ciclo integrato fermare un componente significa bloccare tutti gli altri. Ma se si ferma tutto il sito circa 15.000 operai, tra diretti e indiretti, rischiano di restare senza lavoro. A Pomigliano quel che può succedere è che la Fiat metta in cassa integrazione un numero di nuovi assunti più o meno corrispondente agli iscritti alla Fiom che dovrebbe riassumere, visto che per gli attuali volumi produttivi, essa dice, gli addetti attuali sono più che sufficienti. In ambedue i casi, siamo da capo: la tutela della legge che i giudici hanno offerto ai più deboli rischia di essere vanificata.

Non si è qui dinanzi soltanto alle responsabilità del più forte, per quanto queste siano grandi. Nessuna delle due vicende sarebbe arrivata al punto in cui è oggi se i governi che si sono succeduti negli ultimi anni; i ministeri competenti, in specie quelli dell’Ambiente e dello Sviluppo (o dell’Industria, come si chiamava un tempo); nonché i partiti ieri contrapposti e oggi alleati nel sostenere il governo cosiddetto dei tecnici, non avessero dato in qualche modo un aiuto alle società coinvolte per aver mano libera o quasi nei loro siti produttivi. Che l’impianto di Taranto inquinasse dentro e fuori dei suoi cancelli era risaputo da anni. Senza risalire troppo indietro, basterà ricordare che l’Arpa della Puglia aveva trasmesso al ministero dell’Ambiente, nei primi mesi del 2008, un documentato rapporto circa i rischi derivanti dalla diffusione di sostanze velenose provenienti dall’impianto in questione. Tuttavia una lettera del ministero all’Arpa in data 8 agosto 2008 affermava seccamente che le rilevazioni effettuate a cura dell’agenzia non potevano essere ritenute valide. Non proprio una licenza di inquinare, ma in ogni caso un efficace contributo per perdere altri anni prima di intervenire.

Quanto a Pomigliano, è probabile che la Fiat non avrebbe osato attuare le sue pratiche discriminatorie se le cosiddette riforme del lavoro susseguitesi sin dai primi anni 2000, le posizioni dei partiti ancorché definitisi di centro-sinistra, più tambureggianti campagne mediatiche, non avessero fatto tutto il possibile per spingere in un angolo la Cgil e la Fiom come rappresentanti di un sindacato capace ancora di dire no, almeno ogni tanto, alle richieste sempre più intrusive dei diritti dei lavoratori avanzate dalle imprese. Sarebbe inaudito veder buttare fuori dalla fabbrica tanti operai quanti l’azienda deve riassumerne in forza della sentenza di appello. In gioco qui non è tanto il destino dei singoli, quanto un principio basilare della democrazia industriale.

Mentre a Taranto si tratta soprattutto di salvare il lavoro di migliaia di operai, davanti una disposizione dei giudici che a fronte delle responsabilità grandissime delle imprese e dei politici appare doverosa prima ancora che pienamente giustificata. Per farlo occorrono non soltanto soldi, che oltre allo stato la proprietà dovrebbe tirare fuori anche di tasca propria a fronte degli utili degli ultimi anni (le stime parlano di miliardi), ma anche invenzioni organizzative. Come, ad esempio, adibire gran parte dei lavoratori stessi ai lavori di ristrutturazione ambientale dello stabilimento. Nessuno conosce quell’impianto meglio di chi ci lavora; e molte professionalità potrebbero essere utilizzate nei lavori di ristrutturazione con un periodo relativamente breve di formazione. Su questo punto non è ammesso dire che non è possibile, prima ancora di approfondire la questione. Quel che non sembrava possibile, consentire all’impianto tarantino di avvelenare insieme i suoi addetti e la popolazione, lo stato e i suoi ministeri lo hanno già fatto. Ora hanno il dovere di imboccare al più presto la strada opposta, quella di un’opera di risanamento che non fa pagare il prezzo per una seconda volta ai lavoratori e alla città.

E’ vero che la legge di revisione della spesa non assegna al ministro per i beni e le attività culturali alcuno specifico compito attuativo. E se ne intende bene la ragione. Perché la legge approvata con la fiducia tra luglio e agosto, nel suo articolo 23ter, come già l’articolo 33 della legge 111 del 2011 (la legge di stabilizzazione finanziaria), non modifica in alcun modo il rigoroso regime del demanio culturale come disegnato nel codice dei beni culturali e del paesaggio. Lo aveva sfrontatamente modificato, con il dichiarato fine di dare “massima attuazione al federalismo demaniale”, la legge 116 del 2011 (con le sue “prime disposizioni urgenti per l’economia”), aprendo le maglie dell’assegnazione ai comuni dei beni dello stato, esclusa per i beni di interesse culturale pur soltanto presunto: l’art. 4, comma 16, di quella legge aveva modificato per i soli beni immobili uno dei consolidati requisiti della tutela, spostando a settanta’anni il limite temporale a ritroso che convenzionalmente fin dalla pioniera legge del 1909 era stato fissato al riconoscimento dell’interesse storico e artistico delle “cose”(non essendo soggette alla disciplina di tutela “le cose … la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquant’anni”).

Ebbene, se la legge di revisione della spesa lascia invece integra la disciplina dettata dal codice dei beni culturali e del paesaggio per il patrimonio pubblico, assoggettato alle stringenti regole degli articoli 12 e 53 – 55, si deve constatare che rimangono integralmente estranei all’automatismo di quella legge, con i complessi meccanismi del suo articolo 23ter, i beni di interesse culturale, pur soltanto presunto, e dunque ai costituendi “fondi comuni di investimento immobiliare” potranno essere trasferiti soltanto i beni immobili (la cui esecuzione risalga ad oltre settant’anni) che siano stati riconosciuti privi di alcun interesse culturale con una espressa dichiarazione negativa (che spetta alle direzioni regionali del ministero).

Se il ministro per i beni e le attività culturali non è chiamato a partecipare agli sviluppi attuativi della spending review, alla sua diretta responsabilità è affidata la vigilanza sul rispetto della esclusione del demanio culturale dall’ambito esecutivo della nuova disciplina legislativa.

Sa bene il ministro che il patrimonio pubblico è presidiato dalla presunzione di interesse culturale in forza della quale ogni bene (se immobile) la cui esecuzione risalga ad oltre settant’anni, pur se non sia stato oggetto di formale riconoscimento, è assoggettato al regime del codice dei beni culturali e che i beni immobili di interesse culturale degli enti pubblici territoriali (quindi stato e comuni) costituiscono il demanio culturale. Sa bene che il bene pubblico è soggetto a tutela pur se rivesta un interesse culturale non qualificato, a differenza del bene di appartenenza privata per il quale requisito della tutela è l’interesse culturale “particolarmente importante”; che la vendita dei beni del demanio culturale è preclusa per quelli cui si riconosca valore identitario, come documenti della storia delle istituzioni, e che l’alienazione è altrimenti ammessa (su specifica autorizzazione delle direzioni regionali del ministero) quando “assicuri la tutela, la fruizione pubblica e la valorizzazione dei beni” e che l’osservanza delle prescrizioni dettate al riguardo per conservazione e destinazione è rafforzata dalla clausola legale di risoluzione espressa. Un regime del tutto incompatibile con i meccanismi automatici e indiscriminati - e con gli stessi fini - della legge di revisione della spesa, perciò inapplicabili al demanio culturale.

Non può aver dubbio il ministro che la riserva del demanio culturale, così strutturato, non è forzata dalla legge che avvia il procedimento di valorizzazione economica degli “immobili di proprietà dello stato non utilizzati per finalità istituzionali” “allo scopo di conseguire la riduzione del debito pubblico”, attraverso la costituzione dei “fondi comuni d’investimento immobiliare” affidati alla gestione esclusiva del ministero dell’economia e delle finanze. Spetta al ministro per i beni e le attività culturali presidiare quella riserva con la doverosa fermezza (mettendo innanzitutto in allerta i suoi direttori regionali).

Le recenti scoperte di nuove risorse naturali in parecchi paesi, agosto africani – tra i quali Ghana, Uganda, Tanzania e Mozambico – sollevano un interrogativo importante: queste risorse insperate costituiranno una benedizione in grado di apportare benessere e speranza, oppure diventeranno una maledizione politica ed economica. In media, i paesi ricchi di risorse hanno avuto un rendimento addirittura inferiore a quello dei paesi privi di tali fortune. Sono cresciuti con maggiore lentezza e con maggiori sperequazioni. Proprio il contrario di quello che ci si sarebbe potuti aspettare. Dopo tutto, fissare imposizioni fiscali a tassi elevati sulle risorse naturali non ne provocherà la scomparsa, e ciò implica che i paesi le cui risorse naturali costituiscono la principale fonte di reddito possono utilizzarle per finanziare l’istruzione, l’assistenza sanitaria, lo sviluppo e la ridistribuzione. Si è andata sviluppando una vasta letteratura in campo economico e in quello delle scienze politiche, mirante a spiegare questa “maledizione delle risorse”.

Tre degli ingredienti economici di questa maledizione sono ben noti: 1) i paesi ricchi di risorse hanno la tendenza ad avere forti valute, che ostacolano le esportazioni di altri prodotti ; 2) tenuto conto che l’estrazione delle risorse comporta spesso un’esigua creazione di posti di lavoro, la disoccupazione aumenta; 3) i prezzi oscillanti delle risorse determinano che anche la crescita diventa instabile; a ciò contribuisce anche il fatto che le banche internazionali accorrono quando i prezzi delle materie prime sono alti e se ne allontanano non appena si palesa una recessione (riflettendo così il principio da tempo confermato secondo cui i banchieri prestano i loro soldi soltanto a chi non ne ha bisogno). Inoltre, il più delle volte i paesi ricchi di risorse non perseguono strategie di crescita sostenibili. Non riescono a capire che se non reinvestono le ricchezze ottenute tramite le loro risorse in investimenti redditizi sul campo, in realtà si impoveriscono sempre più. Le disfunzioni politiche, infine, esacerbano il problema, proprio come le lotte per l’accesso alle rendite delle risorse stesse portano a governi corrotti e non democratici. Per contrastare ciascuno di questi problemi esistono antidoti anch’essi ben noti: un basso tasso di cambio, un fondo di stabilizzazione, investimenti prudenti dei proventi delle risorse (anche tra la popolazione del paese stesso), il divieto a contrarre prestiti, e la trasparenza (così che la popolazione possa quanto meno vedere i capitali andare e venire). Cresce però il consenso sul fatto che queste misure, per quanto necessarie, non sono sufficienti: per aumentare la probabilità che dalle risorse nasca una “benedizione ” è indispensabile che i paesi che si sono arricchiti da poco prendano ulteriori provvedimenti.

Prima di ogni altra cosa, questi paesi devono fare molto di più per garantire che la cittadinanza riscuota l’intero valore delle risorse locali. Invece, esiste un inevitabile conflitto di interessi tra le società che hanno il controllo delle risorse naturali (e che di solito sono straniere) e i paesi che le accolgono. Le prime vogliono ridurre al minimo le loro spese, mentre i secondi hanno bisogno di portarli al massimo. Vendite all’asta ben organizzate, competitive e trasparenti potrebbero generare introiti molto più cospicui di quelli derivanti da transazioni effettuate con condizioni eccessivamente favorevoli. Anche i contratti dovrebbero essere trasparenti e garantire che qualora i prezzi scendessero – come è accaduto ripetutamente – i guadagni supplementari imprevisti non vadano soltanto alle società estere di sfruttamento delle risorse. Purtroppo, sono tanti i paesi che hanno già firmato contratti svantaggiosi e concedono quindi una percentuale spropositata del valore delle loro risorse alle società private straniere. Esiste però un modo per sopperire a ciò: rinegoziare tutto. E qualora ciò non fosse possibile, imporre una tassazione delle sopravvenienze attive. Cosa altrettanto importante, i capitali messi insieme grazie alle risorse naturali possono essere impiegati per promuovere lo sviluppo. Le potenze coloniali di un tempo consideravano l’Africa alla stregua di un luogo dal quale estrarre meramente risorse. E alcuni dei nuovi acquirenti continuano a mantenere questo atteggiamento. Si sono realizzate le infrastrutture (strade, ferrovie, porti) con un unico obiettivo in mente: far uscire dal paese le risorse naturali al prezzo più basso possibile, senza compiere alcuno sforzo volto a incentivare la lavorazione locale delle risorse, per non parlare dello sviluppo di industrie in loco per il loro effettivo sfruttamento. Per uno sviluppo reale è indispensabile invece scandagliare tutte le possibili connessioni: la formazione di lavoratori locali, lo sviluppo delle piccole e medie imprese affinché forniscano input per le attività estrattive e per le società petrolifere e del gas, una lavorazione locale, l’integrazione delle risorse naturali nella struttura economica del paese in questione. A contare davvero è il vantaggio relativo dinamico, o il vantaggio relativo sul lungo periodo, che può essere condizionato. Quarant’anni fa la Corea del Sud aveva un vantaggio relativo nella coltivazione del riso, ma se si fosse limitata a questo unico punto di forza oggi non sarebbe il colosso industriale che è diventato. Sarebbe potuta rimanere il produttore di riso più produttivo al mondo,ma sarebbe rimasta povera.

Traduzione di Anna Bissanti Copyright: Project Syndicate, 2012

Qualcuno l'ha definita «la rivoluzione dell'Apecar»; qualcun altro, invece, semplicemente la risposta libera degli operai più coraggiosi che si sono sottratti alla morsa dell'Ilva e alla contrapposizione tra lavoro e salute. Lo scorso 2 agosto, in occasione della manifestazione di Cgil, Cisl e Uil a Taranto contro la chiusura dello stabilimento siderurgico, un gruppo di lavoratori e cittadini, alcuni a bordo di un Apecar, hanno preteso la parola. Ne avevano chiesto il permesso per tempo senza ottenere risposte dai sindacati. Il tutto con un unico obiettivo: evidenziare l'esistenza di tanti operai che non ci stanno a rivendicare il lavoro a tutti i costi, anche a scapito della salute. Tra di loro c'era Cataldo Ranieri, operaio del siderurgico, ex delegato sindacale e impiegato presso gli impianti marittimi (carico del minerale e partenza del lavoro finito). Per lui, portavoce del comitato «Cittadini e lavoratori liberi e pensanti», il provvedimento di ieri del gip Todisco era necessario.

Non bastava quanto scritto dal Tribunale del Riesame?

Evidentemente no. L'azienda faceva finta che non fosse successo nulla, continuava a produrre interpretando erroneamente il provvedimento. Avevano fatto la stessa cosa anche quando fu emessa la prima ordinanza. Anzi, addirittura in quel caso produssero di più degli altri giorni dopo aver fatto credere a gran parte dei lavoratori che il sequestro fosse già esecutivo. Attraverso i capi reparto, ci dissero che gli impianti erano chiusi e ci spinsero a manifestare bloccando la città. Quello sciopero fu voluto e favorito dall'azienda salvo poi detrarne le ore dalla busta paga anche a chi rimase nello stabilimento a lavorare.

Il suo comitato sta riscontrando molta simpatia nel quartiere Tamburi, a ridosso dell'Ilva e più inquinato,ma non solo. Chiedete alternative economiche. Non le piace il suo lavoro?

Tutti i 12 mila i lavoratori del siderurgico tarantino, se potessero scegliere, farebbero un altro lavoro. Noi chiediamo che si discuta di riconversione della città perché per anni sono state sacrificate tutte le risorse di un territorio splendido. È stato fatto anche perché noi operai non potessimo scegliere, ci hanno condannati a morte. Oggi, però, non voglio che i miei figli continuino a vivere in un ambiente poco sano.

E se l'Ilva mettesse a norma gli impianti seguendo ogni prescrizione della Magistratura? Sarebbe una soluzione, o no?

Il problema è proprio questo: Riva non lo farà mai, è molto più probabile che scelga di chiudere. È per questo che i politici e i sindacalisti, più che fiancheggiare l'azienda nel tentativo di smontare il lavoro della magistratura, farebbero meglio a concentrarsi sul futuro, su come dare una nuova economia a questo territorio. Considerando che gli stipendi dei dipendenti gravano sugli utili dell'azienda non più del 10%, si potrebbe spegnere gradualmente il siderurgico in 3-4 anni e, nel frattempo, avviare le bonifiche, restituire alla città le aree demaniali e favorire nuovi investimenti.

Ha subito ripercussioni nello stabilimento dopo le sue prese di posizione?

Sì. È sempre accaduto dato che da anni denuncio, come altri colleghi, ciò che non funziona nel siderurgico. Proprio in questi giorni mi è stato notificato un provvedimento disciplinare. Il motivo? Ho deciso di non firmare più il registro di presenza delle riunioni periodiche che vengono promosse sulla sicurezza. Trovo inutile che tali informazioni vengano diffuse se poi, quando noi operai cerchiamo di applicarle, diventiamo un problema.

Ha paura?

Certo, potrei perdere il lavoro. Non posso però chiudere gli occhi e non fare niente. Sono prima cittadino di questa città, poi operaio.

Il processo di vendita dei beni immobiliari pubblici era iniziato nella metà degli anni '90, ma i numerosi provvedimenti bipartisan hanno prodotto risultati modesti. Oggi la vendita annunciata dal governo Monti si farà perché la crisi economica favorisce l'efficacia dei provvedimenti.

I beni da vendere appartengono a quattro categorie. I beni culturali, e cioè i gioielli che rappresentano la storia e il prestigio del nostro paese, luoghi spesso a disposizione di tutta la popolazione. Beni che sono alla base di uno degli articoli fondamentali della prima parte della Costituzione verranno svenduti senza remore: non ce lo possiamo permettere più, secondo la religione dei professori. Vedremo che dirà al riguardo il Presidente della Repubblica che in passato ha richiamato all'intangibilità delle radici culturali dell'Italia.

Il secondo gruppo appartiene ai beni strumentali, cioè a tutte quelle proprietà che tuttora ospitano una funzione pubblica. Si tratta di servizi scolastici, sanitari e sociali, di uffici che formano la sempre più debole trama pubblica delle nostre città. È evidente che la loro alienazione provocherà un ulteriore passo indietro per milioni di cittadini che vedranno cancellati preziosi servizi e la rete civica di convivenza. Il terzo gruppo appartiene ai (non tantissimi) beni non in uso: caserme dismesse, ospedali già soggetti alla forbice dei ragionieri, scuole ubicate in aree in cui la popolazione giovane è merce rara. Beni su cui in linea generale è difficile non convenire sul fare cassa. Ma non a tutti i costi. Le pubbliche amministrazioni spendono ingenti quantità di denaro per affitti di immobili privati. Alcune scuole sono vecchie e fatiscenti. Decine di migliaia di famiglie nelle grandi città vivono in grave disagio abitativo. Perché non si redige un piano di rientro dalle esposizioni per affitti passivi utilizzando anche a fini sociali gli immobili pubblici dismessi? Rischiamo una nuova beffa, come per la vendita degli alloggi degli enti pubblici, appannaggio a quattro soldi anche di ministri in carica.

L'ultimo gruppo è un'ulteriore sottolineatura della natura non tecnica del governo in carica. Un anno fa la stragrande maggioranza dei cittadini italiani si è espressa sul mantenimento di alcune prerogative in capo ad aziende pubbliche: questo è il senso inequivocabile del referendum sull'acqua. Ma il quarto segmento della svendita è rappresentato proprio dai beni di proprietà della aziende municipalizzate. Un colpo micidiale alla cultura dei beni comuni. La folle dottrina liberista, dopo aver provocato la crisi a partire dai mutui subprime statunitensi e averla aggravata con la bolla immobiliare spagnola, vuole continuare a guadagnare sulle macerie. La svendita del patrimonio immobiliare pubblico non avrà alcun effetto per far uscire il paese dalla crisi economica. Servirà a far quadrare i bilanci di molti istituti di credito e fondi speculativi che a parole si dice di combattere. E servirà a far arretrare le vite di coloro che fin qui «hanno vissuto sopra le loro possibilità», come dice il professor Monti. Obiettivo da raggiungere anche svendendo le radici del nostro paese.

Dear Prime Minister Monti...”. Così si apre la missiva con la quale il professor Lionel Salem ringrazia il presidente del Consiglio per aver reso possibile la restituzione alla sua famiglia del meraviglioso Cristo portacroce di Girolamo Romanino, che apparteneva alla Pinacoteca di Brera. Ma non è una lettera di cortesia. Il mittente chiede che ora Monti faccia staccare di corsa un altro quadro rinascimentale dalle pareti di Brera – una Madonna col Bambino attribuita a Bernardo Zenale – e glielo spedisca a Londra il più speedly possibile. I due quadri facevano parte della collezione del nonno di Salem – Federico Gentili, ebreo e console italiano a Parigi fino al 1940 – e vennero venduti all’asta dal governo di Vichy nel 1941. Secondo la famiglia, quella vendita si dovette alle leggi razziali: su questa base, un tribunale francese ha deciso la restituzione di cinque quadri del Louvre.

L’Avvocatura generale dello Stato italiano, invece, fin dal 2001 aveva dato parere negativo. E questo sia perché lo Stato aveva acquistato i quadri sul mercato (dopo alcuni passaggi di mano), sia – soprattutto – perché la vendita del 1941 non sarebbe legata alle persecuzioni, ma a un debito gravante sull’eredità del Gentili, morto nel 1940.

Dello stesso parere, nel 2012, la Commissione interministeriale per il recupero delle opere d’arte: i quadri non vanno resi alla famiglia, ma sono lecitamente posseduti dallo Stato. Dunque, com’è possibile che il 7 giugno scorso il Romanino di Brera sia stato battuto da Christie’s a New York per la bellezza di 3.650.000 euro, finendo in mano a un collezionista privato ed estero? È stato forse rubato nottetempo? Nossignori, il Romanino è stato vittima della ‘valorizzazione’ : immolato sull’altare della dottrina del marketing abbracciata da tutti gli ultimi ministri dei Beni culturali e perfezionata da Lorenzo Ornaghi. Per quest’ultimo è opportuno, anzi necessario, organizzare a ritmo continuo mostre promozionali all’estero: non importa dove, non importa come, e soprattutto non importa se a prezzo di “qualche rischio”.

Nel 2011, infatti, il Romanino è stato incluso tra i 50 quadri che Brera ha spedito alla mostra Baroque Painting in Lombardy, in Florida. Peccato che Romanino c’entri col Barocco come la Minetti con le novene mariane, o che il Mary Brogan Museum For Art and Science di Thallassee non sia proprio il Metropolitan: la Ragion di Stato imponeva che Brera pagasse un tributo alle celebrazioni di “ITALY@150”. Non appena il quadro è sbarcato negli Stati Uniti gli agenti federali sono entrati nella mostra, hanno staccato il quadro dal muro e lo hanno consegnato alla famiglia che ne richiedeva la restituzione, la quale lo ha prontamente messo all’asta. Con tanti saluti a Brera.

Ora, un cittadino si chiede: se la soprintendente di Caserta invia a 19 istituzioni un verbale di tre pagine per ottenere “ogni notizia utile al recupero” di una zuccheriera e di un cucchiaino “stampati in argento del secolo XX” sottratti a una canonica di Benevento (e non è un exemplum fictum), come diavolo è stato possibile che la soprintendente di Milano nonché direttrice di Brera abbia fatto uscire dall’Italia un quadro strepitoso sul quale da dieci anni pendeva un simile contenzioso? E ora, cosa risponderà il “Dear Prime Minister Monti” al suo cortese corrispondente? Deciderà di sconfessare la posizione giuridica del Mibac, che non riconosce i titoli dei vecchi proprietari, cedendo spontaneamente un altro quadro di Brera, e costituendo così un precedente esiziale? O terrà la linea fin qui seguita dall’amministrazione, negando la restituzione? In quest’ultimo caso, l’errore di Brera apparirebbe in tutta la sua clamorosa gravità, e la Corte dei conti dovrebbe domandarsi di chi siano le responsabilità di questo pazzesco danno erariale. Come rileva l’ottimo sito storiedell’arte.com, la direttrice del museo di Thallassee ha dichiarato che i colleghi italiani erano terrorizzati non tanto dalla perdita di un capolavoro, quanto dall’eco mediatica della vicenda. Nell’amministrazione dei Beni culturali tira, in effetti, una pesante aria di censura.

Niente potrebbe essere più sbagliato: sulla tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio urge un’apertissima riflessione pubblica. A meno di non voler continuare a perdere i pezzi.

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