loader
menu
© 2025 Eddyburg
La povertà si allarga, mentre la politica continua a tacere. La Repubblica, 19 novembre 2012 (m.p.g.)
Gli individui che vivono in famiglie caratterizzate da deprivazione materiale sono aumentati di oltre 6 punti percentuali tra il 2010 e il 2011, coinvolgendo più di un quinto della popolazione (22,2%). Al loro interno, quelli che si trovano in condizione di deprivazione grave quasi raddoppiano, arrivando all’11,1%. Si tratta di persone che vivono in famiglia in cui si sperimentano rispettivamente almeno tre e più di tre limitazioni che intaccano seriamente il tenore di vita: non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 800 euro (una condizione che riguarda ormai il 38,4% della popolazione); non avere i mezzi per consumare un pasto adeguato almeno ogni due giorni; non potersi permettere di riscaldare adeguatamente l’abitazione; fare fatica a pagare il mutuo, le bollette o altri debiti. Di più, una quota consistente di chi nel 2011 presentava tre, ed anche più, forme di deprivazione nell’anno precedente non ne aveva sperimentata nessuna, o solo una-due.
È un fenomeno che non riguarda solo chi si trova nel quintile più povero, ma anche chi si trova nel secondo o terzo quintile, quello che chiameremmo del ceto medio. Questa fotografia di forte peggioramento delle condizioni di vita materiale degli italiani emerge dalla indagine Istat che è parte dell’indagine europea Eu-Silc sulle condizioni socio-economiche della popolazione.
Ci si era illusi che la capacità di risparmio delle famiglie, unita al fatto che la disoccupazione riguarda prevalentemente i giovani che spesso vivono ancora con i genitori, avrebbe continuato a funzionare come ammortizzatore sociale. In effetti, i dati per il periodo 2008-2010, dopo il peggioramento avvenuto all’inizio della crisi, tra il 2007 e il 2008, sembravano dare fondamento empirico a questa illusione. Il tenore di vita sembrava essersi stabilizzato e così l’incidenza della deprivazione materiale tra individui e famiglie. Ma era solo un fenomeno temporaneo. A fronte di una riduzione di reddito, per il venire meno dei redditi dei figli o per l’entrata in cassa integrazione del percettore principale di reddito, le famiglie hanno solo parzialmente ridotto il tenore di vita, riducendo invece i risparmi, quando non intaccandoli. Con il perdurare e l’aggravarsi della crisi, cui si è aggiunto anche l’aumento della imposizione fiscale, in particolare sull’abitazione, mentre venivano ridotti anche i servizi, le famiglie e gli individui con redditi più modesti si sono trovate senza cuscinetto di riserva. I dati recenti sulla riduzione della propensione al risparmio ne sono una conferma. Queste famiglie hanno dovuto incominciare ad intaccare sostanzialmente i consumi.
A fronte di questo forte peggioramento delle condizioni materiali per una parte rilevante della popolazione, sembra che l’unica cosa che tenga, che dia soddisfazione, e su cui ci si può azzardare ad avere fiducia, siano le relazioni famigliari e amicali più strette. Al di fuori di queste sembra ci sia il vuoto. La “fiducia negli altri”, già poco diffusa in Italia, è ulteriormente diminuita nel 2012. Possiamo stupirci, allora, se gli italiani sembrano ondeggiare tra le tentazioni populistiche, il ribellismo rabbioso e la ritirata nella vita privata di cui l’astensionismo è il segnale più vistoso? Perché il paese possa riprendersi non basta l’austerità, che anzi, se è cieca, rischia di rafforzare disaffezione e ribellismo. Tanto meno aiuta una politica implosa su se stessa, dove nessuno sembra capace di indicare una strada che consenta di sopravvivere senza cadere né nel baratro del debito, né in quello della distruzione di capitale umano e sociale. Pensare solo al primo senza considerare i secondi, non produce solo disperazione e aggrava le ingiustizie. Mette anche a rischio la coesione sociale.
Dietro il fallimento degli “Stati generali della cultura” la débacle del ministro e lo sfascio del Mibac. Pubblico, 16 novembre 2012 (m.p.g.)
Come è andata la giornata organizzata ieri dal Sole24ore a un anno dalla pubblicazione del Manifesto della cultura al Teatro Eliseo? Bene, pare. A parte il teatro pieno, il successo era quello di esser riusciti a mettere intorno a un tavolo a discutere di questo manifesto Profumo e Ornaghi, Barca e Giuliano Amato (in qualità di presidente della Fondazione Treccani), Andrea Carandini e Carlo Ossola... ma soprattutto Giorgio Napolitano, che avrebbe dovuto avere semplicemente il ruolo di imprimatur istituzionale. Quello che è accaduto è che il presidente non è stato a questo ruolo. Che è successo? Dopo l'inno nazionale suonato da un orchestra di ragazzi, Giuliano Amato ha fatto una lunga prolusione sul primato italiano nella tutela del patrimonio culturale: un bel discorso, in realtà una sintesi quasi tutta ricavata dal libro di Salvatore Settis, Paesaggio, costituzione, cemento (pubblicato da Einaudi due anni fa). Il fantasma di Settis, di quell'idea di "patrimonio culturale" non ristretto solo alle opere d'arte è tornato a manifestarsi quando Roberto Napoletano e il ministro Ornaghi hanno cercato di piegarlo a un concetto di "made in Italy", alle retoriche sempre vive della cultura "petrolio d'Italia" (fu in epoca craxiana che si inaugurarono).
Ci sono voluti prima Fabrizio Barca e poi Giorgio Napolitano a assumersi il compito di fare il ministro della Cultura e quello dell'Istruzione, essendo palese l'inadeguatezza di Ornaghi e Profumo. Barca ha prima spiegato cosa vuol dire usare le risorse pubbliche per la tutela dei beni culturali, conti alla mano. Giorgio Napolitano ha usato il consenso che gli veniva dalla platea per lanciare piccole critiche al governo per la mancanza di visione e per la mancanza di capacità di mettere la questione della formazione e della ricerca scientifica al primo posto. «Fare i ragionieri e ragionare non è la stessa cosa», ha detto, dopo aver poco prima riconosciuta ai tecnici una buona attitudine a far quadrare meglio i conti. Ma quello che è uscito con le ossa rotte da questo confronto pubblico è Ornaghi: contestato dalla platea, riusciva a balbettare soltanto di voler domande serie.
Se lo vogliamo ancora prendere sul serio, può cominciare a rispondere a queste:
1. Perché nel Decreto Sviluppo varato dal ministro Corrado Passera il 26 giugno 2012, si parla dei destini della Pinacoteca di Brera che forse finirà con l'essere gestita da una fondazione privata?
2. E’ giusto pensare che a gestire la cultura a Roma siano in pratica due monopoli, Civita e Zetema, che assommano 1600 dipendenti, con il risultato di affidare tutti gli incarichi 'in house', cioè senza gara?
3. Perché a Siena, la città che ha visto nascere già dal Basso Medioevo quel senso di cittadinanza moderno di cui parlava Amato, un'istituzione pubblica con 850 anni di età come l'Opera Metropolitana viene svenduta per 42mila euro sempre a Civita, togliendole di fatto «la centralità degli enti cittadini nella gestione del proprio patrimonio culturale e diminuendo attività e prestigio di una delle più antiche istituzioni italiane ed europee»?
4. Difende ancora la presidenza per il Maxxi di una persona come Giovanna Melandri che assume come credenziali quella di essere un ex-ministro? Non fa il paio di quella dello scrittore laureato in giurisprudenza Alain Elkann al Museo Egizio di Torino?
5. Perché come diceva Leo Longanesi, «alla manutenzione l'Italia preferisce l'inaugurazione»? Così per esempio, mentre tutta l'Italia colta parla, per qualche mese, della grande (e inutile) mostra sul Ritorno al Barocco, il vero Barocco di San Carlo alle Mortelle a Napoli se ne va per sempre, nell'indifferenza generale? Non sarebbe meglio fare opera di manutenzione delle opere d'arte in loco invece di spostare i Caravaggio e i Michelangelo da una mostra all'altra?
6. Perché, negli stessi giorni in cui l'Istituto per gli studi filosofici imballava i suoi libri per stiparli in un magazzino a Casoria, a dire una parola per fermare uno spreco del Forum delle culture, per cui Comune e Regione hanno acquistato per 4 milioni di euro il format e il brand da una fondazione di Barcellona è dovuto intervenire un sottosegretario agli esteri, Staffan De Mistura?
7. Cosa è diventata Venezia a suon di valorizzazione e privatizzazione? Una Benettown? La Punta della Dogana è stata, per esempio, trasformata da, multimilionario francese François Pinault, che l'ha trasformata in una supervetrina della sua collezione, Miuccia Prada ha appena comprato Ca' Corner della Regina dal Comune, e il Comune c'ha risanato il bilancio ordinario... La malgestione comporta un nuovo feudalesimo?
8. Perché insomma il valore civico dei monumenti è stato negato a favore della loro rendita economica, e cioè del loro potenziale turistico?
Corriere della Sera, 18 novembre 2012, postilla (f.b.)

«Basta errori in nome di Alitalia, serve una svolta radicale» L'imprenditore e il futuro: «In Germania tre maxi-scali, non possiamo restare indietro»
lettera di Bernardo Caprotti al Direttore

Caro direttore,
ho visto sul Corriere del 24 ottobre che personalità di grande spicco affermano che Milano deve diventare lo hub, il mozzo, il perno, delle comunicazioni tra il nord Europa e l'Europa mediterranea. Lodevole progetto per una città che ha perso il suo primato industriale!, ma che ne detiene ancora ben altri.
Questo mi porta a ripensare all'annuncio fatto da Esselunga su Linate e la sua utilità.
Esselunga ha fatto quell'annuncio perché i suoi 44 ingegneri ed i suoi 88 compratori hanno la continua necessità di visitare fornitori, fiere, eccetera in giro per l'Europa. Il che vale naturalmente anche per chi vuole venir qui.
Quell'annuncio ha suscitato molti improperi alla mia persona, «il patron che si schiera per Linate». Gli italiani amano le fazioni, addirittura le inventano.
Però il mio pensiero di raro utilizzatore, ma di capo d'azienda, è tutt'altro.

Linate è uno straordinario city-airport, che sarà collegato al centro città dalla metropolitana ormai in costruzione, come ce ne sono in altre città, vedi i collegamenti di London-City con Anversa (da 2 a 4 voli al giorno), con Nantes, Berna...
Alla City occorre essere connessa; la City dell'Italia è Milano.
Questo concetto non impedisce tuttavia di formularne un altro, forse dirompente: l'alta Italia non ha mai avuto e non ha un aeroporto intercontinentale, un aeroporto cioè che possa servire l'Italia del Nord, 28 milioni di persone, da Treviso a Torino, da Trento a Bologna a Genova. Altro che Milano!

Perché l'alta Italia è stata così trascurata? Perché c'era l'Alitalia, azienda romana col suo hub ed i suoi dipendenti a Roma: la linea aerea all'amatriciana che ci è costata oltre diecimila miliardi di vecchie lire in perdite e sovvenzioni.
Coloro i quali dovrebbero autorevolmente sollevare questo problema volano tutti con i loro jet privati. Pesenti (Italcementi), De Benedetti, Berlusconi, Meomartini, Presidente di Assolombarda (Eni)... Ma costoro non hanno anche loro 100 dirigenti che debbono spostarsi su Stoccarda oppure Chicago?

Poiché è entrato nel comune modo di pensare che sia normale per un abitante dell'alta Italia di dover passare per Francoforte, Roma, Londra o Parigi per andare in qualsiasi parte del mondo.
Da una recente intervista all'Amministratore Delegato di Alitalia (Panorama del 10 ottobre) apprendiamo che quando Air France-KLM acquisterà Alitalia, quella compagnia di hub ne avrà tre: Amsterdam, Parigi e Roma. E noi? Rimaniamo tagliati fuori per sempre?
La Germania di hub ne ha tre: Francoforte, Monaco e Berlino. Ha anche una compagnia che funziona! Ma questo è secondario. Se ci fosse lo scalo «giusto», più di una compagnia si candiderebbe a servire 28 milioni di abitanti!

Il vero blocco mentale è costituito dal convincimento generale che Malpensa un aeroporto intercontinentale lo sia. Non lo è. Né mai lo potrà essere.
Innanzi tutto perché è sorto lassù, per caso, sulla vecchia pista dei Caproni — costruttori di aerei anni Trenta —, assolutamente fuori mano.
Il terminal è mal concepito e non potrà mai funzionare. Quando ci si arriva da Monaco, da Barcellona o da Atene, da italiani, si prova vergogna.
Le due piste sono sullo stesso lato e gli aerei devono attraversare la prima pista per raggiungere il terminal; come si può pensare di costruirvi la terza?

L'aeroporto intercontinentale dell'alta Italia non deve essere pensato per Milano, deve essere centrale alla Valle, deve essere uno hub, ma deve essere in posizione facilmente navettabile con Linate e Orio, come il Kennedy e il La Guardia a New York.
L'Italia del Nord è stata penalizzata per decenni da Alitalia. Occorre affrancarla da altri interessi. Ma soprattutto occorre sbloccare i cervelli da un modo di affrontare il problema secondo me proprio distorto, cioè teso a risolvere problemi di volta in volta particolari.
L'attenzione quindi è rivolta a Malpensa, che non funziona e per farla funzionare vi si trasferiscono i pochi voli europei rimasti a Linate; oppure a Linate che ci collega con gli hub d'Oltralpe, e non deve; o al bilancio della SEA; o all'Alitalia, che ci ha afflitto quanto basta.

Del servizio ai cittadini, alle imprese, al turismo della «Grande Valle» nessuno si preoccupa. Là dove i numeri dicono chiaramente ciò che a loro necessita.
L'accanimento sull'errore iniziale andrebbe superato da uno slancio visionario verso una soluzione radicale che a mio avviso già c'è. Io, a mie spese, ho imparato: insistere ad investire su un impianto sbagliato è diabolicum.
Caro direttore, con tutto questo, sia chiaro, io non sono contro Fiumicino, Roma o Venezia, mete superlative, dove il traffico oltretutto continuerà a crescere. Ma certo non crescerà nella tratta Linate-Fiumicino, dato l'avvento di una assai più comoda e conveniente Alta Velocità.

Io mi scuso con Lei per queste molte, troppe idee farfugliate, ma mi sembrerebbe il caso che su un argomento così grave, quale la vita o l'asfissia della nostra città e di una parte tanto grande del Paese, si aprisse un dibattito, innanzi tutto coinvolgendo degli esperti di aviazione non interessati e poi altri giornali e persone informate e intelligenti, da Albertini a Molgora, da Armani ad Abravanel.
Coi miei più cordiali saluti.

L'aeroporto del signor Esselunga: hub a Montichiari come a Parigi
di Alessandra Mangiarotti

Bernardo Caprotti costruisce il suo «sillogismo» con il piglio pragmatico dell'imprenditore che sa trasformare le idee in azioni: «Il Nord Italia non ha un aeroporto intercontinentale»; «Malpensa non sarà mai l'hub del Nord, Montichiari avrebbe tutte le carte in regola per diventarlo». Conclusione: «Perché non trasformare lo scalo bresciano nell'aeroporto che 28 milioni di abitanti chiedono?».
«Il mio è il ragionamento di un droghiere», premette il patron dell'Esselunga. «Ma questa, dopo Monaco, Ruhr e Île-de-France è la quarta regione più ricca d'Europa: non abbiamo forse diritto a un nostro aeroporto intercontinentale?».

Montichiari oggi è uno scalo fantasma: zero passeggeri, tremila metri di pista su cui rullano solo voli postali e qualche cargo, una gestione che in dieci anni ha perso più di 40 milioni. Eppure l'Ente per l'aviazione civile l'ha appena certificato per operazioni con Boeing 747-8, il gigante dei Jumbo jet. E il nuovo piano nazionale degli aeroporti gli attribuisce un ruolo di «scalo cargo e nel lungo periodo quello di riserva di capacità» per il Nord. Spiega Caprotti: «Montichiari ha tutto: posizione, bacino d'utenza, un'area vincolata di 44 kmq (ci sta dentro un Charles de Gaulle!), futuri collegamenti. Buttiamo tutto per salvare Malpensa?». Nella sua testa il futuro di Montichiari-hub è inserito in un piano che riserva un ruolo a ciascun aeroporto: «Malpensa: traffico cargo e passeggeri low cost per destinazioni lontane; Linate: city-airport con potenziamento dei collegamenti business su città come Nizza, Ginevra, Stoccarda».

E i soldi? «Da qui a 15-20 anni ci saranno. Bisogna guardare lontano».
Per il 2030 nel Nord Ovest si prevede una domanda di traffico di oltre 75 milioni di passeggeri. Afferma Giulio De Carli, architetto esperto di pianificazione aeroportuale e coordinatore del piano nazionale degli aeroporti: «Già oggi il bacino è importante, 30 milioni e più. Ma non bisogna cadere nell'illusione che la risposta sia un hub. Da subito Montichiari è perfetto per il trasporto cargo, pochi investimenti e si recuperano in parte le perdite. Tra vent'anni potrebbe diventare sì un aeroporto intercontinentale. Ma per farne un hub oltre alla struttura ci vorrebbe un grande vettore con base li».

Come Londra, Parigi, Francoforte. «E visto che abbiamo perso la possibilità di avere una nostra grande compagnia (in Europa non c'è più spazio, già premono gli asiatici) la soluzione è quella di creare uno scalo aperto ai vettori globali». Come Berlino: «Costruito potenziando accessibilità e infrastrutture. Allo stesso modo serve subito pianificare strade e ferrovie (con la fermata dell'Av il più vicino possibile a Montichiari) e salvaguardare le aree vicine come a Madrid».

Oliviero Baccelli, vicedirettore del Certet Bocconi, ricorda che di un grande Montichiari si parla da anni. Per lui stesse condizioni: «Vincolo delle aree e pianificazione dell'Alta velocità che ad oggi prevede un tracciato lontano dall'aeroporto. Serve però acquisire l'area militare di Ghedi, quindi rivedere potenziamento di Venezia e realizzazione della terza pista a Malpensa». Caprotti però su una cosa ha ragione: «Se si traccia una mappa isocrona per capire quanta gente attrae l'aeroporto quasi sicuramente Montichiari vince su Malpensa».

Postilla
Di un “Grande Montichiari”, come ad esempio ha ricordato anche il poco esperto sottoscritto tanto tempo fa, ne parlavano (e con cognizione) gli esperti trasportisti all’epoca in cui Malpensa era solo una scintilla progettuale nella mente di qualcuno, e fisicamente ancora un campo militare dell’ex Caproni perso tra le brughiere della valle del Ticino. La questione però, per non farla troppo lunga in una sede indebita, è di metodo, ovvero NON sostituire alla pura logica delle lobbies legaiole e altro,localiste e nazionali, trionfante sino a poco tempo fa, quella di nuove lobbies e cordate, col solo risultato di aprire buchi nella pianura padana lasciando inutilizzate altre voragini. Il rischio, con l’approccio contabile a tutto quanto che pare diventato vangelo, è proprio questo, in assenza di una strategia diversa che si ponga domande adeguate. Gli aeroporti sono un sistema, e gli hub virtuali con adeguata rete di collegamento veloce via terra (quello che nessuno si sogna mai di realizzare davvero) a integrare la regione urbana possono secondo molti esperti svolgere esattamente il ruolo dell’hub fisico unico. Si sono programmate e in parte realizzate già varie grandi opere, che potrebbero andare in questo senso, mentre altre (certi sistemi autostradali come la sciagurata Città Infinita dei pataccari tuttologi) lo perderebbero quasi tutto. Si spera che la politica, quella emergente che si vuole portatrice di innovazione, sappia cogliere la sfida: essere moderati ma progressisti magari potrebbe significare anche questo, semplicemente pensare. Si chiede troppo?

p.s. in eddyburg.it archivio naturalmente pullulano gli articoli sugli aeroporti padani come sistema, nonché i casi specifici; faccio riferimento per brevità al mio primo Hub? Burp dedicato a Montichiari disponibile anche su Mall

Il manifesto 18 novembre 2012
Dopo Marchionne, Monti. Tenete presente la parabola di Marchionne: due anni e mezzo fa, quando aveva sferrato il suo attacco contro gli operai di Pomigliano («o così, o chiudo»), togliendosi la maschera di imprenditore aperto e disponibile che si era e gli era stata appiccicata addosso, la totalità dell'establishment italiano si era schierata incondizionatamente dalla sua parte: Governo, partiti, sindacati, media, intellettuali di regime, sindaci, aspiranti sindaci, ministri e aspiranti ministri, più la falange di Comunione e Liberazione, da cui Marchionne si era recato a riscuotere gli applausi che i suoi dipendenti gli avevano negato.

Uniche eccezioni, gli operai presi di mira, la Fiom, i sindacati di base e poche altre voci senza molta audience. Perché a quell'attacco antioperaio Marchionne aveva abbinato un faraonico piano industriale da 20 miliardi di euro («Fabbrica Italia», l'ottavo piano, da quando Marchionne era in carica, nessuno dei quali mai realizzato), che avrebbe portato finalmente la Fiat, anche grazie alla stretta imposta agli operai, a competere nel pianeta globalizzato con mezzi adeguati alla nostra epoca, che Marchionne, con venti secoli di ritardo, aveva battezzato «Dopo Cristo». Al manifesto , che su quel piano aveva sollevato fondati dubbi, erano stati riservati i lazzi di ben sette collaboratori del Foglio - tra cui due stimati ex sindacalisti - e del direttore del Sole24ore.

Qualcun altro aveva, sì, notato che quei 20 miliardi non comparivano, ne avrebbero potuto comparire, nel bilancio della Fiat; o che triplicare la produzione di auto ed esportarle in un mercato con il fiato corto era forse una mossa avventata; o che l'Europa si stava avviando verso un lungo periodo di vacche magre - in realtà magrissime - che rendeva problematici piani così faraonici; o, soprattutto, che voler trasformare le fabbriche (dopo Pomigliano, era stata la volta di Mirafiori, e poi di tutto il resto) in falangi - dove per sopravvivere gli operai devono combattere, sotto il comando di un manager che guadagna 400 volte più di loro, una lotta mortale contro i lavoratori della concorrenza, perché la vita degli uni è la morte degli altri - più che una forma di «modernizzazione» - allora era molto in voga questa espressione - era un ritorno al dispotismo asiatico. Ma i peana avevano avuto il sopravvento.

Oggi, a due anni e mezzo da quel trionfo, il bluff di Marchionne si è completamente sgonfiato: è rimasto solo il peggioramento delle condizioni di lavoro per gli operai (ormai in cassa integrazione quasi permanente), l'abolizione della contrattazione e la violazione continua e ostentata della legge e delle sentenze dei tribunali. Il sindaco che voleva srotolare un tappeto rosso sotto i piedi di Marchionne lo ha riarrotolato in silenzio e deposto nel suo nuovo ufficio di banchiere in attesa di tempi migliori. Quello che approvava Marchionne «senza se e senza ma» sostiene invece di essere stato ingannato (ma forse voleva esserlo). E a quello che «se fosse stato un operaio» avrebbe votato sì al referendum truffa di Mirafiori non è mai venuto in mente di chiedere che cosa avrebbe fatto se fosse stato sindaco a un operaio: una evidente asimmetria informativa.

Molti altri semplicemente tacciono senza spiegare perché non avevano capito niente o avevano fatto finta di non capire (allora gli conveniva lodare, come oggi gli conviene tacere). Fatto sta che dopo il tonfo oggi Marchionne è per tutti un po' come la peste. Nessuno cerca più di incontrarlo; tutti ne parlano male e soprattutto cercano di evitare l'argomento. «Marchionne? Chi era costui?» Quanto a lui, continua per la sua strada: cioè non fa niente, che è quanto, secondo lui, gli richiede oggi il mercato. E allora? Allora, la parabola di Marchionne non fa che anticipare quella di Monti: tra cinque mesi nessuno ne vorrà più sapere e per tutti quelli che lo hanno appoggiato sarà una corsa a dissociarsi e a sostenere di non aver mai avuto gran che a che fare con lui: «Monti chi?».

Perché se il piano Fabbrica Italia è stato un flop, la cosiddetta agenda Monti è ancora peggio; e i nodi stanno venendo al pettine. «Si è arenata la spinta innovatrice» cominciano a dire, mettendo le mani avanti, quelli che per un anno lo hanno esaltato per aver portato il paese «fuori dal guado» (tra i quali il primo della lista è proprio lui, Monti, che non ha mai perso un'occasione per lodarsi). Era partito anche lui alla grande, come Marchionne: dopo i due primi decreti aveva sentenziato che il Pil sarebbe cresciuto dell'11 per cento; i salari del 12; i consumi dell'8; l'occupazione dell'8 e gli investimenti del 18. Il bello è che tutti l'avevano preso sul serio e nessuno era andato a suggerirgli di farsi ricoverare. Ma proprio come con Marchionne, il paese, beneficiato da due decreti Crescitalia, da uno Salvaitalia e da numerose altre misure, non è cresciuto di un centimetro; anzi, come era prevedibile, è andato indietro.

In compenso, come con Marchionne, sono crollati occupazione e redditi; e poi spesa sanitaria, scolastica e per la ricerca, investimenti pubblici e privati; ed è ancora aumentato il debito pubblico, che presto sarà sottoposto alla stretta del fiscal compact ; mentre il compito di rilanciare lo sviluppo è stato affidato al petrolio del sottosuolo italiano, al trasporto di gas in conto terzi attraverso le aree più sismiche d'Europa e alle solite autostrade (e, ovviamente, Tav), per le quali e solo per loro, i miliardi - ben 100 si trovano sempre, mentre intere regioni del paese sono sott'acqua quasi perennemente per incuria e opere devastanti. Grazie al ministro Passera; il quale prima le finanzia - a babbo morto - come banchiere e poi interviene come ministro per tappare lo scoperto bancario con fondi pubblici, saccheggiando la Cassa Depositi e Prestiti. Insomma la storia di Marchionne si ripete; ma ancora più «alla grande». Era ovvio che un andazzo del genere non sarebbe durato a lungo.

Tutti avevamo, e abbiamo, davanti agli occhi le vicende della Grecia e della Spagna, lo strangolamento delle cui economie precede di poco quello della nostra ed è frutto della stessa ricetta: quella che Monti, ancora prima di diventare Presidente del Consiglio, aveva esaltato sostenendo che quei paesi avevano finalmente imboccato la strada del «risanamento». Un buon viatico per affidargli l'incarico di guidare fuori dalle secche l'economia italiana e, di concerto con il sodale Draghi, quella europea. Poi si è impegnato in una stupida competizione con Grecia e Spagna, invece di creare un fronte unico per fare fronte a un pericolo comune che riguarda tutti.

Ma soprattutto, era proprio necessario affidare a un tecnico, anzi a una confraternita di tecnici che non si sono mai occupati di problemi sociali e ambientali, il compito di affrontare la sollevazione di popolo - che, per ovvia conseguenza, è alle porte - e il disastro ambientale che sta devastando il paese (e il resto del mondo)? Così diventa chiaro che l'unica tecnica con cui i ministri del governo Monti, e dopo di lui la sua agenda, chiunque la gestisca, sono in grado di affrontare i problemi messi all'ordine del giorno delle loro politiche è il solito manganello: contro gli studenti, contro gli operai, contro i minatori, contro gli insegnanti, contro i comitati che si ribellano allo scempio dell'ambiente, della salute e della convivenza civile. L'agenda Monti, ci spiegano infatti i suoi residui sostenitori, è già tutta definita: non c'è alternativa; e non c'è niente da fare. Ma fino a quando una soluzione del genere potrà bastare? E poi?

Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2012

I ripetuti, forti e argomentati “vergogna!” che giovedì hanno clamorosamente cambiato l’agenda dei cosiddetti ‘Stati generali della cultura’ sono l’unico risultato concreto (ma imprevisto e imbarazzante) della retorica sulla ‘costituente della cultura’ che il Sole 24 Ore alimenta ossessivamente da nove mesi. Ma la montagna ha partorito un topolino interessante.

Il parterre schierato sul palco del teatro romano ‘Eliseo’ rappresentava in modo impeccabile l’ossificazione mortuaria della cultura italiana. E come si può chiedere di indicare nuove prospettive a chi ha imbottigliato la cultura italiana in una strada senza uscita?
Fa piacere sentire Giuliano Amato che riscopre l’articolo 9 della Costituzione: ma come non ricordare che l’ormai permanente blocco indiscriminato delle assunzioni dei giovani ricercatori italiani o dei soprintendenti fu inventato proprio da lui? E il danno è stato molto più grave dei pochi benefici ottenuti risparmiando su quei comparti strategici. Che il ministero per i Beni culturali sia “un morente ibernato” è verissimo: ma come non stupirsi che a dirlo sia uno dei congelatori, quell’Andrea Carandini che si precipitò a presiederne il Consiglio superiore quando Salvatore Settis sbatté la porta a causa del maxi-taglio da un miliardo e 300 milioni di euro disposto da Tremonti e subìto da Sandro Bondi?

E non parliamo dei ministri in carica: Lorenzo Ornaghi sale sul palco per dire “meno Stato e più privati”. Niente male per un ministro della Repubblica che dovrebbe invece difendere la dignità e i finanziamenti del sistema di tutela (un tempo) migliore del mondo. E quando un ragazzo gli urla: “Lei parla come un economista, non come un ministro della cultura”, il malcapitato ex rettore della Cattolica mormora che “non si può dire che questo governo non abbia fatto nulla per i beni culturali”. E invece è proprio così, tanto che Ornaghi non riesce a fare un solo esempio concreto.

Che il vento sia bruscamente cambiato se n’è reso conto il direttore del Sole, che nell’editoriale di ieri ha abbandonato la retorica vetero-craxiana sulla cultura come giacimento economico da cui estrarre reddito, e ha parlato della priorità della tutela del patrimonio, finalmente indicandolo come un valore in sé, e non come l’ennesimo strumento del mercato.
In tutto questo, l’affondo del capo dello Stato è apparso provvidenzialmente fuori degli schemi: in tempi di crisi si devono dire molti no, “ma alla cultura bisogna dire molti sì”. Certo, uno si chiede perché Napolitano abbia controfirmato la nomina a ministro dei Beni culturali dell’unico ministro non tecnico del governo Monti: nomina che è stata un vero segnale di disprezzo per la cultura. Ma non è mai troppo tardi, e la frustata presidenziale al governo e all’establishment culturale ha fatto capire che è finito il tempo in cui la pomposa definizione di ‘Stati generali’ può designare un teatrino in cui i responsabili dello sfascio si parlano addosso commentando lo sfascio medesimo. Se non altro di questo siamo gratissimi al Sole 24 Ore.

Anche nel significato simbolico la torre di Cardin è un errore, e un'aggressione all'idea stessa di Venezia. Il manifesto 17 novembre 2012
Cos’è una città? È assai più di un insediamento abitativo. Ed è per questo che ci appassioniamo a discutere degli interventi che si vogliono realizzare, per questo ci interroghiamo sulle continue trasformazioni della forma urbana. Sappiamo infatti che la posta in gioco è altissima: la città rappresenta la sfida a realizzare la migliore qualità di vita per una comunità di diversi, coniugando l’attenzione al luogo che l’accoglie con la bellezza dell’opera umana. C’è un profondo desiderio di città in tutti noi ma spesso è mortificato dalla povertà del linguaggio e delle scelte degli amministratori che non sembrano cogliere che operare nel tessuto vivo della città è intervenire nelle forme e nei significati di questa convivenza.

E così non restituiscono ai cittadini la «grandezza» della questione, l’ordine simbolico che vi è implicato. Guardiamo a quel che succede a Venezia. Non è patrimonio solo degli studiosi di architettura o di urbanistica sapere che Venezia rappresenta un modello «esemplare» di città: fa parte dell’esperienza comune percepire, pur nell’involgarimento causato dalla speculazione e dalla macchina turistica, un benessere che ha ragioni antiche e profonde. Le Corbusier colse con grande precisione il segreto dell’agio riposto in questa forma urbana e lo spiegò nei suoi studi e lo ribadì con forza nella lettera che scrisse al sindaco di Venezia nell’ottobre del 1962, cercando di richiamare la politica alla necessità di comprendere la «cifra» della città e ancorarsi al suo genius loci per scegliere come e se intervenire in essa.

Temeva infatti «l’invasione della dismisura». Spiegava che ciò che fa di Venezia uno straordinario modello urbano è la sua «scala umana», quel rapporto armonioso tra la figura umana e l’altezza degli edifici, che consente sempre di ritrovare la magica linea dell’acqua e dell’aria. Tuttavia per comprendere più intimamente il potere di donare benessere che ha questa città, la vocazione altissima di «vivibilità» che le riconosciamo e per chiarire l’ordine simbolico che la governa, dobbiamo andare oltre l’affermazione di Le Corbusier. Venezia non è una città a misura di un astratto «corpo umano» bensì è città per gli uomini e per le donne poiché sa rimandare ai corpi sessuati. Venezia restituisce e non oscura la dualità: gli elementi formali maschili e femminili vi sono mescolati con sapienza, sposati come nei tanti rituali nuziali presenti nella storia della città, o alternati senza che uno prevalga sull’altro.

E tra tutte le simbologie quella che meglio esprime la dualità è proprio il rapporto di equilibrio tra verticalità (maschile) e orizzontalità (femminile). Del resto, questo sito naturale ha posto da subito un limite all’homo faber, l’ha costretto a modulare risposte originali, gli ha impedito di procedere per linee rette, rispettando la sinuosità dell’andamento acqueo; ha suggerito di accostare spazi aperti ad altri più raccolti, sfumando le soglie tra dimensione pubblica e privata. Una grande studiosa della città, Egle Trincanato, ci ha insegnato che la malia di Venezia risiede proprio nell’alternarsi del comune con il sublime, nell’accostamento dell’edificio di modeste dimensioni e pregio con il palazzo nobiliare, da cui non viene umiliato. Insieme hanno costruito un tessuto urbano differenziato eppur omogeneo, al servizio di una comunità. Tutto questo ne ha fatto una città altra e unica. Chiediamoci ora se la grandezza della posta in gioco viene restituita nel dibattito che si svolge attorno ai numerosi interventi o progetti di intervento sul tessuto urbano di Venezia e del suo territorio.

Sentiamo forse riferirsi all’ordine simbolico che la presiede quando si discute degli insediamenti ad alto tasso di cementificazione di Tessera city nella fragile area di gronda o dell’ampliamento dell’aeroporto, della mobilità sublagunare, del raddoppio dell’Hotel Santa Chiara a Piazzale Roma e del suo parcheggio sotterraneo? Ci si ricorda della «cifra» della città quando si auspica l’aumento del traffico crocieristico? No. Ascoltiamo discorsi che giustificano questi interventi in virtù di un presunto «sviluppo del territorio», secondo modelli economici privi ormai di qualsiasi valenza, che in questa area hanno provocato ferite ambientali e umane. Se il dibattito, specie dei decisori, non si nutre di una lettura simbolica, si corre il rischio di introdurre confusione e opacità negli elementi da valutare e di scegliere poi per il peggio.

Un esempio è il dibattito che si svolge intorno alla torre voluta da Pierre Cardin. È indubbio che con quel progetto si ha a che fare con una verticalità estrema. Si discute se sia legittimo che la sua altezza vada a oscurare il campanile di S. Marco, modificando lo skyline.Ma tale confronto ha senso? La verticalità dei campanili aveva una funzione di riferimento per la comunità, serviva a indicare la strada a chi si muoveva a piedi; si collegava alla chiesa che conteneva quel suo ergersi sviluppandosi in orizzontalità; era ed è un «bene comune», non espressione di un’individualità. Talvolta, invece, si paragona la torre dello stilista a un faro. Sarebbe un faro per Marghera. Ma un faro è un edificio che fa da riferimento alle imbarcazioni, è indispensabile alla salvaguardia dei naviganti; individua un punto cruciale della linea di costa. I termini del confronto sono dunque confusi e si concentrano per lo più sulle misure, quasi fosse un membro virile e non un segno/simbolo che si imprime nel paesaggio.

Non se ne faccia pertanto questioni di misure bensì di ordine simbolico. Ha ragione Salvatore Settis nell’indicare negli interventi sul corpo della città antica e sul territorio che circonda Venezia un pericolo che non riguarda solo Veneziana l’idea stessa di città. Le Corbusier concludeva il suo appassionato messaggio agli amministratori di Venezia con un monito: «Non avete il diritto di aprire la porta al disordine architettonico e urbanistico».Ma il rischio che abbiamo di fronte non si limita a un disordine di tal genere, bensì sottende a una dismisura simbolica, a una ferita profonda nella radice di Venezia. C’è da augurarsi che nelle menti di politici e amministratori avvenga la stessa esperienza di illuminazione e profondo riconoscimento della bellezza che nella Venezia salva di Simone Weil ha la forza di fermare il saccheggio della città.

downtown terziaria, comunque lo si voglia intendere. Corriere della Sera Milano, 16 novembre 2012 (f.b.)

Previdenti per mestiere e missione aziendale, all'Inps hanno iniziato a programmare il trasloco quasi tre anni fa. Gli uffici sono stati riorganizzati, i servizi accorpati, i dipendenti progressivamente ridotti a poco più di duecento unità. Oggi, quando lasceranno il grattacielo di via Melchiorre Gioia 22, svolteranno l'angolo e chiuderanno un'epoca. «Abbiamo anticipato la spending review e operato in un'ottica di contenimento dei costi», dice Sebastiano Musco, il direttore dell'Area metropolitana Inps. Nel piano di revisione delle spese c'e il pensionamento del palazzo di Gioia e di tutto l'immaginario collettivo che ha costruito in oltre quarant'anni di storia. Le tensioni sociali. Le proteste sindacali aggrappate ai cancelli. Le code per i moduli 101. Il maxi concorso del 1982 con 800 assunzioni. Ma anche le telefonate anonime. L'incubo terrorista. Gli allarmi bomba. «Quest'operazione — ribadisce il direttore Musco — consentirà notevoli risparmi economici».

Gli sportelli chiudono alle ore 16, la sede storica dell'Inps cambia indirizzo, libera via Gioia 22 e si insedia in via Pola 9. Cinquecento metri di distanza, sei minuti a piedi. Il parametro che motiva il trasferimento è questo: l'Inps lascia i diciotto piani del grattacielo in affitto e ne prende sette nel nuovo polo direzionale, «riducendo notevolmente il canone di locazione». Il passaggio è simbolico, economico e pratico. Il palazzo di Gioia 22 (di proprietà mista) è un'architettura della Milano industriosa e febbrile del 1967, l'anno dell'occupazione studentesca in Cattolica, dei Rolling Stones al Palalido e della prima elezione del sindaco Aldo Aniasi. L'Istituto nazionale previdenza sociale ha realizzato qui una cittadella del welfare (con oltre duemila addetti negli anni Ottanta) e sperimentato un modello di gestione interna (con mensa e servizi al personale): «Negli ultimi anni, tuttavia, il "Grande Transatlantico" di Gioia ha presentato problemi di efficienza energetica e utilizzo degli uffici». Conservare l'identità o razionalizzare gli spazi? Tradire il vecchio e inaugurare una stagione di cambiamenti? «Ci siamo fatti queste domande tre anni fa — spiega Musco — e abbiamo concordato sulla risposta». Bisognava fare gli scatoloni.

Il blocco direzionale di via Pola 9 (di proprietà di una società di assicurazioni) è stato individuato in fondo a una ricerca di mercato mirata: «Non potevamo abbandonare la zona di Garibaldi-Gioia — dice il direttore Musco —. Questa sede dell'agenzia è identificata con il quartiere, c'è quasi un vincolo di familiarità e consuetudini. Sarebbe stato un errore sradicare gli uffici e traslocare lontano da qui». Gli sportelli riaprono nell'edificio che fu utilizzato dalla Regione prima del Pirellone bis. Gli ambienti sono stati ristrutturati e riadattati. La reception è stata ridisegnata e «avvicinata» alle richieste degli utenti. Il settore medico-legale sarà riaperto subito, lunedì mattina: «Ci sono visite di invalidità civile e pensionabile già prenotate, il servizio all'utenza sarà garantito senza soluzione di continuità». Per ristabilire orari e funzioni generali servirà qualche giorno in più, una settimana, forse meno, la macchina Inps è un gigante che va trattato con delicatezza, nei database sono classificati passato, certezze, ansie e speranze di migliaia di milanesi.

Il monumento di cemento e vetro alla pensione, in via Melchiorre Gioia, sarà riqualificato dalla proprietà e rimesso sul mercato. Il Fondo d'investimento Carlyle ha organizzato un concorso architettonico (dieci gli studi invitati) e scelto il progetto (presentato dal francese Jean Michel Wilmotte) che dovrà rinnovare anima e aspetto del palazzo. Il Comune ha ricevuto l'esito di gara e risposto con un dossier di osservazioni e richieste di chiarimenti. Nei prossimi mesi si conoscerà il destino del Grande Transatlantico di Gioia, il grattacielo (ormai ex) Inps.

. Il manifesto, 15 novembre 2012

Gli stringono la mano, gli accarezzano la spalla, se lo coccolano mettendo in campo tutte le manifestazioni della socialità napoletana. Lui tiene su lo striscione della Fiom, tra gli operai di Pomigliano, quelli del no a Marchionne che tutti criticavano fino a quando la magistratura ha detto e ribadito che hanno ragione loro, è la Fiat ad aver torto. Chi è lui? «Uno di noi», grida l'indefettibile Ciro al megafono. Stefano Rodotà è la presenza più gradita al corteo.
Un serpentone che dalla Avio attraversa la zona industriale, fino a invadere il cuore di Pomigliano. Che ci fa qui un pilastro su cui si reggono diritto e legalità? «Sono qui - risponde - proprio perché sono un maniaco dei diritti». Pomigliano «è un luogo simbolo della lotta operaia che dilaga in tutt'Europa, un esempio per tutti», aggiunge il professore che sembra a suo agio ancor più che in un'aula universitaria. Dal rumoroso palco dove fino a mezz'ora prima il Gruppo operaio di Pomigliano d'Arco aveva riscaldato una piazza Primavera operaia, studentesca e popolare, Rodotà spiega che per stare davvero dalla parte dei diritti «non basta scrivere libri o articoli di giornale, bisogna stare insieme a chi si batte per difenderli», per sé e per tutte le persone. Perché «se una sola persona viene discriminata, è a rischio la libertà di tutti».

Lo stesso concetto viene coniugato in tutte le lingue, e non solo con accento napoletano. Qui a Pomigliano sono arrivate rappresentanze metalmeccaniche da tutt'Italia, dalle fabbriche Fiat di Melfi, Cassino, dall'Irisbus, dall'indotto Magneti Marelli - dove 850 lavoratori rischiano di essere cancellati e di aggiungersi agli oltre 2.600 tenuti fuori dalla newco di Pomigliano (Fip), vuoi per discriminazione sindacale vuoi perché Marchionne «è un imbroglione» e dei suoi piani, investimenti e modelli resta solo la cenere. L'ad Fiat ha imbrogliato tutti quelli disposti a farsi imbrogliare, in campo sindacale, politico, amministrativo. La dignità degli operai del no al ricatto padronale che fa sentire a casa sua Rodotà oggi sembra meno isolata, «la Fiom è un esempio perché ha scelto la strada della legalità che è un principio fondativo», insiste il professore. E Libera invia una lettera di adesione alla lotta della Fiom. C'è una legge del 2003 in Italia che impedisce la discriminazione e condanna chi la pratica. Marchionne ha discriminato gli iscritti alla Fiom e grazie a questa legge è stato condannato ad aprire a 145 di loro i cancelli. Non basta, anche la sua risposta basata sulla rappresaglia contro la Fiom e la magistratura è illegale, come recita l'art. 4B della stessa legge: metterne fuori degli altri, o gli stessi, come risposta arrogante all'ordinanza è vietato. Nel calcio, sarebbe fallo di reazione a cui l'arbitro fa seguire il cartellino rosso. La Fiom, ha annunciato il segretario Maurizio Landini tra gli applausi, ha già presentato un nuovo ricorso per chiedere di sanzionare l'eventuale espulsione di 19 dipendenti per lasciare il posto ai 19 della Fiom che l'ordinanza della Corte d'Appello ingiunge alla Fiat di assumere.
È un corteo ricco, composito, ben accolto dalla città vesuviana i cui negozianti non abbassano le serrande, i cui cittadini osservano con simpatia dai terrazzi e dalle finestre. Ci voleva, dopo due anni di solitudine operaia. Gli studenti sono tantissimi e rumorosi, hanno slogan creativi, petardi scoppiettanti e fumogeni rossi. «Pomigliano dal ricatto al riscatto», scandiscono mentre sul palco si canta «tu ti lamenti ma che ti lamenti/ pigghia lu bastuni e tira fora li denti». Ci sono delegazioni della Cgil bancari, della Filt, dei pensionati Spi. La Cgil in quanto tale, invece, non c'è: la confederazione ha scelto di manifestare a Napoli, in piazza del Gesù. Solidarietà alla Fiom va bene, ma senza esagerare. Questa volta con operai e studenti nella giornata dell'eurosciopero si fa vedere anche la politica con i big della sinistra. C'è il sindaco di Napoli De Magistris, salta fuori persino qualche bandiera tricolore del Pd.
La giornata era iniziata molto prima dell'alba con i picchetti alla Avio e all'Alenia, sotto lo striscione indirizzato agli aspiranti crumiri: «Entra, aiuta Marchionne a renderti schiavo». Ma qui non entra nessuno. Entrano invece alla Fip gli operai del sì, i 2146 prescelti dal capo, spremuti e ricattati dai team-leaders: «Se scioperi puoi diventare uno dei 19». Così i militanti della Fiom, che di responsabilità ne hanno da vendere, hanno evitato di fare presidi davanti alla Fip. Da dentro però, chi non ce la fa più telefona ai compagni discriminati: «Hanno addirittura riempito la fabbrica di monitor che trasmettono un telegiornale aziendale che chiede consenso e mette paura». Eccolo il sistema Marchionne, che ben conosce uno come Giovanni Barozzino, uno dei tre licenziati di Melfi che nonostante tre gradi di giudizio positivi sono tenuti a casa, pagati ma guai a presentarsi ai cancelli: «Come operaio non posso lavorare, come delegato Fiom non posso andare alla saletta sindacale perché il mio sindacato non è riconosciuto. L'unica cosa che mi rende simile agli altri operai è la cassa integrazione, tre settimane al mese su quattro».
Contro la paura si sfila a Pomigliano, e contro le politiche liberiste come nel resto dell'Europa. Al tentativo di scatenare una guerra tra poveri, Landini risponde con la solidarietà: ai lavoratori Fiat di Kragujevac, in Serbia, a cui per costruire i modelli sottratti a Mirafiori si impongono turni di 10 e anche 12 ore giornalieri. Persino agli operai del sì a Marchionne si rivolge fraternamente, e ai sindacati complici, Fim e Uilm, chiede di ripartire insieme, perché il piano Fabbrica Italia che era un imbroglio non esiste più, «dobbiamo chiederne uno nuovo, basato sulla solidarietà e sul rientro di tutti i lavoratori rimasti al di là dei cancelli». Sono gli stessi operai Fiom «ripescati» dalla giustizia a dire «non siamo qui per far rientrare 19 compagni, e neanche i 145 della Fiom ma tutti i 2600 tenuti fuori dal lavoro». Anche quelli che per salvare il lavoro hanno rinunciato ai diritti, e ora sono rimasti senza diritti e senza lavoro. E le cose non vanno meglio per chi è in Fip, con una Fiat in fuga dall'Italia e una politica finora assente. «Attenti», grida dal palco Landini, «o tornate a rappresentare il lavoro oppure si approfondirà il solco che divide la politica dalla gente. E in un paese, in un'Europa dove i tassi di disoccupazione sono ormai fuori controllo, c'è il rischio che venga meno la tenuta democratica». E' già successo nel Vecchio continente, quando la crisi e la disoccupazione hanno aperto la strada alle peggiori avventure autoritarie.

La Repubblica, 15 novembre 2012
Tenere insieme divisione e unità è un compito politico difficile, ma imprescindibile. A questo servono le regole democratiche, scritte e costituzionalizzate in previsione del disaccordo, non dell’armonia. La ricerca di costituire leadership democratiche passa attraverso la pratica del disaccordo e aspira a raggiungere un esito che benché unitario non è mai affossamento delle divisioni. Lo abbiamo appreso seguendo le recenti elezioni americane che, con sorpresa di molti osservatori stranieri, hanno rivelato al mondo un paese diviso eppure unito. Un mistero che di misterioso ha in effetti molto poco, se non il fatto che la divisione politica e ideologica è condizione per consentire la formazione di un’unità del potere di decisione. Chi meglio riesce in questo, conquista la leadership. Il sistema presidenziale e federale si adattano meglio a questa politica della concordia discordante rispetto a quello parlamentare, che è più pluralista e propenso a promuovere coalizioni invece che convergenze verticali intorno a un leader.

La leadership democratica nelle democrazie parlamentari segue altre logiche che non sono, o sono raramente, personalistiche (il Parlamento, scriveva Max Weber, soffoca il leader). Il nostro paese vive dunque una strana vicenda. Da un lato, è a tutti gli effetti una democrazia parlamentare. Dall’altro, uno dei suoi partiti più importanti ha deciso di adottare il sistema delle primarie per scegliere il candidato che dovrà rappresentarlo alle elezioni politiche, senza alcuna certezza che questa leadership diventi poi leadeship di governo poiché la maggioranza parlamentare va costruita con alleanze e il nome di chi guiderà il governo è parte della trattativa per la costruzione dell’alleanza. Quindi, perché le primarie?

La scelta delle primarie è stata dettata dall’esigenza di rispondere allo stato di dissoluzione dei partiti politici nel nostro paese, di cercare una via d’uscita al discredito della politica. In Italia le primarie servono meno a selezionare il leader che dovrà governare che a tenere alta l’attenzione dei cittadini nei confronti della politica e a ridare ossigeno ai partiti. Diciamo che da noi l’uso delle primarie è improprio. Se la strada sia giusta non lo sappiamo ancora; non sappiamo se intensificare le divisioni interne al partito sia una buona strategia per preparare una leadership unitaria per il paese.

La specificità della nostra situazione comporta far fare alla leadership un lavoro più difficile di quello delle primarie americane perché non sostenuto da una struttura istituzionale e, quindi, solo basato sulla volontà dei concorrenti (per esempio, la promessa di accettare il verdetto delle primarie e non correre in caso di sconfitta è, e resterà fatalmente, solo una promessa). Inoltre, l’Italia non ha nella sua storia modelli a cui riferirsi che combinino insieme leadership personale e democrazia. Il potere del leader personale fa parte della storia fascista. L’età parlamentare ha cercato di ovviare il problema della leadership personale creando leader collettivi, ovvero i partiti politici.

La combinazione di leader personale e democrazia è stata per la prima volta tentata da Berlusconi. Ma quel che ci ha lasciato l’era berlusconiana è un modello di leader da evitare se le primarie devono svolgere il compito di rinascita della politica. Il modello berlusconiano ha macinato personalismo più che leadership democratica, generato divisioni artificiose per esigenza di spettacolo, con l’attenzione rivolta a fare audience più che a rappresentare i problemi reali della società e a costruire una maggioranza che operasse onestamente, e per il bene del paese.
La leadership democratica nell’età delle primarie per scopo di rigenerazione della politica è, dunque, una realtà molto complessa e tutta sperimentale. Le primarie del Pd possono essere un segno di coraggio o avere un esito disastroso se si ridurranno a essere solo un mezzo per buttare nell’arena politica nuovi protagonisti o protagoniste. Il moto plebiscitario che generano potrebbe riuscire a ridare vigore alla politica ma potrebbe ricreare la sindrome berlusconiana della democrazia dell’audience. Non ci si deve nascondere questi rischi e queste difficoltà. Perché i rischi siano minimizzati è importante che i candidati imparino in fretta l’arte di tenere insieme divisione e unità. Un’arte difficile anche perché veniamo da due decenni in cui abbiamo appreso solo l’arte di opporci e contrapporci. Il candidato delle primarie del Pd potrà capitalizzare consenso a partire dalle differenze se saprà stemperare le divisioni esistenti tra i suoi elettori evitando di farne fazioni corrosive e belligeranti. Arte difficile, anche perché per vincere occorre che le divisioni vengano esaltate. Eppure, se la ricomposizione delle divisioni è l’obiettivo (l’unità del partito), la leadership democratica via primarie dovrà coltivare fin da ora l’aspirazione a una riconciliazione futura delle differenze di oggi. E per riuscirci i suoi candidati dovranno aver cura fin da ora di usare prudentemente l’animosità che la competizione richiede e stimola: per non farla tracimare e per impedire che alimenti antipatie profonde; per evitare che le differenze e le divisioni siano di ostacolo all’unità.

Parole e indicazioni giuste. Ma nessuno ricorda che il territorio è un sistema in cui tutte le parti (suolo acqua boschi e coltivi, case e scuole, fabbriche e strade, ferrovie e ospedali) interagiscono, e solo adottando un metodo sistemico (la pianificazione) si può governarlo con equità ed efficacia. La Repubblica, 15 novembre 2012

Nelle Langhe, tutte le volte che pioveva molto, e per alcuni giorni di fila, si diceva che i contadini iniziassero a “portare l’acqua a spasso”. Sulle colline e su qualsiasi altro terreno in pendenza gli agricoltori, armati di zappa, scavavano stretti e lunghi solchi pieni di curve: così aiutavano l’acqua a “camminare” per un po’ prima che scendesse a valle. Una precauzione perché non acquisisse forza distruttiva, sia per le coltivazioni sia, a valanga e nei casi più gravi, per le costruzioni.
Torna questo frammento di memoria, che tanti anni fa sembrava più che altro un racconto colorito riferito alla civiltà contadina, ogni volta che in Italia un territorio va sott’acqua o un fiume esonda portando danni, tristezza e purtroppo morte. E viene da pensarci sempre più spesso, perché capita regolarmente ogni autunno da un po’ di anni a questa parte, e molte volte anche a fine inverno. Per curiosità, basta controllare l’elenco delle alluvioni di una certa importanza avvenute in Italia, che si trova facilmente su internet.
Salta subito all’occhio come i fenomeni gravi in termini di danni materiali e di vite umane si siano molto intensificati a partire dal secondo dopo-guerra. Guardando quell’elenco, poi, si capisce che l’Italia è da sempre un Paese naturalmente soggetto a questi eventi, ma una tale escalation non è spiegabile se non con una riflessione riguardante la nostra cura per il territorio e i luoghi in cui viviamo.
Sarebbe forse troppo facile — ma anche poco serio senza un adeguato supporto scientifico — chiamare in causa il cambiamento climatico, anche perché i disastri legati al meteo si sono moltiplicati in tutto il mondo. Sicuramente qualcosa sta mutando nella prevedibilità e nella frequenza di fenomeni atmosferici eccezionali, è evidente, ma se guardiamo a come abbiamo trattato il nostro Paese negli ultimi due secoli, e maggiormente negli ultimi sessant’anni, non si può non pensare che siamo stati incauti, se non scellerati, nel depredarlo, abbandonarlo, coprirlo di cemento, nel costruire senza criteri preventivi rispetto a cataclismi cui ormai dovremmo essere un po’ abituati, e anche preparati, da almeno qualche centinaio di anni.
Non ci vuole un genio per capire certe cause e non ci vorrebbe neanche un genio della politica per cercare di correre subito ai ripari. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio italiano dovrebbe essere la priorità di qualsiasi governo, dovrebbe essere in qualsiasi programma elettorale, dovrebbe mettere d’accordo tutte le forze politiche. E invece no. Ogni autunno bisogna ricordare, di fronte a questi drammi, chi “portava l’acqua a spasso”.
Parlare di civiltà agricola del passato non è irrispettoso, non è un caso o un esercizio trito da maniaci delle contadinerie. Studi storici ci spiegano che su un territorio geomorfologicamente fragile come il nostro abbiamo iniziato un paio di secoli fa con il disboscamento a tappeto delle aree collinari e montane. Questo ha peggiorato molto la sicurezza dei terreni e reso più pericoloso il deflusso delle acque, ma quanto meno si era fatto spazio a un’agricoltura che era pur costretta a prendersi cura del territorio in maniera capillare e sistematica. Il tutto su base locale ma con una sapienza che quando in casi eccezionali doveva lamentare danni e perdite, almeno poteva inveire a ragione contro la malasorte, perché si era fatto tutto il possibile per prevenire.

Poi, con l’avvento dell’era industriale, l’inizio dell’irreparabile: prima l’abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l’agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate “arretrate” hanno visto arrivare il deserto umano, l’incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi. Non smetto di ricordare ciò che ha detto una volta Tonino Guerra: «L’Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c’era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l’abitavano: i contadini». Con l’abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un’altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare “naturali”. Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com’è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent’anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni. Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.

Continuando con la storia, invece, l’abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un’agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c’è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.

Quasi nessuno si prende più cura dell’Italia. Legambiente ha stimato nel 2010 che l’82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, in cinque Regioni siamo al 100%. Nemmeno lo Stato, che potrebbe fare tanto, fa il suo mentre insegue testardamente “grandi opere” che ormai suonano sempre più come una presa in giro. Non si può non urlare la richiesta di un piano serio e moderno di messa in sicurezza del territorio nazionale. Piano che agisca a livello locale non soltanto con opere minime e semplici (ma queste sì, grandi) di cura e manutenzione: anche attraverso la tutela dei suoli fertili e la rimessa in produzione di quelli compromessi (con forme di neo-agricoltura per l’industria, come coltivazioni per bioplastica in terreni inquinati). Oppure attraverso gli incentivi per un ritorno alla campagna da parte delle nuove generazioni e un premio a chi, attraverso l’attività agricola, serve ancora la Nazione con quei lavori che sanno “portare a spasso l’acqua”. Questa è vera modernità, questo è ciò di cui si parla veramente quando si parla di paesaggio, di agricoltura sostenibile o di economia locale. Non è poesia o nostalgia. Sono cose che genererebbero più occupazione e Pil di quanto non ne facciano i disastri. Perché è terribile dirlo — e non è un caso che ci sia chi è stato colto a gioire e ridere per un terremoto — ma un disastro “innaturale” fa quote di Pil attraverso la ricostruzione o magari anche con forme di assicurazione privata che ora, guarda caso, alcuni vorrebbero obbligatorie per tutti.

. La Repubblica, 14 novembre 2012

MOLTO presto si è capito, guardando il dibattito tra i candidati alle primarie del centrosinistra, che qualcosa di essenziale mancava.Che il palcoscenico occupato dagli attori era simile a una sfera, di cui potevi ammirare o non ammirare la superficie, ma privata di centro. Non abbiamo contemplato il vuoto. Non era assente la voglia di fare politica: anche se voglia parecchio neghittosa, perché restituire alla politica l’importanza perduta implicherebbe riconoscere peccati di omissione non indifferenti, passati e presenti. La bussola c’era, nella sua sferica forma: quel che l’occhio non percepiva era il perno che fissa l’ago magnetico, e che gli dà la sua linea di forza.

Cosa dovrebbe esserci, al centro di uno schieramento che dice di battersi per una sinistra progressista? Per forza una tradizione, una storia, un tempio, meglio ancora un Pantheon che contiene le tombe dei propri uomini illustri. L’ago magnetico non può che partire da lì, altrimenti si muove impazzito in ogni sorta di direzione, senza mai segnalare con chiarezza il Nord. Quando il centro è ovunque e da nessuna parte, sostituito dalle persone che parlano agli elettori (la persona Bersani, o Vendola, o Renzi, o Tabacci, o Puppato) vuol dire che dietro la loro divina genialità — la loro maschera — non esistono genealogie né memoria storica di sé.

Il momento rivelatore di questa perdita del centro è stato quello in cui i cinque candidati hanno elencato i loro monumenti ideali, gli uomini illustri del loro Pantheon, individuale o collettivo. Alcuni erano grandiosi: Papa Giovanni ad esempio, indicato da Luigi Bersani come un uomo che seppe operare «cambiamenti profondi, ma sempre rassicurando», mai seminando spavento. O il cardinale Martini, nominato come stella polare da Nichi Vendola. Due uomini di chiesa, cui si sono aggiunte personalità care a Renzi come Nelson Mandela e Lina, la famosa blogger tunisina.

Del tutto eclissati, nella più sorprendente delle maniere, sono d’un colpo gli uomini che della sinistra sono i veri padri fondatori, i veri aghi della bussola: compresi i padri che si sono aggiunti man mano che il progressismo italiano, senza dirlo ma nei fatti, ha cominciato una sua nuova strada, non più rivoluzionaria ma socialdemocratica. Due ecclesiastici, un eroe della lotta anti-apartheid, un blogger: è bello, ma somiglia molto a una decerebrazione. I centri nervosi del cervello vengono separati dai centri posti inferiormente, scrivono i bollettini medici: il lobotomizzato perde la capacità di movimenti volontari anche se riesce a mantenere la posizione eretta. È come se ci si vergognasse di dichiararsi eredi. Di avere alle spalle un testamento, dunque un’alleanza. Magari i candidati dicono perfino qualcosa di sinistra, ma questo qualcosa è piatto, non ha radici, fluttua come foglia sulle acque, si fa volutamente piccolo e insignificante. Come Bersani quando ha ammesso, qualche settimana fa: «Abbiamo qualche difettuccio, ma di meglio in giro non c’è».

Tutto questo è strano e inedito, se lo paragoniamo alla coscienza di sé che le sinistre hanno generalmente in Europa. Anche quando tradiscono. Soprattutto quando tradiscono. In Germania il pensiero della sinistra, e anche dei Verdi, va automaticamente a lanterne come Willy Brandt, o a resistenti come Kurt Schumacher. In Francia ci si divide su Mitterrand, ma tanto più vivo è l’attaccamento a Léon Blum e al suo Fronte popolare, o a Jean Jaurès, o al fondatore della scuola laica che fu Jules Ferry. Non così in Italia, anche se di figure memorabili ne abbiamo anche noi.

Berlinguer ad esempio: perché Bersani, figlio del Pci, salta un dirigente che vide con acume e sgomento, nell’81 parlando con Eugenio Scalfari, la trappola del consociativismo e del compromesso storico da lui stesso congegnata? «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali».

Fu un grido di rivolta contro il proprio partito, un presentimento di possibili vie d’uscita. Un grido tuttora inascoltato, se solo consideriamo l’atteggiamento corrivo che i suoi eredi hanno avuto per quasi vent’anni verso Berlusconi. Il modello, sconfessato o tradito, si fa imbarazzante. Da questo punto di vista Bruno Tabacci è apparso il più libero di complessi: i suoi esempi — De Gasperi innanzitutto, su Marcora i dubbi sono leciti — hanno radici inconfutabili nella storia del cattolicesimo politico italiano.

Imbarazzo e vergogna di sé (anche Vendola ne è affetto) spiegano l’omissione di altri antenati, che assieme alla sinistra hanno lottato contro le degenerazioni economiche e le corruttele italiane: non appartenenti al Pci ma a formazioni come il Partito d’Azione o il socialismo. Sono tanti. Ma quando si perde il centro precipitano nell’oblio le vette di preveggenza e saggezza che furono Piero Calamandrei, Vittorio Foa, Federico Caffè, Sylos Labini. O, fortunatamente citata da Laura Puppato: Tina Anselmi, cancellata perché fece piena luce, troppa probabilmente, sulle trame della P2. Data addirittura per defunta dal giornalista Vittorio Feltri, recentemente davanti a una platea televisiva muta, egualmente decerebrata. In Italia evidentemente si muore anche da vivi. È la nostra specialità cinica e crudele. Leopardi la chiamava la nostra incompatibilità con gli slanci, i dolori, le speranze delle epoche romantiche vissute da altre nazioni europee.

Nel Pantheon sostitutivo ci sono due stranieri, come Mandela e la blogger Lina Ben Mhenni. Anche questo è bello e nobile, perché ci fa uscire dalla provincia. Ma la sinistra quando esce dalla provincia percorre grandi distanze, ha sogni di esotismo, e in questo Renzi è apparso più di altri vecchio. Se avesse citato Che Guevara sarebbe stato la stessa cosa. Perdere il centro vuol dire non far spazio all’Europa, e correre molto lontano restando qui, inchiodati dentro casa e nel presente. Vuol dire lasciare nel buio personaggi come Albert Camus, subito europeista dopo la guerra. O William Beveridge, ideatore di un piano del Welfare che dall’Inghilterra trasmigrò presto nel continente liberato: era un liberale profondamente influenzato dal socialismo della Fabian society, e militò con convinzione per l’unificazione dell’Europa. Beveridge è punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia resuscitare lo spirito di Ventotene

(Vendola l’ha evocato, dunque vorrebbe forse riesumarlo) sapendo che l’idea d’Europa nacque in piena guerra fratricida dando al futuro tre obiettivi fondamentali: la federazione del continente, la democrazia, e lo Stato sociale. Infine mancano riferimenti laici, accanto a quelli religiosi: come Ernesto Rossi, collocato oggi in un Pantheon per pochi aficionados, nonostante l’attualità delle sue battaglie europeiste e laiche. Assenti anche i martiri dell’antimafia, e tanti altri che non enumero solo perché lo spazio non basta.

Perdere il centro non significa naturalmente perdere le elezioni. Ma perdere la bussola sì, e con essa la memoria e la capacità di cercare, se non trovare, il Nord. Significa entrare nel futuro con tali e tanti complessi, tali e tante cautele, che il passo si fa claudicante. Mai spavaldo, come in chi discende da una lunga storia e pur facendo i conti con essa non si sente obbligato a dimenticarla.

A fronte dei disastri dell'urbanizzazione scema, uno dei tanti motivi per cui non costruire ovunque è un nuovo modello socioeconomico, oggi. La Repubblica Milano, 14 novembre 2012 (f.b.)

Il CHILOMETRO zero funziona. Cresce il fatturato, sale l’occupazione e aumenta anche la percezione di un fenomeno in grado di rilanciare il settore agroalimentare. Nonostante la crisi, in Lombardia il 56 per cento delle aziende aderenti al progetto Campagna Amica della Coldiretti dichiara un fatturato in crescita, il 39 per cento è stabile e solo il 5 per cento perde soldi. Un miracolo, in tempi come questi, a cui se ne aggiunge un altro: la crescita dell’occupazione. I lavoratori impiegati in questo settore nel 2010 erano 505, nel 2011 sono saliti a 894 e a ottobre di quest’anno sono arrivati a quota 1.100.
Vendere direttamente al consumatore — bypassando la filiera della distribuzione che comporta prima di tutto un aumento del prezzo per il cliente finale — sembra essere un affare. E chi lavora bene la crisi non la sente. Dal 2008 le aperture di farmer’s market aderenti alla rete sono in crescita costante e i nuovi punti vendita saltano fuori come funghi: dal 2010 al 2011 sono cresciuti del 77 per cento, mentre dal 2011 al 2012 del 32 per cento.

Questi dati sono ancora più significativi se messi a confronto con altri settori. Secondo i dati della Coldiretti, dal 2009 il commercio è in grande sofferenza, con una punta negativa fra il 2011 e il 2012 quando ha fatto registrare un calo complessivo del fatturato intorno al 24 per cento. Per questo l’agroalimentare a chilometro zero con i suoi grafici in salita si candida a essere uno dei settori trainanti dell’economia locale. Ettore Prandini, presidente della Coldiretti Lombardia, lo spiega con un aneddoto: «Qualche giorno fa ho incontrato uno studente della Bocconi vicino alla laurea. Mi ha raccontato che dopo aver discusso la tesi, sarebbe andato in Val Brembana per aprire un agriturismo e un allevamento con un punto vendita di prodotti alimentari. Ecco, una cosa del genere fino a qualche anno fa era impensabile: oggi è un’idea vincente». Se un giovane bocconiano decide di investire tempo e conoscenze economiche in questo modo significa che è un settore di successo. Ma probabilmente c’entra anche la crisi. «Il disastro che ha colpito l’economia mondiale — aggiunge Prandini — ci ha fatto riscoprire i valori del lavoro agricolo. Forse tutto questo potrà esserci di ispirazione per cambiare le nostre abitudini ed essere una guida per le nuove generazioni».

Recensione all’ultimo libro di Andrea Boitani: infrastrutture funzionanti non vuol dire solo opere, ma soprattutto efficienza di gestione. L’Huffington Post, 13 novembre 2012 (f.b.)
Martedì 20 novembre, alle ore 18.30, presso la sede dell'Istituto della Enciclopedia Italiana, in Piazza della Enciclopediia Italiana 4, Giuliano Amato, Luigi Grillo e Corrado Passera presenteranno il libro di Andrea Boitani "I trasporti del nostro scontento", Il Mulino. E' una buona occasione per fare il punto su un settore così cruciale per l'efficienza e la produttività dell'intero sistema economico nazionale.

Il libro di Andrea Boitani, inserito nella collana de Lavoce.info, costituisce una utile guida ragionata per leggere le criticità industriali e le arretratezze endemiche che caratterizzano il modello organizzativo dei servizi di trasporto e delle reti di infrastrutture in Italia. Il ricorso nel titolo alla frase shakespeariana del Riccardo III è spiegato con la percezione di eccessiva onerosità del trasporti, sia per i costi individuali sia per i costi collettivi.

Nei trasporti pubblici i clienti sono stati per decenni abituati a pagare poco per le prestazioni, mentre i soggetti che ne sopportavano l'effettivo costo (le finanze pubbliche ed i contribuenti) non sono mai stati in grado di esercitare quel necessario controllo, funzionale a stimolare l'efficienza da parte degli operatori. Nei trasporti privati lo scontento è derivato soprattutto dai costi di congestione, che tutti noi sopportiamo.

il conservatorismo fiscale che caratterizza il sistema nazionale nei trasporti è consistito nel saldare l'elevata incidenza delle accise sui carburanti con i sussidi alle imprese pubbliche, mentre invece non si sono intraprese strade più innovative che altri Paesi hanno seguito, per modulare le preferenze dei consumatori attraverso strumenti di regolazione del traffico che rendano costoso l'utilizzo delle infrastrutture congestionate, mediante meccanismi di congestion charge.

Politiche urbanistiche e scelte trasportistiche non hanno fatto parte di un sistema coordinato di interventi, per cui le reti ed i servizi di trasporto urbano hanno inseguito la tumultuosa trasformazione degli insediamenti abitativi e commerciali, determinando un disallineamento tra trasformazioni nella domanda di mobilità ed assetto della pianificazione delle soluzioni trasportistiche.

Mentre proseguiva, ed ancora prosegue, la litania sui divari infrastrutturali dell'Italia rispetto agli altri Paesi, non ci è interrogati a sufficienza sulle reali priorità per superare i colli di bottiglia e sui meccanismi inceppati nella macchina attuativa, che hanno condotto a tempi di realizzazione ed a costi delle opere infrastrutturali sideralmente distanti dalle migliori pratiche europee.

Per realizzare una linea metropolitana a Madrid si è andati al ritmo di 1 km al mese, mentre a Roma ci si impiega poco meno di un anno. Il ricorso a metodi e tecniche di valutazione nella selezione degli investimenti costituisce prassi ordinaria a livello internazionale, mentre tale cultura in Italia stenta ancora ad affermarsi nella pratica. Analisi di sensitività ed analisi del rischio sono fattori assolutamente cruciali, ancor più importanti in una fase come quella attuale, caratterizzata da una minore disponibilità di risorse pubbliche per effetto della crisi fiscale degli Stati.

Peraltro, il mutamento nella struttura industriale richiede, per il trasporto merci, investimenti di qualità radicalmente diversa rispetto ai decenni passati: serve più tecnologia, e meno cemento. Conta più l'efficienza del sistema logistico complessivo, rispetto alll'ennesimo elenco di grandi opere da realizzare, che serve solo a fornire una consolatoria visione di un futuro migliore, tale poi forse solo per gli interessi dei costruttori, piuttosto che non per i cittadini e per le imprese che richiedono servizi di trasporto più efficienti e performanti.

Mentre la discussione pubblica si concentra sulle infrastrutture da realizzare, poco si è fatto sul fronte della efficienza nei servizi. A cosa serve effettuare i dragaggi dei fondali per i porti italiani, sino a quando un container resta fermo nel porto di Genova mediamente 9 giorni rispetto ai 3 di Rotterdam ? Fare efficienza sul versante dei servizi implica anche un uso responsabile delle politiche pubbliche, assumendo decisioni che a prima vista possono sembrare impopolari, come la congestion charge estesa con l'Area C a Milano e l'estensione della zona a traffico limitato, recentemente decisa da Firenze.

Politiche pubbliche rigorose e maggiore controllo di efficienza nella erogazione dei servizi pubblici sono due facce della stessa medaglia, entrambe indispensabili per introdurre elementi di discontinuità e di modernizzazione nel sistema nazionale dei trasporti, soprattutto nelle grandi aree metropolitane, che pagano oggi un prezzo maggiore alla congestione.

La concorrenza nella erogazione dei servizi pubblici è lo strumento che serve ad introdurre stimoli verso l'efficienza, che altrimenti sono difficilmente praticabili in un settore ad alta intensità di conflittualità come quello dei trasporti. Il costo di produzione dei servizi pubblici italiani di trasporto è più elevato della media europea: in uno scenario di risorse pubbliche decrescenti per i corrispettivi degli obblighi di servizio, non può esistere solo la possibilità di ridurre il volume dei servizi ai cittadini, deve essere praticata anche la strada di aumentare l'efficienza nella produzione.

La produttività di settore è in Italia inferiore del 20% alla media europea. Recuperare almeno in parte questo gap è assolutamente indispensabile. Per farlo, le regole di concorrenza per il mercato sono uno strumento efficace. Negli ultimi decenni l'esperienza italiana è davvero poco edificante: in generale sono stati preservati gli affidamenti diretti alle aziende pubbliche, e quelle poche gare che sono state realizzate hanno introdotto barriere di accesso che ne hanno fortemente limitato l'efficacia.

Anche la mancata applicazione del meccanismo di price cap per la determinazione delle tariffe, previsto dalla legge 422 del 1997, e mai in pratica attuato, ha allontanato il percorso di modernizzazione, in quanto ha lasciato alla discrezionalità politica la decisione sui prezzi del trasporto, offrendo elevati grado di aleatorietà agli operatori economici e determinando poi salti temporali nelle tariffe che sono anche difficili da capire per i consumatori.

Insomma, qualità nel processo decisionale delle istituzioni pubbliche, utilizzo degli strumenti di valutazione economica ed introduzione di enzimi di concorrenza sono le basi per poter costruire nel tempo un sistema dei trasporti più sostenibile e maggiormente in grado di offrire ai cittadini soluzioni alla congestione ed alle difficoltà di mobilità che ciascuno di noi incontra ogni giorno.

Comunicazione al convegno :“Il tramonto dell’Occidente”, Cagliari 9/10/11 novembre 2012

Il legame tra “tutela del paesaggio” e “progetto della decrescita” può essere molto stretto (intuitivo, persino banale) nella sua accezione fisica: il paesaggio lo si difende innanzitutto facendo un uso rispettoso e accorto del suolo, programmando un “minor consumo del territorio” - come recita anche il Codice dei beni culturali e come si prefigge il nuovo DDL Monti-Catania. La decrescita, dal canto suo, è anzitutto la diminuzione dell’impronta ecologica delle attività antropiche. Tra paesaggio ed ecologia ci sono legami ancora più profondi e fecondi. Infatti, la nozione di paesaggio ci aiuta a capire che:
1. natura e cultura sono inseparabili (sfidando qualche secolo di cultura illuministica, di ibris tecnoscientifica e di delirio di onnipotenza della tecno-economia) (Marchetti);
2. i “beni comuni”, quelli necessari ad un vivere dignitoso, sono correlati e concatenati (sfidando le separatezze dei saperi specialistici e delle discipline accademiche codificate) (Piero Bevilacqua);
3. i processi di cambiamento hanno bisogno anche di una presa di “coscienza di luogo” (oltre che di classe, di genere, di generazione…) soggettiva e collettiva (sfidando due secoli di appartenenze politiche a “una dimensione”) (Magnaghi).

Il paesaggio: dove tutto si tiene

Per capire la nozione di paesaggio prendo a prestito la famosa metafora di John Ruskin (“Il paesaggio è il volto amato della patria”), aggiornandola così: il paesaggio è il volto di una comunità ecologica, l’immagine di un sistema vivente in cui tutte le componenti antropiche e naturali, presenti e passate, sono poste in relazione (compreso l’osservatore, che ne fa parte integrante). Come scrive Tiziana Banini: il paesaggio è “l’espressione visibile dell’interazione unica e irrepetibile tra uomo e ambiente” (Banini).

In un paesaggio c’è quindi qualcosa che va oltre la somma delle sue singole, complesse, infinite componenti fisiche e storiche; c’è “un di più” inconoscibile con i soli strumenti di indagine analitico-descrittivi di tipo “scientifico”.

Il paesaggio non è un “ammasso di frammenti” (Consonni), non è fatto solo di “tutte le cose che vi si radunano”, ma anche “di tutte le idee con le quali vengono lette”, ordinate, vissute (Luciani). Per comprendere il senso di un paesaggio non bastano tutti gli specialisti di tutte le discipline, serve una “attitudine dialogica”. Uno sguardo d’insieme. Serve “una razionalità sensibile e una ragione cordiale”, per dirla con Leonardo Boff.

La realtà che vediamo attraverso uno sguardo paesistico va oltre la sua evidenza fisica. E’ una immagine di una località che provoca emozioni, crea legami sentimentali, evoca ricordi di esperienze. Un paesaggio può essere bello o squallido, amichevole od ostile: gradevole, rasserenante, facilitare la socievolezza, oppure al contrario può apparire inospitale, provocare disagio psicologico, insicurezza, disgusto, “turbamento, dolore, rabbia”, per usare le parole di Pasolini di fronte alle offese al comune “senso estetico” inferte dalla cementificazione attorno alle città antiche.

Il laboratorio della scuola dei territorialisti di Alberto Magnaghi sta facendo esperienze davvero straordinarie (Associazione Eco Filosofica, 2009) con la costruzione partecipata delle “mappe di comunità e paesaggio”, attraverso le quali avviene una autorappresentazione dei luoghi da parte degli abitanti.

Le persone che popolano (abitano o visitano) quel luogo sono collocate all’interno di quello stesso spazio, ne fanno parte. Sono allo stesso tempo soggetti osservatori e oggetti condizionati dal contesto.

Il paesaggio non è quindi, una “cartolina”, un “Belvedere”, un “cono visivo” (con un determinato angolo prospettico, come recitano i Piani paesaggistici regionali), ma un “paesaggio-ambiente-territorio” (Settis), un “paesaggio-luogo” (Bonesio, 2007) in cui le dimensioni fisiche, ambientali, storiche, culturali, estetiche formano un unicum inseparabile.

L’azione mentale che ci permette di vedere e riconoscere le cose che ci stanno intorno e che ci fa percepire un paesaggio come amichevole od ostile, confortevole o stressante, piacevole o alienante… è un procedimento cognitivo principalmente di tipo estetico. La realtà (per quanto complessa, articolata, sfaccettata…) ci appare a noi sempre all’inizio come un “unicum”.

Per riuscire a comprenderlo, è necessario possedere una capacità di lettura e una apertura mentale tale da riuscire ad elaborare una visione d’insieme, nella sua “totalità estetica” (Farinelli) e farci così esclamare: “che bello! Mi piace”. Oppure: “che orrore! Dio me ne scampi”.

Jane Adams (femminista, premio Nobel per la Pace, fondatrice della Hull House di Chicago) ebbe a dire che ci sono casi di “contagio emotivo unito alla socievolezza” che nascono dal nostro innato “senso estetico” e che, per esempio, “ci spingono a chiamare alla finestra tutti coloro che si trovano in casa quando compare una processione per la strada o un arcobaleno nel cielo”. “Le esperienze fondamentali della vita umana” in grado di suscitare sensazioni di appartenenza sono “il rapporto con la terra e la natura, il sentimento religioso, l’amore”.

Nel paesaggio c’è forse anche qualcosa che va oltre lo stesso senso estetico. Ciò che è stato chiamato il “genius loci”, l’identità profonda dei luoghi, il loro carattere speciale e singolare, il loro “temperamento” e “personalità” che riescono ad essere percepiti dalle popolazioni insediate, dalle comunità che li abitano e, persino, dai visitatori occasionali.

Vi sono “connessioni sottili che attraversano natura e paesaggi che si estendono dal sensibile al sovrasensibile” (Scroccaro, 2007). Il “genius loci” appartenente ad una dimensione simbolica, metafisica e spirituale. (Per quanto abbia sempre inevitabilmente bisogno di essere ben supportato da determinate strutture fisiche). Il paesaggio è attraversato dal “soffio della vita”.

Se vogliamo essere più prosaici, se temiamo di essere fraintesi con l’esoterico e lo spiritualismo, possiamo allora prendere le parole della splendida sentenza della Corte Costituzionale (n.378 del 2007): “L’ambiente è un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende la tutela e la salvaguardia della qualità e degli equilibri delle sue singole componenti”.

Questi valori devono però essere percepiti e riconosciuti. “Il luogo non esiste per sé, ma solo se viene riconosciuto dalla comunità che lo popola” (Daniela Poli cit. da Luisa Bonesio in La sobrietà come stile di vita e valore identitario).

Se questo processo di riconoscimento e di identificazione (soggettivazione) con i luoghi non avviene, non si crea nemmeno quel rispetto per i territori di appartenenza, unica vera condizione di base per una loro salvaguardia, preservazione e presa in cura. Almeno che non si creda che l’opera di salvataggio del paesaggio, della natura, dei beni culturali sia una partita riservata a pochi eroici sovraintendenti statali, da una parte, contro i perfidi immobiliaristi cementificatori e speculatori, dall’altra. Il riconoscimento giuridico, costituzionale del paesaggio è destinato a rimanere lettera morta se i suoi valori non entrano nella cultura delle popolazioni insediate. I vandali sono in casa nostra, scriveva Antonio Cederna (“Vandali in casa”). I vandali siamo noi.

Scrive Scroccaro: “L’esperienza del ‘rispetto’ è un ingrediente indispensabile di una pratica rivolta alla cura del paesaggio; correlativamente, la carenza di sensibilità paesaggistica si inscrive nella più generale incapacità di praticare il rispetto nei confronti del mondo naturale e culturale. A questo proposito, prendiamo a prestito da Hillman (James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, 2002 p.55-56) l’espressione ‘ottundimento psichico’ per indicare l’anestesia disorientante che predomina attualmente” (Scroccaro, p.139). La dissoluzione dei luoghi procede di apri apsso con la “spoliazione del corpo” (Toesca), con la “morte del prossimo” (Luigi Zoia), con la perdita della soggettività individuale e delle relazioni affettive ed etiche con gli altri.

La perdita della capacità di riconoscere l’identità dei luoghi (l’indifferenza) non è diversa dall’incapacità di riconoscere se stessi come individui sociali. La distruzione dei luoghi non è un incidente, un eccesso di voracità di qualcuno, ma un obiettivo intrinseco del sistema economico dominate: recidere le relazioni tra l’individuo, l’ambiente, gli altri da se. Costringendo l’individuo nella sola dimensione produttiva/consumistica. Spaesamento, sradicamento sono effetti coerenti di una logica di dominio volta ad annichilire l’individuo. Così il territorio, spogliato dal paesaggio, sterilizzati i “genī loci”, diventa strumento neutro del potere economico, liberamente cartografabile, per esercitare il “terrere” sui sudditi, tracciare confini ed erigere enclousers dentro cui segregare i propri sudditi.

Scrive Magnaghi che la “coscienza di luogo” è la “capacità di riacquisizione dello sguardo sul luogo come valore, ricchezza, relazione potenziale tra individuo, società locale e produzione di ricchezza. Un percorso da individuale a collettivo in cui l’elemento caratterizzante è la ricostruzione di elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali”.

La mia tesi, quindi, è che i veri progressisti, la sinistra sociale autentica, non debbano temere di rivendicare per tutti (ricchi e poveri, acculturati o selvaggi…) il diritto di coltivare ed esercitare il senso artistico, di partecipare al godimento estetico (contemplativo), di curare il proprio benessere culturale e spirituale e di pretendere la bellezza: cioè un ordine delle cose armonioso, equilibrato, confortevole, realizzante, socializzante.

Spesso si teme di chiedere troppo. Si dice che la pancia viene prima della mente e la mente prima del cuore. Ed è un errore e una trappola fatale. (Edgar Morin non smette di ricordarcelo: siamo animali al 100% razionali e al 100% sentimentali). E’ proprio questo errore che il paradigma del paesaggio ci insegna a non commettere. Ogni scissione e gerarchizzazione dei bisogni, rompe l’interezza della natura umana e fa degli individui dei pezzi subalterni di un ingranaggio fuori dal loro controllo.

Produttori in fabbrica, consumatori al supermercato, abitanti-residenti a casa, turisti amanti del paesaggio in vacanza, cittadini alle elezioni… La vita si segmenta e perdiamo il suo senso.

“Reclamiamo il progresso della bellezza delle città e dei paesaggi, il progresso della purezza delle falde freatiche che forniscono l’acqua potabile, della trasparenza dei corsi d’acqua e della salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell’aria che respiriamo, del sapore degli alimenti (…) La diminuzione della pressione eccessiva del modo di funzionamento occidentale sulla biosfera è una esigenza di buon senso e nello stesso tempo una condizione di giustizia sociale” (Latouche).

Acqua, vento, sole, prima di essere turbine, pale eoliche, pannelli solari, sono fragranza, profumi, luce.

Il paesaggio oggi

Ogni paese ha il paesaggio che si merita (Settis).

Non ci sono discordanze sul giudizio da dare sui processi di “megalopolizzazione” in corso, che sono stati variamente definiti:, “enlarged city”, “campagna urbanizzata” (Giacomo Becattini), “urban sprawl” (Salzano), città diffusa, infinita, espansa, dilatata, sparpagliata…“Metroregione policentrica in rete” (Ernst Bloch, in: M.Davis), “Sistema urbano polinucleare” (Aldo Bonomi)…

I guasti prodotti da questo “non-modello” di urbanizzazione (“losangelizzazione”) sono stati straordinariamente descritti da Eugenio Turri, lungo la autostrada “A4”: “Una sterminata periferia senza forma e senza sentimento” (p.24), “un’ampia poltiglia”. “Dallo spazio – dalla quota dei satelliti - ciò che risulta oggi (…) è anzitutto (…) una macchia che sembra simile ad un fenomeno cancrenoso, ad una escrescenza, una muffa, ciò che fa pensare alla antropizzazione come a qualche cosa di innaturale, ad una degradazione della biosfera” (Turri, p.46).

“La colata” di cemento sommerge ogni spazio libero. “Il saccheggio” procede. Il paesaggio sparisce: “Il capannone è il tipico edificio che più si ripete, il leit motiv. Solo piccolissimi varchi tra un edificio e l’altro permettono di gettare uno sguardo oltre la muraglia di capannoni” (Vallerani e Varotto).

E’ possibile invertire la rotta?

Ci dobbiamo chiedere perché tutto ciò è potuto accadere? Di cosa dobbiamo veramente indignarci?

La mia tesi è che non sia solo per colpa degli “eccessi speculativi”, del peso della rendita fondiaria (sempre denunciato da Salzano). Della sola attività immobiliare e della cricca dei costruttori (vedi le varie inchieste sui “sacchi” e sulle “colate”). Della sola corruzione politica. Dell’insipienza e incultura tecnica (Vezio De Lucia). Della sfortunata storia politica del nostro Paese: dalla Dc a Craxi a Berlusconi. Della Costituzione tradita (Settis). C’è anche dell’altro. Ancora più profondo, strutturale, grave e più difficile da contrastare ed eliminare.

La distruzione del paesaggio è la inevitabile conseguenza della preminenza dell’interesse economico su ogni altro valore, del dogma della crescita economica che ha soppiantato ogni altra visione del mondo. Dobbiamo sapere che è la stessa logica che travolge ogni campo del vivere umano: nel lavoro, deumanizzato, alienato; nella ricerca scientifica, finalizzata alla produzione di brevetti; nel “territorio”, ridotto a supporto inerte (“factum brutum”) (Settis) per ogni iniziativa capace di produrre valori monetari. I sindaci più bravi sono quelli che riescono ad attrarre maggiori “investimenti esteri”, le amministrazioni premiate sono quelle che offrono più opportunità insediative. Da qui una gestione del suolo che ha assecondato qualunque iniziativa economica e un sistema normativo che ha lasciato la massima libertà di scelte localizzative.

C’è un filo rosso che lega ciò che avviene nei luoghi di lavoro (lavorare sempre di più in di meno), nei luoghi di studio e di ricerca (finalizzare gli insegnamenti e i piani di ricerca alla loro immediata utilizzabilità nei cicli produttivi), nei luoghi di vita (spezzare ogni rapporto dei nuclei familiari tra loro e con la campagna, la natura). E’ al logica della massimizzazione dei rendimenti economici. E’ il mito della efficienza fine a sé stessa. Della crescita per la crescita.

L’azione della difesa del paesaggio si inserisce, quindi, perfettamente nel quadro più generale (socio-economico e finanche antropologico e culturale) delineato dal progetto della decrescita: decrescere la dipendenza della società dalla logica del mercato capitalistico.

La difesa del paesaggio può costituire una molla concreta per attivare dei passi lungo la via della decrescita. Pensare alla tutela del paesaggio come un principale obiettivo/motore attivatore della decrescita.

Ma per fare diventare il paesaggio un punto di forza delle ragioni della decrescita è necessario sviluppare alcuni passaggi logici.
Innanzitutto mettersi d’accordo (non solo tra noi – troppo facile! – ma nel “comune buon senso”) su cos’è il paesaggio. Poi includere “questo” paesaggio (“i beni paesaggistici” del Codice dei beni culturali e non solo) tra i beni comuni da rivendicare e da sottrarre alle leggi del mercato. (Persino la Biennale di Venezia si è sentita in dovere di titolare l’edizione di Architettura di quest’anno: “Commonground”). Infine decidere di “prenderlo in cura” (governarlo e gestirlo) in forme e modalità efficienti e condivise. Serve cambiare mentalità, atteggiamenti, regole, codici di funzionamento sociale.

Le esperienze pilote, le pratiche virtuose, i casi di gestione condivisa del bene comune territorio, villaggio, condominio, “città di città”… sono molti (Cacciari). Credo che per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, della bellezza dei paesaggi, della equità sociale e del “buon vivere”, si possa partire da qui. Il ventaglio delle azioni possibili è davvero ampio: si va dall’appello del progettista edile Tommaso Gamaleri che ha lanciato la campagna per l’obiezione di coscienza contro gli incarichi professionali di progetti di edifici su terreni non edificati, alle amministrazioni comunali che modificano i piani regolatori a “Zero consumo di suolo”. Dalla campagna “Salviamo il paesaggio”, alle “Transition town” (autosufficienza energetica). Dalla rete delle “Slow city” (Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, ne era il promotore in Italia), ai “Contratti di fiume”. Dal movimento per gli orti urbani collettivi, agli ecomusei, al turismo sostenibile e alla ospitalità diffusa. Dai Parchi agricoli multifunzionali legati alle Reti dell’altra economia e ai Gruppi di acquisto solidali, al movimento per la difesa degli usi civici. Dal cohousing, agli ecovillaggi, ai condomini solidali. Dai piani di bacino idrogeologici, alle bioregioni. Dagli innumerevoli movimenti di cittadinanza attiva, di cui i NoTav della Val di Susa sono un emblema, al laboratorio urbano della Scuola dei territorialisti che ci insegna come è possibile attivare processi di riappropriazione dei luoghi rigenerando relazioni e identità territoriali.

La città (urbs e civica, assieme) decrescente è tutto questo. Un grande movimento dal basso per sottrarre paesaggio-ambiente-territorio-luoghi alla logica economica del mercato.

Venezia, 12 novembre 2012.

Note bibliografiche

Banini Tiziana, Il cerchio e la linea, Aracne, 2011.
Bevilacqua Piero, A che serve la storia? Donzelli, 2011.
Bonesio Luisa, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, 2007.
Bonesio Luisa, La sobrietà come stile di vita e valore identitario in: Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio come patrimonio culturale e identitario”, AEF Treviso 2009.
Cacciari Paolo (a cura di), Viaggio nell’Italia dei beni comuni, Marotta e Cafiero, Napoli, 2012.
Consonni Giancarlo, Il viandante e lo scienziato. La città tra ordo e oikos, in “La terra vista dalla luna”, n.1, 66-71, 1995.
Davis M., Città morte, 2005.
Luciani Domenico, Ragioni e azioni per il buongoverno dei luoghi, in Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Farinelli Franco, L’invenzione della Terra, Sellerio, 2007.
Latouche Serge, Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e società conviviale. Rubettino, 2004.
Marchetti Laura, Il paesaggio dei valori comuni, in: Paolo Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni, Ediesse, 2010.
Magnaghi Alberto, Oltre la globalizzazione, verso una municipalità allargata e solidale, in: Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio come patrimonio culturale e identitario, AEF, Treviso, Marzo 2009.
Mattei Ugo, La nozione del comune, in: Paolo Cacciari (a cura di) La società dei beni comuni, Ediesse 2010.
Scroccaro Paolo, Sobrietà come stile di vita, in: Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Settis Salvatore, Paesaggio Costituzione cemento. La lunga battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, 2011.
Salzano Edoardo, L’habitat dell’uomo bene comune, in: Paolo Cacciari (a cura di) La società dei beni comuni, Ediesse 2010.
Toesca Pietro M. Il paesaggio impossibile, ovvero il mondo perduto, in Eupolis, n.35/2005.
Eugenio Turri, La megalopoli padana, Marsilio 2000.
Vallerani e Varotto, Il grigio oltre la siepe. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto. Nuova dimensione, 2005.

La Repubblica Milano, 12 novembre 2012, postilla (f.b.)

ALCUNE, solo a livello preliminare, sono già in fase di realizzazione, le altre partiranno a breve dopo le gare d’appalto. Tutte volutamente fuori dal centro sorvegliato di Area C: sei strade e dintorni dal ritmo slow, per favorire pedoni e ciclisti, dove sarà obbligatorio circolare a 30 chilometri all’ora. La giunta finanzia la prima fase delle “isole ambientali” dell’era Pisapia, oasi antitraffico già progettate nei mesi scorsi e da attivare l’anno prossimo, appena terminati i lavori.
Per incrementare la sicurezza stradale e sostenere il primo lotto di “Zone 30” c’è un investimento di tre milioni. Perché non basta mettere un cartello 30 in un cerchio bianco rosso. Oltre ai cartelli stradali, l’istituzione delle isole a 30 all’ora prevede anche una serie di infrastrutture: dossi rallentatori, restringimenti della carreggiata, marciapiedi continui con spigolo vivo per evitare la sosta selvaggia delle auto. I lavori sono già cominciati nelle vie Lazzaretto, Casati e San Gregorio.

Nella lista delle isole ambientali compare anche via Melzo, scelta perché così verrà creata un’area slow anche dall’altro lato di corso Buenos Aires. Poi c’è il quartiere Figino. Qui la realizzazione del progetto va di pari passo con altre due opere: un investimento residenziale privato, che allargherà di fatto il quartiere oggi sviluppato soprattutto lungo l’asse di via Figino, e i cantieri per collegare la zona con il teleriscaldamento, con lavori che modificheranno la viabilità. Fuori dal centro, le «Zone 30» raggiungeranno via Parula, nell’area di via Padova. Per la precisione, vicino a piazzale del Governo Provvisorio dove, anticipando i tempi, negli anni Ottanta l’allora assessore al Traffico Augusto Castagna decise di trasformare il piazzale in una specie di “Zona 30”.

La prima fase delle isole include anche via Muratori e, soprattutto, via Tortona e via Solari, dove un anno fa è morto Giacomo Scalmani, 12 anni, investito da un tram mentre tornava a casa in bicicletta. Qui verrà realizzato un progetto nato dal confronto tra quartiere, consiglio di zona e associazioni: bassa velocità per le auto, alberi, stazioni del bike sharing. E una corsia preferenziale per la quale Atm sta ultimando i lavori di progettazione definitiva. A queste prime sei isole ambientali se ne aggiungeranno altre (dalla Milano romana delle Cinque vie a piazzale Accursio), già annunciate ma ancora da finanziare. Per quanto riguarda il centro, resta valida l’intenzione di imporre il divieto dei 30 all’ora in tutta la cerchia dei Bastioni, ma si procederà per gradi e si valuterà caso per caso.

Postilla
Forse sarà saltato all’occhio dei lettori più attenti, come la logica della zona a traffico controllato, o limitato, o rallentato, si stia con progetti del genere evolvendo verso una vera e propria idea alternativa di quartieri, inseriti entro un contesto metropolitano dove l’auto privata e il “progetto di suolo” che sottende sono in prospettiva destinati a sparire, ma in forme diversissime da quelle classiche della pedonalizzazione anni ’70. Per evitare che questa declinazione un po’ particolare degli shared spaces non finisca, poi, appunto per ricostruire una serie di circoscritte aree di privilegio entro, e al di fuori proiettare ulteriori disagi, occorre una stretta correlazione fra politiche urbanistiche, della mobilità, e delle funzioni, se possibile da subito di scala vasta e tendenzialmente sovra comunale. In attesa dell’agognata città metropolitana, come da un paio di generazioni (f.b.)

Corriere della Sera Lombardia, 12 novembre 2012 (f.b.)

MALPENSA (Varese) — Una città fantasma fatta di ville, condomini, interi quartieri dove adesso regna il silenzio spettrale. Circa 2 mila persone negli ultimi anni hanno abbandonato 600 abitazioni intorno all'aeroporto di Malpensa. Molti hanno preso i soldi dell'operazione «delocalizzazione» e sono andati altrove per non sentire più il rumore degli aerei. Però le case abbandonate sono ancora lì. Dovevano diventare uffici, magazzini, centri logistici per dare occupazione e sviluppo a tutto il territorio, ma i fondi erogati dalla legge che ha permesso l'esodo di massa sono finiti quest'anno, mentre le risorse dei privati stentano ad arrivare: «Siamo arrivati al punto che non abbiamo nemmeno più il denaro per murare le finestre e impedire l'ingresso dei malintenzionati — osserva il sindaco di Lonate Pozzolo Piergiulio Gelosa — è uno scenario drammatico, anche sul fronte sicurezza».

Lo stallo dell'economia ha peggiorato la situazione: «Il mercato è fermo, le imprese di costruzioni non ce le compreranno mai — continua Gelosa — buttare giù una grande palazzina costa 2 milioni di euro, le uniche due che abbiamo abbattuto finora ci sono costate 700 mila euro l'una, chi volete che si accolli queste spese?». Un sopralluogo a ottobre del Consiglio provinciale ha certificato la situazione: di concreto nel futuro della aree intorno a Malpensa non c'è quasi nulla; tra le poche cose realizzate una scuola per tecnici aeroportuali a Case Nuove, la frazione di Somma Lombardo inghiottita dalle piste.
E' in questo quadro che è nata nelle ultime settimane una possibile via d'uscita, che dovrebbe passare da un accordo firmato in Regione.

«L'unica soluzione secondo noi — afferma il sindaco — è che la Sea si renda parte diligente nella demolizione». Il coinvolgimento della società aeroportuale sta mettendo i sindaci gli uni contro gli altri e il motivo è comprensibile. La Sea è disponibile a investire ma a una condizione: e cioè se il ministero dell'Ambiente approverà il cosiddetto Masterplan, ovvero un allargamento dell'aeroporto stesso che prevede, tra l'altro, magazzini logistici e anche la terza pista di Malpensa. Gli ambientalisti lo vedono come il fumo negli occhi. I sindaci dei tre Comuni che si ritrovano le case abbandonate sul groppone, ovvero Somma Lombardo, Lonate Pozzolo, e Ferno chiedono quantomeno di poterne parlare senza essere accusati di voler autorizzare la terza pista. Oggi si terrà un'assemblea congiunta con i sindaci e i consiglieri dei tre Comuni che si annuncia molto calda.

La distorsione del nostro modello di sviluppo e il consumo di suolo discussi dall’INU a Urbanpromo. L’Unità, 11 novembre 2012, postilla (f.b.)

Un paesaggio apocalittico come quello raccontato da Alessandro Coppola nel suo viaggio attraverso le città deindustrializzate degli Stati Uniti in Apocalypse Town (Laterza), con la natura che si vendica, spacca il cemento e penetra nelle cattedrali ormai deserte della società del benessere: altoforni spenti e capannoni abbandonati, centri commerciali in surplus e svincoli autostradali che si sono divorati vigne, olivi e giardini di agrumi. Milioni di case nuove e invendute, mentre le banche entrano in possesso degli appartamenti di chi non riesce a pagare il mutuo, mentre affittuari morosi vengono sfrattati.

Un paesaggio italiano: basta fare una passeggiata a Bagnoli o a Sesto San Giovanni, nella provincia di Rimini dove il 40% del territorio è cementificato, o in Calabria dove fabbriche mai entrate in funzione sono diventate ostello di braccianti immigrati, in Molise, in Basilicata. La crisi esplosa a causa di una bolla immobiliare planetaria rende esplicito il paradosso di un modello di sviluppo fondato sulla espansione edilizia, ogni italiano – dice il dossier preparato dal Wwf per la campagna «RiutilizziAmo l’Italia» – ha triplicato in 50 anni il suo gruzzolo di cemento, abbiamo 290 metri quadri a testa. Ma la crisi dice anche che nulla sarà come prima e il problema del consumo di suolo è finalmente entrato nella agenda politica: bisogna trovare gli strumenti più adatti a riqualificare, rigenerare l’esistente, fermando lo sperpero di un bene comune – la terra – che non è rinnovabile, che per rigenerarsi ci mette dai 50 ai 1000 anni, dice Cinzia Morsani (Wwf Emilia Romagna).

Anche se l’umanità dimentica presto e il ciclo edilizio è considerato un volano della ripresa economica, difficilmente – quando la crisi sarà superata – tutto tornerà come prima: i valori immobiliari in caduta libera potrebbero tornare a crescere ma lo choc da subprime difficilmente consentirà di riaprire le borse del credito. Il consumo del suolo lo possiamo misurare come fa Stefano Agostoni (conferenza Stato-Regioni) con il Co2: è come se il parco macchine della Lombardia fosse aumentato del 12 % in 10 anni, «esistono norme sulla qualità dell'aria mentre non ne esistono per il suolo». Oppure c’è la cartina d'Italia mostrata da Alessandra Ferrara ricercatrice dell'Istat: sulla costa dal Veneto all'Abruzzo non c’è soluzione di continuità, è praticamente tutto costruito. Abbiamo cementificato 3 milioni di ettari di territorio fra il 1996 e il 2005, ogni anno l’incremento è di 8,5 ettari pari a 1600 chilometri quadrati.

Poi c'è il paradosso messo in luce da Damiano De Simine, Legambiente Lombardia: «In Molise la popolazione decresce ma il consumo di suolo cresce al sostenuto ritmo del 20 per cento annuo». Racconta Stefano Leoni (presidente Wwf Italia): «Se mettiamo insieme i capannoni sparsi per l'Italia, fanno 2000 chilometri quadrati, molti ormai abbandonati. La gente, giustamente, si indigna per le città sporche. Bisogna imparare ad indignarsi anche per questa sporcizia sparsa nella natura». La cementificazione estensiva del Belpaese è stata uno dei temi su cui si è misurata l'edizione di quest'anno di Urbanpromo, organizzata dall'Inu (Istituto nazionale di urbanistica) a Bologna, in collaborazione con Legambiente, il confronto ha visto la partecipazione di assessori di città, province, Regioni fra cui Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Marche, Liguria.

Il coordinamento del gruppo di lavoro è di Damiano di Simine e di Andrea Arcidiacono (Politecnico di Milano). In Italia non esiste una legge sul suolo, non ci sono gli strumenti per misurarne il consumo, l'Istat lamenta un quadro normativo confuso, anche se – dice Alessandra Ferrara – «ci stiamo attrezzando». Però qualcosa si muove, c'è un Ddl del ministro dell' Agricoltura Catania nato dall'esigenza di salvaguardare i terreni agricoli. Nel confronto con la conferenza Stato Regioni, la salvaguardia si è allargata fino a tutto il suolo libero, ma si dovrebbero coinvolgere altri soggetti, a cominciare dal ministero delle infrastrutture. Il progetto del ministro dell'Agricoltura ha, secondo Federico Oliva, presidente dell'Inu, alcuni aspetti molto positivi, soprattutto cancella la possibilità di far finire nelle casse del bilancio comunale il 75% degli oneri edificatori, «è stato l'incentivo più potente per i comuni poveri in canna a consumare suolo, ora si dovrà trovare il modo di compensarli per la perdita di finanziamenti, visto che sono il soggetto principale di governo del territorio ».

Insieme alle cose buone, aggiunge Oliva, «ci sono le debolezze», la principale è che «stabilito un consumo nazionale massimo, si affida alla pianificazione degli enti locali la ripartizione delle quote». Ma la pianificazione è gestione politica ed è chiaro ai tecnici come agli assessori – fra questi Patrizia Gabellini, assessore all' ambiente del comune di Bologna - che sugli amministratori si esercitano le pressioni di chi vuole costruire o impiantare una attività, mentre il problema è l’ecosistema che lasceremo in eredità alle generazioni future. «La pianificazione non è affidabile - dice Federico Oliva -. In questi anni sono state utilizzate premialità in volumi e compensazioni per supplire a strumenti che non funzionano». «Il fisco e la protezione della natura si sono dimostrati i mezzi più efficaci dove sono state fatte politiche di contenimento del consumo».

La rendita è il motore principale del consumo di suolo e costruire il nuovo costa infinitamente di meno, è la leva fiscale che deve correggere questa tendenza. L’altra cosa che manca, dice ancora Federico Oliva, è «una legge nazionale che detti i principi fondamentali a cui gli enti locali devono ispirarsi». Legambiente Lombardia si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, spiega Damiano Di Simine: «Abbiamo capito che non basta la denuncia di un ecomostro dopo l'altro, ci vuole un salto culturale». Il suolo, la terra su cui camminiamo, è un bene comune come l’acqua e l’aria, la differenza è la proprietà privata. Però, «se il privato è irresponsabile devono esserci dei limiti prescrittivi».

postilla
Senza prendersela né con Jolanda Bufalini che ha scritto il suo resoconto, né con gli urbanisti dell'INU che hanno tenuto le loro ottime e legittime relazioni al convegno, l'articolo può anche essere l'occasione per tornare un istante sul rapporto fra conoscenze scientifiche, consapevolezza sociale e comunicazione. L'occasione forse, in un contesto di maggiore maturità da questo punto di vista (e riguarda tutti, in qualche modo si tratta anche di un'autocritica), avrebbe meritato, che so, un comunicato di sintesi per la stampa. A prevenire se possibile che l'elenco degli interventi, unito a quell'incipit un po' incongruamente preso a prestito dal best-seller di settore del momento, finisse per apparire magari assai leggibile, marginalmente utile alla vanità dei nomi citati, ma complessivamente poco consono agli obiettivi culturali allargati dell'assise: denunciare problemi e indicare soluzioni, anche a livello politico-legislativo.
Ammucchiare così, senza soluzioni di continuità diverse da qualche frase di circostanza, cose come la rustbelt americana in crisi industriale cronica, il consumo di suoli agricoli da urbanizzazione dispersa, le emissioni di gas serra eccetera, che pure in qualche modo convergono in cose come le alluvioni di questi giorni, confonde il lettore medio. E come insegna il recente caso "Galileo" aquilano, c'è qualcosa di importante da ripensare, non solo specialisticamente e settorialmente, nei rapporti fra sapere e società (f.b.)

Corriere della Sera, 11 novembre 2012, postilla (f.b.)

Una battuta infelice o un sintomo preoccupante? Giorni fa, il presidente dell'Unione delle Province italiane, Antonio Saitta, ha duramente protestato contro i tagli di 500 milioni decisi con la spending review e ha minacciato di spegnere il riscaldamento nelle scuole. Il governo non gliele ha mandate a dire. Prima il ministro Patroni Griffi lo ha esortato «a un comportamento più consono all'Istituzione che rappresenta», poi Palazzo Chigi ha messo nero su bianco: «Ventilare l'idea di spegnere i riscaldamenti nelle scuole o proporre vacanze più lunghe agli studenti per ipotetici risparmi appare una proposta fuori dalla realtà».

Saitta è siciliano di Raddusa (Catania), immigrato da bambino in Piemonte. È un democristiano di lungo corso, passato poi al Partito popolare, quindi alla Margherita, infine al Pd. Come Rosy Bindi, ma più moderato. Perché questa sua ostinazione, quasi ricattatoria?
Con l'avvento delle Regioni, le Province non hanno più senso. Simbolicamente, sono morte il 2 marzo 1994, quando dalla numerazione delle targhe italiane è scomparsa la sigla della Provincia e con essa la pittoresca retorica del campanile: «Veneziani gran signori, padovani gran dottori, vicentini magnagatti, veronesi tutti matti», «Meglio un morto in casa, che un pisano sull'uscio», «Torinesi falsi e cortesi». La loro ultima epopea nazionale risale a Campanile sera (il programma con Mike Bongiorno, Enza Sampò ed Enzo Tortora finisce con le celebrazioni di «Italia 61»), il resto è solo letteratura, intesa come compiacimento o consolazione.

Perché dunque spegnere i caloriferi? Le ragioni identitarie delle Province ormai fanno sorridere; quelle amministrative si possono risolvere con un minimo di pazienza e di buon senso. Resta il sospetto che Saitta e gli altri rappresentanti delle Province non vogliano perdere il posto, l'auto blu, i dischi di Little Tony. Sul sito della Provincia di Torino, Saitta ha scolpito queste parole di Siracide (180 a. C.): «Dell'artista si ammira l'opera, del politico la saggezza della proposta. Ma se parla a vanvera è una minaccia per la città; se dice cose inconcludenti si fa odiare». Serve altro o bisogna fare le primarie della coerenza?

postilla
L’ottima capacità di Aldo Grasso (è il suo mestiere, che fa benissimo) di cogliere aspetti anche paradossali della nostra società, mette a nudo in forma esplicita almeno due cose essenziali: l’ente territoriale di governo intermedio, per cui si sono battute generazioni di studiosi, cittadini, esponenti politici, è stato ampiamente sputtanato da buona parte di coloro che in qualche misura hanno contribuito a gestirlo, diciamo almeno dalla riforma dei primi anni ’90. La seconda cosa, è che chi poteva e doveva capire questo declino di immagine e sostanza non l’ha fatto, di solito rifugiandosi dietro la medesima relativa sicurezza, secondo cui certe cose sono intoccabili, non conquiste che durano finché si è in grado di difenderle. Certo è una sciocchezza madornale dire, come fa spavaldamente il critico televisivo Grasso, che la ragion d’essere delle Province è morta con l’istituzione delle Regioni, che tutto si risolve con le sigle sulle targhe anni ’60, e le immagini televisive o cinematografiche di contorno. Così, finita l’epoca della brillantina, o dei mangiadischi, è giusto accantonare anche questo livello amministrativo vintage, buono solo per appassionati collezionisti. La cosa più grave è che Grasso esprime semplicemente un’opinione assai diffusa in tutta la cosiddetta classe dirigente allargata, esclusi naturalmente coloro che sulle Province vivono, nel senso di potere, reddito, ruolo sociale. Se ne sono sentite tantissime negli ultimi mesi, di sparate anche più assurde, scritte in posti egualmente prestigiosi da persone di cui per altri versi ci fidiamo quasi ciecamente. Ma lo sanno questi signori che i decantati Bloomberg a New York, con l’ottima gestione dell’uragano, o Johnson a Londra con le trionfali Olimpiadi, altro non sono che versioni internazionali di ciò che dovrebbe essere da noi un presidente di ente intermedio? No, non lo sanno, e chi dovrebbe o potrebbe spiegarglielo tace, o parla in gergo con un po’ di disprezzo per chi non è specialista di settore. Vediamo che questo settore non diventi il raggio di una galera in cui ci chiude la nostra insipienza, con gli altri intellettuali che allegramente inconsapevolmente buttano la chiave (f.b.)

La Repubblica Milano 11 novembre 2012 (f.b.)

Dalla prevenzione dei grandi rischi, come alluvioni o esondazioni (vedi il Seveso) alla mappatura di tutto il verde cittadino fino al miglioramento dell’aria a Milano attraverso il titanio. Idee private, più o meno innovative, che provano a diventare pubbliche. Proposte di singole università, enti di ricerca o società grandi e piccole a caccia di risorse per una città più intelligente. Sono 15 i progetti (selezionati tra 21 proposte ricevute) che il Comune ha inviato al governo per chiedere finanziamenti nell’ambito del bando “Smart cities and communities and social innovation”. E ora spetterà al ministero dell’Istruzione e della ricerca decidere su quali investire. Innovazione e tecnologia per cambiare la vita della città. L’anno scorso, nell’ambito di un bando europeo, furono cinque i progetti che si aggiudicarono fondi per oltre due milioni.

Quest’anno, ci si riprova, con progetti da sperimentare proprio a Milano. E intanto il Comune continua a lavorare per creare un Agenzia per Milano smart city con imprese, università e Camera di commercio. «L’ampia partecipazione e la qualità delle idee presentate conferma l’attenzione creata a Milano intorno a questo tema — commenta l’assessore al Lavoro Cristina Tajani — penso che una città smart debba mettere al centro anche il tema dell’inclusione e della partecipazione: grazie alle tecnologie possiamo garantire a tutti più opportunità d’accesso ai servizi e maggior partecipazione».

E-ticket per treni e musei via i furgoni con il web SONO varie le proposte in tema mobilità. INSeT è la proposta di e-ticketing (di Reply): biglietto elettronico per mezzi in città, treni, alta velocità ma anche musei e carte sanitarie. URBeLOG, per esempio, è il progetto (di Telecom) che punta a snellire la logistica delle merci in città ed eliminare il traffico da furgoni. Come? Creando una piattaforma telematica per migliorare le consegne. Se vincerà, potrà essere sperimentato dentro l’Area C.

Esondazioni senza segreti con gli indicatori d’allerta SWARM è l’idea degli studiosi del Cnr per la tutela delle risorse idriche e la gestione di eventi climatici estremi come alluvioni ed esondazioni. Come? Utilizzando indicatori precoci di allerta e strategie di mitigazione legate ai cambiamenti climatici, e anche recuperando energia dal trattamento delle acque reflue. Green and smart Milano (di Green City Italia) è invece la piattaforma open source per mappare non solo il verde cittadino ma anche i dati su traffico e inquinamento e trasformarli in app.

L’aria è meno inquinata se si utilizza il titanio L’ALER propone materiali e sistemi innovativi di efficienza energetica per ristrutturare parte del patrimonio di case popolari in città a zero impatto. Il progetto AriaUrbana del Politecnico punta a migliorare l’aria dal punto di vista chimico e microbiologico, anche attraverso l’uso innovativo del titanio. Mentre GEOssLiFE (di Italtel) si propone per realizzare una mappa dei servizi del sottosuolo e catalogarli poi in un catasto elettronico: un progetto che include anche alcune zone recentemente coinvolte da terremoti in Emilia.

Schedatura culturale globale e-government in tribunale UN MONITORAGGIO di tutto il patrimonio artistico e culturale, anche sotterraneo. È l’idea che sostiene CH-Start (di Present Cultura), dove la tecnologia è al servizio dell’arte. Ma l’innovazione aiuta anche nella prevenzione: è il caso del progetto Sicurezza sul territorio che vuole mappare le emergenze di Milano e Torino. Spunti anche per migliorare la giustizia: Smart city Giustizia pensa a un servizio di e-government per far interagire il sistema giudiziario con il pubblico.

Flotte di droni elettrici occuperanno il centro SONO cinque i progetti che sono partiti a settembre in città con oltre due milioni di fondi da Bruxelles e alcuni guardano all’Expo come meta. Si va da Eu-Gugle sul risparmio energetico in 477 case Aler, nel quartiere Zama-Salomone, a Fr-Evue legato a flotte di veicoli elettrici destinate a distribuire i farmaci dentro Area C. E poi CityMobil2, uno studio sul trasporto automatizzato, Electric city movers sulla mobilità sostenibile e Tide, progetto di diffusione e scambio di buone pratiche sul traffico tra le città europee.

L'Unità, 10 novembre 2012

Il ministro per i Beni Culturali, Lorenzo Ornaghi (sin qui, con Sandro Bondi, uno dei più inerti) rimarrà negli annali del Collegio Romano se riuscirà a far tradurre dalle Soprintendenze in atti esecutivi la direttiva emanata contro il bancarellume, abusivo e non, che affligge ormai quasi tutti i centri e gli edifici storici del Belpaese, contro i camion e i camioncini “porchettati” piazzati davanti ai più bei monumenti di Roma (da Castel Sant’Angelo al Colosseo), contro gli squallidi gazebos di plastica con stufe a gas incorporate. Se farà piazza pulita di questo autentico ciarpame da fiera paesana e peggio, il professor Ornaghi meriterà di venire ricordato per qualcosa di buono.

Ci provò, molti anni fa, l’allora ministro Alberto Ronchey con le bancarelle assiepate fin davanti alla Basilica di San Marco e riuscì in parte a rompere quell’assedio, spostandole di lato. Da allora i Comuni hanno lasciato per lo più fare, specie quelli più direttamente investiti dalla fiumana del turismo di massa mordi-e-fuggi. Che ha trasformato i centri storici attraversati (Roma soprattutto) in un continuum ossessivo di “mangiatoie” all’aperto, con camerieri appostati che invitano pressantemente i turisti a sedersi, con ombrelloni estivi sormontati di orrende scritte pubblicitarie e dehors invernali alzati a deturpare piazze, vie, viuzze lungo il turisdotto che va da San Marco a Palazzo Vecchio sino a Trevi-Pantheon-Navona (col sovrappiù di centurioni e matrone da Satirycon all’amatriciana), eserciti di tavolini che avanzano minacciosi verso le fontane e i monumenti e “movide” spesso violente a Campo de’ Fiori e in mille altri luoghi di provincia (purché siano piazze e luoghi antichi, riconoscibili, non anonimi). Nessun Paese europeo è ridotto così.

Alcuni Comuni hanno emanato regolamenti severi. Anni fa Bologna ha vietato tavolini, dehors, ombrelloni davanti a palazzi vincolati dalle Soprintendenze e Sergio Cofferati si è preso la nomea di sindaco-sceriffo per aver tentato di “bonificare” la zona di piazza Verdi ridotta a latrina notturna (la birra scorre a fiumi). Milano ha fissato alle 23 lo stop alle bevute. A Roma invece Alemanno ha ritardato alle 23 (facendo marcia indietro in qualche caso) l’entrata in vigore dei varchi elettronici rendendoli praticamente inutili, in omaggio ai tanti voti “bottegari” ricevuti quando scalò il Campidoglio fra una selva di saluti romani.

Già i presidenti di ambulanti, esercenti e commercianti attaccano Monti e Ornaghi alzando la voce e minacciando serrate contro una norma di civiltà: per i centri storici e per il turismo più qualificato (quello che rende davvero checché ne pensino certe teste di legno). L’assalto rumoroso alle città antiche, di giorno e di notte, sta allontanando i pochi residenti. Mancando ogni controllo sociale, è più facile commettere ogni sorta di reato, a cominciare dallo spaccio di droghe, fiorentissimo (e ogni tanto ci scappa il morto), è più facile per la malavita impossessarsi di una vasta rete di locali. Intere strade sono state stravolte in poche settimane quando sono arrivati, in massa, gli orrendi negozi di souvenirs gestiti dai cinesi. Imbruttite violentemente in pochi giorni e per sempre. Via antiquari, boutiques, venditori di stampe, tutte sigle di commercianti veri, qualificati, che nessuno ha difeso, a principiare dalle loro stesse corporazioni. I gelatai poi hanno concorso all’imbruttimento dei rioni antichi con enormi coni di plastica colorata, illuminati al calar del giorno. Una volta certe categorie usavano la Dc ma pure il Psdi per aver voce nei consigli comunali. Nell’ultimo eletto a Roma è entrato per il Pdl un rampollo della famiglia Tredicine i cui camion-bar deturpano in modo strategico i punti più panoramici di Roma impedendo ai turisti di fotografarli, ed è uno che conta. Ora tanti grideranno al neo-centralismo del governo Monti e del suo ministro Ornaghi. Ma cos’hanno fatto molti, troppi Comuni per arginare un fenomeno così aggressivo e indecoroso? Coraggio professor Monti, passi ad altre misure qualificanti, impedisca, per esempio, l’attracco delle colossali navi-crociera a San Marco. Avrà altri applausi dall’Italia (e dall’Europa) più civile.

“Unità”, 10.11.12

postilla (f.b.)

Prima del sorprendente“triconsiglio” comunale, poi rinominato “assemblea”, in cui si parlerà di aree più o meno delocalizzate, riteniamo opportuno rinfrescare la memoria citando un nostro comunicato stampa in data 17 Settembre 2002.

“A fine Febbraio 2000 i Sindaci pro tempore di Somma Lombardo, Ferno e Lonate Pozzolo firmarono l'accordo di "delocalizzazione" che dava a Malpensa la "licenza di uccidere". Questo perché, con la firma dei tre Sindaci (Brovelli, Canziani e Colombo) si creava, per i residenti in certe zone a ridosso del sedime aeroportuale individuate come particolarmente rumorose, la possibilità di vendere casa e trasferirsi altrove. L'operazione veniva definita di "mitigazione" e Malpensa poteva così svilupparsi, con licenza di uccidere chi restava. L'assenso dei tre Sindaci fu bollato, forse mai adeguatamente, già a suo tempo. L'individuazione delle zone inserite nell'accordo omicida fu effettuata sulla base di ipotetiche curve isofoniche stabilite prima dell'apertura di Malpensa 2000, cioè con un traffico teorico e rotte provvisorie (tali sono ancora). Le persone delocalizzabili secondo l'accordo erano nell'ordine delle centinaia mentre, secondo il Ministro dell'Ambiente di allora, Edo Ronchi, entro l'area dove diventava disumano vivere si venivano a trovare migliaia di cittadini. Quindi noi chiedemmo: si delocalizzino invece gli aerei! (Patto per il Territorio, Turbigo, 19/02/00) Ora si può tristemente verificare, leggendo i dati rilevati dalle centraline della rete di misura del rumore, che in aree soggette all'accordo, per esempio Somma-Case Nuove, Lonate-S. Savina e Lonate-Moncucco, il rumore rilevato è inferiore a quello di Somma-Rodari, Somma-Cabagaggio, Arsago-Cimitero, Casorate-Monte Rosa… aree a cui l'accordo non si applica.”

Come si sa, solo una parte degli aventi diritto vendette casa all'ALER e si trasferì, ed i colpi di coda di questo iniquo accordo si vedranno lunedì sera. Innanzi tutto è utile sottolineare la “mancata par condicio del rumore”, così la definimmo all'epoca, e cioè che chi subiva un rumore più elevato doveva restare. Negli anni si verificarono poi variazioni del traffico aereo, attualmente sceso a livelli tali per cui l'accordo di delocalizzazione, applicato col criterio del superamento dei 65 dB, ora sarebbe rivoluzionato da livelli di rumore probabilmente ridotti, cioè case ieri delocalizzate forse oggi non lo sarebbero più. Livelli di rumore che, se il gestore della rete di misura del rumore (SEA) pubblicasse i dati come dovuto, potremmo meglio conoscere.

Quindi delocalizzazione farsa e falsa, costata enormi somme di danaro ai contribuenti e in procinto di costare altri 12 milioni d Euro, presi non si sa bene dove o, come è già stato segnalato, forse sottratti agli scopi a cui erano destinati. 12 milioni che, se è vero quel che sembra, odorano di scambio, per non dire di ricatto. Quindi altri soldi che finiranno nel buco nero di Malpensa senza che producano alcun utile collettivo. Cosa ci dobbiamo aspettare ora da questi 3 sindaci? Definendo “licenza di uccidere” l'accordo di delocalizzazione che permetteva lo sviluppo di Malpensa, fummo facili profeti perchè i danni provocati dagli aeroporti si conoscono da decenni e quindi non è stata una sorpresa il +54% di decessi nei Comuni del CUV rispetto al + 10% nel resto della provincia. Non avremmo voluto ma ora contiamo i morti.

I Sindaci di oggi, appollaiati come avvoltoi sulle spalle del + 54%, contano invece i soldi per l'abbattimento degli immobili liberati dall'accordo fallito. Se nella storia di Malpensa scriviamo ora questo ulteriore grottesco capitolo, se Malpensa tutto può permettersi, è perché gli Enti Locali a tutto acconsentono. Sindaci, rompete il muro di omertà, avete dati terribili sulla salute dei vostri cittadini, fate il vostro dovere: intervenite! Gallarate, 10 novembre 2012

UNI.CO.MAL. Lombardia - Il Presidente Beppe Balzarini

Postilla
Come forse si intuisce dal testo, la delocalizzazione di ampie fasce dell’abitato attorno al baraccone di Malpensa, prima pista militare poi hub internazionale e in futuro chissà, riguarda la vita di famiglie, l’economia locale, per dirla con un po’ di retorica la carne e il sangue delle generazioni. Manco fossimo a Fukushima, si deporta la gente, e le istituzioni aiutano tra l’altro nel tempo vari soggetti a speculare sugli immobili, in cambio di cose misteriose. Perché a fronte di una devastazione a dir poco spaventosa di un ampio territorio ex rurale e naturale (siamo in piena valle del Ticino, il parco regionale che l’Europa ci invidiava) c’è un’infrastruttura monca, dal futuro incerto, un aeroporto che come può raccontare chiunque ci sia passato lavora assai al di sotto delle capacità attuali. Ma che egualmente si vuol continuare ad ampliare, nella solita logica per cui prima si fanno le opere, e poi si pensa a se e come usarle per qualche scopo. Anche Malpensa si inserisce nel delirio liberista-mafioso-insostenibile della cosiddetta Città Infinita, delle opere scombinate utili solo a chi le fa, o a chi le autorizza. Prima si poteva dare la colpa a Formigoni, e adesso? Adesso siamo in piena crisi del modello di sviluppo ciellino, ma ammazzali se i signori dell’opposizione candidati alla “alternativa” hanno aperto bocca su qualcosa di simile a un’idea, sul sistema aeroportuale, dei poli urbani, sulle infrastrutture di collegamento. Ovvero su quanto consentirebbe almeno di dare un senso, per quanto tragico, alle deportazioni di persone di cui ci ha brevemente raccontato il comunicato stampa (f.b.)

Ancora sulla sacralità della giornata di riposo per i lavoratori del commercio, ma stavolta la prospettiva è chiara, perché è quella della chiesa. La Repubblica 10 novembre 2012, postilla (f.b.)

IL SETTIMO giorno Dio si riposò. L’uomo invece andò a fare shopping. «Ma guardali. Al sabato dicono “oh finalmente domani mi riposo”, e poi eccoli lì al centro commerciale. Non capiscono che è un altro lavoro, il lavoro del consumatore? Non capiscono che ci stanno rubando la domenica?
Padova, parrocchia del Buon Pastore, quartiere Arcella, zona difficile. In canonica Rita, catechista con grinta, fotocopia i “moduli di boicottaggio” da far firmare ai parrocchiani, domenica prossima, all’uscita da messa. C’è scritto: «Mi impegno a non andare a fare la spesa di domenica, per non sostenere con i miei consumi l’apertura dei centri commerciali nei giorni festivi». Scusa Rita, e se mi manca il burro? «Bussa alla porta del vicino. Così magari ti fai anche un amico».

La sfida è partita. Un’intera diocesi, una delle più grandi d’Italia e forse la più solida, quella di Padova, la città del Santo, si mette in marcia contro il furto del giorno del Signore. Con la benedizione del vescovo Antonio Mattiazzo. E senza timore di usare quella parola così forte: boicottaggio. Sette mesi di campagna all’insegna delle «tre R: Relazioni, Riposo, Risorto», tutte le parrocchie e le associazioni mobilitate.

Non è più la solita predica. Fin dal Vaticano Secondo la protesta della Chiesa contro il lavoro domenicale non necessario è severa, non c’è Papa che non l’abbia ribadita dal più alto soglio, ma questa volta si passa dalle parole anche illustri ai fatti, minuti e probabilmente efficaci. La raccolta di impegni individuali firmati di boicottaggio è solo il primo. Poi le parrocchie compileranno “liste bianche” di negozi che rispettano la festa, le affiggeranno sui sagrati, le pubblicheranno nei bollettini, le contrassegneranno con adesivi da esporre in vetrina invitando i fedeli a fare spesa solo lì. Poi le cattedrali della fede beffeggeranno le cattedrali dei consumo esponendo sulla facciata lo striscione polemico: “Questa chiesa è aperta anche alla domenica”. Poi i giornali diocesani, con un certo sacrificio economico, rifiuteranno inserzioni pubblicitarie di negozi che non rispettano il riposo domenicale. «La cosa più difficile sarà convincere il rettore del santuario di Sant’Antonio a chiudere il negozio di souvenir alla domenica, ma se non diamo noi il buon esempio... », sorride padre Adriano Sella sulla soglia della cappellina di san Giuseppe Lavoratore, in piena zona industriale.

Ex missionario in Brasile, tornato in Veneto perché «ormai la terra di missione è qui», direttore della “Commissione diocesana per i nuovo stili di vita”, padre Adriano è l’uomo che ha ideato e coordina la mite ma decisa offensiva. «Non è una crociata contro i supermercati. È la riscoperta del valore del tempo del riposo, della famiglia, delle relazioni umane. La domenica non è l’ultimo giorno del weekend, e non è neanche soltanto il giorno del Signore, anche noi, Chiesa, dobbiamo evitare di riempirla di riti e cerimonie. Il giorno senza lavoro è una necessità primordiale, antropologica dell’uomo, non solo un comandamento del credente. Il riposo infrasettimanale non compensa nulla, perché ciascuno ha un giorno diverso e non ci si incontra più: mentre la domenica è della comunità, è di tutti ed è assieme», spiega mentre guida sulle strade della provincia a distribuire il vedemecum di 24 pagine con le istruzioni dettagliate per la campagna e a incoraggiare le sue truppe disarmate.

Nell’anno 304 ad Abitène, oggi in Tunisia, 304 cristiani affrontarono il martirio al grido di «senza domenica non possiamo vivere!». Ai boicottatori dello shopping, padre Adriano chiede molto meno sacrificio ma più fantasia. E la trova. A Due Carrare Caterina, responsabile del patronato di San Giorgio, ha coinvolto l’amica professoressa Anna Chiara, e domenica si porta tutto il paese a passeggio tra le sconosciute memorie storiche della zona, l’abbazia di Santo Stefano, il ponte romano, la villa veneziana: «La gente scappa nei centri commerciali perché ha paura del vuoto della domenica. Bisogna offrire alternative ». A Cazzago Gianni Simonato, tecnico informatico, sta ridipingendo il vecchio circolo Acli: «Offriremo il caffè dopo la messa, per continuare a stare insieme », come si fa in certe chiese anglicane. In sala biliardi un monitor sempre acceso pubblicizza il boicottaggio. Qui la minaccia è seria, si chiama Veneto City, progetto di megacentro commerciale in piena campagna, «già adesso la domenica il paese si svuota, vanno tutti a Padova o a Mestre a fare spese, figuriamoci dopo». A Maserà, nella sua curiosa chiesa-pagoda, don Francesco Fabris è preoccupato: «Vengono le mamme commesse di negozio a chiedermi aiuto, “fate qualcosa voi, il sindacato ha già firmato l’accordo per il lavoro domenicale”, cosa posso fare per queste persone?». Il 4 marzo scorso a Padova le commesse sfilarono per strada con il codice a barre appuntato sui grembiuli per dire “la domenica non ha prezzo”. Bene, don Francesco farà qualcosa: domenica 18 metterà una tenda davanti alla chiesa per pubblicizzare il boicottaggio. Antonio fa il cassiere in un ipermercato di un grosso centro della provincia, «tre domeniche al mese obbligatorie, sto per sposarmi, penso ai miei figli: potrò stare con loro solo un giorno al mese?», allora ha organizzato un boicottaggio privato e controllato: ha imposto a parenti e amici di non farsi vedere
da lui in negozio alla domenica, «qualcuno poi passa lo stesso, arrossisce e mi chiede scusa... «.

Battaglia difficile, Rita la catechista lo sa. «Vanno a fare shopping perché così anche la domenica possono evitare di parlare con altri esseri umani: parlano solo con le scatolette di pomodoro». Don Vlastio, il suo parroco, cerca di contenerla un po’: «Non dobbiamo colpevolizzare nessuno... ». Ma a sorpresa, la campagna che sta per partire conta già un convertito eccellente, nientemeno che il comandante del campo avverso, il presidente dell’Ascom di Padova Fernando Zilio, lui che per un anno ha bisticciato sui giornali locali con il vescovo proprio per le aperture domenicali, ma che si è ricreduto quando, con le liberalizzazioni del governo Monti, ha visto la potenza di fuoco delle grandi catene dell’“aperto ogni domenica!” abbattersi disastrosamente sul fatturato dei suoi “piccoli”, i negozi a conduzione familiare: «Aveva ragione monsignor Mattiazzo, ha visto più avanti di me. Qualche negozio nei centri storici, per il turismo, può anche aprire alla domenica, ma questo sistema non è giusto, e forse non rende neppure». Padre Adriano si attende molti altri folgorati sulla via dello shopping.

postilla
Se non altro stavolta le cose sono chiarissime: la contrarietà all’apertura domenicale dei negozi arriva dall’unica direzione in qualche modo autorizzata, ovvero quella del sacro. E non, per esempio, da quella parecchio fuorviante della tutela dei diritti dei lavoratori, che spesso accampa purtroppo argomentazioni troppo simili, perdendo di vista la luna per guardare troppo attentamente il dito. Ha senso, nel ventunesimo secolo, imporre per legge a tutti quanti di starsene per una giornata a contemplare l’infinito o quel che si preferisce? Ha senso, imporre per legge che una giornata, la stessa giornata per tutti intendo, sia interamente sottratta allo spazio-tempo della contemporaneità, obbligando giovani, vecchi, lavoratori e pensionati, studenti, e chissà quante altre categorie sociologiche si possono evocare, al momentino di riflessione obbligatorio? No, che non ha senso, perché come ci insegnerebbe lo storico Jacques Le Goff esiste un tempo del sacro e un tempo del terreno, che con tanta fatica abbiamo cominciato goffamente a distinguere quando nella teocrazia medievale qualche inventore cominciò a pasticciare seriamente con gli orologi. Per scoprire che l’eternità poteva essere fatta a fettine precise, magari pure capita meglio, lasciando anche all’adorazione più spazio specifico, e all’uomo momenti adeguatamente ritagliati per pensare alle proprie terrene faccende. Il primo simbolo delle città, svettante sull’aria libera che vi si iniziava a respirare, furono le torri dell’orologio. Il fatto che poi quegli orologi fossero montati sui campanili, vicino alle campane che scandivano le ore, anche quelle dedicate al sacro, è solo un caso. Non confondiamo le cose, per favore, anche con le migliori intenzioni progressiste (f.b.)

Trattative pericolose quelle tra proprietà privata e potere pubblico. Soprattutto quando la proprietà è del maggior potere cittadino. La trasparenza è d'obbligo e i vantaggi per i cittadini l'obiettivo prioritario. Il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2012

Un pezzo di città da riqualificare, una potente società calcistica che potrebbe farsene carico (e completare così il progetto inedito e vincente di uno stadio di proprietà), una sciagurata operazione urbanistica di qualche anno fa e una città con un disperato bisogno di denaro liquido per rientrare nel Patto di stabilità. Sono gli elementi di una vicenda che rischia di incrinare la maggioranza di centrosinistra che governa Torino. Lunedì il consiglio comunale voterà la variante del piano regolatore che darebbe il via libera alla Juventus per la costruzione di una “cittadella bianconera” accanto allo Stadium. Variante che quattro consiglieri del Pd, e l’Idv Giuseppe Sbriglio, minacciano di non votare, e non sono mancati aspri dissapori tra quest’ultimo (ex assessore allo sport di Chiamparino) e l’assessore all’urbanistica Ilda Curti (Pd).

Si tratta di un progetto ambizioso su un’area di (almeno) 260 mila metri quadrati che prevede la costruzione di un centro sportivo (anche per la prima squadra), la nuova sede societaria, un centro di medicina dello sport, un albergo da 120 stanze, un cinema multisala da dieci schermi e - soprattutto - edifici di edilizia privata. La Juventus verserebbe nelle casse comunali 10,5 milioni
di euro (più gli oneri di urbanizzazione previsti per legge) e promette di investirne oltre 40. Il risultato promesso è la rinascita di un quartiere disagiato a tutto vantaggio - come del resto accade in molti paesi d’Europa - di una società calcistica che, grazie allo stadio di proprietà, raddrizza i bilanci e attira turisti.

Cosa agita, dunque, i consiglieri della maggioranza che sostiene Piero Fassino? Il prezzo troppo basso? In effetti meno di euro al metro quadro per il diritto di superficie è tutt’altro che sfavorevole, ma c’è dell’altro. Il problema, in realtà, riguarda una gestione un po’ leggera della vicenda. Chi è accecato dal tifo avverso evoca sudditanza a casa Agnelli, altri - meno prosaicamente - ci vedono l’esigenza di incassare alla svelta.

La giunta, a fine luglio, ha siglato un protocollo con la Juventus senza fissare un prezzo per la vendita ma accettando tout court l’offerta della società di Andrea Agnelli. Inoltre, nel testo della delibera sottoposto al Consiglio pochi giorni fa, è “magicamente” raddoppiata (da 6 a 12 mila mq) l’area destinata all’edilizia residenziale, quella più redditizia, senza che il Comune - come logica suggerirebbe - abbia chiesto un euro in più. A seguito di questo “incidente” è stata disposta una perizia, che tuttavia vedrebbe la luce solo ex post. Cosa accadrebbe se il prezzo non sarà considerato congruo?

C’è poi la questione di ciò che già esiste alla Continassa: l’ex Palastampa ora in gestione alla famiglia Togni (già in contenzioso con la città) e - soprattutto - l’ex Arena rock. Quest’ultima è un’enorme spianata di terra pensata come area concerti costata 5 milioni di euro e mai (dicasi mai) usata in quasi dieci anni, perché assolutamente e palesemente inadeguata. L’Arena rock è oggi un kartodromo, costruito da una società privata che ha vinto una regolare gara pubblica (a cui la Juventus non ha partecipato). Non è un rischio contabile - si chiedono i consiglieri “ribelli” - far finta che alla città quella struttura non sia costata milioni di euro? E soprattutto, chi manda via i concessionari? E a che prezzo? Il rischio, insomma, è che il ricavato della vendita - se la Juventus non accetterà di farsene carico - finisca in risarcimenti e contenziosi con i privati.

Una mostra alla Triennale e un libro su Guglielmo Zambrini riportano alla ribalta un tema controverso. Emanuele Piccardo, Lucia Tozzi, Alberto Ziparo, il manifesto 8 novembre 2012 (f.b.)

Il bello della concretezza
di Lucia Tozzi


Una delle più grandi soddisfazioni per il visitatore di una mostra è la sensazione di aver capito il messaggio. E chi attraversa lo spazio curvo della Triennale in cui è allestita L'architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi ne esce privo di ogni ragionevole dubbio sul senso preciso dell'esposizione.
Il contenuto è un imperativo, più che esortativo, appello all'ottimismo: «La peggiore crisi immobiliare-finanziaria della storia ci impedisce di costruire ancora uffici e residenze: ebbene, buttiamoci sulle infrastrutture».

I megaliti addomesticati

L'esplicito pragmatismo delle intenzioni non ha tuttavia prodotto una mostra tecnica: come si evince dal titolo, l'obiettivo è liberare il discorso sulle infrastrutture dal monopolio di costruttori e ingegneri, di alleggerirne l'immaginario e il vocabolario composto da inquietanti megaliti e assi di penetrazione, riconducendolo ai più miti ed estetici linguaggi dell'architettura.
Claudio De Albertis, la cui nomina a presidente della Triennale ha suscitato l'inverno scorso non pochi malumori tra gli intellettuali (un costruttore a capo di una sì nobile istituzione! E il conflitto di interessi?) deve dimostrare di essere un illuminato in grado di unire concretezza e alta cultura, di riconoscere e valorizzare la qualità più e meglio dei suoi predecessori.

Le funivie di Mollino
A legittimare una materia rude e vitale, da sempre legata allo sviluppo economico e agli interessi forti (che non a caso ha attratto partnership del peso di Mapei, l'azienda di Squinzi, attuale presidente di Confindustria, Pirelli, Citylife e Ferrovie dello Stato), De Albertis ha convocato l'eccellenza dell'accademia italiana. La scelta di Alberto Ferlenga, Marco Biraghi e Benno Albrecht esprime una ricerca di composta autorevolezza: professori allo Iuav e al Politecnico di Milano, autori di fascia alta per Einaudi e Casabella, internazionalmente noti ma lontani dalla fighetteria. E i materiali esposti nella curva triennalesca riflettono la serietà dei curatori, trasudano cultura.
La sezione storica esibisce disegni e progetti straordinari dai primi anni del Novecento, quando l'architettura per la prima volta sconfina in un campo di progettazione fino ad allora dominato da altre competenze, agli anni trionfali delle infrastrutture, quando Sottsass si divertiva a progettare pompe di benzina e Mollino lavorava sulle funivie.
Affiancando i disegni della stazione di Helsinki di Saarinen agli edifici industriali di Behrens e Gropius o alla londinese BatterseaPower Station, il Ponte della velocità di Balla alle quattro opere-emblema della mostra - la metropolitana di Mosca, il lungofiume di Lubiana di Jozhe Plecnik (presentato attraverso lo sguardo di Ghirri), il sistema di chiuse del Neckar di Paul Bonatz e l'opera di Rino Tami per l'autostrada A2 del Ticino - e poi le tavole-gioiello con autogrill, stazioni, distributori di De Feo, Ridolfi, De Carlo, Dardi che sono quasi meglio della pittura di Schifano, la selezione di Marco Biraghi esprime un livello estetico eccezionale, piuttosto inconsueto per una mostra di architettura.

Valori aggiunti
Allestita in modo informale, come pagine di una rivista da sfogliare, la rassegna internazionale di opere infrastrutturali contemporanee mantiene altissimo il tenore della scelta, giocando sul salto di scala e di funzione: ci sono gli aeroporti ma anche i ponti pedonali, le pensiline, i parcheggi di interscambio per le biciclette, gli eliporti, opere quasi tutte belle di architetti più o meno noti, ma non archistar.
Un'ultima stanza video, molto spettacolare, curata da Benno Albrecht e dedicata alle opere di geoingegneria planetaria, sintetizza in modo mirabilmente problematico una grande quantità di informazioni e di questioni non facili da trattare: le «muraglie verdi» cinesi per arginare la desertificazione, le dighe e le canalizzazioni oggi guardate come scempi ambientali, le visioni semiutopiche sulle energie alternative.

Un indigeribile zibaldone
Nel complesso sembra che l'intera mostra, illustrando con questi exempla di qualità il «bello» nell'infrastruttura, sia stata orchestrata per eccitare l'entusiasmo per il «fare», o meglio per il «fare bene», attraverso la grazia, il valore aggiunto della buona architettura. Marco Biraghi è un critico che attribuisce un forte valore al discrimine tra la bellezza e la bruttezza, e si ritiene qualificato a giudicare oggettivamente dove questo discrimine vada posto, tanto da intitolare una sua rubrica web «Le belle e le bestie».
L'uso della categoria di bello, che ha spesso ricadute deleterie in urbanistica e in architettura, è senz'altro legittimo nell'allestimento di una mostra. Ma la responsabilità è grande, e non bisogna fare errori. Chi postula un bello oggettivo non può permettersi una caduta di stile evidente come quella rivelata dalla sezione dedicata alle infrastrutture italiane contemporanee: uno zibaldone indigeribile di opere controverse come il Mose e la Tav, inutilmente costose come le stazioni ferroviaria e marittima di Zaha Hadid ad Afragola e Salerno o quelle di altre trite star internazionali, insignificanti come un parcheggio interrato, «mitigazioni ambientali» che in fotografia rassomigliano più che altro a degli sventramenti di montagne, mischiati a qualche perla come la stazione della metropolitana progettata da Siza a Napoli o come la riqualificazione della ferrovia dismessa ad Albisola di 3sstudio.

Supporti ideologici
In un'esposizione per tutto il resto solida e coerente, è difficile credere a una svista. E nemmeno si vuol ridurre il tutto al predominio della ragion pratica (alle marchette, per intendersi). Il pericolo è un altro e maggiore: se il vero scopo dell'operazione è un invito a demandare alle opere infrastrutturali il tentativo di rilanciare lo sviluppo del settore edilizio, immobiliare e professionale, le sezioni storiche e internazionali corrono in definitiva il rischio di svolgere un ruolo di mero supporto ideologico, di propagandistica legittimazione di quella politica superficiale, arrogante e devastatrice delle grandi opere che ha avuto corso nell'Italia degli ultimi decenni.

Alta Velocità, i nodi irrisolti di un paesaggio mancato
di Emanuele Piccardo

L'architettura del Mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi segna la nuova stagione espositiva della Triennale di Milano presieduta da Claudio De Albertis, costruttore e ex presidente dell'Ance. Dopo un triennio di mostre altalenanti, sotto l'egida del critico Germano Celant, la Triennale cerca un lento ritorno alla normalità. Ovvero un'esposizione che renda gli obiettivi comprensibili anche se talvolta, come in questo caso, solo in parte condivisibili. Vecchio di vent'anni, il tema delle infrastrutture rappresenta per il curatore, l'architetto Alberto Ferlenga, l'occasione per dare conto dell'importanza dei sistemi di attraversamento del territorio, cui si aggiungono poi tutte le architetture inscrivibili nel termine «infrastruttura»: ponti, termovalorizzatori, dighe, passeggiate.

Con un approccio accademico-generalista l'esposizione presenta in apertura materiali storicizzati, dal plan Obus di Algeri, redatto da Le Corbusier nel '32, ai disegni della metropolitana di Mosca, al lungofiume di Lubiana progettato da Plecnik, evitando però il progetto di unificazione dell'Italia attraverso la ferrovia realizzato da Cavour, o i progetti delle prime autostrade negli anni del fascismo. Da un lato l'intenzione di Ferlenga, supportato da Marco Biraghi, appaga il feticismo degli accademici per il documento storico, dall'altro indica la via del «ma anche è possibile realizzare infrastrutture», evitando di parlare di dissenso nei confronti della Tav, un'opera che non ha saputo dare vita a quel paesaggio tipico della ferrovia, tra appennini, litorali e città, ma ha solo unito due punti sulla carta, enfatizzando la separazione delle comunità, come dimostra la scelta di privilegiare un tracciato nord-sud, Milano-Napoli, senza un progetto globale che consideri le dorsali tirrenica e adriatica e le isole.
Così la mostra è l'occasione per pubblicizzare i progetti delle stazioni Tav di Torino, Firenze, Reggio Emilia, Bologna, Napoli realizzate da Arep, Norman Foster, Santiago Calatrava, Arata Isozaki, Zaha Hadid, come obolo a Trenitalia, senza porre le criticità che tali infrastrutture generano sul territorio.
Allo stesso modo lo spazio concesso all'autostrada enfatizza il ruolo del trasporto su gomma nella crescita economica del paese, e insieme la sua deriva. Sicuramente la sezione più interessante è quella dedicata ai progetti internazionali di ponti pedonali e stradali, stazioni ferroviarie, dighe e autostrade che evidenziano una qualità progettuale elevata, qualità mostrata anche da recenti recuperi dell'ex sedime ferroviario del ponente ligure, non soltanto nel progetto di Voarino/Cairo presente in mostra, ma anche nelle realizzazioni di UNA2 e Ciarlo Associati, inaspettatamente escluse. Diverso il trattamento per il Ponte sullo Stretto di Messina, a proposito del quale i progetti di Musmeci e Samonà realizzati per il concorso del '69 sono messi in relazione con i viadotti della Salerno-Reggio Calabria progettati, negli stessi anni, da Silvano Zorzi.
In questo coacervo di materiali eterogenei (disegni, schizzi, maquette, gli onnipresenti video), la fotografia viene usata più come strumento per raccontare l'infrastruttura, che come disciplina autonoma. Da una parte le fotografie di Luigi Ghirri, realizzate a Lubjana negli anni '90 del Novecento vengono presentate come un corpus unico, mentre le immagini aeree di viadotti di Olivo Barbieri sono disperse tra un disegno e l'altro. Dall'altra, l'interessante ricerca di giovani fotografi che - selezionati da Marco Introini, Peppe Maisto e Alessandra Chemollo, in diversi ambiti territoriali - hanno documentato, interpretandole, le infrastrutture, è isolata dal resto, in fondo alla mostra.
Nell'ambito delle mostre di architettura la fotografia, a due secoli dalla sua invenzione, non riesce ad avere una propria autonomia disciplinare ed è considerata un mezzo per sopperire esteticamente alle mancanze dei progetti. In questo senso andrebbero ripensate le modalità di allestimento che, negli esempi più riusciti, mirano a comunicare efficacemente i contenuti attraverso una grafica accurata e comprensibile. Spesso invece i materiali si accumulano secondo criteri da ancien régime, evitando di individuare uno strumento che esprima le teorie sottintese e sottolineando, come nel caso della mostra milanese, le ambiguità curatoriali, che non esprimono un pensiero critico sul tema proposto.

Le profetiche parole di un «trasportista»
di Alberto Ziparo

«L'infrastruttura è tale solo se risponde a una domanda sociale: altrimenti diventa una sottostruttura, inutile e spesso grave ingombro per società e territorio»: così Guglielmo Zambrini, ingegnere dei trasporti su cui si sono formate generazioni di urbanisti (era ordinario di Infrastrutture e Pianificazione dei Trasporti presso la scuola di Urbanistica dello Iuav), esprimeva così - all'apertura dei suoi corsi - il proprio costruttivismo ironico verso le attrezzature di trasformazione del territorio, accettabili appunto «se rispondenti ad una domanda» e - più tardi - «se ecologicamente sostenibili».


Un ironico understatement
Armando Barp e Maria Rosa Vittadini, dapprima giovani e quindi autorevoli colleghi di Guglielmo Zambrini, hanno di recente raccolto e curato in un meritorio volume edito da Marsilio una prima serie di saggi del «trasportista - urbanista» (Questioni di Trasporti e Infrastrutture. Teorie, concetti e ragionamenti per una buona politica dei trasporti) e promettono di rivisitare altre porzioni della vasta produzione di Zambrini: «Un patrimonio - scrivono nell'introduzione - ad oggi conosciuto solo quasi attraverso articoli di riviste, resoconti di convegni o testi fotocopiati, ma mai raccolto in modo organico e pubblicato in forma di libro». Il pragmatismo (quello sì, profondamente ingegneristico e declinato in una forma di ironico understatement) informava infatti le produzioni di Zambrini, anche a livelli più «ampi e astratti» di quello progettuale, ovvero nell'ambito delle politiche di piano, ciò che lo aveva spinto forse «alla preferenza verso strumenti agili e tempestivi, piuttosto che della forma libro, fatalmente più lenta e più paludata».
La produzione editoriale e scientifica di Zambrini è stata peraltro notevole, con la lunga direzione della rivista «Strade e Traffico», la pluriennale collaborazione con «Casabella», gli interventi su riviste e quotidiani, soprattutto «Il Giorno», «aperto e impegnato» nel sostegno della Programmazione riformista degli anni Sessanta e dei primi Settanta, condotta da quel socialismo progressista che informava il profilo culturale e professionale della borghesia milanese, di cui Guglielmo Zambrini era espressione. La tensione politica corroborava costantemente il bagaglio professionale dell'ingegnere, chiamato a redigere - spesso a dirigere - i piani dei trasporti di città e regioni, e poi il Piano Generale Nazionale dei Trasporti.
Il volume curato da Vittadini e Barp tocca temi forse meno affascinanti delle interpretazioni programmatiche e del dibattito sulle politiche dei trasporti, più note nel regesto di Zambrini. Le «questioni di trasporti e infrastrutture», di cui si parla nel libro, sono più vicine ai manuali di ingegneria del traffico e tuttavia costituiscono una base tecnica necessaria per chi - come l'urbanista-pianificatore - deve occuparsi di materie «assai più vaste e complesse» della costruzione di manufatti o attrezzature, riguardanti i sistemi socio-ambientali e territoriali. «Non ci si può occupare di politiche dei trasporti se non si conoscono le caratteristiche geometriche delle infrastrutture», si legge nelle note di Zambrini: concetto che si ritrova in tanta expertise operante in circoscrizioni disciplinari «miste» tra scienze tecniche e umane, come l'urbanistica, e che serve anche alla più attenta militanza. Il monito di Zambrini richiama le analoghe posizioni di un altro grande scienziato, molto presente in quegli anni nella cultura politica non solo italiana e che influenzò anche la «nuova» scuola di Urbanistica dello Iuav: Giulio Maccaccaro, direttore di Medicina Democratica, che soleva ripetere ai più appassionati operatori militanti della sanità e dell'ambiente: «Non perdete mai la copertura scientifica».

Le piaghe del paesaggio
Gli aspetti tecnici di base della pianificazione territoriale sono trattati articolatamente nei cinque capitoli del libro intitolati «Alcune questioni di cinematica e dinamica; di meccanica della locomozione; di portata e potenzialità; di geometria delle vie; di unità di misura e dimensioni», ma ogni formalismo nella trattazione degli argomenti viene abbandonato per lasciare spazio a un testo «teso al disvelamento del significato politico delle scelte tecniche in base all'assunto che la pretesa neutralità del tecnico rispetto al politico non esiste».
In una serie di volumi curati negli anni Settanta e Ottanta per Marsilio da studiosi e docenti del Dipartimento di Analisi Economica e Sociale del Territorio dello Iuav (tra gli altri Ada Becchi Collidà, Paolo Ceccarelli, Francesco Indovina, Bernardo Secchi) i saggi di Zambrini interpretavano le correlazioni tra il peso degli interessi monopolistici dell'industria dell'auto nel nostro paese, le politiche infrastrutturali e territoriali e la propensione a quella che Bernardo Secchi ha definito «crescita insediativa incrementale» italiana, esplosa più tardi nella «blobbizzazione», a elevato consumo di suolo, della città diffusa (ormai un macro filone nella letteratura urbanistica, oltre che una piaga nel paesaggio di quello che era il Bel Paese).

Irresponsabilità illimitata
Scrivono ancora Vittadini e Barp: «La critica stringente di Zambrini sulla questione autostradale e sulle distorsione delle priorità che deriva dal meccanismo della concessione ha fornito un contributo, ancor oggi molto importante di analisi tecnica e consapevolezza politica». In teoria le autostrade si sarebbero dovute ripagare almeno per il 75% con i pedaggi. «Succedeva invece che i costi di investimento assai superiori al previsto», o l'assenza di domanda adeguata mettessero in crisi tale presupposto. Le concessionarie insolventi venivano salvate allora tramite l'intervento «dello Stato (...) e la concreta elargizione di risorse pubbliche, fatalmente sottratte ad altri investimenti». Si introduce «la caustica definizione delle concessionarie come 'società a irresponsabilità illimitata' in Autostrade all'attacco, programmazione alle corde, il fascicolo che raccoglie gli editoriali di «Strade e Traffico» dei primi anni settanta», un concetto quantomai attuale, che ha costituito la base della «concessione generale» oggi operante nella Tav e nelle Grandi Opere care a Berlusconi e non solo. Le quali spesso usano risorse pubbliche a debito per imporre a territori che non le vogliono «infrastrutture inutili e dannose».
A fronte della dominanza delle politiche di sostegno al trasporto stradale, «Zambrini è tra i primi a sostenere l'uso delle ferrovie per servire la nuova mobilità delle aree metropolitane e più in generale delle aree dense». Tuttavia le sue proposte per sistematizzare la mobilità ferroviaria «non troveranno vita facile ... anche per le sostanziali resistenze dell'azienda FS rispetto a innovazioni di questo tipo. Un'azienda impegnata invece, con ben altro entusiasmo, nella realizzazione dell'Alta Velocità».
Fin dagli anni Ottanta Zambrini denuncia i pericoli della Tav come sistema «dominante e separato», rispetto alla rete ferroviaria nazionale e opera per riportare, con la Pianificazione Nazionale dei Trasporti, l'Alta Velocità a rapporti organici con l'intero sistema di mobilità alla grande scala. Ma assiste invece allo svilupparsi di meccanismi totalmente differenti, con la AV che addirittura supera e ingigantisce le distorsioni monopolistiche già viste nel sistema di concessioni autostradali; costruendo apparati che - lungi dalle logiche di mercato dichiarate - drenano le risorse pubbliche, sottraendole al resto del sistema, condizionando così le politiche non solo infrastrutturali, ma anche territoriali e urbanistiche.

Lavori di dubbia utilità
Zambrini aveva dunque prefigurato gli effetti dell'enorme peso assunto da progetti infrastrutturali tendenti a «rendersi singolarmente autonomi», anzi a scardinare le politiche di piano, «finendo per smarrire qualsivoglia utilità non solo trasportistica, ma addirittura sociale». In alcuni passi l'autore sembra partecipare al dibattito odierno: Buchi nei monti, buchi nei tubi, buchi nei conti si intitola un pezzo rimasto giustamente famoso nel quale si denuncia - come ricordano ancora Vittadini e Barp - «la propensione alle grandi opere infrastrutturali di dubbia utilità (buchi nei monti), con risultati economicamente disastrosi per il bilancio dello Stato (buchi nei conti), e a scapito di opere per scopi ben più necessari come avere l'acqua (buchi nei tubi)».
Con la ironia che lo caratterizzava, Zambrini sosteneva pervicacemente che la crescente insostenibilità dell'organizzazione del territorio non poteva che favorire un ritorno alle politiche di piano. Strumento che Zambrini intendeva come snello e processuale, fortemente incentrato sull'istanza programmatica di «formalizzazione spaziale di politiche»: strategie che, al di fuori di qualsiasi modellizzazione teoretica, erano tese ad attualizzare «l'armatura strutturale del patrimonio urbano e territoriale», mentre rispondevano alle «differenti esigenze di mobilità espresse dalle svariate soggettività emergenti».
Forse per questo guardava con interesse a progetti e programmi espressione di tale logica (molte applicazioni del Rapporto Buchanan - applicato nelle città inglesi negli anni Sessanta - appunto quale formalizzazione spaziale di politiche di ottimizzazione dei sistemi di mobilità urbana e metropolitana), mentre mostrava forte scetticismo rispetto alla problem solving capability della modellistica di derivazione accademica.
La «politica programmatica» di Zambrini è attuale come le sue analisi, richiamate dagli enormi problemi ambientali e urbanistici, che presenta oggi un territorio iperconsumato, troppo spesso non consolidato e invece aggredito da progetti di infrastrutture «divenute inutili e dannosi ingombri» per ambiente e società.
© 2025 Eddyburg