IL PROF-PENSIERO
«Lo Statuto ha limitato i posti di lavoro»
In videoconferenza, come da un'astronave aliena, il presidente del consiglio ha ammannito ai convenuti all'Università di Roma Tre alcune pillole del suo pensiero economico-sociale. Liberismo allo stato puro, senza alcuna contaminazione con la società reale. Vediamole.
Alcune disposizioni della legge 300 del 1970 (lo «Statuto dei lavoratori») «pur ispirate all'intento nobile di difendere i lavoratori, hanno contribuito a determinare una insufficiente creazione di posti di lavoro».
In passato «c'è stato uno scarto tra l'etica delle intenzioni e l'etica della responsabilità. Alcune decisioni importanti puntavano a fare bene, ma spesso non sono state contraddistinte da pragmatismo».
«Certe disposizioni, giustamente, tese a tutelare le parti deboli nei rapporti economici hanno finito, impattando nel gioco del mercato, per danneggiare le stesse parti che intendevano favorire».
Per farsi capire bene, visto che in materia di diritto del lavoro è facile scivolare nell'enunciazione di princìpi non sempre facili da rintracciare nella realtà empirica, Monti ha pensato bene di fare un esempio alla portata di tutti: quello della casa.
«Certe norme sul blocco dei fitti hanno reso difficile la disponibilità di alloggi in affitto a favore di coloro che si volevano tutelare».
Non è affatto difficile arrivare alla conclusione che, nella filosofia di Monti, ogni «protezione» sociale debba essere eliminata perché produrrebbe - suo malgrado - il contrario di quel che si prefigge. Quindi, nella giungla dei rapporti economici tra «deboli» (il singolo richiedente lavoro) e «forti» (gli imprenditori di qualunque livello), i primi avrebbero tutto da guadagnare.
Come sempre, fin dai tempi di Berlusconi, nel pomeriggio è arrivata la precisazione minimizzante. Le parole del premier «non avevano alcun intento polemico». Quella di Monti sarebbe solo «un'impostazione di lunga data» (viene allegato un testo scritto dallo stesso Monti «il 24 aprile 1985»). Appunto.
La provocazione di Mario Monti sullo Statuto dei lavoratori non poteva restare senza risposta e contestazioni di merito, anche perché stavolta è andato decisamente fuori del suo campo. Su più campi.
Sul piano politico-sindacale, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha sentito subito puzza di bruciato. «Non vorrei che qualcuno, siccome non c'è una idea su nulla, si reiventasse una logica contro i lavoratori. Mi pare che abbiamo fatto già abbastanza contro i lavoratori». Una logica che appartiene al «peggiore liberismo, quello che ha teorizzato che la diseguaglianza abbia fatto crescere il mondo mentre sono quattro anni che il mondo non sa uscire dalla crisi determinata proprio da quella logica lì». Una dimostrazione del fatto che «questo governo non ha idea su cosa fare per lo sviluppo e la crescita. È la ripetizione di un film già visto. Si continua a riproporre ricette che hanno già dimostrato la loro fallimentarietà oppure si butta la palla in un altro campo».
I diritti del lavoratore
I giuslavoristi, naturalmente, entrano nel merito e nella «filosofia» che Monti butta lì come un'ovvietà. Giovanni Naccari, una vita nella consulta giuridica della Cgil, lo Statuto dei lavoratori l'ha visto nascere. «Monti è sicuramente un bravo economista di scuola liberista ma quando esce dal suo campo dice cose che non hanno riscontro nella realtà; né sotto il profilo scientifico, né dei contesti storici». Soprattutto, non sta in piedi l'idea che esista una contraddizione tra «quantità dei diritti» e «quantità dei posti di lavoro». In fondo, si tratta del solito tentativo di far passare un lavoratore «protetto» dal diritto come un «fannullone» o un privilegiato, ammiccando esplicitamente alle sacche di clientelismo esistenti in alcuni settori. «Chi è che ha voluto decenni di regalie e clientele? La stessa classe dirigente che ha voluto Monti premier».
Sul piano scientifico, al contrario, «la compatibilità tra diritti e sviluppo è acclarata» (il «libro bianco» di Delors); e anche tra efficienza e proprietà statale (Massimo Severo Giannini). Naccari ricorda che «allora erano d'accordo tutti, anche le imprese e Gianni Agnelli; erano consapevoli di poter avere una tregua nel conflitto sociale, che avrebbe prodotto sviluppo economico». Del resto, non è mai stato vero che le imprese tendono a non assumere se sanno di non poter licenziare: «i licenziamenti collettivi» per stato di crisi sono sempre stati possibili, la Fiat, nel 1980, mandò via in un sol colpo 23.000 lavoratori.
La «stagione dei diritti» arrivò al culmine di un forte periodo di crescita (il «boom») e fu interpretata come un «doveroso scambio» con la lunga compressione imposta in precedenza («sia sotto la dittatura fascista che nel ventennio successivo»). Un «modello» che non ha caratterizzato soltanto l'Italia ma l'Europa intera, contemporaneamente; al punto che «oggi i cinesi stanno studiando il nostro sistema di welfare». Lo sfruttamento senza diritti, infatti, «funziona nel periodo di 'accumulazione originaria'», quando un paese passa a forza dalla dimensione agraria ad una industriale. Poi deve «sviluppare il mercato interno». L'espansione dei diritti, dunque, è figlia di una visione «lungimirante ed evoluta», «smorza tensioni che avrebbero ripercussioni economiche enegative». Oggi, dopo anni di «riforme pensionistiche» e del mercato del lavoro, «abbiamo lavoratori anziani licenziabili e giovani precari per sempre; è questa la società che hanno in mente?». Lo Statuto recepisce un principio costituzionale che nel lavoro cerca l'«emancipazione della persona», non solo l'agente economico. Certo, per chi vede il mercato secondo la vulgata protestante (il «successo come prova del favore divino»), tutti i diritti dello Statuto (studio, riunione, ecc) appaiono un intollerabile «spreco».
Casa, affitti, equo canone
Con l'esempio sulle case Monti cade platealmente nella demagogia. «Certe norme sul blocco dei fitti hanno reso più difficile la disponibilità di alloggi a favore di coloro che si volevano tutelare». Ma le «norme», da sole, non fanno il mercato. L'economia reale conta un po' di più. E là dove non c'è - come in Italia negli ultimi 30 anni - una «politica della casa», ecco restringersi improvvisamente «l'offerta» di abitazioni, che facilita la salita dei prezzi (sia dell'acquisto che degli affitti).
Una prova? Guardiamo i dati (del 2004, ma la situazione è anche peggiorata dopo le «cartolarizzazioni» di Tremonti). In Italia le case popolari costituiscono solo il 4% del totale delle abitazioni occupate. In Francia la percentuale sale al 17%, nell'iperliberista Gran Bretagna al 18, tra i «rigoristi» del nord Europa si arriva al 20% della Svezia, al 25 dell'Austria e addirittura al 35% dell'Olanda. Anche alla Bocconi dovrebbero sapere che il rapporto domanda/offerta pesa più delle «norme», bene o malintenzionate che siano.
L’ultima vicenda delle città in vendita spetta a Firenze. Appena si scende dalla stazione ferroviaria di Santa Maria Novella per andare verso il centro storico si passa per la piccola piazza dell’Unità d’Italia. Vi affacciano due alberghi di livello, lo storico Baglioni e il Majestic. Dalle loro finestre c’è la vista meravigliosa sul campanile e sul transetto di S. Maria. Il panorama dall’ultimo piano è – ovviamente – unico e straordinario: figuriamoci quale livello di bellezza ed esclusività si potrebbe raggiungere soprelevando gli edifici esistenti.
E quì entrano in gioco le regole e le città in vendita. Siamo nel centro storico di Firenze, uno dei più straordinari esempi della storia delle città e le regole parlano chiaro: gli edifici esistenti non possono superare l’altezza di venti metri. Quando l’hotel Baglioni chiese di poter soprelevare oltre il consentito l’ultimo piano dell’edificio per ricavarne un ancor più meraviglioso roof garden, quelle regole urbanistiche vennero invocate dalla commissione edilizia comunale che bocciò inevitabilmente la proposta. Era il 7 luglio 2011.
Ma siamo il paese dove le regole vengono aggiustate in relazione alle esigenze di chi esercita il potere e si mette in moto la potente macchina dei legulei. Nella normativa del comune di Firenze esiste un’unica eccezione: le strutture pubbliche possono – ovviamente in casi di assoluta necessità – chiedere di derogare dal divieto di soprelevazione. Ma un albergo è una struttura privata e non potrebbe avvalersi di quella possibilità. Occorre che sia “assimilata” a una struttura pubblica, e cioè che venga giudicata di pubblica utilità.
Il 26 luglio 2012 – poco tempo fa e la vicenda ha avuto eco solo per la denuncia della consigliera comunale Ornella De Zordo da sempre in prima fila nella difesa della città – una nuova riunione della commissione edilizia approva la sopraelevazione. Il trionfo dell’economia senza regole prosegue senza alcun ripensamento: a chi investe, specie in un momento di crisi economica, deve essere consentito tutto, anche di alterare il cento storico di Firenze.
C’è da chiedersi come sia possibile che chi ha espresso il parere positivo non si sia reso conto che l’eccezione approvata per il Baglioni potrà essere invocata dalla decine e decine di alberghi esistenti a Firenze, ad iniziare dall’adiacente Majestic oggi caratterizzato da un’altezza inferiore al Baglioni. Dovrebbe essere chiaro a tutti che le regole valgono fintanto che le amministrazioni pubbliche hanno la capacità di farle rispettare. Se sono proprio quelle istituzioni ad aggirarle si mette inevitabilmente in moto un processo dagli esiti imprevedibili.
Un’ultima questione. L’hotel Baglioni ha messo sul piatto della bilancia 20 mila euro (un modesto obolo) “per riqualificare la piazza”. La morale accettata dal comune di Firenze è dunque questa: siccome non ho risorse per rendere più bella e più vivibile la città, accetto che venga alterata la sua memoria storica perché posso averne in cambio soldi per finanziare opere pubbliche! E pensare che negli anni ’80 l’Italia era un fulgido esempio nel mondo per le regole che tutelavano i centri storici.
Ora c’è una sola via di uscita. Il sindaco Matteo Renzi potrebbe trovare un piccolo ritaglio di tempo nella sua nuova attività di candidato alle primarie del Pd, ricordarsi che era stato eletto per governare Firenze e cancellare la vergogna. Non ci si può candidare a governare un paese se nella propria città le regole sono poco più che carta straccia e si aggredisce la sua storia.
Torna il rischio di una nuova colata di cemento sul verde lombardo. L’assessore regionale ai Trasporti ciellino Raffaele Cattaneo è infatti pronto a dare ai concessionari di autostrade i diritti per costruire immobili anche ai bordi delle stesse. Cioè nelle aree finora protette dalle cosiddette "salvaguardie", e riducendo contemporaneamente gli oneri di compensazione a favore degli enti locali. L’opposizione di centrosinistra e le associazioni ambientaliste annunciano battaglia oggi in Commissione Territorio. L’emendamento 4 ter all’articolo due del progetto di legge 146 presentato dall’assessore Cattaneo parla chiaro: la deroga ai vincoli di salvaguardia si «applicherà anche agli interventi infrastrutturali su cui sono già stato apposti i vincoli». In altre parole, anche ai progetti già in fase di esecuzione. Come la nuova autostrada Broni-Mortara e Cremona-Mantova.
O la nuova Tangenziale Esterna Est. Opere che saranno realizzate in aree già molto edificate. La maggioranza di centrodestra conta di approvare le modifiche già nella seduta di oggi per portarlo in Consiglio regionale alla prossima seduta martedì 25. Si tratta del terzo tentativo dopo i due falliti. La prima volta quando la Regione cercò di inserire la modifica nella nuova legge urbanistica. La seconda un anno fa, quando l’articolo 36 della legge Cresci Lombardia, che ampliava i contenuti delle concessioni autostradali per coprire i costi delle opere, fu stralciato a furor di popolo dopo le proteste del centrosinistra e l’allarme lanciato da Legambiente.
«C’è il rischio che la Regione, pur di far costruire autostrade inutili che nemmeno più le banche vogliono finanziare, favorisca gli speculatori edilizi - denuncia il presidente lombardo di Legambiente Damiano Di Simine - Se passa questa legge il rischio è che le rampe delle autostrade diventino l’accesso a grandi lottizzazioni che consumeranno altro suolo».Il consigliere regionale del Pd Franco Mirabelli annuncia che il suo partito farà le barricate. «La cosa più grave - attacca - è che con il nuovo testo la Regione si arroga di decidere di dare la possibilità di costruire anche in prossimità degli svincoli autostradali». Secondo la Regione, invece, l’obiettivo della legge è solo «di «favorire il concessionario dell’autostrada che affronta onerosi investimenti per la realizzazione dell’opera».
postilla
Per capire cos’hanno in mente i poco fantasiosi proponenti di questa “norma strisciante” (nel senso che lavora sulle strisce autostradali) non c’è bisogno di ragionare troppo: basta riguardarsi qualche mappa del rapporto Urban Sprawl in Europe: the Ignored Challenge (2006) e vedere come già spontaneamente l’insediamento di varie attività impropriamente definite urbane si vada a collocare di fianco alle infrastrutture. I nostri eroi vogliono solo dare un ben assestato aiutino alla naturale tendenza degli spiriti animali dell’imprenditoria locale. Quella che chiede sussidi per realizzare capannoni da lasciar vuoti perché già impegnata a chiedere nuovi sussidi per nuovi scatoloni altrove … In tutto il mondo civile si discute di sostenibilità, tutela delle superfici agricole e naturali, mobilità dolce, e invece chi si dichiara pronto a una specie di secessione per diventare il terzo o quarto motorino di sviluppo europeo, con la cosiddetta Macroregione, ci offre questa prospettiva. Ovvero muratori magari in nero, speculatori, giochetti per aggirare le poche norme ambientali, e sopra tutto la grande regia (come certificato dalla magistratura) della criminalità organizzata. Stiamo freschi. Mandiamoli a lavorare (f.b.)
“Riparare il mondo”, scriveva Alex Langer (vedi la bella pagina che Adriano Sofri gli ha dedicato su Repubblica di ieri). Oggi che il nostro modello di sviluppo appare infartuato, e si parla di crisi di sistema, le persone come Langer (e come Laura Conti, Antonio Cederna, Aurelio Peccei, fondatori dell’ambientalismo italiano) ci sembrano davvero profeti inascoltati. Se prima qualcuno poteva illudersi che per creare posti di lavoro si dovessero ferire terra, acqua e aria, e sperperare paesaggio, oggi ci accorgiamo che rovina ambientale e caduta dell’occupazione sono, in un paese come il nostro, facce della stessa medaglia. E che “riparare il mondo”, come chiedeva Langer, qui in Italia non è solo una missione culturale e politica; è anche, se non soprattutto, una gigantesca occasione di nuovo lavoro, nuova economia, nuovo e diverso sviluppo.
Come tantissimi italiani non so ancora per chi votare, quando sarà il momento. Ma cercherò di votare per chi, più degli altri, si avvicina al concetto di “riparare il mondo”. Bloccando la cementificazione folle e sterile, la corsa stupida alla “crescita”, e dunque crescendo davvero.
Una intuizione sul presente disagio della civiltà europea: sulla sfiducia, sul risentimento che monta contro l’Unione. Quel che non convince è il linguaggio dei proponenti, ed è il vuoto di iniziative che l’annuncio prefigura. Non basta affibbiare agli antieuropei un epiteto – populista – che svilisce ogni loro argomento ed è quindi inadatto a reintegrare quel che si sta disgregando. Anche la bellicosa parola lotta è incongrua, soprattutto quando la strategia si riduce a quella che Monti chiama «manutenzione psicologica e politica» di tanto diffuso malessere. Manca l’analisi dei motivi per cui si moltiplicano i moti di rigetto, nati da un’austerità che ha sin qui generato recessione e povertà. Manca soprattutto una rifondazione dell’Unione che vada oltre la manutenzione.
«Io penso semplicemente a una riflessione, non al percorso successivo», così Monti a Sarajevo: come se fosse sufficiente un dibattito, nel quale i medici d’Europa si chinano, sicuri delle proprie ricette, sui pazienti che giacciono ai loro piedi sempre più infermi e meno pazienti. Se così stanno le cose è proprio il percorso successivo che conta, ben più del dibattito. Se quasi tutto un popolo, in Germania, attende il verdetto che domani darà la Corte costituzionale su Fiscal compact e Fondo salva-Stati, e se l’attende nella convinzione che la sovranità del Paese e del suo Parlamento siano stati lesi in nome dell’Europa, vuol dire che siamo in un’epoca di nervosità, di torbidi, nella quale ciascuno Stato e ciascun popolo è in lotta contro il presunto nemico del bene. Chi combatte tali nemici non ha bisogno di mettere se stesso in questione, di inventare farmaci diversi. La colpa è tutta dei populisti, dicono in Italia. È tutta dei debitori, dicono in Germania. Non dimentichiamo che Schuldin tedesco significa due cose, debito e colpa: spostata sul terreno morale, la battaglia si fa cruenta. Non dimentichiamo che Weidmann, governatore della Bundesbank, è sconfitto nella Bce ma vincitore politico in patria.
Occorre dunque che i capi di governo e le comuni istituzioni facciano l’Europa veramente, ne discutano con le società (Parlamenti nazionali, Parlamento europeo), e non si limitino alla gestione psico-politica di popoli minorenni o depressi. Occorre, da parte dei comandanti d’Europa, quella che Albert Hirschmann chiama auto-sovversione, auto-confutazione: non sono fallite solo le misure ma anche le dottrine dominanti, avendo prodotto un’Unione divisa fra creditori e debitori, e aumentato disuguaglianze e povertà. Una lotta d’altro genere s’impone, che conduca all’Europa politica: rifondando ed estendendo i perimetri geografici dell’agire politico, partitico, democratico. Dando all’Unione una costituzione vera, scritta dai popoli rappresentati nel Parlamento europeo e sottratta al “possesso” degli Stati. L’obiettivo non è astratto. Urgono piani di investimento, e una crescita che sarà duratura a patto di cambiare natura (puntando su ricerca, energie alternative, istruzione, comune difesa): solo un governo europeo può farlo – con un bilancio consistente approvato da un comune Parlamento – visto che gli Stati non hanno più soldi. Gli esperti concordano nel dire che i risparmi sarebbero enormi se la crescita fosse fatta in comune, e consentirebbero cali di tasse nei singoli Paesi.
Solo così si dimostrerà che a comandare non sono lontani oligarchi, e che le terapie adottate sono confutabili come è confutabile in democrazia ogni politica, ogni leadership. L’ultima mossa di Mario Draghi è ottima, ma finché a muoversi è un organo tecnico, per legge a-politico, non affiancato da un governo, un Tesoro, un fisco europeo, è mossa insufficiente. Se i politici pensano che il grosso è fatto, grazie a Draghi, si sbagliano: perché tocca a loro l’azione decisiva, e il grosso non consiste né nella lotta ai populisti né nella cura di mantenimento. L’una e l’altra mantengono lo status quo e fanno morire la politica, che in democrazia è ricerca di alternative e conquista di consenso popolare, non di consenso dei mercati. Quelli che vengono definiti populismi sono figli di questo status quo, e di questa morte. Ci s’indigna quando Grillo dice: «I politici sono morti che camminano». Sono parole fatue, essendo rivolte indiscriminatamente a tutti. Ma sono vivi i politici, e la sinistra, e la destra? Se tutti aspettano i governatori della Bce o i giudici di Karlsruhe come si aspetta Godot, vuol dire che c’è del vero nell’ira gridata da Grillo: sono quattro anni che i governi sono impelagati in politiche sterili, che hanno portato paesi come la Grecia a una contrazione di redditi e servizi pubblici senza eguali nel dopoguerra, che hanno azzerato il controllo democratico sui rimedi dell’Unione, e dilatato l’imperio di oligarchie allergiche alla politica per obbligo o per scelta. Che è la manutenzione dell’esistente, se non perpetuare la tara dell’euro-senza-Stato?
L’Europa unita si farà solo con i popoli, e solo se la politica riacquisterà il primato ceduto negli anni ’70 ai mercati. Rinascerà – la politica come professione– se si trasforma alle radici, se le scelte fatte sono riconosciute sterili, come il chicco di grano che solo morendo produce molto frutto. La via non è abolire i partiti, o il contrasto classico destra-sinistra. Il liberalismo si nutre del conflitto fra idee alternative della società, della politica, dell’economia. Il migliore è selezionato nella gara, nella disputa. Dai tempi di Pericle questo è democrazia: «Qui a Atene noi facciamo così. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Benché in pochi siano in grado di dare vita a una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla». Come giudicarla, se chi confuta è ostracizzato come populista? Resta che la disputa dovrà mutare volto, e rotta. Sinistre, destre, partiti, sindacati dovranno dare una dimensione europea a programmi e delibere, e imparare l’agorà dell’Unione. Non possono nascondere a militanti e cittadini che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi, che sono troppo piccoli nell’economiamondo. Mai le sinistre riusciranno a salvaguardare il modello sociale e democratico della Comunità postbellica, se l’ottica resta nazionale.
Sovvertire se stessi non significa abolire destra e sinistra, e sognare comitati d’affari che curino, al posto di inetti politici, interessi e poteri di industrie obsolete. Anche questo va ricordato: sono i comitati d’affari che, fidando per trent’anni nelle virtù riequilibratrici dei mercati, hanno causato la crisi del 2007-2008. Auto-confutarsi serve a scoprire quali sono le nuove linee divisorie: tra forze che chiedono un’Unione federale, eforze aggrappate a sovranità nazionali fasulle. Prendere il potere in Europa e non più nella nazione, visto che è lì e non qui che esso si esercita: ecco la missione per sinistre e destre. Un vertice dell’auto-sovversione: questo sì sarebbe benvenuto!
Napolitano ha detto proprio questo, il 6 settembre a Mestre, parlando di nuove mapped’Europa: nell’Unione non esistono discorsi simili, lungimiranti e severi sulle cose fatte e da farsi. Il Presidente ha denunciato i limiti delle misure anti-crisi, e indicato la via d’uscita. I partiti (parafrasando Paul Reynaud, fondatore con Monnet della Ceca) devono europeizzarsi o perire. Non cadono infatti dal cielo, «il ripiegamento, l’immeschinimento, la perdita di autorità della politica». O l’«impoverimento ideale (delle forze politiche), gli arroccamenti burocratici, l’infiacchimento della loro vita democratica, il chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale».
Di questo degenerare sono artefici i partiti, non il mercato, e a loro spetta sanarlo, cessando di stipare l’Unione negli armadi della politica estera. Le parole di Napolitano sono altamente realistiche, non retoriche. Invocando l’europeizzazione di Stati, partiti, movimenti, egli cita un padre del federalismo, Mario Albertini: «Il “punto di non ritorno” (dell’unità europea) non potrà essere che propriamente politico. È il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il potere europeo».
Lottare per la conquista del potere in Europa e per il suo controllo democratico: non è missione piccola, per una sinistra che voglia salvare i due pilastri dell’unità europea concepiti nel pieno dell’ultima guerra; il pilastro antinazionalista e quello dello Stato sociale, il Manifesto di Ventotene dell’agosto ‘41 e il rapporto Beveridge sul Welfare del novembre ’42. Anche le destre hanno contribuito al doppio pilastro (da Adenauer e De Gasperi a Kohl): oggi constatiamo che son divenuti custodi delle vecchie sovranità nazionali. È un buon programma, per una sinistra che non vuol perire, come ha fatto per decenni, dedicandosi alla pura manutenzione.
Metti una sera a cena, con la Fiom. In realtà le cene sono una decina e i dibattiti ancora di più, dallo scorso venerdì fino a domenica prossima. I metalmeccanici della Cgil stanno chiamando a rapporto a Torino la politica - diciamo la sinistra in tutte le sue varianti, comprese quelle a cui il termine sinistra va stretto - e la società per capire se è possibile costruire un percorso comune, e con chi, per tirare il paese fuori dalle secche della crisi senza lasciarsi alle spalle il lavoro e i diritti.
Quello in corso a Torino è il primo appuntamento dopo l'assemblea del 9 giugno, quando il sindacato di Landini chiamò a confronto i segretari dei partiti antiberlusconiani, parlamentari ed extra, per sapere se il lavoro c'entri qualcosa con i loro programmi di governo. Tradotto in pillole di programma: uno schieramento antagonista alla destra e in discontinuità con il «vulnus» tecnico di Monti, abolirà l'art.8 di berlusconiana memoria che cancella i contratti nazionali, nonché le sciagurate modifiche all'art.18 di marca montiana che lo svuotano di significato? E qual è l'idea di sviluppo, e il ruolo dello stato nell'economia che questo ipotetico schieramento «alternativo» ha in mente?
Se sul piano della politica classica saliranno a Torino, a discutere con Landini e Airaudo, i segretari Di Pietro, Vendola, Ferrero e Fassina (l'unica differenza rispetto al primo round di Roma il 9 giugno è l'assenza del segretario Pd Bersani, l'aggiunta invece è la presenza di Pallante dell'Mds, vicino al Movimento 5 stelle), su quello più vicino ai movimenti della società vanno segnalati i No-Tav, una realtà a cui la Fiom non ha mai fatto mancare il suo appoggio. Sarà la vicepresidente dei Verdi al parlamento europeo, Monica Frassoni, a discutere con i metalmeccanici la scelta tra gli investimenti per le grandi opere e un'idea completamente diversa della tutela e dello sviluppo economico e democratico del territorio.
In casa Fiom un sindacato «naturalmente» industrialista si interroga liberamente su cosa, dove e come produrre, cioè sulle compatibilità sociali e ambientali del lavoro, e lo fa insieme a chi alza la bandiera della decrescita. Si parlerà di vecchie povertà, quelle dickensiane, e nuove povertà, prodotte dalla crisi e dalle ricette liberiste per (non) uscirne, insieme a Marco Revelli. Ci si chiederà con economisti di diverso orientamento se ha un senso, e quale e come, finanziare le imprese. Si parlerà di giornali che sentono il fiato caldo della crisi sul collo e una volta ancora la Fiom farà la sua parte, sostenendo il manifesto con una cena di finanziamento, ma troverà uno spazio di ascolto anche un giornale che nasce: Pubblico.
Giorgio Airaudo, segretario nazionale della Cgil con un occhio particolarmente attento a Torino che è stata la sua palestra sindacale, ricorda che oggi si costituirà presso la Corte di Cassazione il comitato promotore dei due referendum sul lavoro (art.8 e art.18). Airaudo plaude all'obiettivo difficile e importante raggiunto: «Grazie alla disponibilità dell'Idv si è messo in moto un fronte molto ampio che consentirà di portare i temi del lavoro dentro la campagna elettorale». Ma non si fa soverchie illusioni: quello schieramento non è automaticamente l'embrione di uno schieramento ampio che abbia al centro i temi del lavoro e dei diritti, che però bisognerebbe costruire. «C'è chi, non solo nel Pd, pensa che il lavoro sia un tema del passato. C'è chi, nel Pd, si dichiara dalla parte di Marchionne senza se e senza ma, come ha fatto Renzi». «Nelle primarie del Pd il lavoro non c'è», è la sua amara constatazione. Però Airaudo, Bersani l'aveva invitato, ma verrà Fassina. Invece il Pd, nella sua festa torinese la Fiom non l'aveva invitata, a costo di non parlare della Fiat. Se poi anche nel partito di Bersani passa l'idea cara al presidente Napolitano che chiunque vinca le elezioni il segno della politica economica dovrà essere in continuità con quella messa in atto da Monti, c'è poco da farsi illusioni.
Perché proprio a Torino questo appuntamento? Perché da qui, con il modello Marchionne, è partito tutto. Perché Torino, aggiunge Airaudo senza far sconti al nuovo sindaco Pd Piero Fassino, è la città più indebitata d'Italia e sceglie di tagliare il welfare e appaltarne le briciole ai privati, cooperative disposte a competere abbattendo i diritti di chi ci lavora. «E' inquietante che a parte la Fiom, e certo con più autorevolezza, l'unico a parlare di declino della città sia il vescovo, che non si fa scrupoli a chiamare in causa la famiglia Agnelli-Elkann».
Non sarà, è la domanda che si ripete noiosamente dal 9 giugno, che la Fiom vuole farsi partito? La risposta è sempre la stessa: la Fiom è un sindacato e vuole fare sindacato. Ciò non vuol dire che sia indifferente a quel che avviene in politica.
La battuta che circola tra gli oltre diecimila soci è questa: «Siamo Italia Nostra, non Milano Nostra». Ma lo scontro interno tra le due anime della gloriosa associazione fondata, tra gli altri, da Giorgio Bassani, e che il 15 settembre dovrà eleggere il suo nuovo presidente, non è banale questione di campanilismi. In ballo, invece, c’è una scelta che potrebbe profondamente modificare le strategie di Italia Nostra, in particolare il suo rapporto con le istituzioni e i poteri forti.
Sembra ormai certo che la nomina a presidente sia una corsa a due tra Nicola Caracciolo, attuale vicepresidente nazionale nonché protagonista delle molte battaglie della sezione toscana, e Marco Parini presidente del presidio milanese dell’associazione. Se alla vigilia dell’elezione dei 24 consiglieri nazionali sembrava scontato un accordo per la nomina di Caracciolo, a sparigliare la situazione sono arrivati i 1300 voti dei soci lombardi (4 mila i votanti complessivi) che hanno fatto venire a Parini la voglia di provarci. È quindi scattata la caccia alla preferenza e la ricerca di alleanze. A fare da ago della bilancia non c’è tanto la presidente uscente, Alessandra Mottola Molfino, la cui gestione non ha entusiasmato molti soci («uno dei periodi più tristi nella
vita della benemerita associazione » è la definizione dell’architetto Vezio De Lucia), quanto piuttosto un gruppetto di consiglieri di grande peso come l’urbanista Edoardo Salzano, e la professoressa Maria Pia Guermandi. Per tutti, la sfida che attende Italia Nostra è quella di farle recuperare quel ruolo, culturale e politico, di interlocutore istituzionale con ministeri, direttori della pianificazione e dell’urbanistica, funzionari e assessori regionali, per poter incidere nelle future scelte legislative a iniziare dal tema delle tutele in materia di paesaggio.
Come e con quale spirito dipenderà anche da chi sarà il nuovo presidente. I sostenitori di Caracciolo appartengono a quella tipologia di soci che, accanto alla prestigiosa matrice culturale di Italia Nostra, ne apprezzano anche il lato «movimentista», che condividono le battaglie di molti comitati di cittadini. I milanesi, invece, si presentano più moderati. Per molti attivisti di Italia Nostra i “milanesi” sono stati troppo tiepidi su alcune vicende importanti come il progetto per il park adiacente la basilica di sant’Ambrogio. Anche su una delle eccellenze dell’associazione, come il Boscoincittà, primo progetto italiano di riforestazione urbana e centro didattico, era stato ritenuto poco combattivo l’atteggiamento dei soci della Madonnina di fronte all’allora sindaco Letizia Moratti che tenne in sospeso il rinnovo della convenzione, poi siglata dal successore Giuliano Pisapia.
Ma quello che davvero ancora pesa sul curriculum della sezione lombarda, è quella clamorosa “gaffe” dell’inizio del 2011 quando, con l’intento di pubblicare un’antologia critica che rivisitasse il pensiero di Antonio Cederna – un altro dei padri di Italia Nostra –, i milanesi provocarono una tale sollevazione di intellettuali e ambientalisti da far addirittura interrompere la stampa del volume. Un ricordo che il 15 settembre non sarà ancora certamente evaporato.
Questa volta è colpa dei tarli del terzo millennio e dell’umidità, se la trave (moderna) ha ceduto a Villa dei Misteri e non si vedono ancora i benefici del grande piano per Pompei presentato in aprile da Monti e da quattro Ministri. Piano presentato in prefettura a Napoli. Non ancora, perché la prima seduta di gara per la valutazione dei progetti per le prime cinque domus pompeiane, prevista per l’11 settembre, è stata spostata al 17 causa ricorsi. Ma la macchina è avviata e ogni tre mesi circa le gare per i progetti saranno espletate con regolarità, informano in soprintendenza. Un meccanismo studiato alla perfezione, tanto da ottenere dall’Unione europea il finanziamento di 105 milioni su fondi Fesr: la salvezza di Pompei in quattro capitoli — messa in sicurezza di strutture e impianto urbano a partire da aree qualificate ad alto rischio dalla “Carta archeologica del rischio”; irreggimentazione e drenaggio
delle acque nell’area non scavata demaniale che incombe sulla strutture antiche (e che fu alla base del crollo della cosiddetta Casa dei Gladiatori a novembre di due anni fa); messa in sicurezza restauro e valorizzazione secondo la metodologia della conservazione già programmata e infine miglioramento della dotazione e delle competenze tecnologiche della soprintendenza. Ed anche in cinque punti, i piani esecutivi: quello della conoscenza, delle opere, della fruizione e del miglioramento di servizi, della sicurezza e del rafforzamento tecnologico e della capacity building.
Bei concetti. Ottime intenzioni. Ma innanzitutto secondo le valutazioni già espresse dai tecnici sotto la soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, le necessità economiche per salvare Pompei dal degrado al quale è esposta soprattutto da due anni in qua, non è di 105 milioni, ma almeno di 500 milioni. 44 ettari scavati, tre quarti dei 66 totali, 1500 domus, 3 km di perimetro e confine e 56 mila metri quadri considerati ad alto rischio sono cifre spropositate anche per la disponibilità dei fondi Fesr messi a disposizione dal-
l’Europa senza alcuna integrazione, anzi con previsione di ulteriori tagli da parte del governo italiano. Il recupero alla fruibilità, per il Grande Piano per Pompei, è infatti di 23 mila metri quadri soltanto: come si vede, la metà di quelli considerati a rischio.
Il tallone di Achille dell’area archeologica tra le più importanti al mondo, Patrimonio dell’Umanità per l’Unesco dal ‘97, continua a essere incredibilmente, una cosa che uno dei suoi più grandi scopritori, l’archeologo Amedeo Maiuri, aveva risolto con mezzi di molto inferiori allo spiegamento di forze che lascia intuire un progetto del terzo millennio. Si chiama ordinaria manutenzione. Ricordando che i fondi del Grande Piano sono europei, quello che lo Stato italiano ha fatto per Pompei è circoscritto all’invio — pure necessario — di 8 architetti, 12 archeologi e 1 amministrativo: una squadra a ranghi ridotti, di veri eroi, che sta lavorando senza tregua per l’analisi e la diagnosi dei luoghi. Una corsa contro il tempo e contro le precipitazioni atmosferiche. Una corsa con il fiato corto, perché il degrado arriva comunque prima. Manutenzione ordinaria invece era quella che è stata spazzata
via dai commissariamenti straordinari e dalla loro filosofia, tesa al conseguimento immediato di benefici dalla vita breve.
La salute di un monumento è provata dal termometro della quotidianità e quando il mercurio continua a scendere, senza portare a febbroni improvvisi ai quali porre rimedio diventa difficile. Fino a una quindicina di anni fa a Pompei esisteva una squadra che si occupava dei piccoli danni quotidiani. Crolli minimali o rischi prospettati di volta in volta attraverso ispezioni continue. Gli “ispettori” giravano con un piccone telescopico, che arrivava anche ad altezze elevate, con cui sondavano la tenuta delle pietre, lo stato dei legni, la forza dei perni e dei chiodi. In caso di dubbi, l’intervento era immediato. In questo modo la grancassa del crollo avvenuto, a cui assistiamo da alcuni anni, in cui si arriva a paradossi dove la notizia arriva prima alla tv e poi alla soprintendenza, sarebbe un sistema da dismettere perché finalmente inutile.
Martedì mattina alla Corte di Cassazione si costituirà ufficialmente il comitato promotore dei due referendum sul lavoro inizialmente presentati dall'Italia dei valori e successivamente aperti a un ampio arco di forze politiche, sociali, sindacali, intellettuali impegnate nella difesa dei diritti e della democrazia. Del comitato faranno parte, insieme a Di Pietro e ad alcuni suoi rappresentanti, giuslavoristi, giuristi, intellettuali (due nomi importanti tra gli altri, Stefano Rodotà e Umberto Romagnoli), dirigenti della Fiom e della Cgil (non solo Gianni Rinaldini, motore della ricomposizione unitaria e coordinatore della minoranza «La Cgil che vogliamo»), di Rifondazione e di Sel, di Alba e non è escluso che del comitato faccia parte anche l'eurodeputato del Pd Sergio Cofferati che milioni di persone identificano con la battaglia in difesa dell'art.18, e che ha già dichiarato al manifesto la sua adesione alla campagna. Da ottobre a dicembre, e cioè nel cuore della campagna elettorale, si svolgerà la raccolta di firme che consentirà - costringerà? - un vastissimo schieramento politico e sociale a lavorare gomito a gomito nei banchetti su un obiettivo comune: il ripristino della democrazia nei luoghi di lavoro.
«Un bellissimo risultato», dice senza mezze parole Massimo Torelli, di Alba. Il comitato esecutivo dell''Alleanza lavoro benicomuni ambiente' ricorda che nelle motivazioni che l'hanno fatta nascere c'è «l'affermazione di una nuova idea di politica e convivenza civile fondata sulla partecipazione, i diritti sociali e la rimessa in discussione del modello economico e sociale dominante». Aggiunge Alba che «questi referendum su/per il lavoro non fanno che rappresentare una prima importante affermazione e un imprescindibile punto di partenza per il riscatto del nostro paese». Abolire l'art.8 dell'ultima manovra del governo Berlusconi che cancella il contratto collettivo nazionale, fatta propria dal governo Monti che le ha trovato una prima applicazione con il contratto nelle ferrovie di Italo, la società di Montezemolo; abolire le modifiche imposte all'art.18 ancora dal governo Monti, sostenuto da uno schieramento inedito che comprende il Partito democratico. L'esigenza di ricostruire una nuova cultura di sinistra attraverso una pratica che parta dai contenuti: Alba lavora alla «costruzione di una grande risposta di popolo» capace «di riaprire il campo al futuro e alla speranza, dando voce all'indignazione diffusa e al radicale desiderio di cambiamento». Che oggi ha un primo strumento di lavoro: «Una grande campagna referendaria unitaria per la riappropriazione dei diritti sul lavoro e sulla democrazia». Siccome da cosa nasce cosa, per l'esecutivo di Alba c'è un altro aspetto che meriterebbe un altrettanto vasto e rappresentativo schieramento per avviare una campagna «che colpisca il secondo pilastro dell'azione del governo Monti: il fiscal compact, quel meccanismo con il quale si impongono tagli al welfare e svendita del patrimonio pubblico». Il segretario del Prc, invece, punta il dito sulla riforma delle pensioni imposto di Fornero.
Forse, però, per evitare di disperdersi in mille rivoli, conviene intanto concentrarsi sui due referendum già depositati, anche se è ovvio che sotto accusa è l'intera politica economica italiana ed europea, imposta dalla troika ai governi, che agita gli spread per modificare i rapporti di potere nella società, cancellando diritti fondamentali, privatizzando, presentando ai più deboli il conto dei guasti prodotti dalle ricette liberiste. Riducendo la politica stessa ad ancella del capitale finanziario. È l'esigenza di riportare al centro del confronto politico e dei programmi la difesa della quantità e della qualità del lavoro che ha consentito la formazione di un comitato referendario così ampio. Al punto che anche le ossessioni identitarie, per una volta, non hanno prevalso lasciando il posto a una battaglia sui contenuti. Un modo diverso da quello prevalente per costruire le alleanze.
Nell'icona "Il ritorno a casa dei lavoratori", di Edvard Munch
La Bulgaria ha reso noto di non avere interesse all'ingresso nell'Unione Europea fino a che questa non avrà risolto i suoi problemi. Questa dichiarazione misura quanto il sogno di un'Europa unita, promosso dai suoi padri fondatori e condiviso da milioni di cittadini, sia stato tradito.
Non che le politiche della Comunità, poi Unione, Europea siano mai state tali da accendere l'entusiasmo dei suoi cittadini; ma la crisi scoppiata nel 2008, che ha visto le politiche europee ridursi a una corsa affannosa prima per salvare le banche responsabili del dissesto, e poi per «rassicurare» i cosiddetti mercati, cioè gli speculatori che ingrassano sui debiti pubblici dei paesi membri, ha portato le istituzioni dell'Unione a una resa dei conti. Mentre i governi si trastullano con gli spread in una serie di riunioni inconcludenti che ne evidenziano incapacità e impotenza, ma sostanzialmente la resa ai poteri della finanza internazionale, la coesione sociale della compagine europea - di cui l'economia non è che una manifestazione, e neanche la principale - ha ormai imboccato la strada della dissoluzione.
Di questo disastro che coinvolge un intero continente (e con esso il resto del mondo), e delle scelte che l'hanno provocato, l'Italia è senza dubbio l'espressione più compiuta: l'inconsistenza dei suoi governanti, si tratti di «tecnici», di politici o di clown, è lo specchio (certo deformante) di una mancanza di prospettive e di una miseria intellettuale che accomuna tutto l'establisment europeo; e non a caso, ma per la sua subordinazione senza alternative ai poteri della finanza. Che cosa sarà dell'Europa - e che cosa sarà del mondo - domani, tra dieci anni, tra venti, a metà del secolo? Nessuno di loro sa rispondere (ci mancherebbe...). Ma nemmeno si pone il problema.
La Grecia è certo più avanti di noi lungo il sentiero dello sfascio sociale e politico, ma l'Italia la sta seguendo a ruota. Il pareggio di bilancio e il fiscal compact segnano il cammino lungo un itinerario già tracciato e destinato a travolgere uno dietro l'altro tutti gli altri membri della compagine europea. D'altronde neanche la Germania, che sembra attendere sulla riva del fiume il cadavere degli altri «Stati membri» dell'Unione, sta più tanto bene.
All'intervento pubblico che in Italia, ma non solo, ha avuto nell'industria di Stato uno dei suoi strumenti principali, viene oggi imputato, sulla base dei canoni dell'ideologia liberista, lo stallo in cui è incorso lo sviluppo del «miracolo economico». Senza prendere mai in considerazione l'ipotesi che quello stallo, che ormai riguarda in misura maggiore o minore tutto il pianeta, comprese le economie «emergenti» che si sono lanciate all'inseguimento di quel modello portandolo al parossismo, sia invece riconducibile a problemi di tutt'altro genere: l'insostenibilità sociale e ambientale e la saturazione dei mercati dei beni inutili.
No, ci viene detto ora. La causa di quello stallo e dei disastri che l'accompagnano è l'intrusione di una classe politica squalificata dentro i meccanismi dell'economia, senza ricordare che quella classe politica ha avuto per più di mezzo secolo, e fino a ieri, il sostegno di tutta l'imprenditoria italiana, delle sue associazioni e dei media che l'hanno difesa in tutti i modi. Così, invece di adoperarsi per rinnovarla, il rimedio che la cultura e la pratica liberiste hanno trovato ai guai veri o presunti creati dall'intervento pubblico è stata la privatizzazione di tutto il possibile - in base all'assunto che privato è efficienza e pubblico è spreco, e che il compito del governo è bastonare i lavoratori, mentre produzione e sviluppo sono affare delle imprese - cercando di far dimenticare che a beneficiare di un intervento pubblico oneroso, devastante e arbitrario erano stati, e da sempre, non i lavoratori ai cui «privilegi» viene oggi imputato la crisi delle finanze statali, ma i grandi profittatori di quegli anni: i Moratti, i Rovelli, gli Onorato, gli Orlando; della Fiat che si è fatta costruire o cedere a spese dello Stato buona parte degli stabilimenti che ora abbandona.
Oggi possiamo toccare con mano i risultati della cura delle privatizzazioni adottata con la «svolta» degli anni '80: i disastri dell'Ilva, dell'Alcoa, della Lucchini Sevestal, la scomparsa dell'Alfaromeo in mano alla Fiat, le autostrade in mano ai Benetton, le malversazioni dell'Eni in mano ai Ferruzzi, la sclerosi di Telecom, per non parlare dei rifiuti campani gestiti da Impregilo o dell'importazione e distribuzione di gas in mano agli eredi Ciancimino; e ancora, le Banche di interesse nazionale, accorpate, imbolsite e consegnate a una gestione «imprenditoriale» che, se venisse sottoposta a un autentico stress test, si ritroverebbe - come si ritroverà - nella stessa situazione di quelle spagnole: ripiena di crediti inesigibili dai grandi capitani dell'edilizia privata. Tutto ciò prova non solo che l'industria, le infrastrutture e le stesse funzioni dello Stato sono state svendute - per non dire regalate - ai privati; dimostra anche che la gestione privata è intervenuta solo per spremere fino all'osso quanto era ancora possibile ricavare da quei regali di Stato, per poi abbandonarli al loro destino; forse in attesa che lo Stato intervenga di nuovo, magari mobilitando la Cassa depositi e prestiti, come già sta facendo a favore dei «piani di sviluppo» del Ministro Passera.
Non basta. Oggi abbiamo un governo di «tecnici» in gran parte prelevati da quella Università che ha usato la cooptazione senza verifiche (leggi parentopoli) per soffocare le spinte innovatrici del '68. Così abbiamo un ministro del lavoro che non sa quel che dice e quel che fa, emulo, per competenza, della Prestigiacomo; un ministro dell'istruzione che si trova a suo agio sula scia della Gelmini; un ministro della salute che si occupa delle bollicine invece che dei tumori provocati dall'Ilva. E un primo ministro che non sa che cos'è l'ambiente e che si autonomina «garante» del disastro europeo, dopo aver «garantito» mesi fa i risultati dei suoi provvedimenti (ricordiamo i "numeri" che aveva dato: Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18...); e dopo aver confermato - tra i tanti bluff - il Tav Torino-Lione contro il parere di 360 tecnici, loro sì autentici. Per non parlare di quelli che non sono neppure professori, come Passera, che nell'ignoranza dei problemi del contesto in cui opera non è secondo a nessuno. Più tutti quelli assurti a un Ministero o a un Sottosegretariato - e non sono pochi - per ragioni di famiglia o di conoscenze (alcuni dei quali sono già stati presi con le mani nel sacco). Eccoli i veri «bamboccioni» di cui tanto si parla (altro che quelli costretti a vivere «in famiglia» perché senza lavoro e senza soldi per pagare un affitto): uomini e donne in carriera grazie alla loro adesione al liberismo. Che poi, alla prova dei fatti, fanno solo disastri: tra gli applausi della stampa e dei media di regime, trasformati in altrettante Pravde.
Ma se il «pubblico» non funziona e il privato neppure, che cosa bisogna fare? Il vero problema dell'Italia e dell'Europa non sono gli spread, ma la necessità di un ricambio radicale delle classi dirigenti: in campo politico, in campo economico e imprenditoriale, in campo accademico e culturale. Occorre creare una classe dirigente capace e disposta ad affrontare il ciclo economico, dalla produzione al consumo e al riciclo, come un bene comune; per recuperare un rapporto di reciproca fiducia con i governati che l'attuale establishment ha irrimediabilmente perduto.
Certo, non è un programma di breve periodo (nel frattempo, di fronte alle urgenze del momento, bisognerebbe che due «colossi» come Italia e Spagna, seguiti da molti altri, rinviassero le scadenze di rimborso del loro debito per costringere tutti, Merkel in testa, a correre in qualche modo ai ripari). Ma è un programma che ha la sua premessa nella mobilitazione e nelle lotte dei cittadini e dei lavoratori, il 99 per cento, colpiti dalle misure «imposte dall'Europa»; che certo già oggi non mancano, e non mancheranno domani. Ma che può trovare la strada di una sua affermazione soltanto nella creazione di nuovi istituti di democrazia partecipata, di valorizzazione dei saperi oggi misconosciuti da chi governa e da chi impiega il lavoro altrui, di conversione delle politiche industriali, orientandole verso prodotti e produzioni sostenibili, di rinnovamento della cultura, per riabilitare la solidarietà contro la competizione, la sobrietà contro lo spreco, il rispetto della natura e degli altri contro l'aggressione e il razzismo imperanti.
In vista della Terza Conferenza internazionale per la sostenibilità ecologica e l'equità sociale Da Barcellona in bicicletta, passando per la Val di Susa. Da Ferrara in asino, e in trekking lungo il Po. Seicento iscritti al meeting>
Da Barcellona arriveranno in bicicletta (sono partiti a fine luglio passando per la Val di Susa). Da Ferrara a piedi con gli asini. Dal Piemonte con un trekking lungo il Po. Da Kathmandu, da Lagos, da Reykjavik, da San Salvador e da altre città di 45 paesi diversi arriveranno molto probabilmente in aereo, ma seguendo i consigli contenuti in una lettera inviata dai Bilanci di Giustizia (il gruppo creato da don Gianni Fazzini che da anni monitora le spese di un migliaio di famiglie) per abbassare al minimo e compensare gli impatti ambientali.
Stiamo parlando dei seicento iscritti alla 3a Conferenza internazionale sulla decrescita per la sostenibilità ecologica e l'equità sociale che si apre mercoledì 19 settembre a Venezia (tutto l'articolato programma su: www.venezia2012.it). A promuoverla un pool di associazioni (Research & Degrowth, Kuminda, l'Arci e altre), due università (l'Università di Architettura di Venezia e l'Università di Udine) e il Comune di Venezia.
Chi sono i decrescenti o decrescisti o «partigiani della decrescita», come li chiama Serge Latouche? In Italia il più noto sul versante della promozione della riconversione tecnologica mirata alla riduzione dei consumi energetici è sicuramente Maurizio Pallante con il suo Movimento per la Decrescita Felice. Mentre sul piano della ricerca teorica interdisciplinare, la Associazione per la decrescita di Marco Deriu, Mauro Bonaiuti, Gianni Tamino, Alberto Castagnola e altri, è sicuramente la più prolifera di pubblicazioni, scuole e divulgazioni culturali. Ma la base del movimento - è il caso di cominciare a trattarlo come tale - è costituita da una miriade di gruppi locali autonomi e molto diversi tra di loro (i partner italiani della Conferenza sono 73, aggregatisi lungo un percorso di avvicinamento e preparazione durato un anno e costellato da incontri, laboratori, campi scuola), ma tutti impegnati nella ricerca di soluzioni capaci di accompagnare l'uscita dall'era del «dopo-sviluppo», cioè di una situazione di crisi irreversibile dei modelli economici e sociali fondati sull'idea ingannevole dell'accrescimento indefinito dei profitti, dell'accumulazione monetaria, dell'intensificazione dei consumi delle risorse naturali e dello sfruttamento umano.
Le loro premesse analitiche e le loro attività pratiche, quindi, si presentano in modo molto radicale. Alcuni, come l'Associazione degli ecofilosofi, vedono un legame molto stretto tra decrescita e deep ecology che arriva ad abbracciare animalisti ed antispecisti. (Inutile dire che il menù alla 3° Conferenza sarà per metà vegetariano e per metà vegano, preparato dalla più antica cooperativa di ristoratori La ragnatela fondatori di Slow Food, già Gambero Rosso per gli affezionati lettori de il manifesto). Per altri, invece, la decrescita è semplicemente la ricerca di stili di vita individuali il più informati e responsabili possibili. Non a caso l'anteprima della Conferenza (15 e 16 alla Centrale dell'altreconomia di Mestre) sarà un convegno nazionale dei Gruppi di acquisto e dei distretti di economia solidale dal titolo «Ricostruire comunità territoriali capaci di futuro». Per altri ancora la decrescita non si chiama decrescita, ma «Transition Town» (il movimento che opera come se il petrolio fosse già finito, fondato in Inghilterra da Rob Hopkins, presente a Venezia il giorno della inaugurazione), o «semplicità volontaria» (come la chiamava Kumarappa, l'economista di Gandhi, che sarà presentato in un Focus sulle fonti del pensiero della decrescita), o economie dei «beni comuni», come sempre più spesso si usa dire e come riferirà Silke Helfrich della Heinrich Boll Foundation di Berlino presentando uno studio decisivo sull'argomento appena pubblicato negli Stati Uniti: «The Wealth of the Commons. A World Beyond Market & State». Per altri ancora decrescita significa «Prosperità senza crescita», come dimostrano possibile i ricercatori della New Economy Fondation di Londra.
Il ventaglio delle declinazioni possibili del tema della transizione, del passaggio di civiltà, utilizzando la matrice della decrescita può essere quindi ampio: si va dalle proposte più moderate vicine alla green economy a quelle esplicitamente anticapitalistiche. Alla 3a Conferenza l'arduo compito di metterle a confronto e, soprattutto, di capirne le connessioni. Per questo servono approcci interdisciplinari e multilivello. A partire dal recupero di una visione di genere sulle relazioni umane, per il superamento della divisione sessuale del lavoro. Promette bene la presenza di un significativo gruppo di studiose ecofemministe con Veronika Bennholdt-Thomsen, Alicia Puleo, Mary Mellor, Helena N. Hodge.
Forse la scommessa più interessate della formula della Conferenza di Venezia è quella di tentare di far interagire buone teorie e buone pratiche, persone impegnate sul versate «accademico» e attivisti impegnati nei movimenti della cittadinanza attiva.
Tra i paradossi del governo tecnico di Mario Monti rischia di esserci la massiccia estromissione dei saperi tecnici dai ministeri, i quali stanno per essere consegnati al controllo assoluto della casta burocratica dei ministeriali, alla faccia della ‘società civile’. La spending review ha infatti stabilito che i comitati tecnico-scientifici ministeriali in scadenza vengano soppressi: il che ha provocato la morte di tutti quelli del ministero per i Beni culturali. Una piccola morte che si somma ad altri cupi segnali che sembrano annunciare una morte più grande: quella dello stesso Mibac.
Quest'ultimo, infatti, nacque come ministero essenzialmente tecnico: in un primo momento Massimo Severo Giannini propose addirittura di costituire, sotto il cappello politico del ministero, un’agenzia tecnica che fosse un grandissimo ufficio per l’organizzazione e il controllo della tutela del patrimonio storico e artistico italiano. Il perché è presto detto: a partire dall’articolo 9 della Costituzione (che lega indissolubilmente tutela e ricerca) il sistema italiano delle soprintendenze si è sempre basato sulla conoscenza. Come per decidere quali farmaci mettere in commercio ci vogliono i medici, così per dirigere gli Uffizi ci vuole uno storico dell’arte, e per conservare il Colosseo un archeologo. Era dunque perfettamente naturale che anche al vertice di questo sistema avessero spazio le competenze tecniche: e che, anzi, lì il ministero si aprisse ulteriormente, coinvolgendo docenti universitari e altri esperti. A questo servono (servivano) i comitati tecnico-scientifici: a offrire all’amministrazione e alla guida politica del Mibac gli elementi di fatto in base ai quali prendere le decisioni. Da domani, invece, non ci saranno più storici dell’arte a stabilire se una tavola di Giotto può o non può affrontare un viaggio a Pechino, e non saranno architetti o urbanisti a valutare se Pierre Cardin può costruire la sua torre di 250 metri alle porte di Venezia. No: saranno i direttori generali, e cioè direttamente la struttura burocratico-politica. E c’è un’ulteriore conseguenza: i presidenti dei comitati componevano per metà il Consiglio superiore dei Beni culturali, l’organo che dovrebbe dare l’indirizzo all’intera opera del ministero, e che si trova ora ridotto a una piccola corte di nominati dal ministro (il cui presidente annunciato sarà un filosofo del diritto: sempre a proposito di competenza tecnica!). Il giacobinismo contabile della spending review dà il colpo di grazia a un sistema al lumicino: soprintendenze massacrate nell’organico, tutela sacrificata al marketing della valorizzazione, finanziamenti da allarme rosso , ministri flaccidi e incompetenti. Se c’è una strategia è quella di distruggere la tutela pubblica, per poter poi dire (come si è appena fatto per la Pinacoteca di Brera): ‘Ma qui non funziona nulla: diamo tutto ai privati!’. In tutto questo, l’esecutore testamentario del Mibac, professor Lorenzo Ornaghi, tace.
Ernesto Galli della Loggia ha colto l’occasione delle sue vacanze in Calabria per rendersi conto della salute delle coste, del paesaggio ed in generale del patrimonio culturale del nostro Paese. Ha dunque meritevolmente espresso tutta la sua indignazione sulle pagine del «Corriere».Ha anche indicato senza indugi coloro che ritiene i responsabili del disastro e la soluzione da adottare. I colpevoli senza appello sono una masnada di praticoni e di incolti amministratori locali. Basterebbe dunque attribuire allo Stato centrale competenze e poteri. Ora, Galli della Loggia indica una dinamica almeno trentennale alla quale si è aggiunto il turbo dello pseudo-federalismo leghista al governo. È indiscutibile infatti il nesso tra sfascio del paesaggio e la politica dei condoni, del federalismo demaniale e dello sviluppo affidato al «piano casa», al tempo in cui tale politica figurava tra le priorità del governo.
Ci pare che il grado di vigilanza, da parte di alcuni importanti opinionisti, fosse allora molto modesto. Certo, ci sono gravi responsabilità di amministratori locali e di una certa impresa privata. Lo stesso centrosinistra deve fare profonda autocritica e rivedere presto alcune scelte legislative ed alcune pratiche amministrative assai diffuse. Ma c’è stata una filosofia che Berlusconi ha incarnato appieno e che ha deliberatamente ignorato la necessità della tutela e della produzione culturale così come dello sviluppo sostenibile. La soluzione di centralizzare tutto, dettata forse da un tardivo senso di colpa, è tuttavia anch’essa improponibile. Il Pd lavora invece a ridefinire un più chiaro equilibrio tra livelli di governo, semmai unificando la formazione dei funzionari pubblici responsabili del patrimonio culturale.
L’indirizzo deve essere netto: basta condoni e consumo di suolo. Le Regioni devono dotarsi senza più perdere tempo dei Piani Paesaggistici. I comuni e gli enti locali non debbono più essere costretti a trovare risorse finanziarie per investimenti e servizi essenziali dagli oneri di urbanizzazione. Soprattutto a regole chiare non deve più seguire la diffusa pratica della deroga. La nostra visione, anche su questi temi, deve saper coniugare la più sana tradizione autonomista con la capacità di tenere unito il Paese e l’Europa.
SUL silos dell’Alcoa un operaio si è sentito male. È sofferente di cuore. Visitato dal medico, ha deciso di restare: quei settanta metri di scale, pericolosi da salire, per lui possono esserlo ancor più in discesa. Per ora resta lì, dunque, in prima linea. Combatte per il suo posto di lavoro. Che non è un diritto, come ha spiegato il ministro Fornero: è qualcosa che bisogna guadagnarsi.
Una volta col lavoro ci si guadagnava da vivere, oggi si rischia la vita per guadagnarsi il lavoro. O almeno per guadagnarsi un po’ d’attenzione: quanti hanno dovuto arrampicarsi sui tetti, sulle gru, spremersi il cervello per trovare il modo di essere visti, per avere almeno per un momento l’attenzione dei media?Si fa fatica a ricordare perfino quello striptease alla Full Monty
di operai Alcoa che inaugurò il carnevale di Venezia del 2009. Eppure ce l’avevano messa tutta a ballare uno spogliarello con tanto di slip e di elmetti da metalmeccanico. Il problema nostro è che c’è una distrazione invincibile che tutti ci coglie davanti a quello che è il dramma più serio e più terribile del-l’Italia di oggi: l’assenza del lavoro. Si pensi a come sia normale fare proiezioni pre-elettorali senza interrogarsi più che tanto sul numero nero dei non partecipanti al gioco: che non è il frutto dell’antipolitica, quella parola che è solo la sigla della nostra ignoranza, l’hic sunt leones dellemappe del presente. È la semplice, inevitabile trascrizione nel funzionamento di una moderna democrazia della divisione del nostro tempo tra chi attraverso il lavoro esercita la sua cittadinanza e chi resta prigioniero del nulla e non può, semplicemente non può nutrire interesse per l’agitarsi e il gridare dei fantasmi politici sullo schermo di casa.
Statistiche continuamente aggiornate ci dicono che una parte crescente della società italiana non ha mai vissuto l’esperienza del lavoro. Eppure è quello il momento fondamentale della crescita civile, quando si apre la porta di casa e si entra nella società perché lì c’è qualcosa che ti viene chiesto di fare. Per chi il lavoro lo ha avuto e lo perde, è anche peggio: è il taglio del cordone ombelicale che unisce un individuo agli altri, la sentenza capitale su tutto il tempo che sarà la sua vita. La generazione anziana, quella
che ha avuto il lavoro e magari anche la pensione, non può capire sul serio quello che sta accadendo: non ne ha i parametri. Lo si vede dalle parole che girano tra quelli che governano: “bamboccioni”, “cittadini a metà”, “generazione spazzata via”, spazzatura umana, prodotti fallati della fabbrica umana. Ed è dubbio che lo capiscano i poteri politici ed economici, dove la recessione è vissuta col fatalismo con cui si reagisce a un terremoto o a un uragano. Basta leggere le cronache del convegno “Jobs for Europe” in corso a Bruxelles. Lì ha parlato anche il nostro ministro Elsa Fornero, la responsabile della riforma del lavoro che è diventata legge, l’autrice di quella frase che è apparsa molto irritante ma che ha avuto il merito di adeguare il linguaggio alla realtà che viviamo. Ma non è facile parlare la nuova lingua. Qualcuno ha provato ad aggiornare la solenne frase della Costituzione sostituendola con quest’altra: “Il lavoro è un bene comune”. Ma non funziona. In un tempo come il nostro si fa fatica a difendere la proprietà comune dell’aria e dell’acqua, figuriamoci il lavoro. E comunque l’aria che si respira a Taranto, quella che si è respirata all’Eternit di Casale Monferrato, quella delle miniere sarde è una maledizione, non un bene. Forse era questo che intendeva Elsa Fornero quando aveva detto: «Noi stiamo cercando di proteggere gli individui non i loro posti di lavoro».
Eppure, la sua stessa, molto discussa, riforma ha mostrato che qualcosa si può cambiare: per esempio, è stata disarmata la ferocia sociale di quella legge che col licenziamento trasformava l’immigrato in clandestino: l’aveva varata colui che il presidente del Consiglio Monti suole definire pudicamente «il mio predecessore». E al convegno di Bruxelles la ministra ha detto che è l’ora di prestare attenzione alle politiche di sostegno dell’economia reale piuttosto che insistere sul rigore (nel gioco delle parti ora tocca al ministro Passera pedalare se vuol guadagnarsi un altro giro di bicicletta col futuro governo).
Vedremo se da Bruxelles verranno solo parole o se ne riceveremo qualche idea non preconcetta, liberatoria. Per ora, siamo in guerra, per dirla col presidente del Consiglio Monti: ma è una guerra che non possiamo vincere. Sono in conflitto alternative disperate. Una volta il canto dei lavoratori diceva: “O vivremo di lavoro o pugnando si morrà”. Oggi l’alternativa è morire di tumore o morire di fame. Il sistema in cui viviamo produce lavoro al prezzo di un’aggressione spaventosa alla natura. E il sistema finanziario prosegue tranquillamente un accumulo di profitti che crea ricchezze megaga-lattiche e povertà disumane, scommette sulla sussistenza quotidiana di popoli interi, punta sul fallimento della Grecia, sulla trasformazione
dell’Europa in un club per pochi dove si potrà fare a meno delle culture che l’Europa l’hanno creata – quella greca, quella latina. Tutto questo viene vissuto come un decreto immutabile di una scienza economica impassibile, scritta sul bronzo delle porte dell’eternità. Pazienza dunque. L’operaio dell’Alcoa si rassegni: “It’s the economy, stupid!”.
E tuttavia c’è un pensiero inquietante che si affaccia nella mente degli anziani: come fu possibile che al termine della Seconda guerra mondiale un’Europa fatta di paesi distrutti, gravati da debiti mostruosi, dove vincitori e vinti erano ridotti tutti al lumicino, poté ripartire in un grandioso, esaltante processo di ricostruzione che in un decennio appena creò lavoro e condizioni di vita quali non si erano mai viste prima? Perché allora fu possibile cancellare i debiti ai debitori e mobilitare ingenti risorse? Ce lo ricordava di recente un teologo, Franz Hinkelammert, osservando che anche oggi l’indebitamento di certi paesi europei ha raggiunto un livello tale da risultare impagabile. Ma, aggiungeva, «questo è proprio quello che vogliono le banche. I paesi indebitati possono così venire saccheggiati senza la minima possibilità di difendersi». Ci chiediamo allora se e quando verrà il giorno in cui la politica cesserà di essere l’ancella dell’economia finanziaria e riprenderà la sua funzione antica, quella di arte del possibile.
A proposito del lavoro vedi in questo sito Il lavoro su eddyburg
I fischi alla Fiom non sono un dramma: fa parte del ruolo dei sindacalisti. E Landini ha avuto coraggio Il comitato può svolgere un ruolo fondamentale per non lasciare il risanamento nelle mani degli inquinatori L'Ilva (già Italsider) di Taranto inquina e uccide da cinquant'anni la città e i suoi abitanti, insieme a diversi altri impianti che ne occupano il territorio.
Tuttavia, nonostante numerosi tentativi, in corso da anni, di portare la situazione all'attenzione dell'opinione pubblica, Taranto è diventata un caso nazionale solo ora: innanzitutto per l'impegno di un magistrato coraggioso che ha scelto di obbedire alla legge e non ai padroni della città; ma soprattutto per l'iniziativa del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, che ha rotto la cappa di omertà nei confronti delle malefatte dell'azienda che le forze politiche - e gran parte di quelle sindacali - avevano steso da anni sulla fabbrica e sulla città: in uno stile sovietico che calza a pennello a un territorio cui è stato assegnato il destino di città dell'acciaio; e null'altro. Cittadini e lavoratori liberi e pensanti è un bellissimo nome: una risposta anticipata all'establishment politico e massmediatico locale e nazionale, che da un mese a questa parte cerca di contrapporre i cittadini ai lavoratori, sostenendo che i primi, in nome della salute e dell'ambiente, vorrebbero la morte della fabbrica; e che i secondi, in nome del lavoro e del salario, sono disposti a condannare a morte mogli, figli e parenti, oltre che se stessi. E questo nonostante nella maggior parte dei casi cittadino e lavoratore coincidano nella stessa persona. Se il comitato saprà continuare a respingere con il coraggio e l'intelligenza di cui ha dato prova finora questo tentativo di divisione e di falsa contrapposizione, presto, in questo autunno che si prospetta rovente, le bandiere con l'apecar (il traballante veicolo con cui è stato interrotto il comizio sindacale del 2 agosto e che è diventato il simbolo del movimento) si affiancheranno a quelle del movimento No Tav, che da tempo compaiono in tutte le manifestazioni nazionali; e la vicenda di Taranto diventerà uno spartiacque per gli schieramenti politici e sociali nazionali come lo è da tempo la vicenda della Valle di Susa.
Apparentemente è stato il segretario della Fiom, il sindacato che si è schierato fin dall'inizio a fianco della Valle di Susa, a fare le spese dell'irruzione in piazza dei cittadini e dei lavoratori liberi e pensanti con il loro apecar. Ma questa in parte è stata una mera coincidenza temporale, perché l'irruzione era innanzitutto diretta contro Bonanni, che se l'è data a gambe insieme ad Angeletti e Susanna Camusso appena il corteo del comitato è entrato in piazza, mentre Landini ha deciso di restare. In parte la cosa non va drammatizzata. I fischi ai sindacalisti ci sono sempre stati: fa parte del loro ruolo, spesso difficile, quasi sempre delicato e raramente appagante; specie quando sono in gioco questioni dirimenti. Durante l'autunno caldo e le lotte successive di quarant'anni fa, Trentin, Carniti e Benvenuto di fischi ne avevano presi a iosa, per non parlare di Rinaldo Scheda ed altri, pochi anni dopo (il caso di Lama cacciato dall'Università è diverso: lui se l'era andata a cercare).
In parte bisogna dire che la Fiom, che giustamente si è dissociata dagli scioperi contro il giudice Todisco, negli anni passati aveva fatto veramente troppo poco per differenziarsi dai sindacati padronali Fim e Uilm, che a Taranto governano letteralmente il personale dell'Ilva per conto della famiglia Riva. Se il comitato saprà corrispondere alle speranze che i cittadini di Taranto stanno riponendo nella sua azione, presto per molte di quelle organizzazioni si arriverà a una resa dei conti; e la Fiom potrebbe ritrovarsi, come già succede da oltre due anni alla Fiat e nella contrattazione nazionale, dalla parte opposta a quella, sempre più padronale, in cui si sono posizionate le altre organizzazioni sindacali. E questo in un contesto locale e nazionale rovente, in cui difendere le ragioni del padrone sarà sempre più difficile. Il problema è dunque «che fare?» per mantenere la rotta. Una risposta esauriente per ora non ce l'ha, e probabilmente non ce la può avere, nessuno. L'importante è cominciare a mettere in chiaro le poche certezze e i molti interrogativi da cui quella risposta dipende.
La prima certezza è questa: la vita non si contratta. Di fronte alla prova documentaria che l'Ilva-Italsider ha distrutto e continua a distruggere la vita di migliaia di lavoratori e di cittadini - e quella dei loro figli - qualsiasi altra considerazione deve passare in secondo piano.
La seconda è che non bisogna più mentire sulla reale portata del disastro in corso (o nascondere le cose, il che è lo stesso), come sempre ha permesso che si facesse l'attuale ministro Clini, già direttore generale e vero dominus di un ministero dell'Ambiente affidato, da dodici anni, a personaggi incompetenti, ridicoli e arraffoni. O il neopresidente Ferrante, uomo per tutte le stagioni, approdato a difendere le ragioni dell'Ilva dopo aver fatto lo stesso per conto dell'Impregilo, nel tentativo di liberarla dalle responsabilità per i disastri compiuti con i rifiuti in Campania e con il Tav in Casentino e sulla Torino-Milano (e in attesa di quelli sulla Torino-Lione). O il sindaco Stefàno, portato al governo della città da una autentica rivoluzione degli schieramenti politici, e grazie anche alle cure personalmente prodigate ai bambini di Taranto (è un pediatra), senza che questo lo abbia mai spinto a dire una sola parola contro la causa di tanti malanni e di tanti decessi.
Ma non bisogna neanche mentire a se stessi. Chiunque dia per scontato, come è stato fatto da tutti o quasi finora, che la salvaguardia della salute e dell'ambiente a Taranto è compatibile con la continuità della produzione dell'Ilva, senza una verifica della fattibilità tecnica ed economica delle misure prescritte dai giudici e dai periti per mettere in sicurezza l'impianto e di quelle per bonificare il sito e tutto il territorio, cerca di ingannare innanzitutto se stesso. L'Ilva è un impianto vecchio e obsoleto, che i Riva, consapevoli che non aveva davanti a sé molti anni di vita, avevano deciso di sfruttare fino a esaurimento, investendo solo lo stretto necessario per tenerlo in funzione.
Può essere quindi che le prescrizioni di giudici e periti per rimetterlo a norma abbiano costi ingiustificabili a fronte dalla vita residua dell'impianto; o che richiedano di fatto il suo rifacimento ex novo - il che porrebbe il problema della convenienza e dell'opportunità di rifarlo proprio lì - dovendosi poi anche verificare l'effettiva possibilità di imporre alla proprietà i costi astronomici del risanamento di sito e impianto. Facile dunque che qualcuno - anzi, molti - cerchino fin da ora di cambiare le carte in tavola, nascondendo una parte dei costi, riducendo la portata degli interventi, per poi far sì che le cose continuino più o meno come prima, con un po' di belletto. A un gioco del genere, d'ora innanzi, non si deve più prestare nessuno.
La terza considerazione è che all'interno dello stabilimento e nella città sono stati compiuti per anni - consapevolmente, come rimarca il giudice - dei reati gravissimi, assimilabili a quello di strage; e non solo in campo ambientale e sanitario. Questi sono stati resi possibili da un regime di fabbrica dispotico e illegale - quello che l'abolizione dell'art. 18 renderà ordinario in migliaia di altri stabilimenti, anche grazie a una sostanziale cooptazione nella gestione di quel regime delle organizzazioni sindacali, o di una parte consistente di esse, oltre che di partiti, Enti locali, Diocesi, Università, ecc. Basti pensare che in fabbrica - oltre all'istituzione di un reparto confino, il Laf, già sanzionato dalla magistratura e per questo soppresso e sostituito con altri sistemi di persecuzione dei lavoratori non acquiescenti - sono all'opera, a fianco della gerarchia ufficiale, numerose figure che gli operai chiamano «i rappresentanti di Riva»: che non sono dipendenti dell'azienda, ma che di fatto comandano: sono loro a ingiungere comportamenti da cui dipende buona parte delle emissioni nocive dello stabilimento, nella certezza che, non figurando nell'organico dell'azienda, a una loro responsabilità non si potrà mai risalire; e al massimo questa ricadrà sugli operai a cui hanno dato quegli ordini.
La quarta considerazione è questa: anche se con la privatizzazione il clima di fabbrica è ulteriormente peggiorato, l'inquinamento selvaggio della città ad opera dello stabilimento siderurgico è stato realizzato, nell'impunità più assoluta, fin dall'inizio; anzi, fin dalla decisione di collocare uno stabilimento del genere a ridosso di una città di 200mila abitanti; quando ancora l'Italsider era di Stato. Il che dimostra che di per sé la proprietà pubblica o privata di uno stabilimento non fa la differenza che conta (anche se per molte produzioni e, sicuramente, quando sono in gioco grandi dimensioni, la prima è decisamente preferibile). La differenza la può fare soltanto un controllo dal basso, effettivo e consapevole, ad opera dei lavoratori e dei cittadini coinvolti nel processo lavorativo o nei suoi impatti ambientali e sociali. Che è appunto quanto si ripropone il comitato: ciò che può segnare l'inizio di una svolta teorica e pratica nelle dinamiche politiche dei prossimi anni. Per questo Taranto deve restare un caso di portata nazionale.
La quinta considerazione è che l'acciaio è un materiale indispensabile. In una prospettiva di progressiva riterritorializzazione delle produzioni, che è l'unica forma praticabile di contrasto agli effetti della globalizzazione liberista, sarebbe sbagliato in linea di principio delegare ai paesi emergenti o a quelli del terzo e del quarto mondo le produzioni che hanno impatti pesanti sul territorio, in nome di una visione bucolica dello sviluppo - o della decrescita - fatta solo di una sacrosanta valorizzazione dei beni ambientali, dei beni culturali, delle opere dell'ingegno e delle produzioni soft (di agricoltura, purtroppo, a Taranto, non si parlerà più per anni).
Questo non significa accettare lo stato di cose esistente - e meno che mai i progetti devastanti del ministro Passera - ma mettere lo sviluppo tecnologico al servizio non del profitto, non del gigantismo industriale, ma di una graduale e progressiva conciliazione tra produzioni e ambiente: innanzitutto ridimensionando, ovunque possibile, il gigantismo delle prime, causa prioritaria di impatti ambientali insostenibili.
Che la produzione dell'Ilva di Taranto, se si verificheranno le condizioni per la sua continuazione, vada comunque progressivamente ridimensionata, fino allo spegnimento finale dell'impianto (come peraltro devono aver messo in conto anche i Riva, visto il modo in cui lo hanno gestito finora) non può essere messo in discussione. Ma certamente una soluzione del genere, che permetterebbe di affiancare a una produzione ridimensionata le attività e l'occupazione necessarie alla bonifica del sito e del territorio e una politica di creazione, scaglionata nel tempo, di nuove opportunità occupazionali nel campo delle produzioni sostenibili (energie, efficienza, mobilità, eco-edilizia, ecc.) è senz'altro preferibile alla chiusura immediata e definitiva dell'impianto. Perché questa lascerebbe senza lavoro e senza prospettive di reimpiego quasi ventimila lavoratori, e un sito inquinato e abbandonato alla cui bonifica nessuno avrebbe più alcun interesse né possibilità di controllo. Ce lo insegnano le vicende di tante aree dismesse, come Crotone o Bagnoli (dove pure, in quest'ultimo caso, il valore dei suoli ha scatenato una corsa all'accaparramento).
Che fare allora? Il comitato deve mettersi in grado di definire, promuovere, rivendicare e seguire direttamente questi processi, diventando il punto di riferimento di tutti coloro che intendono lavorare a una autentica conversione ecologica, che faccia i conti con i vincoli imposti dallo stato di cose esistente. Facendosi innanzitutto garante della verità sulle cose che possono e che non possono essere fatte. Per questo a Taranto ho proposto di lanciare a livello nazionale un manifesto che metta in luce la centralità dei problemi dell'Ilva e della città e che chiami tutte le persone di buona volontà che hanno competenze in materia a partecipare e contribuire con le loro conoscenze al sostegno del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti; per non lasciare il processo di risanamento o di riconversione dello stabilimento nelle mani di chi fino a oggi ha lavorato all'occultamento della verità su questa autentica tragedia nazionale, spartendosi qualche briciola degli ingenti guadagni ricavati dalle disgrazie di un'intera popolazione.
Ora che si sono calmati i rumori intorno alle manifestazioni veneziane forse ci si può occupare anche dei guai di quella straordinaria città. Un'inchiesta sullo stato delle cose e delle prospettive della città di Venezia, patrimonio dell'umanità, pubblicato sul Nouvel Observateur qualche settimana fa, era intitolato Monstres flottants sur la lagune, ma oltre alla questione del passaggio dei colossali piroscafi turistici tra San Marco e le chiese di Palladio, e dei relativi possibili disastri, esso muoveva una serie di interrogativi intorno alle speculazioni che premono sulla città e sulle piccole isole della laguna, sino agli sconvolgimenti dei vari progetti per il Lido, al fallimento del nuovo palazzo del cinema, della discutibile proposta di trasformazione del Fondaco dei Tedeschi, della speculazione del Quadrante di Tessera (due milioni di metri cubi di costruzioni) e della relativa metropolitana sublagunare. Sono questioni che dipendono strutturalmente dalla scelta politicamente errata di una economia solo turistica, questioni che si discutono da almeno vent'anni, senza esito, anche se non sono mancate le preposte alternative. Sulla loro storia consiglio di leggere il piccolo libro che, pur con qualche inesattezza, ha scritto, meritevolmente, di recente il giornalista Alberto Vitucci dal titolo Nel nome di Venezia, o il libro che io stesso ho pubblicato più di quindici anni orsono dal titolo Venezia città della nuova modernità, una prospettiva certamente mancata.
L'ultimo capitolo di questo insieme di sciagure è rappresentato dalla proposta del grattacielo di Cardin, generosa nelle intenzioni del promotore ma assurda sia nella sua soluzione architettonica, che nella totale assenza di una qualche logica di pianificazione di fronte ad un luogo tra i più complicati ed insieme decisivi dell'area metropolitana di Venezia, cioè il sistema Mestre, Marghera con la relativa grande area industriale. Tutto questo, bisogna confessare, sorretto da un piano di assetto territoriale che rifiuta ideologicamente ogni definitone funzionale e di disegno urbano come elemento essenziale delle prospettive di sviluppo di una città tanto difficile. Ma quella del nuovo episodio isolato del grattacielo Cardin è una proposta purtroppo presa sul serio anche dalle istituzioni e persino da una parte dell'opinione pubblica, con il commento che è meglio far qualcosa che nulla. Una conclusione triste ed insieme pericolosa e senza ritorno, come hanno dimostrato i numerosi errori italiani di disegno urbano e di paesaggio in questi anni, e di cui è un segnale la stessa vertiginosa diminuzione della popolazione dell'area centrale di Venezia ridotta ormai a meno di 6o.000 abitanti contro una popolazione turistica che nel 2011 ha raggiunto in un anno i trenta milioni di turisti. Per quanto riguarda poi la soluzione architettonica dell'edificio proposto il suo provincialismo formale è tanto evidente che sembra si stia ricorrendo a qualche ecoarchitetto protettore, oltre che a qualche robusto studio di ingegneria, nel tentativo di un qualche suo consolidamento tecnico-burocratico. Invano qualcuno, come i professori dello Iuav Pascolo e Vittadini, ha elaborato studi e proposte che, fin dal 2009, sono state oggetto di seminari e di tesi di laurea perla trasformazione dell'intera area industriale di Marghera, con la conservazione del suo potenziale di occupazione, proponendone la trasformazione secondo la tradizione della città europea della compresenza di funzioni produttive compatibili, di abitazioni e servizi capaci di una forte mescolanza sociale, con equilibrata relazione con la città di Mestre e con il parco del Forte che affaccia sulla laguna. Forse la generosa volontà da parte del grande Cardin di lasciare un proprio ricordo alla città di Venezia sarebbe più opportunamente collocata se sostenesse la realizzazione di un progetto come quello proposto dallo Iuav, sino ad oggi inutilizzato nella discussione pubblica, nonostante la città sembri, per ora, piuttosto indifferente a tutte queste questioni. Voglio ricordare a questo proposito come alla metà degli anni Ottanta la minaccia di un Expo 2000 veneziana, sostenuta dall'allora potente ministro Gianni De Michelis, fosse stata sconfitta da una sollevazione popolare, sostenuta da alcune personalità culturali e proprio anche dall'Istituto universitario di architettura. Oggi le preoccupazioni della nostra società, lo sappiamo bene, sono in primo piano rivolte alla mancanza di lavoro ed alla sopravvivenza economica. Ma non è escluso che il miracolo della sollevazione anti-Expo possa ripetersi anche oggi.
Gregotti è buon conoscitore dell’urbanistica veneziana, i prodotti della sua presenza di docente e di architetto sono stati utili alla città quando i tempi erano meno barbarici. Alcune delle sue proposte coglievano il cuore del problema. Ricordo quella, elaborata con l’indimenticabile Guglielmo Zambrini, per un intelligente sistema della mobilità del tutto alternativo a quello praticato, nei fatti e nei progetti, dagli amministratori degli ultimi decenni. E coglie ogli a certamente il cuore del problema la connessione tra i molteplici temi e aspetti della decadenza di Venezia: tutti o qusi raccontati dai nomerosi saggetti della fortunata collana Occhi aperti su Venezia, dell’editore Corte del fòntego.Intelligente anche la speranza espressa da Gregotti: che si ripeta «il miracolo della sollevazione antiExpo». Il guaio è che una parte consistente del mondo veneziano che allora si oppose all’Expo ha voltato gabbana, come molti intellettuali e quasi tutti i politici. Potrebbe essere utile esaminare, per comprendere meglio, i percorsi che ciascuno di loro ha compiuto, nell’ultimo ventennio. Quando gli intellettuali non aiutano a comprendere le ragioni e le radici della critica e non partecipano alla costruzione di un’alternativa, l’altra parte del mondo, il popolo, fatica a rendere affilate lo proprie armiSu eddyburg vedi, a proposito della Torre Cardin, gli articoli di Paola Somma e di Sergio Pascolo.
Succede alla Regione Lazio. Dove Villa Adriana, scampato il pericolo di veder arrivare i rifiuti della città di Roma in una discarica a 800 metri da uno dei siti archeologici più importanti del mondo, tutelato dall'Unesco, è ora alle prese con quella che i Verdi (sempre loro) denunciano come ulteriore aggressione edilizia a un'area già fra le più martoriate dalla cementificazione.
Si chiama «Lottizzazione Nathan» e prevede la realizzazione di 122 mila metri cubi di residenze. «Un progetto legittimo che rispetterà pienamente Villa Adriana», ha tranquillizzato l'assessore all'Urbanistica, l'esponente dell'Udc Luciano Ciocchetti, amorevolmente ascoltato, in un'audizione pretesa dall'opposizione, nelle commissioni Urbanistica e Ambiente del consiglio regionale del Lazio. I cui rispettivi presidenti non possono che essere sensibili al tema. Molto sensibili.
La commissione Urbanistica è guidata da Roberto Buonasorte, della Destra: è titolare dell'impresa di costruzioni Dimore & Dintorni. Della stessa commissione fa parte anche il presidente della commissione Ambiente, che risponde al nome di Roberto Carlino. Lui è invece il padrone della Immobildream, che molti conoscono per lo slogan pubblicitario: «Non vende sogni ma solide realtà». Si tratta di un'agenzia immobiliare in affari con il gruppo imprenditoriale che fa capo a Francesco Gaetano Caltagirone, suocero del leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini. Per una curiosa coincidenza l'Unione di centro, alla quale compete oggi la responsabilità della gestione del territorio laziale, è lo stesso partito che ha fatto eleggere Carlino nel consiglio regionale del Lazio.
C’è da dire che inizialmente il venditore di «solide realtà», tipo quelle palazzine ordinarie che tutti possono ammirare nelle pubblicità di Immobildream, era stato folgorato da Silvio Berlusconi. Nel 1997 lo troviamo al fianco del candidato forzista al Comune di Roma, Pierluigi Borghini, come consulente edilizio (già, chi meglio di lui?). L'anno seguente eccolo nell'esecutivo romano di Forza Italia impegnato nella campagna per il ballottaggio alla Provincia. Tre anni dopo, si presenta alle elezioni comunali. Nel 2004, finalmente, una poltrona: entra nel consiglio regionale del Lazio al posto di Alfredo Antoniozzi, vincitore di un seggio al Parlamento di Strasburgo. Poi scoppia il feeling con Casini.
Arriva allora la candidatura alle elezioni europee nel 2009. E la poltrona del consiglio regionale, dove assume prontamente la presidenza di una prima commissione e si ricava uno strapuntino anche in una seconda commissione: entrambi competenti, guarda caso, per faccenduole quali il piano edilizio regionale, o la lottizzazione di Villa Adriana.
Il tutto senza che nessuno alzi non una mano, ma neppure un dito, davanti a una questione di opportunità grande come una casa. Meglio: grande come una palazzina a sette piani. Una delle tante «perle immobiliari» costruite a Roma e zone limitrofe con il marchio Immobildream che il consigliere regionale del Lazio Carlino, presidente della commissione Ambiente e membro della commissione Urbanistica che dovrebbero sorvegliare sulle speculazioni edilizie, mette ogni giorno in vendita. A prezzi di favore, beninteso. Non gli volete dire almeno grazie?
Nella prima sala dell’Arsenale tre pannelli di Bernard Tschumi potrebbero servire da introduzione a “Common Ground”, la mostra sulla quale si impernia la tredicesima Biennale Architettura. Hanno l’aspetto di un manifesto pubblicitario, sono divisi a metà (Tschumi li realizza dagli anni Settanta). In uno compare, da una parte, il Guggenheim di New York con la didascalia “common ground”, dall’altra, un edificio che sembra un parcheggio e che simula quello di Frank Lloyd Wright. Didascalia: “common place”, un posto comune.
“Common Ground” sta invece per terreno comune, ha più volte sostenuto il direttore dell’edizione di quest’anno, David Chipperfield. Più che l’edificio come spettacolo individuale, ha insistito l’architetto inglese, deve risaltare il lavoro come valore collettivo. Continuità, contesto e memoria. Deve emergere un oggetto che fondi uno spazio pubblico, attrattore di comunità (il Guggenheim lo è, il parcheggio no). E in effetti l’edizione appena inaugurata (e aperta fino al 25 novembre) sollecita i 69 espositori che, spesso raggruppati, arrivano a 119 progettisti, a non esibire il prodotto di un’azione individuale, bensì a mostrare un intervento concepito o in gruppo o come frutto di un’iniziativa culturale e anche sociale più ampie.
È un’esigenza che da qualche tempo viene rimarcata, quasi a voler sbiadire l’immagine di un’architettura come gesto geniale e bizzarro, adatto più all’intrattenimento che alla vita quotidiana. Non sempre alle parole corrispondono intenzioni e progetti. A Venezia, fra i Giardini e l’Arsenale, la varietà di interpretazioni è molto ampia, forse più ampia di quella che aveva in mente Chipperfield. “Common Ground” può essere articolato da Zaha Hadid esibendo minutamente le proprie ricerche sulle superfici curve, ondulate e mostrando le referenze storiche e culturali di questo lavoro.
Ma, appena più in là, l’indiana Anupama Kundoo riproduce in scala 1:1, a grandezza naturale quindi, la Wall House, la semplicissima casa che ha costruito nel sud del suo paese mescolando materiali, tecniche artigianali e hitech, portando dall’India manovali che non erano mai usciti dai confini nazionali e mettendoli a lavorare con studenti veneziani e australiani. Per Zaha Hadid il “Common Ground” è una relazione nel tempo, storico- culturale e professionale. Per Anupama Kundoo è la condivisione di un’idea dell’abitare, ha un preminente respiro sociale (ma anche tecnico: i mattoncini usati richiamano con evidenza il rivestimento delle colonne dell’Arsenale). Inoltre, la grandezza naturale è anche una sfida alla logica della mostra d’architettura: niente rilievi, plastici o progetti, ma un prodotto finito che chiunque, soprattutto i non addetti, può visitare, valutare e apprezzare.
Il “Common Ground” può essere il piano urbanistico di Vittorio Magnano Lampugnani per armonizzare i progetti di tanti big impegnati a realizzare il campus per un colosso farmaceutico o l’installazione di Norman Foster: sul pavimento di una stanza oscurata si proiettano e si intrecciano i nomi di grandi architetti del passato più o meno recente, le pareti pulsano di immagini di spazi pubblici – piazze, stadi, teatri… - animati da folle. Per il gruppo Fat il “Common Ground” è sintetizzabile nel concetto di copia: copiare un edificio è un modo per diffondere, nello spazio e nel tempo, modelli architettonici. Un esempio? La Rotonda di Palladio, che copia ed è a sua volta copiata. Un gruppo di cinque architetti di Detroit, invece, ricostruisce con lo stesso lievito culturale di Anupama Kundoo, ma con diversi esiti e sempre in dimensioni reali, una casa abbandonata nella ex capitale dell’auto e acquistata a un asta per appena 500 dollari (potenza della bolla immobiliare).
L’interno è integralmente reinventato, colorato e arricchito dalla documentazione di una città che, giunta sull’orlo del baratro, prova a rigenerarsi. Condivisione, collaborazione, spazio pubblico spiccano anche nelle installazioni lungo la Ruta del Peregrino, una strada di pellegrinaggio religioso in Messico (fra i progettisti, Ai Weiwei e il cileno Alejandro Aravena dello studio Elemental).
La crisi, nata da un eccesso di offerta immobiliare, e l’impoverimento di parte del mondo non possono che contagiare anche una mostra d’architettura (assecondando le direttive di Chipperfield).
Giovanissimi architetti spagnoli in tuta bianca mostrano i progetti che sono rimasti chiusi in un cassetto e raccontano sé stessi, professionisti senza lavoro. Due grandi stelle del firmamento internazionale, Herzog & de Meuron, esibiscono il plastico di un auditorium ad Amburgo, bloccato a fine 2011 per i costi schizzati alle stelle e per contrasti fra loro, l’impresa e l’amministrazione pubblica. Alejandro Aravena espone i piani per ricostruire una comunità distrutta dallo tsunami del 2010 (un lavoro analogo, ma per il Giappone, lo presenta Kazujo Sejima) e per consentire una migliore accessibilità all’acqua in una località poverissima, dove le forti disparità economiche avevano causato violente proteste.
L’idea di architetture a misura di territorio e di paesaggio arriva fin dentro il Padiglione Italia, curato da Luca Zevi, ma, restando alla mostra di Chipperfield, il “Common Ground” che raccoglie molte delle interpretazioni possibili, è il progetto di Urban-Think Tank, giustamente premiato dalla giuria: un ristorante nella Torre de David, un grattacielo incompiuto di quarantacinque piani a Caracas, in Venezuela, costruito per una banca, ma poi, fallita la destinazione, occupato da migliaia di famiglie e diventato una “favela verticale”. Uno spazio pubblico prestato dall’architettura per fare comunità fra i più poveri del mondo.
La retorica che va per la maggiore attualmente in Italia e in Europa, è che per uscire dalla crisi lo Stato deve investire, soprattutto in grandi infrastrutture, e in particolare in quelle di trasporto (vedi linea Torino-Lione, ma di opere simili ce ne sono sul tavolo una quantità, ognuna con i propri sponsor politici e industriali). Ora il prof. Prud’homme dell’Università di Lione ha fatto un’analisi del tutto indiziaria, su un numero limitato di paesi europei (8) e per un numero limitato di anni (5, dal 2000 al 2004 compresi). Sono anni abbastanza lontani da consentirci di vedere oggi gli impatti di quella politica, ma non così lontani da collocarsi in un contesto economico troppo remoto. Ha rapportato le spesa in investimenti in infrastrutture di trasporto (strade e ferrovie) con il Pil medio di quei 5 anni considerati. Cioè ha analizzato quanta parte della loro ricchezza hanno dedicato proprio ai grandi investimenti. La limitatezza dei dati e del campione non consente ovviamente altro che di avanzare dei dubbi, cioè di rendere assai meno solido il luogo comune che recita “più grandi investimenti in trasporti = più crescita economica”.
Chi vince, nell’ordine? Primo viene il Portogallo, poi la Grecia, poi la Spagna, poi l’Italia. Buona quinta la Francia, mentre Germania, Regno Unito e Svezia sono i fanalini di coda. Non occorre ricordare come sono andate le economie di questi Paesi, in particolare Spagna e Grecia, sia in termini di crescita economica che di debito pubblico. Ma c’è stato anche un celebre precedente in Giappone: negli anni Novanta quel paese spese un’enorme quantità di denari pubblici in infrastrutture per rilanciare la crescita economica, con risultati trascurabili, se non quello di una spettacolare crescita del debito (e, sembra, di livelli di corruzione altrettanto spettacolari). La retorica delle Grandi Opere si richiama a sproposito a Keynes, grande economista inglese, che però parlava di stimolare la crescita, in periodi di crisi, con spesa pubblica che aumentasse rapidamente i consumi e l’occupazione (“impiegare i disoccupati anche a scavar buche e riempirle” era il suo noto paradosso).
Le Grandi Opere sono certo spesa pubblica (soprattutto quelle ferroviarie, che, al contrario di quelle autostradali, gli utenti non pagano), ma mancano clamorosamente delle altre due caratteristiche: cioè creano poca occupazione, e non la creano rapidamente. Invece, è certamente vero che molte di queste abbiano la stessa utilità di scavar buche e riempirle (si è già citata la Torino-Lione, ma altre non scherzano). Creano poca occupazione, per ciascun euro pubblico speso, perché oggi nelle opere civili si fa quasi tutto a macchina (si pensi per esempio alle “talpe” per scavare tunnel). Il costo diretto del lavoro non supera il 25% dei costi totali. Non la creano rapidamente perché i cantieri durano 10 anni, e il “picco” di addetti necessari è spostato in là, quando si arriva ai lavori di finitura e messa in opera.
Questo approccio al rilancio economico mediante Grandi Opere, care al governo Berlusconi, sembrava molto indebolito, soprattutto per la scarsità delle risorse pubbliche. Tuttavia oggi nuove nubi si affacciano all’orizzonte, e questa volta arrivano dall’Europa, e sono fortemente caldeggiate dallo stesso governo Monti, e ovviamente da banche e grandi costruttori. Si tratta dei Project Bond e della cosiddetta “golden rule”. I primi sono di fatto garanzie europee sui prestiti (bond) che i privati possono fare per realizzare progetti. Ma ovviamente varranno per progetti europei, pensati prima della crisi, quindi di importo molto elevato e con orizzonti temporali molto lunghi. Cioè proprio Grandi Opere, e si ricorda che le Grandi Opere europee non sono altro che la sommatoria di quelle indicate dai diversi paesi, cioè per l’Italia quelle care al governo Berlusconi. Le garanzie europee sui prestiti dei privati, salvo un improbabile irrigidimento della Commissione europea, significano che se poi l’opera si rivela scarsamente utile e avrà poco traffico, l’Europa, cioè ancora le casse pubbliche, pagheranno. Un ulteriore debito pubblico, mascherato e rimandato nel tempo.
La “golden rule” significa che le spese per investimenti pubblici in infrastrutture non sarebbero più conteggiate nel debito nazionale. E il risultato sarebbe del tutto analogo a quello degli Project Bond: un forte incentivo a spendere in Grandi Opere di dubbia utilità. L’opposizione tedesca (e inglese) all’introduzione di questi strumenti, si badi, era proprio finalizzata a scoraggiare spese pubbliche clientelari e improduttive, che avrebbero pesato sui deficit per molti anni.
Angela Merkel ha fatto e continua a fare molti errori economici, ma in questo caso sembra difficile non solidarizzare, almeno un po’, con la sua visione rigorista, che appare certo più difendibile dell’allegro Keynesianismo di molti altri governi europei, supportati da interessi che con la crescita non hanno davvero nulla a che vedere.
L’autore è professore di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano
Alcoa, Fiat Pomigliano, Ilva. Ecco tre problemi industriali emersi che il governo non vuole, non sa risolvere. C'è un quarto problema, minerario questo, e quindi non industriale ma sottoterra, ed è quello del Sulcis. Sulcis e Alcoa gravitano nello stesso quadrante della Sardegna, Sulcis-Iglesiente, tra la stessa gente: giovani che non trovano lavoro, redditi familiari in estremo pericolo. Che prospettive rimangono per un ragazzo, una ragazza di Carbonia con le miniere senza futuro, il parco che non decolla, l'alternativa della produzione di alluminio che svanisce?
Il turismo costiero vale per una breve stagione, invece i giovani - e le famiglie - hanno la brutta abitudine di mangiare tutto l'anno. Sul manifesto di ieri su tutto questo c'era un articolo, competente e sdegnato, di Loris Campetti («Un governo senza politica industriale»). Nel corso della giornata lavoratori dell'Alcoa hanno poi raggiunto Roma per sostenere un'eventuale trattativa. Seguiranno anche i pastori. L'immagine scelta da Campetti è che sia stato tolto il tappo alla Sardegna e l'isola intera rischi di affondare. Gira la voce di una trattativa aperta con Glencore, la multinazionale suprema dei metalli e delle derrate; quella che non solo compra e vende in tutti i paesi di mondo, ma punta spesso al monopolio e da qualche anno ha cominciato anche a produrre. Nel Sulcis, Glencore fa zinco e piombo con migliaia di addetti. Se appare come una soluzione semplice per il governo italiano è però un temibile concorrente, forse da evitare, per Alcoa.
Sarebbe come se Riva vendesse l'Ilva di Taranto a Mittal, il magnate indiano che controlla l'acciaio mondiale, oppure se Fiat vendesse lo stabilimento di Pomigliano - tanto per fare un nome - a Volkswagen. Siccome spesso la realtà supera la fantasia, quest'ultima favola potrebbe realizzarsi. Con un colpo di scena, la vendita dell'intera fabbrica, nuove linee e operai compresi, esclusi solo i 145 della Fiom, alla casa tedesca, è entrata nel novero delle scelte possibili in casa Fiat, da proposta indecente che era. Ricordavano opportunamente i giornali, per esempio l'Unità di ieri, che Sergio Marchionne aveva da meno di una settimana accusato il gruppo di Wolsburg di «sanguinaria politica al ribasso» e che era perciò difficile immaginare un contatto amichevole tra la sua Fiat e «quelli». Ma i capitalisti si muovono in un territorio e si parlano con un linguaggio che sono inaccessibili alle persone comuni e a quelli che hanno il compito sociale di cercare le notizie; tutti tanto facili da turlupinare.
Glencore e Volkswagen sembrano gli esiti favolosi di un governo senza idee, incapace di affrontare le multinazionali che agiscono in Italia, quelle indigene e le altre. Il mantra, sempre ripetuto, è quello di richiamarne altre e altre ancora, con il risultato di avere sul territorio nazionale sempre più imprese fuori controllo, mettendo però a disposizione la forza lavoro, dopo averla privata di diritti acquisiti; e assicurando a capitali stranieri e mercato di avere ormai salari, modelli di organizzazione del lavoro e flessibilità del tutto concorrenziali con i paesi vicini e lontani.
Il labirinto di Borges, realizzato in ricordo dello scrittore nei giardini della Fondazione Cini sull'Isola di San Giorgio a Venezia, è emblematico degli intricati e rischiosi percorsi da intraprendere per tutelare e valorizzare i nostri Beni culturali. In Italia i musei sono più di tremila, ma anche le fonti istituzionali divergono sul loro numero. Poi ci sono le aree archeologiche, gli archivi e le biblioteche. E su di essi, ogni giorno emergono ritardi o controversie: la biblioteca dell'Istituto per gli Studi filosofici di Napoli finita negli scatoloni, l'opposizione degli storici dell'arte alla nascita della Fondazione Brera a Milano, lo Stato che non paga l'ultima tranche per concludere il restauro alla Galleria dell'Accademia a Venezia.
«C'è un problema di efficienza, non solo una mancanza di fondi pubblici, che vengono spesi male», afferma Pasquale Gagliardi, dal 2002 Segretario Generale della Fondazione Cini, con un passato manageriale e di studioso delle istituzioni culturali. «I burocrati di stato trovano spesso spiegazioni cavillose per giustificare inadempienze; affidarsi ai privati significa, invece, correre il rischio che qualcuno consideri beni o finanziamenti pubblici qualcosa di cui approfittare. C'è, da un lato, un problema di denaro pubblico a volte gestito con scarso riguardo. Dall'altra la bramosia di chi non percepisce il valore di gestire risorse comuni». Trovare la via che porti fuori da questo labirinto non è facile, e la strada è stretta: «In Italia manca un'etica pubblica diffusa; ma in nessun Paese del mondo la cultura si fa solo con soldi pubblici. Servono dei privati per i quali l'investimento culturale è una forma di restituzione alla società». Solo che la fenomenologia di questi investimenti, quando ci sono, rivela che i privati (individui, società o fondazioni), prediligono sostenere istituzioni che danno lustro, come la Scala o la Fondazione Cini, trascurando il territorio diffuso, del quale si deve sempre far carico lo Stato.
«Questo perché in Italia manca il mecenatismo classico — dice Gagliardi — e perché è assente un adeguato sistema per la defiscalizzazione dell'investimento culturale. Negli Stati Uniti c'è la corsa per avere il proprio nome sulla targhetta sotto un quadro. Da noi c'è troppo familismo anche in questo. Si lasciano i beni agli eredi, raramente alla società. L'Italia è un Paese di clientele, di salotti buoni, di imprese piccole e poco attente al sociale». Ne consegue che, quando il privato investe in cultura, spesso siamo di fronte a casi di narcisismo individualistico o alla richiesta di poter avere «mani libere» senza lacci e lacciuoli, in un'ottica poco moderna. «Spesso si vogliono abolire i controlli di legge; ma quando si chiede la piena autonomia si sbaglia. Ci vuole un giusto controllo. Anche l'Istituto per gli Studi filosofici, forse, era da gestire in maniera diversa». Meno personalistica? «Non esiste una cultura che non va controllata, che si giustifica in quanto tale. Anche la Cini, per anni, non era interessata al numero di visitatori e non si occupava di quanto fossero distribuiti i libri da lei promossi. La cultura non ha prezzo è uno slogan senza senso». Ma è auspicabile affidare la memoria collettiva a un soggetto privato? Se i «nuovi privati» fossero arabi, russi? «Sarei contrario. I beni sono un patrimonio collettivo e vanno assicurate garanzie e benefici collettivi».
E allora che fare? «Agire in partnership, con finanziamenti privati e statali legati a progetti condivisibili. L'economia non è la negazione della cultura. Lo stato non può fare da solo, bisogna fare connubio. Ma ci vuole anche un personale pubblico partecipe, con qualità tecniche e morali. Quando Pasquale Gagliardi, Segretario Generale della Fondazione Cini dal 2002 gli storici dell'arte si oppongono ai privati, mi sembra un riflesso spontaneo. Talvolta, ciò, è proprio anche dei sovrintendenti, ma non qui a Venezia, dove con Renata Codello abbiamo collaborato con intesa e ottenendo risultati. Ci ha anche difesi nel contrastato intervento alla manica lunga e nel rifacimento del refettorio palladiano». Per la gestione dei musei, dunque, «si potrebbe puntare sulle fondazione di partecipazione, che mantengono un equilibrio tra bene pubblico e progetto privato mirato». Progetti che, alla Cini, riescono meglio anche per la fortissima attrazione del luogo. «Potremmo dare vita — conclude Gagliardi — a laboratori per artisti contemporanei oppure ospitare scrittori che intendono scrivere un racconto su Venezia». Anish Kapoor, Vilcram Seth e il Nobel V.S. Naipaul si sono già assicurati un posto vista San Marco.
Gentile presidente della Repubblica, Gentile presidente del Consiglio, Gentile ministro per i Beni culturali,
leggendo con più attenzione il decreto-legge n. 83 per lo sviluppo divenuto legge nei giorni scorsi, abbiamo amaramente constatato che all’art. 8 del medesimo è stato inserito un provvedimento che con lo sviluppo ha ben poco a che fare e che invece apre un varco, a nostro avviso decisivo, in direzione della trasformazione dei grandi musei italiani da pubblici a Fondazioni di diritto privato, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Si stabilisce infatti la creazione della “Grande Brera” quale Fondazione privata incaricata di gestire la Pinacoteca Nazionale di Brera e i suoi beni, mobili e immobili. Tutto ciò anche dopo il confuso “pasticcio” della Fondazione Museo Egizio di Torino.
Anzitutto notiamo che, nel “concerto” ministeriale predisposto per questo importante disegno di legge governativo, non figura il ministro competente per i Beni culturali il cui apporto (e ciò è gravissimo) viene giudicato palesemente inessenziale.
In secondo luogo l’art. 8 del decreto-legge n.83 del 22.6.12 ora convertito in legge, conferisce in uso ad una Fondazione di diritto privato l’intera collezione della Pinacoteca di Brera, stratificatasi in due secoli e il grande palazzo che la ospita. accanto ad altre istituzioni e cioè l’Accademia di Belle Arti - che l’ex commissario Mario Resca ha provveduto a sloggiare, là insediata prima della creazione della Pinacoteca - la Biblioteca Nazionale Braidense, l’Osservatorio astronomico, l’Orto botanico, l’Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere. Istituti tuttora operanti, viva eredità culturale dell’illuminismo lombardo che la scissione operata dalla Fondazione farebbe deflagrare. E’ pienamente costituzionale un simile trasferimento? Rappresenta davvero una prosecuzione della tutela garantita dall’art. 9 della Costituzione al patrimonio storico-artistico? O non funge al contrario, da apripista, per una fase del tutto nuova con l’ingresso di soci privati in un grande museo statale? Dopo la Grande Brera privatizzata, sarà più facile avere i Grandi Uffizi privatizzati o la Fondazione Galleria Borghese, privata come gli Archeologici di Napoli o di Taranto. Col pretesto, ribadito più volte dal ministro Ornaghi, che, tanto, lo Stato non ha più soldi.
Fra l’altro nell’ultimo comma dell’art. 8 del decreto-legge Passera (Ornaghi assente) si dice che “la Fondazione può avvalersi di personale appartenente ai ruoli del Ministero per i beni e le attività culturali e degli enti territoriali che abbiano acquisito la qualità di soci promotori”. “Può” avvalersi: dunque può anche non avvalersene, può essere tagliato in ogni momento il cordone ombelicale che lega da sempre questa Pinacoteca Nazionale al Ministero specificamente incaricato della tutela e al personale tecnico-scientifico che esso seleziona.
Il fine generale è quello di una “gestione secondo criteri di efficienza economica”. Il che, se ci si consente, rappresenta uno schiaffo ai direttori dei grandi musei nazionali i quali stanno da mesi compiendo sforzi eroici per tenere aperte, vive e vitali tali istituzioni dovendo lottare con fondi ridotti al lumicino (negli ultimi dodici anni il bilancio ministeriale è crollato da 2,5 a 1,5 miliardi). Altro che “efficienza economica”. Questi valorosi servitori dello Stato e i loro predecessori hanno creato musei ammirati in tutto il mondo ed ora sono costretti ad una gestione non “secondo criteri di efficienza economica”, bensì in condizioni umilianti di mera sopravvivenza (i loro stipendi variano fra i 1700 e i 1900 euro netti). Una “economia di guerra” che minaccia e ostacola lo sviluppo dello stesso turismo culturale, il solo in crescita, con pericoli continui di chiusure parziali o totali, con la riduzione o l’annullamento delle attività didattiche, per giovani e giovanissimi, e di quelle di ricerca ben più importanti culturalmente di altre attività prettamente “commerciali”.
Perché non si è discusso di questa operazione-Grande Brera alla luce del sole? Perché si è escluso da essa il Ministero per i Beni e le Attività culturali? Perché si è infilato un provvedimento di questa portata nelle pieghe di un decretone per lo sviluppo? Eppure si tratta di una operazione che apre la strada, chiarissimamente, alla privatizzazione dei maggiori musei italiani, già tentata nel recente passato, lontana dai grandi modelli italiani ed europei, e che ora si fa passare nel fragoroso silenzio degli organi di informazione, della maggioranza degli intellettuali italiani e degli addetti ai lavori. Spettacolo avvilente rispetto alla reazione riservata anni fa ad una proposta, forse più ingenua, ma certamente più chiara e lineare, di privatizzazione dei Musei statali avanzata dall’allora ministro Giuliano Urbani. In questo caso il ministro competente non c’è, non sente, non vede. Ci pensa il collega dello Sviluppo. Anche l’Arte è più che mai una merce. C’è ancora qualcuno che voglia discutere in positivo nel nostro Paese senza facili populismi, ma con serietà e rigore culturale?
Per aderire alla lettera aperta: http://www.petizionionline.it/petizione/no-alla-grande-brera-privatizzata/7783
I promotori:
Vittorio Emiliani, Maria Pia Guermandi, Tomaso Montanari
I primi sottoscrittori:
Giovanni Pieraccini, Alberto Asor Rosa, Salvatore Settis, Vezio De Lucia, Carlo Ginzburg, Luigi Manconi, Andrea Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Gianfranco Amendola, Paolo Maddalena già vice-presidente Corte costituzionale, Rosellina Archinto, editore, Catherine Loisel, Conservateur en chef Musée du Louvre, Pier Luigi Cervellati, Jonathan Bober, Curator of Old Master Prints National Gallery of Art Washington, D.C., Giovanna Pesci Enriques, presidente Ass. Artelibro, gli archeologi Licia Borrelli Vlad, Mario Torelli, Pietro Giovanni Guzzo, Carlo Pavolini, Gino Famiglietti, direttore generale MiBAC per il Molise, Carlo Alberto Pinelli, Corrado Stajano, Donella e Gianandrea Piccioli, Matteo Ceriana, direttore Gallerie dell’Accademia di Venezia, Rita Paris, direttrice Museo Archeologico Nazionale di Palazzo Massimo, Roma, Luisa Ciammitti, direttrice Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Anna Lo Bianco, Direttrice Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini, Roberta De Monticelli, Jennifer Montagu, Warburg Institute, London, Danielle Mazzonis già sottosegretario ai Beni culturali, Giovanna Borgese, gli storici dell’arte Antonio Pinelli, Università di Firenze, Francesco Caglioti, Università Federico II Napoli, Andrea De Marchi, Università di Firenze, Massimo Ferretti, Scuola Normale Superiore Pisa, Michele Dantini, Università del Piemonte Orientale, Angela Ghirardi, Università di Bologna, Nicola Caracciolo, vicepresidente Italia Nostra, i consiglieri nazionali di Italia Nostra: Ebe Giacometti, Franca Leverotti, Maria Rita Signorini, Laura Cavazzini, Università di Messina, Fiorella Scricchia Santoro, Sofia Boesch Gajano, Pierluigi Carofano, Scuola speciale BC Siena, Federica Tonioli, Arte medievale Università di Padova, Maria Letizia Gualandi, presidente Corso di laurea BC, Pisa, Anna Bisceglia, Galleria Palatina Firenze, Cristiano Giometti, Felicia Rotundo, Soprintendenza Siena-Grosseto, Maria Chiara Cadore, Soprintendenza Friuli-Venezia Giulia, i docenti dell’Accademia di Belle Arti di Brera, Flaminio Gualdoni, Francesca Valli, Valter Rosa, Sandro Scarrocchia e Stefano Pizzi, Giuliana Ericani, direttore Museo Civico di Bassano, Ezio Cuoghi, direttore della scuola di Nuove tecnologie dell’arte dell’Accademia Belle Arti di Brera, Mario Curia, editore d’arte (Mandragora), Alessandra De Vita, Progetto Ercolano, Antonio Porto, economista, Helen Ampt, Maria Luisa Catoni, Ist. di studi avanzati, Lucca, Maria Fratelli, dirigente settore Musei comunali Milano, Oriana Orsi, ispettrice Musei Civici Imola, i docenti Alberto Lucarelli, Diritto pubblico, Napoli, Claudio Greppi, Dipartimento di Storia, Siena, Lia Formigari, Dipartimento Filosofia, Sapienza Roma, Flavio Fergonzi, Università di Udine, Alberto Gajano, Università di Siena, Francesca Brezzi, Filosofia morale Roma 3, Giuliana Ricci, Storia dell’Architettura Politecnico di Milano, Francesco Petrucci, Fisica applicata ai Bc, Ferrara, Filippo Maria Pontani, Università di Venezia, Rossano Pazzagli, storico, Università del Molise, Massimo Quaini, Università di Genova, Reinhold Mueller, già docente Storia Medioevale Cà Foscari, Maurizio Bertolotti, presidente Istituto Mantovano di Storia contemporanea, Giulia Rodano, consigliere regionale Lazio, Paolo Berdini, urbanista, Sauro Turroni, architetto, Francesca Alesse, ricercatrice CNR, Lorenzo Carletti, CNR Pisa, Nino Criscenti, Gianni Sofri, Mariolina Olivari, Franco D’Emilio, segretario Confsal-UNSA Emilia-Romagna, Alessandro Nova, Patrimoniosos, Francesco Poli, Alberto Cornice, Daniela Pinna, Anna Stanzani, Sergio Landucci, Francesca Salatin, Mirella Cavalli, Piero Bevilacqua, storico, Università La Sapienza, Roma, Giampaolo Ermini, Giandomenico Cifani, Italia Nostra L’Aquila, Iginio Tironi, Mariolina Olivari, vicedirettrice Brera, Francesca Flores d’Arcais, Emanuela Fiori, Maria Cristina Passoni, Maria Beretta, Filomena Cioppi, Fabio Torchio, Simona Lecchini Giovannoni, Gennaro Luongo, Università di Napoli “Federico II”, Alberto Primi, Paolo Togni, Serena Sandri, Cinzia Neri, Cristina Quattrini, Sabina Spannocchi, Laura Fenelli, Alfredo Stussi, Armanda Pellicciari, Andrea Conti, Gianni Negrelli, Cecilia Ghibaudi, Edoardo Villata, Francesca Mattei, Antonello Nave, docente e storico dell'arte, Firenze, Irene Berlingò, presidente Assotecnici, Marco Vincenzo, Mattia Patti, Cecilia Frosinini, Enzo Mecacci, segretario Accademia degli Intronati, Siena, Massimo Maugeri, Annalisa Pezzo, Biblioteca comunale degli Intronati, Siena, Elisa Angelini, Anna Colombi Ferretti, Maria Maddalena Lombardi, Paola Delbianco, Biblioteca Civica Gambalunga Rimini, Chiara Toschi Cavaliere, presidente Italia Nostra Ferrara, Andrea Bacchi ,Università di Trento, Angela Donati, Università di Bologna, Giuseppe Arcidiacono , docente Composizione Arch. Un. Reggio Calabria, Paolo Bensi , docente Storia sociale Dip. Arch. Genova, Fabrizio Lollini , Università di Bologna, Alessandro Volpe , Università di Bologna, Federico Fischetti , storico dell'arte Sopr. di Modena-Reggio E., Patrizia Cuzzani , responsabile Museo della Resistenza Bologna, Oretta Solaroli, Daniela Trastulli, regista, Luca Errera, Nicoletta Serio, Cecilia Cavalca, Fulvio Cervini, Università di Firenze, Fulvio Frati, Michela Metri, Maria Genova, Orietta Piolanti, Maria Luisa Polichetti, ex direttrice ICCD, Rita Cassani, Pinacoteca Nazionale di Ferrara, Stefano Pezzoli, Istituto Beni Culturali, Bologna, Elisa Griglione, Maria Malatesta, Università di Bologna, Maria Luisa Masetti, Stefano Conti, Manuela Mattioli, restauratrice, Cristiana Mancinelli Scotti, Elena Montanari, Soprintendenza BSAE Mantova, Alessandra Basso, Claudia Cavatorta, CSAC - Università di Parma, Pierangelo Cavanna, Ferruccio Farina, il Consiglio Scientifico del "Centro Interdipartimentale di Ingegneria per i Beni Culturali" dell'Università di Napoli Federico II: Salvatore D'Agostino, Gennaro Improta, Paola D'Agostino, Metropolitan Museum di New York, Anna Esposito, Luciana Sepe, Patrizia Piscitello, Polo Museale Napoli, Maria Paola Pilandri, Soprintendenza Beni Architettonici e Paesaggistici di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, Rimini, Marina Gerra, Soprintendenza Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici, Parma, Marina Angelini,
Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, Elena Pedrotti, Claudio D'Amico, Università di Bologna, Enrico Venturelli, Nicoletta Serio, Fulvia Donati, Università di Pisa, Anna Bacchilega, Serena Romano, Université de Lausanne, Maria Perla Colombini, pres. Ass. Italiana Archeometria, Chimica, Università Pisa, Marinella Pigozzi, Università di Bologna, Stefania Biancani, Massimo Teodori, Alberta Fabbri, Museo d'arte di Ravenna, Corinna Giudici, direttore Archivio foto Soprintendenza Bologna, Gian Marco Vidor, Berlino, Giuseppe Adani, presidente del C.s. Fondazione Il Correggio, Roberto Spocco, Archivio Storico Comunale Parma, Renato Parascandolo, già direttore di Rai Educational, Nicola Spinosa, già Soprintendente Polo Museale Napoli, Massimiliano Biscuso, Silvia Alessandri, Alessandra Malquori, Enrica Ambrosini, Paola Pirolo, Lidia Bortolotti, IBC Servizio Musei, Bologna, Gianfrando Draghi, Michele Feo, Paola Italia, Nino Vaccaro, Angela Nannetti, Francesco Federico Mancini, Marina Miraglia, Paola Cavazzuti, Luciano Puccianti, Maria Grazia Bernardini,
Direttore Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo, Linda Guzzetti, Raffaella Fontanarossa, Paola Tumminelli, Alessandra Sarchi, Pierangelo Cavanna, Silvia Camerini Maj, Vincenzo Marzo, Bruno Santi, ex soprintendente, Giovanna Monetti, Daniele Fratini, Maria Giovanna Vezzalini, Cesare Benzoni, Maria Monica Donato, Scuola Normale Superiore - Pisa, Luigi Schiavulli, Gianni Lodi, Benedetta Campana Heinemann, Berlino, Uwe Heinemann, Berlino, Donata Vicini, già direttore dei Musei Civici di Pavia, Letizia Lodi, Direttore Museo Certosa di Pavia, Sbsae di Milano, Claudia Salmini, Bruno Taddei, Luisa Tognoli Bardin, Silvia Baroni, Stefano Monetti, Veronica Lisino, Gabriella Prisco, già ISCR, Flavia Matitti, Accademia di Belle Arti di Firenze, Enrico Parlato, Paolo Castellani, Polo Museale della città di Roma, Paola Pettenella, Responsabile settore archivi storici del Mart, Erminia Irace, Università di Perugia, Emanuela Rollandini, conservatore
Castello del Buonconsiglio, Trento, Alessandro Pasetti Medin
Soprintendenza Beni Storico-Artistici di Trento, Lia Camerlengo
conservatrice del museo del Castello del Buonconsiglio, Trento, Paola Bassani, Adriana Capriotti, Polo Museale della Città di Roma, Beatrice Sica, Grazia Gobbi Sica, Alberto Caprioli, compositore e direttore d’orchestra, Luisa Giordano, Renata Casarin, Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Mantova, Brescia e Cremona, Barbara Fabjan, Alba Costamagna, Maria Virginia Cardi, Accademia di Brera di MIlano, Giulia Mastrapasqua, Comune di Milano, Paola Porcinai, Ugo Locatelli, architetto e artista.
T. Montanari, Nicole, ti ritroveremo a Brera?; V. Emiliani, Se Brera diventa privata; T. Montanari, Ministro, faccia il suo lavoro ; Emiliani-Del Frà, No alla Grande Brera privata
L'arroganza e l'impunità dello stato israeliano sembrano davvero ben rappresentate dalla sentenza di ieri su Rachel Corrie della Corte di giustizia di Haifa che ha dichiarato: «Si mise da sola e volontariamente in pericolo. Fu un incidente da lei stessa provocato».
Così lo stato e il governo israeliani archiviando il caso internazionale dietro il paravento della giustizia sommaria per uno stato in guerra che occupa un altro territorio e sottomette un altro popolo, si autoassolvono, dopo nove anni e mezzo dall'uccisione della pacifista americana dell'Internationl Solidarity Movement - come Vittorio Arrigoni. Tentando di cancellare insieme alla giustizia, il nome di Rachel Corrie e ancora una volta la stessa resistenza palestinese.
Rachel venne barbaramente schiacciata il 16 marzo del 2003 da un bulldozer dell'esercito israeliano mentre cercava d'impedire, con la sola intermediazione non violenta del suo corpo e della sua voce scandida da un megafono, la scientifica demolizione di migliaia di case palestinesi. Cercava Rachel di fermare quel terrorismo di stato, condannato anche dall'Onu e in particolare dall'Unrwa-Agenzia per i Rifugiati, che lasciò senza casa 17 mila famiglia palestinesi e che venne però giustificato per «fermare i terroristi» ed edificare al posto delle abitazioni civili un altro muro alla frontiera con l'Egitto. Il tribunale così ha respinto il ricorso della famiglia che aveva accusato lo Stato isrealiano di essere responsabile dell'uccisione della figlia e di avere scientemente evitato indagini accurate.
Ora l'esercito è assolto. Non solo. La colpevole sembra essere proprio Rachel che con il suo strabordante coraggio ha osato sovrastare e «schiacciare» l'operazione «umanitaria» dei bulldozer di Tel Aviv. Lei che, solo pochi giorni prima di venire assassinata, in una e-mail agli amici, aveva denunciato: «Abbattono le case anche se si trova della gente dentro. Non hanno rispetto di niente né di nessuno».
Non hanno avuto rispetto di niente e di nessuno anche con questa sentenza. Al punto da diventare come una seconda uccisione. Quella denunciata dall'attrice Vanessa Redgrave ogni volta che sul nome di Rachel Corrie in Occidente e negli Stati uniti scende il velo della censura. Perché il pacifismo attivo e diretto che si frappone alla guerra è stato, proprio nell'anno della morte di Rachel Corrie, il grande sconfitto dalla guerra infinita di Bush. Come è sconfitto, silenzioso e inattivo, ogni giorno che la deriva integralista delle primavere arabe è degenerata e degenera in quotidiani bagni di sangue, come in Siria.
Difficile cancellare la memoria di Rachel Corrie la cui immagine torna sempre nelle piazze con Occupy. Naomi Klein ha recentemente ricordato che nei Territori occupati e nella Striscia di Gaza, ovunque ci sono bambine chiamate Rachel in suo onore. La storia di Rachel è viva, nonostante il cuore dei palestinesi, dopo la morte di Arafat, sia spezzato nelle due anime per ora non facilmente conciliabili, di Hamas e Fatah. Perché, qual è l'essenza della solidarietà di Rachel Corrie? «Avvertire la consistenza della storia vivente del popolo palestinese - ha scritto Edward Said - come comunità nazionale e non semplicemente come un gruppo di poveri rifugiati».
Tra le molte maledizioni di cui soffre l'Italia, ce n'è una che a intervalli regolari la insidia: ogni scelta cruciale si presenta sotto forma di dilemma tragico, irrisolvibile. Nella Grecia classica si direbbe: di aporia. Uno scontro mortale tra principi egualmente forti, e spesso egualmente validi. Solo che da noi manca la catarsi, che snoda i nodi. I nostri grovigli, tendiamo a viverli come ineludibili fatalità.
Nel caso dell'acciaieria Ilva, il dilemma consiste nella scelta, inconcepibile in altri paesi europei, tra la morte di fame per il lavoro perduto e la morte per i tumori che la fabbrica ha continuato a espandere lungo gli anni, per inadempienza e corruzione. Nel caso della disoccupazione giovanile, il dilemma viene addirittura presentato come cruento gioco della torre.
Visto lo stato di necessità che traversiamo, chi buttare giù dagli spalti: la generazione dei 30-40 anni o quella successiva? Non so cosa abbia pensato il Presidente Monti, nell'intervista del 27 luglio a Sette, quando ha pronunciato, con la leggerezza dell'apatia, un verdetto anch'esso poco immaginabile altrove in Europa: "Esiste un aspetto di generazione perduta, purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni (...) ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi (...) partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di generazioni perdute".
Più grave ancora il dilemma - l'aporia tragica - che è all'origine della pubblica discussione attorno alle inchieste della magistratura di Palermo e Caltanissetta, e all'intervento del Presidente della Repubblica che ha deciso di sollevare un conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani a seguito di telefonate intercettate con l'ex ministro dell'Interno Mancino, non ancora inquisito per falsa testimonianza.
Non credo che Napolitano voglia ostacolare le inchieste siciliane sulle trattative fra mafia e parti dello Stato: più volte ha assicurato anzi il contrario. Ma condivido il timore espresso su questo giornale da Gustavo Zagrebelsky: il rischio esiste che l'iniziativa presidenziale assuma "il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia".
Se mi soffermo su questo caso è perché tra i nostri dilemmi mi pare il più significativo, e il più periodico. Tra le critiche rivolte agli inquirenti dell'antimafia ce n'è una, che ricorre da vent'anni: l'accusa di protagonismo. L'epiteto resiste a tutte le intemperie: chi ha letto il libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino (Chiarelettere 2012), ne constaterà l'inossidabile natura, il suo ripetersi ossessivo.
Ecco un altro nostro nodo che non si snoda. I magistrati sono sospettati di intromettersi nella politica e di farla, invece di lavorare in silenzio e risparmiare ministri e deputati: usano rilasciare interviste, impartire lezioni, e soprattutto denunciare l'irresponsabile non-presenza dello Stato. Non da oggi, ma dagli anni del maxiprocesso istruito dal pool di Palermo. Né Falcone né Borsellino bramavano le luci della ribalta. Se si esponevano con tanta frequenza, con accuse così esplicite, è perché percepivano l'isolamento cui erano condannati, l'insabbiamento che minacciava l'operazione verità. Non accade dappertutto, che un magistrato definisca se stesso un morto che cammina.
Lo stesso accade oggi a Antonio Ingroia, quando rilascia interviste colme di inquietudine. O a Roberto Scarpinato, Procuratore generale di Caltanissetta: il culmine l'ha raggiunto il 19 luglio, anniversario della morte di Borsellino, quando ha letto una lettera immaginaria all'amico ucciso dalla mafia vent'anni fa. Una lettera dura per i politici che ogni anno commemorano la strage di via d'Amelio: "Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite - per usare le tue parole - emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà".
A causa di queste parole, il Consiglio superiore della magistratura presieduto da Napolitano ha aperto un fascicolo sul trasferimento d'ufficio del procuratore, rendendo perigliosa la sua nomina ai vertici della procura di Palermo. Lo stesso Csm ha attivato il procuratore generale della Cassazione, affinché verifichi se Scarpinato abbia utilizzato, nella lettera, parole censurabili con provvedimento punitivo. È il motivo per cui Zagrebelsky parla, rivolgendosi a Napolitano, di "eterogenesi dei fini": sollevando un conflitto di poteri con i giudici di Palermo, Napolitano si inserisce, non intenzionalmente, in un contesto che vede i magistrati siciliani fortemente screditati, in difficoltà.
Non fu sollevato lo stesso conflitto nel '93, quando il Presidente Scalfaro fu intercettato nell'ambito di un'inchiesta sulla Banca Popolare di Novara (la Procura di Milano depositò agli atti l'intercettazione, contrariamente alla telefonata Mancino-Napolitano). O quando nel 2009 fu intercettata una telefonata a Napolitano di Guido Bertolaso, indagato per gli appalti. L'intervento del Quirinale è legittimo, Scalfari ha ragione e Ingroia lo conferma. Così come sono comprensibili le preoccupazioni istituzionali espresse da Scalfari in una serie di articoli.
Ma è legittima anche la domanda: perché proprio oggi, e non prima? Cosa c'è di così allarmante nelle inchieste siciliane, da smuovere le pubbliche istituzioni e da dividere fra loro giornali seri? È segno della ricchezza di questo giornale il fatto che ambedue le inquietudini siano presenti e conversino tra loro civilmente.
Forse tutto questo accade perché siamo alla vigilia di elezioni. Perché i partiti temono l'avanzare del Movimento 5 stelle. Forse, più semplicemente, perché l'Italia fin dal dopoguerra passa da un dilemma emergenziale all'altro, e mai arriva a quella che Zagrebelsky chiama la tranquillità del diritto. Anche sull'antimafia l'aporia resta irrisolta, dunque tragica: o vuoi sapere finalmente come ha funzionato il tuo paese - se sulla base di compromessi con la malavita oppure no - o convivi con misteri italiani eternamente inconoscibili. O la morte della verità, o la morte della politica e delle sue istituzioni.
Il problema è sapere come mai non sia possibile uscire da simili emergenze, e ritrovare la tranquillità politica in cui ciascuno fa la sua parte, e non quella dell'altro. Come mai, per imporre l'austerità in tempi di crisi, da noi sia necessario annunciare che esiste, nientemeno, una generazione perduta. Come mai sia obbligatorio parlare di Grillo come di un "fascista del web". Come mai se critichi una mossa del Quirinale sei accusato (per quale malinteso o cortocircuito?) di voler abbattere Napolitano e Monti.
L'incapacità di stare responsabilmente al proprio posto - il politico per governare, il partito per fare programmi, il giudice per giudicare, il giornalista per scrutare e analizzare - è certamente all'origine dell'odierno sfacelo. È un'altra conseguenza non voluta delle azioni del Quirinale: il suo desiderio di blindare la carica (con quali conseguenze future?) influenza l'intera classe dirigente, di destra e sinistra, quasi che l'articolo 90 della Costituzione sull'irresponsabilità presidenziale divenisse prerogativa d'ogni politico. Segretamente, si direbbe che ciascuno, schivando il compito che gli compete, voglia Monti in eterno. Se qualcuno non è d'accordo, si fa una legge elettorale per impedirgli di sedere in Parlamento. Intanto si dibatte, all'infinito, su destra e sinistra. Sempre deliberatamente operando in modo che non venga mai l'ora delle responsabilità, dell'azione: della tranquillità del diritto e della politica.