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… E op-là (“un op-là da rimanerci incinta”), come da una vecchia canzone di un vecchio cantautore (Vecchioni): Così Salerno dopo 5 anni di piano regolatore ha fatto op-là !

Questa volta l’ha studiata bene, forse ancora meglio dell’agosto del 2005 quando, dopo 11 anni di gestazione, fu pubblicato il nuovo PRG del Comune di Salerno… All’inizio dell’anno 2012 si rende necessario ripresentare una variante al PRG vigente (che tante storie porta con sé- vedi QUI) . Questa variante serve all’inizio a reiterare dei vincoli espropriativi per le aree interessate a infrastrutture stradali e aree per attrezzature di interesse generale in scadenza dopo cinque anni.

Ma delibera dopo delibera diventa quasi un nuovo piano regolatore. Tanto grande che viene quasi subito sdoppiata in due. La prima, per i vincoli in scadenza, approvata subito nei tempi di legge per prevenire possibili ricorsi di privati. La seconda, per riorganizzare una decina di comparti e molto altro, riceve indirizzi dalla giunta comunale fino al mese di luglio. Normalmente a Salerno il mese di agosto è il mese preferito per far uscire importanti decisione urbanistiche e quindi anche la delibera di adozione della variante “parziale” viene pubblicata dal 2 al 17 agosto 2012. Le varie organizzazioni della società civile che per legge dovrebbero partecipare ad istruire la variante sono ascoltate nel mese di marzo su non si sa che cosa visto che i provvedimenti di giunta arrivano fino a quello di luglio che decide di “valorizzare” (vendere a privati) 6 aree pubbliche 3 delle quali tra le più centrali della città.

La variante, definita “parziale”, è anche l’occasione per riordinare tante situazioni di “criticità”, come si dice in relazione. E’considerata quasi un riordino del PRG (PUC in Campania) in vigore dal gennaio 2007, spiegando che passati 5 anni è naturale rivedere le premesse ed i contenuti di un piano e quindi riordinare vari comparti edilizi che non hanno trovato attuazione e “sanare” certe situazioni verificatesi in questi anni trascorsi. Tutto questo, però, ignorando la variazione più importante di questi anni : Il drastico abbassamento demografico della città.

Dalla relazione di piano del 2005 si asseriva (con dati forniti dal Comune di Salerno) che la popolazione residente anagraficamente a Salerno era di 149.000 abitanti nel 1999 e 144.000 nel 2005 a cui si sarebbe dovuta aggiungere una stima di 7000 abitanti in più perché non registrati anagraficamente, per un totale di 156.000 abitanti scesi poi col decremento, già intervenuto nel 2005, a 151.000 abitanti. A giugno 2009 l’ISTAT comunicava che gli abitanti di Salerno erano 139.585 e a giugno 2012 erano 133.204. L’attuale Piano Regolatore Generale di Salerno è dimensionato, dalla data di entrata in vigore (gennaio 2007), per una popolazione (voluta) di circa 180.000 abitanti. Questo numero di abitanti “voluti” è confermato anche dalla variante in questione pubblicata ad agosto del 2012.

Così con questo Piano e questa Variante abbiamo quasi 50.000 abitanti in più, con conseguenti vani in costruzione, non supportati da nessun valido studio o valida previsione ma solo da una volontà puramente cementificatrice .Anche la linea dell’Amministrazione Comunale, nel sostenere che costruendo più case i prezzi delle stesse siano destinati a scendere, è sconfessata dalla constatazione a livello nazionale e mondiale che il prezzo delle case, anche con maggiore offerta, rimane costante o scende di pochissimo ed invece, di contro, è fortissimo il rischio di “bolle immobiliari” come nella vicina Spagna con conseguenze catastrofiche per il credito finanziario locale. È proprio l’impianto generale del PUC a non essere valido come detto invano nelle osservazioni del 2005 e come ribadito a maggior ragione adesso nel 2012.

Con il ragionamento a base di questo PUC non si vede perché lo stesso piano non poteva essere dimensionato per 200.000 o per 250.000 abitanti… sono certamente numeri presi a caso o degni di altri calcoli. Ed anche il calcolo e la localizzazione degli standard per abitanti lascia molto perplessi ed, in certi casi, quasi in odor di truffa. La fascia di mare (49.223 mq) antistante il Lungomare Trieste è ancora calcolata a verde pubblico. Stessa cosa per l’area della Caserma d Avossa (83.003 mq). Le aree da “valorizzare” (vendita a privati) prese in considerazione da questa variante erano in precedenza quasi tutte considerate aree a standard e adesso dopo la “valorizzazione” abbiamo, in aree densamente popolate, altri uffici, 1226 abitanti in più con verde pubblico e standard in meno.

Non si capisce come sia possibile, in zone sature, levare aree assoggettate a standard di parcheggio e di verde pubblico (piazza Concordia Mazzini/via Vinciprova) e ricoprirle di uffici e residenze con altri 1226 abitanti e che il tutto sia lecito e giudicato compatibile con il dimensionamento del piano. A questo punto potremmo sicuramente dire che se passasse questa linea gli abitanti del centro città che volessero un po’ di verde pubblico lo dovrebbero cercare a chilometri di distanza, ai confini del territorio comunale, a dispetto della raggirata legislazione nazionale che indica una congrua distanza dal dove posizionare gli standards relativi di ogni zona omogenea.

Infatti, dal riordino di 10 comparti , quasi tutti localizzati in periferia, si son avuti 1226 abitanti in più che abilmente son stati riposizionati nelle poche aree pubbliche del centro rimaste ancora libere (altri 203 in periferia su una zona fronte mare destinata in precedenza a verde)

“Abilmente riposizionati” significa che, anche dopo la travagliatissima esperienza del Crescent (l’ecomostro sul mare che ha fatto parlare l’intera stampa nazionale – vedi QUI e QUI), l’Amministrazione Comunale di Salerno, con in testa il suo “famoso” sindaco Vincenzo De Luca, ha preso gusto a vendere le aree pubbliche di pregio per farci costruire sopra nuove residenze, uffici ed alberghi destinati - per posizione e costi - ad una clientela extra lusso. Cosi nella centralissima Piazza Mazzini si venderà a privati un suolo che porta in dote 18.000mq di solaio per alberghi o uffici, o nella baricentrica via Vinciprova terreni per farci case per 613 abitanti, così come altri 613 abitanti nell’ambitissima area pubblica sul mare accanto al Grand Hotel (anch’esso costruito su area già pubblica).

Oltre alle fondamentali questioni del dimensionamento del piano regolatore attuale e riproposto, la “vendita dell’ultima argenteria di casa“, la variante “parziale“ fa suoi vari interventi di notevolissima importanza (ma mai discussi con la cittadinanza) come per esempio arditi collegamenti viari e la continua devastazione del litorale cittadino. Infatti nella variante ci ritroviamo il collegamento viario di allacciamento del nodo autostradale all’angusto (per posizione) porto commerciale di Salerno (il progetto viario non era ancora inserito nel PUC presentato nel 2005). E’ un opera questa chiamata “Porta Ovest” di una grande complessità, da enormi costi e tempi lunghissimi. E’stato velocemente appaltato il primo lotto (indipendente dal resto) che comprende lavori intorno al vallone Cernicchiara ma la parte più consistente e cioè lo sventramento in galleria dell’intera montagna che sovrasta tutto il porto commerciale è ancora da venire. La cosa più logica sarebbe quella di fare una pausa di riflessione sulla vera utilità di quest’immane opera che una volta completata non si discosterà più di tanto dalla situazione attuale (non è previsto nemmeno il collegamento ferroviario – collegamento vitale per un porto commerciale!) con il rischio che dopo tanti anni, tanti investimenti di pubblico denaro, rischi di crolli, intralcio alla circolazione veicolare, le esigenze dell’attuale porto commerciale siano nel frattempo cambiate o addirittura che sia stato delocalizzato.

Anche la sagoma del progetto del cosiddetto Porto turistico di Pastena (o “polo nautico”) compare nei grafici di questa variante. Sarebbe, oltre il già menzionato porto commerciale, il quarto o quinto progetto di porto turistico insistente sui 9 km di litorale ricadente nel comune di Salerno. A vedere il progetto assomiglia più ad una lottizzazione a mare che ad un ennesimo porto turistico sulla nostra costa. Il tutto poi progettato su una zona soggetta a specifico vincolo ambientale (D.M. 17/5/1957 riportato anche nella carta dei vincoli allegato al PUC) il quale vieta espressamente qualunque costruzione o altro che in quella zona possa ostacolare la visione dalla strada dell’intero golfo di Salerno.

Sospeso invece il discorso per l’altro porto turistico, il centralissimo “Masuccio Salernitano”, dove sui grafici è stato tratteggiato un semplice semicerchio con una bella sigla (FP3) sulla sagoma del porticciolo esistente. Come per dire – ci stiamo ancora lavorando – ma, dalla (inquietante) presentazione del plastico a fine 2009 con grattacielo stile Abu Dhabi che svetta dal raddoppiato porto, sapete a cosa stiamo lavorando.

Nel centro storico alto troviamo anche la ratifica dell’alienazione di Palazzo San Massimo dal patrimonio comunale e quindi dalla possibile fruizione pubblica. Era stato, con la sua storia e con i suoi volumi, uno degli edifici protagonisti, nell’ormai lontano 1998, di quel sbandieratissimo Concorso Internazionale d’Architettura chiamato “Edifici Mondo”, miseramente e tristemente fallito. Altre zone gialle (“C” di espansione residenziale) in ex zone verdi compaiono in queste tavole della variante che riepiloga quello che già si è fatto, avendo messo a posto le carte, in poco più di 5 anni. Basta alzare gli occhi sulle colline intorno la città per vedere interi crinali devastati da palazzine della ”nuova” classe cementificatrice.

Queste sono solo alcune chicche urbanistiche che hanno portato ad una rapida cementificazione, ancora non del tutto conclusa, del territorio comunale di Salerno. Comune che, con la sua innegabile dinamicità, riesce a far contrabbandare false metodologie addirittura per “modelli”. Che arriva perfino ad organizzare con enfasi, per l’anno prossimo, il convegno nazionale dell’ INU (istituto nazionale di urbanistica). Che arriva a ricevere il plauso da tutti quelli che cercano un posto al sole senza fare tante domande al manovratore.

Se questa è urbanistica …

Autore : arch. Paolo Ferraiolo (
paoloferra@tin.it)

Dello stesso autore sulla vicenda Crescent di Salerno

da www.eddyburg.it :

Salerno Nuovi incubi urbani. 30.01.2009 http://eddyburg.it/article/articleview/12557/1/127

Piazza e pazzie a Salerno11.06.2009 http://eddyburg.it/article/articleview/13331/1/376

Salerno: Il sindaco con “il film in testa”02.02.2010 http://eddyburg.it/article/articleview/14612/1/127

Info : PRG di SALERNO ( a cura di Italia Nostra Sez. di Salerno)

Storia del Piano della Salerno del Duemila - prima parte -1/2 - Dicembre 2009

http://www.youtube.com/watch?v=KxM_pwFjRRY

Storia del Piano della Salerno del Duemila - seconda parte - 2/2 - Dicembre 2009 http://www.youtube.com/watch?v=lDZp5aO8jyA&feature=relmfu

Una gabbia d'acciaio intorno a un corpo piagato, che con la scusa di sorreggerlo in realtà lo tiene prigioniero aggravandone le piaghe: questo oggi è il rapporto in Italia tra la politica e i partiti da un lato, e la compagine sociale dall'altra. Non ci sono cattivi da una parte e buoni dall'altra, no: semplicemente un morto che tiene un vivo che vuole vivere. Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, destinato dalla loro immobilità ad un «presentismo», come lo ha chiamato Roberto Esposito, nel quale ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla. Mai nulla di sostanziale. Consumata nel 1991-93 la frattura con le culture storiche del nostro Novecento (il socialismo, il fascismo, il cattolicesimo politico, il comunismo gramsciano), da allora la politica della Seconda Repubblica è immersa in un torpido presente senza vita. Da vent'anni non è più in grado di immaginare alcun futuro per il Paese, di offrirgli una visione.

Il motivo più vero e profondo è principalmente uno: perché la politica ha smarrito il senso del passato; perché nei suoi attori e nei suoi istituti — come del resto in tanta parte del Paese — si è spenta ogni idea d'Italia e della sua storia; di che cosa sia l'Italia. Distruggere un paesaggio o deturpare una piazza; lasciare che biblioteche, archivi, musei, siti archeologici si sperdano e di fatto muoiano o cadano in rovina; accettare che nomi e luoghi antichi del lavoro e dell'industriosità italiana siano acquisiti dall'estero; consentire che il sistema d'istruzione escluda sempre più dai suoi programmi interi segmenti della cultura nazionale (a cominciare dalla lingua); è questo il vuoto che abbiamo creato, presi troppo spesso dalla fregola insulsa che ciò volesse dire essere «moderni». Senza capire che sul vuoto, però, è impossibile costruire; e che poi, a riempirlo, non bastano le mitologie d'accatto.

Dobbiamo ricominciare dall'Italia, ritornare a guardare ad essa. Sì, l'Europa naturalmente, ma è qui, entro di noi, nella nostra storia, che qualcosa si è inceppato, ed è da qui che dobbiamo ricominciare: dalla necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato, di tornare a pensare a ciò che siamo stati. L'unica speranza che il Paese stia in piedi e reagisca, oggi risiede nella sua consapevolezza della propria identità. Non per accrescere il Pil o la produttività, infatti; non per fare i compiti richiesti da qualche lontano maestro; ma solo in nome di un'idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi. Dobbiamo ricordare quanto ci è costato arrivare fin qui: la nostra originaria miseria, le lotte per vincerla, i morti disseminati lungo tutte le sanguinose vie del Novecento; ma pure le idee, le immagini, i libri, le musiche che sono usciti da questi luoghi. Così come dobbiamo ricordare che la politica non è sempre stata ladrocini, corruzione o ideologie dissennate, ma ha pure voluto dire speranze di libertà e movimenti di emancipazione, intelligenza del mondo, mobilitazione di passioni e di solidarietà, capacità di darsi ad una causa.

Se vuole avere un futuro, l'Italia ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito. È su questo tavolo che al di là di ogni cosa si giocherà la vera partita del prossimo confronto elettorale. L'alternativa è una sottile disperazione, e il rassegnato governo del declino.

Postilla

In un clima nel quale la destra italiana ha conquistato il primato della demolizione del paesaggio può stupire ,l’insistere da parte del noto commentatore liberal-conservatore, sull’idea del paesaggio nazionale come metafora del paese, bene culturale che rispecchia e l’identità nazionale, ma l’insieme delle risorse e delle potenzialità future, base per un di sviluppo di lungo termine, stupisce meno chi ricorda che è proprio dala pensiero liberale d’antanche nasce quella concezione del paesaggio come «rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo» , e la convinzione in risiedesse «il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali» (Benedetto Croce). Forse le radici del craxismo-berlusconismo sono state del tutto divelte e riacquistano credito, almeno in Italia, alcune delle verità introdotte nella cultura politica dai liberali come Luigi Einaudi e Benedetto Croce (e dai marxisti come Emilio Sereni e Ranuccio Bianchi Bandinelli)? Sarebbe troppo bello per essere vero. Tuttavia per noi ogni fiammella di speranza va raccolta e alimentata.

SOPRAVVIVERÀ la democrazia italiana alle cinque crisi che la stanno pericolosamente avvolgendo? Mai, nella storia della Repubblica, si erano manifestate insieme, e via via sempre più intrecciate, una crisi istituzionale, una politica, una civile, una economica, una sociale.

 Cogliamo ogni giorno i frutti amari e avvelenati di una cosiddetta Seconda Repubblica nata dall’improvvisazione e dall’imprevidenza, di un dissennato “bipolarismo feroce” (copyright del direttore diAvvenire),di una lotta politica degenerata in rissa continua, del degrado del linguaggio, della fine del rispetto dell’altro, di una regressione culturale senza fine.

La crisi civile e morale ci avvolge. Implacabili, i quotidiani bollettini di guerra ci indicano i protagonisti di una torbida stagione vissuta all’insegna della cancellazione d’ogniconfine tra lecito e illecito, tra privato e pubblico.Ma gli arrestati, gli indagati, gli autori di furti legali non sono soltanto gli occasionali “testimonial” di vicende corruttive, le “pecore nere”, le “mele marce”. Si rivelano ogni giorno di più come l’avanguardia di schiere infinite, gli emuli a ogni livello di chi si è scritto leggi ad personam e ha coltivato conflitti d’interesse. Questa logica si è generalizzata, un numero crescente di persone ha trasferito risorse pubbliche nelle sue disponibilità private, anche sulla base di norme predisposte proprio a questo fine – dalle ordinanze della Protezione civile alle regole a maglie larghissime dei consigli regionali, che consentono ai mariuoli di dire d’aver seguito prassi legittime. Si è costruita una “legalità parallela” per legittimare il malaffare.

Oggi è saltato proprio quello che era stato giustamente definito il “compromesso permanente tra legalità e illegalità”. La politica sembra attonita, balbetta. Che cosa sarebbe accaduto se, all’indomani dell’assassinio del generale Dalla Chiesa, il Parlamento si fosse limitato alle esecrazioni rituali, invece di approvare tempestivamente la legge La Torre-Rognoni? Che cosa sarebbe accaduto se, all’indomani dell’assassinio di Giovanni Falcone, il Parlamento, riunito per l’elezione del Presidente della Repubblica, avesse proseguito nel rito di innumerevoli votazioni, giungendo per sfinimento all’elezione di Giulio Andreotti, invece di rompere l’incantesimo eleggendo subito Oscar Luigi Scalfaro?

Non sono richiami azzardati, di fronte al quotidiano assassinio della credibilità delle istituzioni, della legalità democratica. Non arriva nessun segnale forte, se si fa eccezione per lo scioglimento del consiglio comunale di Reggio Calabria. Il Parlamento, in un sussulto di dignità, avrebbe dovuto approvare subito una vera, seria legge sulla corruzione. E invece rimane prigioniero di ricatti, si sfianca nella ricerca di un nuovo compromesso.

La crisi della politica, allora. Palese nell’altro infinito inseguimento, quello ad una legge elettorale ormai concepita soprattutto come un mezzo per neutralizzare un esito elettorale temuto, per regolare preventivamente conti all’interno del sistema dei partiti. Le elezioni come un intralcio, un problema, e non come il momento in cui la parola torna nella sua pienezza ai cittadini? Non si vuole più correre il “rischio democratico” del voto. Ecco, quindi, l’ossessiva ricerca della continuità, che s’impiglia nell’altro vizio di questi anni, l’estrema personalizzazione della politica.Monti con lasua “agenda”, quindi,chediviene un modo per sfuggire alle responsabilità proprie. Un vero transfert, che rivela la difficoltà della politica di liberarsi dei suoi mali e tornare ad essere davvero tale. Ma i promotori del “giuramento Monti” si sono presto rivelati come degli apprendisti stregoni, aprendo la strada alla nuova scorreria di Berlusconi. Un Monti ostaggio, pedina di manovre interne ai partiti, strumento per trasformare le elezioni in un referendum pro o contro la sua persona? Diciamo, piuttosto, una vicenda che rivela una volta di più le miserie della politica.

Tutto questo avviene all’ombra non dissipata d’una crisi istituzionale. I tre soggetti che negli anni pericolosi del berlusconismo hanno impedito il collasso della legalità e, con essa, della democrazia – Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, magistratura – si trovano ora divisi, contrapposti. È il lascito di un’estate avvelenata, che ha visto il trasformarsi di una discussione legittima in una furia polemica che sembra inconsapevole del pericolo di una terra bruciata. Ovvio che si potesse discutere intorno alla opportunità politica e alla portata istituzionale delle posizioni assunte dal Presidente della Repubblica nella nota vicenda delle intercettazioni telefoniche conservate presso la Procura di Palermo. Ma che senso ha descrivere le posizioni in campo come un conflitto tra “trombettieri del Quirinale” e difensori della verità, delegittimando preventivamente chi esprime un’opinione diversa dalla propria? Vizi diffusi, e non da una parte sola. E che hanno progressivamente impedito di vedere che un problema esiste, che nasce proprio da controversie intorno alle prerogative presidenziali e che non può essere risolto con un meccanico rinvio a regole della procedura penale. La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica ci indica un orizzonte più largo e va oltre quei soli riferimenti (e non può certo essere strumentalizzata per chiedere salvacondotti per altri soggetti istituzionali o per mendicare la stretta autoritaria sulle intercettazioni). Lo ha ribadito ieri lo stesso Presidente, sottolineando l’improprietà di una personalizzazione della questione e la necessità di non lasciare alcuna ombra sui rapporti tra il Capo dello Stato e altri soggetti istituzionali..

Proprio nella temperie politica e costituzionale che viviamo, una precisazione così importante appare indispensabile (e rischiano di non contribuire al chiarimento alcuni toni della memoria a difesa della Procura di Palermo). E non mi pare che sia stato apprezzato adeguatamente il fatto che Giorgio Napolitano abbia deciso di sottoporsi al giudizio di un organo terzo, la Corte costituzionale appunto. Una mossa democratica, che si è cercato di delegittimare delegittimando la stessa Corte, presentandola come un organo privato di autonomia proprio dall’iniziativa presidenziale, persino con argomenti di tipo berlusconiano, quali sono quelli che richiamano il fatto che alcuni dei giudici della Consulta sono stati nominati da lui.

La verità è che, di fronte ai molti misteri della Repubblica, prorompe quasi sempre un bisogno di giustizia sostanziale, insofferente d’ogni regola. Ecco, allora, la presentazione della posizione del Presidente della Repubblica come un intralcio alle indagini dei magistrati siciliani. Tesi contraddetta dalle stesse dichiarazioni della procura di Palermo sulla non rilevanza delle intercettazioni a questo fine. Ma di cui si è data una versione tutta politica, insistendo su un isolamento dei magistrati siciliani che, se mai, ha le sue origini altrove.

È ancora possibile ricostruire un clima nel quale la decisione della Corte venga intesa come la definizione del quadro costituzionale e non come una pronuncia che dà torto ad una parte e ragione all’altra? Non è questa la logica del giudizio costituzionale. Certo, pieno deve essere il sostegno al lavoro dei magistrati dai quali, se riusciranno a fare finalmente chiarezza sulle violazioni della legalità, verrà un contributo essenziale per la ricerca di quella verità storica e politica che è comunque responsabilità di altri organi costituzionali.

Questo contesto politico e istituzionale non è il più propizio per un governo adeguato della crisi economica e di quella sociale, che non può essere affidato, come sta accadendo, all’erosione dei diritti di cittadinanza, a partire da quelli fondamentali alla salute e all’istruzione, a una rinnovata riduzione del lavoro a merce. La sospensione di fondamentali garanzie, che toccano lo stesso diritto all’esistenza, non può essere giustificato con nessuna emergenza.

Tutto questo determina tensioni sociali sempre più forti, alle quali si accompagna un passaggio dai rischi del populismo a quelli della demagogia. Qui è il pericolo per la democrazia e le sue istituzioni che, se vogliono riconquistare fiducia, devono rimettere in onore i diritti delle persone. Questione, a ben vedere, che riguarda pure le necessarie trasformazioni dell’Unione europea, irriducibili al solo rafforzamento del governo dell’economia. A chi conviene una democrazia senza popolo?

Ripartirei da un fondo di Norma Rangeri (il manifesto, 29 settembre): «La trappola del tecnico», che condivido pressoché interamente. Sono d'accordo con lei che il pericolo più grande per la sinistra - qualsiasi sinistra - è la ripresentazione, dopo le elezioni politiche del 2013, di un Monti-bis. Non sposo gli accenti di esecrazione e di condanna, che sento spesso pronunciare, ovviamente sempre a sinistra, nei confronti dell'Agenda Monti. Lo sforzo compiuto dal Presidente del Consiglio (un po' meno, e talvolta molto meno, dai suoi ministri) di elevare il tono delle attività di governo e di restituire dignità all'Italia nei confronti degli stati stranieri e della comunità internazionale (anche noi facciamo parte della Nazione, o no?), non è da sottovalutare. Tuttavia condivido: se Monti dovesse tornare con una qualsiasi manovra parlamentare alla Presidenza del Consiglio dopo il voto sarebbe una iattura per la sinistra, e per l'Italia. Perché?

Innanzi tutto, perché questo non è il nostro governo, e quindi noi pensiamo che non sia il governo giusto per l'Italia. I suoi valori, i suoi obiettivi, la sua mentalità sono radicalmente altri dai nostri. L'idea che equità e giustizia siano i fondamentali parametri di riferimento, intorno ai quali vada costruita la gabbia economica, e non viceversa, non lo tocca. Di questo passo, oltre tutto, si può ammazzare il cavallo prima di risanarlo.

Ma poiché ci sono altri motivi, che vorrei dire soprattutto rivolgendomi ad alcuni miei autorevoli amici, i quali sono di opinione nettamente contraria. La democrazia è una cosa delicata: se lo stato d'emergenza, di fronte al quale abbiamo chinato il capo, si trasforma nella regola, c'è il rischio che le fragili strutture della nostra rappresentanza collassino per sempre. A che servirebbe più il voto se la soluzione, in un modo o nell'altro, è già data in partenza?

Inoltre: preoccupa anche il profluvio d'indicazioni che in tal senso provengono dall'esterno. Capi di stato, banche centrali, economisti e politici di varie nazionalità e colore politico, sono tutti d'accordo: riconfermate Monti. Il migliorato rapporto dell'Italia con il resto del mondo rischia così di trasformarsi in un boomerang: il resto del mondo, invece di stare a guardare rispettosamente come noi più o meno ce la caviamo, ci indica a gran voce quale debba essere il nostro futuro Presidente del Consiglio. Non è un po' troppo per la nostra dignità nazionale e, ancora una volta, per la nostra fragile democrazia?

Queste però sono soltanto le premesse. Come si può evitare che esse, invece che verso quella giusta, si volgano verso la direzione sbagliata? Qui si torna al voto, al vituperatissimo voto. È in questo ambito che la politica, se c'è, batta un colpo. Per evitare che il Monti-bis prenda corpo non bastano gli anatemi: è necessario che nel voto si manifesti una forza diversa e contraria, talmente significativa per le sue dimensioni e i suoi caratteri, da rendere semplicemente improponibile la ripresentazione del Monti-bis (e, com'è ovvio, di qualsiasi succedaneo pretenda a quel punto di sostituirglisi). Esiste una tale forza nel campo ancora variamente frammentato e scollegato della sinistra?

L'unica che possa aspirare a tale impresa è il Patto Pd-Sel, Bersani-Vendola. Mi appello alla logica prima che alla politica. Per garantirsi che il Monti-bis scompaia effettivamente di scena, occorre con il voto rendere il Patto Pd-Sel così consistente da impedire che si verifichi qualsiasi fuga sulle ali (persino al proprio interno) o verso il Monti-bis oppure verso altre alternative alleanze di stampo moderato. Nell'ambito di quelle che io considero le sciagurate primarie di coalizione vale comunque lo stesso ragionamento. Siccome Bersani ha preso la testa della coalizione, renderlo forte alle primarie significa rendere più forte la coalizione che capeggia. Inoltre: per battere senza incertezze Renzi, bisogna che la coalizione di centrosinistra sia in grado di navigare da sola: ossia dimostrando sin dall'inizio che non c'è bisogno di stampelle moderate perché questo avvenga.

A filo di logica, mi pare, questo ragionamento non teme obiezioni. Ma la logica coincide con la politica? L'obiezione più grossa al mio ragionamento è che il Patto Pd-Sel porta in seno l'Agenda Monti. Non vale votarlo, se non ci sono garanzie che un governo di centro-sinistra di tale natura non sia l'erede, il continuatore, l'alleato di quelle forze cui sarebbe chiamato a subentrare. Mi permetto di dubitare di un giudizio così drastico. Tutti sanno che nel Pd si contrappongono posizioni in materia assai differenziate; molto dipende dalla natura di quel partito, caoticamente stratificatosi nel tempo. Il rischio dunque è reale: ma io preferirei affrontarlo dopo. Dirò le cose nella maniera più semplice (brutale?) possibile: per vedere come stanno davvero le cose, bisogna vincere; se si vincerà bene, l'Agenda Monti sfumerà persino all'interno del centro-sinistra e sfumerà tanto più quanto il centro-sinistra risulterà vincitore. E questa volta c'è solo un modo di vincere (per non parlare dell'argine da apporre all'ondata travolgente dell'antipolitica, dell'astensionismo, del grillismo, della deflagrazione istituzionale: un grosso successo del centro-sinistra rappresenta l'unico modo per fronteggiarla).

Sarebbe semmai auspicabile un ragionato, consapevole premere dall'esterno alle porte del Patto Pd-Sel, presentando proposte, correzioni, aggiunte, formulando progetti più incisivi e avanzati: onde, come si diceva una volta, «spingere a sinistra» il più possibile la coalizione. È possibile questo? Finora nessuno ci ha mai provato; finora nessuno l'ha mai proposto. Questo è un male. Tempo fa proposi al Pd d'indire un'Assemblea nazionale (e magari regionali, provinciali, ecc.) di programma. La proposta è ancora valida. Ci sarebbe il tempo per fare questo e altro.

Invece c'è in giro, a sinistra, una voglia di frammentazione crescente, una sorta di voglia (del resto assai ben nota) di sopravanzare tutti gli altri in purezza, correttezza, squisitezza di programmi e di idee. È la libidine della sconfitta, che tanta prova di sé ha dato in passato nell'impedire il raggiungimento di risultati già quasi certi e nella dilapidazione di risultati già raggiunti. Speriamo che questa volta sia battuta.

La lotta di classe c'è stata in questi anni, peccato che a dichiararla, e a vincerla, siano stati i ricchi contro i poveri. Con il risultato che il 15% della ricchezza nazionale si è spostata dai salari e dalle pensioni ai profitti e alle rendite, più di 250 miliardi volati dal basso all'alto. «Se ci siamo beccati vent'anni di Berlusconi è perché da vent'anni il lavoro in Italia non è più rappresentato», grida Maurizio Landini a un pubblico di 5 mila delegati determinati, in attesa della proposta finale del segretario della Fiom. stesso giorno della mobilitazione nazionale degli studenti. Per riunificare le lotte, per non lasciare solo chi, come noi, è colpito dalle politiche del governo». Un'ovazione, tutti in piedi, chi con gli occhi umidi, chi a chiedere scherzosamente al vicino: «Ma che sostanza usa Maurizio?».

Un Landini scatenato, capace di raccogliere un sentimento condiviso al Palasport di Modena, ha duramente criticato le politiche del governo Monti. Sull'ultima manovra il segretario Fiom è stato netto: «Riduce l'Irpef per aumentare l'Iva, è una truffa. Gli incapienti che non arrivano a 8 mila euro, con l'aumento dell'Iva prenderanno ancora meno. In un paese in cui 9 milioni di cittadini non hanno i soldi per curarsi, tagliano i fondi per la sanità, con il rischio aggiuntivo che questi tagli facciano saltare in aria il settore biomedicale di Mirandola, già duramente colpito dal terremoto. Per il bene di chi, hanno fatto queste scelte? Dicono che il governo Monti fa il bene dell'Italia, ma di quale Italia parlano? Prima se ne va, meglio è».

Da oggi i militanti della Fiom saranno nelle piazze e davanti alle fabbriche a raccogliere firme per i due referendum sul lavoro, per abolire l'art.8 della manovra berlusconiana che rottama il contratto nazionale e per ripristinare nella sua interezza l'art.18, che impediva i licenziamenti individuali senza giusta causa. Sarà un caso, ma le prime vittime del nuovo corso montiano, sono per il 75% iscritti alla Fiom. «A chi ci dice che non ha senso raccogliere queste firme perché tanto prima del 2014 non si potrà votare, rispondo che lo sapevamo anche noi». E allora? Allora attivare le procedure per i referendum serve a costringere chi si candida a guidare il paese a prendere posizione sul lavoro e i diritti, la Fiom non intende fare sconti a nessuno. «Poi, se il governo che uscirà dalle urne ripristinerà l'art.18 violato dal duo Monti-Fornero con Pd, Pdl e Udc nella squadra, se abolirà l'ignominia dell'art.8 berlusconiano, allora dei referendum non ci sarà più bisogno. Se questo non avverrà, è giusto che i cittadini dicano la loro e decidano».

Ad alzare la palla sotto rete a Landini perché la schiacciasse contro il governo liberista di Monti è stato uno dei padri del giuslavorismo italiano, Umberto Romagnoli: «Tra Berlusconi e Monti c'è una discontinuità e una continuità. La discontinuità è mediatica, Monti non balla il bunga-bunga, sa vestire e stare a tavola; la continuità è sostanziale e riguarda le politiche del lavoro. Riguarda quel che Monti ha fatto - la riforma delle pensioni di Fornero sarebbe ridicola se non avesse effetti drammatici per centinaia di migliaia di lavoratori, per non parlare dell'art.18 - e quel che non ha fatto». Romagnoli ha ricordato come l'art.19 dello Statuto sulla rappresentanza e la democrazia sindacale, aveva un senso in un quadro di unità sindacale mentre con la frattura che si è determinata non impedisce «che il sindacato con il più alto profilo storico e culturale, che siete voi in questo palazzetto, venga espulso dalla Fiat». E per ricucire questa ferita, pensano con Romagnoli e Landini tutti i 5 mila delegati Fiom, bisogna muoversi subito. Serve la legge, «serve la politica di cui oggi lamentiamo l'assenza», conclude Romagnoli.

Se salta la democrazia nei posti di lavoro, se a scegliere gli interlocutori sindacali sono i padroni e non i dipendenti, se questi ultimi non possono eleggere i loro rappresentanti e votare sugli accordi e i contratti che li riguardano, allora è a rischio la democrazia. Dovrebbe saperlo, insiste Landini, chi si candida a guidare il paese, e dovrà essere chiaro con gli elettori. Sinistra dove sei? Cosa pensi? Con chi stai? Se lo domandano i delegati di Pomigliano e dell'Ilva di Taranto, della Fincantieri e dell'Alcoa e delle mille fabbriche di ogni dimensione in cui gli operai della Fiom si battono per salvare lavoro, diritti, sistema industriale. Ma quel che più preoccupa la Fiom è l'assenza di una politica industriale e la subalternità del governo alle imprese, al modello Marchionne a cui si riconosce il presunto diritto a fare quel che vuole e fuggire dove vuole. «Adesso in molti criticano Marchionne, all'inizio c'eravamo solo noi e in tanti ci dicevano che dovevamo accettare il ricatto o il lavoro o i diritti e spiegavano agli operai come avrebbero dovuto votare. Persino quel ragazzo che diceva di stare con Marchionne senza se e senza ma ora lo critica. Va tutto bene, ma tutti questi signori dovrebbero avere la decenza di chiedere scusa non alla Fiom, ma agli operai di Pomigliano e Mirafiori che hanno avuto il coraggio e la dignità di rifiutare quel ricatto». E giù altri applausi.

Mentre la Fiom chiede a Fim Uilm e Federmeccanica di fermarsi, di non procedere sulla strada di un nuovo contratto separato; mentre propone un anno di riflessione comune per ristabilire regole democratiche della rappresentanza e propone un impegno comune per il lavoro, l'occupazione, la ricerca e gli investimenti; mentre, sempre la Fiom, chiede di sostenere le imprese che si impegnano a fare contratti di solidarietà, a investire per il futuro, a ridurre l'orario per distribuire tra tutti il lavoro che c'è; mentre di questo si parla a Modena, a Roma la Confindustria con il sostegno del governo Monti che chiede un accordo sulla produttività, vuole dai sindacati un allungamento dell'orario e salari legati alla produttività. Quel tavolo di confronto, dice Landini, con queste premesse, va abbandonato. Lo dice innanzitutto alla Cgil. E la Federmeccanica, da cui se n'è andata la Fiat, ha fatto sua la filosofia di Marchionne e pretende di non pagare i primi tre giorni di malattia, di avere senza contrattazione gli straordinari, di passare al regime di orario settimanale.

No ai ricatti vuol dire no all'alternativa tra lavoro e diritti, come alla Fiat, o tra lavoro e salute, come all'Ilva. La Fiom è pronta a scioperare, ma contro la famiglia Riva che non fa gli investimenti di bonifica e non contro la magistratura. Perché «dobbiamo tornare a dire che la salute non si vende». Ecco la Fiom, più una gazzella che si difende dalle pallottole dei cacciatori che non un dinosauro. «Romiti si limitava a volerci sconfiggere, oggi invece vogliono cancellarci. Ma noi siamo ancora qui». Oltre agli applausi dei suoi delegati Landini meriterebbe rispetto, attenzione, sponde politiche. Sta combattendo una battaglia in difesa della dignità di tutto il paese.

 FU UNA di quelle opere – l’unità fra europei edificata nel dopoguerra – che gli uomini compiono quando sull’orlo dei baratri decidono di conoscere se stessi: quando vedono i disastri di cui sono stati capaci, esplorano le ragioni d’una fallibilità troppo incallita per esser feconda

E tuttavia non si fanno sopraffare dall’indolenza smagata che secondo Paul Valéry fu la malattia dello spirito europeo all’indomani del ’14-18: la «noia di ricominciare il passato», l’inattitudine a riprendersi e ri-apprendere. Il Nobel della pace è stato dato ieri a quel ricominciamento della storia, e alla svolta che fu la riconciliazione tra Francia e Germania, che in soli 70 anni avevano combattuto tre guerre. Dalla messa in comune di risorse vitali per i due paesi – il carbone e l’acciaio, fonti di ricchezza e morte – nacque l’Unione che abbiamo oggi. Mai era apparso così chiaro, nell’attribuzione dei Nobel, il nesso fra pace, democrazia, diritto. Come se l’invenzione d’Europa fosse la conferma vivente che firmare le tregue non è fare la pace. Che per tenere insieme su scala continentale i tre obiettivi – pace, democrazia, diritto – occorre andare oltre i trattati fra Stati, oltre la non belligeranza fra sovrani che non riconoscono potere alcuno, né legge, sopra di sé.

Quando propose e creò la Comunità del carbone e dell’acciaio, Jean Monnet spiegò il ragionamento che lo aveva ispirato: «Quando si guarda al passato e si prende coscienza dell’enorme disastro che gli europei hanno provocato a se stessi negli ultimi due secoli, si rimane letteralmente annichiliti. Il motivo è molto semplice: ciascuno ha cercato di realizzare il suo destino,o quello che credeva essere il suo destino, applicandole proprie regole». Fu grazie a questa consapevolezza che l’unità degli europei divenne un modello, e per gran parte del mondo ancora lo è: dalle stragi etniche o razziali, dagli scontri fra culture o religioni, si esce solo se gli Stati nazione smettono l’illusione di bastare a se stessi – la regola della sovranità assoluta – e creano comuni istituzioni politiche che realizzino il destino di più paesi associati, non di uno soltanto. In Asia, in Medio Oriente, il metodo comunitario resta la via aurea per superare i nazionalismi: molto più della solitaria potenza americana.

Fu una sorta di conversione, quella sperimentata dagli Europei. Al posto dello sguardo nazionale, lo sguardo cosmopolita; al posto dei trattati fra Stati, un’unione sin da principio parzialmente federale, cui le vecchie sovranità assolute venivano delegate. L’Europa è un sogno antico, ma è nel ’900 che diventa progetto pratico, necessità, dando vita a un’istituzione statuale. Un’istituzione che affianca Stati che si riconoscono non solo fallibili ma pericolosi per se stessi, se consegnati alle dismisure nazionaliste. Solo dopo la propria guerra dei trent’anni (quella che dal 1914 va al 1945) il continente scopre che non basta deporre le armi ma che urge capire perché insorgono i conflitti di sangue. «Insorgono a causa della facilità con cui gli Stati rimettono in causa il funzionamento delle loro istituzioni», disse ancora Monnet. Bene saperlo fin d’ora: le guerre divorano le democrazie, ma è il degradare delle democrazie e delle loro istituzioni che getta popoli senza più nocchieri nelle guerre.

Si trattava dunque di cessare i conflitti bellici e al tempo stesso di ridar forza alle istituzioni, di renderle meno discontinue. L’unità nasce dicendo no ai nazionalismi ma anche a quel che li fa impazzire: la povertà, la democrazia corrosa, il rarefarsi dello Stato di diritto prima ancora che dei diritti umani.

Conferito in questi giorni, il premio è singolare. Quasi sembra che faccia dell’ironia, anche se difficilmente immaginiamo una giuria ironica. È come se non suggellasse un progresso, ma indicasse come rischiamo di perderlo. Mostra quel che l’Europa ha voluto essere, e non è ancora o non è più. Gli scontri sull’euro, la Grecia trasformata in capro espiatorio, il peso abnorme di un solo Stato (Germania): non è l’unione cui si è aspirato per decenni, ma una costruzione che si decostruisce e arretra invece di completarsi. È come se la giuria ci dicesse, fra le righe: «Voi europei avete inventato qualcosa di grande, ma non siete all’altezza di quel che oggi premiamo. Siete una terra promessa, ma voi abitate ancora il deserto come gli ebrei fuggiti dall’Egitto». Se l’Europa si compiacerà del premio vorrà dire che dell’evento avrà visto solo la superficie celebrativa, non il caos che ribolle sotto la superficie.

Un premio così non si riceve soltanto. Lo si medita, lo si interroga, come nella Grecia antica s’interpellava l’oracolo di Delfi. Anche perché il responso non muta, nei millenni: conosci te stesso, ripeterà. Conosci il tradimento delle promesse iniziali e il ridicolo delle tue apoteosi. Prova a capire come mai l’Unione non sveglia più speranze ma diffidenza, paura, a volte ribrezzo. Rimasta a metà cammino, l’Europa non è ancora l’istituzione sovranazionale che preserva la democrazia e lo Stato sociale. Viene identificata con uno dei suoi mezzi – l’euro – come se la moneta e le misure fin qui congegnate fossero la sua

finalità, salvataggio finanziario e il rifiuto di ogni via alternativa hanno fatto perdere di vista la democrazia, e la solidarietà, e l’idea di un’Europa che, unita, diventa potenza nel mondo.

L’ideale sarebbe se l’Europa non andasse a prendere il premio, e comunicasse al Comitato Nobel che i propri cittadini (non gli Stati, ben poco meritevoli) verranno a ritirarlo quando l’opera sarà davvero voluta, e di conseguenza compiuta. Quando avremo finalmente una Costituzione che – come nella Federazione americana – cominci con le parole «Noi, cittadini....». Quando ci si rimetterà all’opera, e ci si spoglierà della noia di ricominciare la storia. I sotterfugi tecnici non durano: durano solo le istituzioni. La svolta è politica, mentale, e proprio come nel 1945, è la massima di sant’Agostino che toccherà adottare: Factus eram ipse mihi magna quaestio

– Io stesso ero divenuto per me un grosso problema, e un grosso enigma.

Bisogna finalmente far partire, in modo serio e pianificato, la ricostruzione, praticamente ferma a tre anni e mezzo dal sisma, del centro storico aquilano e dei borghi antichi del circondario. È stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a dire autorevolmente «basta con le New Town, occorre ricostruire L’Aquila». Una esortazione politica che va raccolta subito, riflettendo anche sulle cause di un così lungo stallo. Fu Berlusconi a chiamare New Town i costosissimi quartieri-satellite, dei ghetti in realtà, alzati senza alcun disegno urbanistico nella campagna. Nemmeno parenti delle vere New Town di marca laburista, città nuove, servite di tutto, destinate a decongestionare nel dopoguerra la «Great London».

Berlusconi combinò lo sbrigativo «ghe pensi mi» delle New Town col trasferimento di migliaia di persone negli alberghi della costa, per affermare, insieme all’allora capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, un proprio «modello» che prescindesse anche dalle più riuscite esperienze di ricostruzione post-terremoto, come Friuli e Umbria-Marche. Esperienze, queste, condotte in porto sotto la regia delle Soprintendenze e del Ministero per i Beni Culturali in accordo con le comunità locali collocate in piccoli villaggi di prefabbricati in legno dotati di scuole e di altri servizi sociali, vicino ai centri colpiti. Il ministro era Walter Veltroni, il direttore generale, e commissario straordinario, l’indimenticabile Mario Serio che nominò suoi vice Antonio Paolucci per l’Umbria e Maria Luisa Polichetti per le Marche, con risultati eccellenti.

A L’Aquila invece la regia l’assunsero Berlusconi & Bertolaso. Nei confronti della loro politica si levarono allora poche voci critiche. Fra esse ci fu certamente l’Unità. Ci fu un gruppo di urbanisti (Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Georg Josef Frisch curatore del documento pamphlet L’Aquila, non si uccide così anche una città? , uscito nello stesso 2009). Berlusconi portò qua il G8 scippato alla Maddalena, mendicò adozioni internazionali, impegnò di suo pochi fondi – rispetto a quelli massicci investiti dal governo Prodi-Veltroni in Umbria-Marche – e soprattutto tagliò fuori Soprintendenze e tecnici di fama internazionale. Come Giuseppe Basile, rimandato a casa nonostante avesse coordinato i restauri della Basilica Superiore di Assisi, riconsegnata in totale sicurezza (stava crollando a valle) e restaurata in ogni centimetro, dopo soli due anni e due mesi. Si obietta: L’Aquila è molto più grande di Gemona o di Assisi. Ma nel secondo caso l’area terremotata andava da Assisi a Urbino (il Duomo subì gravi danni), e investiva tanti altri centri storici: Foligno, Gualdo Tadino, Nocera Inferiore, Tolentino, Camerino, Fabriano.

Il ministro Bondi risultò assente. Come ora lo è Ornaghi, purtroppo. Nel 1997, con Prodi, si erano mobilitati mezzi, energie, competenze per un piano serio di ricostruzione. Nel 2009 l’incolta sicumera del premier fece in realtà mancare una regia forte e un programma da subito orientato al restauro e al recupero. Nei quali noi italiani – ecco il grottesco – siamo maestri nel mondo: fra strutturisti, architetti, urbanisti, restauratori di ogni materiale, ecc. Da tre anni e mezzo il «provvisorio» impera e l’emergenza non tramonta mai.
Ora il ministro Fabrizio Barca annuncia l’arrivo di fondi Ue per la ricostruzione. Sulla base però del debole e arretrato, documento Ocse-Università di Groeningen, che, prescindendo dalle esperienze italiane più avanzate e ormai sedimentate (dalla Carta di Gubbio in qua), distingue ancora fra «monumenti» da conservare ed «edilizia minore» da demolire, proponendo (che innovazione) la conservazione delle sole facciate storiche dietro le quali costruire ex novo. Così regrediremmo di decenni.

Benissimo dunque il «basta con le New Town», basta col provvisorio. Bisogna andare avanti però con progetti seri e fondati di restauro-recupero, coinvolgendo competenze reali, locali e nazionali, facendo partecipare i comitati di cittadini, lasciando perdere i lustrini degli archistar e badando anzitutto agli abitanti che vendono e se ne vanno, disperati da tanta lentocrazia e insipienza.

Ha già raccolto numerose firme l’appello al Presidente Napolitano - sull’onda della notizia pubblicata dal nostro giornale - perché non sottoscriva il decreto scippa-Arsenale lanciato ieri dal Comitato per la restituzione dell’Arsenale a Venezia. «Apprendiamo indignati dai giornali - si legge nell’appello - del colpo di mano, contenuto nell'emendamento del Ministro Passera, che annulla il passaggio dallo Stato al Comune di Venezia di una grande parte dell'Arsenale Nord (area dei Bacini e delle Tese).Questo emendamento dell'ultima ora, inserito furbescamente per accontentare gli interessi privati delle aziende del Consorzio Venezia Nuova, va contro le prospettive di restituzione dell'Arsenale alla città e quindi al suo legittimo proprietario,: il Comune di Venezia. Ci opponiamo con forza a questo evidente sopruso di chi vuole "allungare le mani sulla città" delegittimando il Comune di Venezia»

Presidente Napolitano, non firmi quel decreto che “scippa” l’Arsenale a Venezia per fare solo gli interessi di un consorzio di imprese private. È un appello che arriva da tutta la città - dopo l’inserimento a sorpresa del codicillo nel decreto sull’agenda digitale e l’innovazione del ministro delle Infrastrutture Corrado Passera che restituisce al Demanio le aree del complesso sui cui il Consorzio Venezia Nuova deve compiere le manutenzioni delle paratoie del Mose - al presidente della Repubblica che sta per licenziare il provvedimento e il primo a sollecitarlo è il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, che con lui si è già messo in contatto. Si annuncia già un Consiglio comunale straordinario proprio all’Arsenale - proposto dal consigliere comunale Beppe Caccia e sostenuto dal sindaco - con la partecipazione degli stessi cittadini. «Il presidente Napolitano è perfettamente informato del contenuto di quel decreto - commenta Orsoni - e io spero ancora in un suo intervento, anche se non è assolutamente mia intenzione “tirarlo per la giacca”. Quel codicillo inserito sul decreto sull’innovazione che ci priverebbe di buona parte dell’Arsenale è una cosa vergognosa, un provvedimento fatto solo per tutelare gli interessi privati del Consorzio Venezia Nuova senza tener conto di quelli della città. Non è assolutamente vero, come sostiene il Magistrato alle Acque - e con cui avevamo già discusso il problema - che il passaggio di proprietà al Comune di questa parte di Arsenale non consenta il mantenimento delle lavorazioni del Mose finanziate dallo Stato. Si tratta, certo, di stipulare un nuovo accordo, ma il fatto stesso che il Consorzio paghi già ora un canone di concessione per proprie lavorazioni è la prova che potrebbero farlo su un’area statale, come su un’area privata. Il fatto che la proprietà dell’Arsenale passi al Comune non cambia nulla e la concessione in atto resta pienamente valida. È solo un pretesto per mantenere l’area nelle condizioni attuali, privandoci della proprietà di quasi tutto l’Arsenale nord e impedendoci anche di recuperarlo, visto che non potremo più contare sui canoni concessori che servirebbero per il suo recupero e impedendo ad Arsenale Venezia spa - la società che dovrebbe occuparsi della gestione del complesso - di fare il proprio piano industriale».

Le conclusioni di Orsoni sono amare: «È molto triste che in questa città ormai gli interessi privati prevalgano su quelli del Comune e della città. Così al Consorzio si concede l’Arsenale e quei fondi per il Mose negati dal Governo, in misura infinitamente inferiore, a noi per la manutenzione della città. All’aeroporto, il piano di sviluppo aeroportuale della Save finisce per “mangiarsi” il terminal acqueo destinato a servire la città. E il Porto non vuole trasferire le grandi navi a Marghera per tutelare gli interessi della Venezia Terminal Passeggeri. Per l’Arsenale, se Napolitano non potrà fermare in decreto, spero che possa farlo il Parlamento, quando il provvedimento arriverà in aula per la conversione in legge».

E a annunciare subito battaglia in Parlamento contro il decreto scippa-Arsenale sono già il deputato veneziano del Pd Andrea Martella e il senatore Paolo Giaretta. «Ci auguriamo - dichiarano - che il Capo dello Stato non firmi il provvedimento. Se invece il decreto dovesse essere convertito in legge presenteremo alla Camera ed al Senato gli emendamenti per l’abrogazione di questa norma. E’ necessario mettere lo stop a questo inaccettabile smacco. Riservare al Consorzio Venezia Nuova il ruolo di padrone pressoché assoluto dell’Arsenale significa bloccare ogni progetto di recupero di questa preziosa area, a beneficio della città. Siamo di fronte ad un potere invasivo che grava su Venezia, qualcosa di insopportabile per una città che cerca, anche attraverso l’Arsenale, nuove strade di sviluppo per l’immediato futuro. E’ chiaro che, se passa questo testo, una fetta enorme delle chance di rilancio di Venezia viene a tramontare definitivamente». Sulla stessa linea anche il Pd veneziano con i segretari provinciale e comunale Michele Mognato e Claudio Borghello che giudicano «scandalosa e inaccettabile la scelta di trattenere in capo allo Stato l’Arsenale di Venezia. Il Governo cambi idea e mantenga gli impegni già presi: chiediamo ai parlamentari veneziani e veneti in particolare, di adoperarsi affinché in sede di discussione parlamentare questa stortura venga cancellata».

Postilla

Nell sottotitolo l’articolo della Nuova Venezia riferisce che il sindaco si è sfogato affermando che con l’iniziativa di Profumo si pone la «la Città in mano agli interessi privati», e convocando un un Consiglio comunale straordinario. E' certamente scandalosa la manovretta di Profumo per allargare surrettiziamenteil già largo spazio già concesso al Consorzio Venezia Nuova a scapito di quello attribuito al Comune. Ma la storia recente (gli ultimi 20 anni) delle intenzioni, dei progetti e degli affari relativi all’"Arzanà dei veneziani" andrebbe raccontata e sarebbe ricca di insegnamenti.

Certo è che le proteste del sindaco (e dei poteri elettivi) che hanno governato la città con piena continuità culturale suscitano, in chi conosce gli eventi veneziani sentimenti di indignazione dello stesso peso a quelli provocati dall’iniziativa del governo Monti. L,Arsenale non era forse già stato concesso al Consorzio Venezia Nuova per la parte più consistente e comunque come utilizzazione dominante nel silenzio complice di tutti? La città non era stata già donata al potente consorzio, e a chiunque volesse usarla come merce?

Del resto, quale proposta strategica è mai stato capace di formularela politica veneziana per quello splendido e gigantesco complesso dopo gli anni in quando De Michelis bocciò la proposta elaborata dalla giunta Rigo-Pellicani, in collaborazione, con i tre ministeri statali interessati, privilegiando la promozione del mercantilismo dell’arte contemporanee in alternativa allo sviluppo delle delle attività legata alla conoscenza, dei rapporti, storici e attuali tra la terra e il mare e al restauro di tutti i beni mobili e immobili che, nella città, quel rapporto testimoniano?

Infine, come sfuggire a un moto d'indignazione quando si legge che il sindaco di Venezia protesta oggi perché il governo favorisce gli interessi privati contro quelli della città, dopo che le vicende che la stampa cittadina ( ed eddyburg) hanno raccontato e denunciato: da quella del Lido di Venezia a quelle contrassegnate dai marchi Benetton , Cardin, Trussardi e via griffando? Ma facciano il piacere...

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DALLA Calabria alla Lombardia, come vent’anni fa, stiamo vivendo il tracollo rapidissimo di una classe politica che precipita nel vortice di una Nuova Tangentopoli. Con un’incoscienza che misuriamo anche nella prima reazione di Formigoni all’arresto del suo assessore rivelatosi complice della ‘ndrangheta: «È un fatto grave ma ne risponde Zambetti ». Si resta attoniti di fronte a questo tentativo di minimizzare, da parte di un potente aggrappato alla poltrona, l’«inquinamento della democrazia» denunciato ieri da Ilda Boccassini.

È un inutile tentativo di far sopravvivere una giunta già profondamente delegittimata da sistematici episodi di corruzione, per i quali lo stesso Formigoni è indagato.

Come già la Polverini nel Lazio, anche il presidente della giunta regionale lombarda è destinato a uscire presto di scena. I leghisti che l’hanno sorretto finora per meri calcoli di potere andrebbero incontro all’autodistruzione, perseverando in una scelta che contraddice la loro identità. Dopo decenni di rassegnazione a una politica ridotta ad affarismo, il sistema sta collassando. Dal dirigente Pdl che vuole posteggiare nello spazio riservato al disabile, e per questo gli buca le gomme dell’auto, al funzionario che lucra sulle colonie estive dei bambini, dall’assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa, che affitta un suo capannone a venditori di merce contraffatta, ai capigruppo che si appropriano di denaro pubblico, fino al culmine dei voti di preferenza comprati dalla criminalità organizzata, di giorno in giorno la galleria degli orrori supera ogni immaginazione. Di questo passo torneremo al lancio delle monetine e magari al cappio esibito in Parlamento, trucchi buoni solo per allontanare la necessaria riforma della politica. Non a caso, l’apparato mediatico di proprietà dell’uomo che ha allevato questa razza predona, ha ricominciato con spregiudicatezza a cavalcare la sacrosanta indignazione dei cittadini contro la “magna casta” (è il titolo di un giornale berlusconiano che fino a ieri sparava contro le “toghe rosse”). Da Fiorito alla Minetti, i protagonisti del degrado vengono invitati a far mostra di sé nei salotti televisivi per essere sottoposti al dileggio di chi li aveva scritturati, nella speranza che il coro “tutti ladri!” stordisca l’opinione pubblica, manipolando il necessario discernimento delle responsabilità.

Gli stessi che hanno rigonfiato scandalosamente i costi della politica e hanno riempito le istituzioni di farabutti, ora si fingono nauseati in attesa di riproporsi magari come artefici della bonifica. Anche nel corso della prima Tangentopoli si comportarono così, da forcaioli, salvo rivoltarsi all’improvviso contro i giudici non appena emerso l’uomo forte della destra al cui servizio si misero in fila. Basta vedere, oggi, come hanno esaltato fin che possibile il “coraggio” della Polverini nella speranza che resistesse, per poi scaricarla. Faranno lo stesso con Formigoni. L’unica differenza è che l’uomo forte cui si aggrapparono vent’anni fa per resuscitare un sistema di potere ferito, non è più presentabile.

La Nuova Tangentopoli si manifesta in un contesto di emergenza democratica più acuta di quella vissuta nel 1992. Non solo per la recessione economica e l’impoverimento diffuso della popolazione. Ma anche perché l’influenza delle organizzazioni criminali e dei clan affaristici nelle istituzioni è ormai pervasiva, incontrastata da una politica priva di anticorpi, come dimostra l’inchiesta della magistratura lombarda. Qualcuno dovrebbe chiedere scusa a Roberto Saviano, dileggiato quando segnalò che anche in Lombardia la ‘ndrangheta controlla porzioni rilevanti di territorio e prospera con le sue attività di riciclaggio finanziario e imprenditoriale.

Dal cardinale Scola a Comunione e Liberazione, dalla destra pulita di Gabriele Albertini all’Assalombarda, c’è da augurarsi che si levi una sollecitazione univoca per indurre Formigoni a levarsi di mezzo, consentendo il ripristino di una normale dialettica democratica

sulle ceneri della giunta degli indagati e degli arrestati. Lo stesso governo tecnico deve affrettarsi, per esempio, a rimuovere il prefetto di Milano già dispensatore di favori a una delle favorite del Sultano, e ora compromesso in relazione improprie con dei corrotti da cui ha ottenuto a prezzi di favore la casa per il figlio.

La compravendita di voti controllati dalla ‘ndrangheta a favore dell’assessore Zambetti, infine, dovrebbe seppellire il tentativo di reintrodurre nella legge elettorale nazionale quel sistema delle preferenze che già tanti danni produce nella politica locale. O vogliamo forse che dalla Nuova Tangentopoli usciamo inneggiando alle manette e a chissà quale nuovo uomo forte? L’indignazione dei cittadini deve produrre un vero ricambio di classe dirigente, cioè una riforma della politica. La Lombardia che ha già vissuto la pacifica “liberazione” di Milano, ha in sé tutte le risorse per farsene battistrada.

Due mesi è durato il sogno dei veneziani. In due mesi, dal 7 agosto alo ottobre, è nata e si è subito dissolta l'illusione di tornare dopo 207 anni padroni dell'Arsenale. Era stato di loro proprietà per secoli e secoli, fino al 1805: quando Napoleone Bonaparte, che aveva occupato militarmente la Serenissima anni prima, aveva ridotto Venezia a semplice città del suo Regno d'Italia. L'Arsenale era in seguito diventato patrimonio dello Stato italiano con i Savoia e del Demanio con la Repubblica. Prima che nel decreto sulla spending review, convertito in legge il 7 agosto scorso, spuntasse una norma che ne trasferiva la proprietà, «con esclusione delle porzioni utilizzate dal ministero della Difesa per i suoi specifici compiti istituzionali», al Comune di Venezia. Il quale, precisava il provvedimento, era anche incaricato di assicurarne «l'inalienabilità, l'indivisibilità e la valorizzazione attraverso l'affidamento della gestione e dello sviluppo alla società Arsenale di Venezia». Un successo clamoroso per chi da tempo insisteva sulla necessità di restituire al patrimonio cittadino uno dei suoi spazi più grandi e importanti, dove oltre alla Marina militare trovano ospitalità la Biennale e il Consorzio Venezia nuova, raggruppamento imprenditoriale che sta realizzando il sistema di dighe mobili Mose. Poi, però, durante l'estate, è successo qualcosa. E nel decreto Crescita 2.0, approvato dal governo una settimana fa, è comparsa, abilmente occultata in uno degli ultimi articoli, una norma che ribalta completamente la situazione. È bastato aggiungere a quel passaggio appena citato del decreto sulla spending review, «con esclusione delle porzioni utilizzate dal ministero della Difesa», questa frasetta: «E di quelle destinate al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti — magistrato delle acque». Il risultato è che la parte più vasta dell'Arsenale, vale a dire quella occupata dal Consorzio, non va più al Comune. Rimane invece affidata al ministero di Corrado Passera e a Venezia nuova. E la città non ci può mettere il becco. La verità è che quel Consorzio è una potenza assoluta, e questo colpo di scena ne è ulteriore dimostrazione. L'aveva già sperimentato, quel potere, Maria Giovanna Piva, a lungo magistrato delle acque prima di essere spedita a Bologna nel 2008. Per contrasti, è la vulgata, proprio con la corazzata di Venezia nuova. E l'ha sperimentato anche chi ha visto pian piano espandersi irresistibilmente la sfera d'influenza delle imprese che ne fanno parte al grande affare delle bonifiche di Porto Marghera. Soci del Consorzio sono una trentina di costruttori: da Astaldi a Mazzi, a Gavio, al gigante delle cooperative Ccc... Un plotone foltissimo, nel quale recita un ruolo di pivot la Mantovani presieduta da Piergiorgio Baita. Normale che qualcuna di queste grandi aziende, compresa la stessa Mantovani, abbia linee di credito con il gruppo bancario Intesa, da cui provengono sia Passera, sia il viceministro con delega alle Infrastrutture Mario Ciaccia. Come è normale, aggiungiamo, che que, sto particolare venga ricordato. E la croce che Passera e Ciaccia sono costretti a portare. Certo è che per il sindaco Giorgio Orsoni la retromarcia del governo è uno smacco bruciante. Mentre al contrario per il Consorzio Venezia nuova si tratta di una vittoria schiacciante. La gigantesca area dell'Arsenale è stata assegnata in concessione dal Demanio a quel gruppo di imprese, c'è scritto nel bilancio del Consorzio, «perla futura gestione e manutenzione del sistema Mose». E proprio questo è il punto. Perché il potentissimo Consorzio ritiene già acquisita anche la fase successiva alla costruzione e messa in opera delle famose dighe mobili grazie alle quali Venezia dovrebbe essere difesa dal fenomeno dell'acqua alta. Per capirci, si tratta della parte più redditizia dell'intera operazione. Un business ancora più appetitoso della stessa costruzione. Non è un caso che i lavori di adeguamento delle strutture dell'Arsenale per le future opere di manutenzione delle porte del Mo-se siano iniziati da un pezzo. Il fatto è che non tutti, invece, accettano di trovarsi davanti al fatto compiuto dando per scontato che la gestione e manutenzione dell'opera debbano essere appannaggio automatico di Venezia nuova: cioè senza una nuova procedura a evidenza pubblica. Vedremo. Intanto, tra avere la sicurezza delle disponibilità delle aree e vedersi invece piombare dentro il Comune con tutti i rischi che il cambio di proprietà potrebbe comportare, c'è una bella differenza. O no?

Quando parlo con i miei colleghi universitari francesi o americani dei ‘tagli alla cultura’ italiani, la domanda più ricorrente è: «cosa hanno chiuso?». E qui la faccenda si fa particolarmente penosa, perché si tratta di spiegare loro che l’ipocrisia italica non permette quasi mai di sopprimere davvero qualcosa – sarebbe quasi meglio, paradossalmente –, ma costringe tutti a vivere largamente al di sotto della soglia minima di dignità.

Non si chiudono i musei: no, ma nei bagni non c’è la carta igienica, dai soffitti piove sui quadri, le sale sono aperte a rotazione. E il direttore degli Uffizi guadagna 1800 euro al mese (contro gli 8100 dello stipendio base di Franco Fiorito).

Non si sopprimono le soprintendenze: ma i pochi storici dell’arte e gli archeologi rimasti in servizio in organici ridotti all’osso, non possono usare la macchina di servizio (né farsi rimborsare la benzina o le spese del telefono) nemmeno per fare i sopralluoghi sui monumenti colpiti dal terremoto. E i carabinieri del Nucleo di tutela non possono pagarsi i viaggi per le rogatorie internazionali che consentono di recuperare le opere o i libri rubati.

Non si chiudono gli archivi o le biblioteche: ma se si guastano (succede ogni giorno) i montacarichi che servono a distribuire il pesante materiale cartaceo, non è possibile consegnare i pezzi agli studiosi. E d’inverno non si può accendere il riscaldamento, né d’estate l’aria condizionata: d’altra parte, lo studio non deve forse essere matto e disperatissimo?

Non si eliminano gli enti culturali: ma la prestigiosissima Scuola Archeologica Italiana di Atene è decimata nel personale, ed è costretta da anni ad una indecorosa economia di guerra; l’Accademia della Crusca si aggira ogni anni col cappello in mano; la Società di Storia Patria di Napoli (che possiede la più importante biblioteca sul Meridione) è sull’orlo del fallimento.

Non si chiudono le scuole, ma non ci possiamo permettere gli insegnanti di sostegno, la carta (di qualunque tipo) si porta da casa, e gli autobus per portare i bambini a conoscere le loro città non esistono quasi più.

Non si ha il coraggio di dire che l’università italiana non deve più fare ricerca (per trasformarsi anche ufficialmente in un esamificio e in un concorsificio truccato), ma l’ultimo finanziamento per la ricerca che la mia università mi ha erogato ammonta a 600 euro annui. E l’ho ceduto, come altri colleghi, al dipartimento: in una sorta di colletta che potesse portare ad avere qualche assegno di ricerca per non far scappare all’estero proprio tutti i giovani studiosi più meritevoli.

A questo punto del discorso, qualcuno tira invariabilmente fuori un argomento in apparenza definitivo: «Non ci sono soldi». Ma il mantra del «non ci sono soldi» era già difficile da sostenere prima, visto che nel Paese con l’evasione fiscale più grande dell’Occidente è un po’ dura pensare davvero che ‘non ci siano soldi’: il problema, semmai, è il fatto che preferiamo lasciare quei soldi nella disponibilità dei privati. Gli stessi privati a cui, poi, chiediamo l’elemosina della beneficenza. Una beneficenza che non è a costo zero, visto che – per quanto riguarda, per esempio il patrimonio culturale – si traduce in iniziative contrarie alla funzione costituzionale del patrimonio stesso, che è quella di produrre conoscenza e cultura, e attraverso di esse, eguaglianza e cittadinanza. Questi ‘rimedi’ alla mancanza di denaro pubblico sono infatti tutti all’insegna del mercato, e producono non cittadini, ma clienti: grandi mostre di cassetta (anzi Grandi Eventi), prestiti forsennati di opere delicatissime, iperrestauri a rotta di collo, cessioni di sovranità pubblica a sponsor privati che ‘marchiano’ i monumenti e molto altro ancora. Del resto, l’opzione alternativa è spesso ancora peggiore: non ci sono soldi, dunque che il patrimonio vada pure in rovina.

Ma ora – dopo le feste in costume romano della Regione Lazio, dopo la notizia che il Ponte sullo Stretto ci è costato 300 milioni di euro solo per non esistere, o che il Palazzo della Regione Lombardia ce n’è costato 400, dopo che si apprende che agli incliti consiglieri regionali campani viene distribuito un milione l’anno –, beh, ora è un po’ difficile pensare che il problema sia davvero che i soldi non ci siano. Semmai, il punto è cosa vogliamo farne, di questi benedetti soldi pubblici.

Ma niente paura: quando avremo definitivamente perduto Pompei, potremo sempre nascondere la nostra vergogna sotto una maschera. Naturalmente, una maschera da maiale.

1. Ministero per i Beni e le attività culturali. Nel luglio del 2008 Sandro Bondi subisce passivamente un taglio da 1 miliardo e 300 milioni di euro. Il Mibac non si riprenderà più: per l’anno prossimo Ornaghi annuncia sereno altri 50 milioni di tagli. Morale: la Pinacoteca di Varallo questo inverno non riaprirà; a Brera fino a ieri non c’erano i soldi per riparare i lucernari; a Capodimonte piove sui quadri; a Pompei non si assumono manutentori: e le case romane, si sfarinano.

Ora il governo Monti, con la spending review, per risparmiare 10.000 euro l’anno taglia i comitati tecnico-scientifici, gettando il patrimonio tra le braccia della burocrazia ministeriale. Ma anche le famose Regioni tagliano: nel 2013 la colta Toscana sottrarrà 1 milione e 750 mila euro all’istruzione, due milioni alla cultura.

2. I tagli al Mibac non riguardano ‘solo’ i musei e i siti monumentali, ma anche gli archivi e le biblioteche. A Firenze l’Archivio di Stato non può più climatizzare i depositi: con 36 gradi e un’umidità fuori controllo la memoria storica del paese è a rischio. A Napoli i 300.000 volumi dell’Istituto di studi filosofici non trovano una sede: basterebbe metà di quel che Fiorito è accusato di aver intascato.

3. A Siena chiude il Santa Maria della Scala, fiore all’occhiello del sistema museale cittadino. La crisi del Comune (commissariato) sembra mettere fine ad una delle esperienze culturali più promettenti d’Italia.

4. L’Istituto Centrale per i beni sonori e audovisivi di Roma (la cosiddetta Discoteca di Stato), cioè la memoria sonora del Paese, spacciata dalla Spending review a luglio, è stata salvata in corner dall’insurrezione dei cittadini. Sul sito, un avviso tuttora ringrazia «quanti hanno testimoniato la loro solidarietà e partecipazione». Ve lo immaginate sul sito di un ente pubblico francese, o tedesco?

5. Il mondo dell’arte contemporanea è in ginocchio: i tagli sono del 33%. Il Madre di Napoli è in smontaggio, il Maxxi è commissariato, il Castello di Rivoli si trascina grazie a bilanci provvisori bimestrali, e la Quadriennale di Roma non si terrà per la prima volta dal 1927.

6. Il terremoto in Emilia, Lombardia e Veneto: non ci sono soldi per i monumenti danneggiati. Un esempio? Per il Palazzo Ducale di Mantova ci vogliono 5 milioni di euro, e ne sono arrivati 300.000 mila. Alla faccia di Mantegna. Il centro dell’Aquila, d’altra parte, aspetta da oltre tre anni, ed è ridotto ad una quinta da Cinecittà.

Giuseppe Guzzetti cerca le parole giuste. «Il governo sta perdendo un'occasione incredibile. Potrebbe comunicare al Paese che si sta per realizzare nelle varie Regioni uno straordinario piano di edilizia sociale ma non lo fa. Ci vorrebbe una bella conferenza stampa! Ci sono almeno altri due miliardi di investimenti da qui al 2015 che aspettano solo di partire. Valgono tra i 20 e i 30 mila alloggi da offrire in affitto a prezzi vantaggiosi. E tutto ciò mentre metà delle imprese edili italiane rischia di chiudere per mancanza di lavoro. La nostra, poi, è un'edilizia di qualità perché oltre alla casa dà servizi, verde e risparmio energetico».

Guzzetti parla da presidente dell'Acri ma anche in virtù del fatto che ha seguito sin dal primo giorno dal suo ufficio in Fondazione Cariplo l'esperienza italiana dell'housing sociale, una formula che da noi ha una tradizione recente mentre in altri Paesi europei (Olanda e Inghilterra) vanta radici robuste. In Italia esiste un apposito Fondo nazionale, il Fia, che è partecipato dalla Cassa depositi e prestiti e dalle principali banche, assicurazioni ed enti previdenziali. In virtù del decreto emesso a luglio il Fia è stato dotato di maggiori spazi di intervento nelle realtà territoriali e potrà intervenire in misura più consistente nei singoli fondi locali. Ma purtroppo il decreto governativo da agosto a oggi non ha fatto un passo in avanti e non è stato ancora pubblicato inGazzetta Ufficiale. Le indiscrezioni di stampa parlano di dubbi avanzati da parte della Corte dei conti e la sensazione è che le burocrazie centrali non amino questa novità e in qualche modo non ne facilitino lo sviluppo. Guzzetti sogna una bella conferenza stampa nella quale l'esecutivo spieghi agli italiani che cosa è l'housing sociale e che straordinaria possibilità c'è di dare affitti alle giovani coppie, lavoro alle imprese e maggiore occupazione. È questo il motivo che ha visto impegnare negli anni le fondazioni di origine bancaria. Secondo le stime degli esperti si può costruire un'abitazione di classe A con un costo di costruzione di soli mille euro al metro quadro.

I tre miliardi di euro complessivamente disponibili (tra quelli che hanno già generato interventi edilizi e quelli fermi) possono determinare un volano di attività superiore di almeno tre volte e, pur senza risolvere i problemi strutturali dell'edilizia italiana, possono permettere a molte imprese di passare la nottata, tenere aperto in attesa della ripresa. E non è solo l'industria del mattone che guarda all'housing sociale ma anche l'arredamento. Da tempo le associazioni di categoria come la Federlegno sono attente a questo fenomeno e si sono attrezzate per fornire una sorta di catalogo del made in Italy democratico, divani e armadi di standard italiano a prezzi contenuti. Guzzetti ci tiene a spiegare che l'housing sociale non è «l'industria del mattone low cost» ma è legato e veicola un'idea di coesione sociale «che in un momento come quello che vive il Paese è particolarmente necessaria». Le giovani coppie e gli extracomunitari che vanno a vivere nelle nuove abitazioni sono coinvolti in progetti di solidarietà di vario tipo, dai gruppi di acquisto collettivo per risparmiare sul carrello della spesa alla banca del tempo per mettere a disposizione occasioni di lavoro e di assistenza alle persone. «Reinventiamo in un contesto nuovo i concetti della cooperazione e del mutuo soccorso. E il welfare di domani passa proprio per esperienze di questo tipo».

Tra i progetti che sono in attesa di partire ci sono interventi di riqualificazione urbana a Milano (via Voltri), a Figino sempre vicino Milano e a Verona. A Torino nella centrale via Milano è avanzato un progetto di recupero e rifunzionalizzazione del patrimonio edilizio esistente come ad Ascoli e a Milano in via Padova. Altri interventi in aree di completamento della città sono previsti sempre a Milano (via Cenni), Parma, Crema, Cremona e Senago ma sono in attesa anche progetti della Regione Sicilia, della Sardegna e della Provincia di Trento. Il governo sfrutterà quest'occasione per aiutare la crescita?

Postilla

Guzzetti parla di “un'edilizia di qualità perché oltre alla casa dà servizi, verde e risparmio energetico” e c’è probabilmente da crederci, soprattutto per ciò che non dice. Ovvero che da un lato la sua Fondazione Cariplo è quella che ha sostenuto e finanziato le ricerche sul consumo di suolo, contribuendo negli ultimi anni a costruire quel tipo di sensibilità che ha portato tra l’altro al disegno di legge ministeriale sulla tutela delle superfici agricole dallo sprawl urbano; dall’altro scorrendo gli esempi citati dall’articolo pare di individuare un filo rosso che indica recupero, riqualificazione, tutela dell’articolazione sociale di città e quartieri e quindi della loro vitalità. Insomma l’esatto contrario dell’idea speculativa, ideologica, insostenibile, che la parola edilizia ha finito per evocare negli ultimi anni. Se son rose fioriranno, e dopo la clamorosa sconfessione delle new town emergenziali appaltate agli amici degli amici su terreni extraurbani di altri amici, magari qualche speranza c’è (f.b.)

E’ un grande piacere ospitare qui oggi questa conferenza stampa in uno dei luoghi della cultura che come gli altri ha un po’ della nostra anima. E’ segno di una scelta del FAI e di questo siamo molto soddisfatti.

Da anni sono impegnata come direttore archeologo della SSBAR in particolare per il museo nazionale romano e per l’Appia.

Ho avuto la fortuna di vivere un grande periodo per le antichità di Roma, quello della legge speciale del 1981 che, con Adriano La Regina, ha rivolto l’attenzione alla conservazione del patrimonio archeologico della città. Da quel momento si è avviato il progetto che ha coinvolto i monumenti dell’area centrale e del territorio e si è dato vita a un sistema museale (quello del MNR di cui Palazzo Massimo è una sede) che ha permesso di presentare e valorizzare le raccolte in un rapporto coerente con i complessi archeologici di Roma e del suburbio.

Quando si è lavorato per accrescere il patrimonio culturale e migliorarne la fruizione, senza risparmiare l’impegno, se pur tra tante difficoltà, con l’unico obiettivo della tutela e della divulgazione dei risultati, risulta inconcepibile non poter guardare avanti e continuare nell’impresa, dovendo anzi ragionare in termini di “ridimensionamento”.

L’accrescimento del patrimonio culturale e il suo mantenimento hanno dei costi e nella maggior parte dei casi il profitto è assolutamente insufficiente a far fronte alle esigenze. La soluzione evidentemente non è nei maldestri tentativi di trarre guadagno dai beni culturali direttamente, anche se ciclicamente si sono presentati, sotto vesti diverse, esperimenti di sfruttamento, dai giacimenti culturali alle forme di quella cd valorizzazione indirizzata verso “attività” per lo più estranee alla politica culturale. Senza alcun pregiudizio verso le attività che possano avvicinare il pubblico, non possiamo perdere di vista il compito prioritario che i luoghi della cultura devono svolgere: rappresentare l’identità culturale e formare per una fruizione che deve entrare a far parte delle consuetudini della collettività.

Questo compito complesso viene sostenuto, ove più ove meno, dalle competenze specialistiche delle Soprintendenze alle quali è affidata la gestione del patrimonio culturale. Le Soprintendenze, istituite già all’inizio del ‘900, molto prima della creazione del Ministero, oggi, mentre intorno tutto è stato modificato, sono in uno stato di grave sofferenza che potrà solo peggiorare: stanno diminuendo sempre più i tecnici e con loro l’esperienza sul campo, la cura quotidiana verso i monumenti e i problemi della conservazione, l’attenzione per la tutela. Chi resta deve lavorare senza le risorse anche per il solo funzionamento, per poter raggiungere i luoghi e i monumenti, per sostenere la spesa delle bollette dei musei. La macchina centrale, d’altro canto, si è ingigantita rispetto alla situazione originaria e ha costi elevati, in una moltiplicazione di competenze che spesso appare incongrua, rispetto alle necessità di chi opera sul campo, in un rapporto quotidiano con il territorio e con i luoghi della cultura.

Continuare a lavorare in queste condizioni è davvero arduo.

E’ stato scritto e detto esaurientemente al riguardo, i giornali sono densi di articoli ma vorrei, molto semplicemente, esprimere in questa occasione qualche riflessione che scaturisce dall’esperienza sull’Appia, con la preoccupazione che affligge quotidianamente per la sorte di questo patrimonio. E’ un esempio valido perché si tratta di un patrimonio molto esteso, per il quale le amministrazioni hanno trascurato il rispetto delle regole.

In questi anni, con un piccolissimo ufficio, abbiamo cercato piuttosto disperatamente di portare avanti una tutela complessiva, non indirizzata al singolo monumento ma anche al quadro generale di riferimento, in uno stato di carenza di norme certe al riguardo. L’impegno maggiore, accompagnato da un senso di debolezza, è stato ed è proprio nel tentare di motivare la necessità della salvaguardia dell’intero ambito, secondo le linee della legge 431 del 1985 (derivata dal decreto Galasso), che avrebbero dovuto trovare una applicazione più efficace in termini di tutela e gestione, con il presupposto che i BC insistono sul territorio e hanno in questo il loro modo di esistere, di essere conosciuti, tutelati e valorizzati. L’Appia Antica ha una sua specificità che consiste nella relazione inscindibile tra la strada, le testimonianze monumentali e la campagna in cui sono comprese. L’indirizzo della tutela deve essere sostenuto da uno stretto rapporto tra elementi di conoscenza e norme, in una forma di coerenza che non è stata e non è affatto scontata.

Tra le competenze delegate e subdelegate, si tratta, non poche volte, di dover rincorrere il semplice rispetto dell’applicazione delle procedure che, in qualche caso, da sole, sarebbero state sufficienti ad evitare autorizzazioni vergognose e sanatorie.

Si sono concessi condoni dove non era possibile. Si è lasciato che si distruggesse l’integrità di una strada antica, da trattare come un complesso monumentale unitario, con il suo basolato e il ritmo ininterrotto di monumenti, per consentire l’accesso a edifici residenziali, i cui diritti ad esistere, nel modo più utile all’uso privato, sono stati l’unica regola.

La nostra politica di tutela per l’Appia è stata affiancata da azioni per la valorizzazione che hanno portato anche all’acquisto di beni privati - come Capo di Bove e S. Maria Nova - per ricerche, restauri e la fruizione pubblica, con un progetto culturale che tenta di compensare alla mancata attuazione di progetti complessivi, se non per qualche eccezione, creando un modello di gestione coerente di tutela, conservazione e valorizzazione.

Non si può non ricordare l’impegno di Antonio Cederna, di Italia Nostra e di altri che a partire dal 1953 hanno richiamato l’attenzione sull’Appia e sulla necessità di una normativa speciale. Denunce e proposte inascoltate insieme a quelle di Italo Insolera che abbiamo salutato solo poco più di un mese fa in questa sala e che ha voluto aggiungere alla riedizione del 2011 del suo libro Roma moderna, un ultimo capitolo sull’Appia definendola la colonna vertebrale di una nuova struttura in grado di costruire aldilà degli errori e delle speculazioni di Roma moderna…la vera Roma futura.

Fino a un po’ di tempo fa abbiamo creduto che si potesse riuscire a invertire il corso delle cose, riscattando parti di patrimonio pubblico che rappresentassero oltre che una crescita della conoscenza anche una risorsa per la collettività, per dare un contributo alla costituzione di un parco, o come altro lo si voglia definire, autentico e non costruito a tema per soli fini turistici. Non siamo ottimisti oggi nel senso di esser in grado anche solo di mantenere quello che si è realizzato, per non parlare di crescita.

I motivi sono la mancanza di fondi, come si diceva e il grave stato delle Soprintendenze e del personale del ruolo tecnico.

In questo quadro si vuole far credere che il ricorso ai finanziamenti dei privati e a forme di gestione di tipo privato possa rappresentare una risorsa imperdibile e una soluzione. Anche su questo è stato scritto molto e la lettera della collega Anna Coliva sul Corriere della Sera del 21 settembre chiarisce la differenza fra modelli di mecenatismo e di tipo imprenditoriale.

Francamente non mi sembra che il coinvolgimento dei privati sia stato ancora affrontato secondo regole di una corretta partecipazione e di esplicitazione dei diversi ruoli. Perché il ricorso a finanziamenti privati scaturisce dalla debolezza mostrata nel governo dei BC e dalla lagnanza sulla mancanza di mezzi. Si è generato così un equivoco di base che va chiarito senza indugio: il patrimonio culturale non è disponibile al miglior offerente e non può essere oggetto di scambio; in virtù di questo non sono ammissibili forme di sfruttamento che allontanano dalla gestione istituzionale che non può essere messa in discussione e che va sostenuta perché torni a esistere in una condizione dignitosa.

FORSE si muove qualcosa, nella mente della potenza tedesca che da anni comanda in Europa sapendola solo dividere, non guidarla e federarla? Ancora non è chiaro, ma se Angela Merkel ieri è corsa a Atene – dove la sua politica e il suo Paese sono esecrati, dove è stato necessario militarizzare la capitale per domarne la collera – vuol dire che vi sono elementi nuovi, che destano spavento a Berlino. Uno spavento che si è dilatato, dopo l’intervista di Antonis Samaras al quotidianoHandelsblattdi venerdì. Sono parole diverse dal solito: il Premier greco non si sofferma sui debiti, né sul Fiscal Compact, né sul Fondo salva-Stati approvato lunedì a Lussemburgo. La prima visita del Cancelliere, invocata da Samaras, avviene perché si comincia a parlare dell’essenziale: di storia, di memorie rimosse e vendicative, di democrazia minacciata. Estromessa, la politica prende la sua rivincita e fa rientro. Caos è il vocabolo usato nell’intervista, e il caos impaura la Germania da sempre. Anche perché quel che le tocca vedere è una replica: più precisamente, la replica di una storia che Berlino finge di dimenticare, ma che è gemella della sua.Il caos, i tedeschi sanno cos’è: specie quello di Weimar, quando la democrazia, stremata dai debiti di guerra e dalla disoccupazione, cadde preda di Hitler. È lo scenario descritto da Samaras: Weimar è oggi a Atene, e anche qui incombe una formazione nazista, che si ciba di caos e povertà.

Alba dorata ha ottenuto alle elezioni il 6,9 per cento, ma oggi nei sondaggi è il terzo partito. I suoi principali nemici sono l’Unione, e tutto quel che l’Europa ha voluto essere dal dopoguerra: luogo di tolleranza democratica, di assistenza ai deboli attraverso il Welfare. Lo straripare della disoccupazione, spiega Samaras, dà le ali a un partito che non ha eguali in Europa, tanto esplicita è la sua parentela con il nazismo e perfino con i suoi simboli (una variazione della svastica). L’odio ell’immigrante,delgay,deldisabile, è la sua ragion d’essere. Se l’Europa non aiuta la Grecia dandole più tempo, a novembre le casse statali saranno vuote e può succedere di tutto. In parlamento i deputati nazisti si fanno sempre più insolenti, sicuri. L’ex Premier George Papandreou è bollato come «greco al 25 per cento»: la madre è americana. Ogni nuovo emigrato va tenuto lontano, con mine anti-uomo lungo le frontiere.

Non è male che infine si cominci a dire come stanno davvero le cose, e quel che rischiamo: non tanto lo sfaldarsi dell’euro, quanto il tracollo delle mura che l’Europa si diede quando nacque. Mura contro le guerre, contro le diffidenze nazionaliste, contro la logica delle punizioni. Fare l’Europa significava dire No a questo passato mortifero, ed ecco che esso si ripresenta nelle stesse vesti. Per la coscienza tedesca, uno scacco immenso: la storia le si accampa davanti come memento e come Golem, da lei stessa resuscitato. Oltrepassare i calcoli sull’euro e sondare verità sin qui nascoste aiuta a scoprire quel che Atene sta divenendo: un capro espiatorio. Un laboratorio dove si sperimentano ricette costruttiviste e al tempo stesso si collauda la storia che si ripete: non come tragedia, non come farsa, ma come memoria stordita, morta.

Come possono i tedeschi scordare il muro portante del dopoguerra, e cioè la coscienza che la punizione nei rapporti tra Stati è veleno, e che i debiti bellici della Germania andavano perciò condonati? Nell’accordo di Londra sul debito estero, nel ’53, fu deciso di prorogare di 30 anni il rimborso, e di esigerlo solo qualora non avesse impoverito la Repubblica federale. I greci non l’hanno dimenticato: un comitato di esperti sta calcolando quel che Berlino deve a Atene per i disastri dell’occupazione hitleriana (circa 7,5 miliardi di euro). «Le riparazioni non sono più un problema », replica il governo tedesco. Lo saranno di nuovo, se il castigo ridiventa criterio europeo come nel 1918 verso la Germania.

La Grecia certo non è senza colpe. All’indisciplina di bilancio s’accoppiano la corruzione politica, l’enorme evasione fiscale. Il caos è in buona parte endogeno, come sostenne Alexis Tsipras del partito Syriza quando mise al primo punto del programma la lotta ai corrotti. Ma è un caos non più grave dell’italiano, e anche se Syriza ha manifestato ieri contro la Merkel, assieme ai sindacati, è scandaloso che il Cancelliere si rifiuti di incontrare il primo partito d’opposizione, solo perché le ricette anti-crisi sono ritenute fallimentari.

In fondo non c’è bisogno di Samaras, per penetrare la realtà greca ed europea, e ammettere che nessuno può sopportare una recessione quinquennale. Basta leggere blog e libri indipendenti. Bastano i testi di storia, che raccontano di un paese dove la resistenza antinazista non fu artefice della democrazia postbellica come in Italia, ma venne perseguitata ed esiliata dagli anglosassoni: il potere militare fu da loro favorito per decenni (colonnelli compresi).

I romanzi di Petros Markaris sul commissario Kostas Charitos – una specie di Montalbano greco – sono conosciuti in Italia. L’ultimo, pubblicato da Bompiani nel 2012, s’intitola L’Esattore, e narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l’altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa né vuole agire. L’assassino assurge a eroe nazionale, gli indignados diPiazza Sìntagma vogliono candidarlo: «L’Esattore nazionale è un Dio!», gridano. Oggi esce in Francia un film di Ana Dumitrescu, Khaos,

he raffigura il pandemonio ellenico. Dicono nel film: «Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all’azione politica».Il sottotitolo di

Khaos

è «i volti umani della crisi»: volti che la trojka non vede, né la Merkel, né i governi del Sud Europa che trattano Atene come paria, per paura d’esser confusi con essa. Ma il paria parla di noi, e dell’Europa tutta. Habermas probabilmente pensava alla Grecia, nel discorso tenuto il 5 settembre davanti al partito socialdemocratico: i piani di austerità delineano, ovunque, un

percorso post-democratico.

Quel che assottigliano non è tanto la sovranità assoluta degli Stati nazione – oggi anacronistica – quando la sovranità del popolo, che è costitutiva della democrazia e non è affatto obsoleta. I diritti sovrani sottratti tramite Patto fiscale e Fondo salva-stati semplicemente evaporano, «perché non trasferiti verso un autentico, democratico legislatore europeo». Il potere resta nelle mani di trojke e Consigli dei ministri non eletti dai cittadini europei, o di tecnici che possedendo la scienza infusa pretendono di superare gli Stati nazione da soli, e surrettiziamente.

«Credo che questo sia il prezzo che paghiamo alla soluzione tecnocratica della crisi», conclude il filosofo: «In tale configurazione, imbocchiamo un percorso postdemocratico che approderà a unfederalismo esecutivo.

La democrazia si perde per strada, e tutti mancheremo l’occasione di regolare i mercati finanziari (...). Un esecutivo europeo del tutto indipendente da elettorati che possano essere democraticamente mobilitati smarrirà ogni motivazione e ogni forza per azioni di contrasto».

L’ora della verità è quella in cui i numeri non occupano l’intero spazio mentale, e in scena fanno irruzione la storia, le memorie scomode delle guerre europee e dei dopoguerra. Per questo sono importanti l’allarme di Samaras, il disagio che ha suscitato in Germania, l’impervia corsa della Merkel a Atene. Qualcosa si muove: non necessariamente in meglio, ma almeno si è più vicini al vero. Si chiama Alba dorata il pericolo greco, ed è alba tragica. All’orizzonte si staglia la figura dell’Esattore Nazionale,salutato come Apollo vendicatore: che viene e uccide itraditori della democrazia. È così, dai tempi dell’Iliade, che dalle nostre parti iniziano le guerre.

Quante facce ha un cubo? Quello progettato a L’Aquila da Renzo Piano come Auditorium del parco, almeno due. C’è la festa inaugurale di domenica scorsa, con uno splendido concerto dei solisti dell’Orchestra Mozart diretti da Claudio Abbado, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di numerose autorità, dal sindaco Massimo Cialente, a Gianni Letta, Franco Marini, assessori e varia umanità fino a Fabio Roversi Monaco presidente della stessa Mozart nonché gran maestro della massoneria. C’è soprattutto la generosità e la solidarietà: della provincia di Trento, che ha voluto donare questo Auditorium a una città colpita dal terremoto il 6 aprile del 2009; di Piano, che ha regalato il bozzetto del progetto di questa costruzione, che Napolitano ha voluto definire «agile, armoniosa ed elegante».

C’è la festa andata avanti fino alle 3 di notte, e dopo Abbado ha visto protagoniste le istituzioni musicali aquilane. C’è un nuovo luogo che nelle intenzioni sarà dedicato alla cultura.

C’è infine un tenero tocco di comicità paesana con Napolitano e Abbado che non si mettono d’accordo sull’orario di inizio, così il presidente arriva a concerto da poco iniziato, il direttore artistico della Mozart cerca d’interrompere, e con un gesto Abbado lo allontana - così Napolitano

entra all’inizio del secondo brano. Tutto bene dunque? In realtà l’Auditorium del Parco ha destato e desta mugugni e perplessità: a quattro anni dal sisma è stata costruita una struttura ancora incompleta e definita provvisoria, in attesa di quella definitiva che chissà quando arriverà. Le associazioni ambientaliste hanno inizialmente strepitato contro la posizione sul limitare del Castello nel bel mezzo di un parco disegnato un secolo fa da Giulio Tian.

Il costo, quasi 7 milioni euro, danaro pubblico ancorché erogato dalla Provincia di Trento, è cifra non lieve per un prefabbricato di legno colorato, sembra fatto col lego, sedie da regista come poltrone e la scarsità di bagni, cronica nelle opere di Piano. Se il bozzetto è stato regalato

dall’architetto, la sua squadra, il Workshop Piano, avrebbe percepito circa 700mila euro (altra cifra non lieve) per lo sviluppo del progetto, come denunciato dai giornali aquilani.

NELLA CITTÀ FANTASMA

Si è parlato perfino di pianesca carità pelosa, ma la perplessità maggiore è altra: l’Auditorium è stato assegnato alla società concertistica Barattelli, che tra abbonati e affezionati ha un pubblico potenziale di circa 700 persone, ma la struttura conta 238 posti, di cui effettivi pare solo 187.

I dubbi sull’utilità dell’Auditorium del Parco nascono anche perché a l’Aquila nel frattempo, anzi in molto meno tempo, è stato costruito un altro auditorium con la firma del celeberrimo architetto nipponico Shigeru Ban: è quello del Conservatorio, per 218 posti ma dal costo molto inferiore, circa 700 mila euro - quanto il cachet del solo Workshop Piano - e di cui 500 mila donati dal Giappone. Una struttura pronta da gennaio scorso, ma la cui apertura è bloccata da cavillerie burocratiche: è opinione diffusa che ciò avvenga poiché l’Auditorium di Piano doveva avere la precedenza. Per soprammercato è stata bandita e assegnata una gara per il progetto di un ulteriore Auditorium, stavolta da 700 posti.

Tra qualche protesta e mugugno, a l’Aquila vige il motto: «Intanto prendiamoci questo», atteggiamento che confina con la rassegnazione. Un passante di fronte al nuovo manufatto ha esclamato: «Andiamoci a dormire dentro, sembra un Map! », cioè uno di quei prefabbricati anch’essi costosissimi e di legno che il governo Berlusconi ha destinato agli aquilani nel post terremoto. La pensa così anche un gruppo di intellettuali e storici dell’arte che ha lanciato un appello - tra i firmatari Marta Petrusewicz, Vittorio Emiliani, Pier Luigi Cervellati, Maria Pia Guermandi - dove si parla di irruzione «delle famigerate new town» nel centro storico del capoluogo abruzzese.

Tra costi e reale utilità l’operazione dell’Auditorium del Parco, aldilà delle intenzioni, rischia di apparire demagogica, anche perché avviene in una città fantasma, dove le ferite del terremoto sono ancora pressoché tutte aperte, e dove una seria ricostruzione non appare ancora avviata sul campo.

Le due facce del cubo di Piano sembrano specchiarsi nella musica di Johann Sebastian Bach diretta da Abbado, e percorsa da una forte irrequietezza. Malgrado gli strumenti e le tecniche esecutive antiche è un Bach modernissimo, veloce, tirato nei tempi, e che non perde la sua eleganza. Anche grazie a solisti come Isabelle Faust, violino, Jacques Zoom, flauto, Wolfram Christ, viola, Reinhold Friedrich, tromba.

Ad Abbado il grande merito di aver acceso questa musica con un impulso ritmico danzante a tratti travolgente, avvolgendola in una concertazione trasparente dove si staglia il florido rigore della costruzione e della polifonia di Bach. Che in questa occasione ci ricorda quanto siano difficili da raggiungere dall’agire umano.

«Sa cos' è oggi l' Aquila? Una periferia senza memoria. Le new town l' hanno rovinata, eppure dopo il terremoto del 2009 tutti erano d' accordo nel farle. Ormai il danno è fatto, ora bisogna concentrare tutti gli sforzi e i finanziamenti per ricostruire il centro storico. E l' Aquila si deve dotare al più presto di un nuovo piano regolatore». A parlare è Vezio De Lucia, decano degli urbanisti italiani.

Professore, dare un tetto agli sfollati dopo il sisma era la priorità. Quali altre soluzioni si potevano adottare?

«Sistemazioni provvisorie, moduli abitativi da smontare dopo 3-4 anni. Non certo quartieroni sconnessi l' uno dall' altro come sono oggi le new town, fatte oltretutto con un eccesso di misure antisismiche. Adesso sarà difficile recuperare una logica urbanistica unitaria della città».

Da cosa si ricomincia?

«Bisogna concentrare tutte le risorse, finanziarie e culturali, per mettere mano al centro storico. Adesso pare che ci siano le disponibilità finanziarie per farlo. Basta con la burocrazia, l' imperativo è ricostruire».

Come vede l' Aquila tra dieci anni?

«Io spero che il centro storico tornerà ad essere l' anima della città, anima culturale, intellettuale, commerciale e politica. E piano piano va risanato il disastro delle new town, che tra le altre cose hanno portato al caos della mobilità cittadina».

Bisognerà abbatterle, prima o poi?

«Sono costate troppo, lo stato ha pagato un prezzo tre volte superiore a quello dei moduli provvisori. È dura decidere di abbatterle. Ma di sicuro uno dei nodi da affrontare al più presto è l' adozione di un nuovo piano regolatore, che in tre anni e mezzo non è stato emanato».

A Vicenza torna in questi giorni visibile, dopo un lungo e felice restauro, la Basilica di Palladio: cioè il simbolo stesso della tensione del Rinascimento verso la dimensione civile dell’architettura, verso la bellezza al servizio di un progetto politico, verso l’arte come specchio di una comunità. Bene: e nella Vicenza del 2012, cosa ne facciamo di un luogo come quello?

Pierluigi Sacco (una delle poche voci serie nel circo equestre della cosiddetta ‘economia della cultura’) ha redatto uno studio in cui, tra l’altro, si legge che la Basilica «può così ospitare una programmazione di qualità, ma non centrata sul tema delle grandi mostre, dai costi elevati e bisognose di attrarre flussi molto rilevanti di visitatori per poter raggiungere condizioni di sostenibilità. Non ha alcun senso affollare la Basilica con masse di visitatori distratti, attirati da eventi-spettacolo che lasciano una impronta del tutto effimera sul tessuto culturale ed economico della città – l’idea è invece quella di mettere a punto un programma dai costi contenuti ma dall’elevata qualità di ricerca che funga da ‘laboratorio’ per la città: per i programmi delle scuole, con i quali si possono realizzare forme di stretta cooperazione e di integrazione dei programmi didattici, per gli uffici stile e le aree ricerca e sviluppo delle aziende del territorio, per l’associazionismo culturale, e così via».

E, invece, la Basilica appena inaugurata è stata ridotta a teatro del più effimero evento-spettacolo che la stagione delle mostre trash ricordi: Raffaello verso Picasso. Storie di sguardi, volti, figure (prodotta da Marco Goldin). Quattro milioni di euro per una specie di caricatura di un manuale di storia dell’arte, senza lo straccio di un’idea o di progetto culturale, che non sia l’apoteosi del marketing del capolavoro. Da gennaio la stessa accozzaglia di opere sublimi si sposterà a Verona, ma con un altro imperdibile titolo: Da Botticelli a Matisse.

Fin qui niente di particolare: è notorio che Goldin (indimenticato produttore de Gli Impressionisti e la neve, la mostra che ‘impreziosì’ i Giochi olimpici invernali di Torino) interpreta nel modo più efficiente l’abuso a ciclo continuo della storia dell’arte che è praticato anche in molti altri luoghi (dalle Scuderie del Quirinale al Palazzo Reale di Milano). Quel che invece è davvero notevole è la risposta che Goldin ha dato a coloro che gli hanno mosso queste stesse critiche: «Credo nelle emozioni, non nella conoscenza per pochi sapienti». E ancora: «Ho la convinzione che le opere d’arte non debbano essere relegate alla sola fruizione elitaria riservata ai sapienti».

Ecco l’ultima frontiera del tradimento della storia dell’arte, ridotta a strumento per opporre le emozioni alla conoscenza, e il popolo all’élite. È la stessa retorica che usa Matteo Renzi quando difende dalle critiche degli storici dell’arte la bufala auto-propagandistica della ricerca della Battaglia di Anghiari dietro Vasari, o Silvano Vinceti quando dice di aver trovato le ossa di Caravaggio o di Monna Lisa. Questa retorica prevede che alle obiezioni scientifiche non si risponda con argomenti razionali e verificabili, ma con l’appello ad ineffabili e incontrollabili emozioni. Ed è una retorica tre volte menzognera: mente una volta perché tenta di ammantare di un anelito democratico il marketing della propria carriera politica o dei propri affari; mente una seconda volta, perché illude di far godere dell’arte senza nessuno sforzo di conoscenza; mente una terza volta perché toglie ai cittadini l’unico mezzo per costruire davvero la democrazia: e cioè la conoscenza, che si dipinge falsamente come inconciliabile con l’emozione.

La storia dell’arte è una disciplina umanistica, cioè utile a costruire quella che i latini chiamavano humanitas: la vocazione di noi tutti a non vivere come bruti, ma a seguire la conoscenza. Ma il Dio Mercato ha invece bisogno di clienti, emozionati e ignoranti. Questo insanabile contrasto oppone, per qualche mese, il senso ultimo della Basilica di Palladio a quello del suo effimero contenuto.

A Milano ci parcheggiano le auto, a Roma ci pascolano i turisti; a Napoli sono una suggestione, una specie di ologramma sull'asfalto, un'idea buffa che fa ridere chi a Napoli non vive, e non pedala. Però la creatività napoletana nel non creare piste ciclabili — il «pacco» del disegnino è già popolarissimo, condiviso migliaia di volte sui social network dopo la pubblicazione sul Corriere del Mezzogiorno, anche se il sindaco de Magistris assicura la prossima costruzione di ciclabili vere — ci può aiutare a stimolare una discussione seria. Nelle tre principali città italiane, e oltre. Non è solo il Comune di Napoli — notoriamente squattrinato — a pretendere di venire incontro ai ciclisti con le «piste ciclabili potenziali». In tutte le grandi città — anche quando sono costosamente tracciate — le piste sono spesso piste fregatura, dette anche ciclabili interruptae.

Finiscono improvvisamente nel punto più pericoloso, in genere una piazza con multiple corsie di scorrimento. Si snodano pigramente per viali periferici dove i residenti non ciclisti le usano per lasciare la macchina. Si estendono brevemente in vie centrali dove però tracimano i pedoni («io a voi ciclisti vi odio, non vi sento quando arrivate», mi ha urlato una signora l'altro ieri, sgridandomi perché pedalavo su una ciclabile). Fino a poco tempo fa, però, gli interventi ipocriti degli amministratori locali venivano trattati come un peccato veniale. Ora non più. Basta scendere in strada e guardarsi in giro, in qualunque città tranne quelle molto molto ripide, per capire che sono/siamo un prossimo motivo di allarme sociale.

Perché — più del salutismo e dell'ambientalismo ha potuto il prezzo della benzina — nell'ultimo anno le bici si sono moltiplicate, ovunque. Le decine di migliaia di nuovi ciclisti si riconoscono subito, dalle ansie ai semafori, dalle esitazioni agli incroci, dalla nobile ostinazione a restare sulla carreggiata in vie dove per sopravvivere bisogna pedalare sui marciapiedi. E la frustrazione dei ciclisti di lungo corso aumenta: quasi ovunque in Occidente esistono ciclabili vere, utilizzabili dai cittadini per andare a lavorare, a fare spese, a divertirsi; lunghe chilometri, e protette. I nostri amministratori locali cerchiobottisti — in teoria entusiasti delle ciclabili, in pratica terrorizzati di perdere il voto di chi parcheggia — dicono privatamente che quelli delle bici non gli interessano; e si limitano a dichiarazioni e disegnini. Anche se, volendo, con la stessa spesa (quasi zero) e la stessa quantità di vernice, potrebbero intervenire.

Dove i marciapiedi sono larghi, dove le strade lo consentono, basterebbe (lo fanno a Parigi, lo fanno a Londra, lo fanno ovunque tranne che da noi dove disegnano opzionali pupazzetti; che diamine) tracciare due linee parallele e mettere l'iconcina della bici al centro. Per collegare ciclabili tronche e consentire di pedalare sicuri. Per convincere squattrinati timorosi e sovrappeso perplessi a scegliere la bici e vivere felici (va bene, è una rima patetica; ma si è davvero più felici se si gira in bici, e con più soldi, e più tonici; e se qualche garanzia di viaggiare sicuri sostituisse la certezza di essere presi per i sellini si starebbe ancora meglio, grazie).

Postilla

L’autrice dell’articolo, da scafata ciclista urbana evidentemente, coglie un punto che pare sempre sfuggire ai nostri strateghi della ciclabilità: benissimo le strategie, figuriamoci, ma c’è anche un percorso inverso che si chiama domanda/offerta, indispensabile specie in momenti di crisi come questo, che pure sarebbe ideale. La grande scoperta sarebbe capire che si tratta di consentire una specie di percorso continuo, e che tale percorso continuo dovrebbe nascere tendenzialmente da quelli “storici” esistenti, mescolandosi e fondendosi poi (in modo programmato e governato) con eventuali grandi schemi. Cosa che non accade mai. La nostra cultura predilige invece ancora, a quanto pare, un approccio “infrastrutturale” tradizionale, con relativa necessità, anche qualora il progetto non facesse una grinza, di disponibilità economiche, invece di una virtuosa politica dei due forni: da un lato favorire spostamenti sicuri e continui lungo le direttrici forti attuali, dall’altro programmare e realizzare gradualmente altre tratte, nodi, punti di intermodalità ecc. Certo poi i conflitti sono inevitabili. Il New York Times ha dedicato per mesi intere gustosissime pagine di cronaca locale alle interviste ad abitanti e negozianti inferociti per una pista ciclabile che passava allegra nei posti più impensati. Ma lì ha aiutato molto il fatto che a coordinare il grande schema ci fosse il danese Jan Gehl, che non solo viene da un posto dove in bicicletta ci si va davvero, ma oltre a studiare architettura si è pure sposato una psicologa. Evidentemente ci vogliono competenze specifiche, a spiegare a chi di dovere certi dettagli: la domanda, anche quella di mobilità ciclabile, a furia di essere presa in giro sparisce, e con quella il consenso. Meditate (f.b.)

TORRE La settimana prossima incontro tra il gruppo di Cardin e i vertici dell'ente aeronautico Palais,l'Enac ora e pronto a dire si Basilicati: «Chiederanno approfondimenti, entro e settimana dovremo ottenere via libera» Passi avanti anche sulle trattative per le aree Elisio Trevisan MESTRE Da Roma giungono segnali positivi per il Palais Lumière veneziano. L'aveva annunciato l'altro ieri l'amministratore delegato dello studio di progettazione Altieri nel corso di un incontro pubblico a Spinea: Guido Zanovello ha detto che già la prossima settimana Enac, l'Ente nazionale aviazione civile, darà il suo parere positivo alla deroga per l'altezza della torre di Pierre Cardin (250 metri). Ne abbiamo chiesto conferma all'ingegner Rodrigo Basilicati, amministratore delegato di Concept Creatif International, il gruppo dello stilista italo francese.

«Ho appuntamento con i vertici di Enac a Roma la prossima settimana. Sappiamo che hanno prodotto già due o tre documenti con i quali formalmente ci chiederanno ulteriori approfondimenti e alcuni ne faranno loro».

La settimana prossima, dunque, non sarà quella decisiva. «Non penso che tutto si risolverà in quella sede, ci vorranno ancora alcune settimane per l'approvazione definitiva ma i commenti che ci hanno inviato in questi ultimi giorni sono molto positivi».

D'altro canto non avreste firmato il preliminare per le due aree più grosse senza avere almeno un segnale in tal senso da Roma.

«Già, e contiamo di risolvere anche la questione dei terreni mancanti in contemporanea con l'arrivo dell'approvazione di Fino ad ora vi siete impegnati ad acquistare una decina di ettari, della famiglia Zanardo e del fondo Lucrezio dei Mevorach, ve ne mancano altri otto per completare l'area sulla quale costruire il Palais Lumière.

«Per il Palais sono già sufficienti i primi dieci ettari, poi però ci sono le aree di espansione del progetto. Parte sono del Comune al quale abbiamo già inviato richiesta d'acquisto, parte delle ferrovie, altre sono occupate da strade, rimangono cinque o sei ettari di privati vari con i quali stiamo trattando». Privati che vogliono tirare sul prezzo, a quanto pare. «Non tutti, con la maggior parte abbiamo avviato trattative proficue. Alcuni addirittura potranno essere integrati dentro il progetto con le loro attività. Ce ne sono solo due o tre che vogliono alzare il prezzo. Vedremo, certo che non possiamo pagare cifre improponibili; se le trattative non dovessero andare in porto vorrà dire che, trattandosi di piccoli terreni ai margini dell'intera area, cambieremo il disegno escludendo quegli spazi. Siamo partiti due anni fa per questo progetto e vogliamo far partire i cantieri il più presto possibile».

ROMA— Sempre meno alberi nelle città italiane. Gli abbattimenti aumentano vertiginosamente, le ripiantumazioni sono invece insufficienti, complice anche il profondo rosso delle casse comunali. A Roma, negli ultimi due anni, sono stati sradicati 6.647 esemplari, appena 2.198 sono stati sostituiti. A Palermo, il punteruolo rosso ha decimato 10mila palme, sono solo duemila quelle piantate. Un parassita del legno ha aggredito betulle, aceri, platani e pruni a Milano: 133 gli abbattimenti, la promessa è di seminarne altri. Promesse, appunto. Ma intanto l’Italia butta via il patrimonio arboreo delle sue città.

La Capitale guida questa triste classifica. Nelle strade e nei parchi di Roma si registra un saldo negativo di oltre quattromila fusti. Il trend dei dati forniti dal Servizio Giardini dal 2010 al 2012 non si discosta molto da quello degli anni precedenti. Il rischio è che avremo una metropoli con sempre più cemento e meno verde poiché i numeri non lasciano spazio a dubbi: 1.900 alberi in meno ogni anno. «Il patrimonio arboreo pubblico di Roma è stimato in circa 300mila alberi, almeno secondo l’ultimo censimento del 2002 — sottolinea Nathalie Naim, consigliera dei Verdi del Municipio Centro storico di Roma — e se si mantiene questa media fra 150 anni non rimarrà un solo albero pubblico». La distruzione degli arbusti negli ultimi tempi ha colpito quasi tutti i quartieri. Il centro storico ha perso 476 esemplari, l’area dei Parioli e del Flaminio altri 428.

Il caso Roma fa scuola su come cambia il volto verde delle città. Iplatani e i pini che sono i simboli verdi della Città Eterna (basti ricordare quelli di piazza Venezia che sono stati rasi al suolo per la costruzione della nuova metropolitana), ora non vengono più piantati. Il Comune opta per il frassino che devasta meno l’asfalto, il pero e le robinie. A questi numeri si vanno asommare gli abbattimenti nei giardini privati che, con il pretesto della mancata approvazione di un regolamento del verde, sono stati liberalizzati con una circolare del 2011. E da allora sono aumentati in modo esponenziale. «Si tratta di diverse migliaia di alberi tagliati per lasciare spazio a un posto auto o aun pratino all’inglese», conclude Naim.

Se la Capitale batte ogni primato, i dati sono allarmati anche nelle altre città italiane. L’attacco del punteruolo rosso ha decimato la palme Canariensis di Palermo. Sono stati abbattuti 10mila esemplari nelle zone più prestigiose dellacittà dal lungomare Foro Italico a via dell’Olimpo, una delle strade che porta alla spiaggia di Mondello. Di queste, ne sono state sostituite solo il 20%. A Bologna, il caso di piazza Minghetti ha provocato una sommossa popolare. Il progetto di restyling, assai criticato, ha fatto sì che fossero rasi al suolo 12 alberi (sostituiti con sole due magnolie), sacrificati per rendere ben visibili i palazzi delle due banche. A Varese, le motoseghe hanno fatto capitolare 18 arbusti a Casbeno, di fronte al palazzo della Provincia, per la costruzione di un parcheggio. Critica la situazione a Milano dove 133 alberi sono stati tagliati perché contaminati dal tarlo asiatico. L’amministrazione ha ordinato «l’abbattimento di ulteriori piante non sintomatiche nel raggio di 20 metri da quelle infestate». Una morìa. Nella lista dei fusti sono finite le betulle e gli aceri in via Novara, i filari di platani in via Diotti al confine con Settimo Milanese, gli aceri e pruni in via Taggia vicino all’ospedale San Carlo. «Le alberature stradali rappresentano corridoi ecologici utili agli uccelli per la riproduzione — spiega Matilde Spadaro del comitato Verde urbano — Si tutelino queste vite e si mettano regole vincolanti nei comuni d’Italia».

Postilla

Spiace dirlo, e in questo caso specifico pare un po’ di sparare sulla Croce Rossa, ma tra le varie cause del degrado, certamente non unica ma importante, c’è quella dell’approccio estetizzante e di settore che da troppo tempo prevale nel verde urbano. Per fare un esempio complementare, pochi giorni fa nella già citata Milano è esplosa una polemica sulle enormi quantità di alberi magari regolarmente piantumati, ma che poi non reggono alla prova, e devono essere sostituiti con notevoli spese (in città la tendenza è di operare con esemplari adulti assai costosi), magari per fare poi la stessa fine. Perché c’entra l’approccio estetizzante, o al massimo di settore? Perché tende a burocratizzare i controlli, ad esempio sul sistema degli appalti, o della manutenzione, o dell’esecuzione o meno di lavori, ma non tocca la prova del nove, che da sola darebbe l’idea del patrimonio economico che si sta gettando al vento, ovvero il contributo delle alberature al metabolismo urbano. Se ne parla sempre, affrontando il tema, ma in modo settoriale ed episodico: mai, come accade in tante grandi metropoli del mondo, nel quadro di una verifica periodica regolare su indici trasversali, che darebbero oggettivamente il quadro di ciò che non funziona, stimolando automaticamente gli interventi necessari. I criteri sono quelli del tetto massimo di emissioni, del contrasto alle isole di calore urbano, al contenimento dei consumi energetici ecc., che quando vedono quantificato e integrato il ruolo delle alberature e altre infrastrutture verdi cittadine fanno sì che non debbano essere poi solo le denunce, ad attivare la pubblica amministrazione. In questo sito, sulla totale confusione delle politiche urbane di settore si veda perlomento l'intervento di Lodo Meneghetti "L'odiato albero milanese" (f.b.)

L'Aquila apre il suo Auditorium con AbbadoMa un gruppo di intellettuali contesta l'opera: è uno spreco per la cittàP er una volta, la musica anziché unire divide. Oggi all'Aquila si apre il nuovo «Auditorium del Parco». C'è il prestigio di Claudio Abbado che sottolinea «la valenza simbolica»; c'è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dopo il terremoto del 2009 è il primo nuovo edificio che sorge nel centro storico. Ma a un gruppo di intellettuali non piace. Sono ventotto, tra urbanisti, storici e critici d'arte (Vittorio e Andrea Emiliani, Carlo Ginzburg, Matteo Ceriana, Vezio De Lucia, Pier Luigi Cervellati, Luisa Ciammitti, Tomaso Montanari...) che la ritengono «uno spreco, una nuova offesa per la città abruzzese. Invece di restaurare l'antico Teatro Comunale, o l'ex Oratorio di San Filippo, o l'Auditorium all'interno dello stesso Castello, se ne progetta uno nuovo che allontana nel tempo il recupero del centro storico. La sua posizione altera la sistemazione del verde disegnato da Giulio Tian un secolo fa, ponendosi in contrasto con il codice dei Beni Culturali e del paesaggio. Una grande baita, in un luogo che ha nella pietra la sua tradizione». E poi «la pretesa transitorietà» in un'Italia «piena di manufatti temporanei perenni». Dall'Università di New York, si unisce la docente Marta Petrusewicz: «Mi ricorda i villaggi di Potemkin, le facciate che il ministro di Caterina II faceva erigere per creare l'impressione che qualcosa si stesse facendo. Come il teatrino dell'Aquila».

Sul teatrino (almeno per le dimensioni) tutti d'accordo: si tratta di tre cubi di legno, quello centrale può ospitare 238 spettatori e un'orchestra di 40 elementi; una struttura polifunzionale, costruita con i soldi (6 milioni) e gli abeti rossi del Trentino, materiale con «ottime qualità acustiche e antisismiche e che permette un elevato grado di prefabbricazione», dice l'architetto Renzo Piano. Il quale rileva due aspetti: per l'Aquila è un regalo; è una struttura effimera e rimovibile. Sorprende che i 28 firmatari, non assimilabili al centrodestra, critichino Abbado (a lui si deve l'idea), Piano e il sindaco del Pd Massimo Cialente, che dice: «Quei signori non sanno di cosa parlano, ignorano che al massimo nel 2015 riavremo il Teatro Comunale, così come il San Filippo e il cinema Massimo. Stiamo privilegiando gli edifici a funzione culturale. Allora nemmeno le scuole temporanee si dovevano fare, dal momento che impiegheremo tre anni per quelle nuove, gli studenti sarebbero rimasti sei anni senza andare a scuola. In una città paralizzata, dove la ricostruzione non è partita, l'Auditorium nasce dall'esigenza di mantenere vivo il centro storico. Lavorerà tutti i giorni, solo gli esponenti del centrodestra si sono opposti». In realtà non è così. Vincenzo Vittorini (ex candidato sindaco con una lista civica, che nel terremoto perse la moglie) ha condotto la crociata anti-Auditorium, trascinando l'opposizione di centrodestra che ha devoluto i biglietti del concerto di oggi ai disabili. Ma anche parte della città ha manifestato la sua contrarietà sostenendo che prima bisognava pensare alle case.

Guido Barbieri è il direttore artistico della «Barattelli», la società che gestirà l'Auditorium, 67 anni di concerti alle spalle, all'Aquila ha fatto conoscere pianisti come Richter e Benedetti Michelangeli: «Per noi è un risarcimento. Le polemiche sono strumentali». Con la sua Orchestra «Mozart», Abbado oggi interpreterà un programma interamente dedicato a Bach, il compositore a ridosso di Dio, la musica della spiritualità e della pace.

Hanno svalorizzato il lavoro, grazie all'impegno sistematico di più governi che si sono passati il testimone. Hanno svalutato i salari e le pensioni, mentre era in atto una riduzione drastica del welfare. Il futuro di ormai ben più di una generazione di giovani è stato sequestrato. Così la crisi e chi la pilota, oggi, «ha la meglio» persino sui bisogni primari delle persone. Automaticamente le conseguenze del disastro vengono scaricate sui poveracci che non hanno né stock option né suv pagati dalla collettività per sopportare le valanghe di neve della Città Eterna. E sembra a troppi persino normale che in queste condizioni si pretenda da chi ancora un lavoro ce l'ha, magari cassintegrato o precario, di rinunciare ai suoi diritti perché oggi come oggi non ce li possiamo permettere. Il risultato è davanti agli occhi di tutti, persino di De Benedetti che scopre che le promesse di Marchionne erano favole.

Anzi, lui l'ha sempre saputo, ci ha fatto sapere quando l'amministratore delegato Fiat ha tolto la maschera che aveva solo per chi non voleva guardarlo in faccia: peccato che il suo impero editoriale non abbia brillato nello smascheramento della favole e nel sostegno degli operai di Pomigliano e Mirafiori.
Senza investimenti, senza un progetto di politica economica e sociale all'altezza della crisi, il lavoro scompare e l'incertezza domina la vita di decine di milioni di persone. Fiat, Alcoa, Ilva sono solo i titoli del disastro sociale, ambientale e democratico. Dall'isola dei cassintegrati al campanile di San Marco c'è chi tenta di resistere pretendendo un cambiamento delle politiche del governo, non possiamo lasciare soli questi lavoratori.
La manifestazione indetta dalla Cgil e dalla Fiom per il 20 ottobre a Roma dei dipendenti di tutte le aziende in crisi, con la partecipazione di chi non riesce più a vivere con una pensione sterilizzata, è un passo positivo e importante per non lasciare soli i target del montismo, che siano in tuta o in camice, e possiamo aggiungere per non lasciare sola la Fiom che troppo a lungo sola si è trovata, in una lotta durissima contro la filosofia di Marchionne e il marchionnismo dilagante persino tra i candidati alle primarie del Pd e tra troppi sindaci democratici. Piazza San Giovanni è una buona piazza, una piazza che può dare fiducia e rappresentare il primo di una serie di appuntamenti per restituire voce e protagonismo ai lavoratori, ai pensionati, ai precari, ai disoccupati.
L'appuntamento successivo dovrebbe essere lo sciopero generale nazionale, inopportunamente cancellato dall'agenda della Cgil: non si tratta di fare ginnastica, di autoconfermarsi, di agitare bandiere sbiadite ma di togliere il tappo a un paese tramortito e troppo a lungo zittito, ma non ancora piegato alle leggi del dio mercato. Una grande manifestazione in piazza San Giovanni e poi uno sciopero generale per dire che c'è un'altra Italia oltre a quella liberista che ci comanda per interposto governo e oltre a quella dei suv, delle vacanze ai Caraibi, insomma un'altra Italia da quella dei ladroni e dei padroni.
È importante che la Cgil, e non solo la Fiom, abbia deciso di dare un segnale nell'unico paese europeo in cui gli altri sindacati non aderiscono agli scioperi contro il modello economico che uccide lavoro, salari, pensioni e diritti. La Fiom, accerchiata dall'esterno e che qualcuno anche dall'interno vorrebbe far traballare, ha superato due prove importanti nell'arco di sole 48 ore: mercoledì ha eletto una nuova segreteria confermando la fiducia del gruppo dirigente nazionale a Maurizio Landini e alle scelte difficili e radicali di questa stagione e ieri ha raccolto l'ascolto e il consenso degli operai che più di tutti sono sotto l'occhio del ciclone: gli operai dell'Ilva di Taranto, dove pure la Fiom non aveva la maggioranza dei consensi, oggi ascoltano e applaudono Landini che ha «il coraggio» di non scioperare e manifestare insieme al padrone contro la magistratura e ricorda a tutti, in tuta o in veste ministeriale, che chi minaccia il lavoro e attacca la salute è il padrone. Bisogna sapere chi è l'avversario principale e dove si annida. E bisogna riconoscere anche gli altri avversari: il governo Monti e la sua politica economica classista, lo stesso governo assente e ostile chiamato in causa dai lavoratori dell'Alcoa, della Fiat, della Vinyls e di tutte le aziende in crisi. In crisi di lavoro, ma anche

San Giovanni è una prima risposta importante. Aspettando la prossima.

Postilla

L’Auditorium che si inaugura domenica,regalato dalla Provincia di Trento e dal progettista, è uno spreco e un danno per la città storica.

Invece di restaurare l’antico Teatro Comunale o l’ex oratorio di San Filippo o l’auditorium all’interno dello stesso Castello, se ne progetta uno nuovo (187 posti) che allontana nel tempo il recupero del centro storico. La sua posizione altera la sistemazione del verde disegnato da Giulio Tian un secolo fa e obliterauna precisa valenza scenografica, ponendosi in evidente contrasto con il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Alla sottrazione di spazi verdi, in un’area centrale congestionata, si aggiunge l’inaccessibilità per ovvia mancanza di parcheggi (che magari si deciderà di realizzare ancora una volta in danno del verde e della sua fruibilità). Questa grande baita, in un luogo che ha nella pietra la sua tradizionale espressione costruttiva e la sua identità, si conforma così alle famigerate “new town” e alle “casette alpine” (anch’esse provvisorie).

Per questi motivi i firmatari ribadiscono la loro critica più forte nei confronti dell’Auditorium la cui pretesa transitorietà, oltre ad essere facilmente contestabile (l’Italia è piena di manufatti “temporanei” perenni) rende ancor più incomprensibile, in un momento come questo, lo spreco di risorse che meglio avrebbero potuto essere utilizzate per il recupero del centro storico in agonia.

Paolo Berdini, Francesco Caglioti, Maria Luisa Catoni, Silvia Camerini Maj, Lorenzo Carletti, Matteo Ceriana, Pier Luigi Cervellati, Giandomenico Cifani, Luisa Ciammitti, Nino Criscenti, Michele D’Annibale, Vezio De Lucia, Paola D’Alconzo, Andrea Emiliani, Vittorio Emiliani, Marina Foschi, Carlo Ginzburg, Maria Pia Guermandi, Denise La Monica, Donata Levi, Maria Teresa Lippolis, Giovanni Losavio, Tomaso Montanari, Anita Morselli, Oriana Orsi, Antonio Perrotti, Marta Petrusewicz, Gianandrea Piccioli, Marinella Pigozzi, Simona Rinaldi, Edoardo Salzano, Maria Michela Sassi, Andrea Ginzburg, Gianni Sofri, Sauro Turroni, Gianni Venturi, Rosa Vergara.

ROMA— S’avanza in Italia un consumatore sobrio, perché più povero ma pure più consapevole, e a chilometro zero. Attratto dai luoghi commerciali dove si offre o prepara cibo, meno dai maxi-televisori al plasma. La crisi economica, arrivata alla sesta stagione, sta cambiando ilmoodcommerciale degli italiani e piallando il mausoleo moderno del consumo di massa: l’ipermercato.Alla fine del 2012 in Italia ci saranno dieci ipermercati — aree di commercio superiori ai 4.500 metri quadrati — nuovi, quando quattro anni fa ne furono inaugurati trentasette. Ma solo la Coop ne sta rottamando sei in Toscana, togliendo la scritta iper dalle insegne di Montecatini e Montevarchi, Sesto Fiorentino e Arezzo, Lastra a Signa e Navacchio. Sta progettando, quindi, di trasformare gli ipermercati in superstore in Sicilia, in Puglia e in Campania, «regione dove il commercioè fortemente irregolare». La Conad, ancora, ha cambiato anima al suo negozio extra large di Rimini e i francesi di Carrefour sono usciti con il loro marchio dagli “iper” della Puglia e della Basilicata.

Ci sono dati facilmente leggibili a dimostrare la tendenza: per la prima volta quest’anno le superfici di vendita degli ipermercati non sono praticamente cresciute (+ 0,3per cento) quando nei sei anni precedenti erano salite del 32 per cento. E a fronte di superstore (più piccoli, più centrali, con ilfoodcome merce d’attrazione) che crescono, i volumi di vendita nei 450 “iper” italiani si contraggono (-1,4 per cento) e così i fatturati (-2,4 per cento). È la prima volta dalla loro nascita. La novità, economica e antropologica, si racconta meglio spiegando come le piastre commerciali da un ettaro approdarono in Italia a metà degli anni ’80: si iniziò in Lombardia (che oggi ha 236 ipermercati, quasi uno ogni tre) e il fenomeno portò con sé un’idea di consumo ipertrofico, «un eccesso di spesa», sostiene l’ultimo report della Coop azzardando un rapporto tra la bulimia dell’acquisto e il debito pubblico.

Si poteva trovare ogni cosa, in un “iper”. E le economie di scala consentivano di abbassare i prezzi. Tutto e conveniente. Il problema, trent’anni dopo, si è scoperto duplice: l’aumento del costo della benzina ha tolto all’ipermercato, situato in aree periferiche, la sua fetta di convenienza sicura. E poi sta cambiando l’uomo italiano, che i suoi duemila euro al mese in media non li vuole più buttare in grandi confezioni, ma preferisce usare più a lungo e destinareil welfare personale al cibo di qualità, spesso bio, spesso etnico, e alla conoscenza (tablet e iPhone). Il resto dei consumi, oggi, è crollato.

«Il modello ipermercato fuori dai centri urbani è in difficoltà in tutta Europa», dice Francesco Cecere, direttore marketing della Coop. «In Toscana abbiamo scelto di toglierespazio all’extra alimentare per concentrarci sul cibo, settore che da noi non declina. Non abbiamo messo la parola fine agli ipermercati, ma le nuove iniziative oggi si concentrano su metrature contenute, la vicinanza a città e paesi, la prossimità ai quartieri. Stiamo aprendo un superstore a Mulinella, sedicimila abitanti vicino a Bologna, e strutture simili a Mestre. In Italia si sonoinaugurati troppi ipermercati e in alcune aree si sta tornando indietro». Intrattenimento e convivialità, risparmio e sostenibilità, visto che l’acquisto massificato di prodotti non tira. I duemila metri quadrati che saranno tolti a ogni “iper” in Toscana (due, in realtà, saranno dimezzati) serviranno per allargare l’area cibo, creare gallerie commerciali, librerie e - novità - ristoranti. In una grande distribuzione che per sopravvivere si ibrida, ecco che all’ex cinema Ambasciatori di Bologna la cucina di Eataly è entrata in un superstore Coop.

Carrefour conferma: stiamo ragionando su una riduzione degli spazi di vendita e ripensando il prodotto. Pino Zuliani, direttore marketing della Conad: «La crisi vera è sugli iper di grandi dimensioni». Auchan, che comunque ha battezzato l’ultima delle sue 58 strutture oltre due anni fa, assicura che la voce “iper” per loro resta il futuro: «Puntiamo a essere i migliori d’Italia». La Methos, ricerche di mercato, dettaglia la situazione nel Lazio, 50 centri: «I grandi scatoloni a trenta chilometri dal Raccordo non incontrano più i favori del pubblico».

Postilla

Brevemente quanto decisamente, come si addice ai commenti sommari sui massimi sistemi: al ragionamento dell’articolo mancano (quasi ovviamente) almeno due aspetti, cioè l’avvenuta mutazione del mercato locale e le modalità dell’urbanizzazione globale. Che paiono appunto fumosi massimi sistemi finché non li si definisce un po’ meglio.

Primo, i bacini territoriali locali del nostro paese hanno tutti ormai subito la frattura dell’ingresso, piuttosto deciso e ingombrante, della grande distribuzione organizzata, che è lì per restare, e stabilire i termini della concorrenza. Non è la fine dell’invasione semplicemente perché l’invasione è già finita da un pezzo, con la vittoria soverchiante degli invasori, oggi legittimi abitanti e parte condivisa dell’identità regionale. La frattura, per usare un termine sociologico anni ’70, ce la siamo lasciata alle spalle, gli iper hanno fatto il loro mestiere e adesso la rete cambia pelle, ma rimane tale in quanto nuovo organismo, al tempo stesso assai diverso dall’antico sistema delle botteghe e via via lontano dal modello della fabbrica centralizzata novecentesca, a cui afferisce l’ipermercato.

Secondo, l’urbanizzazione contemporanea nei paesi ex industrializzati occidentali sta assumendo – per fortuna e per forza - caratteri via via più sostenibili e legati alla dimensione locale, a una certa efficienza e risparmio, si allontana almeno tendenzialmente dalla centralità automobilistica e dalla pura crescita quantitativa. Uno dei segnali vistosi di questo processo è la migrazione verso la densità urbana dei grandi contenitori e reti, che restano tali ma si smaterializzano, diluendosi nello spazio, ma (attenzione) restando grandi nella capacità di condizionamento. Sta alla società e alle istituzioni che la rappresentano il compito di “metabolizzare” dentro il contesto ambientale e di relazioni della città e del territorio i nuovi venuti, addomesticandoli per quanto possibile e facendoli almeno assomigliare a cittadini integrati che danno il proprio contributo come tutti gli altri.

Il resto, è solo pubblicità e autopromozione. Qualche dettaglio in più sui vari percorsi della nuova migrazione urbana del commercio negli ultimi interventi miei in Mall Spazi del Consumo (f.b.)

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