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Prefazione al nuovo libro di Renzo Moschini, Parchi e politica, Edizioni ETS, Pisa 2013. Anche per aprire un dibattito sul tema: per contrastare l'ideologia neoliberale dobbiamo proporre le "aree protette" come recinti, oppure come anticipazione di un diverso rapporto tra patrimonio e habitat dell'uomo? Ne riparleremo su queste pagine

Gli scritti di Renzo Moschini sono da anni un pungolo costante, quasi ossessivo, a tenere gli occhi bene aperti sulle dinamiche istituzionali che riguardano le aree protette italiane. E costituiscono anche un contributo essenziale di conoscenza: un contributo appassionato, competente e aggiornato che meriterebbe arene ben più ampie di quelle che riesce faticosamente a conquistare. Quest’ultimo libro fa il punto della situazione riferendosi in particolare ad al- cuni grandi blocchi tematici: la situazione generale delle aree protette italiane, le politiche generalmente dismissorie delle Regioni, la presenza (o l’assenza) della tematica dei parchi nei vari programmi elettorali, il livello e i contenuti della discussione sulle aree protette all’interno di Federparchi, le radici dell’approccio equivoco e potenzialmente devastante della “riforma” della Legge Quadro in discussione al Senato, la necessità di una mobilitazione che riporti la discussione da un lato su alti livelli teorici e da un altro sui contenuti concreti, in un momento avvertito come potenzialmente letale per i parchi italiani.

La lettura del libro, svelto come gli altri di Moschini, non richiede particolari avvertenze: tutte le persone che in questi anni hanno lavorato attorno alle aree protette o hanno riflettuto su di esse, vi ritroveranno temi familiari in un’ottica come sempre rigorosa e orientata anzitutto all’azione. Sollecitato dall’autore, vorrei invece fornire un ulteriore elemento di dibattito e – forse – di preoccupata urgenza ritornando su scenari più ampi rispetto a quelli trattati da Moschini, scenari dei quali la vicenda delle aree protette italiane è però parte integrante. In vari saggi di questo libro Moschini dimostra bene come la crisi dei parchi italiani non si esaurisce nel fenomeno dei tagli ai finanziamenti, per quanto tali tagli ne rappresentino l’aspetto più eclatante e pericoloso. Essa affonda le sue radici prime nella mancata attuazione di pezzi essenziali della Legge Quadro, già nel corso degli anni Novanta, e viene successivamente a coincidere con un appannarsi dello slancio politico e culturale che aveva portato, tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, all’approvazione nonsolo della Legge Quadro del 1991 ma anche di altri provvedimenti di analoga ispirazione come la legge sul mare del 1982, quella sul suolo del 1989, quella sugli Enti locali del 1990 e molti altri “Protocolli, Convenzioni, risoluzioni europee”. Tutti provvedimenti, sottolinea Moschini, che discendevano dall’inserimento di nuove issues nel quadro costituzionale e da una concezione nuova e più ampia della democrazia e dei rapporti tra le varie istanze del governo della cosa pubblica. L’esaurirsi di quella felice stagione, cui non a caso ha fatto seguito il dilagare pressoché incontrastato del berlusconismo, ha anche favorito un ulteriore allontanamento (o forse un riallontanamento) dell’Italia dalla cultura di governo dei paesi centro e nord-europei, indelebilmente segnata da un forte senso di responsabilità istituzionale. L’ipotesi che avanzo è appunto che in un paese a modernizzazione limitata come il nostro, il gran numero di ritardi e di anomalie istituzionali rispetto alle democrazie centro e nord europee abbiano favorito un’estremizzazione dei caratteri più devastanti della teoria e delle prassi neoliberiste, che in ogni caso costituiscono da un trentennio la bussola politico-culturale incontrastata a livello planetario. Il neoliberismo è diventato infatti dall’inizio degli anni Ottanta pensiero e prassi unificata a livello mondiale, salvo poche e marginali eccezio- ni, ma ha avuto applicazioni e fortune diverse a seconda della cultura del pub- blico e del senso dello Stato con cui ha dovuto confrontarsi luogo per luogo. Se Reagan, com’è noto, ha potuto affondare la lama nel poco welfare e nei pochi diritti sindacali ereditati dall’epoca di Roosevelt come se si trattasse di burro, Margaret Tatcher ha dovuto ritirarsi dalla vita politica dopo aver demolito molto, ma anche di fronte a resistenze popolari e istituzionali insormontabili. E ancor oggi molti nobili pezzi del sistema di garanzie pubbliche costruito dal 1945 in poi in Gran Bretagna rimangono saldamente in piedi. Per un attimo la gravissima crisi manifestatasi a partire dall’estate del 2008 ha fatto pensare che tali politiche neoliberiste – causa prima della crisi medesima – fossero al capolinea, ma è stato presto chiaro che si trattava di un’illusione:già da tempo storici e analisti del neoliberismo (penso anzitutto a David Harvey) avevano chiarito che sono proprio le crisi economiche, e tanto più quanto più sono gravi, a costituire formidabili strumenti di riplasmazione e di reindi- rizzamento dell’economia, della cultura e della società in senso ancor più individualista e mercantile che in passato.
Il modello culturale neoliberista è infatti una forma di fondamentalismo ideologico che nega alla radice, programmaticamente, da un lato la legittimità stessa di qualsiasi dimensione collettiva e pubblica dell’agire sociale (giustamente celebre è la lapidaria definizione di Margaret Thatcher: “there is no such a thing like the society”) e da un altro lato qualsiasi dimensione culturale e morale non riconducibile ai valori dell’ottimizzazione mercantile, se non in casi strumentali e comunque anomali come quello dell’alleanza strategica statunitense tra neoliberismo e fondamentalismo cristiano. In queste condizioni tutto ciò che è espressione di valori e interessi collettivi, comunitari, che tende cioè a trascendere l’individuo inteso come homo oeconomicus in nome di valori non mercantili è considerato un’illusione, per di più un’illusione pericolosa, foriera di gravi guasti tanto all’economia quanto – di conseguenza – alla coesistenza collettiva.
In queste condizioni, inoltre, tutto ciò che non è riconducibile a utilità immediata, a qualche forma di redditività, finisce col ricadere in un limbo di anomia, di incomprensibilità. Rischia di divenire cioè un lusso tendenzialmente insensato. Lo vediamo bene oggi, del resto: la ricerca a cosa serve, se non a realizzare brevetti? A niente. La formazione a cosa serve, se non a plasmare forza lavoro di immediata utilizzabilità nel processo produttivo? A niente. Tutto quanto eccede rispetto a questi due fini è infatti considerato un costo senza alcuna ragionevole contropartita, un lusso arcaico e ormai insensato, un non senso da sopprimere senza remore. Rispetto a questo quadro le aree protette non costituiscono affatto un’isola felice. Sostengo al contrario che essendo esse un pezzo organico e particolarmente significativo della storia dell’Occidente, prima liberale poi socialdemocratico o socialista, esse sono precisamente nell’occhio del ciclone che sta travolgendo tutta questa storia.
Tutta la storia delle aree protette, al pari di tante altre cruciali invenzioni occi- dentali degli ultimi due e più secoli, dal welfare state alla tutela del patrimonio e alla formazione pubblica, è infatti storia di costruzioni collettive, nate dal riconoscimento di interessi collettivi e da sforzi comunitari mediati dalla sfera pubblica, fuori dal vincolo dell’utilità immediata del profitto mercantile e in molti casi proprio in opposizione alla logica di tale profitto. Non è certo un caso che il parco nazionale di Yellowstone, il mitico antenato di tutte le odierne aree protette, nasca “as a public park or pleasuring ground for the benefit and enjoyment of the people”; né è un caso che nel presentare il progetto di legge che sarebbe poi divenuta la nostra Legge Quadro 394 del 1991 Gianluigi Ceruti ricordasse come “la gestione dei parchi nazionali implica una disciplina dell’uso dell’ambiente naturale che, pur interferendo inevitabilmente con l’urbanistica non ne rimane assorbita perché comprensiva di valori più globali, non solo economici ma anche metaeconomici”.
Le aree protette costituiscono insomma una sorta di quintessenza dell’interesse collettivo, inteso tra l’altro in modo via via più ampio: da quello squisitamente nazionale dei parchi di fine Ottocento-inizio Novecento fino a quello universale affermatosi dopo la seconda guerra mondiale. E sin dalle origini sempre in senso schiettamente intergenerazionale. Ciò che oggi minaccia alla radice le aree protette come prassi istituzionale ma ancor più come idea, come progetto, non sono insomma tanto e solo i tagli finanziari operati in questo periodo in Italia, l’incuria e l’incultura del Ministero e delle Regioni o il disinteresse delle forze politiche, ma prima di ogni altra cosa il compatto predominio della teoria e della cultura neoliberista e l’ancor più compatto dominio delle cosiddette “ricette” operative che invariabilmente da quella teoria discendono. Sotto tale dominio è un’intera civiltà che viene minacciata alla radice, è minacciato cioè un modo di considerare non solo l’economia ma ancor più la società, il vivere comune, la cultura. E con essa tutti i suoi ricchi e abbondanti frutti istituzionali prodotti in oltre due secoli. Da queste fin troppo schematiche considerazioni traggo due semplici e provvisorie conclusioni. La prima è che nessuno è autorizzato a pensare che le misure prese da Mario Monti e dai suoi ormai ex tecnici (ma lo sono mai stati davvero?) e votate dalla quasi totalità degli schieramenti politici italiani possano costituire in alcun modo una amara ma necessaria premessa risanatrice a un qualsivoglia “ritorno alla normalità”. Esse vanno considerate al contrario coerenti misure di smantellamento, il cancro che corrode – misura dopo misu- ra, spending review dopo spending review, finanziaria dopo finanziaria – tutte quelle che noi qui oggi riteniamo irrinunciabili conquiste di civiltà e per le quali ci battiamo da sempre con generosità e passione. Se non passiamo attraverso questo rovesciamento di prospettiva difficilmente conquisteremo – a mio avviso – una piena consapevolezza dei contorni e della dimensione della crisi delle aree protette, non solo italiane ma anzitutto italiane. La seconda conclusione è che se assumiamo questa prospettiva dobbiamo anche fare un altro passaggio mentale della massima importanza. Dobbiamo riconoscere cioè che la tutela dell’ambiente, la tutela del paesaggio, la tutela del territorio, la tutela del patrimonio storico artistico sono minacciati dalla stessa logica e dalle stesse misure, e per gli stessi motivi. E dobbiamo anche riconoscere – cosa più difficile ma altrettanto necessaria – che l’attacco all’ambiente, al territorio, al paesaggio, al patrimonio storico artistico e la progressiva dismissione della tutela sono una cosa sola con la dismissione del welfare state, della formazione e della ricerca pubbliche, della cultura umanistica e di quella critica. Da ciò discende a mio avviso che il nostro orizzonte, cioè l’orizzonte di chi oggi si batte nel nostro paese per un’organica politica delle aree protette, non può essere altro che quello che forse confusamente ma anche in modo urgente e generoso sta cercando di costruirsi sotto lo slogan dei “beni comuni”.
Il nostro posto deve essere attivamente e consapevolmente in quell’orizzonte, in una prospettiva di profondo cambiamento del senso comune e di radicale rovesciamento delle politiche pubbliche, in stretto rapporto con chi si occupa di tutela del patrimonio storico artistico, facendo attivamente fronte comune con chi difende il modello sociale europeo nelle sue varie articolazioni: diritti di cittadinanza, diritti sindacali, democrazia rappresentativa, sviluppo della ricerca e della formazione pubbliche. Tutto questo, però, con un’avvertenza in più per quel che riguarda il nostro specifico, cioè le aree protette, in quanto esse sono tra le nostre conquiste collettive e di civiltà più fragili rispetto all’offensiva neoliberista. E questo per tre motivi. Il primo motivo è che esse nascono per tutelare degli interessi che noi possiamo considerare cruciali – e anche più cruciali di altri – ma che sono collettivi per eccellenza, e oltretutto fortemente diluiti nel tempo e nello spazio: i parchi tutelano infatti interessi e diritti che sono prima di ogni altra cosa universali e intergenerazionali e persino non umani. E questi sono tutti interessi tipicamente non riconosciuti, e anzi ritenuti scioccamente o pericolosamente ideologici dalla vulgata e dalla prassi neoliberista. Uno dei rischi non minori che corrono le aree protette è quindi quello di essere considerate presidi di interessi ben più che illegittimi, addirittura illusori, inesistenti, con tutto quanto ne consegue in termini di politiche concrete.
Il tentativo recente e sempre più frequente di legittimare, ad esempio attraverso una lettura riduttiva di elaborazioni UICN, l’esistenza delle aree protette principalmente o addirittura esclusivamente sulla base della loro capacità di produrre “servizi ecosistemici” rappresenta un cedimento estremamente pericoloso all’ideologia neoliberista, sia dal punto di vista culturale che dal punto di vista delle politiche effettive. Il secondo motivo è più concreto, ed è che esse non presentano in ogni caso pressoché nessun aspetto direttamente redditizio. A differenza dei musei, dei singoli monumenti naturali o storico-artistici di maggior prestigio o anche di alcune singole opere d’arte un’area protetta non è in grado di produrre reddito immediato se non in misura marginalissima. Di contro, le aree protette costituiscono un costo che appesantisce il livello generale di tassazione. Sono insomma istituzioni che costano e che in quanto tali non producono alcun introito realmente significativo. Che producano ricchezza indirettamente ha ben poca importanza, anche perché la contabilizzazione di tali ricchezze è faticosa e dai risultati sempre un po’ dubbi, per non dire sospetti, e comunque non si tratta mai di profitti canalizzabili agevolmente all’interno dei grandi flussi finanziari a carattere speculativo, gli unici che veramente oggi contano politicamente. Il terzo motivo, che è un corollario del secondo, è che le aree protette non pos- sono essere oggetto di compravendita. Un sistema sanitario con le sue strut- ture e le sue aspettative di profitti e di rendite si può mettere sul mercato – lo sappiamo bene; un sistema formativo, idem; un sistema penitenziario pure; persino un sistema di gestione del patrimonio artistico si può mettere sul mercato. Cosa succeda dopo lo possiamo ben immaginare, ma ai fini del no- stro ragionamento conta ben poco. La questione essenziale è che un sistema di aree protette non si può mettere sul mercato perché non è costituito da beni economicamente significativi né offre possibilità di gestione capace di generare profitti o rendite ragionevoli. In una prospettiva – fantascientifica ma non troppo – di smantellamento totale dell’intervento pubblico nel campo del sociale e dei diritti il destino delle aree protette è quindi puramente e semplicemente quello di sparire. Si osserverà a ragione che i segnali che arrivano dal resto d’Europa, dove pure domina lo stesso tipo di cultura economico-politica, le aree protette non stanno sparendo ma anzi in molti casi vengono ampliate e fatte oggetto di politiche sempre più raffinate. Questo è in effetti quanto sembra emergere tanto da analisi di alcune politiche nazionali quanto da panoramiche generali come quella offerta pochi mesi fa dalla European Environment Agency nel suo studio Protected areas in Europe – an overview, ma come ho accennato più sopra gran parte dei paesi citati positivamente nello studio (Francia, Germania, Regno Unito) sono paesi di solida tradizione statuale e di grande responsabilità istituzionale per cui è abbastanza difficile che tendano ad abbandonare a se stesse o addirittura a far morire istituzioni pubbliche prestigiose e amate comele aree protette; inoltre, ad aggravare il cupio dissolvi italiano c’è la disgraziata collocazione del paese nel novero degli stati oggetto di attacchi speculativi e di conseguenza oggetto di politiche di aggiustamento draconiane, uno dei cui fini strategici è sempre quello di ridurre drasticamente gli spazi di intervento pubblico. Che tali politiche siano inefficienti ai fini della ripresa e al tempo stesso devastanti istituzionalmente, socialmente e culturalmente, come ormai affermano in molti di qua e di là dell’Oceano e come comincia ad apparire evidente, sembra d’altra parte non interessare che a pochi.
Mi pare che queste siano, per l’essenziale, le radici dei fenomeni descritti da Renzo Moschini lungo le pagine di questo volume. Se questo è vero, la risposta deve essere molto consapevole e decisa, evitando tutti quei compromessi che finiscono poi regolarmente per sfociare in iniziative equivoche e dannose. E deve essere una risposta multiforme: da parte di chi opera a vario titolo nelle istituzioni, di chi milita nei partiti, di chi lavora nelle aree protette, di chi sta nelle associazioni ambientaliste, ma soprattutto deve essere nuovamente una risposta che parte dalla cittadinanza, dalla mobilitazione di base. Senza un ampio movimento popolare, quanto possibile analogo a quello degli anni Settanta e Ottanta, e anche stavolta ancorato ad ambiti più vasti (beni comuni, democrazia, rappresentanza, nuovo modello di sviluppo) per le aree protette italiane il destino è segnato. In questo senso le recentissime riflessioni – e proposte – consegnateci da Salvatore Settis col suo Azione popolare. Cittadini per il bene comune, sembrano davvero inaggirabili. Quando con Renzo Moschini e tante altre figure, vecchie e nuove, del mondo dei parchi abbiamo avviato l’esperienza del Gruppo di San Rossore proprio a questo pensavamo. E questo libro è parte di questo percorso, ancora tutto da costruire.

Una puntuale recensione all'ultimo lavoro di Francesco Erbani dedicato al degrado urbanistico e non solo della Capitale, governata da una classe dirigente storicamente inadeguata al livello dei problemi, e oggi preda della cultura liberista egemone

La Roma che si presenta oggi alla nostra osservazione e per tanti di noi all'esperienza quotidiana della vita vissuta, costituisce un vasto e multiforme laboratorio in cui verificare, sulla base di prove storiche, di ambiti e materiali direttamente osservabili, il fallimento indiscutibile di una stagione del capitalismo italiano. E non solo. Nelle sue strutture materiali come nel clima della vita civile, si può leggere il rendiconto, con poche luci e con molte ombre, di un gruppo dirigente cittadino che ha incarnato a modo suo, ed entro le specifiche smagliature della tradizione urbanistica italiana, la cultura neoliberista trionfante negli ultimi due decenni. Una cultura interpretata, ovviamente, con varie gradazioni dai partiti e gruppi dirigenti romani, ma pur sempre unico orizzonte prospettico per l'intero ceto politico. Roma mostra oggi, con i suoi innumerevoli problemi irrisolti, con le sue confuse e oscure prospettive, quanto l'affidare gli spazi che per ragione storica fondativa sono pubblici e comuni– quelli appunto della Città - ai liberi e sregolati appetiti dei privati conduce ad esiti di ingovernabile disordine urbano e sociale.

Quanto affermo ce lo mostra oggi limpidamente Francesco Erbani nel suo Roma. Il tramonto della città pubblica, Laterza Roma-Bari 2013, pp175, euro 12. Il testo, scandito in 8 capitoli, affronta e rende comprensibili anche al lettore non esperto i grandi nodi urbanistici, ambientali, sociali, in cui la città si dibatte. E lo fa con un taglio elegante di saggistica, che è insieme una scelta di conoscenza condivisa, di esplorazione dal vivo insieme a gruppi di cittadini romani, che non solo vivono i problemi del proprio quartiere, ma ne studiano le ragioni, le conseguenze, le soluzioni possibili. Si tratta di « quel vasto fronte dei comitati di cittadini, di gruppi e associazioni che producono una mole imponente di indagini sul proprio quartiere e che avviano vertenze per salvaguardare quel che appartiene a una collettività e che invece si vorrebbe alienare a vantaggio di pochi.» Ma quel che è paradossale è che tale mole volontaria di ricerca, di studi, in cui operano anche valenti professionisti, ha come controparte « quasi sempre il pubblico che smette di fare il pubblico, sono l'amministrazione e l'ente che si sottraggono al compito di tutelare interessi generali.»

Erbani dunque racconta i problemi di Roma attraverso le associazioni che operano a Corviale, oppure tramite le interviste ai promotori dell'Osservatorio Casilino, che difendono un' ampia area di pregio paesaggistico ( e di memorie pasoliniane ) dai progetti edificatori di Alemanno; oppure i cittadini di No Corridoio, che da anni sono in mobilitazione contro il progetto di Corridoio Tirrenico destinato a tagliare vasti territori, dalla Roma.Fiumicino-Civitavecchia per arrivare a Latina. Ma naturalmente Erbani ascolta il parere esperto di urbanisti e docenti, da Paolo Berdini a Giovanni Caudo, a Vezio de Lucia. Non si creda, tuttavia, che Roma sia un semplice assemblaggio di interviste: il testo è sorretto da una solida e invisibile intelaiatura storico-urbanistica, che compare di tanto in tanto, con leggerezza e senza apparati, nei nomi di Italo Insolera o Leonardo Benevolo, di Ludovico Quaroni o Antonio Cederna. Solo per ricordarne alcuni. Tanto più che il testo spiega con sguardo storico come sono sorti e diventano irrisolvibili i problemi di una città nella quale, da decenni, la rendita fondiaria di alcuni gruppi privati ispira le linee direttrici della sua espansione.
E tale sguardo storico mostra una cesura politica importante, a partire dagli anni '90, quella che segna l'abbandono, da parte del ceto politico, dell'urbanistica come progetto “pubblico” , piano di sviluppo della città secondo gli interessi collettivi. Fiorisce allora, come nel resto d'Italia, l'urbanistica “negoziata”, che rifiuta i piani regolatori e disegna la crescita della città quale risultato di accordi e scambi tra l'amministrazione pubblica e i privati, quasi sempre grandi proprietari di suoli. Se l'amministrazione ha bisogno di costruire opere pubbliche scambia con i privati tale investimento, concedendo ad essi il permesso di edificare sulle aree possedute. Per la verità sono stati quasi sempre i privati a suggerire al Comune cosa e dove costruire. E l 'amministrazione ha perso( anche per questo) ogni visione coordinata dell'espansione dell'edificato. Ma è stato utile alla città tale scambio ? Il suolo è bene limitato, ed è un bene comune, nel senso che la sua occupazione con un edificio condiziona la vita della comunità dei cittadini: fa sparire il verde, attrae traffico veicolare, degrada la qualità dell'aria, ecc.
Ma anche l'edificabilità delle aree possedute dai privati è frutto di un grave scacco del potere e dell'interesse pubblico. Esso dipende in parte da un caratteristica del nostra giurisprudenza, che non ha saputo separare – come accade in altri paesi d'Europa - il diritto di proprietà dallo jus aedificandi. Ma, come ricorda Erbani, sulla scorta di Edoardo Salzano e Vezio de Lucia, l'edificabilità di alcuni suoli a Roma è sancita dal Piano Regolatore del 1962, quando la situazione storica era radicalmente differente da quella attuale, allorché ci si attendeva un'ampia crescita demografica e si era dominati da una cultura sviluppista che ignorava alla radice la stessa nozione di ambiente. Così la città è venuta espandendosi disordinatamente nella campagna trascinando con sé traffico veicolare diffuso e caotico. Un'espansione lasca che impedisce oggi i collegamenti in ferro, troppo costosi per far spostare una popolazione rada e dispersa.
Le cifre che Erbani fornisce delle linee di metropolitana di altre capitali ci fanno semplicemente arrossire: Roma, in km di linee ( 41,5), è superata non solo dalle grandi città europee, ma perfino da Bucarest (70 km) da Atene ( 55 km) da Teheran (140km). E' perciò abbastanza conseguente che la città abbia ben 978 veicoli a motore ogni 1000 abitanti, comprendendo fra questi i neonati e i novantenni. Un traffico che è ragione di scarsa mobilità e di infelicità del vivere cittadino. Ed esso non risparmia neppure il centro storico, nel frattempo ridotto a un caotico suk da un turismo predone lasciato alla sua sfrenatezza consumistica. Ma la Roma che cresce sulla base degli interessi privati cova nel suo seno altre contraddizioni insanabili. Circa 193 mila case sfitte al censimento del 2001( oggi sarebbero 250 mila) a fronte di oltre 30 mila famiglie che non hanno un tetto. E il sindaco uscente, che continua a suo modo la tradizione “liberale” di Rutelli e Veltroni, vorrebbe imporre altri svariati milioni di metri cubi a una città ormai deforme. Fino a quando gli uomini e le donne che animano i circoli e i comitati nei territori non diventeranno classe dirigente della capitale, la speranza che Roma riacquisti un'idea di sé e del proprio futuro è alquanto esile.
Questo articolo viene inviato contemporaneamente al manifesto. Su questo sito abbiamo pubblicato l'introduzione dell'Autore al volume, che ci è stata cortesemente inviata in anteprima

Sebbene "sostenibilità" sia un termine ambiguo, le precisazioni del suo senso rendono quasi pienamente condivisibile l'analisi e le conclusioni di questo intervento.Come al solito. Il manifesto, 27 marzo 2013. Con postilla

L'esito delle elezioni ha creato una irreversibile instabilità del sistema politico italiano, ma sta anche facendo prendere coscienza a molti che siamo ormai alla vigilia di un "cambio di paradigma". Il sistema politico che ha retto le sorti del Paese negli ultimi vent'anni, ma soprattutto l'assetto economico che lo ha forgiato e foraggiato, non reggono più. Il successo di Grillo non ne è che un segnale. Questo assetto, espressione e referente del cosiddetto "pensiero unico", è il combinato disposto di vari fattori.

Globalizzazione, delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico, debito pubblico e privato come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del lavoro, guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. È il paradigma che si è andato affermando nell'ultimo quarto del secolo scorso a spese di quello che era stato in vigore prima, nei cosiddetti "trent'anni gloriosi" (1945-75) senza che per molto tempo quel passaggio venisse avvertito in tutta la sua portata. Perché fino a quarant'anni fa i meccanismi portanti dell'accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo economico (sia nei paesi già "sviluppati" che in quelli "in via di sviluppo") e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa pubblica e l'intervento dello Stato nell'economia. Anche quel paradigma aveva comunque concluso il suo corso perché non reggeva più: a metterlo alle strette erano state le aspettative di uguaglianza, di autonomia, di democrazia, di libertà delle nuove generazioni (non a caso si era parlato allora addirittura dei "giovani come classe"): i movimenti studenteschi del '68, la rivolta antimilitarista contro la guerra in Vietnam, la discesa in campo, in molti paesi, di una classe operaia giovane, spesso immigrata, ancora in gran parte concentrata in grandi stabilimenti industriali; e poi, al loro seguito, una pletora di "categorie" sociali - dai ricercatori ai giornalisti e agli insegnanti, dai poliziotti ai magistrati, dai disoccupati "organizzati" ai baraccati - che aveva messo in moto, senza portarla a termine, quella «lunga marcia attraverso le istituzioni» preconizzata da Rudi Dutschke.

Adesso un nuovo cambio di paradigma, e ben più radicale e traumatico, è di nuovo all'ordine del giorno; non è ancora il contenuto esplicito di un conflitto aperto, ma cova sotto traccia da parecchi anni. C'è chi sostiene che la soluzione alla crisi in corso sia il ritorno al paradigma di un tempo: più Stato e meno mercato, più spesa pubblica per rilanciare redditi e consumi, più Grandi Opere e incentivi alle imprese per creare occupazione. Ma bastano ricette del genere per far fronte alla crisi?

No. Le condizioni che presiedevano al modello dei "trenta gloriosi" non ci sono più. Il mondo si è "globalizzato": lo hanno reso tale non solo la "libera circolazione" dei capitali (che certamente va bloccata) e l'enorme viavai di merci generato da una divisione del lavoro estesa su scala planetaria (che va drasticamente ridotto). Ma anche internet - una grande risorsa per tutti - la diffusione dell'istruzione, e l'accesso all'informazione, in tutti i paesi e i giganteschi flussi migratori che attraversano il mondo intero, che sono invece fenomeni irreversibili. Tuttavia l'orizzonte esistenziale della nostra epoca è ormai occupato - la si voglia vedere o no - dalla crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Crescita e sviluppo - pur con tutte le qualificazioni del caso - sono ormai ritornelli ricorrenti ma privi di senso perché la crisi ambientale sbarra la strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione.

Bisogna allora rivedere alle radici gli assetti che ci hanno portato sull'orlo della catastrofe. La finanziarizzazione, da tutti individuata come causa principale della crisi (anche se i più affidano ad essa anche la ricerca delle soluzioni per uscirne) non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre due secoli fa con quella che Karl Polanyi aveva chiamato «la grande trasformazione»: la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere, pena la distruzione della vita associata (e, oggi possiamo dirlo, anche del nostro rapporto con Madre Terra). Quelle tre "cose" che continuano a rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (Polanyi le chiamava «merci fittizie») sono il lavoro, la terra e il denaro. La lotta dei lavoratori contro la propria mercificazione non ha bisogno di illustrazioni, perché è la storia stessa del movimento operaio nelle sue più diverse espressioni. L'appropriazione delle terre (enclosure, ai tempi di Elisabetta I e landgrabbing oggi) è stata ed è la base di quell'«accumulazione primitiva» che per il capitale non è un processo iniziale, ma permanente. Però oggi è tutta la Terra, intesa come ambiente (aria, acqua, suolo ed energia), a essere oggetto di compravendita sotto forma di green-economy: un valido motivo per contrastarla nei suoi presupposti, perché è l'esatto opposto di una vera conversione ecologica. Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali - misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione - la finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione sulle altre due: il prezzo delle merci è ormai determinato dalle speculazioni su di esse più che dal valore o dal contributo degli input produttivi e gli scambi - il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio - sono sempre più mediati da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della finanziarizzazione. La crisi in corso non è altro che questo. Perciò, anche se non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l'uscita dalla crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul lavoro, sui beni comuni e sul credito (l'attività delle banche; perché denaro e credito sono in gran parte la stessa cosa). Non sarà una passeggiata, ma un conflitto lungo e aspro, che solo una profonda consapevolezza che «ritirarsi è peggio» potrà alimentare. Sapendo però che il nuovo paradigma dovrà convivere ancora a lungo con forme, ancorché depotenziate, di economia del debito; così come la democrazia partecipativa non potrà - né dovrà - fare a meno di quella rappresentativa, e di quel sistema politico degradato che la sorregge ormai in tutto il mondo.

Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci) è l'unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell'occupazione che il sistema economico attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l'altra, un paese dopo l'altro.

La transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata dall'alto o da un "centro" - come è il caso, invece, nella maggior parte delle politiche neokeynesiane - perché si fonda su diffusione, ridimensionamento, differenziazione e interconnessione orizzontale sia degli impianti produttivi che degli interventi: si pensi alla vera vocazione delle fonti rinnovabili (per essere efficienti devono essere piccole, differenziate e distribuite e non concentrate come si fa ancora troppo spesso), all'efficienza energetica, all'agricoltura multifunzionale e a km0, alla gestione dei rifiuti, alla mobilità flessibile, alla salvaguardia degli assetti idrogeologici, ecc. Quel nuovo paradigma è intrinsecamente democratico e indissolubilmente legato a uno sviluppo della partecipazione, perché non può affermarsi senza il concorso dei saperi diffusi presenti sul territorio e l'iniziativa dei lavoratori e delle comunità interessate; il che impone agli asset sottoposti alla transizione il connotato di "beni comuni" .

L'altro requisito irrinunciabile del nuovo paradigma è la ri-territorializzazione (o ri-localizzazione) di molte attività produttive. Gli effetti nefasti della globalizzazione non si combattono con il protezionismo (fermare le merci ai confini preclude la possibilità di esportarne altre: quelle necessarie a pagare ciò che un singolo Paese o anche un singolo continente non potrà mai produrre); e meno che mai con il ritorno alle valute nazionali. Non è l'euro - che è "solo" una moneta - la causa degli squilibri crescenti che investono l'Europa; bensì il modo in cui l'euro è governato: cioè i limiti, che le altre valute mondiali non conoscono, imposti alla sua gestione per trasferire meglio all'alta finanza il comando sulle politiche economiche nazionali e per portare avanti l'attacco a occupazione, salari e welfare. La ri-territorializzazione si realizza invece promuovendo controllo sociale sui processi produttivi; e innanzitutto sui servizi pubblici locali (energia, ristorazione pubblica, gestione dei rifiuti, mobilità, servizi idrici, ecc.) e combattendone la privatizzazione. Convertiti in "beni comuni" gestiti in forma partecipata, i servizi pubblici locali possono diventare il punto di raccordo tra la promozione di una domanda finale ecologicamente sostenibile e l'offerta di impianti, materiali, attrezzature e know-how necessari per soddisfarla. Per esempio, raccordo tra diffusione delle fonti rinnovabili e dell'efficienza energetica e imprese riconvertite alla produzione degli impianti e dei materiali corrispondenti. O tra approvvigionamento di cibi sani e a km0 per le mense pubbliche e per tutti coloro che lo desiderino e un'agricoltura ecologica di prossimità; e così per la mobilità, l'edilizia, la gestione dei rifiuti, ecc. Certo garantire l'incontro tra domanda e offerta richiede accordi di programma di cui possono farsi carico solo i governi locali che assumono su di sé la responsabilità della transizione. Accordi che certo limitano la concorrenza - ma non il funzionamento dei mercati - nelle forme propugnate dal pensiero unico e dall'establishment. Ma sono accordi fattibili, persino compatibili, in nome della salvaguardia dell'ambiente, con la normativa dell'Ue; e che in alcuni casi vengono già praticati. E' la strada che occorre percorrere.

Postilla
Diremmo che «la transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata solo dall'alto o da un "centro"». Rinviamo in proposito a quanto sostiene David Harvey a proposito della necessità di intecciare la dimensione "verticale" e quella "orizzontale" della democrazia in Rebel cities (London-New York, 2012), malauguratamente non ancora tradotto in italiano. Per il carattere ambiguo del termine "sostenibilità" rinviamo a testo di Ilaria Boniburini. "L'ideologia della crescita, l'inganno dello sviluppo", in La città non è solo un affare, a cura di M. Baioni, I. Boniburini, E Salzano, Reggio Emilia 2012.

Insistono per far rivivere un vecchio scandalo (per loro era un ottimo affare solidamente sponsorizzato), al quale sia eddyburg che Report dedicarono molta attenzione. Il Fatto quotidiano, 27 marzo 2013

Richiesta di risarcimento del fratello del Cavaliere per la mancata costruzione di "Milano 4" sull'area della Cascinazza. La giunta di centrodestra non era riuscita a sbloccare la pratica nonostante l'impegno dell'assessore Paolo Romani (poi indagato), quella di centrosinistra ha definitivamente vincolato l'area a parco. Dovrà dire addio a ruspe e cazzuola e ai suoi sogni di costruire Milano 4, ma Berlusconi junior non ha alcuna intenzione di arrendersi e ha deciso di chiedere i danni per la mancata edificazione per una cifra che si aggira sui 60 milioni di euro.

Non arriveranno più i 420mila metri cubi di cemento sul celebre terreno della Cascinazza di Monza acquistato negli anni Ottanta da Paolo Berlusconi, fratello del Cavaliere, perché tutti i suoi50 ettari sono destinati ad entrare nel Parco della media valle del Lambro. , revocando la Variante al Pgt costruita dall’ex ministro Paolo Romani mandato come assessore all’Urbanistica proprio per chiudere la questione nel 2008). La Giunta «rossa», tra l’altro, non solo ha deciso che non sarebbe arrivato nuovo cemento, ma ha perfino vincolato per sempre l’area a Parco, stabilendone la tutela e impedendo edificazioni future se non con qualche recupero della vecchia cascina.

Un bello sgambetto per la proprietà dell’area (che oggi è la Lenta Ginestra, società che ha incorporato la Istedin di Paolo Berlusconi con un finanziamento soci infruttifero di scopo per corrispettivi 40 milioni di euro) che però non ha alcuna intenzione di arrendersi.

Stavolta, considerando che la Variante al Pgt redatta quando era assessore Paolo Romani aveva fatto rivalutare il terreno di almeno 60 milioni di euro, la società si è rivolta al Tar chiedendo il risarcimento per danni patiti per un corrispettivo pari al valore economico dell’edificabilità, una cifra che sfiora appunto i 60 milioni. Il Comune di Monza ha dato ora mandato all’avvocato per resistere in giudizio e l’assessore all’Urbanistica Claudio Colombo si è detto tranquillo. «Anche perché – ha svelato – la proprietà nel notificare il ricorso impugnando la delibera di revoca aveva commesso un errore e al posto di inviarla a Monza, l’aveva spedita al comune di Milano. Con conseguente decadimento del ricorso e scadenza dei termini per agire contro la decisione dell’Amministrazione».

Naufragata così la possibilità di contestare la mancata edificazione, adesso la società si può limitare a chiedere i danni. La vicenda, insomma, dopo trent’anni continua. Acquistato nel 1980 dai Ramazzotti (quelli dell’Amaro), il terreno era costato 11mila lire al metro quadro perché era considerato agricolo (vi sorgeva solo l’antica Cascina, da cui la zona prende il nome oltre ad essere a rischio esondazione del fiume Lambro). I nuovi proprietari però avevano chiesto subito l’edificabilità appellandosi a un vecchio piano di lottizzazione del 1962 già decaduto. Tentativi di edificare tutti falliti, fino a quando la Cassazione nel dicembre 2006 aveva espresso l’ultima parola, dando ragione al Comune che non permetteva l’edificazione e torto alla Istedin. «Deve essere rigettato il ricorso che chiedeva diritto ad edificare e nessun indennizzo è dovuto alla proprietà», stabilì la Corte, chiudendo così la questione. Ma adesso la società che ha acquisito per incorporazione Istedin ha deciso di riprovarci.

Riferimenti: Vedi su eddyburg questo servizio e numerosi altri articoli nella cartella SOS Padania

Auguri al sindaco di Rimini. Gli ricordiamo che i proprietari di terreni resi edificabili dal piano regolatorevigente non hanno alcun “diritto edificatorio” da rivendicare contro unasaggia, motivata ed equa variante delle previsioni urbanistiche comunali. La Repubblica,ed. Bologna, 26 marzo 2013

Rimini è l’unica città nel Paese che può vantarsi (?) di avere procreato un verbo, presente in ogni vocabolario della lingua italiana: riminizzare. Sinonimo, più o meno, di «costruire in maniera disordinata e selvaggia». La domanda che mi faccio in queste ore, le più dure da quando nel giugno 2011 sono stato eletto sindaco, è questa: sarà consentito a Rimini di lasciare il poco onorevole spazio dedicato dal dizionario nazionale? E mi rispondo: no. Non bastassero il patto di stabilità che, di fatto, ha azzerato qualunque capacità di investimento da parte dei Comuni; oppure il combinato disposto tra Comune “esattore per conto terzi” di tasse odiose, pressione sociale centuplicata dalla crisi economica, desertificazione di qualunque credibilità partitica. Nella “capitale delle vacanze” la matassa va ingarbugliandosi intorno al tema urbanistico. I fatti sono presto detti: ventidue mesi fa, al suo insediamento, questa Amministrazione comunale e questa maggioranza avevano investito gran parte del proprio mandato sullo stop al consumo del territorio. E non per un ideologico “basta al cemento” ma sulla base di una semplice lettura che vedeva nel cambiamento epocale determinato da una società in crisi le ragioni di una svolta nel modello di sviluppo. Così, mentre l’Europa si attrezza con quartieri senz’auto, alimentati esclusivamente da energie rinnovabili, in Italia, in Emilia Romagna e a Rimini, lo sviluppo non può prescindere dal mattone. E sul mattone Governi vanno silenziosamente in crisi.

Nel tortuoso passaggio da Piano regolatore a Piano strutturale e Masterplan, l’amministrazione comunale di Rimini sta tentando di fermare il milione e 200 mila metri quadrati di nuove richieste di ‘capacità edificatoria’ avanzate con le osservazioni. Sono circa 20 mila nuove case o uffici o negozi che calerebbero in un contesto che già si fregia del titolo onorario di cui sopra e che in questo momento conta già su 15 mila abitazioni sfitte. Secondo pareri, normative, prassi, non si può dire ‘no’. C’è quindi chi pensa che il Comune non debba che vidimare le precedenti scelte o assecondare le nuove richieste. A questa apparente inevitabilità, ci siamo opposti.

Il risultato? Dubbi affioranti in maggioranza causa “intimidazioni” legali dei costruttori, una denuncia per abuso d’ufficio nei miei confronti, la pressione ormai insostenibile di chi ti sbatte in faccia anche i drammi occupazionali per giustificare la resa alle antiche consuetudini. Da parte mia, andrò fino in fondo, sino alle estreme conseguenze, legali e politiche. Non mi troverei a mio agio nella parte di chi, come il mio collega di Parma, dopo una campagna elettorale fiammeggiante ha alzato le mani davanti all’inceneritore acceso, dicendo “non potevo fare altro”. E non voglio neanche rifugiarmi nello speakers’ corner tanto di moda del riformismo: a Rimini e in Emilia Romagna, sull’urbanistica, non basta più dirsi riformisti, occorre una determinazione più alta e soprattutto più coraggiosa. Altrimenti… anche nei prossimi 50 anni basterà sfogliare il dizionario e andare alla lettera R, sicuri di ritrovarci, incancellabili.

Novità nelle elezioni per il Campidoglio: il teatrino nel Palazzo, la politica in piazza. Il manifesto, 26 marzo 2013
Da alcuni mesi un vasto numero di comitati e di associazioni ambientaliste presidia il consiglio comunale di Roma per scongiurare l’ennesimo diluvio di cemento che si vuole infliggere ad una città sull’orlo del disastro urbanistico. Salviamo il paesaggio, Italia nostra, i comitati no pup, i 5 stelle, Carte in regola e i tanti comitati che in questi anni hanno tentato di affermare un’altra idea di città nell’indifferenza delle politica politicante, insieme agli unici consiglieri che si oppongono allo scempio (Alzetta e Azuni) stanno tentando di bloccare la prepotenza della giunta Alemanno che pur in scadenza e travolta da continui scandali ieri è stato arrestato il fedelissimo Mancini vuole infliggere il colpo definitivo al riscatto della città.

Ma ieri in piazza del Campidoglio e poi in una sala del Carroccio gremita è andata in scena una rilevante novità. Il gruppo Liberare Roma e la confederazione dei comitati metropolitani (co.co.me.ro) hanno dato un appuntamento per sensibilizzare l’opinione pubblica. A provocare l’allarme è stata anche la sconcertante vicenda del dibattito sulle prossime elezioni comunali. Sia l’attuale maggioranza che l’opposizione del Pd stanno accuratamente censurando ogni discussione sui veri problemi della città, ad iniziare dal buco di bilancio che ammonta a 11, 5 miliardi che arrivano a 15 per l’allegra gestione delle aziende comunali. Il governo Monti ha recentemente dichiarato fallita Alessandria per un deficit di 200 milioni: circa 2 mila euro per ciascun abitante. La capitale ne ha circa 6.000 per ogni romano. Il fatto è che la capitale è troppo grande per fallire e così si va avanti nella commedia degli equivoci. Proprio ieri i candidato a sindaco dei 5 stelle ha chiesto accesso agli atti per conoscere l’ammontare del debito in finanza creativa e sembra che esso ammonti a 7 miliardi di euro.

Ma di questo non si parla. Assistiamo soltanto ad una sconcertante passerella di vuoti slogan e di educati endorsement che tentano ancora una volta di addormentare la città. Il debito ha invece origine nel dissennato modello di sviluppo urbanistico che da venti anni è stato imposto alla città: un’espansione inaudita che arricchisce pochi proprietari di aree e impoverisce fino al fallimento un’intera città. Di più, alcuni pseudo comitati che pensano più al cemento che al benessere delle periferie producono incredibili documenti in cui si afferma che questo processo distruttivo non può aver fine perché esistono i «diritti edificatori». Una menzogna inesistente sul piano giuridico di chi cerca soltanto di perpetuare un modello distruttivo di crescita infinita.

Quanto è avvenuto ieri dice però che la misura è colma e chi ha governato la città per 15 anni (centro sinistra) e 5 (centro destra) deve assumersi pubblicamente la responsabilità del fallimento e bloccare per sempre l’espansione urbana. Non è più soltanto un tema urbanistico: ne va della stessa sopravvivenza della rete dei servizi pubblici, ad iniziare da sanità e scuola, e del welfare urbano.

I tanti comitati presenti ieri in Campidoglio vogliono una sola cosa: cambiare l’agenda del futuro della città, aprire una speranza per i giovani che, se possono, se ne vanno all’estero o sono altrimenti condannati a vivere nella più disumana periferia dell’Europa occidentale.


Riportiamo alcuni stralci dal libro Lezioni di piano. L’esperienza pioniera del Piano paesaggistico regionale della Sardegna raccontata per voci, voce guida Edoardo Salzano, Prologo di Sandro Roggio, Corte del Fòntego editore, Venezia 2013 (320 p., 25 €)

Premessa
Il libro è costituito da testi scritti o raccolti dalla viva voce di una quarantina di persone in vario modo coinvolte nella vicenda del Piano paesaggistico regionale della Sardegna. Pubblichiamo qui di seguito la nota editoriale (in calce) e alcuni stralci dei testi del curatore. Altre informazioni sul libro nel sito dell'editore Corte del Fòntego.

Prefazione

Il piano paesaggistico della Sardegna è stato un sogno, un castello di sabbia costruito su una spiaggia destinato a essere sgretolato dal calore del sole o dissolto dall’onda marina? La Giunta Cappellacci non ha né l’ardore del sole né l’impeto dell’onda. Ma certamente le prime leggi emanate rivelano che l’intenzione di distruggerlo c’è ed è forte; anzi, è già in atto con dichiarazioni, azioni, inazioni e norme eversive.

Quando il presidente Soru, nel 2004, mi chiese di collaborare alla formazione del piano paesaggistico regionale come componente del Comitato scientifico, conoscevo pochissimo della Sardegna. Mai visitata da turista, l’avevo raggiunta solo in quanto sede di incontri di studio e di lavoro. A posteriori, mi sembra significativo che una delle occasioni principali di contatto con la Sardegna e con i sardi sia stato un convegno sulla legge Galasso. Era passato un anno dalla sua approvazione, le Regioni avrebbero dovuto provvedere all’attuazione redigendo piani territoriali fondati sui suoi criteri del tutto innovativi. Benché il risultato dell’attuazione regionale della legge fosse allora assolutamente deludente (come oggi è quella del Codice del paesaggio, con l’unica eccezione della Sardegna), era certo stata avviata la costruzione di un modello di pianificazione del paesaggio capace di reggere alle insidie giuridiche derivanti dalla forza degli interessi immobiliari nell’uso del territorio.

Avevo seguito molto da vicino la formazione della legge Galasso. Franco Bassanini e Guido Alborghetti, i due deputati che su mandato della commissione parlamentare stendevano il testo definitivo della legge, mi consultavano spesso. Insieme lavorammo per trovare il corretto equilibrio – in termini di pianificazione paesaggistica – tra due esigenze in apparenza contraddittorie, poste dalla Costituzione: la tutela del paesaggio e quella della proprietà privata (ho contribuito in particolare ad attribuire la facoltà di conferire «particolare considerazione paesaggistica e ambientale» anche agli strumenti della pianificazione ordinaria).

Avevo poi seguito la redazione del piano paesaggistico dell’Emilia Romagna, unico esempio tempestivo e puntuale di attuazione della legge e primo approfondimento del suo principio essenziale: la solidità giuridica dei vincoli sull’uso della proprietà privata, sull’individuazione delle “categorie di beni a confine certo”, alla tutela delle quali è affidata la garanzia del rispetto dell’articolo 9 della Costituzione. Dalla legge Galasso e dalla sua attuazione emiliano-romagnola discendeva un modello di pianificazione che mi sembrava utile proporre per il piano della Sardegna.

La lettura delle Linee guida per il lavoro di predisposizione del ppr, predisposte dalla Giunta, e i successivi incontri mi confermarono che la Regione aveva idee chiare e condivisibili sulle finalità da raggiungere, ma non un’adeguata consapevolezza del modello di pianificazione da assumere. Ritenevo che il mio contributo nel Comitato scientifico, assieme a quello di altri urbanisti che avevano partecipato in differenti sedi e con differenti ruoli alla pianificazione paesaggistica, potesse essere utile per individuare il percorso da compiere nell’utilizzo del vasto ed eterogeneo materiale raccolto e ordinato dagli uffici della Regione, alla cui integrazione e approfondimento avrebbero certamente potuto collaborare gli altri componenti del Comitato versati in diverse essenziali discipline.

Il lavoro che abbiamo compiuto fino all’approvazione del piano e le testimonianze sulla sua validità (dalle sentenze della giustizia amministrativa ai riconoscimenti della cultura nazionale e internazionale) mi hanno convinto della giustezza di applicare come criterio fondamentale della pianificazione paesaggistica l’individuazione e la disciplina di elementi del territorio appartenenti alle “categorie dei beni a confine certo”, anche se non fu facile portare a ragionare tutti gli attori della costruzione del piano nella stessa direzione. Inoltre, il passaggio dalla legge Galasso al Codice del paesaggio e alle successive modifiche del 2006 aveva provocato ulteriori incertezze.

Il piano paesaggistico della Sardegna è frutto di tre elementi: la visione e la determinazione di Renato Soru, allora presidente della Regione; una cultura urbanistica e del paesaggio che parte da lontano; fecondi incontri tra le esperienze maturate in più ambiti culturali e territoriali. Proposito mio e dell’editore, nel progettare questo volume, era raccontare questa esperienza di pianificazione, per molti versi pioniera e all’avanguardia, proprio mentre è in atto la sua aggressione, iniziata con la campagna elettorale del presidente Cappellacci e surrettiziamente in corso.

Ho partecipato alla stesura di questo libro redigendo le note introduttive (più o meno ampie) a ciascun capitolo, accompagnando un ventaglio di voci, tutte in qualche modo in relazione con il piano: voci di chi lo ha voluto, costruito, attuato, e di chi lo ha contestato e aggredito. Ho accettato tanto più volentieri di partecipare a questo progetto perché sono convinto che l’esperienza di pianificazione che va sotto il titolo di “piano paesaggistico regionale della Sardegna” non si esaurisca nell’atto normativo né nei suoi dispositivi, ma viva nell’insieme di queste voci (della cultura, della società, della politica) che costituiscono l’humus dal quale è nato, colgono gli umori, gli entusiasmi e le diffidenze, i consensi e i ripensamenti. In questo senso va anche interpretato il titolo: il libro non è una raccolta di “lezioni” sul piano illustrate da una serie di testimonianze, ma il risultato di un coro (meglio, un vocìo) nel quale armonie e dissonanze spiegano ed esprimono la ricchezza del percorso della pianificazione: è questa stessa ricchezza la “lezione di piano”.

Conflitti e conquiste
[dall’introduzione al capitolo 6]

Ogni piano territoriale apre conflitti. Dalle trasformazioni del territorio c’è sempre chi guadagna e chi perde. Anche nelle scelte che influiscono sulla vita quotidiana di ciascuno di noi soddisfare un’esigenza comporta spesso sacrificarne un’altra. Se nelle scelte urbanistiche di riorganizzazione di una certa area si privilegerà l’esigenza di arrivare a casa in automobile, si entrerà in conflitto con chi vorrebbe percorrere gli spazi tra le case a piedi o in bicicletta o spingendo una carrozzina. Se vogliamo utilizzare il suolo di nostra proprietà per diventare più ricchi rendendolo edificabile, entreremo in conflitto con chi vuole utilizzarlo come terreno agricolo o parco pubblico.

Ovviamente, anche il piano paesaggistico sardo ha aperto conflitti: nei suoi primi passi quando Soru ventilò e poi fece approvare la legge Salvacoste, nel corso della sua formazione, quando infine la maggioranza che aveva voluto e approvato il piano fu sconfitta, prima in Consiglio regionale e poi nelle urne. Sia ieri sia soprattutto oggi.

Oggi, anno 2013, c’è chi parla del piano paesaggistico – tuttora vigente – come il “vecchio piano” (anche la stessa stampa sarda). C’è addirittura chi ha avviato, e in parte attuato, il suo svuotamento – come il baco svuota la mela lasciandone intatta la scorza – e ha avviato l’iter per il suo definitivo affossamento

Ilconflitto di fondo
Evidentemente è rimasto aperto – e non poteva che essere così – il conflitto di fondo: tra chi vuole il territorio come risorsa di cui i più potenti possono appropriarsi per utilizzarlo a piacimento, trarne guadagno finanziario e maggior potere (chiamiamolo territorio come strumento per accrescere la rendita) e chi considera il territorio un patrimonio da usare con parsimonia, come bene comune delle generazioni attuali e future, delle persone che lo abitano o che vogliono conoscerlo e goderne (chiamiamolo territorio come habitat dell’uomo).

Il conflitto tra queste due concezioni del territorio ha storicamente provocato la debolezza giuridica della tutela del paesaggio affermata dalla Costituzione nei confronti della tutela degli interessi proprietari, che pervade il resto del sistema giuridico italiano. Le sentenze costituzionali 55 e 56 del 1968 che abbiamo più volte richiamato (in "Cultura del piano") hanno costituito il momento più evidente di quel conflitto, e la legge Galasso del 1985 l’avvio del suo superamento.

Negli anni dell’approvazione del piano paesaggistico e in quelli immediatamente successivi, i segnali più evidenti del prevalere degli interessi legati alla prima delle due concezioni sono stati segnati dall’isolamento politico che ha avvolto i suoi protagonisti.

La stampa sarda era divisa tra «La Nuova Sardegna» che ha abbracciato in qualche misura la linea dell’accoglimento del ppr e «L’Unione Sarda» che ha contrastato con forza la posizione di Soru («L’unione» è di proprietà di un costruttore cagliaritano).

Non bisogna dimenticare che Cagliari e il sud della Sardegna sono informati quasi esclusivamente dall’«Unione Sarda» e dall’emittente televisiva Videolina (dello stesso proprietario). In quegli anni Soru non è mai stato intervistato dall’«Unione Sarda» e dalle televisioni che fanno riferimento a quel gruppo editoriale: non ha mai potuto spiegare in televisione la “filosofia” del piano. Lo racconta bene Soru stesso: «I proprietari di aree sulle coste, gli immobiliaristi e diversi amministratori dei comuni costieri facevano fatica a pensare a un modello di sviluppo per le loro comunità differente, un modello non legato al cantiere edilizio, all’aumento della cubatura sulle coste e all’aumento degli introiti dell’ici. Questi si sono subito mossi in maniera massiccia e, malauguratamente, gli interessi più forti coincidevano con il controllo di gran parte della comunicazione in Sardegna, sia giornalistica che televisiva. La comunicazione si è caratterizzata da subito da un verso. Abbiamo dovuto faticare molto per far passare la nostra idea. Questo tipo di comunicazione è riuscito a veicolare un’idea del ppr e della politica della pubblica amministrazione come un blocco. Un blocco per il territorio e per l’economia. E uno slogan facile, veicolato in continuazione, ogni giorno, finisce piano piano per passare se, dall’altra parte, le capacità di comunicazioni sono più deboli e se non sono sostenute da una vasta comunità politica che si prende a cuore la tutela e la salvaguardia del territorio». Ha prevalso, prosegue Soru, «un’idea sbagliata: l’idea che le norme di salvaguardia, che dovevano durare solamente fino a che i diversi comuni approvavano i piani urbanistici comunali, fossero il “Piano paesaggistico”, non facendo comprendere ai cittadini della Sardegna che le norme di salvaguardia rimanevano in vigore solo fintanto che il piano urbanistico veniva approvato e adeguato al ppr» («Gazzetta ambiente», 2011, p. 52-53). Fino all’approvazione dei nuovi piani comunali, insomma, si manifestava solo la faccia della tutela costituita dal vincolo, mentre con il puc poteva esprimersi tutta l’ampia realtà della tutela come opportunità di sviluppo (naturalmente di uno sviluppo alternativo rispetto a quello svillettatore e distruttore che il ppr contrastava).

I partiti della coalizione che sostiene Soru non organizzano mai un dibattito pubblico per spiegare il lavoro della Giunta e di fatto lo lasciano solo: questo isolamento all’interno della stessa compagine che lo aveva espresso, applaudito e sostenuto nel momento delle elezioni raggiunge forse il punto più basso e metaforico proprio all’alba del tentativo della Giunta di aprire un ampio dibattito con i cittadini. Si può quasi affermare che esiste una continuità tra l’isolamento politico che si è manifestato negli anni del governo Soru e la volontà di cancellare il piano che si è espressa con la Giunta Cappellacci. Gli esponenti di quest’ultima sostengono, è vero, di avere un’ottima opinione del piano. A parole lo difendono e lo apprezzano. Ma le parole, per quanto importanti, non sono sufficienti a modificare la realtà. A volte, anzi, assumere le parole altrui è una mossa tattica per tentare di sorprendere ciò che si vuole abbattere e divorare, come fece il lupo quando indossò la pelle di pecora per divorare l’agnello.
[…]

Come andare avanti
[ introduzione del al capitolo 7

Per andare avanti – e proseguire nel solco tracciato dalla vicenda del ppr – occorre innanzitutto domandarsi quali siano i risultati raggiunti. In primo luogo bisogna sottolineare che, nonostante le riserve espresse sullo strumento delle intese con i Comuni e dell’applicazione delle norme transitorie, sono state eliminate dalle previsioni dei piani urbanistici vigenti 15 milioni di metri cubi.

Tra i risultati mi sembra anche che si debba sottolineare il raggiungimento, almeno in Sardegna, di una più solida capacità di resistenza della tutela del paesaggio nei confronti del diritto proprietario, almeno nella sua dimensione di vincolo. La validità giuridica del piano è confermata da un lato, a più riprese, dalle sentenze dei tribunali amministrativi, che hanno sconfitto gli attacchi sferrati dai suoi avversari in nome degli interessi proprietari, dall’altro da una serie di episodi di successo nella difesa di paesaggi e specifici beni culturali il più emblematico dei quali è il caso dei colli di
Tuvixeddu-Tuvumannu. Le sentenze amministrative hanno dimostrato che i reiterati vincoli tradizionali apposti su diverse porzioni dello straordinario complesso sono stati integrati e resi solidi nella sostanza territoriale e nella consistenza giuridica solo grazie alla tutela attribuita dal ppr.
La qualità del piano e la sua calibratura tra diritti del paesaggio e diritti della proprietà hanno assegnato alla Sardegna un nuovo primato. Anziché essere considerata come isola bella ma corrotta dalla distruzione delle sue coste, essa appare oggi come portatrice di un modello di tutela del paesaggio, valido sia a livello nazionale sia internazionale.

Resistere, attuare, completare
Voglio domandarmi che cosa occorra fare perché le parole del piano si traducano più compiutamente in fatti. Per farlo sono necessari almeno tre passaggi: resistere, attuare, completare.

Di fronte ai tentativi di smantellare il piano e di abbandonare nelle mani dei saccheggiatori la parte ancora bella dell’Isola (ed è tanta) occorre resistere a ogni incrinatura, indebolimento, “alleggerimento”, e perfino a una ragionevole semplificazione del piano paesaggistico. La sua funzione di vincolo deve essere rafforzata (coinvolgendo il mibac, coautore, come abbiamo più volte affermato, del piano paesaggistico). Resistere rafforzando il vincolo, pur nella consapevolezza che ciò non è sufficiente: è necessario infatti, per la pienezza della tutela, anche attuare le previsioni, i programmi, le iniziative che la pianificazione paesaggistica aveva previsto e avviato. Innanzitutto adeguare al ppr tutti i piani urbanistici comunali nei quali l’iter si è interrotto per difficoltà di gestione, per disinteresse delle amministrazioni o in attesa del promesso “azzeramento” dei vincoli.

Finché dura l’attuale maggioranza l’attuazione del piano non sarà semplice. E del resto, le difficoltà che si incontreranno per proseguire l’impresa avviata dalla Giunta Soru non provengono solo dalla compagine di destra. Del completamento del piano fa parte anche l’approvazione degli ambiti interni. La Giunta Soru ha dovuto dimettersi sostanzialmente perché una parte della coalizione che la sosteneva si oppose alla sua approvazione. Se oggi è difficile completare e attuare il piano, sarà addirittura impossibile compiere gli ulteriori passi che già sarebbero stati necessari, e affrontare e risolvere un paio di questioni che la brevità del tempo concesso a Soru e alla sua amministrazione non ha consentito di affrontare adeguatamente. Mi riferisco in particolare a due questioni: l’urbanistica e la partecipazione.

L’urbanistica e la pianificazione Il paesaggio è figlio della collaborazione tra natura e storia. Un paesaggio è il risultato delle trasformazioni che le civiltà apportano alla superficie terrestre per rendere l’habitat dell’uomo idoneo alle funzioni che deve soddisfare. Un bel paesaggio è quello che si ottiene “conservando l’intatto”, “non toccando quello che è venuto bene” e cercando di ripararne i guasti. In un contesto culturale virtuoso (conforme a quello raccontato in Cultura del piano) si ritiene che ogni trasformazione del paesaggio debba iniziare dall’individuazione delle qualità preesistenti e proseguire nel rispetto delle regole che hanno caratterizzato il rapporto tra storia e natura (ecco perché è importante conservare i tracciati della viabilità storica, la continuità dei filari di alberi e dei cespugli, la tessitura dei muretti a secco, l’organizzazione dell’edilizia storica ecc.). Il ppr definisce e regolamenta proprio questi elementi. Ciò costituisce però solo il primo passo di un processo di pianificazione che deve successivamente stabilire quali trasformazioni sia possibile compiere nel rispetto delle regole stabilite dal ppr. La tutela di cui la pianificazione paesaggistica costituisce l’avvio deve perciò prolungarsi attraverso una pianificazione territoriale e urbanistica che definisca quali e quante trasformazioni siano necessarie per soddisfare le altre esigenze degli abitanti finalizzate al loro benessere e non all’arricchimento di questa o di quell’altra categoria di cittadini. È perciò necessaria una nuova legge urbanistica regionale che stabilisca in che modo, mediante quali istituzioni, procedure, strumenti, debba svilupparsi una pianificazione territoriale e urbanistica coerente con quella del paesaggio.

Il tentativo di una nuova legge urbanistica era stato compiuto dalla Giunta Soru con una proposta che allora mi sembrò, e sembrò al Comitato scientifico, ampiamente inadeguata. E' necessario riprendere il lavoro di una nuova legislazione urbanistica la quale però non può avere una dimensione solo regionale poiché il nodo di fondo è quello al quale abbiamo più volte accennato e cioè il prevalere in Italia di una concezione del diritto proprietario prevalente su ogni altro diritto.

Va insomma portato avanti il lavoro sul nodo tra tutela e proprietà che già le sentenze 55 e 56 del 1968 avevano individuato, invitando il legislatore a scioglierlo. Occorre affermare con forza alcuni principî che dovrebbero assumere valore costituzionale: non esiste alcuna “vocazione edificatoria” del suolo; la terra biologicamente attiva (non laterizzata) è un valore in sé; non ne può essere sottratta ai ritmi della natura un’ulteriore porzione a meno che questa serva (e là dove serve) per altre esigenze socialmente rilevanti, non soddisfacibili in altro modo; la sottrazione di terra libera al ciclo biologico deve comunque avvenire in modo trasparente e secondo criteri inoppugnabili, quindi mediante i metodi e gli strumenti della pianificazione della città e del territorio.

Anche il tema della partecipazione conduce ad affrontare un analogo nodo, questa volta nel campo della cultura e non in quello del diritto. Abbiamo accennato a una componente dell’anima sarda: quella che ritiene il paesaggio un elemento determinante dell’identità stessa del popolo e la sua tutela prioritaria. Ma ne esiste anche un’altra insofferente alle regole, animata, afferma Giorgio Todde, «da sentimenti innati come l’istinto individuale del possesso, della “roba”, del territorio, di un’idea di proprietà che consiste nell’intolleranza a ogni limitazione d’uso».

Affrontare in modo adeguato il tema della partecipazione significa non accontentarsi di coinvolgere nel processo delle decisioni la popolazione così come questa oggi si manifesta e si esprime. Chi critica il piano e anche molti di quelli che hanno contribuito a costruirlo ritiene che questo sia sufficiente o addirittura pretende che già oggi si costruisca un nuovo piano basato sull’attuale “percezione” che le popolazioni hanno del territorio. Mi sembra una visione straordinariamente ottimistica della realtà: un ottimismo che, se condiviso dai decisori, condurrebbe alla distruzione completa dei paesaggi che oggi tutti si propongono di difendere.

La «sfiducia nei confronti dei cittadini, delle imprese e degli amministratori locali» non è – come ritiene l’onorevole La Spisa – frutto di un pregiudizio ma della constatazione dei modi in cui, prima del ppr, le coste delle Sardegna sono state massacrate e degli interessi che oggi spingono per svuotarlo con gli strumenti (Piano casa e provvedimenti per il golf) che l’onorevole La Spisa, autorevole componente della Giunta regionale, non ha certamente contrastato. Sembra inoltre che la sua opposizione al ppr sia basava su un equivoco, dove dice che lo strumento dell’intesa tra Regione e Comuni ha significato «concentrare il potere nelle mani di una o di poche persone»: se una critica è da muovere sarebbe quella opposta, aver affidato attraverso quello strumento troppo potere proprio a chi, in buona o cattiva fede, aveva più contribuito al degrado della costa sarda.

Quando si parla di “percezione del paesaggio” occorre tener conto, come afferma Angioni, che essa è il risultato «di abitudini e di modi di sentire radicati nel tempo da millenni». È possibile ipotizzare che il tempo di elaborare un piano paesaggistico sia sufficiente a modificare radicalmente siffatta “percezione”? Abbiamo già sostenuto che la definizione di paesaggio può essere assunta come il punto di arrivo di un processo di maturazione che sarà certamente lungo. Se si vuole che al termine di questo processo qualcosa dell’attuale bellezza dei paesaggi sopravviva non c’è altra strada che quella di adoperare l’arma «centralistica» e «dirigistica» del vincolo, per usare le espressioni di Angioni nei confronti del «vecchio» piano. In realtà, per ottenere che oggi ciò non avvenga è indispensabile che le regole di salvaguardia siano ferreamente stabilite, che ne siano represse (alla maniera di Luigi Cogodi) le violazioni, e che la consapevolezza dell’obbligo morale, per ciascuno, di tutelare il paesaggio sia divenuto pensiero corrente e prassi quotidiana di azione. Ciò richiede non di modificare nell’immediato, o aggiustare, o revisionare il piano paesaggistico, o di formarne addirittura uno nuovo, ma di impegnarsi in una campagna necessariamente lunga che si ponga l’obiettivo di far prevalere, nell’ideologia egemonica, quella componente dell’anima sarda che ha portato al successo Renato Soru.

Da questo punto di vista ciò che è necessario in Sardegna non è diverso da ciò che è necessario nel resto dell’Italia e del mondo. «Programmare un aggiornato senso comune e paesaggistico», come Angioni giustamente ritiene necessario, è un’impresa certamente di lungo respiro che coinvolge in primo luogo il processo di formazione in tutte le sue fasi, a partire da quelle elementari, sebbene richieda un impegno del tutto particolare a quelle persone che hanno avuto la possibilità di studiare, comprendere, svolgere un lavoro intellettuale, e che abbiano in più l’umiltà di sapersi esprimere in modo semplice e a tutti comprensibile. Cosa che in questo libro abbiamo tentato di fare. E.S.


Nota dell’editore
L’idea del libro è nata correggendo le bozze di Memorie di un urbanista di Edoardo Salzano: la lettura del breve appassionato capitolo dedicato all’esperienza della costruzione del piano paesaggistico della Sardegna pretendeva un racconto molto più ampio ed esauriente di quella impresa. Ho pensato di affidare il “racconto del piano” a coloro che lo avevano fatto o ne erano stati coinvolti. Un’unica storia, un grande affresco, diversi punti di vista. Eddy, dal suo osservatorio competente e privilegiato, si sarebbe riservato il compito di condurre e di spiegare.

La maggior parte dei contributi riuniti in questo volume è stata scritta per questo libro e una decina sono le interviste raccolte da me tra giugno e luglio 2012. Un piccolo gruppo infine è costituito da testi già editi.
In linea con gli intenti della collana, agli autori è stato chiesto ciò che per molti specialisti risulta uno sforzo ma che in questo caso era una condizione: produrre testi semplici, chiari, senza tecnicismi, in un linguaggio quasi domestico e a tutti accessibile. Molti si sono adeguati e li ringrazio.

Sono stati uniformati gli usi grafici e le maiuscole. Non è sembrato opportuno sciogliere – quando reiterate – le abbreviazioni ppr (piano paesaggistico regionale), puc (piano urbanistico comunale), ptp (piano territoriale paesistico).

Dopo aver cercato un’idea per la copertina nel mondo della pittura sarda antica, moderna e contemporanea, un particolare, un frammento, uno scoglio che facesse al caso mio, e dopo aver passato in rassegna decine e decine di foto che ritraggono devastazioni di tratti di costa dell’Isola (ricerca inutile perché le fantasie che forgiano il ferro e il cemento sono simili in tutta Italia) ho ricevuto in dono un libro fotografico. Un doppio dono, perché, proprio alla fine ho visto la mia copertina. Una foto potente di una gonna nera – sarda – messa ad asciugare all’aria, tenuta aperta da tre sostegni. L’ho letta subito come una metafora ideale della Sardegna e l’ho fatta girare. La foto l’hanno vista in tanti e le metafore sono uscite sempre diverse: «la gonna è l’Isola vuota al centro ma popolata e costruita sulle coste»; «la gonna è un sipario, tolto il quale c’è il paesaggio sardo che è nei nostri cuori, non sempre raggiungibile»; «è così che io vedo la mia Isola, solo attraverso un buco, una visione sempre costretta e parziale»; «la gonna è una lavagna, su cui idealmente sono scritte le lezioni di piano». E si potrebbe continuare.

Senza Sandro Roggio, autore del prologo, generoso amico di questa impresa, il libro non esisterebbe. Maria Paola Morittu mi ha offerto la sua costante e premurosa consulenza, punteggiata da vivaci discussioni e vivificanti scambi di fioretto. La lavorazione di questo volume, durata quasi un anno, non ha avuto un andamento lineare e non ha seguito una vera traccia. Macchie di leopardo si sono allargate, altre sono sbiadite lungo la strada. Quando Giorgio Todde mi ha informato che il libro c’era, è stata la prima volta in cui l’ho visto anch’io. Gli sono particolarmente riconoscente per questo.

Mi scuso per le incursioni telefoniche, sempre urgenti, con cui ho cercato di annullare la distanza tra la Sardegna e Venezia, incurante del giorno e dell’ora, per sciogliere dubbi e incongruenze soprattutto attorno alla redazione del piano e alla sua cronologia: in particolare con Paola Cannas, Gian Valerio Sanna, Renato Soru, Paolo Urbani. Un pensiero affettuoso va a Helmar Schenk, scomparso alcuni giorni prima di rilasciare la sua intervista.
Con viva gratitudine ringrazio chi, pur non condividendo la posizione del libro sul piano paesaggistico sardo, ha accettato di esserci, arricchendolo con il suo punto di vista. E infine ringrazio chi in Sardegna mi ha accolto, ascoltato, ospitato, non solo in occasione delle interviste: Bachisio Bandinu, Umberto Cocco, Piero Cuccu, Piero Filigheddu, Antonietta Mazzette, Maria Antonietta Mongiu, Pierfranco Picci, Antonello Sanna, Enzo Satta. Con simpatia ricordo Nadir, Nicolas, Peppe, Tore, i ragazzini di Orosei che mi hanno fatto compagnia per un lungo pomeriggio e a cui ho facilmente concesso di prendersi una certa confidenza con il mio camper. Ovunque in questo libro si dice che il futuro sono loro. E a loro dedico questo lavoro.
Marina Zanazzo

Tocca ai paesi cosiddetti civili comportarsi come tali per arginare il potere extraterritoriale delle multinazionali che saccheggiano il pianeta, è anche nel nostro interesse diretto. L'Unità, 24 marzo 2013 (f.b.)

Erik Barisa Dooh è il consigliere tradizionale di Goi, villaggio Ogoni fantasma situato sul delta del fiume Niger, in Nigeria. «Prima che arrivassero le trivelle questo era un villaggio felice. C'era un mercato vivo e frequentato che risuonava di voci e anche il panorama era meraviglioso», racconta. Dal 2004, con il passaggio dell'oleodotto transnigeriano, i continui sversamenti di greggio, la contaminazione del terreno, delle acqua, dell'aria, Goi come molte comunità del Delta è divenuta una landa spettrale. Erik è nato e cresciuto a Goi, suo padre aveva una panetteria che ha dovuto chiudere e abbandonare. Anche Erik ha lasciato la comunità, come gran parte dei mille abitanti, trasferendosi nella vicina comunità di Bodo.

Il delta del Niger è la regione più densamente popolata del continente africano e, secondo l'Unep, una delle più contaminate del pianeta. Ci abitano 30 milioni di persone, la cui esistenza è messa a rischio dalle decennali attività estrattive e dai violenti impatti che hanno prodotto sul territorio e sulle comunità residenti, anche a causa dell' utilizzo di pratiche illegali scelte dalle società petrolifere perché meno onerose. Tra esse il gas flaring, che consiste nel bruciare a bordo pozzo i gas di scarto dell'estrazione. Drammaticamente contaminante, è una pratica di fatto vietata per legge dal 2009, ma sul delta continua ad essere normalmente utilizzata.

La scoperta nell'area del delta di ingenti riserve di idrocarburi risale agli anni '50 e ha reso il Paese uno dei maggiori produttori di greggio al mondo. Attualmente si estraggono circa 2 milioni di barili al giorno, ad opera delle maggiori compagnie mondiali: Shell, Bp, Chevron, Total, Exxon, Eni etc.

Visitare le terre maleodoranti del delta dà un senso di vertigine. Cinquant'anni di intense attività estrattive non hanno innescato alcun processo di emancipazione sociale, ma hanno reso la Nigeria il primo Paese al mondo per inquinamento di Co2 da combustione. Nonostante l'entità delle sue ricchezze, la popolazione continua a vivere in condizioni di estrema povertà. I nigeriani in povertà assoluta, che erano il 54,7% nel 2004, sono oggi il 60,9%. Secondo l'ufficio nazionale di statistica cento milioni di persone vivono ancora con meno di un dollaro al giorno. In Nigeria l'aspettativa di vita è di appena 47 anni, che nel delta scendono a 42. Il 40% delle donne e il 25% degli uomini non è alfabetizzato.

La battaglia degli Ogoni e di altri popoli del delta contro gli impatti delle attività petrolifere viene da lontano. Da quella resistenza che ha tra i nomi illustri quello del poeta e attivista Ken Saro Wiwa, condannato all'impiccagione dal governo nigeriano nel 1995 viene anche il percorso che ha portato alcune comunità a citare in giudizio la Shell di fronte ad una corte di giustizia olandese.

Il padre di Erik è uno dei contadini che ha dato il via al ricorso contro il colosso olandese. Peccato sia morto prima di vederne la fine. Il 30 gennaio scorso la Corte olandese, con una sentenza definita «storica», ha riconosciuto la responsabilità della Shell per l'inquinamento delle terre coltivabili nella comunità di Ikot Ada Udo. Pur lasciando fuori la contaminazione nelle vicine comunità di Goi e Oruma, la sentenza costituisce un precedente importante per poter sottoporre a giudizio nei paesi di provenienza le imprese straniere per i reati ambientali commessi in giro per il mondo. La sentenza arriva dopo l'altro storico pronunciamento che il 16 dicembre 2012 ha portato la Corte di giustizia della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas) a dichiarare il governo nigeriano responsabile di non aver tutelato il Delta del Niger dalle attività estrattive.

«Il disprezzo delle società petrolifere per il benessere delle comunità che soffrono a causa degli impatti dello sfruttamento selvaggio del delta è leggendario, ma è venuto il momento della giustizia» è stato il commento a caldo di Era Environmental Right Action, l'organizzazione nigeriana in prima linea nell'accompagnamento delle comunità locali e nel monitoraggio, la denuncia e la diffusione di informazioni sulle attività estrattive.

Proprio in questi giorni Era compie 20 anni. Il direttore uscente Nnimmo Bassey che è anche presidente di Friends of the Earth e ha vinto nel 2010 del Right Livelihood Prize, il premio Nobel alternativo per l'impegno civile è orgoglioso dei risultati ottenuti in due decenni di infaticabile lavoro di campo: «A marzo festeggiamo vent'anni di mobilitazione per la giustizia ambientale e non possiamo che dedicarli alle comunità e alle persone che ci hanno ispirato e assieme alle quali abbiamo camminato. Da Ken Saro Wiwa ai popoli Umuechem, Bakalori, Odi, Gbamaratu, Odioma, Ilaje oggi assieme possiamo affermare che siamo andati avanti perché ogni episodio di devastazione ambientale è per noi un crimine, e una violazione dei diritti umani».

La sentenza olandese è una prima parziale vittoria, ma anche uno spartiacque, come Era stessa l'ha definita. Che indica che il diritto al cibo, alla salute, alla vita sono sovraordinati a qualsivoglia interesse particolare. Chiunque ne sia titolare, multinazionali del petrolio comprese.

Peccato che l'autore, da bravo economista conformista, non abbia titolato “i costi collettivi dello sprawl”. Ma a qualche conclusione corretta si arriva lo stesso. Corriere della Sera, 24 marzo 2013 (f.b.)

Dai 14 milioni di pendolari stimati in Italia quelli che stanno pagando di più i costi della crisi usano l'auto per recarsi ogni giorno sul posto di lavoro. Molti di loro sono operai perché le fabbriche ormai sono tutte fuori dei centri abitati, il resto sono lavoratori «flessibili» che devono timbrare il cartellino in orari non coperti dal servizio di trasporto pubblico. Un pendolare con auto ha subìto l'incremento delle tariffe autostradali e della benzina, usa la sua vettura e quindi spende di più in manutenzione ordinaria. In più sia con l'accisa sulla benzina sia con la fiscalità generale partecipa al sussidio del trasporto locale. Eppure non si aggrega, non protesta e di conseguenza non ha voce in capitolo.

La seconda tribù di pendolari è quella che si reca a lavoro con un bus extraurbano. Le tariffe sono in media +30% rispetto alle ferroviarie nonostante che i costi di produzione siano inversi, 15 euro a km per il treno e 3 euro per il bus. Come il pendolare in auto quello in bus è scarsamente organizzato, le proteste hanno come controparte naturale gli autisti dei bus e la relazione informale che si crea con loro serve a mitigare le inefficienze e ad apportare correzioni in corsa. In Lombardia i pendolari in bus sono stimati in circa 1 milione contro 760 mila in treno e la parte del leone la fa il traffico su Milano. La città del Duomo, infatti, attira giornalmente 900 mila pendolari complessivi che sono altrettanticity user in aggiunta ai residenti (1,3 milioni scarsi). Lo spostamento progressivo di popolazione da Milano verso l'hinterland e la provincia trova le motivazioni negli alti costi della città (innanzitutto nell'immobiliare) e nella possibilità di usufruire nei piccoli centri di preziose reti di supporto familiari e non.

Arriviamo ai pendolari in treno che sono l'ala più organizzata, «i duri». In Italia sono circa 3 milioni. Le prime proteste partivano come estensione delle lotte operaie e culminavano nel blocco dei binari. Poi via via il pendolarismo delle tute blu si è spostato su auto e bus e il treno è diventato interclassista. È facile trovare in carrozza persino magistrati e avvocati che quando vestono i panni del pendolare sono i più rapidi nel promuovere vertenze e cause. Grazie a Internet i pendolari dei treni hanno migliorato la loro organizzazione e ormai attorno a Milano esiste una ventina di comitati. Idem nel resto d'Italia con circolazione immediata delle notizie e addirittura una classifica delle tratte peggio servite o delle linee a binario unico come, per restare in Lombardia, quelle che angustiano i viaggiatori da Cremona a Milano o i pendolari di una parte della Brianza.

I viaggiatori da treno hanno il vantaggio di avere una controparte visibile (i gestori ferroviari) e di utilizzare le stazioni come «cattedrali» della protesta, i pendolari in auto alle prese con un ingorgo ovviamente non sanno con chi prendersela. La particolarità italiana è data dai larghi contributi statali e regionali al trasporto pubblico, cresciuti negli anni: in Lombardia dal 2001 al 2010 l'incremento è stato del 61% contro un'offerta di treni/km cresciuta solo del 30% e un aumento delle tariffe del 51% (l'inflazione ha inciso solo per 21 punti). La crisi se ha aumentato i costi del pendolarismo in auto ha decongestionato le autostrade e persino le tangenziali con l'eccezione delle ore di punta. Ma ha anche frantumato il lavoro e moltiplicato gli spostamenti. Sia chi opera nel terziario debole (partite Iva, precari) chi nel terziario forte (consulenti, professionisti) raggiunge più posti di lavoro o clienti in ore sempre meno canoniche. I comitati dei pendolari denunciano a più riprese che i treni a loro riservati sono vecchi e sporchi (pulizie e degrado) ma soprattutto sono lentissimi e poco puntuali, nonostante che in più di qualche caso i gestori abbiano allungato (sugli orari) i tempi di percorrenza.

Secondo Dario Balotta di Legambiente «il 2012 è stato l'anno che ha dato più problemi degli ultimi dieci». Consultando Pendolaria, una sorta di libro bianco del trasporto ferroviario, si scopre che l'anno scorso molte Regioni hanno deciso di tagliare corse e treni e ritoccare gli abbonamenti. Nel solo Piemonte 12 linee e il 90% dei treni sulla Napoli-Avellino è stato depennato. Ma il cambiamento più significativo lo si deve sicuramente all'avvento della Tav e ai riflessi che ha avuto sul traffico pendolari. La forte distanza tra la serie A del trasporto e la serie B è percepita da tutti, si sa che la Tav ha convogliato su di sé gli investimenti ed è diventato un business redditizio, tanto che su quelle linee in soli 5 anni l'offerta è aumentata del 395%. In parallelo il trasporto locale è stato lasciato degradare davanti ai super-treni che hanno l'assoluta precedenza perché devono arrivare in orario per non perdere competitività.

«Come conseguenza si è ridotta la velocità all'interno dei nodi urbani come Milano, andando più piano i treni pendolari hanno saturato gli spazi della rete e al minimo ritardo si genera un effetto di propagazione sull'intero traffico. E 15-20 minuti in più per un pendolare sono una tragedia, specie se si ripetono con una certa frequenza» sostiene Andrea Boitani, docente alla Cattolica di Milano e autore del pamphlet «I trasporti del nostro scontento». I clienti dell'Alta velocità pagano bei soldi e se il servizio ritarda magari tornano all'aereo, invece i pendolari «esprimono una domanda più rigida, che non ha alternative più convenienti e quindi su di essa si scaricano le inefficienze».

Ma se le cose stanno così come si possono risolvere i problemi dei pendolari? Ci vorrebbero più treni, più rapidi e nuovi almeno nelle 20 principali linee dei pendolari dove l'affollamento sta diventando sempre di più ragione aggiuntiva di ritardo. Quanto al recupero di velocità c'è molto da fare, oggi siamo a una media di 35,5 km l'ora contro i 51,4 della Spagna, i 48,1 della Germania e i 46,6 della Francia. Negli anni scorsi ha preso piede la pratica dei bonus di compensazione, che ha raggiunto il culmine con la Caporetto della Trenord lo scorso dicembre. I disservizi prolungatisi per 7 giorni hanno portato alla riduzione del 25% del costo dell'abbonamento. Ma il bonus chi lo paga? Non certo i dirigenti che hanno causato l'inefficienza ma si scarica sulla fiscalità generale. Lo paghiamo tutti. «E comunque sono soldi sottratti alla manutenzione, alla pulizia, alla qualità del servizio e al rinnovo del materiale rotabile. Il bonus è stato un punto di mediazione tra la politica e i comitati pendolari, rischia però di essere l'alibi della deresponsabilizzazione tanto paga Pantalone» commenta Balotta.

E allora? Come si può incidere veramente e cambiare la vita dei milioni di pendolari giornalieri? Il professor Boitani prova a mettere in fila le priorità. «Cambiare le regole di circolazione soprattutto nei grandi nodi per velocizzare il traffico in sicurezza. Accelerare gli investimenti per ampliare la capacità dei nodi metropolitani. Introdurre le gare per l'affidamento dei servizi bus e treni per stimolare l'efficienza e ridurre i sussidi. Rendere più attrattivi gli hub del traffico pendolare trasformandoli in veri e propri centri di servizi». È una lista da libro dei sogni o può trovare ospitalità in qualche agenda di governo?


Fra due mesi si voterà a Roma: pubblichiamo, in anteprima per eddyburg, il prologo dell’ultimo volume di Francesco Erbani, Roma, Il tramonto della città pubblica, Laterza 2013, la migliore lettura per un voto più consapevole. (m.p.g.)

Le storie che seguono sono raccontate con la lingua delle inchieste giornalistiche. Il loro fulcro sono le trasformazioni che Roma ha vissuto o subìto negli ultimi decenni. Trasformazioni che hanno investito molte delle sue parti e che sono quasi tutte riconducibili a un vorticoso aumento dell’edificato o, almeno, all’elaborazione di progetti in quella direzione. Quanto poi alla crescita dell’edificato abbia corrisposto un proporzionato incremento degli spazi di comunità e un generale benessere è questione che queste storie vorrebbero accertare. Dietro, accanto, sotto le trasformazioni fisiche si delinea inoltre il progressivo impoverimento della città pubblica, mentre è avanzata l’idea che soltanto l’estendersi di un controllo privato su parti crescenti di essa possa contribuire a diffondere quel generale benessere e a fronteggiare la crisi che si è abbattuta su Roma come su tutto il mondo occidentale.

Proveremo a documentare che cosa è avvenuto e sta avvenendo a Roma usando gli strumenti del cronista, visitando luoghi, intervistando persone, facendo parlare atti e delibere e tentando di capire se quel che accade nella capitale è una vicenda per alcuni aspetti esemplare della condizione urbana oggi in Italia, e non solo. Da tempo studiosi di diverse discipline discutono il tema delle ricadute nello spazio cittadino delle ricette che invocano una progressiva e forse definitiva ritirata del pubblico entro recinti sempre più stretti. Quando urbanisti e sociologi parlano di città pubblica, il riferimento è, storicamente, a quelle parti di città di proprietà pubblica, dove si è realizzata edilizia pubblica, dove risiede un parco pubblico. In fondo, però, tutta la città nel suo insieme è pubblica anche se costituita di tante parti private che, decidendo di condividere uno stesso spazio, realizzano qualcosa di pubblico.

Attraverso le storie che seguono cercheremo di capire se le trasformazioni avvenute o che stanno avvenendo a Roma rispondono a criteri urbanistici corretti, se vanno incontro a bisogni collettivi o se invece sono l’effetto di strategie immobiliari che arrecano profitto a chi costruisce e un utile molto dubbio alla città. Se, cioè, danno lustro e soldi ai privati e scaricano oneri sul pubblico. Percorreremo poi la strada delle decisioni politiche, per appurare quanto le amministrazioni pubbliche abbiano esercitato un governo effettivo delle trasformazioni e quanto, viceversa, si siano piegate a interessi privati, lasciando che venisse consumato suolo pregiato (che pur essendo proprietà di qualcuno assolve comunque a funzioni ecologiche di interesse collettivo, dall’assorbimento di acqua piovana allo stoccaggio del carbonio, alla produzione agricola...) senza che la città ne guadagnasse in termini di qualità urbana e, anzi, vedesse aggravati i propri affanni. Oppure consentendo, persino sollecitando, che parti crescenti di città migrassero dalla mano pubblica o da un uso pubblico al controllo privato (siano edifici o aree libere, mercati rionali o depositi dimessi, suoli o sottosuoli). A Roma si è teorizzata ed esercitata molta contrattazione urbanistica. È finito il tempo, ha sostenuto chi ha governato la città, della cosiddetta urbanistica autoritativa (l’autorità pubblica che tutto decide e tutto pianifica), ogni cosa si negozia. O si scambia. Se c’è bisogno di un’opera pubblica, essendoci sempre meno soldi, questa si paga elargendo concessioni edilizie. Ma molto spesso – quanto spesso si cercherà di capirlo nelle storie che seguono – è il privato che, pur di avere un permesso di costruire, suggerisce al pubblico un’opera da realizzare in cambio di quel permesso.

Interrogheremo poi chi la città ha studiato e studia, nelle università e nei centri di ricerca, per raccogliere analisi e riflessioni. E sonderemo il vasto fronte dei comitati di cittadini, di gruppi e associazioni che producono una mole imponente di indagini sul proprio quartiere e che avviano vertenze per salvaguardare quel che appartiene a una collettività e che invece si vorrebbe alienare a vantaggio di pochi. Le loro azioni vanno dalla semplice cura di uno spazio – un edificio dismesso, un orto, un paesaggio, un giardino – intorno al quale si tessono o si rigenerano relazioni comunitarie che si vorrebbero annientate in una bulimia consumistica, fino ai flash-mob, alle battaglie, alle iniziative legali per non perdere ciò che è proprietà di tutti e tanto più delle generazioni future. In queste fatiche, compiute con energie volontarie e senso del gratuito, colpisce un dato: la controparte è quasi sempre il pubblico che smette di fare il pubblico, sono l’amministrazione e l’ente che si sottraggono al compito di tutelare interessi generali. Il fenomeno è relativamente recente, una quindicina d’anni al massimo, ha dimensioni nazionali e Roma ne è investita, documenta il passaggio dall’indignazione individuale a un sentimento civile. È uno dei tanti segnali che attestano la crisi della rappresentanza politica tradizionale, ed è anche il sintomo di una rinascita democratica, banalmente rubricato ad antipolitica o a episodio Nimby (Not in my backyard). Molti di questi gruppi si affiancano alle associazioni storiche, Italia Nostra, Legambiente, il Wwf, ma sempre più spesso le sostituiscono o le condizionano. Tentano di compiere un salto di scala, riuscendo solo in parte a collegarsi fra loro e mettendo in comune un patrimonio culturale, di passione politica, di competenze e di battaglie ambientaliste. Ma i numeri sono consistenti e ormai formano una massa critica. La dimensione locale e il carattere spontaneo si esprimono in iniziative di documentazione storica sul proprio quartiere, in occasioni di recupero della memoria, in piccole forme di welfare e poi in lavori di progettazione alternativa rispetto alle proposte del Comune o di un Municipio. Ed è evidente in molti dei comitati romani lo slancio a creare coordinamenti, a cercare ciò che di simile esiste in tante vicende dissimili e dunque a passare dalla singola vertenza a un’elaborazione più politica, di cui l’urbanistica rappresenta uno dei cardini.

Roma per molti aspetti è esemplare di una condizione urbana che riguarda altre città del paese, si diceva. Le sue patologie si rintracciano anche altrove, e anche altrove, in proporzioni diverse, queste affliggono la qualità del vivere e l’esistenza materiale delle persone. Quanto, per dirne una, il disegno di Roma è pianificato e quanto invece è affidato al caso per caso? Quanto conta l’idea che la città ha di sé, e quanto invece vale la sommatoria di interessi, a volte conflittuale a volte consensuale? Quanto Roma si sforza di garantire a tutti i suoi residenti il diritto alla città, un’accessibilità che è condizione perché chiunque vi abiti si senta anche cittadino? A Roma, inoltre, è possibile definire la fisionomia esemplare di un potere, quello legato all’edilizia e alla proprietà dei suoli, che è stato il motore secolare dell’economia cittadina, e che tuttora è alimentato più dal propellente della rendita fondiaria che dal profitto d’impresa, ed è intrecciato alla finanza. L’espressione “poteri forti” è adulterata dall’abuso: ma in pochi altri casi, come a Roma, definisce bene un grumo di interessi ampiamente addossato alla politica e all’amministrazione, che agisce come impresa privata, ma non disdegna, anzi, di colonizzare le aziende municipalizzate oppure di tracciare le linee guida delle Grandi opere, chiedendo per sé un perenne regime di deroghe e dunque auspicando Grandi eventi – Olimpiadi, Mondiali di nuoto, Giubilei – e sistemi da Protezione civile. Questi poteri sono in grado, quando andava bene e ora che va male, di condizionare il tenore di vita della città. E anche di proporsi come protagonisti per fissare la direzione di marcia dell’urbanistica. Direzione di marcia che spetterebbe alla politica e all’amministrazione pubblica di dettare, ma la cui formulazione è spesso culturalmente incerta e altrettanto spesso è il prodotto di mediazioni al ribasso, sintomo di una fragilità sia della politica sia dell’amministrazione pubblica che non è solo prerogativa della capitale, ma di altre città e di un paese intero.

Roma sembra essere progredita per parti separate. A pezzi. Per tendenze, ha scritto uno dei massimi studiosi della sua storia urbana, Italo Insolera, scomparso a fine agosto del 2012. Quasi nelle pagine d’esordio del suo Roma moderna, a proposito di come vennero distribuiti i ministeri negli anni immediatamente successivi alla breccia di Porta Pia, Insolera scrive che «il non trasformare nessuna tendenza in un piano, in una legge precisa che modelli la struttura stessa della città, è una caratteristica tipica e costante dell’amministrazione romana. Ogni provvedimento deve sempre lasciare un margine al provvedimento opposto. Qualsiasi iniziativa viene subito svilita nel compromesso: per evitare che si accusi l’amministrazione di favori eventualmente disonesti nei confronti dei proprietari e impresari di una zona; non ci si cura tanto di creare gli strumenti fondiari e tecnici per prevenire da ogni parte possibili corruzioni, ma di distribuirne un po’ dappertutto le premesse».

Le storie che seguono proveranno anche a rispondere a domande che, a Roma, incalzano con la stessa energia con la quale i problemi si aggravano. Non è detto che le risposte si riescano a trovare o che, trovate, sia semplice metterle distesamente in fila. Perché, per esempio, Roma è la città con più macchine e motorini in Europa? In rapporto alla popolazione, ovviamente. Perché a Roma – sono dati elaborati nel 2009, fonte lo stesso Comune di Roma – circolano 978 veicoli a motore ogni 1.000 abitanti, comprendendo fra i 1.000 abitanti anche i ragazzi con meno di 18 e anche di 14 anni, i neonati e gli ultra ottantacinquenni, praticamente una macchina o un motorino ogni abitante? Perché questo accade a Roma, che conta 2 milioni 700 mila abitanti, mentre a Londra i veicoli a motore sono 3 milioni 10 mila e gli abitanti 7 milioni e mezzo, con un rapporto di 398 ogni 1.000? Parigi e Barcellona stanno un po’ peggio di Londra, ma nella capitale francese il rapporto è di 415 su 1.000, e nel capoluogo catalano di 621 su 1.000. Perché? Non è conveniente introdurre un racconto sparando cifre. E neanche ponendo domande. Ma quelle cifre e quelle domande contengono un problema. Più macchine ci sono in giro, meno si va in giro. La ragion d’essere di una macchina sta nel facilitare la mobilità. Ma troppe macchine sono l’antitesi della mobilità. E la mobilità è il presupposto dell’accessibilità, che a sua volta consente di esercitare degnamente il diritto alla città. Inoltre troppe macchine inquinano insopportabilmente l’aria. Se parcheggiate ostacolano la viabilità, se parcheggiate male la ostruiscono in un crescendo di illegalità che la Polizia municipale ha rinunciato a perseguire. Troppe macchine sono causa di incidenti, anche mortali (un altro po’ di numeri: 19.960 gli incidenti a Roma ogni anno, 23.210 a Londra, con una popolazione quasi tre volte superiore; 201 i morti a Roma, 222 a Londra). Se questi sono solo alcuni dei problemi e altri li vedremo in seguito, diventa ancora più incisivo domandarsi perché tutto ciò accada. Perché questi dati crescono costantemente nel tempo e non si vedono indicazioni che vadano in senso contrario. E perché il problema traffico viene affidato a una gestione emergenziale, che con tutta evidenza ha prodotto assai poco e che, dopo sette anni di proroghe, il governo Monti nel gennaio 2013 ha nuovamente prorogato con il consenso di centrodestra e centrosinistra.

Alle domande sul numero di macchine che circolano a Roma, se ne incrociano altre, apparentemente disomogenee, ma che pure dimorano nello stesso spazio e hanno a che fare con il modo in cui questo spazio si organizza. A Roma si sono costruite nel primo decennio del Duemila moltissime case. 8.598 alloggi nel 2003, 11.056 nel 2004, 14.889 nel 2005, 8.433 nel 2006 e 8.919 nel 2007. In cinque anni si sono completati quasi 52 mila alloggi, 10 mila ogni anno in media: Roma ha avuto un tasso di crescita dello stock edilizio dell’1,4 per cento, il doppio di quello di Milano (+0,7). Ci sono ragioni demografiche, di riorganizzazione dei nuclei familiari, ragioni produttive che giustifichino questi incrementi, che hanno poi rallentato il proprio ritmo, fin quasi ad arrestarlo fra la fine del decennio e l’inizio di quello successivo? E perché ancora tante persone non trovano una casa che possano permettersi e un numero sempre crescente di queste persone va a vivere fuori Roma, in provincia o addirittura in altre province e persino oltre i confini della regione, al punto che qualcuno, in onore a questi paradossi, sostiene che Roma cresca a Orte (sono 163 mila i romani che tra il 2003 e il 2010 hanno lasciato la città e si sono trasferiti nei comuni della provincia)?

Chi conosce non solo Roma, ma la letteratura su Roma, sa che il disagio abitativo non è un problema di oggi o dell’ultimo decennio. È uno degli aspetti strutturali di uno scadente diritto alla città. Si è scritto – è ormai acquisito – che una certa quota di fabbisogno inevaso è sempre funzionale al mantenimento di un livello accettabile dei prezzi delle case – accettabile per chi quelle case costruisce. Si è scritto che più case si costruiscono, più ce ne vorrebbero; lo si è scritto per Roma, ma anche per l’Italia intera. Quanta gente, fin dall’alba del Novecento, si è ammassata in baracche addossate alle Mura Aureliane? E poi si è costruita una casa in mattoncini di tufo senza intonaco lungo le vie consolari? E in quanti hanno popolato i borghetti fino a tutti gli anni Settanta del secolo scorso? Insolera e poi Giovanni Berlinguer e Piero Della Seta, autori di Borgate di Roma, fra i più illustri esponenti di quella letteratura sulla capitale prima richiamata, hanno calcolato che alla fine degli anni Settanta erano fra 800 e 830 mila i romani che vivevano in case abusive, costruite senza alcuna licenza, poi in qualche modo rientrate nella legalità. Una città come Palermo. Altre stime parlano di 10 mila ettari abusivi, poco meno del 20 per cento di tutto l’attuale edificato a Roma. Nel 1997, quando l’amministrazione Rutelli approva un importante documento urbanistico, la Variante di salvaguardia, gli insediamenti abusivi conteggiati a partire dal Piano regolatore del 1962 ammontavano a 204.

Le pagine su Roma, le immagini di Roma, sono piene di case che si tirano su e di gente che cerca casa. Ma perché si costruiscono o si progettano ancora oggi tante case se 250 mila restano a vario titolo vuote (secondo una stima di Legambiente; erano comunque 193 mila al censimento del 2001)? Perché a pochi mesi dalla chiusura della legislatura in Consiglio comunale l’amministrazione di Gianni Alemanno cercava di far approvare in tutta fretta 64 delibere, molte in variante al Piano regolatore approvato nel 2008 e tutte proponenti ulteriori espansioni edilizie per un totale stimato fra i venti e i trenta milioni di metri cubi? Perché si progettano bretelle autostradali, raddoppi di aeroporti, perché le società di calcio cittadine, appartenenti a potenti famiglie di costruttori o a fondi immobiliari esteri, immaginano nuovi stadi che costituiranno la piccola parte di insediamenti contenenti centri commerciali, alberghi e, ancora, case? E poi: le domande sulle macchine e quelle sulle case si tengono insieme, si incrociano in qualche punto del discorso? Forse perché quelle case le si va a sistemare fuori dalla città già edificata, che pure conserva molti spazi vuoti, essendo bassissima la sua densità abitativa? Forse perché, nonostante tante dichiarazioni solenni e formalmente codificate, i nuovi insediamenti sorgono lontano o lontanissimo da una fermata di metropolitana, di tram e persino di autobus?

E perché, come effetto non secondario, di questa frammentazione abitativa, si decide di sacrificare porzioni di campagna romana, “l’erme contrade” che Giacomo Leopardi racconta nella Ginestra e che irrorano la facoltà immaginativa di Montaigne, Montesquieu, Charles de Brosses, Goethe e che ancora nel Novecento offrono materiali a Ennio Flaiano, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini? Con la cultura non si mangia, disse un ministro della Repubblica, e tanto meno con la letteratura, ma con quel che l’agricoltura produce sì: e allora perché si lascia che quelle case, in gran numero restate invendute, minaccino le migliaia di aziende che l’agricoltura insistono a praticarla (Roma è ancora il comune o uno dei comuni più agricoli d’Italia) coltivando carciofi, innestando vigneti, allevando pecore e confezionando formaggi?

Le domande diventano perentorie. E, come in una struttura frattale, ne producono altre, che poi vanno a raggrupparsi. Fino a formare accorpamenti e gerarchie. E domande capofila, del tipo: chi decide che tutto ciò accada? Chi decide perché si costruisce, che cosa, per chi, come e dove? Chi stabilisce che un edificio, un’area di proprietà pubblica, un mercato rionale, con la scusa di ridurre il debito, finiscano in mano a un privato che ne fa quel che vuole ignorando ciò di cui ha bisogno la parte di città in cui quell’edificio, quell’area e quel mercato risiedono? Quali sono i soggetti, le forze, le aggregazioni sociali, economiche e politiche che definiscono gli assetti della città? E quanto costa ai cittadini romani, e non solo ai cittadini romani, una Roma così fatta, che ha un debito di oltre 9 miliardi, scarsissima liquidità, un bilancio sempre a rischio di censure dalla Corte dei Conti e che, per evitare l’indecenza, dichiara per acquisite anche le entrate presunte, come le multe?

Quanto spazio i temi urbanistici occupano nel dibattito politico? È possibile, per esempio, fare anche minimamente un raffronto con le polemiche aspre, le divisioni profonde, appassionate e culturalmente motivate che si agitarono negli anni Cinquanta, quando si scriveva il Piano regolatore della città? Che durata hanno i fenomeni che oggi investono Roma? Quand’è che Roma ha cominciato a farsi del male? Forse quando compì il vertiginoso salto da misero borgo papalino a capitale del Regno? Oppure quando il cardinale de Mérode acquistò i terreni sui quali avrebbe fatto costruire via Nazionale? Quando furono distrutte Villa Ludovisi e decine di altre ville patrizie sostituite da lottizzazioni? Quando fu stravolto il Piano regolatore del sindaco Ernesto Nathan? Quando furono inventate le borgate? La caccia alle origini del malessere di Roma è stata condotta e prosegue in sede storiografica con risultati a volte ottimi. Ma non è questa la sede per spingersi così lontano. Qui si può fissare, non tanto arbitrariamente, un punto nella storia secolare di Roma. Quel punto è l’articolo che Antonio Cederna pubblica su Il Mondo il 15 marzo 1955 e che il direttore del settimanale, Mario Pannunzio, intitola La macchia d’olio. Come una goccia d’olio che cade da un recipiente produce su una superficie una macchia la quale si espande in modo irregolare e si dilata in ogni direzione, così la città di Roma è cresciuta fin dagli anni successivi al 1870 allargandosi in tutti i punti cardinali e seguendo non la linea di marcia dettata da una corretta pianificazione, ma le forze di trascinamento delle proprietà fondiarie – la speculazione edilizia – le quali, chi a est, chi a ovest, chi a sud e chi a nord, spingono la città sui loro terreni.

Dal 1951, comunque, mescolando interventi di edilizia pubblica e privata, in proporzioni a tutto vantaggio di quest’ultima, la città si espande a un ritmo che non ha eguali nella propria storia. Vediamo qualche dato. Il Piano regolatore del 1931 dimensiona l’edificato di Roma, per i futuri 25 anni, in 14 mila ettari. Non è la fotografia dell’esistente, sono previsioni. Se anche le dessimo per acquisite nei decenni successivi, e non lo sono, queste previsioni fissano la città costruita entro un decimo del territorio comunale (che allora comprendeva anche Fiumicino). Va da sé che nei 14 mila ettari non sono compresi i numerosi “nuclei edilizi”, così li chiamavano, sparsi già allora nella campagna. Roma ha impiegato 2.500 anni per arrivare a quelle dimensioni. La grandissima parte dell’incremento avviene dopo Porta Pia e accompagna un ritmo di crescita demografica altrettanto imponente: 240 mila gli abitanti nel 1870, 691 mila nel 1921 (quasi triplicati), 1 milione 8 mila nel 1931, 1 milione 415 mila nel 1941, 1 milione 651 mila nel 1951. In ottant’anni la popolazione aumenta di 6,7 volte.

Nel 2010, stando alle previsioni del Piano regolatore approvato nel 2008, l’area urbanizzata raggiunge i 60 mila ettari. In sessant’anni la superficie del costruito è aumentata di 4,5 volte (sempre che sia corretto il dimensionamento a 14 mila ettari fra 1931 e 1951). E la popolazione? Il censimento del 2011 indica che i romani residenti sono 2 milioni 760 mila, 1 milione e 100 mila più del 1951 (grosso modo 0,7 volte), ma appena 210 mila più del 2001 e praticamente gli stessi del 1991 e del 1971. Da quarant’anni, con lievi oscillazioni, Roma è demograficamente stabilizzata. Inoltre, a conferma di quanto si diceva prima, a proposito di Roma che cresce a Orte, mentre dal 2001 al 2011 la capitale conta un +8,4 per cento di residenti, la provincia di Roma si ingrossa di un +13,3. C’è dunque sproporzione fra il ritmo di crescita dei romani e quello di Roma, considerando anche l’aumento del numero delle famiglie e segnalando che l’incremento di residenti è soprattutto prodotto dagli immigrati. Le case invendute sono uno degli effetti di queste sproporzioni. Sono contemporaneamente il prodotto di un boom edilizio e il referto di una crisi drammatica.

Il costruito è tanto, troppo, ed è andato per ogni dove anche dopo l’inizio del millennio. Perché? È frutto di intenzioni speculative o di un disegno, di un’idea della città? E qual è il vantaggio che resta alla città e ai romani, vantaggio in termini di benessere economico e di benessere e basta? Quando Cederna coglie con la metafora della macchia d’olio la forma che prende la crescita di Roma, quella crescita è in atto già da decenni. L’articolo su Il Mondo viene riprodotto in I vandali in casa, pubblicato da Laterza nel 1956. L’espressione “macchia d’olio” diventa proverbiale. Il libro di Cederna può leggerlo chiunque abbia responsabilità amministrative da allora in poi: lo hanno letto? Ne hanno tratto qualche istruzione per mettere mano al governo della città? Roma che si espande come si espande una macchia d’olio è una città che si fa del male o del bene? Nessun sistema di trasporto supporta in modo minimamente adeguato questo sviluppo e se fosse adeguato sarebbe insopportabile finanziariamente, una condizione già in atto se si osservano i disastrosi bilanci dell’Atac e il debito che affligge il Comune. Nascono quartieri inospitali che hanno scarsi punti di raccordo fra loro e con il centro della città. Roma è una metropoli che esclude. La letteratura su questi fenomeni è abbondante. Riprendiamo Roma moderna, laddove Insolera fa il resoconto delle ville distrutte dopo il 1870. Molte di queste ville, annota, si sarebbero salvate se solo si fossero applicate le prescrizioni contenute nel Piano regolatore del 1883. «Ma i Piani regolatori a Roma sembrano essere sempre esistiti per dividere le opere in due categorie: quelle dentro al Piano e quelle fuori. Realizzabili poi tutte quante, indifferentemente e quasi sempre prima e più facilmente quelle fuori».

Un ennesimo racconto di serrande abbassate per sempre, di quartieri che si desertificano, e la solita ottusità a capire, a dare la colpa al destino cinico e baro. La Repubblica, 20 marzo 2013, postilla (f.b.)

TORINO - C’ERA il rumore leggero delle saracinesche ben oliate che si alzavano girando una chiavetta. C’erano i saluti allegri fra chi cominciava una giornata di lavoro. «Buongiorno, buona giornata ». Le eleganti ragazze del negozio con abiti da duemila euro e i più anziani commessi della rivendita di pantofole si incontravano con i ragazzi pronti a passare la giornata cuocendo hamburger e patate fritte. Adesso c’è troppo silenzio, in via Amendola. Troppe serrande sono state abbassate per l’ultima volta. Sono state tolte anche le insegne. Via il nome dalle tre vetrine di Trussardi, via un nome antico, Vindigni, dove i torinesi andavano a comprare l’abito della festa. «Prossimamente aprirà enoteca », annuncia un cartello. Spente e rottamate le friggitrici e le piastre del Burger King, che un tempo attirava giovani anche dalle periferie, perché era il primo fast food aperto nella città dei Savoia. Adesso, per conoscere «chi c’era qui», devi chiedere all’uomo che porta fuori il cane o alla commessa della tabaccheria.

Un centro Tim ha trovato un’altra strada, si è trasferita anche l’ottica Cavalli. Arrivi in piazza Cln e anche qui ci sono i buchi neri. Se ne sono andati la profumeria Piera Giordano, il Plaisir che vendeva tutto per “la salute del corpo”, e anche “Pantaloni e pantaloni”. Svolti in via Roma — la via Condotti di Torino — e vedi i segni lasciati dalle insegne divelte. “Affittasi”, annuncia un grande cartello su quello che era il negozio di Cartier. Chiuse le vetrine sfavillanti di due gioiellerie, Fasano e Palmerio, dove migliaia di torinesi avevano comprato le fedi per il matrimonio e lasciato gli occhi sugli altri gioielli.

«E stiamo parlando — raccontano Antonio Carta e Morena Sighinolfi, presidente e direttore della Confesercenti sotto la Mole — delle strade più ricche della città. Immagini cosa succede nelle periferie». I numeri parlano chiaro. Nei soli due mesi di gennaio e febbraio nel capoluogo il saldo fra aperture e chiusure è stato di meno 231 per i negozi e meno 250 per le «somministrazioni», vale a dire bar, ristoranti, pizzerie, kebab… Ogni giorno 15 serrande non vengono rialzate. «In centro la crisi è provocata dal caro-affitti e dal fatto che i clienti sono attratti dai grandi centri commerciali che, da gennaio, hanno deciso di restare aperti tutte le domeniche ». La vicenda degli affitti in centro ricorda la favola della rana di Fedro, che si gonfiava per sembrare grossa come un bue. I proprietari dei muri hanno continuato ad aumentare i prezzi — in via Roma e dintorni 150 ma anche 200 euro al metro quadro ogni mese, e così per 100 metri si debbono pagare fino a 20 mila euro — con il risultato di avere centinaia di proprietà «scoppiate» e senza reddito.

«Ormai solo i grandi marchi — dice Antonio Carta — riescono a resistere in centro. I negozi appartengono per il 90 per cento ad assicurazioni e banche che — mi ha spiegato
un loro dirigente — preferiscono lasciarli sfitti piuttosto di abbassare i prezzi, per “non deprimere il mercato”. Fino al 2011 c’erano tante chiusure ma il numero di chi apriva era superiore. Questo perché i genitori, con la liquidazione della Fiat e la pensione, costruivano un posto di lavoro per il figlio, aprendogli un negozietto o una videoteca. Ora quei soldi sono finiti. E migliaia di operai in cassa integrazione, con il 30 per cento di reddito in meno, non possono certo fare investimenti: fanno fatica a fare la spesa».

Le strade con le serrande bloccate ci sono «anche perché alcuni commercianti hanno fatto degli errori». «C’è stato qualche collega — racconta Franco Orecchia della Vestil, negozio di abbigliamento di tre piani in piazza Statuto — che per ridurre i costi ha abbassato la qualità. Ed ha pagato caro. Se uno è abituato a cenare in un buon ristorante, con la crisi non va al fast food. Torna al ristorante, ma solo quando se lo può permettere. Così succede nell’abbigliamento. Se sei servito bene, compri meno capi ma non cambi negozio». Diciassette dipendenti più quattro della famiglia. «Qui trovi abiti da 480 a 3.500 euro. Solo per la taglia 50, ad esempio, lei può scegliere fra 200 pantaloni diversi. Investire nell’offerta è un obbligo: il cliente che non trova ciò che vuole va a cercarlo da un’altra parte». Vetrine illuminate dal 1957 ma aperte al nuovo. «Al secondo piano ho un angolo dedicato a pasta, salse e vino di alta qualità. È un’offerta che funziona nelle librerie. Perché non provare anche noi?».

C’è anche chi, pur puntando sulle eccellenze, si deve arrendere. «In tutta la mattinata — dice Luciano Ferrarese, con mini market in via Cibrario — ho incassato 40 euro. Ho frutta e verdura biologiche e anche se siamo a marzo i primi meloni di Mantova. Le colombe pasquali sono di pasticceria. Fino a due anni fa in questi giorni le avevo esaurite, quest’anno non ne ho venduta una». Luciano Ferrarese, negli anni buoni, si è comprato i muri. «Anche senza pagare l’affitto, devo chiudere. Con gli incassi troppo magri, uso la mia pensione per pagare le spese generali. E me ne vado senza “liquidazione”, perché la licenza con la legge Bersani non si vende ma si riconsegna gratis in Comune. L’avevo comprata nel 1985, con 50 milioni di lire. Allora avrei potuto comprarmi due piccoli appartamenti. Ma non oso lamentarmi, c’è chi sta peggio. Vedo dei miei ex clienti che all’alba vanno a cercare nei cassonetti…».

«Lo spartiacque — dicono Antonio Carta e Morena Sighinolfi della Confesercenti — arriverà a Pasqua. Se non ci sarà una ripresa dei consumi, altre centinaia di saracinesche si abbasseranno in pochi giorni. Sarà un disastro. Noi curiamo i bilanci delle imprese e nell’ultimo anno abbiamo rilevato un dato allarmante: non chiudono solo le aziende con problemi — mutui troppo alti,
esposizioni bancarie, merci sbagliate — ma anche quelle finanziariamente sane e con una buona clientela. Questo significa che le famiglie stanno davvero finendo i soldi: hanno rinunciato prima al voluttuario (scarpe, jeans ...) poi agli alimentari, con tagli alla carne, alla verdura, al pesce. Ora chiudono bar e pizzerie: devi fare i conti prima di andare a prenderti un caffè».

C’è chi la crisi la può pesare a quintali. «Prima vendevo — racconta Luigi Frasca, titolare della “Bottega della carne, Da Natalino” — due mezzene di vitello piemontese, 260 — 270 chili l’una — alla settimana. Adesso ne vendo solo una. Chi vendeva una mezzena, ora vende un quarto. I miei genitori e i miei nonni con la macelleria si compravano le case e le macchine e facevano studiare i figli. Noi facciamo fatica a stare in piedi». A Porta Palazzo, nella galleria Umberto I, Gianni Berteti dice di avere cambiato mestiere. «Vendo profumi ma soprattutto faccio lo psichiatra. Vengono in bottega colleghi e clienti che mi raccontano che così non si può andare avanti, che se devi scegliere fra la pastasciutta e un profumo ovviamente scegli il cibo. Si sta qui a parlare e il registratore di cassa resta muto». Qualche serranda è chiusa (un ristorante, il negozio del primo cinese arrivato a Torino…) e le altre vetrine sono ancora illuminate. Ma nessun passo di cliente viene a disturbare il silenzio nella galleria.

Postilla

Dare la colpa al destino o alla crisi? La cosa che più colpisce, di questa ecatombe commerciale, è la sua perfetta, banale, assoluta prevedibilità: cambia il ruolo dei centri urbani, si afferma quello delle periferie automobilistiche e della dispersione, con relativa supremazia degli scatoloni. E non perché sono scatoloni, o (solo) perché siano gestiti da una specie di Spectre globalizzata all'assalto della bottega familiare buona e brava. Ma perché sono organici alla forma insediativa, sociale, di consumo e comportamento prevalente. Si poteva fare qualcosa? Si può fare qualcosa? Sicuramente, e ci provano da decenni in tutto il mondo. La vera sciocchezza, la cosa più frustrante e fastidiosa, è dover assistere a questa agonia dei quartieri impotenti, con tutti, nessuno escluso, che danno la colpa ad altri, e non alla propria incapacità di riflettere sulla mutazione del commercio urbano, e sull'indispensabile avvio di politiche pubblico-private diverse dalla solita tutela corporativa dei bottegai (f.b.)

La prefazione di un libro tutto da leggere, da domani (20 marzo 2013) in libreria. Rendita, economia e politica, protagonisti della Grande crisi. «Il contributo scientifico di Mario De Gaspari aiuta a capire come va il mondo. E aiuta soprattutto chi vuole cambiarlo».

Chi apre queste pagine ha in mano un libro prezioso. Il suo valore dipende non solo dalla qualità dell'analisi ma dal fatto che è raro poterla leggere in un testo rigoroso come questo. E' davvero povera la letteratura sulla rendita immobiliare, non solo nella ricerca teorica, ma nella pubblicistica corrente e ancor di più nel dibattito politico. Eppure, Mario De Gaspari dimostra che è la chiave analitica più efficace per comprendere l'incubazione della Grande Crisi, le attuali difficoltà ad uscirne, il ruolo inedito e perverso del sistema creditizio e soprattutto l'impatto di tutti questi fenomeni sulla decadenza italiana.

Chi l’avrebbe detto che il turbo-capitalismo si sarebbe inceppato sul vecchio sogno piccolo borghese della casetta in proprietà. Chi l’avrebbe detto che dopo tanta retorica sulla società della conoscenza bisognava tornare e occuparsi delle rate dei mutui immobiliari come principale problema della globalizzazione. Chi l'avrebbe detto che una potenza mondiale come gli Usa vacillasse a causa di 5 milioni di americani insolventi.

Oggi si comprende meglio che cosa è stato l’ultimo ciclo di euforia immobiliare. La crisi dei subprime è come la nottola di Minerva che si alza in volo verso sera sollecitando il pensiero a trarre un bilancio della giornata. Si sono inceppate insieme le due forme di rendita, quella finanziaria e quella immobiliare, come erano cresciute insieme nel decennio passato, rivelando un indissolubile legame strutturale e, forse più, una medesima visione del mondo. La condivisione di ascesa e declino mette in luce la natura anfibia di questa economia di carta e di mattone, capace di librarsi su quanto di più etereo e, d’altro canto, saldamente ancorata a quanto di più solido. Il mattone ormai si comporta come un derivato, ci ricorda Giulio Sapelli. La rendita urbana è una prosecuzione della finanza con altri mezzi, direbbe von Clausewitz.

Oggi si parla molto poco di rendita immobiliare, proprio mentre il fenomeno è diventato fattore cruciale nell’allocazione delle risorse e nella regolazione dei processi. Paradossalmente l’attenzione è stata maggiore quando il fenomeno era meno rilevante nel ciclo economico. Certo la speculazione edilizia degli anni cinquanta e sessanta ha avuto un impatto disastroso nel territorio italiano, ma tutto sommato era espressione di settori arretrati rispetto alla trasformazione capitalistica.

In un’intervista dei primi anni settanta Agnelli proponeva di combattere la rendita urbana perché provocava l’aumento degli affitti, la diminuzione dei redditi disponibili per i lavoratori e di conseguenza una maggiore conflittualità in fabbrica. Era l’argomento principale su cui poggiava l’offerta al movimento sindacale di un patto tra produttori. Venti anni dopo la Fiat e tutti gli altri grandi gruppi industriali danno vita ai fondi immobiliari per utilizzare le rendite come margini per le rispettive ristrutturazioni aziendali e come via di fuga dalla competizione internazionale.

Da Sullo a Bucalossi il tema è stato centrale nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. Perfino l’arte narrativa ha contribuito a denunciare il problema, ad esempio con il film Mani sulla città di Rosi e il romanzo La speculazione edilizia di Calvino. Per il tecnico urbanista, infine, la rendita costituiva non solo un decisivo argomento disciplinare, ma perfino una tappa della formazione etico-professionale.

Su tutto ciò è calato il silenzio da quando la rendita è diventata la forza indisturbata dello sviluppo territoriale e parte integrante della finanziarizzazione dell’economia. C'è stata anche una disattenzione della letteratura scientifica più recente che ha trattato gli immobili come qualsiasi altro bene, senza metterne sotto osservazione le peculiarità di comportamento nel ciclo economico che assomigliano a quelle della moneta. In entrambi i casi la tendenza speculativa si sovrappone alle funzioni d'uso, rispettivamente di abitazione e di mezzo di pagamento. Nel testo, infatti, non si trova citato quasi nessun economista contemporaneo, ma le categorie fondamentali di analisi vengono tratte direttamente dai grandi classici, da Ricardo a Keynes, Schumpeter e Minsky. Tornare a occuparsi di rendita è quanto mai necessario se si intende governare davvero i processi economici.

Questa storia paradossale rende perfino fuorviante l'uso della parola “rendita”, ci avverte De Gaspari, perché essa ha caratterizzato il dibattito pubblico quando ancora denotava una forza passiva del ciclo. Oggi invece la parola “rendita” va collocata nel cuore del processo capitalistico globalizzato. Occorre una vigilanza semantica per dislocare il termine nei problemi contemporanei e per analizzare i caratteri della Crisi attuale. E' davvero illuminante il contributo del libro alla comprensione del ruolo degli istituti di credito che non sono più intermediatori finanziari ma vere imprese della rendita. Hanno fatto di tutto per gonfiare la bolla immobiliare e ora che i valori sono scesi tengono in corpo gli asset senza certificarne la perdita, ma facendo pagare questa sofferenza al sistema economico in termini di stretta creditizia. Nelle follie immobiliari del sistema bancario, quindi, si nasconde la principale forza di inerzia che impedisce la ripresa economica.

E questo spiega molto della crisi italiana. Da noi le banche non sono fallite ma portano una zavorra ancora più pesante di titoli edificatori inesigibili o di immobili svalutati e proprio per questo oggi esse contribuiscono alla stretta recessiva. La forza d'inerzia della crisi è direttamente proporzionale all'intensità della follia immobiliare precedente.

La bassa produttività, il vero malanno italiano del decennio, è determinata per larga parte dallo straordinario successo della politica pro-rendita. Esso corrisponde ad un modo d’essere profondo del Paese, ad una sorta di genius loci che solo nel mattone è in grado di rendere coerenti e durature le strategie di molti attori pubblici e privati. Il danno più grave è nel modello di sviluppo parassitario. I plusvalori della rendita sono di gran lunga superiori rispetto a quelli dei normali profitti industriali, senza neanche la difficoltà di organizzare un ciclo produttivo. L’acqua va dove trova la strada e le risorse disponibili sono attratte dagli usi speculativi a discapito degli usi produttivi. E’ stato un decennio di grande retorica sulla società della conoscenza, innovazioni tecnologiche e produzioni immateriali, ma nella realtà ha vinto la componente parassitaria dell’economia italiana.

Il valore del capitale fisico delle città non è mai cresciuto tanto, ma alla fine del ciclo immobiliare le città si ritrovano povere di infrastrutture e con i bilanci disastrati. Dove è andata a finire tutta questa ricchezza? Come si spiega questo scarto tra ricchezza immobiliare e povertà urbana? I plusvalori sono stati acquisiti in gran parte dai proprietari senza alcun merito, non essendo determinati dai loro investimenti, ma da pure rendite di posizione.

Nell’intreccio sempre più perverso di economia di carta e di mattone queste valorizzazioni immobiliari sono state succhiate dal tessuto urbano e collocate nel circuito finanziario globalizzato. Le città vengono utilizzate come substrato materiale che conferisce solidità alle transazioni immateriali della finanza.

I sindaci per sopperire ai deficit di infrastrutture e di bilanci hanno inventato la “zecca immobiliare”, cioè stampano carta moneta assegnando ulteriori diritti edificatori in cambio degli oneri di concessione. Ma lo scambio è ineguale, perché le infrastrutture necessarie per i nuovi quartieri costano molto di più degli oneri di concessione e quindi aumentano il deficit e richiedono un nuovo intervento della zecca, in una spirale perversa sempre più dannosa per l’interesse pubblico. De Gaspari svela la portata macroeconomica di tali decisioni amministrative. Questa creazione di nuovi valori immobiliari prescinde dai criteri di adeguatezza, trasparenza e pianificazione, e viene legittimata solo dall'inconsapevolezza del dibattito pubblico circa gli effetti fisici, sociali ed economici.

La bolla immobiliare ha cambiato la geografia italiana espellendo i redditi bassi negli hinterland e costruendo pulviscoli edilizi attorno alle grandi città italiane. Le chiamiamo ancora con i nomi storici - Roma, Milano, Palermo, Napoli – ma oggi essi si riferiscono a oggetti geografici molto diversi, anzi a forme post-urbane. E' un triste primato aver realizzato nell'ultimo ventennio i casi più gravi di sprawl in Europa. Sull’area vasta, inoltre, il deficit strutturale è diventato ormai ancora più pesante a causa delle difficoltà di servire con adeguate opere pubbliche il rapido esodo di popolazione. Anzi la spesa pubblica ha aggravato il fenomeno finanziando soprattutto autostrade che favoriscono la dispersione urbanistica, producendo più traffico. E’ stata ignorata l’unica leva che poteva condensare il pulviscolo edilizio, almeno in parte, ovvero la ristrutturazione delle vecchie ferrovie regionali, come hanno fatto i francesi con la R.E.R. e i tedeschi con la S-Bahn.

L’insostenibile ascesa della rendita è la responsabile occulta di tanti problemi sociali. Ad esempio, l'impoverimento del ceto medio dipende in gran parte dal boom immobiliare. Chi ha acquistato casa oggi si trova il doppio colpo dell’aumento del mutuo e dell’aumento dell’IMU. Trovare una casa in affitto significa spostarsi sempre più lontano dalla città e ai giovani precari spesso viene negata la casa in affitto perché non danno garanzie di uno stipendio fisso. Abbiamo chiesto ai giovani di adeguarsi alla flessibilità e in cambio hanno trovato un mercato delle locazioni sempre più rigido. Gli effetti perversi si fanno sentire anche negli assetti istituzionali: la Città Metropolitana non è stata istituita perché avrebbe frenato la distribuzione di rendita che i piccoli comuni si sono trovati a gestire intorno alle grandi città. C’è una ragione strutturale che ha impedito l’innovazione della forma di governo locale.

Non c’è da stupirsi, quindi, se in tale opacità di interessi pubblici e privati la politica smarrisca la responsabilità del governo. Le cause sono per lo più interne all’organizzazione del ceto politico, ma certo lo sviluppo della rendita è stato un potente catalizzatore della crisi. Il nesso tra sviluppo della rendita e mutazione della classe politica è largamente sottovalutato sul piano teorico, nonostante l’abbondanza di dati empirici che ne segnalano la rilevanza. Nella fase statalista la politica agiva sulla produzione e sulla redistribuzione delle risorse. Nel liberismo perde queste leve di regolazione economica e si rifugia nei processi di formazione della rendita territoriale.

Le nuove forme politiche di controllo del territorio assomigliano all’organizzazione in franchising delle reti di vendita delle agenzie immobiliari, nate come funghi in tutti i quartieri delle nostre città nel giro di pochi anni. Ciascun negozio ha un gestore autonomo degli affari, ma la rete di cui fa parte appare come un’azienda unica, perché è tenuta insieme da un marchio e da un marketing a livello nazionale. Entrando in un’agenzia di Tecnocasa o di Toscano si tratta con un rivenditore locale, ma si ha l’impressione di entrare in contatto con un grande gruppo, il quale proprio per questo sembra dare garanzie di affidabilità.

Anche i partiti vanno assumendo ormai questa organizzazione in franchising: tenuti insieme da leader televisivi e notabili locali, secondo il debole legame del marketing. Che tutto ciò possa costituire il brodo di coltura della questione morale è ovvio, l’anomalia consiste semmai nell’accorgersene, come sempre è accaduto nel nostro paese, solo dopo l’iniziativa dei magistrati, quando sarebbe bastato uno sguardo sufficientemente attento per vedere come si andava organizzando la politica italiana nella Seconda Repubblica.

Ma questo libro dimostra che l'inconsapevolezza è stata più generale e ha riguardato aspetti fondamentali della trasformazione capitalistica. L'irresistibile ascesa dell'immobiliare è stata la forza occulta che ha agito contemporaneamente nel ciclo economico, nell'impoverimento dei ceti sociali più deboli e negli assetti politico-istituzionali. Il contributo scientifico di Mario De Gaspari aiuta a capire come va il mondo. E aiuta soprattutto chi vuole cambiarlo.

Alla vigilia della formazione del nuovo governo è utile riflettere su alcuni discutibili, e a volte addirittura perversi, episodi dell'urbanistica della vecchia sinistra. Il PRG di Roma è una buona occasione per farlo. L'Unità, 18 marzo 2013, con postilla

Mentre impazza il toto-nomi per il Campidoglio, il libro di un vecchio leone dell'urbanistica, quello di Giuseppe Campos Venuti, Amministrare l'Urbanistica Oggi (remake del titolo di un fortunato volume degli anni '60. edizione INU), dà l'opportunità di parlare di Roma, delle trasformazioni dagli anni 80, del dilagare del cemento oltre il Raccordo, fino a far sparire, in molti casi, la cesura fra città e campagna, consumo di suolo e scarsità di servizi. Di parlare anche dei contrasti che, dopo una stagione felice, hanno segnato, con l'arrivo di Alemanno in Campidoglio, la sconfitta di una stagione di progettualità che proiettava Roma nel firmamento delle capitali europee e anche di amministrazione «forte». Basti un dato: nel 1994 Berlusconi annunciò il condono ma a Roma gli abusi scesero (in contro tendenza rispetto al paese) da 300 al mese nel 1994 a 50 al mese nel 1997. Sconfitta tutta politica o sconfitta di quello che per anni è stato chiamato «modello Roma»?

Giuseppe Campos Venuti ha lavorato al Prg di Roma dal 1993 al 2003 (Rutelli Veltroni) ma, al momento della approvazione, tolse la firma, pur confermando stima e fiducia nel sindaco. L'esperienza romana è stata dice «un insuccesso», aggiungendo un riformistico «per ora». L'ossessione della lunga attività di urbanista di Campos Venuti è il contrasto alla rendita: «Si deve a un regime immobiliare completamente dominato dalla rendita urbana» se in Italia si è passati da 47 milioni di stanze negli anni 60 ai 111 milioni attuali, senza risolvere il bisogno di abitazioni sociali, «forzando il reddito delle famiglie all'acquisto della casa, spingendo la finanza verso il settore immobiliare».

Il piano regolatore approvato in consiglio comunale nel 2003 mantiene molte delle caratteristiche originali: cura del ferro, salvaguardia ambientale per il 69% del territorio, 18.000 ettari vincolati a verde, dimensione metropolitana, riduzione drastica delle previsioni del 1962 da un milione di stanze a 350.000. Queste ultime, ricorda Campos, sono una quantità residua difficilmente eliminabile, che il comune propose di distribuire in parte nelle nuove centralità (un quarto a terziario e servizi) in parte trasferendole vicino alle stazioni, per favorire la mobilità su ferro. Operazione che riesce con la nuova stazione Tiburtina (vi lavorò Alfio Marchini). Dov'è, allora, la sconfitta? Nella posizione, scrive l’urbanista, di Rifondazione comunista, alleata del centro sinistra al Campidoglio e alla Regione. Saltò a livello nazionale e regionale la proposta di una nuova legge urbanistica che affidava al Prg una funzione programmatica, condensando quella prescrittiva in 5 anni.

Rifondazione resta legata allo strumento dell'esproprio che si fa, ormai, a prezzi di mercato, impossibili per le vuote casse delle amministrazioni comunali. Non piace al Prc nemmeno la compensazione perequativa che chiede ai costruttori la quota gratuita di verde e servizi. Un maxi-emendamento che Walter Veltroni concorda, in cambio dell’approvazione del Prg, spinge Campos al gesto di rottura: «Cancellava 40.000 stanze direzionali nelle nuove centralità, eliminava le aree di riserva in prossimità del ferro, riduceva 1700 ettari di acquisizioni compensative gratuite quadruplicando le aree da espropriare a prezzi irraggiungibili». La tesi di Campos Venuti è che lo scontro ideologico dei «massimalisti» è andato a tutto vantaggio della «proprietà fondiaria».

Ancor prima si era consumato un altro scontro, al tempo della giunta Rutelli, l’urbanista e l'assessore all'urbanistica Domenico Cecchini da una parte, l'assessore alla mobilità e vicesindaco Walter Tocci dall’altra. Fu Goffredo Bettini a tagliare il nodo, sostenendo gli urbanisti.

Nel libro scritto da Tocci con Italo Insolera e Daniela Morandi, Avanti c'è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma (Donzelli 2008), c'è un paragrafo che si intitola «modestia rivoluzionaria» mentre Campos preferisce orgogliosamente la definizione di «riformista». Ma Tocci non è un massimalista, da assessore alla mobilità scopre il paradosso romano: «A Roma il problema del traffico non esiste». La Prenestina o la Cassia si bloccano tutte le mattine ma «i flussi non sono impossibili, 1000 auto l'ora». Il traffico è un problema a Londra, con un numero di abitanti 3 o 4 volte superiore, mentre a Roma è «una patologia urbanistica». «Se avessimo gestito in modo diverso l'esodo di 600.000 romani nell’hinterland in cerca di migliori condizioni abitative, non ci sarebbe l'ingorgo delle consolari». Il dissenso di Tocci sul Prg si espresse sulle 20 centralità previste dal Prg, «sono troppe, non possono centralizzare alcunché».

Scrive in un documento del 2001, prima di lasciare il mandato: «Se non si modificano le regole della trasformazione urbanistica, nessuna politica della mobilità può risolvere il problema». Le cubature ereditate dal Prg del 1962, sostiene «andavano concentrate dove sono le stazioni di trasporto, soprattutto quelle interne, per riportare le residenze nella città consolidata». La preoccupazione è verso le periferie fuori del Gra, la parte più sofferente della città, che non vota più a sinistra. Walter Tocci pubblica un biglietto di Insolera del 1995, che suona autocritica per l’assessore alla mobilità: «Bisognava rilanciare il tram sulla Prenestina, razionalizzare Centocelle, attaccarci la Togliatti: lì c'è l'utenza, lì è facile, lì ci sono i voti ... La tua scelta è stata opposta: buona fortuna!».

Postilla

Campos Venuti trascura un elemento importante della recente storia, urbanistica di Roma che è ben documentata nelle pagine di eddyburg (vedi in calce). Ciò che sta alla radice della critica al prg Rutelli-Veltroni, il cui padre è stato Campos, è la critica della scelta nefasta di quel piano di considerare diritti acquisiti, quindi non eliminabili se non pagando pesanti indennizzi, le previsioni edificatorie del piano precedentemente vigente. Campos coniò per l’occasione una espressione, all’apparenza indiscutibile, che voleva significare appunto la tesi dell’irreversibilità delle destinazioni urbanistiche: l’espressione “diritti edificatori”, allora de tutto assente nello jure italiano.

Fu grazie all’alibi fornito da quell’espressione che il piano non solo consolidò le aspettative di edificabilità su vastissime porzioni dell’Agro romano ma le ampliò, portando nel suo complesso la quantità di edificazione consentita dal piano ai 70 milioni metri cubi spalmati su 15mila ettari. Quell’errore (tale voglio considerarlo) non fu solo un gigantesco regalo alla rendita immobiliare romana, ma un contributo che fu colto in ogni parte d’Italia da amministrazioni locali incompetenti o disoneste, abbacinate dal mito di una “crescita infinita” delle aree urbanizzate come “motore” dello sviluppo” e giustificarono la loro remissività nei confronti della speculazione come un olocausto che era obbligatorio sacrificare al magico totem dei “diritti edificatori”.

Sull’argomento vedi su eddyburg i numerosi testi raccolti nella cartella Roma , e in particolare il saggio di Vezio De Lucia su Meridiana , la relazione di Paolo Berdini al convegno polis (2002) e il suo articolo per eddyburg (2006) , la nota di Edoardo Salzano sui diritti edificatori e il parere di Vincenzo Cerulli Irelli

Un modello socio-territoriale che riproduce almeno alcuni aspetti del movimento Transition Town: folklore a parte, ha senso? Magari si. La Repubblica, 18 marzo 2013 (f.b.)

SUCCISO(Reggio Emilia) - C’era l’affettatrice rossa, la mitica Berkel. C’erano le tavole di cioccolato da tagliare con il coltello, le caramelle, l’olio, il vino, la farina bianca e quella gialla. Una volta alla settimana arrivava la frutta. Ma nel 1990 Bruno Pietri chiuse la sua bottega, perché non poteva stare dieci ore dietro il bancone per servire tre o quattro clienti al giorno. Figli e nipoti che venivano a trovare i genitori portavano su le provviste comprate all’Iper di Reggio, che costavano la metà. A fianco c’era il bar di Domenico Bragazzi — anche lui sugli ottant’anni — con il biliardo in mezzo alla sala. Quattro tavolini, con i vecchi che facevano venire sera con un caffè al mattino e un bicchiere di vino al pomeriggio. Chiusero assieme, la bottega e il bar. Non c’era altro, a Succiso, 980 metri sul livello del mare, 60 abitanti d’inverno e 1.000 d’estate

E allora i ragazzi (di allora) e gli adulti si trovarono alla Pro loco e decisero di reagire. «Mettiamoci tutti assieme, in una cooperativa. Qui l’iniziativa privata non regge più. Se vogliamo trovare un caffè, il pane fresco e soprattutto un posto dove trovarci assieme, dobbiamo costruircelo da soli».
Dario Torri, presidente della coop Valle dei Cavalieri, nel 1990 aveva 27 anni. «Quelli di città — racconta — hanno tutto sotto casa e non possono capire. Un paese dove al mattino non senti il profumo del pane è un paese che non esiste. Il primo giorno di neve guardi fuori dalla finestra e dici: che bello. Ma se non hai un bar dove andare, per trovare gli amici e fare una partita e due chiacchiere, dopo tre giorni rischi di impazzire». Allora non sapevano, quelli della Pro loco, di avere inventato «la cooperativa di paese», o «cooperativa di comunità», come vengono chiamate adesso queste realtà. «Forse somigliamo — dice Dario Torri — ai kibbutz, perché anche qui l’associazione è volontaria e la proprietà è comune. Certamente, dopo più di vent’anni, possiamo dire di avere fatto una cosa importante: abbiamo salvato il paese».

Trentatré soci, sette dipendenti fissi e altri stagionali. «Stipendi sui 1.000 euro al mese, che sono più alti di quelli di città, perché non hai l’affitto da pagare. I soci invece sono tutti volontari. La nostra è stata una scoperta semplice: in un paese spopolato, un’attività singola non può reggere. Ci vuole un legame fra tutte le iniziative. Noi siamo partiti dall’ex scuola elementare, che era stata chiusa perché aveva solo 8 bambini. Qui abbiamo costruito la bottega di alimentari, il grande bar, una sala convegni che in inverno diventa la piazza del paese, un agriturismo con 20 posti letto e un ristorante. Ma abbiamo capito che, oltre alle cose indispensabili bisogna offrire anche le eccellenze. E così ci siamo messi a produrre il pecorino e la ricotta dell’Appennino reggiano. Sessanta
quintali all’anno, venduti in bottega o serviti al ristorante. E abbiamo costruito anche la “scuola di montagna”, per insegnare ai giovani che i monti non sono solo piste e skilift ma anche boschi, alpeggi, rifugi e camminate con le ciaspole alla ricerca di pernici e caprioli». Il fatturato della Valle dei Cavalieri, che fa parte di Legacoop, è di 700.000 euro all’anno.

Nel paese che doveva morire è difficile oggi trovare momenti di pausa. Albaro al mattino porta i bambini a scuola nel capoluogo (Ramiseto, a 20 chilometri), col pulmino della cooperativa. Otto bimbi in tutto, dalla materna alle medie. Poi passa in farmacia a prendere le medicine ordinate dal medico e fa la spesa per la bottega. Al pomeriggio prepara il pecorino, al sabato sera fa il pizzaiolo al ristorante. Giovanni cura i pascoli e le 243 pecore di razza sarda. Emiliano è il cuoco del ristorante, Maria tiene il negozio, Piera fa la cameriera, Fabio e Davide lavorano con la ruspa o l’escavatore o fanno le guide per le escursioni nel parco nazionale dell’Appennino tosco emiliano. «Ma tutto il paese, e non solo i soci — dice il presidente Dario Torri — è pronto a dare una mano. Quando si debbono preparare tortelli e cappelletti per il ristorante o le tante feste di paese che facciamo ogni anno, nonne e zie vengono a lavorare gratis».

È conosciuto anche in Giappone, il paese — cooperativa. L’altro giorno è salito quassù il professor Naonori Tsuda, docente di economia all’università di St. Andrew’s di Osaka, che studia le “cooperative di comunità” in tutto il mondo. «Ci ha raccontato che un’iniziativa come la nostra esiste in Australia. Ci ha detto che, come gli australiani, dovremmo chiedere la gestione di un piccolo ufficio postale, che da noi eviterebbe un viaggio di 20 chilometri per ritirare la pensione». Altre cooperative di paese sono nate nel reggiano (“I briganti di Cerreto”) e in altri borghi italiani a rischio estinzione. Tante sono case chiuse e i camini spenti anche nelle altre frazioni di Ramiseto. «A Fornolo, Poviglio e Storlo i bar e le botteghe hanno chiuso e i paesi sono andati in malora. E questo sta succedendo in migliaia di borghi italiani, soprattutto quelli degli Appennini. A Succiso invece non c’è una casa in vendita e al ristorante prepariamo diecimila pasti all’anno. Non abbiamo niente da insegnare. Solo un consiglio: se il bar abbassa la serranda, se il forno resta spento, reagite subito».

Corriere della Sera, 18 marzo 2013 (f.b.)

Ottanta mini isole per i rifiuti, shopper biodegradabili e totem informativi con aneddoti e curiosità in latino. Saranno installate nell'area degli Scavi archeologici di Pompei e nel Parco nazionale del Vesuvio. Gli slogan, multilingue, sono del tipo: «Hospitum discrimina, barbarorum incuria», «La differenziata è dell'ospite, l'indifferenziata del barbaro», «Don't Be a Barbarian Civilize Guests Recycle». Per il ministro dell'Ambiente Corrado Clini «avviare la raccolta differenziata negli Scavi di Pompei significa rilanciare l'immagine della Campania nel mondo». Superfluo dire quanto sia importante la raccolta differenziata: e ancor più superfluo insistere sull'importanza che essa dovrebbe assumere in luoghi come il sito archeologico di Pompei, frequentati da ben due milioni e mezzo di visitatori all'anno.

Non può essere che positiva, dunque, la prima reazione all'iniziativa del Conai di realizzare un progetto di potenziamento del riciclo che coinvolge, accanto al sito archeologico, il Parco nazionale del Vesuvio con i suoi ulteriori 500.000 visitatori. Un progetto articolato e complesso, che prevede la costituzione di ottanta mini isole per i rifiuti, shopper biodegradabili, buste «compostabili» per contenere i propri rifiuti da deporre, al termine della visita, in appositi contenitori... Ma il problema è che questo non è tutto. Il problema sta, come spesso accade, nella «comunicazione», vale a dire negli incentivi che dovrebbero invogliare i visitatori a rispettare le regole: per cominciare, lo slogan della campagna. Ahimè in latino: hospitum discrimina, barbarorum incuria (la differenziata è dell'ospite, l'indifferenziata del barbaro).

Inizia qui, con questo dotto monito, quello che a mio giudizio rischia di essere il potenziamento di una tendenza già fin troppo visibile a Pompei, vale a dire la «Disneylandizzazione». Alla quale, temo fortemente, contribuiranno non poco i totem installati lungo gli scavi e il parco, con messaggi a loro volta intesi a invogliare alla differenziata, rappresentati da aforismi latini famosi: ignorantia legis non excusat, ad esempio (l'ignoranza della legge non scusa), oppure carpe diem (cogli l'attimo). Brevissima parentesi: come interpreterà questo invito il turista? Come la concessione a gettare i rifiuti nel primo posto che gli capita a tiro?

Ma torniamo all'effetto Disneyland: Pompei è ormai piena di cartelli, avvisi, superfetazioni di ogni genere che la privano di quella che, come tutti sanno, è la sua unicità: solo Pompei consente al visitatore un viaggio nel tempo, un sogno, un momento di astrazione della realtà... Pompei è una città antica vera, non una falsa città antica, come la moda delle inserzioni, dei totem, delle scritte (peggio ancora se in latino maccheronico) tendono a trasformarla. Per non parlare di una seconda, non meno grave causa di sofferenza: pensare — come è inevitabile fare — alla differenza tra i costi di simili operazioni e la mancanza di fondi destinati alla manutenzione del sito.

La presidente della sezione veneziana di Italia nostra invia anche a eddyburg, questo scritto, esemplare per la sostanza della denuncia e la correttezza della questione posta all'Unesco: da che parte state a Venezia?

Esattamente duecento anni dopo la nascita di Goldoni, Georg Simmel scriveva: «Tutti a Venezia camminano come su un palcoscenico: durante le loro occupazioni inconcludenti, o le loro vuote fantasticherie, sorgono improvvisamente da un angolo della strada e spariscono subito in un altro, e hanno qualcosa degli attori che non sono nulla né a destra né a sinistra della scena; il gioco non ha luogo se non sul davanti della scena ed è senza causa nella realtà anteriore, senza conseguenze nella realtà ulteriore»[1].

Simmel non amava Venezia, e lo si sente anche da questa breve citazione. Egli comunque aveva colto questa caratteristica teatrale della quotidianità veneziana, per lui grottesca, per chi apprezza il vivere qui, piacevole e coinvolgente; Venezia, osservatorio antropologico perenne: come dice Zanzotto, «fantasma puro, dell’intersezione, dell’intercolloquio di genti tempi e spazi»[2].

Altri cento anni, cento cinque per la precisione. Una frase colta fra turisti in piazza S. Marco diventa titolo di un fortunato piccolo libro di Enrico Tantucci: ‘Papà, a che ora chiude Venezia?’ [3]. La quinta reale in cui i veneziani si muovevano e interagivano fra loro, apparendo e sparendo ai lati dei campi e incontrandosi, diventa quinta di cartapesta, in cui non c’è più nulla da osservare, perché tutto è inautentico. Da teatro per noi stessi siamo divenuti avan spettacolo per altri, da maestoso palcoscenico della vita (veneziana) a fondale da consumarsi in pochi ore perché forse, di sera, Venezia chiude. Sono le prove generali per una chiusura definitiva. Per il crepuscolo della città, che è iniziato da tanto tempo.

Negli ultimi 60 anni Venezia ha perso due terzi di abitanti. Nel 2012 se ne sono andati 722 di veneziani, 92 in più dell’anno precedente. Di questo passo alla fine del secolo la città sparirà. Stop, nessun residente; solo comparse o turisti che come durante il carnevale vengono a vedersi l’un con l’altro.

E se spariscono gli abitanti sappiamo bene cosa aumenta. Stime ufficiali, ma non aggiornate, parlano di 22 milioni di turisti. Ma il nostro vicepresidente Paolo Lanapoppi, confrontando sinergicamente dati aggiornati ma parziali, ha concluso, calcolando per difetto, che i turisti sono 30 milioni[4]. Tirando le somme, dunque, si può dire che a ogni veneziano spettano 508 turisti. E il rapporto è inversamente proporzionale: aumentano i turisti, calano i veneziani. C’è un nesso inconfutabile. La prima cosa da fare sarebbe tutelare la residenza, con norme e incentivi anche fiscali ed economici.

La giunta Cacciari consentì la variazione di destinazione d’uso degli immobili - prima non permessa -, da residenziale a terziario e turistico. E per la residenzialità fu un duro colpo. Ma è di questi giorni la notizia che la Regione si appresta a discutere e ad approvare una nuova legge sul turismo di cui un articolo “prevede che la locazione di appartamenti a fini turistici non venga più considerata attività ricettiva”. Di fatto, una totale liberalizzazione.

Le ultime amministrazioni (con Provincia e Regione) hanno lasciato che il turismo costituisse la principale risorsa, ma questa monoeconomia ha portato la città allo stato in cui è, ha disgregato il tessuto sociale, espellendo i residenti. «Il turismo impedisce alla città di scegliere» ha detto con lucidità l’assessore alle attività produttive, mentre al contrario si deve avere «il coraggio di privilegiare le attività più deboli per ricreare la complessità della città»[5]. E invece si punta solo sul terziario o sul porto. Terziario e porto - sovradimensionati - sono la rovina di Venezia. Nel cahier de doléances su Venezia, al primo è la città tradita, degli abitanti che la abbandonano perché evidentemente non è più considerata una polis, quel modello di perfezione urbana e sociale che è stata la sua fortuna.

Al secondo posto, il luogo che ha fatto nascere Venezia: la Laguna. Complesso ecosistema non artificiale, ma storicizzato, «ecomosaico»[6], che non costituisce il limite fisico, l’opposto della città, bensì una parte della stessa città e che con essa rappresenta un «sistema unitario di funzioni»[7]. Non a caso l’Unesco nel 1987 dichiarò Venezia patrimonio di tutta l’umanità assieme e inscindibilimente alla sua Laguna. Ma cos’ha di tanto particolare l’ecosistema Laguna?

Venendo in treno o in automobile dal ponte translagunare si vede un bacino salmastro che abbraccia Venezia. Ma chi giunge in aereo e sorvola alcune aree intatte, percepisce una distesa, mobile alla luce, di terre non terre e acque non acque; terre poco elevate sul mare e canali poco profondi che le innervano, creando un arabesco di luci e di ombre. Dalle tre bocche di porto prendono avvio i tre canali portuali che addentrandosi in Laguna, si diramano in venature di sempre minor sezione e profondità. Come c’è una varietà di profondità dei canali così c’è una varietà di emergenze di terre, descritte da un lessico peculiare: paludi, velme, barene.

E mi viene in mente ancora il poeta Zanzotto, che nel filò per il Casanova di Fellini scrive: «o luna dei busi fondi (dei baratri fondi) ... le gran barine di ti se inlaga (le grandi barene di te si allagano)»[8], si allagano per effetto delle maree determinate dalla luna, ma anche si allagano del chiarore lunare. Le gran barine ...

Ma dove sono le grandi barene di Casanova, che Zanzotto ancora vagheggia? Nel XVII secolo costituivano circa 255 km2 del territorio lagunare; nel 1970 si erano ridotte a 64 km2. Negli ultimi 60 anni si sono dimezzate e se non si interverrà, a metà del nostro secolo spariranno. E la Laguna, perse le proprie caratteristiche funzionali, non sarà più una laguna, ma una indifferenziata distesa di acque sempre più profonde, una baia marina[9].

Cosa distrugge il tessuto morfologico lagunare? L’officiosità idrodinamica - lo scambio tra mare e Laguna - drammaticamente aumentata per gli interventi realizzati nell’ultimo mezzo secolo. Fra questi, la costruzione sulle tre bocche di porto di dighe foranee e l’escavo dei grandi canali industriali (specialmente il Canale Malamocco-Marghera o dei Petroli, a collegamento del porto di Malamocco con l’area produttiva di Marghera). Ciò ha innescato processi erosivi che distruggono le barene e hanno fatto sprofondare mediamente di un metro i fondali in Laguna centrale.

Per tutelare le forme originarie della Laguna è necessario contrastare i fenomeni erosivi. Si potrebbe ancora farlo, se ci fosse la volontà politica di operare in tal senso. La laguna è un bene non solo ambientale, ma culturale, a proposito dei discorsi che sono stati fatti in questa sede. I nuovi interventi che si profilano all’orizzonte mirano invece all’espansione del porto, con nuovi scali anche in aree ambientalmente pregevoli, con navi sempre più grandi, e con inevitabile approfondimento dei canali industriali.

È notizia dei giorni scorsi che la Commissione di Salvaguardia ha miracolosamente bocciato un progetto di raddoppio in larghezza del Canale dei petroli, portandone la profondità a 12 m[10]. Anche un bambino sa che il Canale dei petroli è stato uno dei più gravi misfatti compiuti in Laguna. Ciò che potrebbe sorprendere è che il progetto è stato redatto dal Magistrato alle Acque e approvato dalla Soprintendenza ai beni ambientali e architettonici.

Questo è lo stato delle cose a Venezia. Troppi interessi e poco coraggio. Per questo ci era venuta l’idea di rivolgerci all’Unesco. In due anni abbiamo spedito tre lettere, per chiedere che il sito venisse iscritto nelle Danger List. Abbiamo ottenuto solo una risposta formale. Nel contempo, l’Unesco ha elaborato il Piano di gestione del sito, coinvolgendo molti portatori di interessi, ma non noi. Forse si pensava che non potessimo collaborare, per alcune divergenze di fondo: tale piano ad esempio, ritiene il progetto Mose risolutore delle acque alte, quando le sue ben note criticità sono ormai pubblicate nero su bianco (rimando alla consulenza della ditta Principia[11], e alla relazione della Corte dei Conti[12]). Sempre il piano di gestione Unesco non ha una parola di riserva sul piano morfologico della Laguna, redatto dal Magistrato alle acque, che ha portato ad esempio alla realizzazione di finte barene, vere isole artificiali.

Noi però continuiamo a dichiararci disponibili, pronti al confronto, anche vivace, in attesa di una presa di posizione coraggiosa dell’Unesco, che nel 2009 ha pur cancellato Dresda dalla lista dei siti, per una grande opera (una!), e di ricaduta comunque inferiore rispetto agli interventi che ci troviamo ad affrontare a Venezia. Avremmo bisogno di aiuto concreto, e lo chiediamo ancora all’Unesco, e ora anche a Europa Nostra: è nostra intenzione portare il prossimo anno la candidatura della Laguna di Venezia come sito in pericolo di Europa Nostra.

[1] G. Simmel, Venedig, http://socio.ch/sim/verschiedenes/1907/venedig.htm.

[2] A. Zanzotto, Venezia, forse, in F. Roiter, Essere Venezia, Udine, Magnus, [1977].

[3] E. Tantucci, A che ora chiude Venezia?, Venezia, Corte del Fontego editore, 2011.

[4] P. Lanapoppi, Caro Turista, Venezia, Corte del Fontego editore, 2011.

[5] D. Ghio, Il turismo impedisce a Venezia di scegliere, «Il Gazzettino», 16 ott. 2011.

[6] La valutazione di impatto ambientale relativa agli Interventi alle bocche lagunari per la regolazione dei flussi di marea. Studio di impatto ambientale del progetto di massima, http://www2.comune.venezia.it/mose-doc-prg/.

[7] L. Bonometto, Il crepuscolo della laguna, in La laguna di Venezia. Ambiente, naturalità, uomo, Portogruaro, Nuovadimensione, 2007, p. 181.

[8] A. Zanzotto, Recitativo veneziano, in Filò. Per il Casanova di Fellini, Venezia, Edizione del Ruzante, [1976].

[9] cfr. L. D’Alpaos, Fatti e misfatti di idraulica lagunare. La laguna di Venezia dalla diversione dei fiumi alle nuove opere alle bocche di porto, Venezia 2010.

[10] E. Tantucci, Canale dei Petroli. La salvaguardia dà lo stop all’escavo, «la Nuova Venezia», 1 marzo 2013.

[11] http://www2.comune.venezia.it/mose-doc-prg/ [12] Delibera n. 2_2009 relazione - Corte dei Conti.

Dalle stelle alle stalle: come Aleppo e Timbuctu Anche Venezia è un bene culturale a rischio. La colpa non è della guerra ma la devastazione mercantilee l’inondazione del turismo mordi e fuggi e le Grandi opere. L’Unesco ne prenda atto, e inserisca la città nella "lista nera". La Nuova Venezia, 16 marzo 2013

«Venezia e la sua laguna sono un sito in pericolo. Intendiamo chiedere all’Unesco di prendere in considerazione il suo inserimento nella black list». Lidia Fersuoch, gentile ma grintosa presidente della sezione veneziana di Italia Nostra, lancia il sasso nello stagno. Davanti a lei, un po’ imbarazzati, i rappresentanti dell’Unesco europea, con il vicepresidente Francesco Bandarin, venuti a palazzo Zorzi, sede veneziana dell’associazione, per discutere di beni culturali e della loro tutela. Fu proprio l’Unesco, nel 1987, a inserire Venezia e la laguna tra i siti di interesse mondiale da tutelare. Ma adesso, denuncia Italia Nostra, la situazione è all’emergenza. Cambi d’uso, grandi opere che hanno stravolto la laguna, un turismo asfissiante che ha cambiato i connotati della città storica. «In mezzo secolo Venezia ha perso i due terzi dei suoi abitanti», attacca Fersuoch, « quest’anno se ne sono andati in 722, siamo a 78 mila. Così a fine secolo Venezia non esisterà più, ridotta a quinta per turisti e maschere». Così la laguna. «Negli anni Cinquanta le barene erano 295 metri quadrati, nel 1970 64 mila, oggi la metà.

Occorre intervenire per evitare che la laguna diventi una baia con acque profonde». Al convegno di ieri ha partecipato anche Pl1:hilippe Daverio, critico d’arte che ha ricordato l’importanza dell’arte anche dal punto di vista economico. Comitati per la salvaguardia, associazioni, professionisti hanno tracciato il quadro delle emergenze e delle possibili soluzioni. «Il moto ondoso minaccia la città», ha detto Francesco Calzolaio, architetto autore di un progetto di rilancio dei siti industriali a cominciare dall’Arsenale. Tavola rotonda con al centro l’importanza del turismo culturale. Si festeggiano i cinquant’anni della fondazione di Europa Nostra, associazione europea per la tutela dei beni culturali. «Che in Europa», è stato ricordato ieri, «danno lavoro a 8 milioni e mezzo di persone, garantendo il 3,3 per cento del Pil europeo, il rpodotto interno lordo». E il 40 per cento del turismo europeo, si è detto al convegno, è costitutio da turismo culturale. Un settore da potenziar. «Faremo appello ai governi europei», ha detto il presidente di Europa Nostra Denis de Kergorlay, «affinchè si facciano carico di nuove inizitive. per lanciare un vero New Deal indirizzato alla tutela attiva dell’immenso patrimonio artistico e ambientale italiano. Linea approvata anche dal presidente nazionale di Italia Nostra Marco Parini.

Fra due giorni potrebbe essere dato il via definitivo a una nuova distruttivaGrande opera, combattuta da tutti i comitati che ne conoscono il percorso. Ringraziamo l’autore del reportage diAltraEconomia, che lo ripropone oggi (16 marzo 2013) all’attenzione dei lettori di eddyburg
Premessa

Il percorso accidentato della “nuova Autostrada del Sole”, la Orte-Mestre, potrebbe arrivare al Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe), che il prossimo 18 marzo dovrebbe approvare il progetto preliminare del percorso, 400 chilometri attraverso cinque regioni.
L'articolo fa riferimento a un intervento da 8,7 miliardi, mentre il ministro Corrado Passare, in Parlamento, aveva parlato di 10: quel che è certo, è che il piano economico-finanziario dell'opera è -al momento- sconosciuto, che i flussi di traffico attesi sono modesti e che lungo la tratta verrebbero compromessi terreni agricoli di pregio ed aree protette. Il reportage “Il casello incantato” è apparso sul numero di novembre 2012 di “Altreconomia”, mensile d'informazione indipendente. All'articolo di Luca Martinelli, che riproponiamo, si accompagnano un video reportage (guardalo al link altreconomia.it/video/ortemestre) e un reportage fotografico geo-localizzato lungo la Orta-Mestre (guardalo al link www.altreconomia.it/orme). (l.m.)

“Gli interessi di pochi sulla pelle di molti. No Romea commerciale”. Lo striscione è appeso lungo il Naviglio del Brenta. Dietro ci sono campi coltivati. A poche centinaia di metri il campanile e il municipio di Mira Taglio. Accanto una delle Ville venete che attirano i turisti sulla Riviera del Brenta. “Dov’è appeso passerà la nuova autostrada” dice Rebecca Rovoletto. È la portavoce di “Opzione Zero”, che riunisce quelli che non vogliono la costruzione della lunghissima arteria tra Mestre, in provincia di Venezia, e Orte, nel Lazio. Quasi 400 chilometri attraverso cinque regioni. La nuova Autostrada del Sole. Per qualcuno, l’A2. Tra gli sponsor, anche il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani, presidente dell’Associazione Nuova Romea (un altro dei nomi con cui è conosciuta l’autostrada). Che è un “intervento prioritario”, stando all’Allegato infrastrutture 2013-2015, un documento dell’aprile 2012 del ministero dell’Economia. Cantieri aperti entro il prossimo anno, ha assicurato intorno al 10 settembre il viceministro per le Infrastrutture Mario Ciaccia: “Sono fiducioso che al prossimo Cipe porteremo a casa la Orte-Mestre, il cui valore si attesta a 10 miliardi di euro”. Oggi è il 18 ottobre, e la promessa riunione del Cipe (sigla che indica il Comitato interministeriale per la programmazione economica) non c’è stata. Avrebbe dovuto tenersi entro fine settembre.

Così, in attesa di informazioni realistiche dal ministero (che è stato contattato e poi più volte sollecitato, ma non ha mai risposto), “Altreconomia” ha percorso tutta la Orte-Mestre. Da Nord a Sud, e a passo lento. Tre giorni per osservare, e documentare, il territorio destinato ad essere stravolto. In Veneto e in Emilia-Romagna, tra acqua e terra. La laguna di Venezia, canali e fiumi -il Brenta e il Bacchiglione, l’Adige, il Po e infine il Lamone-. Le valli di Comacchio e del Mezzano. Terra di bonifica, campi arati, poche case sparse e qualche cittadina. Fino a Ravenna l’autostrada è tutta nuova. Dalla Romagna, invece, segue l’E45, la Ss 3 bis. Che dopo Cesena sale sull’Appennino, fino a sfiorare il Parco nazionale delle Foreste casentinesi, e scendere in Toscana e in Umbria.
Paesaggi che quando (e se) l’autostrada si farà, percorreremo in poco meno di 4 ore. Oggi però Mira (Ve), Adria (Ro), Cavarzere (Ve), Comacchio (Fe), Ravenna, Cesena, Perugia non sono caselli d’uscita. Ma nomi, quelli dei “nodi” della rete Stop Or_Me (www.stoporme.org), e numeri di telefono.

Il primo che componiamo è quello di Mattia Donadel, di “Opzione Zero” (www.opzionezero.org). Seduto in un bar di Mira, lungo il Naviglio, racconta: “Siamo nati nel 2004, come Rete NO-AR (No Autostrada Romea, ndr). Volevano realizzare un’autostrada che unisse Mestre e Ravenna”. Ci spostiamo davanti allo striscione che dice no alla Romea Commerciale, che chiamano così perché corre parallela alla Ss 306 “Romea”. “È l’unica area libera rimasta tra Mira e Dolo. Un corridoio verde. Per questo la nuova autostrada passerà di qui. Secondo il progetto preliminare, il Naviglio del Brenta dovrebbe essere sotto-attraversato. La galleria inizierà a oltre un chilometro dall’acqua” spiega Mattia. Oltre Mira e i campi, la Orte-Mestre “incrocerebbe” il Passante di Mestre. “Ma i dati di traffico non giustificano l’esigenza di una nuova autostrada”, spiega Mattia, rifacendosi a quelli elaborati nel 2010 da Polinomia per conto del Wwf: “18mila passaggi al giorno, in Veneto. Un traffico locale, che intasa la strada durante i fine settimana estivi, per andare a Sottomarina, verso le spiagge”. Ci sono i camion, è vero ma potrebbero essere dirottati sulla vicina A13: “Se prendi un punto qualsiasi lungo la Nuova Romea e misuri la distanza dalla Padova-Bologna la troverai che corre tra i 20 e i 30 chilometri” conclude Mattia.

In questa storia però i numeri non contano. Anche perché la “legge obiettivo” consente alla Orte-Mestre una corsia preferenziale. Per questo vale la pena partire da altro: dalla terra. “Mira è un ‘nodo’ strategico tra Padova e Venezia -riprende il filo del discorso Rebecca Rovoletto-: con l’attraversamento della Romea Commerciale, che incrocia la cosiddetta ‘Camionabile’, che dovrebbe correre lungo l’idrovia dall’interporto di Padova a Venezia, nascono progetti giganteschi come Veneto City a Dolo, che prevede quasi 2 milioni di metri cubi di nuove costruzioni e interessa tutta la Riviera del Brenta, e un polo logistico da 460 ettari. Insediamenti che nascono nelle aree prossime alla nuova viabilità”. L’equazione ritorna: strada più svincolo uguale cemento. “Il caso del polo logistico di Dogaletto è esemplare -riprende Mattia-: si tratta di 460 ettari, all’incrocio tra Romea Commerciale e Camionabile”. Un’immensa area agricola, tra l’altro vincolata nel Piano di area lagunare (Pal). “L’intervento sarebbe funzionale ad un altro mega-progetto, quello di realizzare un porto off shore per Venezia” spiega Mattia. Per “denunciare” il progetto Opzione Zero, insieme a Mira 2030, lista di cittadinanza attiva, ha promosso l’iniziativa “pane logistico”: “Un progetto di filiera corta. Coltiviamo il grano su un terreno agricolo attiguo a quello che verrebbe trasformato. Abbiamo calcolato che con 200-260 ettari di terreno agricolo, nella zona lagunare, riusciremmo a dare pane a tutti i cittadini di Mira (circa 40mila, ndr), per un anno”.
A Sud di Mira c’è Campagna Lupia. È attraversato dalla Romea, e ci passerebbe anche la nuova autostrada. Chiamiamo Paolo Perlasca, direttore dell’Oasi del Wwf di Valle Averto: “Questa è l’unica oasi protetta dell’intera laguna. Sito d’interesse comunitario e zona di protezione speciale, perché ci sono migliaia di esemplari e specie protette. Un’arteria autostradale potrebbe aver un impatto sulla biodiversità e sull’inquinamento”. Dall’alto di una torretta, muniti di cannocchiale, ci mostre le tre “valli”. Sullo sfondo Venezia e le ciminiere di Porto Marghera. Se volgessimo lo sguardo dall’altra parte, vedremmo passere i camion: “Se per la Orte-Mestre venisse scelto un tracciato contiguo alla Romea, l’autostrada entrerebbe dentro la Riserva, mangiandosi una porzione di territorio. Per questo il Wwf preferisce un’altra opzione, che passa per un miglioramento della viabilità esistente, vincolando il traffico merci lungo l’autostrada A13”. Per non perdere 500 ettari classificati come Zona umida d’importanza internazionale, protetta nell’ambito della convenzione Ramsar.
Fuori dall’Oasi ci sono le frecce. Quella verso sinistra dice “Venezia 31”. L’altra indica “Ravenna 109”. Prima di Chioggia, però, abbandoniamo la Ss Romea diretti a Cavarzere. Seguiamo lo stesso percorso della Romea Commerciale. Che corre in mezzo ai campi. Fino a Cavarzere, estremo lembo meridionale della provincia di Venezia. L’architetto Carlo Costantini, tra gli animatori di AltroVe-Rete dei Comitati per un altro Veneto, ci dà appuntamento in piazza. A 50 metri dell’argine del fiume Adige. “Questo è un territorio marginale. Dov’è ancora forte il mito dell’autostrada che porta lavoro.
Per conto della Provincia di Venezia, nell’ambito del Piano territoriale di coordinamento provinciale, ho svolto uno studio sul collegamento tra la parte Sud del territorio e Ferrara e Rovigo. Non abbiamo bisogno di quest’autostrada”. Che passa troppo vicino alle case, a meno di un chilometro in linea d’aria. E che -spiega Costantini- “verrebbe costruita tutta in rilevato. Hai visto quanti corsi d’acqua più o meno grandi? Siamo in una zona mediamente sotto il livello del mare, il cui equilibrio idraulico dipende dalle pompe. L’autostrada sarebbe ‘una frattura’, e lo studio d’impatto ambientale non ne tiene conto”. Al bar di Cavarzere ci raggiunge Don Giuseppe Mazzocco. Regge la parrocchia “Cristo divin lavoratore” di Adria, a una decina di chilometri. Don Giuseppe è parte della Rete dei comitati per l’ambiente del Polesine. Ci spostiamo nei pressi di Adria, su un cavalcavia. “Questo raccordo a quattro corsie è stato costruito dieci anni fa. Adesso arriva un nuovo progetto, che dovrebbe correre in parallelo e che raddoppierà l’impatto ambientale. Qui sotto -racconta Don Giuseppe- passa il Canalbianco, il canale navigabile che da Mantova raggiunge il mare”. E che sembra suggerire anche un’alternativa per spostare le merci. Peccato la vedano solo i comitati: Adria è il punto in cui la Orte-Mestre dovrebbe incrociare la Nogara-Mare, un’autostrada da due miliardi di euro che dovrebbe tagliare in diagonale il Polesine, da Legnago in provincia di Verona. E a Ravenna il vicesindaco Giannantonio Mingozzi giustifica l’autostrada perché collegherebbe “il porto di Venezia a quello di Ravenna. E non parlerei di Orte-Mestre, ma di Cesena-Ravenna-Ferrara: sarebbe già una conquista, un’alternativa all’attuale Romea”. È la logica dei “lotti funzionali”, partire per partire: “Una tratta che il Cipe non disdegna -spiega Mingozzi-. Se non hai investimenti pubblici un’autostrada del genere te la sogni, anche se si mettono insieme tutti i privati che han fatto autostrade in Italia”. E Mingozzi fa il nome di Vito Bonsignore, eurodeputato Pdl. Mingozzi lo ha incontrato qualche volta a Ravenna, Bonsignore, che è azionista di Management Engineering Consulting (Mec) spa, una delle società che figurano nel gruppo dei promotori della Orte-Mestre. Tra le altre c’è anche Banca Carige, di cui Bonsignore controlla l’1,01% attraverso Gefip Holding s.a. che, si legge sul sito della Consob, è “soggetta al controllo del sig. Vito Bonsignore indirettamente, attraverso la società Mec spa”.
“Il progetto è ormai in dirittura d’arrivo e a breve, spero nell’arco di un paio di mesi, ci daranno l’ok definitivo -spiegava il presidente di Carige, Giovanni Berneschi, a Il Sole 24 Ore, nel febbraio 2011-. Ottenuto il disco verde, valuteremo come procedere: se costruire direttamente con la nostra partecipata Ili Autostrade o se cedere il progetto a un soggetto interessato che, a quel punto, sarà vincolato a realizzare comunque l’opera”. Dagli uffici dell’Anas, a Roma, fanno sapere che non è proprio così: “Il promotore non è l’aggiudicatario. Sulla base di quella proposta, una volta ottenuto l’ok del Cipe, si farà una gara”. Torniamo in Romagna: a Nord di Ravenna, l’autostrada attraverserà la Valle del Mezzano, “un’area bonificata per dar lavoro alle persone. Cosa giusta o sbagliata, è stata fatta, e questo sito è rimasto un’area molto speciale” racconta Marino Rizzati, di Legambiente Comacchio. È una Zps, zona di protezione speciale. “Il più grande vuoto d’Europa” la definisce Valter Zago, già presidente del Parco del Delta del Po. Un’area, cioè, completamente non antropizzata. “È un’isola dove gli agricoltori possono far crescere alberi da frutto, che poi vengono trapiantati nei campi. Nella Valle del Mezzano non vengono intaccati da certi batteri” riprende Rizzati. Poco importa. La Orte-Mestre passerà giusto in mezzo.

Oltre Cesena, l’autostrada non è tutta nuova. Prende il posto della E55, la superstrada a due corsia per senso di marcia che collega la Romagna all’A1. Succede, però, che l’arteria dovrà essere adeguata. Oggi misura tra i 15 e i 17 metri, e passerà a una larghezza tra i 20 e i 25. Numeri che pesano come il cemento armato dei viadotti su cui poggia arrampicandosi verso la Toscana: “Tra gli sponsor del progetto nel cesenate c’è Davide Trevisani -racconta Davide Fabbri, già consigliere comunale dei Verdi a Cesena e oggi del Forum ‘Salviamo il paesaggio’-, per trent’anni al vertice della Cassa di risparmio di Cesena e della omologa fondazione, che con il Gruppo Trevi realizza gallerie e viadotti”.

Tornati in pianura, il problema principale nel tratto umbro della E55 è la variante di Collestrada, alle porte di Perugia. E non solo perché attraversare l’ennesima area protetta. Basta un nome: “Ikea -racconta Alessandra Paciotto, presidente di Legambiente Umbria- aveva scelto un’area agricola ‘a ridosso’ del tracciato in variante per aprire un nuovo centro commerciale”. Anche in Umbria vince l’equazione asfalto uguale cemento. Per questo è meglio frenare. Restiamo in statale o in superstrada, dove il limite non è ai 130 chilometri all’ora.

«Lo studio di un economista di Ca’ Foscari: portano alla città soltanto l’1,9% del Pil e non il 6% «I benefici in un anno sono 286 milioni, ma la città subisce spese per 313. Senza contare l’erosione». La Nuova Venezia, 16 maggio 2013

Le crociere? Costano alla collettività più di quanto fanno guadagnare. Il Comitato «No Grandi Navi» torna all’attacco. E stavolta produce dati e studi che smentiscono le cifre fornite dall’Autorità portuale e da Venezia Terminal passeggeri sui «benefici» del crocerismo a Venezia. Ieri l’ultimo colpo di scena. In municipio il comitato ha presentato uno studio fresco di stampa prodotto da un economista di Ca’ Foscari, il professor Giuseppe Tattara. Che, dati alla mano, ribalta le convizioni sulla «produzione di ricchezza alla città» generata dalle crociere con navi di grandi dimensioni.

«Il contributo al Pil, il prodotto industriale lordo della città», attacca il portavoce Silvio Testa, «è dell’1,9 per cento e non del 6 per cento come più volte annunciato dal Porto». Sulla base degli stessi utilizzati dall’Autorità portuale, il professore è giunto a conclusioni quasi opposte. Dal punto di vista dei «benefici», le crociere portano ogni anno in città 286 milioni di euro. 180 vengono dalle spese dei croceristi, 5 da quelle dei membri dell’equipaggio, 101 milioni il ricavo stimato di agenzie turistiche, ormeggi, pilotaggio e ricavi che finiscono alla Vtp e all’Autorità portuale. Totale, 286 milioni di euro. Ma secondo gli elaborati del docente di Economia, i costi subiti dalla collettività sono ben più pesanti. 200 milioni di euro per l’inquinamento dell’aria, con cinque specie di inquinanti (diossine, zolfo, metalli pesanti) prodotte dalla combustione e dagli inceneritori dei rifiuti. Cento milioni di euro il costo stimato sul cambiamento climatico, per l’energìa prodotta necessaria a spingere la grande nave. 13 milioni infine i costi per l’inquinamento del mare. Tutto questo, conclude il professore, senza contare i danni ai monumenti – e il fenomeno di corrosione della pietra d’Istria ingenerato dai carburanti ad alto contenuto di zolfo – i danni alla salute, i danni statici agli edifici per l’enorme spostamento d’acqua provocato dal passaggio nei canali di navi che dislocano fino a 130 mila tonnellate. E infine i danni alla morfologìa lagunare.

Qui viene citato l’ingegnere Luigi D’Alpaos, ordinario di Idraulica all’Università di Padova, uno dei massimi esperti sull’argomento. «Più grandi sono le navi», dice D’Alpaos, «maggiore è la perdita dei sedimenti della laguna». Un motivo per cui il professore è contrario all’alternativa proposta dal Porto: far entrare le grandi navi dalla bocca di Malamocco con arrivo in Marittima attraverso il nuovo canale Contorta-Sant’Angelo. «Peggio il rimedio del male», hanno detto i comitati. Che insistono: le grandi navi devono andare fuori della laguna. Dossier, denunce alla Procura, 12 mila firme raccolte e un appello al governo e all’Europa. Ma le navi restano lì.

La stagione turistica è alle porte, e tra un mese in Marittima saranno ormeggiate fino a sette grandi navi contemporaneamente. Le alternative non decollano, in attesa del nuovo governo e del prossimo Comitatone. Così l’ordinanza firmata dai ministri Passera e Clini sulle «zone sensibili» dopo il naufragio della Costa Concordia a Venezia non si applica. La battaglia va avanti da tempo. Contro le ragioni del Comitato «No Grandi Navi, Laguna bene comune» è sorto anche un comitato amici delle crociere, guidato da Massimo bernardo. «le crociere sono una richezza per la città, non si toccano», dicono. Adesso arriva lo studio alternativo. Che prova, secondo i comitati, come anche l’argomento della ricchezza e dei posti di lavoro sia relativo: «Si potrebbe creare lavoro in altri settori, su navi più piccole, con costi ambientali ridotti. E le compagnie da subito devono ridurre le emissioni inquinanti».

Descrizione: http://server-us.imrworldwide.com/cgi-bin/count?url=&rnd=1363422471895&cid=&ref=http%3A//quotidianiespresso.extra.kataweb.it/finegil/nuovavenezia/Edizione_Giornaliera/mappe/NZ_venezia_18.html&sr=sr1440x900:cd24:lgit-IT:jey:cky:tz2:ctna:hpna
Una riflessione condivisibile, salvo le conclusioni forse troppo sbrigativamente “realiste”sui meccanismi di finanziamento dei peggiori impatti ambientali. IlFatto quotidiano, 14 marzo 2013 (f.b.)

Carlo Petrini su diversi giornali da un po’ di tempo mette in luce correttamente il ruolo dellapolitica agricola dell’Unione europea, e la critica pesantemente. Questa politica infatti tutela solo le grandi imprese agricole “industrializzate”, e non quelle marginali ed attente all’ambiente. Inoltre il fiume di sussidi che l’Unione eroga all’agricoltura blocca le esportazioni dei paesi più poveri, a vantaggio degli agricoltori del paesi ricchi. Per l’Italia, si tratta se non sbaglio di circa 6 miliardi all’anno, non noccioline.

Petrini chiede cose giustissime, e su cui fuori d’Italia si insiste da molto tempo, anche perché questi sussidi sono la voce più rilevante delle spese della Ue. Meno male che forse anche in Italia si inizi un dibattito critico su tale politica, dibattito che fino ad ora si è limitato a grandi strilli degli agricoltori e dei media se c’erano rischi di vedere ridurre qualche euro in arrivo per l’Italia (inutile ricordare che son sempre soldi pagati con le nostre tasse, alla fine). Cioè noi finanziamo una delle nostre infinite lobby, che tra l’altro non si è comportata molto bene (molti i casi di truffe, e la vicenda dell’evasione italiana delle quote latte, con multe connesse, è solo una di quelle più note).

Ma immaginiamo che le polemica di Petrini abbia successo: si tratta di spostare i sussidi verso produttori che hanno due ostacoli da superare per essere competitivi: colture in aree marginali (collinose ecc.) e tecniche di coltivazione più costose (pochi fertilizzanti artificiali ecc.). Quindi per stare sul mercato necessitano probabilmente di una quota rilevante dei fondi disponibili, che comunque si spera siano in diminuzione.
Allora i sussidi all’agricoltura “industriale” sarebbero destinati a ridursi molto. Lo scenario che ne risulterebbe è che moltissime grandi aziende (che inquinano e occupano pochissima gente) non riuscirebbero a sopravvivere.

In questo scenario, molto auspicabile, i problemi del territorio italiano sarebbero destinati a cambiare radicalmente. La “scarsità di suolo” diventerebbe un concetto difficilmente difendibile. E l’ipotesi che questi vasti terreni liberi vengano invasi da case, strade e capannoni (tutti rigorosamente deserti) è chiaramente inverosimile.
Si aprono invece possibilità molto piacevoli: non essendo il suolo scarso, chi vorrà potrà farsi case nel verde, senza strilli di aumentare lo “sprawl” urbano sottraendo terreno all’agricoltura (che non ci sarà). Si potranno realizzare vasti parchi naturali, ripopolandoli di animali selvatici. Ma si potranno anche avere più aree attrezzate per lo sport. Certo, tornando al settore di mia competenza, questa nuova ricchezza territoriale sarà difficile raggiungerla in treno o in autobus, ma non in bicicletta o con automobili a basso impatto ambientale.

Però è meglio risvegliarsi dai sogni: credo che la lobby agricola, in Italia come in Europa, rimanga molto forte, e valga poi una regola generale: i sussidi è facilissimo darli (tutti sono contenti, no?), ma è difficilissimo toglierli.

Corriere della Sera Milano, 14 marzo 2013, postilla (f.b.)

La richiesta di un vincolo di tutela sulla via Gluck è già depositato alla Soprintendenza per i Beni culturali e paesaggistici. Ma domenica attraverso il sito www.amicidellamartesana.it viene promossa una petizione popolare che sarà indirizzata al ministro dei Beni culturali. Nei giorni scorsi, intanto, le commissioni Cultura e Urbanistica di Zona 2, decise a far propria la battaglia dell'associazione di quartiere, hanno programmato un sopralluogo in via Gluck, primo passo per uno studio di riqualificazione complessiva dell'area, assediata dal cemento. La proposta al Comune è che l'intero tratto di via, dai civici 11 al 23 e dall'8 al 16, sia inserito nel Pgt tra gli immobili con vincolo di tutela.

Una battaglia che il molleggiato ha dimostrato di gradire. Al 14 della via Gluck egli è nato e cresciuto. Adriano Celentano l'ha scritto in una breve mail indirizzata al presidente del comitato, Pippo Amato, autorizzandolo a «riportare il testo della mia canzone "il ragazzo della via Gluck" nella vostra relazione, a sostegno della richiesta di dimostrare la storicità degli edifici del tratto che coinvolge anche la Via Gluck quali beni culturale e paesaggistici e a testimonianza di un mondo operaio/ industriale/sociale, ormai scomparso». Per la petizione si potrà firmare presso i negozianti che aderiranno alle iniziative tutte le domeniche di svolgimento del Mercatel su la Martesana. La raccolta di firme potrà essere fatta anche online con un modulo che sarà presto pubblicato.

E c'è chi, già, in Zona 2 pensa ad una via Gluck piena di verde, alberi... ma prima di tutto pedonalizzata. Sono novanta metri di strada in tutto. Gli edifici in questo tratto della via Gluck furono costruiti tra la fine dell'800 e i primi del Novecento. Era un borgo di periferia, un agglomerato di case popolari di ringhiera ma cui gli architetti del tempo non fecero mancare ornamenti del primo Liberty, le ringhiere in ferro battuto lavorato, le finestre con i vetri a «cattedrale». «Non hanno caratteristiche monumentali architettoniche di particolare pregio — spiega Pippo Amato — ma sono una testimonianza importante storico-culturale degli insediamenti sorti nelle periferie milanesi in concomitanza con lo sviluppo industriale». La Pirelli cominciò ai primi del Novecento la produzione dei pneumatici per automobili. A Greco, piccolo comune della cinta orientale della metropoli, dalla quale sarebbe stato assorbito nel 1923, la vita costava meno e la via Gluck fu il centro del nucleo abitato dagli operai della Pirelli.

Era un piccolissimo borgo autosufficiente: oggi non ci sono più il panettiere, il macellaio, hanno chiuso l'idraulico e la gelateria. Sono però ancora le stesse «case fuori città...» e «la gente tranquilla che lavorava» cantate da Celentano. E il retrobottega al piano terra, dove Adriano Celentano visse con la famiglia (mamma Giuditta era sartina e aveva il negozio affacciato sulla strada), poi deposito di pesce congelato e dopo ancora panetteria, è tornato all'antica funzione abitativa. L'iniziativa milanese ha dei precedenti: in Inghilterra, la casa dove abitava Paul McCartney a Liverpool in Forthlin Road 20, è stata inserita da tempo tra gli edifici storici da tutelare, a cura del National Trust.

Postilla

“Castelfranco Veneto, 14 marzo 2030 - Il comitato promotore del Parco Distretto Diffuso inoltra all'Unesco la richiesta per il riconoscimento di Patrimonio dell'Umanità di tutto il territorio compreso tra la fascia settentrionale urbana e le colline di Asolo inclusa l'area ex industriale di Caselle, dove rischiano la demolizione alcuni capannoni realizzati con una particolare tecnica di prefabbricati. L'obiettivo è di promuovere e tutelare lo stile di vita di un tempo, quando questa ampia zona era uno dei tanti territori dello scomparso Modello Veneto”. Quello che mi sono inventato qui è un possibile articolo di giornale futuro se, indipendentemente dal merito specifico della tutela di qualche edificio (a quanto pare in sé di scarso valore) passerà il metodo di estendere a tutto ciò che è considerato in qualche modo “tradizionale” il criterio affermatosi a metà '900 coi tessuti storici. In definitiva: se ci sono problemi urbanistici, andrebbero affrontati a viso aperto con quegli strumenti, magari cambiando le regole, e non scimmiottando obiettivi di conservazione degni di migliora causa, che così rischiano solo di essere banalizzati da un uso improprio (f.b.)

La posizione dell’assessore all’urbanistica De Falco: come ricostituire la città della scienza, restituire all’uso degli abitanti l’area dell’ex Ilva e ripristinare la legalità. Il Mattino, 12 marzo 2013
Si può fare, a patto che ci sia un dibattito, che non si divida, che si faccia presto nella ricostruzione di Città della Scienza. Però l’ipotesi di delocalizzaione all’interno del grande parco di Bagnoli della struttura distrutta dalle fiamme a Palazzo San Giacomo nessuno la nega. Nel senso che è nel novero delle possibilità.

A scriverlo è l’assessore all’Urbanistica della giunta de Magistris Luigi De Falco (la lettera integrale dell’assessore è di fianco). «Il recupero dell’identità di Bagnoli - scrive De Falco - non può prescindere dalla rinascita di Città della scienza, e allora le due cose si mettano assieme, così come il piano regolatore indirizza per perseguire quell’obbiettivo. Con Città della scienza sono andati in fumo anche gli ulteriori quasi cinquant’anni per attendere l’ammortamento dei fondi utilizzati per la sua costruzione, prima di avviare il trasferimento del complesso appena al di là della strada. Ma a questo punto l’occasione va colta».
Cosa significa? De Falco semplicemente si rifà al Prg che prevede la linea di costa libera da Coroglio fino a Piazza Bagnoli quindi senza Città della scienza (e senza colmata) perché diventi la spiaggia e il mare dei napoletani. Non un atto rivoluzionario ma semplicemente l’applicazione della legge. Una riflessione che in questi giorni attraversa la città ed è trasversale: c’è chi è d’accordo, chi teme che lo spostamento possa allungare i tempi della ricostruzione.

Altri ancora, come i dipendenti di Città della scienza possa essere simbolicamente una resa a chi quel rogo lo ha voluto. «Città della scienza va ricostruita subito - scrive ancora l’assessore - non in altri quartieri della città, messa in rete con i gioielli della zona occidentale che motivarono la prima iniziativa della pianificazione urbanistica negli anni del rinascimento napoletano: la Mostra d’Oltremare, le terme di Agnano, con i poli della ricerca e delle comunicazioni (il Cnr, le Università, la Rai), il complesso Ciano, lo stadio San Paolo, l’ippodromo di Agnano».

Un omaggio, se si vuole, al grande sforzo fatto all’epoca di Bassolino sindaco per mano di Vezio De Lucia titolare dell’urbanistica. Il padre della Variante occidentale che così si è espresso sulla materia: «C’è stata la tragedia e tutta ci siamo commossi però questo potrebbe consentire di tornare all’idea originale: la spiaggia e solo spiaggia tutto il resto va via. Ora si possono determinare le condizioni. Sfruttiamo la tragedia in modo positivo per fare la Città della scienza più bella di prima, del resto un pezzo della struttura sta già a monte di Coroglio».

Il riferimento è ai manufatti di archeologia industriale. In particolare l’ex acciaieria il cui rilancio è interamente finanziato dalla Ue. Sulla questione si sono espressi favorevolmente anche Raimondo Pasquino presidente del Consiglio comunale nelle vesti tecnico. E anche le asssisi di Bagnoli che addirittura si stanno battendo per promuovere un referendum comunale.

Al di là del dibattito vale la pena aprire una discussione di tipo tecnico, come suggerisce lo stesso De Falco. «In fumo sono andati anche i 50 anni che restano per ammortizzare i costi di Città della scienza». Ora che i capannoni non esistono più - il ragionamento dell’assessore - ci sono buoni motivi per immaginare anche altro alla luce di una serie di fatti. Se si volesse ricostruire in loco ci vorrebbe una nuova legge dell’ente di Santa Lucia con la quale consentire costruzioni sulla spiaggia. In secondo luogo serve fare la bonifica che da sola costerebbe i 20 milioni messi a disposizione dal governo. In terzo luogo l’escamotage tecnico per tenerla li dove si trovava e spostare in avanti nel tempo la sua delocalizzazione è stato inserire nella mission l’obbligo di recuperare i costi di investimento entro più o meno un secolo dalla sua andata in funzione. Ora quest’obbligo non c’è più.

«Il grandioso progetto Petroselli-Cederna di un parco dai Fori ai Castelli è tuttora un’idea-forza se la si sa riproporre assieme alla tutela attiva del centro storico». L'Unità, 11 marzo 2013

A Roma si voterà, per il Campidoglio, il 26 maggio. Gli ultimi risultati elettorali – ottimi per il successo finale di Nicola Zingaretti – hanno visto molto vicini, nel Comune di Roma, Pd e M5s. Si andrà al ballottaggio fra i loro candidati? In tal caso, i voti del declinante centrodestra confluiranno sul candidato 5 Stelle? Qualunque sia l’esito del primo turno, credo che fra i temi che più coinvolgono l’elettorato giovanile e popolare vi siano l’ulteriore avanzata del cemento nell’Agro romano a danno dell’ambiente naturale, ma anche dell’agricoltura, spesso di qualità, che vi si pratica, di altri possibili posti di lavoro, produttivi e stabili. La superficie urbanizzata copre già 55.000 ettari. Contro i 6.000 del 1951: + 816 %, mentre i residenti sono cresciuti del 58 % e molti “emigrano” fuori Comune.

Il grandioso progetto Petroselli-Cederna di un parco archeologico-agricolo-naturalistico dai Fori ai Castelli è tuttora un’idea-forza se la si sa riproporre assieme alla tutela attiva del centro storico (sempre più mortificato da un intensivo uso “bottegaio”), al recupero e al riuso corretto di tante zone dismesse, della precaria edilizia anni ’40-’50 semi-periferica e periferica, di almeno 150.000 alloggi realmente vuoti, invenduti o sfitti. Per proporre tutto ciò e non altro cemento, ci vogliono le mani (e le teste) libere da rapporti coi maggiori costruttori-immobiliaristi-proprietari che tanto hanno deciso delle sorti dell’area metropolitana di Roma, incatenandola all’idea vecchia e statica di uno sviluppo edilizio senza limiti quale “motore” di sviluppo. Col risultato di sottrarre capitali ad altre e più dinamiche attività, di far retrocedere Roma da primo a terzo Comune agricolo d’Italia, dopo Foggia e Cerignola, di creare nuove periferie tanto ricche di centri commerciali quanto povere di centri culturali, di servizi sociali e civili. Per non parlare dei tentativi di Alemanno di “ristrutturare” Tor Bellamonaca, dando ai costruttori premi tali da peggiorare l’esistente.

L’ultima “trovata” riguarda il centro storico, addirittura la regale via Giulia e il Lungotevere che fronteggia il Gianicolo e Sant’Onofrio. Alemanno ha insistito, pervicacemente, nel progetto di un mega-parcheggio sotto l’area fra il Liceo Visconti e la Moretta. Puntualmente le ruspe hanno incontrato importanti resti romani, le rimesse degli aurighi del Circo Massimo. Tutto incagliato ? No, perché la società privata Cam ha avanzato l’estrosa proposta di realizzare lì sotto, in project financing, un museo degli aurighi medesimi (ecco il fine pubblico che giustifica i mezzi privati). Da assegnare, s’intende, a loro per 45 anni, assieme al parking sotterraneo.

Parere preliminare della Soprintendenza archeologica? Sbalorditivo ma vero: favorevole. Sopra al parcheggio-museo la bellezza di 40.000 metri cubi divisi in cinque fabbricati, albergo e ristorante, uno “urban center”, attività commerciali, ecc. Sottraendo al Liceo Visconti l’area sportiva all’aperto esistente e oggetto, nel 2010, cioè ieri, di una convenzione col Comune per riqualificarla. Si costruisce verso via Giulia, ma anche su via Bravaria, fronte sul Lungotevere. Parere preliminare del direttore generale per il Lazio dei beni culturali, Federica Galloni? Sbalorditivo ma vero: favorevole. Del resto, è la stessa che ha lasciato infilare senza fare una piega una Pizzeria dentro la medioevale Torre Sanguigna (zona Navona). Pareri preliminari favorevoli di tutti i Dipartimenti comunali. Ma ora, di fronte a vibrate proteste, Alemanno e la CAM (che, dice, ha speso molto…), al posto del ristorante, propone appartamenti di lusso e un laboratorio di arte contemporanea, la dove il progetto dello svizzero Roger Diener, votato dai residenti, prevedeva un parco. Quindi, sono sempre migliaia di metri cubi in una delle zone più pregiate di Roma antica. La pratica dovrà andare in Regione dove, per fortuna, non c’è più Renata Polverini. Ma intanto ci si prova. A Roma e in tutta Italia. A volte, anche da parte di giunte di centrosinistra, minacciando l’integrità di splendidi centri storici nei quali bisogna invece far rientrare abitanti di ogni ceto sociale, laboratori artigiani, la vita vera e vissuta.

Dalla maggioranza di centrosinistra del Consiglio comunale di Venezia un ulteriore contributo al degrado del patrimonio culturale , alla svendita (per meno di 30 denari) della proprietà pubblica, alla mercificazione della città, nonché alla diffusione dell’”antipolitica". La Nuova Venezia, 12 marzo 2013

La battaglia per il Fontego finisce a tarda sera, con voti sugli emendamenti a colpi di maggioranza e le proteste di opposizioni, consiglieri «dissidenti» e comitati, che hanno organizzato durante la sospensione dei lavori una vera «assemblea» nell’aula di Ca’ Loredan. Convenzione votata tra il Comune – con la Variante e il cambio d’uso che dà il via libera ai lavori di restauro – e Edizione property, la finanziaria del gruppo Benetton per trasformare lo storico Fondaco dei tedeschi in un moderno centro commerciale. Respinti quasi tutti gli emendamenti che proponevano una maggiore apertura pubblica del palazzo e l’aumento del corrispettivo (sei milioni) spettante al Comune per il cambio di destinazione d’uso. Polemica a tratti molto dura sul valore dell’edificio acquistato cinque anni fa da Benetton per 60 milioni di euro. E sul rapporto «pubblico-privato». Convenzione che penalizza il Comune, secondo i dissidenti. «Valorizzazione di un bene oggi degradato e chiuso al pubblico», secondo la giunta e i partiti di di maggioranza, Pd, Idv, In Comune. Il sindaco Giorgio Orsoni nella sua replica ha spiegato il perché si sia giunti a questo punto. La convenzione firmata dal sindaco con Benetton, due anni fa, è stata definita «un atto che rende questo Consiglio più libero di decidere perché garantisce il rispetto di alcuni obblighi per il privato. «Ci sono dei dati di fatto», ha detto il sindaco, «che chiunque non abbia pregiudizi non può non vedere. Il primo è che questo palazzo è di proprietà privata e che la precedente amministrazione ha deciso di non esercitare il diritto di prelazione». «A quel punto», ha detto ancora il sindaco, «a noi non restava che cercare di ottenere i maggiori vantaggi possibili per la collettività. Così abbiamo fatto, ottenendo la disponibilità pubblica del cortile, con dieci giorni dedicati a spettacoli esclusivi del Comune, l’uso dello spazio all’ultimo piano. E sei milioni di euro, che ci sembrano congrui. Anche perché non è scontato che si possa recuperare utilità pubblica sulla proprietà privata». Anche dal punto di vista del progetto, Orsoni ha ricordato che l’ipotesi originaria è stata modificata. Con lo stralcio delle scale mobili colorate nel cortile e e della grande terrazza. Dibattito proseguito fino a tarda ora, con la discussione di decine emendamenti. Bocciata per soli tre voti la proposta avanzata dal consigliere del Gruppo Misto Nicola Funari di rinviare tutto in commissione, vista la «non adeguata valutazione effettuata dagli uffici». Ma per tre voti la proposta non è passata. Non hanno votato tra l’altro anche consiglieri critici con la delibera, come Jacopo Molina, Saverio Centenaro, Valerio Lastrucci. Durissimi gli interventi delle opposizioni. Renato Boraso, Cesare Campa, Marta Locatelli (Pdl), Giovanni Giusto (Lega). Jacopo Molina (Pd) hanno accusato la giunta di aver già deciso, nel momento in cui il sindaco aveva firmato la convenzione con Benetton, due anni fa. Renzo Scarpa (Misto) ha accusato di illegittimità gli atti in approvazione. Stessa linea per Gianluigi Placella (Cinquestelle), applauditissimo dall’aula. Favorevoli al restauro i consiglieri Pd Borghello e Pagan, Beppe Caccia (In Comune), Giacomo Guzzo (Italia dei Valori) che ha invitato a tener presente il beneficio economico dei 400 posti di lavoro. Attacchi alla giunta e alla «necessità di far cassa». L’assessore Ezio Micelli ha replicato difendendo la bontà dell’accordo, che «precisa gli elementi dell’intesa sulla base del progetto definitivo approvato dalla Soprintendenza».

Ecco un'immagine del Fontego dei tedeschi, futura Rinascente

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