«Basta errori in nome di Alitalia, serve una svolta radicale» L'imprenditore e il futuro: «In Germania tre maxi-scali, non possiamo restare indietro»
lettera di Bernardo Caprotti al Direttore
Caro direttore,
ho visto sul Corriere del 24 ottobre che personalità di grande spicco affermano che Milano deve diventare lo hub, il mozzo, il perno, delle comunicazioni tra il nord Europa e l'Europa mediterranea. Lodevole progetto per una città che ha perso il suo primato industriale!, ma che ne detiene ancora ben altri.
Questo mi porta a ripensare all'annuncio fatto da Esselunga su Linate e la sua utilità.
Esselunga ha fatto quell'annuncio perché i suoi 44 ingegneri ed i suoi 88 compratori hanno la continua necessità di visitare fornitori, fiere, eccetera in giro per l'Europa. Il che vale naturalmente anche per chi vuole venir qui.
Quell'annuncio ha suscitato molti improperi alla mia persona, «il patron che si schiera per Linate». Gli italiani amano le fazioni, addirittura le inventano.
Però il mio pensiero di raro utilizzatore, ma di capo d'azienda, è tutt'altro.
Linate è uno straordinario city-airport, che sarà collegato al centro città dalla metropolitana ormai in costruzione, come ce ne sono in altre città, vedi i collegamenti di London-City con Anversa (da 2 a 4 voli al giorno), con Nantes, Berna...
Alla City occorre essere connessa; la City dell'Italia è Milano.
Questo concetto non impedisce tuttavia di formularne un altro, forse dirompente: l'alta Italia non ha mai avuto e non ha un aeroporto intercontinentale, un aeroporto cioè che possa servire l'Italia del Nord, 28 milioni di persone, da Treviso a Torino, da Trento a Bologna a Genova. Altro che Milano!
Perché l'alta Italia è stata così trascurata? Perché c'era l'Alitalia, azienda romana col suo hub ed i suoi dipendenti a Roma: la linea aerea all'amatriciana che ci è costata oltre diecimila miliardi di vecchie lire in perdite e sovvenzioni.
Coloro i quali dovrebbero autorevolmente sollevare questo problema volano tutti con i loro jet privati. Pesenti (Italcementi), De Benedetti, Berlusconi, Meomartini, Presidente di Assolombarda (Eni)... Ma costoro non hanno anche loro 100 dirigenti che debbono spostarsi su Stoccarda oppure Chicago?
Poiché è entrato nel comune modo di pensare che sia normale per un abitante dell'alta Italia di dover passare per Francoforte, Roma, Londra o Parigi per andare in qualsiasi parte del mondo.
Da una recente intervista all'Amministratore Delegato di Alitalia (Panorama del 10 ottobre) apprendiamo che quando Air France-KLM acquisterà Alitalia, quella compagnia di hub ne avrà tre: Amsterdam, Parigi e Roma. E noi? Rimaniamo tagliati fuori per sempre?
La Germania di hub ne ha tre: Francoforte, Monaco e Berlino. Ha anche una compagnia che funziona! Ma questo è secondario. Se ci fosse lo scalo «giusto», più di una compagnia si candiderebbe a servire 28 milioni di abitanti!
Il vero blocco mentale è costituito dal convincimento generale che Malpensa un aeroporto intercontinentale lo sia. Non lo è. Né mai lo potrà essere.
Innanzi tutto perché è sorto lassù, per caso, sulla vecchia pista dei Caproni — costruttori di aerei anni Trenta —, assolutamente fuori mano.
Il terminal è mal concepito e non potrà mai funzionare. Quando ci si arriva da Monaco, da Barcellona o da Atene, da italiani, si prova vergogna.
Le due piste sono sullo stesso lato e gli aerei devono attraversare la prima pista per raggiungere il terminal; come si può pensare di costruirvi la terza?
L'aeroporto intercontinentale dell'alta Italia non deve essere pensato per Milano, deve essere centrale alla Valle, deve essere uno hub, ma deve essere in posizione facilmente navettabile con Linate e Orio, come il Kennedy e il La Guardia a New York.
L'Italia del Nord è stata penalizzata per decenni da Alitalia. Occorre affrancarla da altri interessi. Ma soprattutto occorre sbloccare i cervelli da un modo di affrontare il problema secondo me proprio distorto, cioè teso a risolvere problemi di volta in volta particolari.
L'attenzione quindi è rivolta a Malpensa, che non funziona e per farla funzionare vi si trasferiscono i pochi voli europei rimasti a Linate; oppure a Linate che ci collega con gli hub d'Oltralpe, e non deve; o al bilancio della SEA; o all'Alitalia, che ci ha afflitto quanto basta.
Del servizio ai cittadini, alle imprese, al turismo della «Grande Valle» nessuno si preoccupa. Là dove i numeri dicono chiaramente ciò che a loro necessita.
L'accanimento sull'errore iniziale andrebbe superato da uno slancio visionario verso una soluzione radicale che a mio avviso già c'è. Io, a mie spese, ho imparato: insistere ad investire su un impianto sbagliato è diabolicum.
Caro direttore, con tutto questo, sia chiaro, io non sono contro Fiumicino, Roma o Venezia, mete superlative, dove il traffico oltretutto continuerà a crescere. Ma certo non crescerà nella tratta Linate-Fiumicino, dato l'avvento di una assai più comoda e conveniente Alta Velocità.
Io mi scuso con Lei per queste molte, troppe idee farfugliate, ma mi sembrerebbe il caso che su un argomento così grave, quale la vita o l'asfissia della nostra città e di una parte tanto grande del Paese, si aprisse un dibattito, innanzi tutto coinvolgendo degli esperti di aviazione non interessati e poi altri giornali e persone informate e intelligenti, da Albertini a Molgora, da Armani ad Abravanel.
Coi miei più cordiali saluti.
L'aeroporto del signor Esselunga: hub a Montichiari come a Parigi
di Alessandra Mangiarotti
Bernardo Caprotti costruisce il suo «sillogismo» con il piglio pragmatico dell'imprenditore che sa trasformare le idee in azioni: «Il Nord Italia non ha un aeroporto intercontinentale»; «Malpensa non sarà mai l'hub del Nord, Montichiari avrebbe tutte le carte in regola per diventarlo». Conclusione: «Perché non trasformare lo scalo bresciano nell'aeroporto che 28 milioni di abitanti chiedono?».
«Il mio è il ragionamento di un droghiere», premette il patron dell'Esselunga. «Ma questa, dopo Monaco, Ruhr e Île-de-France è la quarta regione più ricca d'Europa: non abbiamo forse diritto a un nostro aeroporto intercontinentale?».
Montichiari oggi è uno scalo fantasma: zero passeggeri, tremila metri di pista su cui rullano solo voli postali e qualche cargo, una gestione che in dieci anni ha perso più di 40 milioni. Eppure l'Ente per l'aviazione civile l'ha appena certificato per operazioni con Boeing 747-8, il gigante dei Jumbo jet. E il nuovo piano nazionale degli aeroporti gli attribuisce un ruolo di «scalo cargo e nel lungo periodo quello di riserva di capacità» per il Nord. Spiega Caprotti: «Montichiari ha tutto: posizione, bacino d'utenza, un'area vincolata di 44 kmq (ci sta dentro un Charles de Gaulle!), futuri collegamenti. Buttiamo tutto per salvare Malpensa?». Nella sua testa il futuro di Montichiari-hub è inserito in un piano che riserva un ruolo a ciascun aeroporto: «Malpensa: traffico cargo e passeggeri low cost per destinazioni lontane; Linate: city-airport con potenziamento dei collegamenti business su città come Nizza, Ginevra, Stoccarda».
E i soldi? «Da qui a 15-20 anni ci saranno. Bisogna guardare lontano».
Per il 2030 nel Nord Ovest si prevede una domanda di traffico di oltre 75 milioni di passeggeri. Afferma Giulio De Carli, architetto esperto di pianificazione aeroportuale e coordinatore del piano nazionale degli aeroporti: «Già oggi il bacino è importante, 30 milioni e più. Ma non bisogna cadere nell'illusione che la risposta sia un hub. Da subito Montichiari è perfetto per il trasporto cargo, pochi investimenti e si recuperano in parte le perdite. Tra vent'anni potrebbe diventare sì un aeroporto intercontinentale. Ma per farne un hub oltre alla struttura ci vorrebbe un grande vettore con base li».
Come Londra, Parigi, Francoforte. «E visto che abbiamo perso la possibilità di avere una nostra grande compagnia (in Europa non c'è più spazio, già premono gli asiatici) la soluzione è quella di creare uno scalo aperto ai vettori globali». Come Berlino: «Costruito potenziando accessibilità e infrastrutture. Allo stesso modo serve subito pianificare strade e ferrovie (con la fermata dell'Av il più vicino possibile a Montichiari) e salvaguardare le aree vicine come a Madrid».
Oliviero Baccelli, vicedirettore del Certet Bocconi, ricorda che di un grande Montichiari si parla da anni. Per lui stesse condizioni: «Vincolo delle aree e pianificazione dell'Alta velocità che ad oggi prevede un tracciato lontano dall'aeroporto. Serve però acquisire l'area militare di Ghedi, quindi rivedere potenziamento di Venezia e realizzazione della terza pista a Malpensa». Caprotti però su una cosa ha ragione: «Se si traccia una mappa isocrona per capire quanta gente attrae l'aeroporto quasi sicuramente Montichiari vince su Malpensa».
Postilla
Di un “Grande Montichiari”, come ad esempio ha ricordato anche il poco esperto sottoscritto tanto tempo fa, ne parlavano (e con cognizione) gli esperti trasportisti all’epoca in cui Malpensa era solo una scintilla progettuale nella mente di qualcuno, e fisicamente ancora un campo militare dell’ex Caproni perso tra le brughiere della valle del Ticino. La questione però, per non farla troppo lunga in una sede indebita, è di metodo, ovvero NON sostituire alla pura logica delle lobbies legaiole e altro,localiste e nazionali, trionfante sino a poco tempo fa, quella di nuove lobbies e cordate, col solo risultato di aprire buchi nella pianura padana lasciando inutilizzate altre voragini. Il rischio, con l’approccio contabile a tutto quanto che pare diventato vangelo, è proprio questo, in assenza di una strategia diversa che si ponga domande adeguate. Gli aeroporti sono un sistema, e gli hub virtuali con adeguata rete di collegamento veloce via terra (quello che nessuno si sogna mai di realizzare davvero) a integrare la regione urbana possono secondo molti esperti svolgere esattamente il ruolo dell’hub fisico unico. Si sono programmate e in parte realizzate già varie grandi opere, che potrebbero andare in questo senso, mentre altre (certi sistemi autostradali come la sciagurata Città Infinita dei pataccari tuttologi) lo perderebbero quasi tutto. Si spera che la politica, quella emergente che si vuole portatrice di innovazione, sappia cogliere la sfida: essere moderati ma progressisti magari potrebbe significare anche questo, semplicemente pensare. Si chiede troppo?
p.s. in eddyburg.it archivio naturalmente pullulano gli articoli sugli aeroporti padani come sistema, nonché i casi specifici; faccio riferimento per brevità al mio primo Hub? Burp dedicato a Montichiari disponibile anche su Mall
Il manifesto 18 novembre 2012
Dopo Marchionne, Monti. Tenete presente la parabola di Marchionne: due anni e mezzo fa, quando aveva sferrato il suo attacco contro gli operai di Pomigliano («o così, o chiudo»), togliendosi la maschera di imprenditore aperto e disponibile che si era e gli era stata appiccicata addosso, la totalità dell'establishment italiano si era schierata incondizionatamente dalla sua parte: Governo, partiti, sindacati, media, intellettuali di regime, sindaci, aspiranti sindaci, ministri e aspiranti ministri, più la falange di Comunione e Liberazione, da cui Marchionne si era recato a riscuotere gli applausi che i suoi dipendenti gli avevano negato.
Uniche eccezioni, gli operai presi di mira, la Fiom, i sindacati di base e poche altre voci senza molta audience. Perché a quell'attacco antioperaio Marchionne aveva abbinato un faraonico piano industriale da 20 miliardi di euro («Fabbrica Italia», l'ottavo piano, da quando Marchionne era in carica, nessuno dei quali mai realizzato), che avrebbe portato finalmente la Fiat, anche grazie alla stretta imposta agli operai, a competere nel pianeta globalizzato con mezzi adeguati alla nostra epoca, che Marchionne, con venti secoli di ritardo, aveva battezzato «Dopo Cristo». Al manifesto , che su quel piano aveva sollevato fondati dubbi, erano stati riservati i lazzi di ben sette collaboratori del Foglio - tra cui due stimati ex sindacalisti - e del direttore del Sole24ore.
Qualcun altro aveva, sì, notato che quei 20 miliardi non comparivano, ne avrebbero potuto comparire, nel bilancio della Fiat; o che triplicare la produzione di auto ed esportarle in un mercato con il fiato corto era forse una mossa avventata; o che l'Europa si stava avviando verso un lungo periodo di vacche magre - in realtà magrissime - che rendeva problematici piani così faraonici; o, soprattutto, che voler trasformare le fabbriche (dopo Pomigliano, era stata la volta di Mirafiori, e poi di tutto il resto) in falangi - dove per sopravvivere gli operai devono combattere, sotto il comando di un manager che guadagna 400 volte più di loro, una lotta mortale contro i lavoratori della concorrenza, perché la vita degli uni è la morte degli altri - più che una forma di «modernizzazione» - allora era molto in voga questa espressione - era un ritorno al dispotismo asiatico. Ma i peana avevano avuto il sopravvento.
Oggi, a due anni e mezzo da quel trionfo, il bluff di Marchionne si è completamente sgonfiato: è rimasto solo il peggioramento delle condizioni di lavoro per gli operai (ormai in cassa integrazione quasi permanente), l'abolizione della contrattazione e la violazione continua e ostentata della legge e delle sentenze dei tribunali. Il sindaco che voleva srotolare un tappeto rosso sotto i piedi di Marchionne lo ha riarrotolato in silenzio e deposto nel suo nuovo ufficio di banchiere in attesa di tempi migliori. Quello che approvava Marchionne «senza se e senza ma» sostiene invece di essere stato ingannato (ma forse voleva esserlo). E a quello che «se fosse stato un operaio» avrebbe votato sì al referendum truffa di Mirafiori non è mai venuto in mente di chiedere che cosa avrebbe fatto se fosse stato sindaco a un operaio: una evidente asimmetria informativa.
Molti altri semplicemente tacciono senza spiegare perché non avevano capito niente o avevano fatto finta di non capire (allora gli conveniva lodare, come oggi gli conviene tacere). Fatto sta che dopo il tonfo oggi Marchionne è per tutti un po' come la peste. Nessuno cerca più di incontrarlo; tutti ne parlano male e soprattutto cercano di evitare l'argomento. «Marchionne? Chi era costui?» Quanto a lui, continua per la sua strada: cioè non fa niente, che è quanto, secondo lui, gli richiede oggi il mercato. E allora? Allora, la parabola di Marchionne non fa che anticipare quella di Monti: tra cinque mesi nessuno ne vorrà più sapere e per tutti quelli che lo hanno appoggiato sarà una corsa a dissociarsi e a sostenere di non aver mai avuto gran che a che fare con lui: «Monti chi?».
Perché se il piano Fabbrica Italia è stato un flop, la cosiddetta agenda Monti è ancora peggio; e i nodi stanno venendo al pettine. «Si è arenata la spinta innovatrice» cominciano a dire, mettendo le mani avanti, quelli che per un anno lo hanno esaltato per aver portato il paese «fuori dal guado» (tra i quali il primo della lista è proprio lui, Monti, che non ha mai perso un'occasione per lodarsi). Era partito anche lui alla grande, come Marchionne: dopo i due primi decreti aveva sentenziato che il Pil sarebbe cresciuto dell'11 per cento; i salari del 12; i consumi dell'8; l'occupazione dell'8 e gli investimenti del 18. Il bello è che tutti l'avevano preso sul serio e nessuno era andato a suggerirgli di farsi ricoverare. Ma proprio come con Marchionne, il paese, beneficiato da due decreti Crescitalia, da uno Salvaitalia e da numerose altre misure, non è cresciuto di un centimetro; anzi, come era prevedibile, è andato indietro.
In compenso, come con Marchionne, sono crollati occupazione e redditi; e poi spesa sanitaria, scolastica e per la ricerca, investimenti pubblici e privati; ed è ancora aumentato il debito pubblico, che presto sarà sottoposto alla stretta del fiscal compact ; mentre il compito di rilanciare lo sviluppo è stato affidato al petrolio del sottosuolo italiano, al trasporto di gas in conto terzi attraverso le aree più sismiche d'Europa e alle solite autostrade (e, ovviamente, Tav), per le quali e solo per loro, i miliardi - ben 100 si trovano sempre, mentre intere regioni del paese sono sott'acqua quasi perennemente per incuria e opere devastanti. Grazie al ministro Passera; il quale prima le finanzia - a babbo morto - come banchiere e poi interviene come ministro per tappare lo scoperto bancario con fondi pubblici, saccheggiando la Cassa Depositi e Prestiti. Insomma la storia di Marchionne si ripete; ma ancora più «alla grande». Era ovvio che un andazzo del genere non sarebbe durato a lungo.
Tutti avevamo, e abbiamo, davanti agli occhi le vicende della Grecia e della Spagna, lo strangolamento delle cui economie precede di poco quello della nostra ed è frutto della stessa ricetta: quella che Monti, ancora prima di diventare Presidente del Consiglio, aveva esaltato sostenendo che quei paesi avevano finalmente imboccato la strada del «risanamento». Un buon viatico per affidargli l'incarico di guidare fuori dalle secche l'economia italiana e, di concerto con il sodale Draghi, quella europea. Poi si è impegnato in una stupida competizione con Grecia e Spagna, invece di creare un fronte unico per fare fronte a un pericolo comune che riguarda tutti.
Ma soprattutto, era proprio necessario affidare a un tecnico, anzi a una confraternita di tecnici che non si sono mai occupati di problemi sociali e ambientali, il compito di affrontare la sollevazione di popolo - che, per ovvia conseguenza, è alle porte - e il disastro ambientale che sta devastando il paese (e il resto del mondo)? Così diventa chiaro che l'unica tecnica con cui i ministri del governo Monti, e dopo di lui la sua agenda, chiunque la gestisca, sono in grado di affrontare i problemi messi all'ordine del giorno delle loro politiche è il solito manganello: contro gli studenti, contro gli operai, contro i minatori, contro gli insegnanti, contro i comitati che si ribellano allo scempio dell'ambiente, della salute e della convivenza civile. L'agenda Monti, ci spiegano infatti i suoi residui sostenitori, è già tutta definita: non c'è alternativa; e non c'è niente da fare. Ma fino a quando una soluzione del genere potrà bastare? E poi?
Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2012
I ripetuti, forti e argomentati “vergogna!” che giovedì hanno clamorosamente cambiato l’agenda dei cosiddetti ‘Stati generali della cultura’ sono l’unico risultato concreto (ma imprevisto e imbarazzante) della retorica sulla ‘costituente della cultura’ che il Sole 24 Ore alimenta ossessivamente da nove mesi. Ma la montagna ha partorito un topolino interessante.
Il parterre schierato sul palco del teatro romano ‘Eliseo’ rappresentava in modo impeccabile l’ossificazione mortuaria della cultura italiana. E come si può chiedere di indicare nuove prospettive a chi ha imbottigliato la cultura italiana in una strada senza uscita?
Fa piacere sentire Giuliano Amato che riscopre l’articolo 9 della Costituzione: ma come non ricordare che l’ormai permanente blocco indiscriminato delle assunzioni dei giovani ricercatori italiani o dei soprintendenti fu inventato proprio da lui? E il danno è stato molto più grave dei pochi benefici ottenuti risparmiando su quei comparti strategici. Che il ministero per i Beni culturali sia “un morente ibernato” è verissimo: ma come non stupirsi che a dirlo sia uno dei congelatori, quell’Andrea Carandini che si precipitò a presiederne il Consiglio superiore quando Salvatore Settis sbatté la porta a causa del maxi-taglio da un miliardo e 300 milioni di euro disposto da Tremonti e subìto da Sandro Bondi?
E non parliamo dei ministri in carica: Lorenzo Ornaghi sale sul palco per dire “meno Stato e più privati”. Niente male per un ministro della Repubblica che dovrebbe invece difendere la dignità e i finanziamenti del sistema di tutela (un tempo) migliore del mondo. E quando un ragazzo gli urla: “Lei parla come un economista, non come un ministro della cultura”, il malcapitato ex rettore della Cattolica mormora che “non si può dire che questo governo non abbia fatto nulla per i beni culturali”. E invece è proprio così, tanto che Ornaghi non riesce a fare un solo esempio concreto.
Che il vento sia bruscamente cambiato se n’è reso conto il direttore del Sole, che nell’editoriale di ieri ha abbandonato la retorica vetero-craxiana sulla cultura come giacimento economico da cui estrarre reddito, e ha parlato della priorità della tutela del patrimonio, finalmente indicandolo come un valore in sé, e non come l’ennesimo strumento del mercato.
In tutto questo, l’affondo del capo dello Stato è apparso provvidenzialmente fuori degli schemi: in tempi di crisi si devono dire molti no, “ma alla cultura bisogna dire molti sì”. Certo, uno si chiede perché Napolitano abbia controfirmato la nomina a ministro dei Beni culturali dell’unico ministro non tecnico del governo Monti: nomina che è stata un vero segnale di disprezzo per la cultura. Ma non è mai troppo tardi, e la frustata presidenziale al governo e all’establishment culturale ha fatto capire che è finito il tempo in cui la pomposa definizione di ‘Stati generali’ può designare un teatrino in cui i responsabili dello sfascio si parlano addosso commentando lo sfascio medesimo. Se non altro di questo siamo gratissimi al Sole 24 Ore.
Anche nel significato simbolico la torre di Cardin è un errore, e un'aggressione all'idea stessa di Venezia. Il manifesto 17 novembre 2012
Cos’è una città? È assai più di un insediamento abitativo. Ed è per questo che ci appassioniamo a discutere degli interventi che si vogliono realizzare, per questo ci interroghiamo sulle continue trasformazioni della forma urbana. Sappiamo infatti che la posta in gioco è altissima: la città rappresenta la sfida a realizzare la migliore qualità di vita per una comunità di diversi, coniugando l’attenzione al luogo che l’accoglie con la bellezza dell’opera umana. C’è un profondo desiderio di città in tutti noi ma spesso è mortificato dalla povertà del linguaggio e delle scelte degli amministratori che non sembrano cogliere che operare nel tessuto vivo della città è intervenire nelle forme e nei significati di questa convivenza.
E così non restituiscono ai cittadini la «grandezza» della questione, l’ordine simbolico che vi è implicato. Guardiamo a quel che succede a Venezia. Non è patrimonio solo degli studiosi di architettura o di urbanistica sapere che Venezia rappresenta un modello «esemplare» di città: fa parte dell’esperienza comune percepire, pur nell’involgarimento causato dalla speculazione e dalla macchina turistica, un benessere che ha ragioni antiche e profonde. Le Corbusier colse con grande precisione il segreto dell’agio riposto in questa forma urbana e lo spiegò nei suoi studi e lo ribadì con forza nella lettera che scrisse al sindaco di Venezia nell’ottobre del 1962, cercando di richiamare la politica alla necessità di comprendere la «cifra» della città e ancorarsi al suo genius loci per scegliere come e se intervenire in essa.
Temeva infatti «l’invasione della dismisura». Spiegava che ciò che fa di Venezia uno straordinario modello urbano è la sua «scala umana», quel rapporto armonioso tra la figura umana e l’altezza degli edifici, che consente sempre di ritrovare la magica linea dell’acqua e dell’aria. Tuttavia per comprendere più intimamente il potere di donare benessere che ha questa città, la vocazione altissima di «vivibilità» che le riconosciamo e per chiarire l’ordine simbolico che la governa, dobbiamo andare oltre l’affermazione di Le Corbusier. Venezia non è una città a misura di un astratto «corpo umano» bensì è città per gli uomini e per le donne poiché sa rimandare ai corpi sessuati. Venezia restituisce e non oscura la dualità: gli elementi formali maschili e femminili vi sono mescolati con sapienza, sposati come nei tanti rituali nuziali presenti nella storia della città, o alternati senza che uno prevalga sull’altro.
E tra tutte le simbologie quella che meglio esprime la dualità è proprio il rapporto di equilibrio tra verticalità (maschile) e orizzontalità (femminile). Del resto, questo sito naturale ha posto da subito un limite all’homo faber, l’ha costretto a modulare risposte originali, gli ha impedito di procedere per linee rette, rispettando la sinuosità dell’andamento acqueo; ha suggerito di accostare spazi aperti ad altri più raccolti, sfumando le soglie tra dimensione pubblica e privata. Una grande studiosa della città, Egle Trincanato, ci ha insegnato che la malia di Venezia risiede proprio nell’alternarsi del comune con il sublime, nell’accostamento dell’edificio di modeste dimensioni e pregio con il palazzo nobiliare, da cui non viene umiliato. Insieme hanno costruito un tessuto urbano differenziato eppur omogeneo, al servizio di una comunità. Tutto questo ne ha fatto una città altra e unica. Chiediamoci ora se la grandezza della posta in gioco viene restituita nel dibattito che si svolge attorno ai numerosi interventi o progetti di intervento sul tessuto urbano di Venezia e del suo territorio.
Sentiamo forse riferirsi all’ordine simbolico che la presiede quando si discute degli insediamenti ad alto tasso di cementificazione di Tessera city nella fragile area di gronda o dell’ampliamento dell’aeroporto, della mobilità sublagunare, del raddoppio dell’Hotel Santa Chiara a Piazzale Roma e del suo parcheggio sotterraneo? Ci si ricorda della «cifra» della città quando si auspica l’aumento del traffico crocieristico? No. Ascoltiamo discorsi che giustificano questi interventi in virtù di un presunto «sviluppo del territorio», secondo modelli economici privi ormai di qualsiasi valenza, che in questa area hanno provocato ferite ambientali e umane. Se il dibattito, specie dei decisori, non si nutre di una lettura simbolica, si corre il rischio di introdurre confusione e opacità negli elementi da valutare e di scegliere poi per il peggio.
Un esempio è il dibattito che si svolge intorno alla torre voluta da Pierre Cardin. È indubbio che con quel progetto si ha a che fare con una verticalità estrema. Si discute se sia legittimo che la sua altezza vada a oscurare il campanile di S. Marco, modificando lo skyline.Ma tale confronto ha senso? La verticalità dei campanili aveva una funzione di riferimento per la comunità, serviva a indicare la strada a chi si muoveva a piedi; si collegava alla chiesa che conteneva quel suo ergersi sviluppandosi in orizzontalità; era ed è un «bene comune», non espressione di un’individualità. Talvolta, invece, si paragona la torre dello stilista a un faro. Sarebbe un faro per Marghera. Ma un faro è un edificio che fa da riferimento alle imbarcazioni, è indispensabile alla salvaguardia dei naviganti; individua un punto cruciale della linea di costa. I termini del confronto sono dunque confusi e si concentrano per lo più sulle misure, quasi fosse un membro virile e non un segno/simbolo che si imprime nel paesaggio.
Non se ne faccia pertanto questioni di misure bensì di ordine simbolico. Ha ragione Salvatore Settis nell’indicare negli interventi sul corpo della città antica e sul territorio che circonda Venezia un pericolo che non riguarda solo Veneziana l’idea stessa di città. Le Corbusier concludeva il suo appassionato messaggio agli amministratori di Venezia con un monito: «Non avete il diritto di aprire la porta al disordine architettonico e urbanistico».Ma il rischio che abbiamo di fronte non si limita a un disordine di tal genere, bensì sottende a una dismisura simbolica, a una ferita profonda nella radice di Venezia. C’è da augurarsi che nelle menti di politici e amministratori avvenga la stessa esperienza di illuminazione e profondo riconoscimento della bellezza che nella Venezia salva di Simone Weil ha la forza di fermare il saccheggio della città.
downtown terziaria, comunque lo si voglia intendere. Corriere della Sera Milano, 16 novembre 2012 (f.b.)
Previdenti per mestiere e missione aziendale, all'Inps hanno iniziato a programmare il trasloco quasi tre anni fa. Gli uffici sono stati riorganizzati, i servizi accorpati, i dipendenti progressivamente ridotti a poco più di duecento unità. Oggi, quando lasceranno il grattacielo di via Melchiorre Gioia 22, svolteranno l'angolo e chiuderanno un'epoca. «Abbiamo anticipato la spending review e operato in un'ottica di contenimento dei costi», dice Sebastiano Musco, il direttore dell'Area metropolitana Inps. Nel piano di revisione delle spese c'e il pensionamento del palazzo di Gioia e di tutto l'immaginario collettivo che ha costruito in oltre quarant'anni di storia. Le tensioni sociali. Le proteste sindacali aggrappate ai cancelli. Le code per i moduli 101. Il maxi concorso del 1982 con 800 assunzioni. Ma anche le telefonate anonime. L'incubo terrorista. Gli allarmi bomba. «Quest'operazione — ribadisce il direttore Musco — consentirà notevoli risparmi economici».
Gli sportelli chiudono alle ore 16, la sede storica dell'Inps cambia indirizzo, libera via Gioia 22 e si insedia in via Pola 9. Cinquecento metri di distanza, sei minuti a piedi. Il parametro che motiva il trasferimento è questo: l'Inps lascia i diciotto piani del grattacielo in affitto e ne prende sette nel nuovo polo direzionale, «riducendo notevolmente il canone di locazione». Il passaggio è simbolico, economico e pratico. Il palazzo di Gioia 22 (di proprietà mista) è un'architettura della Milano industriosa e febbrile del 1967, l'anno dell'occupazione studentesca in Cattolica, dei Rolling Stones al Palalido e della prima elezione del sindaco Aldo Aniasi. L'Istituto nazionale previdenza sociale ha realizzato qui una cittadella del welfare (con oltre duemila addetti negli anni Ottanta) e sperimentato un modello di gestione interna (con mensa e servizi al personale): «Negli ultimi anni, tuttavia, il "Grande Transatlantico" di Gioia ha presentato problemi di efficienza energetica e utilizzo degli uffici». Conservare l'identità o razionalizzare gli spazi? Tradire il vecchio e inaugurare una stagione di cambiamenti? «Ci siamo fatti queste domande tre anni fa — spiega Musco — e abbiamo concordato sulla risposta». Bisognava fare gli scatoloni.
Il blocco direzionale di via Pola 9 (di proprietà di una società di assicurazioni) è stato individuato in fondo a una ricerca di mercato mirata: «Non potevamo abbandonare la zona di Garibaldi-Gioia — dice il direttore Musco —. Questa sede dell'agenzia è identificata con il quartiere, c'è quasi un vincolo di familiarità e consuetudini. Sarebbe stato un errore sradicare gli uffici e traslocare lontano da qui». Gli sportelli riaprono nell'edificio che fu utilizzato dalla Regione prima del Pirellone bis. Gli ambienti sono stati ristrutturati e riadattati. La reception è stata ridisegnata e «avvicinata» alle richieste degli utenti. Il settore medico-legale sarà riaperto subito, lunedì mattina: «Ci sono visite di invalidità civile e pensionabile già prenotate, il servizio all'utenza sarà garantito senza soluzione di continuità». Per ristabilire orari e funzioni generali servirà qualche giorno in più, una settimana, forse meno, la macchina Inps è un gigante che va trattato con delicatezza, nei database sono classificati passato, certezze, ansie e speranze di migliaia di milanesi.
Il monumento di cemento e vetro alla pensione, in via Melchiorre Gioia, sarà riqualificato dalla proprietà e rimesso sul mercato. Il Fondo d'investimento Carlyle ha organizzato un concorso architettonico (dieci gli studi invitati) e scelto il progetto (presentato dal francese Jean Michel Wilmotte) che dovrà rinnovare anima e aspetto del palazzo. Il Comune ha ricevuto l'esito di gara e risposto con un dossier di osservazioni e richieste di chiarimenti. Nei prossimi mesi si conoscerà il destino del Grande Transatlantico di Gioia, il grattacielo (ormai ex) Inps.
. Il manifesto, 15 novembre 2012
Gli stringono la mano, gli accarezzano la spalla, se lo coccolano mettendo in campo tutte le manifestazioni della socialità napoletana. Lui tiene su lo striscione della Fiom, tra gli operai di Pomigliano, quelli del no a Marchionne che tutti criticavano fino a quando la magistratura ha detto e ribadito che hanno ragione loro, è la Fiat ad aver torto. Chi è lui? «Uno di noi», grida l'indefettibile Ciro al megafono. Stefano Rodotà è la presenza più gradita al corteo.
Un serpentone che dalla Avio attraversa la zona industriale, fino a invadere il cuore di Pomigliano. Che ci fa qui un pilastro su cui si reggono diritto e legalità? «Sono qui - risponde - proprio perché sono un maniaco dei diritti». Pomigliano «è un luogo simbolo della lotta operaia che dilaga in tutt'Europa, un esempio per tutti», aggiunge il professore che sembra a suo agio ancor più che in un'aula universitaria. Dal rumoroso palco dove fino a mezz'ora prima il Gruppo operaio di Pomigliano d'Arco aveva riscaldato una piazza Primavera operaia, studentesca e popolare, Rodotà spiega che per stare davvero dalla parte dei diritti «non basta scrivere libri o articoli di giornale, bisogna stare insieme a chi si batte per difenderli», per sé e per tutte le persone. Perché «se una sola persona viene discriminata, è a rischio la libertà di tutti».
La Repubblica, 15 novembre 2012
Tenere insieme divisione e unità è un compito politico difficile, ma imprescindibile. A questo servono le regole democratiche, scritte e costituzionalizzate in previsione del disaccordo, non dell’armonia. La ricerca di costituire leadership democratiche passa attraverso la pratica del disaccordo e aspira a raggiungere un esito che benché unitario non è mai affossamento delle divisioni. Lo abbiamo appreso seguendo le recenti elezioni americane che, con sorpresa di molti osservatori stranieri, hanno rivelato al mondo un paese diviso eppure unito. Un mistero che di misterioso ha in effetti molto poco, se non il fatto che la divisione politica e ideologica è condizione per consentire la formazione di un’unità del potere di decisione. Chi meglio riesce in questo, conquista la leadership. Il sistema presidenziale e federale si adattano meglio a questa politica della concordia discordante rispetto a quello parlamentare, che è più pluralista e propenso a promuovere coalizioni invece che convergenze verticali intorno a un leader.
La leadership democratica nelle democrazie parlamentari segue altre logiche che non sono, o sono raramente, personalistiche (il Parlamento, scriveva Max Weber, soffoca il leader). Il nostro paese vive dunque una strana vicenda. Da un lato, è a tutti gli effetti una democrazia parlamentare. Dall’altro, uno dei suoi partiti più importanti ha deciso di adottare il sistema delle primarie per scegliere il candidato che dovrà rappresentarlo alle elezioni politiche, senza alcuna certezza che questa leadership diventi poi leadeship di governo poiché la maggioranza parlamentare va costruita con alleanze e il nome di chi guiderà il governo è parte della trattativa per la costruzione dell’alleanza. Quindi, perché le primarie?
La specificità della nostra situazione comporta far fare alla leadership un lavoro più difficile di quello delle primarie americane perché non sostenuto da una struttura istituzionale e, quindi, solo basato sulla volontà dei concorrenti (per esempio, la promessa di accettare il verdetto delle primarie e non correre in caso di sconfitta è, e resterà fatalmente, solo una promessa). Inoltre, l’Italia non ha nella sua storia modelli a cui riferirsi che combinino insieme leadership personale e democrazia. Il potere del leader personale fa parte della storia fascista. L’età parlamentare ha cercato di ovviare il problema della leadership personale creando leader collettivi, ovvero i partiti politici.
Parole e indicazioni giuste. Ma nessuno ricorda che il territorio è un sistema in cui tutte le parti (suolo acqua boschi e coltivi, case e scuole, fabbriche e strade, ferrovie e ospedali) interagiscono, e solo adottando un metodo sistemico (la pianificazione) si può governarlo con equità ed efficacia. La Repubblica, 15 novembre 2012
Poi, con l’avvento dell’era industriale, l’inizio dell’irreparabile: prima l’abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l’agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate “arretrate” hanno visto arrivare il deserto umano, l’incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi. Non smetto di ricordare ciò che ha detto una volta Tonino Guerra: «L’Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c’era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l’abitavano: i contadini». Con l’abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un’altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare “naturali”. Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com’è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent’anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni. Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.
Continuando con la storia, invece, l’abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un’agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c’è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.
Cosa dovrebbe esserci, al centro di uno schieramento che dice di battersi per una sinistra progressista? Per forza una tradizione, una storia, un tempio, meglio ancora un Pantheon che contiene le tombe dei propri uomini illustri. L’ago magnetico non può che partire da lì, altrimenti si muove impazzito in ogni sorta di direzione, senza mai segnalare con chiarezza il Nord. Quando il centro è ovunque e da nessuna parte, sostituito dalle persone che parlano agli elettori (la persona Bersani, o Vendola, o Renzi, o Tabacci, o Puppato) vuol dire che dietro la loro divina genialità — la loro maschera — non esistono genealogie né memoria storica di sé.
Il momento rivelatore di questa perdita del centro è stato quello in cui i cinque candidati hanno elencato i loro monumenti ideali, gli uomini illustri del loro Pantheon, individuale o collettivo. Alcuni erano grandiosi: Papa Giovanni ad esempio, indicato da Luigi Bersani come un uomo che seppe operare «cambiamenti profondi, ma sempre rassicurando», mai seminando spavento. O il cardinale Martini, nominato come stella polare da Nichi Vendola. Due uomini di chiesa, cui si sono aggiunte personalità care a Renzi come Nelson Mandela e Lina, la famosa blogger tunisina.
Del tutto eclissati, nella più sorprendente delle maniere, sono d’un colpo gli uomini che della sinistra sono i veri padri fondatori, i veri aghi della bussola: compresi i padri che si sono aggiunti man mano che il progressismo italiano, senza dirlo ma nei fatti, ha cominciato una sua nuova strada, non più rivoluzionaria ma socialdemocratica. Due ecclesiastici, un eroe della lotta anti-apartheid, un blogger: è bello, ma somiglia molto a una decerebrazione. I centri nervosi del cervello vengono separati dai centri posti inferiormente, scrivono i bollettini medici: il lobotomizzato perde la capacità di movimenti volontari anche se riesce a mantenere la posizione eretta. È come se ci si vergognasse di dichiararsi eredi. Di avere alle spalle un testamento, dunque un’alleanza. Magari i candidati dicono perfino qualcosa di sinistra, ma questo qualcosa è piatto, non ha radici, fluttua come foglia sulle acque, si fa volutamente piccolo e insignificante. Come Bersani quando ha ammesso, qualche settimana fa: «Abbiamo qualche difettuccio, ma di meglio in giro non c’è».
Tutto questo è strano e inedito, se lo paragoniamo alla coscienza di sé che le sinistre hanno generalmente in Europa. Anche quando tradiscono. Soprattutto quando tradiscono. In Germania il pensiero della sinistra, e anche dei Verdi, va automaticamente a lanterne come Willy Brandt, o a resistenti come Kurt Schumacher. In Francia ci si divide su Mitterrand, ma tanto più vivo è l’attaccamento a Léon Blum e al suo Fronte popolare, o a Jean Jaurès, o al fondatore della scuola laica che fu Jules Ferry. Non così in Italia, anche se di figure memorabili ne abbiamo anche noi.
Berlinguer ad esempio: perché Bersani, figlio del Pci, salta un dirigente che vide con acume e sgomento, nell’81 parlando con Eugenio Scalfari, la trappola del consociativismo e del compromesso storico da lui stesso congegnata? «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali».
Fu un grido di rivolta contro il proprio partito, un presentimento di possibili vie d’uscita. Un grido tuttora inascoltato, se solo consideriamo l’atteggiamento corrivo che i suoi eredi hanno avuto per quasi vent’anni verso Berlusconi. Il modello, sconfessato o tradito, si fa imbarazzante. Da questo punto di vista Bruno Tabacci è apparso il più libero di complessi: i suoi esempi — De Gasperi innanzitutto, su Marcora i dubbi sono leciti — hanno radici inconfutabili nella storia del cattolicesimo politico italiano.
Imbarazzo e vergogna di sé (anche Vendola ne è affetto) spiegano l’omissione di altri antenati, che assieme alla sinistra hanno lottato contro le degenerazioni economiche e le corruttele italiane: non appartenenti al Pci ma a formazioni come il Partito d’Azione o il socialismo. Sono tanti. Ma quando si perde il centro precipitano nell’oblio le vette di preveggenza e saggezza che furono Piero Calamandrei, Vittorio Foa, Federico Caffè, Sylos Labini. O, fortunatamente citata da Laura Puppato: Tina Anselmi, cancellata perché fece piena luce, troppa probabilmente, sulle trame della P2. Data addirittura per defunta dal giornalista Vittorio Feltri, recentemente davanti a una platea televisiva muta, egualmente decerebrata. In Italia evidentemente si muore anche da vivi. È la nostra specialità cinica e crudele. Leopardi la chiamava la nostra incompatibilità con gli slanci, i dolori, le speranze delle epoche romantiche vissute da altre nazioni europee.
(Vendola l’ha evocato, dunque vorrebbe forse riesumarlo) sapendo che l’idea d’Europa nacque in piena guerra fratricida dando al futuro tre obiettivi fondamentali: la federazione del continente, la democrazia, e lo Stato sociale. Infine mancano riferimenti laici, accanto a quelli religiosi: come Ernesto Rossi, collocato oggi in un Pantheon per pochi aficionados, nonostante l’attualità delle sue battaglie europeiste e laiche. Assenti anche i martiri dell’antimafia, e tanti altri che non enumero solo perché lo spazio non basta.
Perdere il centro non significa naturalmente perdere le elezioni. Ma perdere la bussola sì, e con essa la memoria e la capacità di cercare, se non trovare, il Nord. Significa entrare nel futuro con tali e tanti complessi, tali e tante cautele, che il passo si fa claudicante. Mai spavaldo, come in chi discende da una lunga storia e pur facendo i conti con essa non si sente obbligato a dimenticarla.
A fronte dei disastri dell'urbanizzazione scema, uno dei tanti motivi per cui non costruire ovunque è un nuovo modello socioeconomico, oggi. La Repubblica Milano, 14 novembre 2012 (f.b.)
Il CHILOMETRO zero funziona. Cresce il fatturato, sale l’occupazione e aumenta anche la percezione di un fenomeno in grado di rilanciare il settore agroalimentare. Nonostante la crisi, in Lombardia il 56 per cento delle aziende aderenti al progetto Campagna Amica della Coldiretti dichiara un fatturato in crescita, il 39 per cento è stabile e solo il 5 per cento perde soldi. Un miracolo, in tempi come questi, a cui se ne aggiunge un altro: la crescita dell’occupazione. I lavoratori impiegati in questo settore nel 2010 erano 505, nel 2011 sono saliti a 894 e a ottobre di quest’anno sono arrivati a quota 1.100.
Vendere direttamente al consumatore — bypassando la filiera della distribuzione che comporta prima di tutto un aumento del prezzo per il cliente finale — sembra essere un affare. E chi lavora bene la crisi non la sente. Dal 2008 le aperture di farmer’s market aderenti alla rete sono in crescita costante e i nuovi punti vendita saltano fuori come funghi: dal 2010 al 2011 sono cresciuti del 77 per cento, mentre dal 2011 al 2012 del 32 per cento.
Questi dati sono ancora più significativi se messi a confronto con altri settori. Secondo i dati della Coldiretti, dal 2009 il commercio è in grande sofferenza, con una punta negativa fra il 2011 e il 2012 quando ha fatto registrare un calo complessivo del fatturato intorno al 24 per cento. Per questo l’agroalimentare a chilometro zero con i suoi grafici in salita si candida a essere uno dei settori trainanti dell’economia locale. Ettore Prandini, presidente della Coldiretti Lombardia, lo spiega con un aneddoto: «Qualche giorno fa ho incontrato uno studente della Bocconi vicino alla laurea. Mi ha raccontato che dopo aver discusso la tesi, sarebbe andato in Val Brembana per aprire un agriturismo e un allevamento con un punto vendita di prodotti alimentari. Ecco, una cosa del genere fino a qualche anno fa era impensabile: oggi è un’idea vincente». Se un giovane bocconiano decide di investire tempo e conoscenze economiche in questo modo significa che è un settore di successo. Ma probabilmente c’entra anche la crisi. «Il disastro che ha colpito l’economia mondiale — aggiunge Prandini — ci ha fatto riscoprire i valori del lavoro agricolo. Forse tutto questo potrà esserci di ispirazione per cambiare le nostre abitudini ed essere una guida per le nuove generazioni».
Recensione all’ultimo libro di Andrea Boitani: infrastrutture funzionanti non vuol dire solo opere, ma soprattutto efficienza di gestione. L’Huffington Post, 13 novembre 2012 (f.b.)
Martedì 20 novembre, alle ore 18.30, presso la sede dell'Istituto della Enciclopedia Italiana, in Piazza della Enciclopediia Italiana 4, Giuliano Amato, Luigi Grillo e Corrado Passera presenteranno il libro di Andrea Boitani "I trasporti del nostro scontento", Il Mulino. E' una buona occasione per fare il punto su un settore così cruciale per l'efficienza e la produttività dell'intero sistema economico nazionale.
Il libro di Andrea Boitani, inserito nella collana de Lavoce.info, costituisce una utile guida ragionata per leggere le criticità industriali e le arretratezze endemiche che caratterizzano il modello organizzativo dei servizi di trasporto e delle reti di infrastrutture in Italia. Il ricorso nel titolo alla frase shakespeariana del Riccardo III è spiegato con la percezione di eccessiva onerosità del trasporti, sia per i costi individuali sia per i costi collettivi.
Nei trasporti pubblici i clienti sono stati per decenni abituati a pagare poco per le prestazioni, mentre i soggetti che ne sopportavano l'effettivo costo (le finanze pubbliche ed i contribuenti) non sono mai stati in grado di esercitare quel necessario controllo, funzionale a stimolare l'efficienza da parte degli operatori. Nei trasporti privati lo scontento è derivato soprattutto dai costi di congestione, che tutti noi sopportiamo.
il conservatorismo fiscale che caratterizza il sistema nazionale nei trasporti è consistito nel saldare l'elevata incidenza delle accise sui carburanti con i sussidi alle imprese pubbliche, mentre invece non si sono intraprese strade più innovative che altri Paesi hanno seguito, per modulare le preferenze dei consumatori attraverso strumenti di regolazione del traffico che rendano costoso l'utilizzo delle infrastrutture congestionate, mediante meccanismi di congestion charge.
Politiche urbanistiche e scelte trasportistiche non hanno fatto parte di un sistema coordinato di interventi, per cui le reti ed i servizi di trasporto urbano hanno inseguito la tumultuosa trasformazione degli insediamenti abitativi e commerciali, determinando un disallineamento tra trasformazioni nella domanda di mobilità ed assetto della pianificazione delle soluzioni trasportistiche.
Mentre proseguiva, ed ancora prosegue, la litania sui divari infrastrutturali dell'Italia rispetto agli altri Paesi, non ci è interrogati a sufficienza sulle reali priorità per superare i colli di bottiglia e sui meccanismi inceppati nella macchina attuativa, che hanno condotto a tempi di realizzazione ed a costi delle opere infrastrutturali sideralmente distanti dalle migliori pratiche europee.
Per realizzare una linea metropolitana a Madrid si è andati al ritmo di 1 km al mese, mentre a Roma ci si impiega poco meno di un anno. Il ricorso a metodi e tecniche di valutazione nella selezione degli investimenti costituisce prassi ordinaria a livello internazionale, mentre tale cultura in Italia stenta ancora ad affermarsi nella pratica. Analisi di sensitività ed analisi del rischio sono fattori assolutamente cruciali, ancor più importanti in una fase come quella attuale, caratterizzata da una minore disponibilità di risorse pubbliche per effetto della crisi fiscale degli Stati.
Peraltro, il mutamento nella struttura industriale richiede, per il trasporto merci, investimenti di qualità radicalmente diversa rispetto ai decenni passati: serve più tecnologia, e meno cemento. Conta più l'efficienza del sistema logistico complessivo, rispetto alll'ennesimo elenco di grandi opere da realizzare, che serve solo a fornire una consolatoria visione di un futuro migliore, tale poi forse solo per gli interessi dei costruttori, piuttosto che non per i cittadini e per le imprese che richiedono servizi di trasporto più efficienti e performanti.
Mentre la discussione pubblica si concentra sulle infrastrutture da realizzare, poco si è fatto sul fronte della efficienza nei servizi. A cosa serve effettuare i dragaggi dei fondali per i porti italiani, sino a quando un container resta fermo nel porto di Genova mediamente 9 giorni rispetto ai 3 di Rotterdam ? Fare efficienza sul versante dei servizi implica anche un uso responsabile delle politiche pubbliche, assumendo decisioni che a prima vista possono sembrare impopolari, come la congestion charge estesa con l'Area C a Milano e l'estensione della zona a traffico limitato, recentemente decisa da Firenze.
Politiche pubbliche rigorose e maggiore controllo di efficienza nella erogazione dei servizi pubblici sono due facce della stessa medaglia, entrambe indispensabili per introdurre elementi di discontinuità e di modernizzazione nel sistema nazionale dei trasporti, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, che pagano oggi un prezzo maggiore alla congestione.
La concorrenza nella erogazione dei servizi pubblici è lo strumento che serve ad introdurre stimoli verso l'efficienza, che altrimenti sono difficilmente praticabili in un settore ad alta intensità di conflittualità come quello dei trasporti. Il costo di produzione dei servizi pubblici italiani di trasporto è più elevato della media europea: in uno scenario di risorse pubbliche decrescenti per i corrispettivi degli obblighi di servizio, non può esistere solo la possibilità di ridurre il volume dei servizi ai cittadini, deve essere praticata anche la strada di aumentare l'efficienza nella produzione.
La produttività di settore è in Italia inferiore del 20% alla media europea. Recuperare almeno in parte questo gap è assolutamente indispensabile. Per farlo, le regole di concorrenza per il mercato sono uno strumento efficace. Negli ultimi decenni l'esperienza italiana è davvero poco edificante: in generale sono stati preservati gli affidamenti diretti alle aziende pubbliche, e quelle poche gare che sono state realizzate hanno introdotto barriere di accesso che ne hanno fortemente limitato l'efficacia.
Anche la mancata applicazione del meccanismo di price cap per la determinazione delle tariffe, previsto dalla legge 422 del 1997, e mai in pratica attuato, ha allontanato il percorso di modernizzazione, in quanto ha lasciato alla discrezionalità politica la decisione sui prezzi del trasporto, offrendo elevati grado di aleatorietà agli operatori economici e determinando poi salti temporali nelle tariffe che sono anche difficili da capire per i consumatori.
Insomma, qualità nel processo decisionale delle istituzioni pubbliche, utilizzo degli strumenti di valutazione economica ed introduzione di enzimi di concorrenza sono le basi per poter costruire nel tempo un sistema dei trasporti più sostenibile e maggiormente in grado di offrire ai cittadini soluzioni alla congestione ed alle difficoltà di mobilità che ciascuno di noi incontra ogni giorno.
Comunicazione al convegno :“Il tramonto dell’Occidente”, Cagliari 9/10/11 novembre 2012
Il paesaggio: dove tutto si tiene
Per capire la nozione di paesaggio prendo a prestito la famosa metafora di John Ruskin (“Il paesaggio è il volto amato della patria”), aggiornandola così: il paesaggio è il volto di una comunità ecologica, l’immagine di un sistema vivente in cui tutte le componenti antropiche e naturali, presenti e passate, sono poste in relazione (compreso l’osservatore, che ne fa parte integrante). Come scrive Tiziana Banini: il paesaggio è “l’espressione visibile dell’interazione unica e irrepetibile tra uomo e ambiente” (Banini).
In un paesaggio c’è quindi qualcosa che va oltre la somma delle sue singole, complesse, infinite componenti fisiche e storiche; c’è “un di più” inconoscibile con i soli strumenti di indagine analitico-descrittivi di tipo “scientifico”.
Il paesaggio non è un “ammasso di frammenti” (Consonni), non è fatto solo di “tutte le cose che vi si radunano”, ma anche “di tutte le idee con le quali vengono lette”, ordinate, vissute (Luciani). Per comprendere il senso di un paesaggio non bastano tutti gli specialisti di tutte le discipline, serve una “attitudine dialogica”. Uno sguardo d’insieme. Serve “una razionalità sensibile e una ragione cordiale”, per dirla con Leonardo Boff.
La realtà che vediamo attraverso uno sguardo paesistico va oltre la sua evidenza fisica. E’ una immagine di una località che provoca emozioni, crea legami sentimentali, evoca ricordi di esperienze. Un paesaggio può essere bello o squallido, amichevole od ostile: gradevole, rasserenante, facilitare la socievolezza, oppure al contrario può apparire inospitale, provocare disagio psicologico, insicurezza, disgusto, “turbamento, dolore, rabbia”, per usare le parole di Pasolini di fronte alle offese al comune “senso estetico” inferte dalla cementificazione attorno alle città antiche.
Il laboratorio della scuola dei territorialisti di Alberto Magnaghi sta facendo esperienze davvero straordinarie (Associazione Eco Filosofica, 2009) con la costruzione partecipata delle “mappe di comunità e paesaggio”, attraverso le quali avviene una autorappresentazione dei luoghi da parte degli abitanti.
Le persone che popolano (abitano o visitano) quel luogo sono collocate all’interno di quello stesso spazio, ne fanno parte. Sono allo stesso tempo soggetti osservatori e oggetti condizionati dal contesto.
Il paesaggio non è quindi, una “cartolina”, un “Belvedere”, un “cono visivo” (con un determinato angolo prospettico, come recitano i Piani paesaggistici regionali), ma un “paesaggio-ambiente-territorio” (Settis), un “paesaggio-luogo” (Bonesio, 2007) in cui le dimensioni fisiche, ambientali, storiche, culturali, estetiche formano un unicum inseparabile.
L’azione mentale che ci permette di vedere e riconoscere le cose che ci stanno intorno e che ci fa percepire un paesaggio come amichevole od ostile, confortevole o stressante, piacevole o alienante… è un procedimento cognitivo principalmente di tipo estetico. La realtà (per quanto complessa, articolata, sfaccettata…) ci appare a noi sempre all’inizio come un “unicum”.
Per riuscire a comprenderlo, è necessario possedere una capacità di lettura e una apertura mentale tale da riuscire ad elaborare una visione d’insieme, nella sua “totalità estetica” (Farinelli) e farci così esclamare: “che bello! Mi piace”. Oppure: “che orrore! Dio me ne scampi”.
Jane Adams (femminista, premio Nobel per la Pace, fondatrice della Hull House di Chicago) ebbe a dire che ci sono casi di “contagio emotivo unito alla socievolezza” che nascono dal nostro innato “senso estetico” e che, per esempio, “ci spingono a chiamare alla finestra tutti coloro che si trovano in casa quando compare una processione per la strada o un arcobaleno nel cielo”. “Le esperienze fondamentali della vita umana” in grado di suscitare sensazioni di appartenenza sono “il rapporto con la terra e la natura, il sentimento religioso, l’amore”.
Nel paesaggio c’è forse anche qualcosa che va oltre lo stesso senso estetico. Ciò che è stato chiamato il “genius loci”, l’identità profonda dei luoghi, il loro carattere speciale e singolare, il loro “temperamento” e “personalità” che riescono ad essere percepiti dalle popolazioni insediate, dalle comunità che li abitano e, persino, dai visitatori occasionali.
Vi sono “connessioni sottili che attraversano natura e paesaggi che si estendono dal sensibile al sovrasensibile” (Scroccaro, 2007). Il “genius loci” appartenente ad una dimensione simbolica, metafisica e spirituale. (Per quanto abbia sempre inevitabilmente bisogno di essere ben supportato da determinate strutture fisiche). Il paesaggio è attraversato dal “soffio della vita”.
Se vogliamo essere più prosaici, se temiamo di essere fraintesi con l’esoterico e lo spiritualismo, possiamo allora prendere le parole della splendida sentenza della Corte Costituzionale (n.378 del 2007): “L’ambiente è un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende la tutela e la salvaguardia della qualità e degli equilibri delle sue singole componenti”.
Questi valori devono però essere percepiti e riconosciuti. “Il luogo non esiste per sé, ma solo se viene riconosciuto dalla comunità che lo popola” (Daniela Poli cit. da Luisa Bonesio in La sobrietà come stile di vita e valore identitario).
Se questo processo di riconoscimento e di identificazione (soggettivazione) con i luoghi non avviene, non si crea nemmeno quel rispetto per i territori di appartenenza, unica vera condizione di base per una loro salvaguardia, preservazione e presa in cura. Almeno che non si creda che l’opera di salvataggio del paesaggio, della natura, dei beni culturali sia una partita riservata a pochi eroici sovraintendenti statali, da una parte, contro i perfidi immobiliaristi cementificatori e speculatori, dall’altra. Il riconoscimento giuridico, costituzionale del paesaggio è destinato a rimanere lettera morta se i suoi valori non entrano nella cultura delle popolazioni insediate. I vandali sono in casa nostra, scriveva Antonio Cederna (“Vandali in casa”). I vandali siamo noi.
Scrive Scroccaro: “L’esperienza del ‘rispetto’ è un ingrediente indispensabile di una pratica rivolta alla cura del paesaggio; correlativamente, la carenza di sensibilità paesaggistica si inscrive nella più generale incapacità di praticare il rispetto nei confronti del mondo naturale e culturale. A questo proposito, prendiamo a prestito da Hillman (James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, 2002 p.55-56) l’espressione ‘ottundimento psichico’ per indicare l’anestesia disorientante che predomina attualmente” (Scroccaro, p.139). La dissoluzione dei luoghi procede di apri apsso con la “spoliazione del corpo” (Toesca), con la “morte del prossimo” (Luigi Zoia), con la perdita della soggettività individuale e delle relazioni affettive ed etiche con gli altri.
La perdita della capacità di riconoscere l’identità dei luoghi (l’indifferenza) non è diversa dall’incapacità di riconoscere se stessi come individui sociali. La distruzione dei luoghi non è un incidente, un eccesso di voracità di qualcuno, ma un obiettivo intrinseco del sistema economico dominate: recidere le relazioni tra l’individuo, l’ambiente, gli altri da se. Costringendo l’individuo nella sola dimensione produttiva/consumistica. Spaesamento, sradicamento sono effetti coerenti di una logica di dominio volta ad annichilire l’individuo. Così il territorio, spogliato dal paesaggio, sterilizzati i “genī loci”, diventa strumento neutro del potere economico, liberamente cartografabile, per esercitare il “terrere” sui sudditi, tracciare confini ed erigere enclousers dentro cui segregare i propri sudditi.
Scrive Magnaghi che la “coscienza di luogo” è la “capacità di riacquisizione dello sguardo sul luogo come valore, ricchezza, relazione potenziale tra individuo, società locale e produzione di ricchezza. Un percorso da individuale a collettivo in cui l’elemento caratterizzante è la ricostruzione di elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali”.
La mia tesi, quindi, è che i veri progressisti, la sinistra sociale autentica, non debbano temere di rivendicare per tutti (ricchi e poveri, acculturati o selvaggi…) il diritto di coltivare ed esercitare il senso artistico, di partecipare al godimento estetico (contemplativo), di curare il proprio benessere culturale e spirituale e di pretendere la bellezza: cioè un ordine delle cose armonioso, equilibrato, confortevole, realizzante, socializzante.
Spesso si teme di chiedere troppo. Si dice che la pancia viene prima della mente e la mente prima del cuore. Ed è un errore e una trappola fatale. (Edgar Morin non smette di ricordarcelo: siamo animali al 100% razionali e al 100% sentimentali). E’ proprio questo errore che il paradigma del paesaggio ci insegna a non commettere. Ogni scissione e gerarchizzazione dei bisogni, rompe l’interezza della natura umana e fa degli individui dei pezzi subalterni di un ingranaggio fuori dal loro controllo.
Produttori in fabbrica, consumatori al supermercato, abitanti-residenti a casa, turisti amanti del paesaggio in vacanza, cittadini alle elezioni… La vita si segmenta e perdiamo il suo senso.
“Reclamiamo il progresso della bellezza delle città e dei paesaggi, il progresso della purezza delle falde freatiche che forniscono l’acqua potabile, della trasparenza dei corsi d’acqua e della salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell’aria che respiriamo, del sapore degli alimenti (…) La diminuzione della pressione eccessiva del modo di funzionamento occidentale sulla biosfera è una esigenza di buon senso e nello stesso tempo una condizione di giustizia sociale” (Latouche).
Acqua, vento, sole, prima di essere turbine, pale eoliche, pannelli solari, sono fragranza, profumi, luce.
Il paesaggio oggi
Ogni paese ha il paesaggio che si merita (Settis).
Non ci sono discordanze sul giudizio da dare sui processi di “megalopolizzazione” in corso, che sono stati variamente definiti:, “enlarged city”, “campagna urbanizzata” (Giacomo Becattini), “urban sprawl” (Salzano), città diffusa, infinita, espansa, dilatata, sparpagliata…“Metroregione policentrica in rete” (Ernst Bloch, in: M.Davis), “Sistema urbano polinucleare” (Aldo Bonomi)…
I guasti prodotti da questo “non-modello” di urbanizzazione (“losangelizzazione”) sono stati straordinariamente descritti da Eugenio Turri, lungo la autostrada “A4”: “Una sterminata periferia senza forma e senza sentimento” (p.24), “un’ampia poltiglia”. “Dallo spazio – dalla quota dei satelliti - ciò che risulta oggi (…) è anzitutto (…) una macchia che sembra simile ad un fenomeno cancrenoso, ad una escrescenza, una muffa, ciò che fa pensare alla antropizzazione come a qualche cosa di innaturale, ad una degradazione della biosfera” (Turri, p.46).
“La colata” di cemento sommerge ogni spazio libero. “Il saccheggio” procede. Il paesaggio sparisce: “Il capannone è il tipico edificio che più si ripete, il leit motiv. Solo piccolissimi varchi tra un edificio e l’altro permettono di gettare uno sguardo oltre la muraglia di capannoni” (Vallerani e Varotto).
E’ possibile invertire la rotta?
Ci dobbiamo chiedere perché tutto ciò è potuto accadere? Di cosa dobbiamo veramente indignarci?
La mia tesi è che non sia solo per colpa degli “eccessi speculativi”, del peso della rendita fondiaria (sempre denunciato da Salzano). Della sola attività immobiliare e della cricca dei costruttori (vedi le varie inchieste sui “sacchi” e sulle “colate”). Della sola corruzione politica. Dell’insipienza e incultura tecnica (Vezio De Lucia). Della sfortunata storia politica del nostro Paese: dalla Dc a Craxi a Berlusconi. Della Costituzione tradita (Settis). C’è anche dell’altro. Ancora più profondo, strutturale, grave e più difficile da contrastare ed eliminare.
La distruzione del paesaggio è la inevitabile conseguenza della preminenza dell’interesse economico su ogni altro valore, del dogma della crescita economica che ha soppiantato ogni altra visione del mondo. Dobbiamo sapere che è la stessa logica che travolge ogni campo del vivere umano: nel lavoro, deumanizzato, alienato; nella ricerca scientifica, finalizzata alla produzione di brevetti; nel “territorio”, ridotto a supporto inerte (“factum brutum”) (Settis) per ogni iniziativa capace di produrre valori monetari. I sindaci più bravi sono quelli che riescono ad attrarre maggiori “investimenti esteri”, le amministrazioni premiate sono quelle che offrono più opportunità insediative. Da qui una gestione del suolo che ha assecondato qualunque iniziativa economica e un sistema normativo che ha lasciato la massima libertà di scelte localizzative.
C’è un filo rosso che lega ciò che avviene nei luoghi di lavoro (lavorare sempre di più in di meno), nei luoghi di studio e di ricerca (finalizzare gli insegnamenti e i piani di ricerca alla loro immediata utilizzabilità nei cicli produttivi), nei luoghi di vita (spezzare ogni rapporto dei nuclei familiari tra loro e con la campagna, la natura). E’ al logica della massimizzazione dei rendimenti economici. E’ il mito della efficienza fine a sé stessa. Della crescita per la crescita.
L’azione della difesa del paesaggio si inserisce, quindi, perfettamente nel quadro più generale (socio-economico e finanche antropologico e culturale) delineato dal progetto della decrescita: decrescere la dipendenza della società dalla logica del mercato capitalistico.
La difesa del paesaggio può costituire una molla concreta per attivare dei passi lungo la via della decrescita. Pensare alla tutela del paesaggio come un principale obiettivo/motore attivatore della decrescita.
Ma per fare diventare il paesaggio un punto di forza delle ragioni della decrescita è necessario sviluppare alcuni passaggi logici.
Innanzitutto mettersi d’accordo (non solo tra noi – troppo facile! – ma nel “comune buon senso”) su cos’è il paesaggio. Poi includere “questo” paesaggio (“i beni paesaggistici” del Codice dei beni culturali e non solo) tra i beni comuni da rivendicare e da sottrarre alle leggi del mercato. (Persino la Biennale di Venezia si è sentita in dovere di titolare l’edizione di Architettura di quest’anno: “Commonground”). Infine decidere di “prenderlo in cura” (governarlo e gestirlo) in forme e modalità efficienti e condivise. Serve cambiare mentalità, atteggiamenti, regole, codici di funzionamento sociale.
Le esperienze pilote, le pratiche virtuose, i casi di gestione condivisa del bene comune territorio, villaggio, condominio, “città di città”… sono molti (Cacciari). Credo che per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, della bellezza dei paesaggi, della equità sociale e del “buon vivere”, si possa partire da qui. Il ventaglio delle azioni possibili è davvero ampio: si va dall’appello del progettista edile Tommaso Gamaleri che ha lanciato la campagna per l’obiezione di coscienza contro gli incarichi professionali di progetti di edifici su terreni non edificati, alle amministrazioni comunali che modificano i piani regolatori a “Zero consumo di suolo”. Dalla campagna “Salviamo il paesaggio”, alle “Transition town” (autosufficienza energetica). Dalla rete delle “Slow city” (Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, ne era il promotore in Italia), ai “Contratti di fiume”. Dal movimento per gli orti urbani collettivi, agli ecomusei, al turismo sostenibile e alla ospitalità diffusa. Dai Parchi agricoli multifunzionali legati alle Reti dell’altra economia e ai Gruppi di acquisto solidali, al movimento per la difesa degli usi civici. Dal cohousing, agli ecovillaggi, ai condomini solidali. Dai piani di bacino idrogeologici, alle bioregioni. Dagli innumerevoli movimenti di cittadinanza attiva, di cui i NoTav della Val di Susa sono un emblema, al laboratorio urbano della Scuola dei territorialisti che ci insegna come è possibile attivare processi di riappropriazione dei luoghi rigenerando relazioni e identità territoriali.
La città (urbs e civica, assieme) decrescente è tutto questo. Un grande movimento dal basso per sottrarre paesaggio-ambiente-territorio-luoghi alla logica economica del mercato.
Venezia, 12 novembre 2012.
Note bibliografiche
La Repubblica Milano, 12 novembre 2012, postilla (f.b.)
ALCUNE, solo a livello preliminare, sono già in fase di realizzazione, le altre partiranno a breve dopo le gare d’appalto. Tutte volutamente fuori dal centro sorvegliato di Area C: sei strade e dintorni dal ritmo slow, per favorire pedoni e ciclisti, dove sarà obbligatorio circolare a 30 chilometri all’ora. La giunta finanzia la prima fase delle “isole ambientali” dell’era Pisapia, oasi antitraffico già progettate nei mesi scorsi e da attivare l’anno prossimo, appena terminati i lavori.
Per incrementare la sicurezza stradale e sostenere il primo lotto di “Zone 30” c’è un investimento di tre milioni. Perché non basta mettere un cartello 30 in un cerchio bianco rosso. Oltre ai cartelli stradali, l’istituzione delle isole a 30 all’ora prevede anche una serie di infrastrutture: dossi rallentatori, restringimenti della carreggiata, marciapiedi continui con spigolo vivo per evitare la sosta selvaggia delle auto. I lavori sono già cominciati nelle vie Lazzaretto, Casati e San Gregorio.
Nella lista delle isole ambientali compare anche via Melzo, scelta perché così verrà creata un’area slow anche dall’altro lato di corso Buenos Aires. Poi c’è il quartiere Figino. Qui la realizzazione del progetto va di pari passo con altre due opere: un investimento residenziale privato, che allargherà di fatto il quartiere oggi sviluppato soprattutto lungo l’asse di via Figino, e i cantieri per collegare la zona con il teleriscaldamento, con lavori che modificheranno la viabilità. Fuori dal centro, le «Zone 30» raggiungeranno via Parula, nell’area di via Padova. Per la precisione, vicino a piazzale del Governo Provvisorio dove, anticipando i tempi, negli anni Ottanta l’allora assessore al Traffico Augusto Castagna decise di trasformare il piazzale in una specie di “Zona 30”.
La prima fase delle isole include anche via Muratori e, soprattutto, via Tortona e via Solari, dove un anno fa è morto Giacomo Scalmani, 12 anni, investito da un tram mentre tornava a casa in bicicletta. Qui verrà realizzato un progetto nato dal confronto tra quartiere, consiglio di zona e associazioni: bassa velocità per le auto, alberi, stazioni del bike sharing. E una corsia preferenziale per la quale Atm sta ultimando i lavori di progettazione definitiva. A queste prime sei isole ambientali se ne aggiungeranno altre (dalla Milano romana delle Cinque vie a piazzale Accursio), già annunciate ma ancora da finanziare. Per quanto riguarda il centro, resta valida l’intenzione di imporre il divieto dei 30 all’ora in tutta la cerchia dei Bastioni, ma si procederà per gradi e si valuterà caso per caso.
Postilla
Forse sarà saltato all’occhio dei lettori più attenti, come la logica della zona a traffico controllato, o limitato, o rallentato, si stia con progetti del genere evolvendo verso una vera e propria idea alternativa di quartieri, inseriti entro un contesto metropolitano dove l’auto privata e il “progetto di suolo” che sottende sono in prospettiva destinati a sparire, ma in forme diversissime da quelle classiche della pedonalizzazione anni ’70. Per evitare che questa declinazione un po’ particolare degli shared spaces non finisca, poi, appunto per ricostruire una serie di circoscritte aree di privilegio entro, e al di fuori proiettare ulteriori disagi, occorre una stretta correlazione fra politiche urbanistiche, della mobilità, e delle funzioni, se possibile da subito di scala vasta e tendenzialmente sovra comunale. In attesa dell’agognata città metropolitana, come da un paio di generazioni (f.b.)
Corriere della Sera Lombardia, 12 novembre 2012 (f.b.)
MALPENSA (Varese) — Una città fantasma fatta di ville, condomini, interi quartieri dove adesso regna il silenzio spettrale. Circa 2 mila persone negli ultimi anni hanno abbandonato 600 abitazioni intorno all'aeroporto di Malpensa. Molti hanno preso i soldi dell'operazione «delocalizzazione» e sono andati altrove per non sentire più il rumore degli aerei. Però le case abbandonate sono ancora lì. Dovevano diventare uffici, magazzini, centri logistici per dare occupazione e sviluppo a tutto il territorio, ma i fondi erogati dalla legge che ha permesso l'esodo di massa sono finiti quest'anno, mentre le risorse dei privati stentano ad arrivare: «Siamo arrivati al punto che non abbiamo nemmeno più il denaro per murare le finestre e impedire l'ingresso dei malintenzionati — osserva il sindaco di Lonate Pozzolo Piergiulio Gelosa — è uno scenario drammatico, anche sul fronte sicurezza».
Lo stallo dell'economia ha peggiorato la situazione: «Il mercato è fermo, le imprese di costruzioni non ce le compreranno mai — continua Gelosa — buttare giù una grande palazzina costa 2 milioni di euro, le uniche due che abbiamo abbattuto finora ci sono costate 700 mila euro l'una, chi volete che si accolli queste spese?». Un sopralluogo a ottobre del Consiglio provinciale ha certificato la situazione: di concreto nel futuro della aree intorno a Malpensa non c'è quasi nulla; tra le poche cose realizzate una scuola per tecnici aeroportuali a Case Nuove, la frazione di Somma Lombardo inghiottita dalle piste.
E' in questo quadro che è nata nelle ultime settimane una possibile via d'uscita, che dovrebbe passare da un accordo firmato in Regione.
«L'unica soluzione secondo noi — afferma il sindaco — è che la Sea si renda parte diligente nella demolizione». Il coinvolgimento della società aeroportuale sta mettendo i sindaci gli uni contro gli altri e il motivo è comprensibile. La Sea è disponibile a investire ma a una condizione: e cioè se il ministero dell'Ambiente approverà il cosiddetto Masterplan, ovvero un allargamento dell'aeroporto stesso che prevede, tra l'altro, magazzini logistici e anche la terza pista di Malpensa. Gli ambientalisti lo vedono come il fumo negli occhi. I sindaci dei tre Comuni che si ritrovano le case abbandonate sul groppone, ovvero Somma Lombardo, Lonate Pozzolo, e Ferno chiedono quantomeno di poterne parlare senza essere accusati di voler autorizzare la terza pista. Oggi si terrà un'assemblea congiunta con i sindaci e i consiglieri dei tre Comuni che si annuncia molto calda.
La distorsione del nostro modello di sviluppo e il consumo di suolo discussi dall’INU a Urbanpromo. L’Unità, 11 novembre 2012, postilla (f.b.)
Un paesaggio apocalittico come quello raccontato da Alessandro Coppola nel suo viaggio attraverso le città deindustrializzate degli Stati Uniti in Apocalypse Town (Laterza), con la natura che si vendica, spacca il cemento e penetra nelle cattedrali ormai deserte della società del benessere: altoforni spenti e capannoni abbandonati, centri commerciali in surplus e svincoli autostradali che si sono divorati vigne, olivi e giardini di agrumi. Milioni di case nuove e invendute, mentre le banche entrano in possesso degli appartamenti di chi non riesce a pagare il mutuo, mentre affittuari morosi vengono sfrattati.
Un paesaggio italiano: basta fare una passeggiata a Bagnoli o a Sesto San Giovanni, nella provincia di Rimini dove il 40% del territorio è cementificato, o in Calabria dove fabbriche mai entrate in funzione sono diventate ostello di braccianti immigrati, in Molise, in Basilicata. La crisi esplosa a causa di una bolla immobiliare planetaria rende esplicito il paradosso di un modello di sviluppo fondato sulla espansione edilizia, ogni italiano – dice il dossier preparato dal Wwf per la campagna «RiutilizziAmo l’Italia» – ha triplicato in 50 anni il suo gruzzolo di cemento, abbiamo 290 metri quadri a testa. Ma la crisi dice anche che nulla sarà come prima e il problema del consumo di suolo è finalmente entrato nella agenda politica: bisogna trovare gli strumenti più adatti a riqualificare, rigenerare l’esistente, fermando lo sperpero di un bene comune – la terra – che non è rinnovabile, che per rigenerarsi ci mette dai 50 ai 1000 anni, dice Cinzia Morsani (Wwf Emilia Romagna).
Anche se l’umanità dimentica presto e il ciclo edilizio è considerato un volano della ripresa economica, difficilmente – quando la crisi sarà superata – tutto tornerà come prima: i valori immobiliari in caduta libera potrebbero tornare a crescere ma lo choc da subprime difficilmente consentirà di riaprire le borse del credito. Il consumo del suolo lo possiamo misurare come fa Stefano Agostoni (conferenza Stato-Regioni) con il Co2: è come se il parco macchine della Lombardia fosse aumentato del 12 % in 10 anni, «esistono norme sulla qualità dell'aria mentre non ne esistono per il suolo». Oppure c’è la cartina d'Italia mostrata da Alessandra Ferrara ricercatrice dell'Istat: sulla costa dal Veneto all'Abruzzo non c’è soluzione di continuità, è praticamente tutto costruito. Abbiamo cementificato 3 milioni di ettari di territorio fra il 1996 e il 2005, ogni anno l’incremento è di 8,5 ettari pari a 1600 chilometri quadrati.
Poi c'è il paradosso messo in luce da Damiano De Simine, Legambiente Lombardia: «In Molise la popolazione decresce ma il consumo di suolo cresce al sostenuto ritmo del 20 per cento annuo». Racconta Stefano Leoni (presidente Wwf Italia): «Se mettiamo insieme i capannoni sparsi per l'Italia, fanno 2000 chilometri quadrati, molti ormai abbandonati. La gente, giustamente, si indigna per le città sporche. Bisogna imparare ad indignarsi anche per questa sporcizia sparsa nella natura». La cementificazione estensiva del Belpaese è stata uno dei temi su cui si è misurata l'edizione di quest'anno di Urbanpromo, organizzata dall'Inu (Istituto nazionale di urbanistica) a Bologna, in collaborazione con Legambiente, il confronto ha visto la partecipazione di assessori di città, province, Regioni fra cui Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Marche, Liguria.
Il coordinamento del gruppo di lavoro è di Damiano di Simine e di Andrea Arcidiacono (Politecnico di Milano). In Italia non esiste una legge sul suolo, non ci sono gli strumenti per misurarne il consumo, l'Istat lamenta un quadro normativo confuso, anche se – dice Alessandra Ferrara – «ci stiamo attrezzando». Però qualcosa si muove, c'è un Ddl del ministro dell' Agricoltura Catania nato dall'esigenza di salvaguardare i terreni agricoli. Nel confronto con la conferenza Stato Regioni, la salvaguardia si è allargata fino a tutto il suolo libero, ma si dovrebbero coinvolgere altri soggetti, a cominciare dal ministero delle infrastrutture. Il progetto del ministro dell'Agricoltura ha, secondo Federico Oliva, presidente dell'Inu, alcuni aspetti molto positivi, soprattutto cancella la possibilità di far finire nelle casse del bilancio comunale il 75% degli oneri edificatori, «è stato l'incentivo più potente per i comuni poveri in canna a consumare suolo, ora si dovrà trovare il modo di compensarli per la perdita di finanziamenti, visto che sono il soggetto principale di governo del territorio ».
Insieme alle cose buone, aggiunge Oliva, «ci sono le debolezze», la principale è che «stabilito un consumo nazionale massimo, si affida alla pianificazione degli enti locali la ripartizione delle quote». Ma la pianificazione è gestione politica ed è chiaro ai tecnici come agli assessori – fra questi Patrizia Gabellini, assessore all' ambiente del comune di Bologna - che sugli amministratori si esercitano le pressioni di chi vuole costruire o impiantare una attività, mentre il problema è l’ecosistema che lasceremo in eredità alle generazioni future. «La pianificazione non è affidabile - dice Federico Oliva -. In questi anni sono state utilizzate premialità in volumi e compensazioni per supplire a strumenti che non funzionano». «Il fisco e la protezione della natura si sono dimostrati i mezzi più efficaci dove sono state fatte politiche di contenimento del consumo».
La rendita è il motore principale del consumo di suolo e costruire il nuovo costa infinitamente di meno, è la leva fiscale che deve correggere questa tendenza. L’altra cosa che manca, dice ancora Federico Oliva, è «una legge nazionale che detti i principi fondamentali a cui gli enti locali devono ispirarsi». Legambiente Lombardia si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, spiega Damiano Di Simine: «Abbiamo capito che non basta la denuncia di un ecomostro dopo l'altro, ci vuole un salto culturale». Il suolo, la terra su cui camminiamo, è un bene comune come l’acqua e l’aria, la differenza è la proprietà privata. Però, «se il privato è irresponsabile devono esserci dei limiti prescrittivi».
postilla
Senza prendersela né con Jolanda Bufalini che ha scritto il suo resoconto, né con gli urbanisti dell'INU che hanno tenuto le loro ottime e legittime relazioni al convegno, l'articolo può anche essere l'occasione per tornare un istante sul rapporto fra conoscenze scientifiche, consapevolezza sociale e comunicazione. L'occasione forse, in un contesto di maggiore maturità da questo punto di vista (e riguarda tutti, in qualche modo si tratta anche di un'autocritica), avrebbe meritato, che so, un comunicato di sintesi per la stampa. A prevenire se possibile che l'elenco degli interventi, unito a quell'incipit un po' incongruamente preso a prestito dal best-seller di settore del momento, finisse per apparire magari assai leggibile, marginalmente utile alla vanità dei nomi citati, ma complessivamente poco consono agli obiettivi culturali allargati dell'assise: denunciare problemi e indicare soluzioni, anche a livello politico-legislativo.
Ammucchiare così, senza soluzioni di continuità diverse da qualche frase di circostanza, cose come la rustbelt americana in crisi industriale cronica, il consumo di suoli agricoli da urbanizzazione dispersa, le emissioni di gas serra eccetera, che pure in qualche modo convergono in cose come le alluvioni di questi giorni, confonde il lettore medio. E come insegna il recente caso "Galileo" aquilano, c'è qualcosa di importante da ripensare, non solo specialisticamente e settorialmente, nei rapporti fra sapere e società (f.b.)
Corriere della Sera, 11 novembre 2012, postilla (f.b.)
Una battuta infelice o un sintomo preoccupante? Giorni fa, il presidente dell'Unione delle Province italiane, Antonio Saitta, ha duramente protestato contro i tagli di 500 milioni decisi con la spending review e ha minacciato di spegnere il riscaldamento nelle scuole. Il governo non gliele ha mandate a dire. Prima il ministro Patroni Griffi lo ha esortato «a un comportamento più consono all'Istituzione che rappresenta», poi Palazzo Chigi ha messo nero su bianco: «Ventilare l'idea di spegnere i riscaldamenti nelle scuole o proporre vacanze più lunghe agli studenti per ipotetici risparmi appare una proposta fuori dalla realtà».
Saitta è siciliano di Raddusa (Catania), immigrato da bambino in Piemonte. È un democristiano di lungo corso, passato poi al Partito popolare, quindi alla Margherita, infine al Pd. Come Rosy Bindi, ma più moderato. Perché questa sua ostinazione, quasi ricattatoria?
Con l'avvento delle Regioni, le Province non hanno più senso. Simbolicamente, sono morte il 2 marzo 1994, quando dalla numerazione delle targhe italiane è scomparsa la sigla della Provincia e con essa la pittoresca retorica del campanile: «Veneziani gran signori, padovani gran dottori, vicentini magnagatti, veronesi tutti matti», «Meglio un morto in casa, che un pisano sull'uscio», «Torinesi falsi e cortesi». La loro ultima epopea nazionale risale a Campanile sera (il programma con Mike Bongiorno, Enza Sampò ed Enzo Tortora finisce con le celebrazioni di «Italia 61»), il resto è solo letteratura, intesa come compiacimento o consolazione.
Perché dunque spegnere i caloriferi? Le ragioni identitarie delle Province ormai fanno sorridere; quelle amministrative si possono risolvere con un minimo di pazienza e di buon senso. Resta il sospetto che Saitta e gli altri rappresentanti delle Province non vogliano perdere il posto, l'auto blu, i dischi di Little Tony. Sul sito della Provincia di Torino, Saitta ha scolpito queste parole di Siracide (180 a. C.): «Dell'artista si ammira l'opera, del politico la saggezza della proposta. Ma se parla a vanvera è una minaccia per la città; se dice cose inconcludenti si fa odiare». Serve altro o bisogna fare le primarie della coerenza?
postilla
L’ottima capacità di Aldo Grasso (è il suo mestiere, che fa benissimo) di cogliere aspetti anche paradossali della nostra società, mette a nudo in forma esplicita almeno due cose essenziali: l’ente territoriale di governo intermedio, per cui si sono battute generazioni di studiosi, cittadini, esponenti politici, è stato ampiamente sputtanato da buona parte di coloro che in qualche misura hanno contribuito a gestirlo, diciamo almeno dalla riforma dei primi anni ’90. La seconda cosa, è che chi poteva e doveva capire questo declino di immagine e sostanza non l’ha fatto, di solito rifugiandosi dietro la medesima relativa sicurezza, secondo cui certe cose sono intoccabili, non conquiste che durano finché si è in grado di difenderle. Certo è una sciocchezza madornale dire, come fa spavaldamente il critico televisivo Grasso, che la ragion d’essere delle Province è morta con l’istituzione delle Regioni, che tutto si risolve con le sigle sulle targhe anni ’60, e le immagini televisive o cinematografiche di contorno. Così, finita l’epoca della brillantina, o dei mangiadischi, è giusto accantonare anche questo livello amministrativo vintage, buono solo per appassionati collezionisti. La cosa più grave è che Grasso esprime semplicemente un’opinione assai diffusa in tutta la cosiddetta classe dirigente allargata, esclusi naturalmente coloro che sulle Province vivono, nel senso di potere, reddito, ruolo sociale. Se ne sono sentite tantissime negli ultimi mesi, di sparate anche più assurde, scritte in posti egualmente prestigiosi da persone di cui per altri versi ci fidiamo quasi ciecamente. Ma lo sanno questi signori che i decantati Bloomberg a New York, con l’ottima gestione dell’uragano, o Johnson a Londra con le trionfali Olimpiadi, altro non sono che versioni internazionali di ciò che dovrebbe essere da noi un presidente di ente intermedio? No, non lo sanno, e chi dovrebbe o potrebbe spiegarglielo tace, o parla in gergo con un po’ di disprezzo per chi non è specialista di settore. Vediamo che questo settore non diventi il raggio di una galera in cui ci chiude la nostra insipienza, con gli altri intellettuali che allegramente inconsapevolmente buttano la chiave (f.b.)
La Repubblica Milano 11 novembre 2012 (f.b.)
Dalla prevenzione dei grandi rischi, come alluvioni o esondazioni (vedi il Seveso) alla mappatura di tutto il verde cittadino fino al miglioramento dell’aria a Milano attraverso il titanio. Idee private, più o meno innovative, che provano a diventare pubbliche. Proposte di singole università, enti di ricerca o società grandi e piccole a caccia di risorse per una città più intelligente. Sono 15 i progetti (selezionati tra 21 proposte ricevute) che il Comune ha inviato al governo per chiedere finanziamenti nell’ambito del bando “Smart cities and communities and social innovation”. E ora spetterà al ministero dell’Istruzione e della ricerca decidere su quali investire. Innovazione e tecnologia per cambiare la vita della città. L’anno scorso, nell’ambito di un bando europeo, furono cinque i progetti che si aggiudicarono fondi per oltre due milioni.
E-ticket per treni e musei via i furgoni con il web SONO varie le proposte in tema mobilità. INSeT è la proposta di e-ticketing (di Reply): biglietto elettronico per mezzi in città, treni, alta velocità ma anche musei e carte sanitarie. URBeLOG, per esempio, è il progetto (di Telecom) che punta a snellire la logistica delle merci in città ed eliminare il traffico da furgoni. Come? Creando una piattaforma telematica per migliorare le consegne. Se vincerà, potrà essere sperimentato dentro l’Area C.
Esondazioni senza segreti con gli indicatori d’allerta SWARM è l’idea degli studiosi del Cnr per la tutela delle risorse idriche e la gestione di eventi climatici estremi come alluvioni ed esondazioni. Come? Utilizzando indicatori precoci di allerta e strategie di mitigazione legate ai cambiamenti climatici, e anche recuperando energia dal trattamento delle acque reflue. Green and smart Milano (di Green City Italia) è invece la piattaforma open source per mappare non solo il verde cittadino ma anche i dati su traffico e inquinamento e trasformarli in app.
L’aria è meno inquinata se si utilizza il titanio L’ALER propone materiali e sistemi innovativi di efficienza energetica per ristrutturare parte del patrimonio di case popolari in città a zero impatto. Il progetto AriaUrbana del Politecnico punta a migliorare l’aria dal punto di vista chimico e microbiologico, anche attraverso l’uso innovativo del titanio. Mentre GEOssLiFE (di Italtel) si propone per realizzare una mappa dei servizi del sottosuolo e catalogarli poi in un catasto elettronico: un progetto che include anche alcune zone recentemente coinvolte da terremoti in Emilia.
Schedatura culturale globale e-government in tribunale UN MONITORAGGIO di tutto il patrimonio artistico e culturale, anche sotterraneo. È l’idea che sostiene CH-Start (di Present Cultura), dove la tecnologia è al servizio dell’arte. Ma l’innovazione aiuta anche nella prevenzione: è il caso del progetto Sicurezza sul territorio che vuole mappare le emergenze di Milano e Torino. Spunti anche per migliorare la giustizia: Smart city Giustizia pensa a un servizio di e-government per far interagire il sistema giudiziario con il pubblico.
Flotte di droni elettrici occuperanno il centro SONO cinque i progetti che sono partiti a settembre in città con oltre due milioni di fondi da Bruxelles e alcuni guardano all’Expo come meta. Si va da Eu-Gugle sul risparmio energetico in 477 case Aler, nel quartiere Zama-Salomone, a Fr-Evue legato a flotte di veicoli elettrici destinate a distribuire i farmaci dentro Area C. E poi CityMobil2, uno studio sul trasporto automatizzato, Electric city movers sulla mobilità sostenibile e Tide, progetto di diffusione e scambio di buone pratiche sul traffico tra le città europee.
L'Unità, 10 novembre 2012
Il ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi (sin qui, con Sandro Bondi, uno dei più inerti) rimarrà negli annali del Collegio Romano se riuscirà a far tradurre dalle Soprintendenze in atti esecutivi la direttiva emanata contro il bancarellume, abusivo e non, che affligge ormai quasi tutti i centri e gli edifici storici del Belpaese, contro i camion e i camioncini “porchettati” piazzati davanti ai più bei monumenti di Roma (da Castel Sant’Angelo al Colosseo), contro gli squallidi gazebos di plastica con stufe a gas incorporate. Se farà piazza pulita di questo autentico ciarpame da fiera paesana e peggio, il professor Ornaghi meriterà di venire ricordato per qualcosa di buono.
Alcuni Comuni hanno emanato regolamenti severi. Anni fa Bologna ha vietato tavolini, dehors, ombrelloni davanti a palazzi vincolati dalle Soprintendenze e Sergio Cofferati si è preso la nomea di sindaco-sceriffo per aver tentato di “bonificare” la zona di piazza Verdi ridotta a latrina notturna (la birra scorre a fiumi). Milano ha fissato alle 23 lo stop alle bevute. A Roma invece Alemanno ha ritardato alle 23 (facendo marcia indietro in qualche caso) l’entrata in vigore dei varchi elettronici rendendoli praticamente inutili, in omaggio ai tanti voti “bottegari” ricevuti quando scalò il Campidoglio fra una selva di saluti romani.
Già i presidenti di ambulanti, esercenti e commercianti attaccano Monti e Ornaghi alzando la voce e minacciando serrate contro una norma di civiltà: per i centri storici e per il turismo più qualificato (quello che rende davvero checché ne pensino certe teste di legno). L’assalto rumoroso alle città antiche, di giorno e di notte, sta allontanando i pochi residenti. Mancando ogni controllo sociale, è più facile commettere ogni sorta di reato, a cominciare dallo spaccio di droghe, fiorentissimo (e ogni tanto ci scappa il morto), è più facile per la malavita impossessarsi di una vasta rete di locali. Intere strade sono state stravolte in poche settimane quando sono arrivati, in massa, gli orrendi negozi di souvenirs gestiti dai cinesi. Imbruttite violentemente in pochi giorni e per sempre. Via antiquari, boutiques, venditori di stampe, tutte sigle di commercianti veri, qualificati, che nessuno ha difeso, a principiare dalle loro stesse corporazioni. I gelatai poi hanno concorso all’imbruttimento dei rioni antichi con enormi coni di plastica colorata, illuminati al calar del giorno. Una volta certe categorie usavano la Dc ma pure il Psdi per aver voce nei consigli comunali. Nell’ultimo eletto a Roma è entrato per il Pdl un rampollo della famiglia Tredicine i cui camion-bar deturpano in modo strategico i punti più panoramici di Roma impedendo ai turisti di fotografarli, ed è uno che conta. Ora tanti grideranno al neo-centralismo del governo Monti e del suo ministro Ornaghi. Ma cos’hanno fatto molti, troppi Comuni per arginare un fenomeno così aggressivo e indecoroso? Coraggio professor Monti, passi ad altre misure qualificanti, impedisca, per esempio, l’attracco delle colossali navi-crociera a San Marco. Avrà altri applausi dall’Italia (e dall’Europa) più civile.
“Unità”, 10.11.12
postilla (f.b.)
“A fine Febbraio 2000 i Sindaci pro tempore di Somma Lombardo, Ferno e Lonate Pozzolo firmarono l'accordo di "delocalizzazione" che dava a Malpensa la "licenza di uccidere". Questo perché, con la firma dei tre Sindaci (Brovelli, Canziani e Colombo) si creava, per i residenti in certe zone a ridosso del sedime aeroportuale individuate come particolarmente rumorose, la possibilità di vendere casa e trasferirsi altrove. L'operazione veniva definita di "mitigazione" e Malpensa poteva così svilupparsi, con licenza di uccidere chi restava. L'assenso dei tre Sindaci fu bollato, forse mai adeguatamente, già a suo tempo. L'individuazione delle zone inserite nell'accordo omicida fu effettuata sulla base di ipotetiche curve isofoniche stabilite prima dell'apertura di Malpensa 2000, cioè con un traffico teorico e rotte provvisorie (tali sono ancora). Le persone delocalizzabili secondo l'accordo erano nell'ordine delle centinaia mentre, secondo il Ministro dell'Ambiente di allora, Edo Ronchi, entro l'area dove diventava disumano vivere si venivano a trovare migliaia di cittadini. Quindi noi chiedemmo: si delocalizzino invece gli aerei! (Patto per il Territorio, Turbigo, 19/02/00) Ora si può tristemente verificare, leggendo i dati rilevati dalle centraline della rete di misura del rumore, che in aree soggette all'accordo, per esempio Somma-Case Nuove, Lonate-S. Savina e Lonate-Moncucco, il rumore rilevato è inferiore a quello di Somma-Rodari, Somma-Cabagaggio, Arsago-Cimitero, Casorate-Monte Rosa… aree a cui l'accordo non si applica.”
Come si sa, solo una parte degli aventi diritto vendette casa all'ALER e si trasferì, ed i colpi di coda di questo iniquo accordo si vedranno lunedì sera. Innanzi tutto è utile sottolineare la “mancata par condicio del rumore”, così la definimmo all'epoca, e cioè che chi subiva un rumore più elevato doveva restare. Negli anni si verificarono poi variazioni del traffico aereo, attualmente sceso a livelli tali per cui l'accordo di delocalizzazione, applicato col criterio del superamento dei 65 dB, ora sarebbe rivoluzionato da livelli di rumore probabilmente ridotti, cioè case ieri delocalizzate forse oggi non lo sarebbero più. Livelli di rumore che, se il gestore della rete di misura del rumore (SEA) pubblicasse i dati come dovuto, potremmo meglio conoscere.
Quindi delocalizzazione farsa e falsa, costata enormi somme di danaro ai contribuenti e in procinto di costare altri 12 milioni d Euro, presi non si sa bene dove o, come è già stato segnalato, forse sottratti agli scopi a cui erano destinati. 12 milioni che, se è vero quel che sembra, odorano di scambio, per non dire di ricatto. Quindi altri soldi che finiranno nel buco nero di Malpensa senza che producano alcun utile collettivo. Cosa ci dobbiamo aspettare ora da questi 3 sindaci? Definendo “licenza di uccidere” l'accordo di delocalizzazione che permetteva lo sviluppo di Malpensa, fummo facili profeti perchè i danni provocati dagli aeroporti si conoscono da decenni e quindi non è stata una sorpresa il +54% di decessi nei Comuni del CUV rispetto al + 10% nel resto della provincia. Non avremmo voluto ma ora contiamo i morti.
I Sindaci di oggi, appollaiati come avvoltoi sulle spalle del + 54%, contano invece i soldi per l'abbattimento degli immobili liberati dall'accordo fallito. Se nella storia di Malpensa scriviamo ora questo ulteriore grottesco capitolo, se Malpensa tutto può permettersi, è perché gli Enti Locali a tutto acconsentono. Sindaci, rompete il muro di omertà, avete dati terribili sulla salute dei vostri cittadini, fate il vostro dovere: intervenite! Gallarate, 10 novembre 2012
UNI.CO.MAL. Lombardia - Il Presidente Beppe Balzarini
Postilla
Come forse si intuisce dal testo, la delocalizzazione di ampie fasce dell’abitato attorno al baraccone di Malpensa, prima pista militare poi hub internazionale e in futuro chissà, riguarda la vita di famiglie, l’economia locale, per dirla con un po’ di retorica la carne e il sangue delle generazioni. Manco fossimo a Fukushima, si deporta la gente, e le istituzioni aiutano tra l’altro nel tempo vari soggetti a speculare sugli immobili, in cambio di cose misteriose. Perché a fronte di una devastazione a dir poco spaventosa di un ampio territorio ex rurale e naturale (siamo in piena valle del Ticino, il parco regionale che l’Europa ci invidiava) c’è un’infrastruttura monca, dal futuro incerto, un aeroporto che come può raccontare chiunque ci sia passato lavora assai al di sotto delle capacità attuali. Ma che egualmente si vuol continuare ad ampliare, nella solita logica per cui prima si fanno le opere, e poi si pensa a se e come usarle per qualche scopo. Anche Malpensa si inserisce nel delirio liberista-mafioso-insostenibile della cosiddetta Città Infinita, delle opere scombinate utili solo a chi le fa, o a chi le autorizza. Prima si poteva dare la colpa a Formigoni, e adesso? Adesso siamo in piena crisi del modello di sviluppo ciellino, ma ammazzali se i signori dell’opposizione candidati alla “alternativa” hanno aperto bocca su qualcosa di simile a un’idea, sul sistema aeroportuale, dei poli urbani, sulle infrastrutture di collegamento. Ovvero su quanto consentirebbe almeno di dare un senso, per quanto tragico, alle deportazioni di persone di cui ci ha brevemente raccontato il comunicato stampa (f.b.)
Ancora sulla sacralità della giornata di riposo per i lavoratori del commercio, ma stavolta la prospettiva è chiara, perché è quella della chiesa. La Repubblica 10 novembre 2012, postilla (f.b.)
IL SETTIMO giorno Dio si riposò. L’uomo invece andò a fare shopping. «Ma guardali. Al sabato dicono “oh finalmente domani mi riposo”, e poi eccoli lì al centro commerciale. Non capiscono che è un altro lavoro, il lavoro del consumatore? Non capiscono che ci stanno rubando la domenica?
Padova, parrocchia del Buon Pastore, quartiere Arcella, zona difficile. In canonica Rita, catechista con grinta, fotocopia i “moduli di boicottaggio” da far firmare ai parrocchiani, domenica prossima, all’uscita da messa. C’è scritto: «Mi impegno a non andare a fare la spesa di domenica, per non sostenere con i miei consumi l’apertura dei centri commerciali nei giorni festivi». Scusa Rita, e se mi manca il burro? «Bussa alla porta del vicino. Così magari ti fai anche un amico».
La sfida è partita. Un’intera diocesi, una delle più grandi d’Italia e forse la più solida, quella di Padova, la città del Santo, si mette in marcia contro il furto del giorno del Signore. Con la benedizione del vescovo Antonio Mattiazzo. E senza timore di usare quella parola così forte: boicottaggio. Sette mesi di campagna all’insegna delle «tre R: Relazioni, Riposo, Risorto», tutte le parrocchie e le associazioni mobilitate.
Non è più la solita predica. Fin dal Vaticano Secondo la protesta della Chiesa contro il lavoro domenicale non necessario è severa, non c’è Papa che non l’abbia ribadita dal più alto soglio, ma questa volta si passa dalle parole anche illustri ai fatti, minuti e probabilmente efficaci. La raccolta di impegni individuali firmati di boicottaggio è solo il primo. Poi le parrocchie compileranno “liste bianche” di negozi che rispettano la festa, le affiggeranno sui sagrati, le pubblicheranno nei bollettini, le contrassegneranno con adesivi da esporre in vetrina invitando i fedeli a fare spesa solo lì. Poi le cattedrali della fede beffeggeranno le cattedrali dei consumo esponendo sulla facciata lo striscione polemico: “Questa chiesa è aperta anche alla domenica”. Poi i giornali diocesani, con un certo sacrificio economico, rifiuteranno inserzioni pubblicitarie di negozi che non rispettano il riposo domenicale. «La cosa più difficile sarà convincere il rettore del santuario di Sant’Antonio a chiudere il negozio di souvenir alla domenica, ma se non diamo noi il buon esempio... », sorride padre Adriano Sella sulla soglia della cappellina di san Giuseppe Lavoratore, in piena zona industriale.
Ex missionario in Brasile, tornato in Veneto perché «ormai la terra di missione è qui», direttore della “Commissione diocesana per i nuovo stili di vita”, padre Adriano è l’uomo che ha ideato e coordina la mite ma decisa offensiva. «Non è una crociata contro i supermercati. È la riscoperta del valore del tempo del riposo, della famiglia, delle relazioni umane. La domenica non è l’ultimo giorno del weekend, e non è neanche soltanto il giorno del Signore, anche noi, Chiesa, dobbiamo evitare di riempirla di riti e cerimonie. Il giorno senza lavoro è una necessità primordiale, antropologica dell’uomo, non solo un comandamento del credente. Il riposo infrasettimanale non compensa nulla, perché ciascuno ha un giorno diverso e non ci si incontra più: mentre la domenica è della comunità, è di tutti ed è assieme», spiega mentre guida sulle strade della provincia a distribuire il vedemecum di 24 pagine con le istruzioni dettagliate per la campagna e a incoraggiare le sue truppe disarmate.
Nell’anno 304 ad Abitène, oggi in Tunisia, 304 cristiani affrontarono il martirio al grido di «senza domenica non possiamo vivere!». Ai boicottatori dello shopping, padre Adriano chiede molto meno sacrificio ma più fantasia. E la trova. A Due Carrare Caterina, responsabile del patronato di San Giorgio, ha coinvolto l’amica professoressa Anna Chiara, e domenica si porta tutto il paese a passeggio tra le sconosciute memorie storiche della zona, l’abbazia di Santo Stefano, il ponte romano, la villa veneziana: «La gente scappa nei centri commerciali perché ha paura del vuoto della domenica. Bisogna offrire alternative ». A Cazzago Gianni Simonato, tecnico informatico, sta ridipingendo il vecchio circolo Acli: «Offriremo il caffè dopo la messa, per continuare a stare insieme », come si fa in certe chiese anglicane. In sala biliardi un monitor sempre acceso pubblicizza il boicottaggio. Qui la minaccia è seria, si chiama Veneto City, progetto di megacentro commerciale in piena campagna, «già adesso la domenica il paese si svuota, vanno tutti a Padova o a Mestre a fare spese, figuriamoci dopo». A Maserà, nella sua curiosa chiesa-pagoda, don Francesco Fabris è preoccupato: «Vengono le mamme commesse di negozio a chiedermi aiuto, “fate qualcosa voi, il sindacato ha già firmato l’accordo per il lavoro domenicale”, cosa posso fare per queste persone?». Il 4 marzo scorso a Padova le commesse sfilarono per strada con il codice a barre appuntato sui grembiuli per dire “la domenica non ha prezzo”. Bene, don Francesco farà qualcosa: domenica 18 metterà una tenda davanti alla chiesa per pubblicizzare il boicottaggio. Antonio fa il cassiere in un ipermercato di un grosso centro della provincia, «tre domeniche al mese obbligatorie, sto per sposarmi, penso ai miei figli: potrò stare con loro solo un giorno al mese?», allora ha organizzato un boicottaggio privato e controllato: ha imposto a parenti e amici di non farsi vedere
da lui in negozio alla domenica, «qualcuno poi passa lo stesso, arrossisce e mi chiede scusa... «.
Battaglia difficile, Rita la catechista lo sa. «Vanno a fare shopping perché così anche la domenica possono evitare di parlare con altri esseri umani: parlano solo con le scatolette di pomodoro». Don Vlastio, il suo parroco, cerca di contenerla un po’: «Non dobbiamo colpevolizzare nessuno... ». Ma a sorpresa, la campagna che sta per partire conta già un convertito eccellente, nientemeno che il comandante del campo avverso, il presidente dell’Ascom di Padova Fernando Zilio, lui che per un anno ha bisticciato sui giornali locali con il vescovo proprio per le aperture domenicali, ma che si è ricreduto quando, con le liberalizzazioni del governo Monti, ha visto la potenza di fuoco delle grandi catene dell’“aperto ogni domenica!” abbattersi disastrosamente sul fatturato dei suoi “piccoli”, i negozi a conduzione familiare: «Aveva ragione monsignor Mattiazzo, ha visto più avanti di me. Qualche negozio nei centri storici, per il turismo, può anche aprire alla domenica, ma questo sistema non è giusto, e forse non rende neppure». Padre Adriano si attende molti altri folgorati sulla via dello shopping.
postilla
Se non altro stavolta le cose sono chiarissime: la contrarietà all’apertura domenicale dei negozi arriva dall’unica direzione in qualche modo autorizzata, ovvero quella del sacro. E non, per esempio, da quella parecchio fuorviante della tutela dei diritti dei lavoratori, che spesso accampa purtroppo argomentazioni troppo simili, perdendo di vista la luna per guardare troppo attentamente il dito. Ha senso, nel ventunesimo secolo, imporre per legge a tutti quanti di starsene per una giornata a contemplare l’infinito o quel che si preferisce? Ha senso, imporre per legge che una giornata, la stessa giornata per tutti intendo, sia interamente sottratta allo spazio-tempo della contemporaneità, obbligando giovani, vecchi, lavoratori e pensionati, studenti, e chissà quante altre categorie sociologiche si possono evocare, al momentino di riflessione obbligatorio? No, che non ha senso, perché come ci insegnerebbe lo storico Jacques Le Goff esiste un tempo del sacro e un tempo del terreno, che con tanta fatica abbiamo cominciato goffamente a distinguere quando nella teocrazia medievale qualche inventore cominciò a pasticciare seriamente con gli orologi. Per scoprire che l’eternità poteva essere fatta a fettine precise, magari pure capita meglio, lasciando anche all’adorazione più spazio specifico, e all’uomo momenti adeguatamente ritagliati per pensare alle proprie terrene faccende. Il primo simbolo delle città, svettante sull’aria libera che vi si iniziava a respirare, furono le torri dell’orologio. Il fatto che poi quegli orologi fossero montati sui campanili, vicino alle campane che scandivano le ore, anche quelle dedicate al sacro, è solo un caso. Non confondiamo le cose, per favore, anche con le migliori intenzioni progressiste (f.b.)
Trattative pericolose quelle tra proprietà privata e potere pubblico. Soprattutto quando la proprietà è del maggior potere cittadino. La trasparenza è d'obbligo e i vantaggi per i cittadini l'obiettivo prioritario. Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2012
Un pezzo di città da riqualificare, una potente società calcistica che potrebbe farsene carico (e completare così il progetto inedito e vincente di uno stadio di proprietà), una sciagurata operazione urbanistica di qualche anno fa e una città con un disperato bisogno di denaro liquido per rientrare nel Patto di stabilità. Sono gli elementi di una vicenda che rischia di incrinare la maggioranza di centrosinistra che governa Torino. Lunedì il consiglio comunale voterà la variante del piano regolatore che darebbe il via libera alla Juventus per la costruzione di una “cittadella bianconera” accanto allo Stadium. Variante che quattro consiglieri del Pd, e l’Idv Giuseppe Sbriglio, minacciano di non votare, e non sono mancati aspri dissapori tra quest’ultimo (ex assessore allo sport di Chiamparino) e l’assessore all’urbanistica Ilda Curti (Pd).
Cosa agita, dunque, i consiglieri della maggioranza che sostiene Piero Fassino? Il prezzo troppo basso? In effetti meno di euro al metro quadro per il diritto di superficie è tutt’altro che sfavorevole, ma c’è dell’altro. Il problema, in realtà, riguarda una gestione un po’ leggera della vicenda. Chi è accecato dal tifo avverso evoca sudditanza a casa Agnelli, altri - meno prosaicamente - ci vedono l’esigenza di incassare alla svelta.
La giunta, a fine luglio, ha siglato un protocollo con la Juventus senza fissare un prezzo per la vendita ma accettando tout court l’offerta della società di Andrea Agnelli. Inoltre, nel testo della delibera sottoposto al Consiglio pochi giorni fa, è “magicamente” raddoppiata (da 6 a 12 mila mq) l’area destinata all’edilizia residenziale, quella più redditizia, senza che il Comune - come logica suggerirebbe - abbia chiesto un euro in più. A seguito di questo “incidente” è stata disposta una perizia, che tuttavia vedrebbe la luce solo ex post. Cosa accadrebbe se il prezzo non sarà considerato congruo?
C’è poi la questione di ciò che già esiste alla Continassa: l’ex Palastampa ora in gestione alla famiglia Togni (già in contenzioso con la città) e - soprattutto - l’ex Arena rock. Quest’ultima è un’enorme spianata di terra pensata come area concerti costata 5 milioni di euro e mai (dicasi mai) usata in quasi dieci anni, perché assolutamente e palesemente inadeguata. L’Arena rock è oggi un kartodromo, costruito da una società privata che ha vinto una regolare gara pubblica (a cui la Juventus non ha partecipato). Non è un rischio contabile - si chiedono i consiglieri “ribelli” - far finta che alla città quella struttura non sia costata milioni di euro? E soprattutto, chi manda via i concessionari? E a che prezzo? Il rischio, insomma, è che il ricavato della vendita - se la Juventus non accetterà di farsene carico - finisca in risarcimenti e contenziosi con i privati.
Una mostra alla Triennale e un libro su Guglielmo Zambrini riportano alla ribalta un tema controverso. Emanuele Piccardo, Lucia Tozzi, Alberto Ziparo, il manifesto 8 novembre 2012 (f.b.)
Il bello della concretezza
di Lucia Tozzi
Una delle più grandi soddisfazioni per il visitatore di una mostra è la sensazione di aver capito il messaggio. E chi attraversa lo spazio curvo della Triennale in cui è allestita L'architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi ne esce privo di ogni ragionevole dubbio sul senso preciso dell'esposizione.
Il contenuto è un imperativo, più che esortativo, appello all'ottimismo: «La peggiore crisi immobiliare-finanziaria della storia ci impedisce di costruire ancora uffici e residenze: ebbene, buttiamoci sulle infrastrutture».
L'architettura del Mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi segna la nuova stagione espositiva della Triennale di Milano presieduta da Claudio De Albertis, costruttore e ex presidente dell'Ance. Dopo un triennio di mostre altalenanti, sotto l'egida del critico Germano Celant, la Triennale cerca un lento ritorno alla normalità. Ovvero un'esposizione che renda gli obiettivi comprensibili anche se talvolta, come in questo caso, solo in parte condivisibili. Vecchio di vent'anni, il tema delle infrastrutture rappresenta per il curatore, l'architetto Alberto Ferlenga, l'occasione per dare conto dell'importanza dei sistemi di attraversamento del territorio, cui si aggiungono poi tutte le architetture inscrivibili nel termine «infrastruttura»: ponti, termovalorizzatori, dighe, passeggiate.
Le profetiche parole di un «trasportista»
di Alberto Ziparo
«L'infrastruttura è tale solo se risponde a una domanda sociale: altrimenti diventa una sottostruttura, inutile e spesso grave ingombro per società e territorio»: così Guglielmo Zambrini, ingegnere dei trasporti su cui si sono formate generazioni di urbanisti (era ordinario di Infrastrutture e Pianificazione dei Trasporti presso la scuola di Urbanistica dello Iuav), esprimeva così - all'apertura dei suoi corsi - il proprio costruttivismo ironico verso le attrezzature di trasformazione del territorio, accettabili appunto «se rispondenti ad una domanda» e - più tardi - «se ecologicamente sostenibili».