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Corriere della Sera Milano, 25 aprile 2013, postilla (f.b.)

La Città della Salute e il Cerba sono al duello finale. Entro il mese di giugno, per motivi tecnico-amministrativi, dev'essere definito il futuro dei due mega poli scientifici. Il loro destino appare intrecciato: i dubbi sull'opportunità di realizzare entrambi i progetti, nell'aria già da un paio d'anni, appaiono più forti che mai nel Pirellone del dopo Formigoni. Due giorni fa si è chiuso il primo bando di gara per la costruzione dell'Istituto dei Tumori e del neurologico Besta nell'ex area Falck a Sesto San Giovanni. È un'opera da 450 milioni, di cui 330 milioni da finanziare con soldi della Regione Lombardia. I giorni di cantiere previsti sono 1.350. La fase che si è appena conclusa è quella di pre-selezione, utile a individuare sul mercato chi è disponibile a realizzare i lavori: a Infrastrutture Lombarde, che tiene le fila del progetto per il Pirellone, sono arrivate dieci offerte di imprese ingegneristico-finanziarie italiane e estere. Sull'argomento sono in programma nei prossimi giorni anche i consigli di amministrazione dell'Istituto dei tumori e del Besta.

Contemporaneamente sembra navigare con il vento in poppa l'altro mega polo scientifico, quello sognato dall'oncologo Umberto Veronesi: il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata (Cerba), destinato a sorgere sui terreni del Parco Sud, già di proprietà di Ligresti. In una lettera appena arrivata al governatore Roberto Maroni e al sindaco Giuliano Pisapia, le banche creditrici del fallimento delle società di Salvatore Ligresti (Im.co e Sinergia) comunicano di essersi costituite in una società, la Visconti srl: gli istituti di credito, che devono rientrare dai 330 milioni di euro messi a rischio dal fallimento Ligresti, sono pronti a realizzare il Cerba. L'intenzione è di conferire le aree del Parco Sud — salvo ovviamente il via libera del Tribunale fallimentare — a un fondo di investimento immobiliare che sarà gestito da Hines sgr di Manfredi Catella (autore anche del progetto di Porta nuova). La costruzione del Cerba è a carico dei privati. Le cifre in gioco superano il miliardo di euro.

Ma tra gare d'appalto, riunioni di cda e lettere delle banche, quel che più conta è la politica. E dal Pirellone ieri è arrivato un segnale importante. Fabio Rizzi (Lega), alla guida della Commissione Sanità, ha stilato un calendario di convocazioni: l'8 maggio sono attesi in Regione i vertici dell'Istituto dei tumori e del Besta, mentre per il 15 maggio è in programma un'audizione sul Cerba. È una riapertura della discussione sulla reale utilità dei due progetti — come già Rizzi aveva anticipato al Corriere — in un'ottica di programmazione sanitaria e di sostenibilità dei costi in tempi di crisi. «Tutte le procedure pubbliche, finché non sono aggiudicate, possono essere revocate», fanno intendere al Pirellone. Stefano Carugo, responsabile della Sanità del Pdl, ammette: «Bisogna rivalutare complessivamente la sostenibilità dei due grandi progetti». Il dibattito s'annuncia di fuoco. Sara Valmaggi e Carlo Borghetti del Pd invitano alla cautela: «Sono già stati siglati protocolli di intesa e sono in corso procedure esecutive ben definite. Besta e Tumori non sono semplici presidi ospedalieri, in gioco c'è il futuro della ricerca pubblica lombarda». Ma la partita appare appena iniziata.

Postilla
Non è il caso di farla troppo lunga (il lettore può risalire nel tempo delle opinioni espresse in questo sito semplicemente consultando articoli e postille, in entrambe le edizioni di eddyburg e). Solo due precisazioni su quanto l'articolo necessariamente sorvola:
1 – la Questione Scientifico-Sanitaria come hanno più volte sottolineato i diretti interessati operatori, medici e manager, pare evaporata di fronte a quella urbanistica, territoriale, come se la salute collettiva si valutasse in termini di spazi, metri cubi su metro quadro, localizzazioni degli interventi; che nulla hanno a che vedere in sé e per sé con le sedi, che volendo già esistono e si potrebbero riorganizzare, magari con progetti edilizi alternativi a queste mega opere.
2 – la Questione Ambientale-Localizzativa, che comprende da un lato la secca alternativa (su cui in teoria non dovrebbero esistere dubbi) fra il consumo di spazi aperti a man bassa, specie di pregio e agricoli periurbani, e il recupero di superfici dismesse già urbanizzate; dall'altro sul versante più propriamente ambientale l'occasione di restituire alla città angoli degradati, oggi inaccessibili, proprio sfruttando l'occasione economica di poli scientifici in grado di riqualificare non solo urbanisticamente l'area metropolitana.
E concludendo sull'evocata questione metropolitana: nessuno ricorda che fra pochi mesi le concorrenze fra campanili per aggiudicarsi questa o quella fetta di trasformazioni di prestigio dovrebbero venir meno, con l'istituzione della Città Metropolitana di Milano? Beh, pare proprio che le forze politiche ed economiche considerino quella scadenza solo occasione di manovre subacquee o poco altro. Un modo di ragionare da cosiddetta metropoli europea? (f.b.)

«“Nella città dolente” è un contributo avvincente ed autorevole, un gesto concreto per restituire al paese una capacità di governo, per una nuova urbanistica, che per De Lucia continua ad essere la prosecuzione della politica con altri mezzi». La Repubblica, ed. Napoli, 24aprile 2013
Prosegue con l’ultimo libro di Vezio De Lucia “Nella città dolente”, uscito per le edizioni Castelvecchi, il racconto del paese e dell’Italia repubblicana iniziato con Se questa e una città. La storia si arricchisce di nuovi capitoli e spunti di riflessione, e trova ora una sua compiutezza, non foss’altro per il fatto che l’eclissi del governo del territorio in Italia ha conosciuto nel 2008, con il “Piano casa” e lo scempio de l’Aquila, il suo esito per così dire ultimativo. Questo rende possibile un bilancio di un’intera fase storica – il trentennio lungo del liberismo e della deregulation - ed obbliga anche l’autore, con Brecht (“sulla mia tomba vorrei fosse scritto: “Fece delle proposte”), ad avanzare le sue idee per il rilancio su nuove basi della pianificazione pubblica della città e dei paesaggi di questo martoriato paese.

Il libro inizia onorando la memoria di uno strano “democristiano giacobino”, Fiorentino Sullo, ministro ai lavori pubblici nei primi anni ’60, e del suo tentativo fallito di dare al paese una legge sul regime giuridico dei suoli, che allineasse l’Italia alle migliori esperienze europee, recidendo il nesso perverso tra trasformazione urbana e rendita fondiaria. L’insurrezione dei conservatori, dai fascisti ai liberali, che strumentalmente accusarono Sullo di “voler abolire la proprietà edilizia privata e togliere la casa agli italiani”, costrinse la DC a disconoscere il disegno di legge, con il politico irpino che scontò una spietata damnatio memoriae, mentre il generale De Lorenzo addirittura architettava il suo tentativo di colpo di stato.

Da allora, il libro racconta la lunga rincorsa a quella riforma mancata, che i governi successivi affrontarono mai più in chiave complessiva, strategica. Il paese rimase privo di una legislazione organica di attuazione dei principi costituzionali di regolazione della proprietà fondiaria, per assicurarne la funzione sociale, come avviene nelle democrazie liberali europee, nei paesi normali insomma. Nel frattempo, l’assegnazione progressiva ai poteri locali della materia urbanistica, generava a scala nazionale un mosaico differenziato di esperienze ed esiti, con il Mezzogiorno a fare da desolata retroguardia, tra abusivismo e usi criminali del territorio.

De Lucia racconta tutte queste cose, in un libro che si legge come un romanzo, e che deve l’acqua della vita alle competenze e al rigore dell’autore, ma anche al suo ruolo di testimone, spesso di protagonista dei fatti raccontati, in una narrazione sospesa tra storia civile, cronaca e vita vissuta. Non sottraendosi nemmeno ad un giudizio sugli avvenimenti più recenti, quali ad esempio i nuovi governi comunali di Milano e Napoli, che per De Lucia rischiano di rappresentare un’occasione persa, per l’incapacità (o la mancata volontà) di porre l’urbanistica al centro dell’azione riformatrice, ripiegando invece su atteggiamenti inerziali, tattici.

Il finale del volume è dedicato alle proposte. Se vogliamo salvare quel che rimane della straordinaria eredità del paesaggio italiano, è urgente per De Lucia mettere mano a una legislazione sul consumo dei suoli. Nel far west attuale, infatti, l’Italia continua a consumare 35.000 ettari di suolo fertile ogni anno – l’equivalente di quattro nuove città come Napoli – per i tre quarti concentrati nelle poche pianure pregiate del paese. La soluzione sta nell’assegnare al territorio rurale residuo la stessa importanza che in Italia, a partire dagli anni ’60, è stata attribuita ai centri storici, riservando le nuove edificazioni alle aree già urbanizzate, degradate, dismesse, legando così indissolubilmente rinnovamento urbano e riqualificazione. E’ una strada praticabile, come dimostra il piano territoriale della provincia di Caserta, approvato nel 2012, del quale De Lucia è stato coordinatore.

E’ una questione di sopravvivenza, perché la democrazia italiana resterà perennemente incompiuta, senza un territorio in ordine. “Nella città dolente” è un contributo avvincente ed autorevole, un gesto concreto per restituire al paese una capacità di governo, per una nuova urbanistica, che per De Lucia continua ad essere la prosecuzione della politica con altri mezzi.

Un libro su una fase della nostra storia recente (gli anni della "urbanistica contrattata") sulla quale occorre ancora riflettere e discutere, anche perché è lungi dall'essere superata. Il manifesto, 24 aprile 2013
Il recente libro di Roberto Della Seta e Edoardo Zanchini, La sinistra e la città (Donzelli editore, euro 16), nonostante l'analisi impietosa sull'oblio del tema urbano nell'agenda politica della sinistra, lancia un grande segnale di speranza. I due autori sono molto competenti. Entrambi dirigenti di Legambiente, hanno vissuto in prima persona le vertenze urbane e territoriali che hanno caratterizzato la recente storia italiana. Da sempre critici nei riguardi dell'urbanistica «contrattata» che ha dominato la scena italiana - Della Seta ad esempio ha pagato con la mancata ricandidatura nelle liste del Pd le sue posizioni sulla vicenda dell'Ilva di Taranto e sulla legge sugli stadi di calcio -, i due autori non hanno però mai fatto parte del gruppo degli urbanisti «radicali» riunito nel sito di Edoardo Salzano (www.eddyburg.it) che ha contrastato in questi anni la demolizione dell'urbanistica.

Con grande onestà intellettuale il libro descrive il disastro che la cultura privatistica ha prodotto nelle nostre città: «La prima domanda da porsi, dopo venti anni di radicale deregulation in campo edilizio e urbanistico... è se questa opera di smantellamento di regole, vincoli, controlli abbia dato i frutti promessi. Ha reso le città più funzionali, più vivibili? .... La risposta è ... no».
Un'altra parte preziosa del libro interroga sulle strade da prendere per ricostruire il governo pubblico delle città. Dopo aver ricordato i meriti della cultura degli anni Sessanta e Settanta, quando si è saputo coniugare la critica dell'esistente con la costruzione dell'impianto legislativo per il buon governo delle città, Della Seta e Zanchini individuano le radici dell'involuzione culturale della sinistra nel rifiuto della città come bene comune. E ci ricordano che mentre altre importanti città europee hanno continuato pur nella fase economica neoliberista a praticare un approccio connotato da «un marcato interventismo del decisore pubblico in tutte le grandi scelte progettuali», da noi si è cancellata l'urbanistica.
La capitale d'Italia guidata dalla sinistra, ad esempio, è riuscita a inventare di sana pianta il mostro giuridico dei «diritti edificatori», inesistenti sotto il profilo disciplinare - come hanno sancito fondamentali sentenze della Cassazione -, ma che hanno spianato la strada al trionfo della proprietà fondiaria. E dalla città capitale, simbolo e guida per tutte le amministrazioni italiane, il morbo ha infettato l'Italia.
Gli autori si concentrano infine sui modi per rilanciare una nuova fase di vita delle nostre città. In primo luogo con un respiro culturalmente adeguato: «L'urbanistica italiana deve ritrovare il senso perduto della sua missione civile, recuperando il meglio, che è tanto, della sua storia anche recente e al tempo stesso evolvendo insieme ai problemi delle città». E poi con alcune «ricette». Ne sottolineo tre.
Le città come grandi cantieri di riqualificazione energetica ed ambientale, e cioè la cultura delle opere diffuse contrapposta alle grandi opere inutili. Una politica pubblica per dotare le città di reti efficienti e non inquinanti di trasporto, così da colmare il ritardo che ci separa dalle città d'Europa. Infine, una sistematica opera di messa in sicurezza del territorio. Un libro importante, dunque, perché su quegli obiettivi si dovrà cimentare una nuova cultura delle città ora che l'urbanistica contrattata ha svelato il suo irrimediabile fallimento.

«Prevale insomma l’idea berlusconiana che ognuno sia “padrone in casa propria”: gli industriali di inquinare, i coltivatori di usare concimi avvelenati, i Comuni di chiudere un occhio, anzi due». La Repubblica, 23 aprile 2013

La retorica dei grattacieli, in ritardo di un secolo rispetto ai suoi modelli americani, comporta profonde escavazioni, che spesso mettono in comunicazione due o più falde acquifere, favorendo la subsidenza e la contaminazione delle acque e dei suoli (ancor più grave dove insistono discariche miste, con forti presenze di sostanze organiche). 

Rifiuti industriali liquidi e semiliquidi, spesso scaricati nel terreno per risparmiare sui costi, si infiltrano in terreni già compromessi, e i veleni si spargono per ogni dove, raggiungono le acque e le radici degli alberi, alterano il nostro cibo. I controlli pubblici, pur segmentati e diseguali, dovrebbero crescere di fronte a tanto disastro, e invece sono in ritirata, perché il vangelo è risparmiare a ogni costo, anche a costo della vita dei cittadini. La riduzione delle risorse pubbliche è un aspetto di quello smontaggio dello Stato che i governi della legislatura appena chiusa (compreso il governo “tecnico”) hanno perseguito senza rimorsi, etichettandolo cinicamente come “riforme” (un bel libro di Ugo Mattei, Contro riforme [Einaudi] ne propone un’analisi serrata). Come nel caso di Taranto, si è imposta alla politica una regola non scritta, ma improntata alla massima illegalità: che, cioè, quando siano in ballo interessi economici, la protezione della salute passa in secondo piano. E se un magistrato osa aprire un’inchiesta su costruttori senza scrupoli o su industrie che inquinano, c’è subito chi lo accusa di lesa maestà e invoca le borse, i mercati, l’Europa e quant’altro pur di scodinzolare senza pudore all’indirizzo dei padroni del vapore.

La risposta a tanto disastro dovrebbe essere in primo luogo il rilancio dell’agricoltura, che è la miglior possibile tutela dei suoli: ma nemmeno questo rimedio è più garantito, visto che l’industrializzazione delle coltivazioni intensivizza l’uso dei suoli usando pesantemente fertilizzanti chimici senza prevedere il loro impatto sul regime idrogeologico. La segmentazione delle competenze amministrative e l’insistenza sulla piena autonomia di ciascun Comune nella pianificazione del proprio territorio impedisce una visione “dall’alto” dei problemi, e dunque anche una qualsiasi soluzione. I confini amministrativi fra Comuni (ma anche fra Regioni) sono del tutto arbitrari, e non coincidono mai con la distribuzione naturale delle risorse ambientali, meno che mai con la mappa dei problemi, delle violazioni, dei pericoli.

Dal ministero dell’Agricoltura è venuta almeno una proposta di legge sui suoli agricoli con molti aspetti positivi, ma travolta dalla fine legislatura; mentre il ministero dell’Ambiente troppo spesso si adagia in una passiva trincea di mera osservazione.

Prevale insomma l’idea berlusconiana che ognuno sia “padrone in casa propria”: gli industriali di inquinare, i coltivatori di usare concimi avvelenati, i Comuni di chiudere un occhio, anzi due. Il più prezioso dei nostri beni comuni, il suolo in cui viviamo, anziché esser gestito a beneficio della comunità dei cittadini, viene segmentato in funzione dell’esercizio del potere locale, della distribuzione di favori e benefici, del voto di scambio, dell’esazione di gabelle. Sparisce lentamente dall’orizzonte dei cittadini, dalla nostra etica quotidiana, perfino dai nostri sogni e speranze, ogni traccia di senso civico, ogni rispetto del bene comune.

Ma è al bene comune che la Costituzione è orientata, dalla prima parola all’ultima. Essa subordina la proprietà privata e la libertà d’impresa all’utilità sociale (artt. 41-42), «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32), pone sicurezza e dignità in cima alla lista dei diritti, e non in fondo. Fra le “larghe intese” che a quel che pare ci attendono, quali sono le priorità? La salute dei cittadini o la loro condanna? Il
rispetto della Costituzione o il suo stravolgimento?

Politiche urbane e dei tempi distinguono un approccio privatistico e uno progressista (con tutte le imperfezioni del caso) agli ambienti del consumo come spazi pubblici. Corriere della Sera Milano, 22 aprile 2013 (f.b.)

Apertura prolungata fino alle 22, diffusione di musica classica e lirica in determinate fasce orarie, pagamento degli straordinari ai vigili per un maggior controllo negli orari notturni, iniziative per incentivare i giovani. Rivoluzione in Galleria. Comune ed esercenti hanno trovato l'accordo per rivitalizzare il salotto di Milano al netto di tutti i problemi che bisogna ancora risolvere(leggi rivisitazione delle convenzioni e proposte come quelle di Altagamma). L'assessore alle Attività produttive, Franco D'Alfonso ha incontrato a Palazzo Marino tutti i rappresentanti dei commercianti della Galleria. La collaborazione ha funzionato

Quattro i punti su cui si è trovato l'accordo. Il primo: tenere le serrande aperte almeno fino alle 22. Tanti pubblici esercizi (leggi bar e ristoranti) lo fanno già. Tutti gli altri chiudono inesorabilmente tra le 19 e 30 e le 20. «È assurdo - attacca l'assessore - che un luogo del genere, frequentato da milioni di persone, chiuda perché la struttura commerciale è antiquata. La risposta è arrivare a un'apertura concordata fino alle 22». «Comprendiamo bene la richiesta dell'assessore D'Alfonso - replica il consigliere delegato dell'associazione il Salotto, Pier Galli - e ci stiamo muovendo gradualmente. Prima l'apertura sarà su base volontaria, poi verrà inserita come condizione nei nuovi contratti».

Altra iniziativa: la diffusione di musica in Galleria. In certe fasce orarie e con dei limiti ben precisi. Solo classica e lirica. Niente rap o rock. Magari con un link diretto con la vicina Scala. «Sarà un impianto - continua Galli - che non sarà minimamente impattante sul complesso monumentale e che diffonderà musica solo in certi momenti della giornata». E arriviamo al capitolo sicurezza, soprattutto nella fascia notturna. In un primo momento i commercianti avevano pensato di ingaggiare degli steward privati in contatto diretto con le varie forze dell'ordine. «Poi - prosegue il rappresentante di Confcommerio - abbiamo optato per un'altra soluzione: contribuire al pagamento degli straordinari della polizia municipale. Anche perché gli steward possono avere un potere dissuasivo, ma non possono intervenire direttamente o sequestrare la merce degli abusivi».

Ultima decisione: «Una delle grandi pecche della Galleria - attacca D'Alfonso - è che allontana i giovani. Per due motivi: ha un'immagine un po' fané e i costi dei pubblici esercizi sono molto alti. Bisogna fare delle iniziative per attrarre i giovani. La Galleria deve tornare quella di un tempo, dove andavi a discutere e non solo a comprare». Prima iniziativa: menù scontati per i più giovani.
Commercianti e Palazzo Marino hanno trovato anche un altro punto d'intesa. Riguarda la proposta che Altagamma starebbe (ri)preparando per la gestione della Galleria: «Ci siamo molto meravigliati - continua Galli - che Altagamma non tenga in nessuna considerazione chi c'è già in Galleria, chi paga gli affitti al Comune, chi risiede nel complesso monumentale e a cui piacerebbe rimanere. È una mancanza di rispetto».

Una prima risposta arriva dallo stesso D'Alfonso: «Bisogna mettersi bene in testa che la Galleria è un bene civico ed esclude tutte le privatizzazioni o le gestioni separate di cui si favoleggia. Noi siamo per operazioni molto "milanesi" e non per quelle di chi arriva e si vuole portare via la roba».
Dove l'accordo non c'è e difficilmente si troverà è invece la questione nodale delle concessioni e dei subentri. Dove girano milioni di euro tra privati e il Comune, proprietario dell'area, si deve accontentare del canone raddoppiato. Come nel caso di Versace pronto a subentrare all'argenteria Bernasconi con 15 milioni di euro. «La delibera del 2012 - conclude Galli - parte dal presupposto che queste forme di subentro esistono in tutto il mondo, Milano compresa. E proprio per questo motivo ha messo dei paletti. L'ultima parola spetta a Palazzo Marino. Inoltre chi subentra ha un canone raddoppiato e ha la stessa scadenza di chi ha lasciato. Quindi il pubblico ha sicuramente una convenienza economica. Altro che danno erariale. La Corte dei Conti dovrebbe intervenire se operazioni del genere venissero bloccate».

Il vero errore dei percorsi verso la sostenibilità ambientale è sempre quello mediatico-pedagogico: presentarla chissà perché come positivamente regressiva. Corriere della Sera, 22 aprile 2013, postilla (f.b.)

Si celebra oggi in tutto il mondo la quarantatreesima Giornata della Terra dell'Onu. La popolazione aumenta ed è proprio sull'alimentazione che il Wwf punta il dito. Anche una minima inversione di tendenza nei consumi e negli sprechi, se ripetuta per miliardi di persone, può rappresentare un primo passo verso un futuro più sostenibile. La 43ª Giornata della Terra dell'Onu, celebrata oggi in tutto il mondo, rappresenta un'occasione importante per rendersi conto dello stato di salute del Pianeta, l'unico che abbiamo.

La situazione, nonostante gli impegni, spesso solo cartacei, delle nazioni e delle organizzazioni internazionali, non appare confortante. La popolazione umana continua ad aumentare (si prevedono 9,3 miliardi per il 2050) e la concentrazione di CO2 nell'atmosfera a gennaio ha raggiunto un record di 395 parti per milione, avviando la temperatura globale (il 2012 è stato il nono anno più caldo dal 1880) verso un aumento di più di 2 gradi di media, con gravi danni, soprattutto per l'agricoltura e l'alimentazione. L'Italia, nel suo piccolo, negli ultimi venti anni ha perso il 15% della terra coltivata.
Ed è proprio sull'alimentazione di una umanità in crescita in numeri ed esigenze, che il Wwf punta il dito nell'Earth Day odierno.

La produzione alimentare costituisce infatti una delle maggiori cause del consumo delle terre emerse non coperte dai ghiacci e della perdita della loro biodiversità. L'agricoltura ha già distrutto o trasformato radicalmente il 70% dei pascoli, il 50% delle savane, il 45% delle foreste decidue temperate e delle selve tropicali; l'acqua usata per l'irrigazione assorbe il 70% di quella disponibile sul Pianeta; la sovrappesca sta portando all'estinzione numerose specie ittiche.
Se si esclude l'ultima glaciazione, terminata circa 10 mila anni fa, nessun altro fattore ha avuto un impatto tanto distruttivo sugli ecosistemi.

Ma se può risultare illusorio affidarsi solo alla responsabilità dei governi — i quali più che alle generazioni future puntano alle prossime scadenze elettorali — molto si potrebbe ottenere, in questo specifico settore, dall'impegno di tutti noi. Anche una minima inversione di tendenza nei consumi e negli sprechi, se ripetuta per miliardi di persone, può rappresentare un primo passo verso un futuro più sostenibile. Innanzitutto limitare il consumo di carni. L'allevamento del bestiame, sopratutto bovino, richiede ampi spazi per il pascolo ma ancor più per la produzione di mangimi, entrambi ottenuti con la distruzione di immense superfici di foreste tropicali: la stessa quantità di terreno e di acqua occorrenti per produrre un chilogrammo di proteine della carne, può consentire una produzione di proteine dalla soia otto volte superiore.

Per quanto riguarda i cibi di origine vegetale, un comportamento più virtuoso deve far preferire prodotti di stagione e di origine locale, meglio se coltivati con sistemi biologici e da orti domestici, evitando anche l'acquisto di derrate provenienti con gran consumo d'energia da luoghi lontanissimi e ottenuti spesso da colture distruttive nei confronti degli ecosistemi naturali. Inoltre, scegliendo specie ittiche non prelevate da stock troppo sfruttati — come quelli del tonno rosso mediterraneo, del pesce spada e altri — e scegliendo specie più comuni come lo sgombro, le alici, le sarde, i cefali, eccetera — si può contribuire a rendere i nostri consumi in fatto di pesce meno impattanti sull'ambiente marino. Il quale oggi è in grave sofferenza per un prelievo delle sue risorse raddoppiato negli ultimi 30 anni grazie a metodi di pesca tecnicizzati e distruttivi nei confronti della biodiversità oceanica.

Non va infine trascurato il problema degli sprechi alimentari. Secondo la Fao, un terzo della produzione totale di cibo destinato al consumo umano a livello globale finisce in discarica. In Italia, ben 108 chili di cibo commestibile sono sprecati ogni anno, contro i 99 della Francia, gli 82 della Germania e i 72 della Svezia. Anche in questo campo un comportamento più virtuoso e responsabile di ognuno di noi sarebbe molto necessario.

Postilla
Chi ha letto il breve resoconto di Pratesi ha verificato la sintesi dei problemi: un modello di sviluppo basato su sprechi e marginalizzazione degli effetti ambientali, tutto concentrato sull'approccio riduttivamente economicista che ben conosciamo quando si tratta vuoi di infrastrutture (utili per i meccanismi che innescano più che in sé e per sé), vuoi di erogazione dei servizi ecc. Per correggere le distorsioni del modello bisogna esplorare percorsi diversi, e sicuramente la riflessione storica su quanto già praticato in passato dalle società umane aiuta a capire le opportunità. Ma un conto è una consapevole riflessione storica, altro conto è continuare (come in pratica stanno facendo in tanti, in troppi, da troppo tempo) a riproporre modelli sociali del passato come se fossero la panacea ai guai del presente. Non si tratta di guardare indietro, e non è possibile guardare indietro: qualunque prospettiva del genere sarebbe respinta senza pensarci un istante dalla stragrande maggioranza dell'umanità per cui il passato, a volte anche il presente, non è certo un mito della nonnina felice, come purtroppo pensa certa borghesia d'élite (f.b.)

la Repubblica e Armando Stella dal Corriere della Sera Milano, 21 aprile 2013 (f.b.)

la Repubblica Case basse, più verde e meno lusso così la crisi ridisegna Santa Giulia
di Zita Dazzi

È un nuovo masterplan, ed è firmato ancora una volta dall’archistar Norman Foster per Santa Giulia bis, la seconda parte del quartiere a due passi da Rogoredo, quella rivolta verso nord. Un progetto ambizioso, anche se ridimensionato dalla crisi negli investimenti, nei costi finali degli alloggi e nelle altezze complessive degli edifici. Il Comune ha già ricevuto un piano di massima, al quale ne seguirà a breve uno definitivo. E sulla base di quel che già si vede nei rendering e nei plastici, il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris arriva a prevedere che i lavori partiranno entro un anno, di pari passo alla bonifica ambientale su 35mila metri quadrati di verde oggi sotto sequestro giudiziario.

Un intervento urbanistico ed edilizio avviato in era Moratti che potrebbe essere completato per il 2018, con abitazioni per altre 10-12mila persone, in aggiunta alle quasi 5mila che già vivono nella zona sud dell’insediamento. Molte le novità annunciate ieri ai cittadini, alla presenza del vicesindaco Ada Luisa De Cesaris, in un incontro pubblico nella sede di Risanamento Spa, la società proprietaria dell’area Santa Giulia. Nel nuovo insediamento — oltre alle palazzine residenziali con alloggi e uffici il cui costo finale sarà molto inferiore agli 8mila euro al metro quadrato preventivato nel 2005, quando venne realizzato il primo progetto — vi saranno un’arena per spettacoli e manifestazioni sportive, un museo dei bambini in collaborazione col museo della Scienza e della Tecnologia, una biblioteca, una mediateca, una chiesa, un cinema multisala, oltre a un’area commerciale pedonale collegata con un ipermercato.

Verranno costruite piste ciclabili che attraverseranno tutto il quartiere e lo collegheranno all’Idroscalo e al resto della città. «Sarà una vera green city secondo i più avanzati criteri della sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Tutta la vita del quartiere ruoterà attorno a un
grande parco con al centro un lago » ha spiegato l’ingegner Alessandro Meneghelli, direttore della progettazione, cercando di tranquillizzare quanti abitano nei palazzi che oggi si affacciano sul lato sud del parco e che hanno scoperto, nel plastico, alcuni nuovi palazzi che ostruirebbero la vista sul verde. «Saranno palazzi da 4, massimo 5 piani, mentre le case attuali sono di 8» ha replicato Meneghelli, aggiungendo che «il progetto definitivo prevede anche un ponte ciclopedonale per collegare via Merezzate con l’altra parte del parco e il completamento della Paullese fino a via Salomone».

Il vicesindaco De Cesaris si è prodigata per tranquillizzare gli abitanti: «Mi sembra un buon progetto, rispettoso dell’ambiente e diverso da quello originale che l’amministrazione aveva ereditato. Il cuore del quartiere è il parco, elemento di connessione e socializzazione. Ci sono molte strade pedonali che collegano le corti residenziali al verde, ai servizi e all’area commerciale ». I cittadini hanno tempestato di domande sia la De Cesaris sia i vertici della società costruttrice: c’era molta curiosità ma anche il timore di ennesime delusioni. «Tutto ciò — ha aggiunto il vicesindaco — ci permette di far ripartire già dal prossimo autunno la bonifica, in attesa che la magistratura concluda la sua inchiesta che comunque procede su canali indipendenti. Poi, col progetto esecutivo, verificheremo le volumetrie e chiederemo ai costruttori le modifiche che interessano ai cittadini, comprese quelle riguardanti le case affacciate sul parco».

Corriere della Sera Parco e Museo dei bambini Progetto per Santa Giulia
di Armando Stella

Un parco grande poco meno del Sempione, un laghetto, un museo tecnologico per i bambini, un'arena coperta, case e negozi, il cinema e l'Esselunga, cioè il sogno della periferia modello promesso nel 2005, avvelenato dai rifiuti tossici e messo sotto sequestro dal tribunale. E tuttavia: non sepolto né dimenticato. Il progetto per Santa Giulia può ripartire dal punto in cui s'era arenato. La zona Nord di Rogoredo, l'area ex Montecity. L'immobiliare Risanamento ha presentato ieri una nuova ipotesi d'intervento per riprendere e completare il piano di riqualificazione interrotto: verde, acqua, museo, case e il resto. L'ha fatto alla vigilia dell'assemblea degli azionisti (29 aprile) e quasi in fondo alla trattativa per la vendita a Idea Fimit (in scadenza il 30 aprile).

Il masterplan, che sarà ufficializzato entro l'anno, ridisegna oltre 600 mila metri quadri di città: «Il parco da 300 mila metri quadri — spiega Davide Albertini Petroni, dg di Risanamento — sarà il vero elemento di cerniera». Tempi di realizzazione previsti: 8-10 anni. Il museo smart per i bimbi è stato studiato da Fiorenzo Galli, direttore del «Leonardo da Vinci» in via San Vittore: «Potrebbe nascere una collaborazione». Ad ascoltare Risanamento, ieri, il comitato di cittadini e il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris. Che dice: «È un passo avanti, usciamo dalla fase emergenziale». Risanato l'asilo e il parco Trapezio, il Comune sta cercando ora di sbloccare i lavori per il terzo palazzo Sky e due aree da 9 mila metri quadri.

La necessità del potere locale per uscire dalla crisi, il suo svuotamento, la delusione dei sindaci "nuovi" e la speranza di «iuna mobilitazione contro questi meccanismi infernali di produzione della miseria in un paese che potrebbe essere prospero». Il manifesto, 20 aprile 2013

Oggi, se non si mette al centro di ogni ragionamento, discorso o iniziativa l'ampiezza, la profondità e la gravità della crisi che stiamo attraversando in Italia, in Europa e nel mondo, si rischia di essere assimilati alla «casta», al mondo della politica così come ormai viene percepita dalla grande maggioranza della popolazione: un mondo che si occupa solo di se stesso e non delle sofferenze dei governati. E' un rischio che comincia a erodere il consenso del movimento 5 stelle, che peraltro sembra culturalmente poco attrezzato per affrontare il tema in modo radicale.Occupazione, redditi da lavoro diretti o differiti (pensioni e ammortizzatori sociali), welfare state, scuola, università ma anche buona parte dell'apparato produttivo e delle strutture amministrative del paese hanno raggiunto un punto di non ritorno. Ma nessuno arriva ad ammettere che ormai non c'è ripresa che possa far tornare le cose «come erano prima».

L'esempio più calzante di questa irreversibilità lo si vede in ciò: in Italia la disoccupazione giovanile è al 40 per cento, in Grecia e in Spagna al 50; ma è eccezionalmente elevata quasi ovunque, senza contare la diffusione del precariato. È un segno evidente che l'assetto che il sistema economico ha assunto e consolidato nell'ultimo trentennio non è più in grado di offrire una prospettiva alle nuove generazioni. Questi giovani tra qualche anno saranno degli adulti, e in parte già lo sono; ma non per questo troveranno di meglio. È un'intera prospettiva di vita - casa, famiglia, figli; ma anche occasioni per far valere e riconoscere le proprie capacità - che si dissolve; e già ora essi sanno che li attendono una vita e una vecchiaia di miseria senza lavoro, senza pensione e senza reddito. Ma è anche un intero sistema produttivo che «si svuota» di capacità, di saperi, di saperfare; e che emargina così una quota crescente e tendenzialmente maggioritaria della popolazione dal perimetro stesso di una «Repubblica fondata sul lavoro».

Un'infinita elaborazione del lutto

Cogliere la dimensione soggettiva di questo disastro - la rabbia, lo scoramento, la depressione, o i cedimenti al ricatto o al cinismo; ma anche e soprattutto la percezione che ci vuole un cambiamento radicale, che niente o quasi del vecchio mondo è degno di sopravvivere - comporta per tutti coloro che ne condividono le ragioni un complesso lavoro di elaborazione: non solo teorico e «strategico», ma innanzitutto pratico ed emotivo. Una «elaborazione del lutto» imposta dallo stato di cose presente che sia capace di mettere in gioco anche molte delle abitudini, degli atteggiamenti e soprattutto delle autorappresentazioni personali di ciascuno. Da un lato, dunque, abbiamo rabbia, frustrazione, senso di impotenza, ma anche spirito di rivolta di una popolazione sottoposta a una «macelleria sociale» continua e sistematica.

Dall'altro un potere ormai globale della finanza che fa sentire e percepire impotenti ogni giorno di più non solo lavoratrici e lavoratori occupati e disoccupati e cittadine e cittadini esclusi da ogni possibilità di incidere sulle scelte di chi decide; ma anche Stati, governi, imprese (o gran parte di esse), partiti e amministrazioni locali: tutti incatenati alla macina del debito, dei patti di stabilità, dei tassi di interesse, degli spread. Per restituire efficacia e concretezza a un agire condiviso occorre dunque cogliere il punto in cui la vita quotidiana e i sentimenti di rigetto e di rivolta della maggioranza delle persone ferite da questo regime si confrontano e si scontrano con i poteri imperscrutabili della finanza. Al centro di questo immane squilibrio tra poteri globali ed esperienza quotidiana si ritrovano soprattutto i territori e i loro governi locali, perché uno degli oggetti principali delle politiche di austerità, oltre all'erosione del potere contrattuale e del reddito delle classi lavoratrici - e a maggior ragione di quelle escluse è l'appropriazione e la privatizzazione dei beni comuni. In particolare dei servizi pubblici locali. Che sono però, potenzialmente, il perno di quella riconversione ecologica delle imprese e dei loro mercati che il capitale finanziario non avvierà mai; ma che rappresenta l'unica possibilità di salvaguardare insieme ambiente, occupazione, redditi, consumi sostenibili ed equità; ma anche il tessuto produttivo ( know-how , professionalità, esperienza e gran parte degli impianti e delle attrezzature) che le politiche economiche e le scelte gestionali attuali stanno condannando a una rapida dissoluzione.

Lo svuotamento del governo locale

L'effetto principale delle politiche di austerità imposte in Italia con il patto di stabilità interno è lo svuotamento totale dei governi locali. Un Comune è tale - cioè «comune» - se fornisce ai cittadini i servizi di cui la vita associata ha bisogno: energia, acqua, gestione dei rifiuti, strade e mobilità, ristorazione collettiva (ma anche facilitazioni per gli approvvigionamenti individuali), case a prezzi accessibili, nidi e scuole materne, edifici scolastici che non crollino, assistenza agli anziani, spazi di socialità, integrazioni del reddito e così via. Un Comune che non è più in grado di fare non dico tutte, ma nessuna di queste cose non serve a niente; e questa inutilità si traduce in una «politica» che provvede solo più a perpetuarsi in modo parassitario. Ma la politica locale è il vivaio di quella nazionale, quindi.

I sindaci di Nottingham

Tuttavia nella fase attuale la centralità dei livelli locali di governo dipende anche da altri fattori. Innanzitutto il Comune, in quanto livello dell'amministrazione pubblica più a diretto contatto con la cittadinanza, diventa il bersaglio della rivolta e del rancore di chi viene escluso dai servizi e dalle politiche di promozione o di sostegno all'occupazione di cui dovrebbe farsi parte attiva. Invece oggi il Comune riscuote persino delle tasse inique per conto del Governo, come lo sceriffo di Nottingham, senza riceverne adeguati ristorni. Così fa da scudo al Governo nazionale, alla Bce e all'Ue - e sostanzialmente all'alta finanza - troppo lontani per essere anche solo contestati in forme appropriate.

Per esempio, la rivolta dei commercianti di Napoli contro la Ztl (l'intervento della camorra va da sé) è il prodotto di un Comune che non riesce nemmeno più a pagare la benzina del trasporto pubblico. Ma la Ztl non è altro che la sostituzione di un servizio pubblico efficiente alla mobilità individuale. Se il primo non c'è, la Ztl non ha alcun senso. Eppure è solo a livello comunale - per ora - che si possono sperimentare nuove forme di governo partecipato, sia dei servizi pubblici che del bilancio municipale; ed è da lì che si può organizzare una mobilitazione vincente contro i vincoli finanziari - patto di stabilità, fiscal compact , pareggio di bilancio, two packs - da cui discendono le politiche che privano sindaci dei loro poteri e che, attraverso di essi, espropriano lavoratrici, lavoratori e cittadinanza dei loro diritti e della loro dignità.

In secondo luogo il governo locale del territorio, e in particolare la gestione dei servizi pubblici, sono il perno fondamentale della riconversione ecologica, cioè dell'avvio di un diverso meccanismo economico che faccia dei servizi locali il punto di raccordo tra la promozione di nuovi modelli di consumo ecocompatibili, fondati sulla condivisione e la partecipazione - nel campo dell'energia, della mobilità, della gestione dei rifiuti, della ristorazione, e quindi anche dell'agricoltura, dell'edilizia popolare, della salvaguardia dei suoli e degli assetti idrogeologici - e la riconversione delle aziende senza più mercato alla produzione dei materiali, degli impianti, dei beni e dei servizi necessari a questa transizione.

Infine soltanto i Comuni - o Consorzi di Comuni - potrebbero assumersi la responsabilità politica ed economica, ma soprattutto la titolarità giuridica, nel rilevare la gestione delle imprese in crisi, di quelle che chiudono, di quelle dove il management abbandona (magari portando all'estero macchinari, know-how , brevetti e controllo dei mercati). I sindaci sono tutti molto riluttanti a farlo e molti non ci pensano proprio; e non solo perché non hanno risorse né poteri sufficienti in materia. Ma un maggiore ricorso agli istituti dell'esproprio e della requisizione va messo all'ordine del giorno; e un primo passo è una battaglia politico-culturale per imporglielo.

Bisogno di futuro

Certo in questo approccio c'è qualcosa che non funziona: la maggioranza dei sindaci e delle amministrazioni dei Comuni sono membri a pieno titolo del sistema partitico, se non della «casta». Anche i nuovi sindaci del 2011-12 - staremo a vedere quelli del 2013 - sono rimasti impigliati in qualche progetto faraonico e inutile, nei debiti pregressi e nel patto di stabilità che li espropria dei loro poteri; e si sono adeguati. E tuttavia sono i sindaci vecchi e nuovi che devono mettersi alla testa di una mobilitazione contro questi meccanismi infernali di produzione della miseria in un paese che potrebbe essere prospero; oppure devono venir costretti dalla mobilitazione popolare ad assumerne la rappresentanza adottandone le rivendicazioni. Promuovere e sostenere una battaglia come questa, lavorando al coordinamento di tutte le forze che in Italia e in Europa la condividono, significa praticare un obiettivo di carattere generale a partire dall'agire locale, quello più immediatamente accessibile a tutti.

Questo obiettivo generale è la costruzione di un'Europa diversa a partire dalla revisione radicale delle regole finanziarie che la governano e dal congelamento selettivo di un debito pubblico che è insostenibile per tutti: sia ora che nei decenni a venire. In una recente assemblea è stata citata una scritta su un muro che dice: «Basta fatti, vogliamo promesse!». In questo paradosso di sapore surrealista (o situazionista) possiamo riconoscere il sacrosanto bisogno di non soccombere di fronte alle miserie dello stato di cose presente grazie a uno sguardo «lungo», capace di restituire ruolo e peso alla dimensione utopica del nostro agire.

Un percorso di letture tra gli spazi del consumo e le mutazioni delle città, sul versante della percezione e dell'immaginario collettivo. Libri di Valeria Giordano, Stevan Miles, Sabrina Pomodoro, Luca Massidda. Il manifesto, 19 aprile 2013 (f.b.)

Gli spazi delle città hanno sempre avuto un rapporto particolarmente intenso con il mondo dei consumi. Un rapporto che può addirittura essere considerato indispensabile, dal momento che lo sviluppo della vita urbana è stato possibile soltanto grazie al suo intreccio con l'attività commerciale. In un'epoca nella quale i luoghi del consumo hanno invaso ogni spazio quotidiano degli individui, è possibile chiedersi se la loro presenza non sia diventata eccessiva. Se non sia talmente intensa da rendere sempre più difficoltosa quella vita urbana e sociale che, in passato, contribuiva ad alimentare. Il tema è rilevante e ha dato vita ad analisi e approfondimenti, raccolti in alcuni volumi usciti negli ultimi tempi, in Italia e all'estero.

Valeria Giordano è una studiosa impegnata da diversi anni a cercare di mettere in luce i molteplici linguaggi che si intrecciano all'interno delle metropoli. Nel suo recente volume Immagini e figure della metropoli (Mimesis, pp. 152, euro 14) ha rielaborato un testo - La metropoli e oltre - che aveva dato alle stampe nel 2005, ma era rapidamente scomparso dal mercato, a causa della chiusura della casa editrice. Appoggiandosi a numerosi riferimenti letterari e filosofici, Giordano tenta di esplorare la straordinaria capacità della vita metropolitana di creare un immaginario che si caratterizzi per la sua duplicità, natura ibrida e per certi versi «mostruosa», capace di tenere insieme numerosi contrari: l'innovazione e la conservazione, il transitorio e l'immobile, il nuovo e l'antico. Lo fa principalmente analizzando figure emblematiche della condizione metropolitana, che comprendono il celebre flâneur individuato da Baudelaire e Benjamin, ma anche decisamente più contemporanee come lo straniero, lo spettatore, il consumatore o il cyborg.
Il trauma dei sensi

Nel libro, si parte dalla consapevolezza che metropoli e cultura moderna abbiano un rapporto molto profondo. Anzi, la seconda non può essere compresa appieno se non all'interno della stretta relazione che intrattiene con la metropoli stessa e che si sviluppa a partire dalla comune capacità di attivare tutti i sensi del corpo umano. Solo lo choc, infatti, con la sua carica innovativa e traumatica, è in grado di sconvolgere le aspettative individuali, interrompendo la linearità del tempo. Brucia però, altrettanto velocemente, nella consapevolezza che verrà presto sostituito da un altro choc.

Secondo Giordano, lo choc rappresenta un'esperienza fondamentale della condizione metropolitana e si manifesta in maniera esemplare attraverso le forme assunte all'interno degli spazi del consumo. È in tali spazi che si offre la soddisfazione istantanea, cioè destinata a rinnovarsi continuamente e a dar vita ai ritmi sempre più accelerati delle merci e dei loro messaggi. È qui, inoltre, che si intensifica quella contaminazione tra corpi umani e oggetti che, come era stato evidenziato da Benjamin, aveva già cominciato a svilupparsi nei primi spazi di consumo della modernità: i passages parigini dell'Ottocento.

Il processo d'intensificazione della contaminazione tra corpi e oggetti si è evoluto in conseguenza di una radicale trasformazione del modello capitalistico. Quello industriale, infatti, ha avuto per lungo tempo la necessità che gli spazi urbani rifornissero di manodopera le sue fabbriche. Grandi masse di individui dovevano vivere in prossimità dei suoi luoghi di produzione, posizionati solitamente all'interno delle grandi città. Ma il capitalismo ha anche richiesto che gli spazi urbani operassero come una domanda in grado di assorbire le sue eccedenze produttive. Non è un caso, pertanto, che luoghi del consumo di massa come i grandi magazzini abbiano dovuto strutturarsi e svilupparsi in diretta relazione con le fabbriche.

Il passaggio negli ultimi decenni a un nuovo modello di capitalismo - delocalizzato, globale e basato sui flussi e sulle reti - ha interrotto questo rapporto di profonda simbiosi tra fabbriche e città. La produzione si è spostata altrove e si è resa progressivamente autonoma dai luoghi tipicamente metropolitani, lasciando piena libertà alla moltiplicazione degli spazi del consumo. D'altronde, ciò che conta nel capitalismo contemporaneo è che merci, persone e informazioni possano circolare senza interruzioni: opera sempre meno in funzione della produzione e adotta in misura crescente il meccanismo del mondo dei consumi. Una logica che si caratterizza proprio per la sua elevata instabilità e un incessante movimento.

Offerta e domanda

È avvenuto, quindi, quello che ha affermato Steven Miles nel volume Spaces for consumption. Pleasure and placelessness in the post-industrial city (Sage, pp. 209, euro 28,66). Secondo lo studioso inglese, addirittura, «l'esperienza individuale della città è filtrata dai processi implicati dalle attività di consumo». Nelle contemporanee città guidate dal consumo, le persone - sebbene abbiano comunque la libertà d'interpretare e utilizzare le opportunità che vengono loro offerte - sono fondamentalmente influenzate dalle esperienze di shopping che possono vivere. Ciò appare evidente nei numerosi casi che Miles ha analizzato in maniera dettagliata: città come Glasgow, Shangai o Los Angeles, ma anche luoghi particolari come gli aeroporti, le Olimpiadi o i parchi a tema della Disney.
La cultura del consumo, dunque, esercita una notevole influenza sullo sviluppo delle città occidentali e sulla costruzione di una identità. Oggi, per sentirsi dei cittadini a pieno titolo è necessario prima di tutto essere in grado di agire in quanto consumatori. Nel 2012, di fronte allo stadio delle Olimpiadi di Londra, è stato costruito il gigantesco Westfield London, il più grande centro commerciale d'Europa (con 265 negozi, 50 ristoranti, un centro benessere, un cinema dotato di 16 sale e una superficie commerciale di 150mila metri quadrati). Entrambi sono stati realizzati distruggendo brutalmente gli edifici e l'identità dell'East End, da sempre considerata la zona popolare e operaia della metropoli inglese.

Il capitalismo contemporaneo si basa su quella mobilità e transitorietà che sono tipiche della cultura del consumo, caratteristiche divenute fondative e centrali anche nelle città odierne. La struttura urbana si è necessariamente dovuta adeguare al funzionamento del modello di consumo.
Sabrina Pomodoro, nel volume Spazi del consumo. Shopping center, aeroporti, stazioni, temporarystore e altri luoghi transitori della vita contemporanea (Franco Angeli, pp. 204, euro 25), ha sostenuto ciò che appare oggi evidente: la città ha visto «sfaldarsi» progressivamente i suoi confini, gli stessi che in passato distinguevano nettamente il centro dalla periferia e la parte urbanizzata dalla campagna. Il consumo è stato il suo più potente motore di cambiamento, producendo un progressivo indebolimento degli spazi pubblici tradizionali, a tutto vantaggio di quelli nuovi e privati del consumo. Spazi che naturalmente hanno assunto anch'essi una natura dinamica e precaria.
Come quelli che oggi vanno sempre più moltiplicandosi e che Pomodoro ha definito con diverse etichette: «spazi del transito» (aeroporti e stazioni), «in transito» (temporary store, guerrilla restaurant, librerie «nomadi») oppure «di passaggio» (fast food, chioschi, distributori automatici, minimarket di prossimità). L'autrice ha sottolineato però la paradossalità del ruolo svolto da questi nuovi luoghi del consumo. A suo avviso, oltre a essere adibiti al transito, operano anche come luoghi di sosta e sviluppo delle relazioni sociali. Anzi, il loro successo dipende proprio dalla capacità di svolgere questa funzione. Sebbene quella a cui danno vita sia comunque una socialità effimera e ben diversa dall'agorà tradizionale che finisce per assumere forme «più flebili, flessibili, ma non per questo insignificanti».

Tra i luoghi transitori del consumo potrebbero essere annoverate anche le esposizioni universali, se non fosse che si tratta di un'invenzione che ha avuto successo soprattutto nell'Ottocento. Nel corso del Novecento, sono state organizzate altre esposizioni, ma nessuna è stata in grado di rappresentare un potente polo di attrazione, al pari di quelle realizzate nel secolo precedente.

Il Millennium Dome

Nell'epoca d'oro delle esposizioni vennero progressivamente messe a punto quelle tecnologie comunicative (stampa popolare, fotografia, cinema, radio, ecc.) che hanno consentito agli individui di conoscere le novità offerte dal mondo dell'industria, senza doversi sobbarcare i costosi e faticosi viaggi. Pertanto, il ruolo di medium di comunicazione del mondo del consumo svolto dalle esposizioni universali è diventato improvvisamente superfluo: quelle manifestazioni hanno continuato a essere organizzate, ma nessuna è più stata in grado di ottenere lo stesso impatto delle sue progenitrici ottocentesche.

La grande potenza simbolica posseduta da un evento come la conclusione del secondo millennio ha reso però possibile creare un'altra esposizione significativa: quella allestita a Londra dentro il Millennium Dome. Un'enorme cupola che presentava 16 spettacolari attrazioni tematiche ed era talmente grande che poteva contenere al suo interno ben due volte lo stadio di Wembley. Dunque, Londra, un secolo e mezzo dopo la prima grande manifestazione del 1851, ha cercato di rinverdire i fasti dell'epoca d'oro delle esposizioni universali e lo ha fatto ancora una volta con un edificio altamente spettacolare, come era stato il Crystal Palace. Il Millennium Dome però durante il suo anno di apertura ha avuto 6,5 milioni di visitatori anziché i 12 previsti e ha costretto il governo britannico a rifinanziarlo più volte.

Nel suo volume Atlante delle grandi esposizioni universali. Storia e geografia del medium espositivo (Franco Angeli, pp. 188, euro 23), Luca Massidda ha messo in luce come negli ultimissimi anni le esposizioni siano ritornate d'attualità, in conseguenza del presentarsi di una situazione sociale paragonabile a quella attraversata dalle società occidentali della fine dell'Ottocento. Una situazione estremamente dinamica, caotica e disorientante per gli individui, alla quale l'esposizione promette di opporsi attraverso la sua struttura ordinata e il potente messaggio che è in grado di proporre. Favorita in ciò anche dalla ritrovata importanza degli spazi metropolitani. Vedremo dunque se, come ha affermato Massidda, le esposizioni universali potranno riacquistare la forte centralità sociale di cui godevano in precedenza. Soprattutto a partire da una sfida impegnativa come la prossima Expo Milano 2015.

La Repubblica Milano, 18 aprile 2013 (f.b.)

TAGLIARE gli alberi per salvare il tram. 180 olmi che segnano l’intero percorso di via Mac Mahon, tipico “viale alberato con tramvia” del paesaggio milanese lungo un paio di chilometri. L’assessore alla Mobilità e all’Ambiente Maran ha comunicato la dolorosa scelta un paio di giorni fa. Gli alberi vanno tagliati perché le radici si sono sviluppate sotto le rotaie provocando gibbosità e deformazione dei binari. E non c’è modo – se non, s’immagina, troppo costoso – di salvare la linea del tram 12, considerata strategica dall’amministrazione.

Com’è ovvio un gruppo di residenti della via e del quartiere si è immediatamente mobilitato, protestando vivacemente contro il sacrificio degli alberi. Ugualmente si leggono proteste e commenti arrabbiati sul profilo Facebook dell’assessore, che con apprezzabile coraggio ha avviato un confronto con i cittadini anche sui social media. Ma il destino degli olmi, par di capire, sarebbe segnato. Vista la quantità degli alberi, il trauma dell’intervento e la posta in gioco, invece sarebbe bene tenere aperta la discussione e non dare per scontata una soluzione non solo “molto difficile” e senz’altro sgradevole per l’assessore e la giunta, ma anche sbagliata. In fondo si tratta di decidere quali sono le priorità, ovvero quali sono i valori in gioco. Quanto valgono 180 olmi piantati quasi settanta anni fa?

PER qualcuno quegli olmi non valgono nulla, visto che si possono ripiantare altre essenze, magari dalle radici meno invasive. Per molti altri tantissimo, se si considera che estirparli significa cambiare radicalmente il panorama, l’ambiente, la vivibilità e persino la memoria di un’intera zona di Milano. Stavolta gli alberi non sono ammalorati. Sono sani e svettano imponenti segnando il profilo di un importante asse viabilistico della città. Siamo sicuri che, strategicamente, non convenga pensare a un adattamento del trasporto pubblico alle alberature piuttosto che il contrario? C’è chi, per esempio, suggerisce di trasformare la linea 12 in un collegamento di bus. Chi in una linea filoviaria, meno inquinante. E perché non considerare l’ipotesi di alzare il piano di scorrimento dei tram, lasciando spazio sufficiente per la convivenza fra radici e binari?

Certamente per ogni possibile soluzione esistono controindicazioni che vanno esaminate con attenzione e scrupolo. Anche dal punto di vista dei costi, naturalmente. Però non si può partire dal principio che l’onere economico – o la convenienza aziendale – sia la bussola di ogni scelta. Non si può almeno finché non si quantifica il danno che si arreca alla città e ai suoi residenti col taglio di centinaia di alberi. D’altronde, per più di sessant’anni, tram e olmi hanno convissuto in via Mac Mahon.

Ma non sono gli alberi ad essere diventati, improvvisamente, insostenibili. Semmai si sta dimostrando insostenibile la vecchia tecnologia di posa e di esercizio dei binari. Infine va ricordato che via Mac Mahon non è l’unico “viale alberato con tramvia” di Milano: ci sono via Cenisio, viale Certosa, via Stelvio, via Giambellino... E, ahinoi, un bel tratto della circonvallazione dei bastioni spagnoli, dove negli anni scorsi la rimozione dei vecchi alberi ha portato a un panorama quasi desolante. Ecco, assessore Maran, provate per una volta a pensare che sostenibilità non è la parola magica del futuro, ma un vincolo per il presente.

La rinascita e le potenzialità strategiche dell’agricoltura, una delle vie d’uscita dalla crisi provocatadella globalizzazione capitalista. "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune": ecco il tema del quale si discuterà al convegno della Società dei territorialisti. il manifesto, 16 maggio 2013.

La crisi economico-finanziaria che ha depresso l'immaginario trionfante dell'Occidente sta accelerando processi molecolari e inosservati di trasformazione culturale e sociale del nostro Paese. La vecchia talpa scava in segreto le sue gallerie. Si tratta, per la verità, di fenomeni avviati da tempo e già rilevati da alcuni osservatori non conformisti, ma che oggi divengono più visibili di fronte al tracollo di opportunità di lavoro e di vita, talora anche di senso, offerto dalle città e dal mondo industriale. Un silenzioso fiume fatto di individui isolati, di giovani e non giovani, di uomini e donne con profili culturali diversi, sparsi in tutte le regioni d'Italia, risale controcorrente il Belpaese in cerca di approdi nuovi negli spazi delle nostre campagne. Il flusso si scontra contraddittoriamente con un fenomeno opposto: l'esodo molecolare e l'abbandono di tanti nostri borghi appenninici e aree interne, che perdono scuole e ospedali, uffici postali e stazioni dei carabinieri, giovani e bambini. È questo un grande tema sia demografico che economico e ambientale su cui occorrerà ritornare non episodicamente. Ma il rifugio in campagna sembra l'avvio di un'altra storia, l'apertura di una nuova pagina culturale, mentre l'esodo dalle aree interne appare più come il movimento ultimo e inerziale di un processo in atto da decenni e che ora si va esaurendo. Che cosa richiama tanti isolati individui nelle nostre campagne? È l'agricoltura, la pratica millenaria di mettersi in relazione quotidiana con la terra per ricavarne beni agricoli.

Talora l'allevamento, soprattutto di capre, che giovani usciti dalle Università intraprendono per fare formaggi eccellenti. Ma detta così è banale. In realtà si pensa poco al grandioso mutamento, realizzatosi negli ultimi anni sotto i nostri occhi, senza che noi fossimo in grado di afferrarne la profondità. L'agricoltura, la più antica pratica economica della storia umana, ha subito delle trasformazioni, non tanto delle sue tecniche, quanto delle sue funzioni, che non hanno nessun termine di paragone negli altri ambiti dell'attività produttiva del nostro tempo.

Come in gran parte d'Europa, questa antica attività destinata all'alimentazione umana ha visto esplodere una miriade di finalità a cui può corrispondere e di cui è diventata la sorgente. Sulla terra, infatti, non si producono solo beni agricoli, ma si protegge e si rielabora il paesaggio, si cura il suolo, rigenerandone la fertilità: la fertilità, questo principio di vita e di riproduzione che si credeva risolto con la concimazione chimica e che oggi torna come necessità imperiosa sui suoli mineralizzati e isteriliti delle agricolture industriali. Ma al tempo stesso si difende il terreno dall'erosione, si alimenta la biodiversità agricola, si conserva la salubrità dell'aria e dell'acqua, si tutela il verde e l'ambiente, lasciandolo ben curato alle nuove generazioni, si organizzano nuove modalità di turismo e di fruizione del tempo libero, si riscoprano vecchie radici di cultura enogastronomica (la moltitudine delle cucine locali, patrimonio insigne della nostra civiltà materiale), si recuperano saperi manuali in via di estinzione, si riattivano forme cooperative di lavoro e di vita in comune, si curano gli handicap (fattorie sociali), si praticano forme innovative di apprendimento (fattorie didattiche). Insomma, sulla terra, diventata erogatrice di una molteplicità di servizi avanzati, si realizzano nuovi stili di vita, che possono fare concorrenza alle condizioni di esistenza nella città, diventata, per un numero crescente di cittadini, fonte di disagio e di frustrazioni insostenibili. I nostri frenetici e abbaglianti centri urbani, paradisi in terra per i nostri deliri consumistici, oggi fanno pagare un prezzo sempre più alto per la frequentazione del loro lunapark. Senza dire che innumerevoli disperati extracomunitari, che arrivano nel nostro Paese provenendo da distretti rurali di paesi africani o dell'Est europeo, vengono rinchiusi nei lager dei Cie ed espulsi come criminali, mentre potrebbero inserirsi in un grande flusso demografico di ripopolamento delle aree interne e di valorizzazione dell'agricoltura. Ancora oggi, a causa della cultura miserabile, della xenofobia infantile di alcuni uomini arrivati alla guida dei nostri governi, l'Europa è una terra di barriere, il Mediterraneo un mare chiuso e pattugliato, mentre dovrebbe essere il nostro vasto e prossimo orizzonte, lo spazio di un nuovo mondo cosmopolita, da cui far giungere l'energia di popoli giovani per la rivitalizzazione delle nostre campagne. Il processo appena descritto, oggi lasciato alla sua spontaneità, potrebbe diventare un grandioso progetto per creare nuovi posti di lavoro, per ripopolare le aree interne, per proteggere il nostro territorio senza ricorrere a "grandi opere", per creare nuove economie valorizzando le risorse (terre, acque, boschi) oggi abbandonate.
Sulle nostre colline, per secoli è fiorita un'agricoltura che ha reso possibile la vita delle nostre cento città, che ha fornito alimenti alle popolazioni dedite all'artigianato, alla mercatura, all'arte. Oggi potrebbe ospitare un'agricoltura di qualità in cui far rivivere, in forme nuove, la straordinaria biodiversità agricola della nostra incomparabile civiltà agraria. Purtroppo, tra i fenomeni che percorrono il nostro tempo occorre considerare anche quello che ha svuotato i partiti politici - vale a dire gli strumenti con cui un tempo si governavano i processi di mutamento - di ogni cultura sociale, di ogni capacità di progetto. Non facciamo neppure cenno alla cultura materiale e ambientale: gli uomini politici abitano in un sopramondo artificiale senza alcun rapporto con la terra. Essi vivono alla giornata, nella fase storica in cui più acutamente si avverte il bisogno di scorgere un orizzonte, di capire dove si può andare.
Per affrontare con strumenti analitici e discussioni mirate i fenomeni oggi in atto si svolgerà a Milano domani e sabato il convegno "Ritorno alla terra per la sovranità alimentare e il territorio bene comune". A organizzarlo è la Società dei territorialisti (l'organizzazione promossa da Alberto Magnaghi, che mette insieme una comunità di saperi esperti del nostro territorio davvero non comune: dagli urbanisti ai geografi, dagli storici agli agronomi, dai sociologi agli architetti. Si spera che i media si accorgano dell'evento. Soprattutto si spera che quella frazione dignitosa del giornalismo italiano, che pure esiste, concorra ogni tanto a mostrare anche l'Italia che pensa, che non ha divi da esibire, o ciarle partitiche da rappresentare, che opera per pura passione, tentando di migliorare le sorti del nostro Paese

.www.amigi.org

Nella rubrica di Corrado Augias, la Repubblica, 18 aprile 2013

Salvatore Settis

Caro Augias, nella sua rubrica di martedì scorso, Massimo Gargiulo mi attribuisce l’opinione che sia giusto dare le opere d’arte dei nostri musei in affitto ai privati. Ho ripetutamente preso posizione contro questa idea. Essa sarebbe, infatti, contraria alla legge (e dio solo sa quanto l’Italia abbia bisogno di legalità), ma anche contro la Costituzione, che all’art. 9 incardina la tutela del patrimonio sulla sovranità popolare e sui diritti fondamentali dei cittadini (libertà, giustizia, eguaglianza). Questi valori non hanno il cartellino del prezzo. Donazioni private ai musei (senza fini di lucro) sono le benvenute, ma non sollevano le istituzioni pubbliche dal loro dovere di tutela. Come ha scritto Adriano Olivetti, «chi opera secondo giustizia opera bene e apre la strada al progresso. Chi opera secondo carità segue l’impulso del cuore e fa altrettanto bene, ma non elimina le cause del male che trovano luogo nell’umana ingiustizia». La tutela «secondo giustizia», obbligata dallo statuto costituzionale dei beni culturali, è stata tradita dai recenti governi, che hanno devastato il Ministero con tagli dissennati. Ma questo non vuol dire che bisogna rinunciarvi, né che la «carità» possa prendere il posto della giustizia.

Corrado Augias
Ho chiesto al prof Gargiulo come possa essersi creato l’equivoco sulle opinioni di Settis. Ha risposto, rammaricato, che in una sua precedente lettera da noi pubblicata si trovava d’accordo con Settis: «Che solamente un grande patto nazionale fra soggetti diversi, dallo Stato ai privati, può invertire la tendenza che ha portato a bilanci sempre più esigui e Soprintendenze al collasso». Aggiunge Gargiulo: «Salvatore Settis incentra soprattutto su donazioni incentivate fiscalmente la realizzazione di un grande patto nazionale fra soggetti diversi, dallo Stato ai privati. Non sottovaluto i possibili risultati di una tale proposta, ma li giudico insufficienti, soprattutto in un periodo di crisi. Vedo nell’affitto dei beni che giacciono nei magazzini una possibilità in
più per i musei per offrirsi al pubblico, inventarsi iniziative, vivacizzare l’attività». Replica Settis: «Non vedo questi vantaggi anche perché ogni opera dovrebbe essere comunque seguita dai nostri funzionari (e ce ne sono sempre meno), i costi della sorveglianza renderebbero proibitivo qualsiasi esperimento (peraltro vietato dalle leggi). Anche nel meno organizzato dei nostri depositi, c’è comunque un controllo climatico, dell’umidità, etc.: come facciamo a controllare tutti i singoli salotti-bene dove i quadri finirebbero con l’essere esposti? L’affitto sarebbe solo l’anticamera della vendita. Sono palliativi, per coprire l’oscena ferita di un patrimonio sempre più abbandonato dallo Stato (di questi anni)»

Abbiamo chiesto al nostro collaboratore di fare sinteticamente il punto sulla situazione di Napoli ripercorrendo l'arco di tempo che separa gli anni del "Rinascimento napoletano fino alle vicende recenti, che hanno trovato ampio spazio nelle cronache ma scarsi riferimenti al loro spessore. In calce alcuni riferimenti

Il declino napoletano che ha contraddistinto il lungo decennio jervoliniano, continua inarrestabile in questo primo inconcludente biennio della giunta de Magistris. Due anni, un tempo prezioso, sono stati consumati in un evanescente spot, con la mente rivolta non ai problemi della città ma ad una affermazione nazionale, considerata a portata di mano. Le cose sono andate diversamente, altri sono stati beneficiati dai frutti di questo inverno dello scontento. Nel frattempo la crisi della città si aggrava, ed è crisi strutturale.

C’è il dissesto economico, che andava affrontato subito, con decisioni coraggiose, e non ora, sotto dettatura del governo. Il costosissimo colosso delle aziende partecipate, più di 8.000 dipendenti, è sempre lì, grande fabbrica di consenso malato, con una gestione opaca della quale non sono chiari gli obiettivi e i benefici reali per la città. Il corpo fisico della città, in mancanza di manutenzione quotidiana, si sta sfarinando, tra buche stradali e crolli. L’urbanistica e la macchina amministrativa sono in stand by: manca assolutamente un’agenda, una strategia per le dieci municipalità, che sono dieci città nella città, mentre il dibattito, anziché allargarsi alla scala metropolitana, si attorciglia su pochissime priorità, i grandi eventi innanzi tutto. L’impiantistica per i rifiuti non c’è ancora, mentre la differenziata segna il passo: preferiamo esportare monnezza, continuando a pattinare su un ghiaccio estremamente sottile.

C’è poi la crisi principale, che è crisi di classe dirigente, affatto superata dal decisionismo del ristrettissimo cerchio magico che attornia de Magistris, che continua stancamente a parlare di beni comuni e partecipazione diretta, sponsorizzando poi provvedimenti dai profili di legittimità sempre pericolosamente incerti, vedi la delibera di giunta con la quale si voleva sperimentare un regime di devolution fiscale, una sorta di inedita extraterritorialità, a beneficio di un’intera insula urbana di proprietà dell’immobiliarista Romeo, che avrebbe trattenuto a sé le imposte, provvedendo autonomamente alla manutenzione urbana.

Poi naturalmente c’è la questione di Bagnoli, con le lunghe indagini della magistratura, il sequestro delle aree, la brutta storia di una bonifica fantasma, che addirittura avrebbe peggiorato le cose. Cosa dire? Quando arrivano i giudici il danno è già fatto, la distruzione dolorosa di tempo, risorse, fiducia e prospettiva è oramai difficilmente recuperabile.

Qui, l’errore è stato quello di considerare la bonifica del sito industriale come un’operazione meramente tecnica, di competenza specialistica: insomma, cose troppo complicate da spiegare ai cittadini comuni. Nei paesi civili, le grandi bonifiche industriali sono operazioni all’insegna del pragmatismo, della sobrietà, con un forte controllo politico e partecipazione sociale. Gli obiettivi, le tecniche e i tempi sono chiaramente definiti, le risorse sono quelle strettamente necessarie, i controlli periodici estremamente rigorosi ed efficienti.

A Bagnoli, invece, per più di due lustri abbiamo delegato la gestione esclusiva delle operazioni ad un ente strumentale – la società di trasformazione urbana – che ha operato in solitudine, senza rapportare periodicamente alla città e ai suoi amministratori, senza spiegare niente, spendendo per di più una barca di soldi. Come se la bonifica non fosse parte del progetto urbanistico complessivo, ma un affare a sé stante.

Ad ogni modo, io penso che la responsabilità politica prevalga su quella dei tecnici infedeli. In questioni come queste, lo si voglia o no, sono il sindaco, la giunta, il consiglio a dover sovrintendere alle operazioni, esercitando il diritto/dovere di controllo, ma anche di impulso, mettendo in gioco tutto il capitale politico e istituzionale disponibile, nei confronti sia della macchina amministrativa locale, sia dei livelli di governo superiori: regione, stato, commissione europea, che pure hanno un ruolo importante nella vicenda, non per niente tengono i cordoni della borsa.

Non ci sono scorciatoie. Anche oggi, quando siamo al punto più basso, resta questa la strada da intraprendere, aprendo finalmente un dialogo trasparente con la città, definendo rapidamente un nuovo programma, un modo di procedere. Su questo punto ha ragione De Lucia: niente è definitivamente compromesso.

Resta la domanda su chi dovrebbe mai fare queste e cose, ora che il capitale di fiducia è oramai dilapidato. Peccato, perché Napoli dispone, nonostante tutto, di una molteplicità di risorse, culture, esperienze, capacità inutilizzate, dalla precedente come da questa amministrazione. Sarebbe questo il momento di aggregarle, in un’assunzione generale di responsabilità, consapevoli che non ci sono traiettorie e carriere personali da lanciare. Tenere in vita la città è un lavoro duro, ingrato, alla fine nessuno ringrazierà.

Riferimenti

Sugli argomenti trattati sinteticamente da di Gennaro eddyburg ha raccolto nel tempo molti materiali, consultabili nella cartella dedicata a Napoli. Della città e dei progetti per la sua rinascita si è parlato anche nelle prime edizioni (2005, 2006, 2008) della Scuola di eddyburg e nella prima visita della serie "una città un piano"

toto oeconomicus: in realtà è un passo indietro rispetto alla Costituzione, un atto della lotta di classe. Il Fatto quotidiano online, 16 aprile 2013

Tra le perle contenute nell’agenda economica prodotta dal collegio di cervelli nominati da Napolitano c’è anche questa ideona: «Allo scopo di moltiplicare i luoghi in cui rendere accessibile il patrimonio culturale disponibile, si potrebbero sperimentare forme di prestito oneroso ai privati … di parte delle opere attualmente chiuse nei magazzini, così da finanziare con il ricavato attività e gestione dei musei esistenti».

Non è una novità: la stessa proposta era contenuta in un disegno di legge presentato il 22 giugno 2010 da un certo Domenico Scilipoti. In compenso è una genialata perfettamente bipartisan, visto che era contenuta anche nel programma di Laura Puppato per le Primarie poi vinte da Bersani: «Altra proposta dissacrante è l’utilizzazione intelligente delle opere d’arte e dei reperti archeologici custoditi nei magazzini dei musei e che non vengono esposti per mancanza di spazio. Si potrebbe affidarli a fronte di adeguato compenso, in locazione ad organizzazioni private che ne curerebbero l’esibizione al pubblico, oppure con apposita convenzione affidarli a enti, istituzioni, fonti termali e alberghi affinché ne curino l’esposizione».

Chi avanza proposte del genere dimostra di non avere neanche la più pallida idea di che cosa sia il nostro patrimonio. Che non ha bisogno di «moltiplicare i luoghi» di fruizione (che andrebbero semmai razionalizzati, e forse diminuiti), perché è già iper capillarmente diffuso sul territorio. Sviati dal modello americano, la nostra percezione è invece museo-centrica: pensiamo di salvare il patrimonio trasformando i grandi musei in fondazioni, e ci preoccupiamo per le opere conservate nei depositi. Ma la percentuale di arte musealizzata è minima, ed è quella più al sicuro. E non c’è nulla di scandaloso nel fatto che i musei abbiano depositi: che non sono magazzini, e tantomeno scantinati umidi, o soffitte polverose, ma sono polmoni attraverso cui il percorso espositivo del museo ‘respira’.

Ma andiamo al cuore del problema: è sensato mettere a reddito il patrimonio, per esempio noleggiando le opere d’arte pubbliche ai privati? Io credo di no. Nel 1948 la Costituzione ha spaccato in due la storia dell’arte italiana, assegnando al patrimonio storico e artistico della Nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo. La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classe dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo. Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati.

Ma se noi torniamo a rimettere quel patrimonio nelle mani dei ricchi, se lo privatizziamo, se lo riduciamo ad un’attrezzeria scenica da noleggiare a pagamento, ebbene prendiamo il progetto della Costituzione e lo buttiamo nel cesso. Del resto lo facciamo già: in questi giorni le piazze e i monumenti di Firenze sono, per esempio, privatizzati da un miliardario indiano che ha noleggiato (per un tozzo di pane) mezza città come una location di stralusso in cui organizzare il proprio matrimonio. E il Comune è felicissimo: è l’occasione perfetta per una città il cui unico progetto sul futuro è lo sciacallaggio del passato. Il modello è la Venezia di Cacciari & c., insomma: la conversione della città in un luna park a gettone.

Allora cosa fare, dove trovare i soldi? Partiamo dai numeri. L’Italia spende in cultura l’1,1% del Pil,la metà della media europea (2,2%). Per l’anno in corso saranno tolti altri sessanta milioni alla tutela e alla valorizzazione dei beni storici e artistici, che già cadono a pezzi. L’intero bilancio del Ministero per i Beni culturali (già dimezzato da Bondi e Berlusconi) sarà ulteriormente tagliato, arrivando a un miliardo e 589 milioni di euro. Il patrimonio recentemente sequestrato ad un singolo imprenditore dell’eolico accusato (tra l’altro) di aver devastato il paesaggio italiano è pari a un miliardo e 300 milioni: cioè, noi difendiamo il paesaggio e il patrimonio di tutti con gli stessi soldi messi in campo da uno solo tra le sue migliaia di nemici!

Dove trovarli, dunque, questi soldi? L’Italia ha l’evasione fiscale più grande del mondo: peggio di noi solo la Turchia e il Messico. Con il 2,5 % dell’evasione annuale italiana (che ammonta a 150 miliardi di euro) il patrimonio si potrebbe mantenere sontuosamente: senza regalarlo a speculatori privati, senza ricorrere alla beneficenza, senza ridurci ad avidi usufruttuari del passato.

Ma è molto più facile trattare le opere d’arte come orsi ballerini che si aggirano nei cocktail col piattino delle offerte tra le zampe: e non importa se questo significa umiliarle fino a privarle di quei poteri di umanizzazione, liberazione morale ed educazione intellettuale che le rendono presenze uniche ed insostituibili nella nostra vita spirituale.

Un suggerimento per i saggi del Quirinale: ora che il presidente Napolitano va in pensione, perché non noleggiarlo a pagamento per impreziosire le serate dei vip e ripianare i conti dello Stato?

Una volta era un modello di buon governo del territorio. Ora il F-VG sta diventando il peggio del peggio. Non sarà mica tutta colpa di Tondo? Una documentata denuncia nel comunicato stampa di Legambiente del Friuli Venezia Giulia, 15 aprile 2013

Si chiede la riduzione del Sito di interesse comunitario “Pineta di Lignano” per far posto a 830mila metri cubi di cemento. Questa edilizia non crea crescita e non rinnova la proposta turistica.

A Lignano sopravvive ancora qualcosa del particolare ambiente naturale delle dune costiere con le loro vegetazioni endemiche, tanto da aver condotto al riconoscimento di un Sito di interesse comunitario, che fa parte delle Rete europea di Natura 2000 che raccoglie e tutela tutte le migliori caratteristiche ambientali, faunistiche e territoriali europee. A Riviera resistono ancora prati di stipa veneta, specie in via di estinzione ed endemica nella costa friulano-veneta. Proprio attorno e dentro quest’area si sta progettando una nuova espansione edilizia fino alla riva del Tagliamento, su una superficie di circa 200 ettari per un totale di 830mila metri cubi di nuovo edificato!

Attorno alla proposta di realizzare un nuovo percorso da 18 buche su 40 ettari, si pensa in realtà, come accade già altrove in Friuli, a nuove case per 80mila mc, residenze terra-mare per altri 80mila; un centro termale per 7mila, alberghi per 57mila mc e attività commerciali per 11mila mc. Ed inoltre si progetta una darsena di 35mila mq da collegare al canale di Bevazzana e un nuovo bacino d’acqua di 45mila mq a sua volta collegato con la darsena, perché altrimenti non si possono costruire le residenze terra-mare, che fanno più chic di una casa normale.

Ci sono poi, in altra area, gli “interventi trasformativi” del Sito di interesse comunitario “Pineta di Lignano”, dove si intende “realizzare un parco naturale di 81 ettari, riqualificando l’area SIC”. Peccato che se ne preveda anche la riduzione di superficie e lo si voglia circondare con altri 175mila mc di residenze, 175mila mc di altre residenze terra-mare, 25mila mc di attività commerciali, 15mila mc per un altro centro termale, 55mila mc di alberghi e 125mila mc di residenze turistiche alberghiere, probabilmente con alcune torri di 20 piani ciascuna. Anche qui è indispensabile un ulteriore bacino di circa 35 ettari e, infine, si prevede una nuova viabilità, non quantificata in chilometri, per nuovi collegamenti con la viabilità esistente e con 9 rotatorie ed un bel ponte di 30 metri sopra la darsena, comprensivo questo di una bella pista ciclabile protetta.

Chi lo presenta, un pool di sei società, descrive il progetto come “un programma che sarà in grado di contribuire al rilancio del sistema turistico non solo comunale attraverso la messa a sistema delle risorse naturali, ambientali ed infrastrutturali presenti in un’area strategica della fascia litoranea dell’alto Adriatico”, per il quale, quindi, sarà necessario anche qualche investimento pubblico, per quanto ancora da definire.

A gente semplice come noi di Legambiente sembra, invece, una presa in giro. Non solo perché strumentalizza l’esistenza degli ultimi brandelli di naturalità e biodiversità ancora rintracciabili a Lignano, prevedendo pure di ridurli ulteriormente. Anche perché è l’ennesima speculazione edilizia inutile che arricchirebbe solo chi costruisce senza migliorare l’offerta turistica complessiva dell’area, non aggiungendo nulla di nuovo, di moderno, di caratteristico e di competitivo. A Rimini, ad esempio, in realtà simili risulta che l’attuale Sindaco abbia impostato la propria attività con l’obiettivo della crescita zero in campo edilizio.

L’ampliamento della stagione turistica sulla costa regionale e la ricerca e creazione di un nuovo target turistico può essere ottenuto con investimenti molto minori, e senza nessun nuovo metro cubo di cemento, con una semplice gestione coordinata, pochi miglioramenti strutturali e una forte adeguata promozione della rete di riserve ambientali lagunari e delle loro risorse ambientali uniche, a cui agganciare le risorse di ospitalità e di offerta culturale, archeologica ed enogastronomica del territorio. Per ora risulta che questo progetto sia fermo nei cassetti del Comune e che non ci siano gli entusiasmi che i proponenti probabilmente si aspettavano.

Questo potrebbe essere un segnale di cambio di marcia per tutto l’arco costiero regionale, viste le altrettanto imponenti cascate di cemento che si annunciano a Grado con il quasi raddoppio della capacità abitativa, e che si comincia a pensare che il futuro non possa essere il semplice proseguimento del recente passato, ma debba essere animato da idee e proposte nuove. E che l’attività edilizia sia orientata, piuttosto che a nuovi progetti di ulteriore ampliamento edilizio dei due poli turistici marini, al recupero ed alla riqualificazione dell’ampio patrimonio esistente.

Si spera in qualche segnale concreto, dai Comuni e dalla Regione, per l’approvazione dei Piani di gestione dei Sic, primo di tutti quello della Laguna, e per la gestione e promozione delle riserve regionali esistenti. Progetti semplici ma nuovi ed utili, che potrebbero usufruire, a Lignano, di percentuali del 75% di contributo comunitario se si avviasse un progetto LIFE per il ripristino naturalistico dell’area, visto che quel Sic è l’unico in regione ad ospitare una specie prioritaria su un habitat, le dune grigie, a sua volta prioritario. Ci potrebbero essere, visti i precedenti in regione, ben oltre un milione di euro di disponibilità.

«Napoli è una bussola, ma l’impressione è che il nostro Paese non sia più alla ricerca di una direzione, che non voglia più trovare l’orientamento». La Repubblica, 15 aprile 2013

Sette anni sono un tempo lungo, troppo lungo. Un tempo infinito di assenza dalla città in cui sei nato e hai vissuto gli anni più importanti della tua vita, della tua formazione. È da sette anni che non calpesto il basalto dei vicoli di Napoli, di cui conoscevo a memoria tutto: le macchie di umidità sui palazzi, le vetrine delle botteghe, i pacchi di pasta e i barattoli di conserve impolverati. I piennoli di pomodorini che i turisti credono decorativi, ma fanno il sugo più buono della domenica. Tutto per me era casa. Negli ultimi anni, invece, di Napoli ho visto solo il Palazzo di Giustizia, che sembra un corpo estraneo nella città più luminosa che io abbia mai visto. Di quella luce che ferisce gli occhi, le fredde aule del Tribunale con le vetrate che sembrano mai lavate conservano ben poco.

Negli ultimi anni sono stato ovunque, mai a Napoli. Ecco perché ora, alla vigilia del mio ritorno, sono emozionato, nervoso, impaziente. Perché torno dove tutto è cominciato. Sento di chiudere finalmente il cerchio. Cosa mi aspetto? Francamente non lo so. A Napoli ho ancora molti amici che sentono il peso di dovermi difendere da una città che non mi ama.

«Speculatore». «Ti sei arricchito sulle disgrazie della tua città». «Furbo, furbetto, furbone». «Hai detto il noto, hai venduto l’invenzione dell’acqua calda». «Ti sei appropriato del lavoro di tutti noi». «Scampiamoci da te». Queste le accuse che mi sono state rivolte. Che ho percepito negli sguardi, tra le mezze parole sussurrate e quelle urlate. Parole che vengono rivolte spesso, anzi sempre, a chiunque venga letto, ascoltato, seguito oltre una misura che la città non tollera. Perché parlare di Napoli si può, ma devi farlo a Napoli, con i napoletani. Eppure tutto questo per me è sempre stato inaccettabile.

A chi ci vive, a chi la studia, Napoli offre infatti un enorme privilegio: poter assistere a un grande laboratorio dove tutto ciò che accade altrove, dove tutto ciò che accadrà altrove, è già accaduto.
È qui che sono state poste le fondamenta del centrosinistra al governo a metà degli anni Novanta. Antonio Bassolino ha a lungo cullato il sogno della ribalta nazionale, perché riteneva che il suo partito gli fosse debitore: se non avesse ingoiato i bocconi amari delle alleanze con Mastella e De Mita il governo Prodi non sarebbe mai nato. Forse è vero. Ma è inaccettabile credere che una stagione lunga vent’anni fatta di successi prima e di fallimenti poi possa chiudersi con l’assoluzione politica per il suo maggiore rappresentante. Il fallimento del Rinascimento napoletano è stato quel credersi diversi solo in quanto diversi e non per la diversa gestione della cosa pubblica. Come se tutto fosse ancora fermo a prima della caduta del muro di Berlino. In apparenza, comunisti contro democristiani; in realtà a braccetto, come per tutto il secondo dopoguerra.

È a Napoli che il definitivo fallimento del centrosinistra si è realizzato. È l’esperienza napoletana ad aver anticipato nei fatti la prossima crisi del Partito Democratico. Questa diaspora è avvenuta qui prima che nel resto d’Italia. Napoli avrebbe potuto insegnare, se ascoltata. La sconfitta definitiva del bassolinismo — del suo sistema clientelare, a metà strada tra Mosca e il distretto metapolitico Ceppaloni-Nusco — è coincisa con il trionfo del rifiuto, oramai esasperato, delle logiche e delle corruzioni partitocratiche. Addirittura è da Napoli che sono partiti gli scandali privati di Berlusconi. Non a caso da Casoria, paesone di quella enorme e caotica periferia che è la città, ma che costituisce allo stesso tempo il colpevole rimosso della stagione bassoliniana. Tutto è cominciato da quella imprudente partecipazione al diciottesimo compleanno di Noemi Letizia.

Qui tutto è laboratorio. Curzio Malaparte aveva ragione: “Quando Napoli era una delle più illustri capitali d’Europa, una delle più grandi città del mondo, v’era di tutto a Napoli: v’era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v’era tutta l’Europa. Ora che è decaduta, a Napoli non c’è rimasta che Napoli. Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventare Napoli”.

Napoli sta attraversando una fase difficilissima, forse la più difficile degli ultimi decenni. Si era illusa di nuovo, aveva di nuovo sperato e dato la sua fiducia a un amministratore che non ha avviato alcun percorso di rinnovamento. Mi scrivono: “Verrai a Napoli, non criticare De Magistris, in questo momento c’è bisogno di unità”. Ma io vorrei che una cosa fosse chiara: non c’è nulla di personale nelle mie critiche, i problemi che Napoli ha, non sono stati generati dal sindaco De Magistris. La sua responsabilità sta nell’aver indicato una via facile, nel non aver ascoltato consigli e previsioni di chi gli era accanto. Di chi è stato malamente allontanato. Gli va riconosciuto che Napoli è un territorio difficilissimo e che lo ha trovato allo sbando, in ginocchio, senza speranza. Divorato dal clientelismo. Chiunque si sarebbe trovato in grande difficoltà. A maggior ragione non doveva porsi degli obiettivi così immediati, ma puntare a soluzioni lungimiranti. Tutto questo non è stato in grado di farlo. E deve, con onestà, ammetterlo. Qualche esempio? Il dramma di rifiuti è lontano dall’essere risolto: la raccolta differenziata (che doveva raggiungere secondo le promesse il 70% in due anni) è un miraggio, mentre è una triste realtà l’allontanamento degli uomini che dovevano affiancare il sindaco nel rinnovamento. Persino un’operazione meritoria come la creazione della Ztl si è trasformata in un boomerang, perché (visto lo stato del trasporto pubblico a Napoli) rischia di essere solo un’operazione effimera, destinata a essere cancellata al prossimo cambio di giunta.

E poi la crisi. Oltre il 40% di disoccupazione giovanile, lavoro nero, lavoro criminale come uniche alternative e costanti oramai endemiche. La classe intellettuale spesso allevata e pagata dagli amministratori con prebende e consulenze che in questo modo comprano un silenzio assordante. E un’aggressività tremenda contro i nemici del padrone. Cani da guardia affamati e zelanti, per i quali cultura militante è difesa delle misere briciole del non più lauto banchetto del potere. Il vecchio estremismo privo di idee nuove contagia le nuove generazioni che, guidate da figure oramai caricaturali, giocano per le strade della città “agli anni Settanta”. Un estremismo identico e precario: sempre lo stesso, immobile e ignorante.

La Napoli di oggi è una Napoli che sisognava diversa e che diversa non è. Come dice Riccardo Realfonzo, ex assessore al bilancio, le uniche certezze che Napoli ha nell’immediato futuro sono l’aumento dell’Imu, dell’addizionale Irpef, della tassa sui rifiuti, dei costi di asili nido e mense scolastiche. Aumenti a fronte di servizi che non possono più essere erogati o quasi. Aumenti a fronte di stipendi che non possono essere più pagati. Napoli avrebbe bisogno di riforme per ripartire, non di una cappa sullo sviluppo. Napoli è anche e soprattutto un territorio di risorse. Ed è a queste che oggi si deve fare appello. Perché a Napoli la crisi è atavica. A Napoli non ci si sente smarriti dall’assenza di diritto, come invece accade altrove. E allora è da qui che si può ripartire: dalle energie della città e dalla sua capacità di far fronte alla mancanza di opportunità. È dalle persone, lavoratori che — non risulti ironico — lavorano il triplo di qualsiasi lavoratore nordeuropeo, guadagnando la metà.

Quell’enorme fascia sociale che lavora alacremente perché sa che con il proprio sudore dovrà farsi carico delle prebende di una classe dirigente imbelle, i cui privilegi De Magistris non ha neanche provato a mettere in discussione. Quell’enorme massa di cittadini che — nonostante la mancanza di servizi pubblici e la progressiva distruzione del già insufficiente welfare, svuotato dall’interno dalle mafie sindacali e politiche, prima ancora che dalla crisi attuale — ogni mattina, col sorriso sulle labbra e la sua enorme dignità vive nonostante tutto. Rassegnata, ma viva e determinata a dare ai propri figli una possibilità: fosse anche quella di andar via, ché la vita è una sola e non tutti possono permettersi di “giocare agli autonomi” in eterno. Napoli patisce da sempre, ha gli anticorpi e la capacità di insegnare come affrontare emotivamente questo momento difficile, come non perdere la speranza, come prendere le misure. Come rinascere.

Napoli è una bussola, ma l’impressione è che il nostro Paese non sia più alla ricerca di una direzione, che non voglia più trovare l’orientamento. Ed è triste constatare come, ancora una volta, il Sud sia stato tenuto fuori da quest’ultima campagna elettorale. Considerato peso, zavorra, luogo del quale parlare il meno possibile, dove ogni cosa è in mano alla criminalità e tutto il resto è trascurabile. Non mi stancherò mai di dire che sono i ragazzi del Sud a riempire le università del Nord contribuendo in questo modo a tenere in piedi quella parte di economia che attorno a questo ruota. Che la manodopera dal Sud arriva ovunque. Manodopera specializzata, operai che fanno ogni genere di sacrificio pur di non arrendersi a un territorio da troppo tempo negletto. Il Mezzogiorno è centrale nell’apporto intellettuale al nostro Paese, nel contrasto alle organizzazioni criminali cui le procure del Nord sono arrivate tardi. Eppure tutto questo al Sud, a Napoli, non viene riconosciuto. Nonostante la città abbia interlocutori pronti a parlare al Paese. Quando vivevo a Napoli c’era solo l’Assise di Palazzo Marigliano come voce altra rispetto al potere, oggi grazie ai social network c’è una partecipazione della cittadinanza che è incredibile: va incanalata, utilizzata. Come vanno condivise le esperienze, vanno ascoltate le proposte.

Ecco, la colpa più grande di De Magistris è proprio questa: aver finto di ascoltare e di essersi, invece, dimostrato più sordo di chi lo ha preceduto, forse troppo occupato ad immaginare un suo ruolo da politico nazionale, nella sfortunata avventura con Ingroia. Tornerò dunque a Napoli. A via Toledo, strada che frequentavo moltissimo quando vivevo a piazza Sant’Anna di Palazzo. Tornerò con ansia e paura. Vorrei che questa città smettesse di ferire a morte, eppure so che è un’illusione. Ferire fa parte di questa terra travagliata e colma di una tale bellezza che chiunque abbia la fortuna di viverci aspira a essere felice sempre; è convinto di poterlo essere, felice. Quando si vive qui tutto sembra possibile. Anche continuare a vivere sebbene feriti a morte.

Il nuovo libro di Bernardo Secchi, “La città dei ricchi e la città dei poveri”, affronta a modo suo il tema dell'urbanizzazione mondiale diventata «potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e di loro insiemi». La Repubblica, 14 aprile 2013 (f.b.)

Nel 2001 erano sedici milioni gli americani che vivevano in gated communities. Cioè in quartieri recintati, vigilati, dotati di sorveglianza video e strutturati al loro interno come un’enclave, fornita di regole di comportamento e di funzionamento. Il 5,9 per cento delle famiglie americane. Una specie di circolo canottieri, se non fossero pezzi di città. Questo accadeva, e accade, negli Stati uniti, ma non è difficile trovare gated communities in Europa e anche in Italia. Più o meno blindati e tecnologicamente attrezzati, da noi sono spesso avvolti in una nebulosa retorica ricca di parole-feticcio come sostenibilità oppure ecocompatibilità.

Sono questi alcuni esemplari forme della città per ricchi citate da Bernardo Secchi, fra gli urbanisti italiani più intellettualmente curiosi e sensibili agli apporti di altre discipline. Il suo nuovo libro (La città dei ricchi e la città dei poveri) si iscrive autorevolmente nelle riflessioni sulla disuguaglianza crescente e che nel mondo un po’ è causa della crisi economica, un po’ ne è aggravata. La disuguaglianza si misura con i redditi, con l’accesso al sapere e anche nello spazio, nel modo in cui si struttura la città. Compito degli urbanisti sarebbe quello, scrive Secchi, di analizzare la città sotto questo profilo e di immaginare quali interventi, di architettura oppure di pianificazione, possano — auspica l’autore — ridurre le disuguaglianze.

Aumentano invece le tensioni verso la separazione. È un processo di lunga durata, un trentennio che incrocia le pulsioni individualiste, le attitudini al far da sé, a costruire gusci impenetrabili. Le forme dell’abitare hanno incorporato e reso visibili questi atteggiamenti. In Italia è stata battezzata la “città diffusa” (dall’urbanista Francesco Indovina), la città che si espande disordinatamente nei terreni un tempo agricoli e che si sovrappone (in Veneto, per esempio) alla maglia della piccola proprietà fondiaria, trasformando casali in villette e stabilimenti. Ad Anversa i ricchi si sono anche loro trasferiti nella “città diffusa” della North Western Metropolitan Area, lasciando agli immigrati il centro, a sua volta diviso come un puzzle dalle diverse comunità etnico-religiose.

È un fenomeno diverso, avverte Secchi, dallo sprawl, la dispersione abitativa tipicamente americana. Anche se sono modelli d’oltreoceano che producono la crisi del modello abitativo tipicamente europeo — Movimento moderno e socialdemocrazia insieme — costruito proprio sul tentativo generoso e spesso illusorio di ridurre disuguaglianze e separazione: modello realizzato nelle città del nord, da Stoccolma ad Amsterdam, e appena abbozzato in Italia, dove di edilizia pubblica se n’è fatta poca e quasi subito la si è lasciata deperire, neanche fosse affetta da un maleficio. La città, scrive Secchi, è stata da sempre, dagli albori della civiltà urbana, ormai cinquemila anni fa, lo spazio dell’integrazione sociale e culturale. Dell’innovazione e dello scambio.

Negli ultimi decenni del ventesimo secolo questa dimensione è andata sfibrandosi. È sorta una nuova questione urbana, che la politica e la scienza urbanistica stentano a riconoscere. La città è diventata «potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e di loro insiemi». Una potente macchina che ha fatto appello in primo luogo all’ideologia del mercato, in grado di regolare — si supponeva — tutti i processi di formazione e di trasformazione della città — ma il mercato in questi frangenti si chiama speculazione edilizia. E, in secondo luogo, a una retorica, quella della sicurezza, per cui il tessuto urbano doveva perdere ogni carattere di permeabilità e di porosità. E doveva proteggere e segregare.

Ma quali sono i dispositivi, come li definisce Secchi, che rendono una città più o meno egualitaria? Uno spazio verde è luogo di socialità e di integrazione, ma, distorcendolo, può essere concepito persino come cuscinetto di sicurezza per una gated community. Potente fattore di integrazione è un sistema di trasporti che interpreti il concetto di accessibilità come vero diritto alla città. L’importante, segnala Secchi, è che l’urbanista quando disegna parti della città sia guidato dalla «continua osservazione del quotidiano» e vada a rileggersi le lezioni di Roland Barthes intitolate Comment vivre ensemble, come vivere insieme.

Riferimenti

Sull’argomento si vedano su eddyburg: l’articolo di P. Somma”La città,luogo delle espulsioni e delle segregazioni” e gli altri scritti della medesimaautrice, l’articolo “Dualismo urbano. La città della rendita e lacittà dei cittadini” di E. Salzano, i materiali delle edizioni, 2008 e 2009della Scuola di eddyburg e i suoi libri (in particolare “Alla “ricercadella città vivibile”, e “Spaziopubblico: declino, difesa, riconquista”, rispettivamente curati da I.Boniburini e F. Bottini.

Alcune innovazioni tecnologiche, se attentamente considerate, possono davvero ribaltare in modo stupefacente l'idea di organizzazione urbana tradizionale e di economia locale. CityWire, aprile 2013 (f.b.)

Titolo originale: More Self-Sufficient Cities in a 3D Printing World – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Si è parlato tantissimo ultimamente della stampa tridimensionale e delle sue meraviglie: una tecnologia emergente che potrà riuscire a riprodurre qualsiasi oggetto, dai sublimi strumenti musicali (un violino Stradivari) agli strumenti di morte (un'arma di fuoco). Ma la stampa 3D può far molto di più che produrre oggetti: può cambiare le città del mondo, forse in modo radicale, trasformandole anche di nuovo in grandi laboratori di produzione. Da un certo punto di vista la 3D ci potrebbe riportare anche più oltre, verso un modello simile al villaggio di epoca preindustriale, quando erano il fabbro o il sarto a costruire sul posto ciò di cui si aveva bisogno, e le città erano molto più autosufficienti.

Come è possibile che questa tecnologia, oggi ancora ai primi passi, riesca a produrre cambiamenti radicali del genere? E innescare sviluppi di profondità paragonabile a quelli del vapore, delle lampadine, dell'energia atomica o dei microchip? Faccio qui riferimento alle ricerche di Banning Garrett, responsabile per l'innovazione e le tendenze globali per l'Atlantic Council, di Thomas Campbell del Virginia Tech, degli analisti alla National Defense University e molti altri. Che evidenziano sino a che punto una volta che un computer sia riuscito a riassumere strato dopo strato tridimensionalmente un oggetto – dalla chiave inglese all'iPhone – quel file poi venga spedito alla sofisticata stampante, che dista un metro, o via internet in tutto il mondo, nel giro di qualche secondo. La stampante poi riproduce l'oggetto per strati, uno alla volta, coi vari materiali. Col 3D il prodotto finale emerge in un unico processo, a differenza della manifattura tradizionale che spesso richiede costosi passaggi di produzione, lavorazione, assemblaggio di migliaia di componenti, ciascuno di provenienza diversa e lontana.

Ciò significa possibilità di produzione su richiesta, eliminazione dei grandi depositi e magazzini, eliminazione delle lunghe attese per un articolo o componente spedito da lontano. Basta un solo produttore per quantità e articolazioni infinite. Sarebbe possibile de-globalizzare l'attuale produzione e distribuzione, ridimensionando drasticamente ad esempio il sistema portuale delle navi container, o del trasporto su camion che brucia carburante attraversando i continenti. La forte dipendenza degli Stati Uniti dalle produzioni estere, specie dalla Cina, ne uscirebbe radicalmente ridotta, e in generale si ridurrebbe altrettanto l'impronta ecologica di produzione e trasporti. La 3D taglia anche scarti e uso di materiali pericolosi nelle fasi produttive, e riduce la domanda per risorse non rinnovabili, come le terre rare.

Il prezzo delle stampanti tridimensionali si è molto ridotto, al punto che qualunque inventore oggi è in grado di pensare, produrre, sperimentare, e nel caso funzioni mettere sul mercato, ogni cosa. E instaurare immediatamente un rapporto col consumatore. “Inventore, capitalista, produttore, distributore: tutti concentrati nella medesima persona”, nota Garrett. Un modello che si adatta perfettamente all'ambiente urbano, con la sua società creativa che si ritrova magari in un caffè a scambiare idee, e se c'è bisogno di qualche competenza la trova facilmente nell'università poco distante. Concetto e impianti 3D possono diventare diffusi così come succede oggi alle normali “apps” che i giovani di oggi usano e migliorano senza alcuna difficoltà. Col 3D, a differenza di quanto accade con la produzione di massa, anche il consumatore fa parte attiva del processo. E migliora il prodotto: basta pensare a una scarpa in grado di adattarsi perfettamente a chi la dovrà indossare.

Nel caso di disastri come gli uragani Katrina o Sandy, quando tutti gli impianti si bloccano, col sistema 3D li si possono rapidissimamente analizzare o riparare o riprodurre: un enorme progresso per la ricostruzione. Garrett ce ne fa un esempio particolarmente futuribile, della 3D e delle sue possibilità: un mondo di gran lunga più decentrato di quanto non sia ora, con prodotti (e personalizzazioni) del tutto locali. Alimenti prodotti in fattorie verticali, anche la carne 3D (da colture di cellule di origine animale). Un paziente ha bisogno di un fegato nuovo, ecco che questo può essere ricavato direttamente dalle sue cellule.Ma Garret aggiunge che un mondo decentrato e quindi molto resiliente, non significa rinuncia alla rete dell'economia mondiale: è ancora il villaggio globale di internet, dove dappertutto circolano le migliori idee (e i files tridimensionali).

Con tutta questa efficienza e assenza di sprechi, si riduce la dipendenza da materiali com acciaio, o titanio, si possono usare energie da fonti rinnovabili come vento e sole, a sostituire carburanti che oggi vengono importati da centinaia, a volte migliaia e migliaia di chilometri di distanza. Una visione scintillante, che senza alcun dubbio passa però anche attraverso l'inevitabile, magari drammatica, perdita dei posti di lavoro produttivi tradizionali (salvo forse le produzioni standardizzate su grosse quantità). Fra gli altri aspetti negativi, col 3D è più facile imitare, aggirare la proprietà intellettuale. Però succede raramente, che compaia una tecnologia con tante possibilità rivoluzionarie per il nostro progresso e benessere, nelle città e nei territori circostanti, in cui abiteremo nei prossimi secoli.

Dietro la maschera (già di per se bruttina) dello sfruttamento turistico dei paesaggi più pregiati si nascondeil volto orrendo del saccheggio neocolonialistico delle risorse naturali del continente più povero del mondo. La Repubblica, 12 aprile 2013
Cinema, negozi e zoo. Obiettivo: 1 milione di turisti. Pechino sfrutterà anche le materie prime ma gli ambientalisti protestano. Lo scalo dovrebbe essere pronto in due anni e sarà il più grande del sud del continente. Allarme degli ecologisti di tutto il mondo

PECHINO - La Cina costruirà un nuovo aeroporto internazionale affacciato sulle cascate Vittoria, patrimonio dell´Unesco tra due parchi nazionali di Zimbabwe e Zambia. Lo scalo sarà il più grande dell´Africa meridionale e punta ad attirare nel cuore della foresta pluviale oltre un milione di turisti all´anno. Più che un aeroporto, si annuncia un mega-centro dello shopping e del divertimento. Con centinaia di negozi, ristoranti, cinema, alberghi e uno zoo che metterà in mostra elefanti, bufali, giraffe e ippopotami per i visitatori ossessionati da foto-ricordo ad alta velocità.

L´aeroporto cinese, in mezzo al Matabeleland, scatena furiose polemiche nel continente africano e allarma gli ecologisti di tutto il mondo. Sotto accusa il nuovo potere di Pechino, che non esita a distruggere i luoghi più belli dell´Africa in cambio di materie prime, facendo affari con dittatori isolati dalla comunità internazionale. Il progetto dello scalo è stato presentato ieri nella capitale cinese e i lavori saranno ultimati entro due anni. Investendo oltre 200 milioni di dollari, finanziati dall´"Export-Import Bank of China", saranno realizzati anche 4 chilometri di superstrada per collegare le piste all´autostrada per Harare, oltre che 100mila metri di piazzole per gli aerei, 20mila metri di terminal e 5 parcheggi. Il responsabile del gruppo dello Jiangsu che si è aggiudicato i lavori, Zhu Haifeng, ha negato che le infrastrutture andranno a distruggere uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del pianeta. Le popolazioni locali, ndebele e makololo, denunciano invece l´abbattimento indiscriminato di foreste secolari, il rischio di estinzione per gli ultimi sei rinoceronti bianchi rimasti nel parco nazionale «Mosi-oa-tunya» e il pericolo di impoverimento idrico delle cascate. Gli ambientalisti stranieri sostengono che scaricare un milione di turisti all´anno tra shopping center, alberghi e visite guidate, imporrà la realizzazione di nuove centrali elettriche e un consumo d´acqua capace di abbassare la straordinaria portata di oltre 9mila metri cubi al secondo delle Victoria Falls. Pechino ha già presentato i voli diretti da 5 metropoli cinesi e ha assicurato di aver solo accettato l´invito del presidente Robert Mugabe. Lo Zimbabwe, sull´orlo del collasso economico, non spenderà un dollaro: i costi dell´aeroporto saranno coperti dalla concessione del suo sfruttamento commerciale, da licenze per il taglio di legname e da materie prime. Per i media africani l´annunciata cementificazione cinese delle cascate Vittoria è già il simbolo del neo-colonialismo di Pechino. Il luogo, che gli indigeni chiamano «il fumo che tuona», è stato scoperto dallo scozzese David Livingstone nel 1855, in pieno dominio britannico, che lo intitolò alla regina Vittoria. Da allora non ha più avuto pace. È stato minacciato da un ponte ferroviario e già oggi è preso d´assalto da 300mila turisti all´anno decisi ad ammirare un fronte d´acqua largo 1,5 chilometri e con un´altezza media di 128 metri, il doppio delle cascate del Niagara.

Il governo cinese difende il nuovo aeroporto assicurando che diventerà uno dei motori della ricostruzione economica dello Zimbabwe e che il progetto rientra in un piano più vasto di «valorizzazione dei luoghi più belli del mondo». La Cina si appresta a superare gli Usa e a diventare il primo esportatore di turisti del pianeta, mentre i cinesi hanno già conquistato il primato della spesa per vacanze all´estero. Business che il dittatore Mugabe, che a fine marzo ha incontrato in Sudafrica il nuovo leader Xi Jinping, non vuole lasciarsi sfuggire.

Tra gli africani però cresce la paura di essere riconquistati da una potenza straniera. In Zambia i minatori sono scesi in sciopero dopo che manager cinesi hanno sparato sugli operai in rivolta contro le paghe da fame, il Congo denuncia la deforestazione causata dall´"invasione gialla", in Kenya sale la protesta contro l´inquinamento dei grandi laghi, distrutti da serre e pescicolture cinesi, mentre il presidente nigeriano tuona contro il «neocolonialismo di Pechino che sfrutta le materie prime degli africani per poi rivendere a loro sottoprodotti finiti». Proprio l´aeroporto delle cascate Vittoria, secondo gli ecologisti, diventerà la pista di decollo privilegiata per l´esportazione verso l´Asia delle risorse naturali di Zambia e Zimbabwe.

A proposito del recente libro di Salvatore Settis, "Azione popolare. Cittadini per il bene comune"; un libro che rappresenta un punto di svolta, e una preziosa cerniera, tra la "cultura" e la "politica". Per ciò stesso, anche un manifesto elettorale. Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2013

Sembra un secolo fa, ma è passato solo un mese e mezzo. Prima che la plumbea autoreferenzialità del Pd e l'autismo del Movimento 5 stelle ci ributtassero nelle fauci del Caimano, c'è stato un momento in cui Dario Fo ha lanciato il nome di Salvatore Settis per la Presidenza della Repubblica, suscitando – nonostante il carattere utopico dell'idea – un grande entusiasmo nel popolo dei comitati civici. E quando Marco Travaglio ha provato a indicare la necessità di un governo civico, l'ha chiamato“un governo Settis o Zagrebelski” (Fatto, 30 marzo).

Come si spiega un simile apprezzamento politico per uno dei nostri massimi studiosi di storia dell'arte classica (e non solo), ex direttore della Normale di Pisa, e attuale presidente del consiglio scientifico del Louvre? La chiave è nell'ultimo libro di Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune (Einaudi).

Il fatto è che Settis è uscito da tempo dalla proverbiale torre d'avorio degli studi. Da storico dell'arte si è accorto che quella torre era crollata, non solo metaforicamente. E la sua martellante campagna di educazione al patrimonio storico e artistico e al paesaggio lo ha condotto in mezzo ai cittadini, fornendogli un osservatorio che manca a moltissimi dei politici di professione che da settimane si aggirano come pugili suonati. Lo straordinario successo del suo libro precedente (Paesaggio, Costituzione, cemento, Einaudi 2010) aveva condotto Settis in centinaia di incontri con un'Italia profondamente diversa da quella che occupa gli schermi televisivi. Un'Italia fatta di cittadini indignati, ma consapevoli che l'indignazione non è sufficiente: pronti non solo a protestare, contestare, denunciare, ma a impegnarsi in prima persona, affamati di conoscenza e competenza sulle quali fondare il tentativo di cambiare il Paese. Cittadini che, con un paradosso solo apparente, vogliono più, e non meno, Stato: convinti, con Piero Calamandrei, che “lo Stato siamo noi”.

È in quei mesi che Settis si è convinto che questa ondata (finita poi in parte a votare per il Movimento 5 stelle, in mancanza di meglio) non fosse 'antipolitica', ma fosse anzi 'politica' nel senso più nobile: fosse, cioè, un grande movimento popolare teso a ricostruire la polis, la città, intesa come comunità civile. L'antipolitica, per Settis, è un'altra: “L’antipolitica si confonde con l’anti-Stato, crea uno spazio vuoto (vuoto di Stato, di Costituzione, di legalità) dove presto s’insedia il più furbo, sbandierando un vacuo efficientismo. Non è di qui che può nascere l’Italia che vorremmo”. E ancora: “Antipolitica” è il predominio di chi sovrasta e calpesta la sovranità popolare, predicando l’impersonale e soprannaturale supremazia dei mercati, e asservendo a essa non solo i governi nazionali e le istituzioni europee, ma anche ogni istanza di giustizia, di libertà, di eguaglianza. Sulla scala italiana, “antipolitica”, è l’inaderenza dei politici di mestiere ai problemi del Paese, il loro divorzio dai cittadini, la loro ottusa difesa dei propri privilegi. Chi protesta contro tanta violenza, anche se a volte in modo scapigliato e informe, ha più voglia di politica di molti che la fanno per mestiere (per esempio di Berlusconi, che si è nutrito di “antipolitica” per sedurre e conquistare il Paese). Associazioni e movimenti stanno reclamando più politica, cioè una più alta, forte e consapevole voce dei cittadini”.

In pagine come questa, Settis è riuscito a guardare all'Italia di oggi con gli occhi aperti di chi è abituato a fare ricerca storica senza pregiudizi: questo gli ha consentito di vedere oltre la barriera retorica di una classe dirigente (non solo politica) che correva verso il suicidio sancito dalle ultime elezioni. E vedere come dietro quella cortina fumogena non ci fossero barbari, ma cittadini stanchi di delegare.

Le cronache delle ultime settimane mostrano che i nuovi deputati e i nuovi senatori hanno bisogno soprattutto di punti di riferimento culturale. E il libro di Settis è uno straordinario strumento di formazione a disposizione dei “cittadini per il bene comune”: un libro che media verso l'opinione pubblica italiana le punte più avanzate del pensiero giuridico ed economico mondiale, e che mostra come un progetto di rinnovamento radicale del paese sia contenuto già tutto intero nella Costituzione più rivoluzionaria e più inapplicata d'Europa.

Già, perché ”Azione popolare è diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado delle città e delle campagne, alla razzia del paesaggio, all’esilio della cultura e del lavoro, alla spoliazione dei diritti; è promuovere singole azioni di contrasto agli atti dei poteri pubblici che vadano contro il pubblico interesse, ma anche metterle in rete fra loro; è costruire una larga base d’informazione, di analisi, di consapevolezza. Vuol dire far esplodere le contraddizioni insanabili fra il dettato costituzionale e le leggi che lo ignorano e lo aggirano, tra le norme di garanzia e le deroghe e i condoni che le annientano. Vuol dire riconquistare, in prima persona, un pieno diritto di cittadinanza, in nome della moralità e della legalità costituzionale”.

Non era solo una “profezia” (il libro è uscito in novembre) di ciò che sarebbe successo alle elezioni: è anche un programma per una ricostruzione civile. Se non ora, quando?

Si allarga a iniziative culturali urbane di medio periodo l'impulso dei movimenti politici dalle primavere arabe all'Europa e Usa, con risultati e spunti di grande interesse. Il manifesto, 13 aprile 2013, postilla (f.b.)

«Le strade sono per danzare»: con questo slogan si è aperto a San Paolo del Brasile la seconda edizione del Festival BaixoCentro, una manifestazione autopromossa e autofinanziata di occupazione civile delle strade e delle piazze dell'area centrale della città con oltre cinquecento eventi di musica e teatro, danze, installazioni e laboratori creativi che il movimento BaixoCentro - una rete di attivisti e di associazioni culturali indipendenti che operano nella zona del centro paulista - ha messo in scena per portare fuori di casa i paulistani e offrire loro un'esperienza di vita urbana meno cupa e meno opprimente di quanto sia nella quotidianità di tutti i giorni.

Chi conosce San Paolo sa infatti che il centro città non è il luogo dei bistrot e dei café frequentato da intellettuali e bourgeois-bohèmes come a Parigi o nelle capitali europee; al contrario i quartieri del centro, Santa Cecília, Vila Buarque, Campos Elísios, Barra Funda, Luz, sono tra i più malridotti e disgraziati della città, luoghi del degrado e dell'emarginazione, soffocati dal traffico e ipercontrollati da telecamere e guardia civil che dopo le nove di sera diventano territorio off limits . Eppure in questi barrios della «periferia in centro» pulsa l'anima della città: dietro la fatiscenza e le polveri dell'inquinamento si intravedono eleganti edifici in stile coloniale e modernista che lasciano trasparire una bellezza d'altri tempi; ci si imbatte nelle pareti e nei muri rivestiti dai graffiti dei pixações , gli artisti funamboli che nella notte si arrampicano sulle facciate dei palazzi abbandonati per disegnare le loro meravigliose opere d'arte; si attraversano piazze coloniali con enormi piante tropicali che seppur malandate danno l'idea di trovarsi in giardini botanici pubblici. In questa «periferia in centro» si trova quella stratificazione urbana che per quanto non sia antica e di profondità, è pur sempre una stratificazione di memorie e identità che meriterebbero di essere riscoperte e valorizzate.

Ma in una città relativamente giovane, cresciuta rapidamente e oltremisura, senza regole e senza cognizione della storia e dei tempi storici (qui tutto comincia a metà Cinquecento con l'arrivo dei gesuiti), il patrimonio è un concetto astratto e la riqualificazione non è intesa come riabilitazione urbana ma come rimozione e sostituzione di quanto è scassato, non però nel nobile senso benjaminiano di uno sprigionamento di energie distruttive per costruire un mondo migliore sulle ceneri del vecchio. Nella dura realtà paulista è il mercato a dettare le regole e non meraviglia che la speculazione edilizia abbia messo gli occhi sui quartieri della città delle crepe per far fruttare i suoi interessi: diversi palazzi storici sono stati buttati giù o scarnificati per realizzare torri di uffici e appartamenti duplex o triplex che non solo sono parecchio bruttini, ma sono anche inaccessibili alle tasche dell'abitante medio del centro di San Paolo che guadagna un terzo del costo di queste nuove case.

Ma per accorgersi di tutto ciò e tentare di rimediare agli inganni del mercato c'è molto da cambiare, prima di tutto la cultura dell'abitare e la percezione dei luoghi. È con queste intenzioni che gli attivisti del movimento BaixoCentro hanno lanciato la sfida «occupy»: per ribaltare il punto di vista e promuovere «una utopia possibile, fatta per le persone e dalle persone» in contrasto con una condizione urbana vissuta come destino immodificabile. Per una decina di giorni il festival e i tanti eventi che quotidianamente sono in cartellone (basta visitare il sito www.baixocentro.org per farsi un'idea) costituiscono motivo per uscire di casa e camminare per le strade e le piazze di Cracolândia, senza la paura e l'indifferenza che caratterizza la vita della megalopoli, scoprendo quanto è bello lo spazio pubblico.

Luogo prescelto per dare inizio a questa rivoluzione copernicana è il Minhocão, la sopraelevata Costa e Silva che i paulistani preferiscono chiamare con il nome del tarlo della foresta amazzonica invece che con quello di uno dei generali della dittatura, il quale costituisce il boulevard e l'asse principale del festival. Lungo 3 chilometri e mezzo e sollevato di 3 metri e mezzo rispetto alla quota della città, il Minhocão è il simbolo dell'autoritarismo e della crudeltà urbana: la sopraelevata fu concepita e costruita negli anni della dittatura militare dagli allora sindaci della città José Vicente Faria Lima e Paulo Maluf per dare una soluzione ai problemi di traffico e di circolazione che a San Paolo erano divenuti insostenibili già negli anni sessanta, senza però tenere in alcun conto il contesto delle case circostanti: è così che il Minhocão ha tagliato in due il quartiere di Santa Cecilia passando a soli 5 metri dalle finestre dei fabbricati posti ai due lati!

Come spesso accade però, il tempo ha modificato la percezione del Grande Verme e oggi il contestato mostro urbano è diventato un «oggetto amico», grazie anche al divieto di transito notturno e alla chiusura del fine settimana che hanno permesso agli abitanti di riappropriarsene. Ogni venerdì sera una volta chiuso al traffico automobilistico, il Minhocão comincia la sua seconda vita: escono allo scoperto gli artisti di strada, i pixações i venditori ambulanti di acqua gelata e cocco e per tutto il weekend il viadotto diventa una piazza e un balcone urbano accessibile e aperto a chiunque.

A partire dagli usi informali del mostro, il movimento BaixaCentro ha pensato insieme a dei collettivi di artisti e architetti di lanciare la proposta del Parco Minhocão, un parco urbano dei divertimenti di cui è stato presentato un «estratto» durante il festival: secchiate di colore gettate sull'asfalto, strati di erba artificiale, vecchi pneumatici dei camion adattati a sedute, teli appesi alle travi e piscine gonfiabili sono serviti ad allestire uno spazio comune dove per tutta la durata del festival è possibile recarsi per fare un picnic, nuotare, giocare a calcio, vedere un film, dondolare appesi alle travi in cemento o anche semplicemente per incontrarsi. Sulla falsa riga di quanto è già avvenuto a New York con la High Line e a Parigi con la Promenade Plantée dove vecchie strade ferrate e sopraelevate dismesse sono state trasformate in passeggiate, giardini, orti urbani e piste ciclabili invece di essere abbattute, il movimento BaixaCentro ha voluto lanciare un'opa a favore della riabilitazione del Minhocão per restituire alla cittadinanza un diritto alla città e mostrare che la rigenerazione urbana non è un'imposizione dall'alto, ma un processo condiviso fatto insieme alle persone e agli abitanti.

Nella testa dei suoi ideatori, il Parco Minhocão dovrebbe infatti essere un laboratorio delle idee e della creatività da costruirsi interamente con materiali e oggetti riciclati e in modo collettivo insieme ai cittadini e soprattutto insieme agli studenti e ai bambini delle scuole della zona per riprendersi, civilmente, un luogo e uno spazio che gli interessi economici e speculativi, ancora una volta in maniera autoritaria, vorrebbero destinare alla demolizione. Il Minhocão diventerebbe così, il primo caso di parco urbano a «chilometro zero», autocostruito e autogestito, riproducibile in altri contesti e in altre situazioni urbane senza diritti di copyright. Ecco perché la vera novità del progetto Parco Minhocão (per ora solo una proposta) è il suo manuale di istruzioni, un volumetto illustrato da rendere disponibile su internet per spiegare i criteri e i metodi di assemblaggio del parco e delle sue costruzioni (pensiline, gazebi, chioschi, pavimentazioni, giochi, panchine, aree di sosta, installazioni espositive) e consentire ad altri nel mondo di copiarlo e costruirlo.

Per fortuna, il festival non si limita alla stimolante proposta di un parco urbano auto da sé; la straordinaria partecipazione della gente agli eventi del festival dimostrano che il cambiamento è possibile e che una umanizzazione dell'urbanistica è un'utopia realizzabile. Basta mettere in atto le strategie e gli strumenti giusti.

Postilla

L'aspetto forse più importante e interessante di questa, e altre, iniziative che si fregiano del marchio Occupy, diventato una specie di franchising globalizzato del progressismo, è quello di affrontare la questione urbana come merita e pretende, ovvero nelle forme articolate e complesse che corrispondono al contesto in cui si calano i singoli progetti. Con un approccio che pare collocarsi molto lontano, e per fortuna, da altre in sé pur rispettabili idee (sempre evocate, ultimamente) come quelle del riuso tradizionale di spazi e strutture, come l'ubiqua High-Line, che ormai ha scavalcato la Settimana Enigmistica quanto a tentativi di imitazione, di solito campati per aria. Le quali iniziative finta fotocopia della High-Line, altro non sono se non l'esatta riproposta, sotto mentite spoglie, del medesimo approccio solo progettuale, per nulla organico e complesso, che ha creato gli antichi problemi di mobilità, scarsa abitabilità, ingiustizia ecc. che ora si vorrebbero risolvere con la società che dilaga nei quartieri prima segregati. Ecco: si badi a non segregarli di nuovo, magari con le migliori intenzioni. Teniamolo presente, che anche gli antichi segregatori erano quasi sempre animati da sentimenti identici (f.b.)

Pianificazione e gestione urbana nella città di oggi. Da un intervento a un convegno milanese in onore di Guido Martinotti, e con qualche piccola pecca nella traduzione che notano solo gli urbanisti. Corriere della Sera, 14 aprile 2013 (f.b.)

Vorrei presentare tre modelli di realizzazione di una città aperta. Questi progetti puntano alla creazione di confini ambigui tra le diverse parti della città, generando forme incomplete negli edifici e pianificando narrative irrisolte di sviluppo.

Confini ambigui

Steven Gould attira la nostra attenzione su una distinzione importante nelle ecologie naturali tra due tipi di confini: limiti e bordi. Il limite è un confine dove le cose finiscono; il bordo è un confine dove diversi gruppi interagiscono. Sui bordi, gli organismi diventano anzi maggiormente interattivi, proprio per l'incontro di diverse specie e condizioni fisiche; per esempio, dove la sponda del lago incontra la terraferma si crea una zona attiva di scambio per gli organismi, che trovano e si nutrono di altri organismi. Non sorprende perciò constatare che l'attività di selezione naturale è più intensa proprio lungo i bordi, mentre il limite racchiude un territorio custodito, demarcato ad esempio da un branco di leoni o di lupi. Non si ammettono trasgressioni lungo i limiti: state alla larga! E ciò significa che quella stessa zona del limite è, a tutti gli effetti, priva di vita.

Prendiamo in considerazione un'altra situazione di confine, a livello cellulare, la distinzione cioè tra parete e membrana delle cellule. La parete della cellula trattiene tutto al suo interno, è analoga a un limite. La membrana della cellula, invece, è più aperta, permeabile, più somigliante a un bordo. Le differenze naturali tra limite/parete e bordo/membrane si rispecchiano nella forma edificata chiusa e aperta. La città moderna è oggi dominata dal limite/parete. L'habitat urbano è suddiviso in settori segregati dai flussi del traffico, dall'isolamento funzionale tra le varie zone destinate al lavoro, al commercio, alla famiglia, allo svolgimento delle funzioni pubbliche. La modalità più popolare dei nuovi complessi residenziali, in campo internazionale, la cosiddetta comunità recintata, porta all'esasperazione l'idea del muro che chiude e delimita. Ne consegue un minor scambio tra le varie fasce sociali, economiche ed etniche. Noi ci proponiamo pertanto di costruire un bordo/membrana, non un limite/muro.

Basta entrare in contatto!
L'esortazione di E. M. Forster ci sembrerà banale e carica di buoni propositi, ma nella pianificazione urbana essa rischia di innescare ripercussioni inquietanti. Vi darò un esempio tratto dalla mia esperienza. Qualche anno fa ho lavorato a un progetto per la realizzazione di un mercato per la comunità ispanica di Spanish Harlem a New York. Questa comunità, tra le meno abbienti della città, è situata oltre la 96a Strada nell'Upper East Side di New York. Appena sotto la 96a Strada, senza soluzione di continuità, si accede a uno dei quartieri più ricchi ed esclusivi al mondo, che si estende dalla 96a fino alla 59a Strada, un settore simile a Mayfair di Londra o al 7° Arrondissement di Parigi.

Quando ci si chiede dove possa trovarsi la vita di una comunità, di solito si punta al centro. Per rafforzare la vita della comunità, gli urbanisti si sforzano di intensificare la vitalità del centro e questo significa trascurare i margini. Pertanto il mio studio decise di realizzare La Marqueta nel centro di Spanish Harlem, a venti isolati di distanza, nel cuore stesso della comunità, e di considerare la 96a Strada come un margine morto, dove non poteva accadere nulla di interessante. E questa si è rivelata una scelta errata. Se avessimo edificato il mercato su quella strada, avremmo potuto incoraggiare ogni genere di attività che avrebbe portato i ricchi e i poveri a scambiare una qualche forma di contatto giornaliero, commerciale o fisico che fosse. Da quel giorno, gli urbanisti più scaltri hanno imparato dai nostri errori e nel West Side di Manhattan si sono sforzati di realizzare nuove infrastrutture proprio sui bordi tra le varie comunità, in modo da creare, per così dire, dei confini porosi e permeabili.

Forma incompleta
La forma incompleta incarna un credo creativo. Nelle arti plastiche, si manifesta nelle sculture lasciate di proposito incomplete; in poesia, per usare una frase di Wallace Steven, si parla della «creazione del frammento». L'architetto Peter Eisenman ha tentato di evocare questo stesso credo forgiando il termine di «architettura leggera», indicando un'architettura pensata per essere modificata con aggiunte varie o — soprattutto — con alterazioni interne nel corso del tempo, man mano che mutano le esigenze abitative. Questa forma di edificio rappresenta l'antidoto alla città sovra strutturata. La forma incompleta non è facile da disegnare, come si potrebbe supporre. Forma e funzione richiederanno collegamenti agili e leggeri, quando non vengano scisse da un vero e proprio taglio netto. La ragione è questa: man mano che la funzione di un edificio muta nel tempo, la forma riesce ad adattarsi alle nuove esigenze solo se non è stata eccessivamente pianificata, come dicevo poc'anzi.

Narrativa irrisolta
Per ultimo, prendiamo spunto dai romanzi rosa o sentimentali. Tutte le peripezie di questi romanzi trovano alla fine uno scioglimento, una catarsi appagante nella quale ogni cosa torna al suo posto, la servetta va in sposa al signore del castello. La narrativa è limpida: in termini tecnici, essa è lineare, il che significa che l'intreccio procede seguendo un susseguirsi lineare degli avvenimenti. La vita reale, ovviamente, è tutt'altra cosa: ci capitano cose che non trovano soluzione e la vita va avanti, spesso senza incontrare alcuno scioglimento appagante. Nella pianificazione urbana noi ci sforziamo di creare una narrativa nel senso stretto del termine: ci concentriamo sulle fasi di sviluppo di un dato progetto e cerchiamo di intuire ciò che accadrà per primo, per poi costruire sulle conseguenze di quella mossa iniziale.

Ma pianificare una città chiusa equivale davvero a tessere la trama di una novella sentimentale. L'urbanista ottuso vuole avere sotto mano, sin dall'inizio, tutti i risultati finali. La pianificazione della città aperta, al contrario, come in tutti i sistemi aperti che ritroviamo in matematica e nel mondo naturale, abbraccia forme non lineari di sequenzialità. Per ribadire il concetto: se uno scrittore annunciasse nelle prima pagine del suo romanzo, ecco che cosa succederà, che cosa capiterà ai personaggi, e che cosa significa questa storia, il lettore non ci penserebbe due volte a chiudere il libro. La narrativa migliore parte alla scoperta e punta a esplorare l'ignoto, l'imprevisto. L'arte dello scrittore sta nel plasmare, nel dare forma a quel processo esplorativo. Così pure è l'arte dell'urbanista.

(Traduzione di Rita Baldassarre)

Andrea Fabozzi intervista, per il manifesto del 13 aprile 2013, l'autore del piano per l'area di Bagnoli, assessore alla vivibilità nella prima giunta Bassolino: «Bagnolifutura va sciolta, è feudo dei partiti, dice l'urbanista che ha redatto il piano. E Città della Scienza va ricostruita dall'altro lato della linea di costa»

Un'amministrazione memorabile e il suo prodotto più rivoluzionario. Il ricordo della prima giunta Bassolino è legato alla variante per Bagnoli e l'urbanista che quel piano ha preparato, Vezio De Lucia, ne è il custode. Piuttosto arrabbiato. «Le responsabilità penali - dice commentando il sequestro di ieri - andranno accertate. L'inchiesta della magistratura sembra molto fondata, ma non bisogna distrarsi dalle responsabilità politiche».

Quali sono?

Bagnolifutura la società di trasformazione urbana incaricata di attuare il piano per l'area ex Italsider di Bsgnoli] ha finito con l'essere un feudo a disposizione dei partiti. È vissuta in se stessa e ha consentito alle varie amministrazioni - tutte: Bassolino, Iervolino e De Magistris, ciascuna per la sua parte - di disinteressarsi di Bagnoli. Che invece doveva essere uno dei pensieri centrali della politica napoletana. Non voglio prendermela con lo strumento in sé della società di trasformazione urbana, in qualche altro posto sul modello francese ha funzionato. Ma a Napoli ha finito col non dare conto a nessuno e nessuno le ha chiesto conto. Adesso Bagnolifutura va sciolta.

La giunta chiede altri fondi, ma la magistratura ritiene che quelli spesi fin qui siano serviti addirittura ad aumentare l'inquinamento.
È evidente che il problema non può essere ridotto a una questione di finanziamenti. Il ritardo è immane e insopportabile. Cominciai a occuparmi di Bagnoli esattamente venti anni fa. Non è possibile che sia stato fatto così poco e così male. I paragoni sono sempre difficili, ma il Guggenheim di Bilbao si è fatto, bonifica e museo, in sette anni. No, non è un problema di fondi, ma di cultura della città.

In che senso?
La città, e per essa la politica e l'amministrazione, hanno sempre visto Bagnoli con l'horror vacui. L'idea di base del grande parco pubblico e della spiaggia non è mai stata condivisa fino in fondo. Dalla classe imprenditoriale e dai costruttori, e si capisce, ma non solo. Napoli non riesce a liberarsi dalla cultura del cemento. Il parco di 120 ettari sarebbe più o meno come Villa Borghese, che fu regalata a Roma quando la città aveva poche centinaia di migliaia di abitanti. Ferrara gestisce un parco di 1.200 ettari. E invece il fior fiore dei sapienti e degli amministratori di Napoli ripete che a Bagnoli non ce lo possiamo permettere.

Eppure la gran parte dei bagnolesi, e dei napoletani, quelli che come dice uno slogan efficace hanno un costume ma non una barca, frequentano quel mare con avidità. Nonostante il fondale e le sabbie restino inquinate, e la colmata sia ancora lì.
Secondo me questo desiderio non è rappresentato e nemmeno raccolto dall'amministrazione comunale. La spiaggia pubblica non l'accettano. Secondo me, mi auguro di sbagliare ma non lo credo, si sta aspettando l'occasione per rimettere tutto in discussione. L'abbiamo visto ai tempi della Coppa America. Allora sembrava di sentire il sospiro di sollievo, «finalmente ci liberiamo dell'incubo del parco». Il punto è che la politica dovrebbe orientare la città, non può essere a rimorchio di una malintesa opinione pubblica. Se no prevale il peggio. Il primo Bassolino praticamente impose il progetto, ricordo un'assemblea sulla spiaggia nel '94 con i caschi gialli in cui annunciò che avremmo fatto lì il più grande parco pubblico della città. Non prese i fischi, temuti, ma un'ovazione. Lui, operaista, era riuscito a spiegare la nostra idea di risarcimento ai cittadini.

Realisticamente, si può ancora fare la bonifica?

Assolutamente sì. Niente è perduto, vorrei essere chiaro. L'area è ancora pubblica, il piano è ancora quello, si deve solo decidere di metterlo in atto. Una delle cose fondamentali da fare sarebbe aprire subito i fornici del ponte che collega Nisida. Adesso lì l'acqua ristagna, si dovrebbe riaprire alla libera espansione delle maree. È chiaro che così salta il porto, ma vogliamo difendere l'interesse dei napoletani e il loro diritto alla spiaggia o gli interessi di chi gestisce un porto abusivo?

Ultima domanda, Città della Scienza. Va ricostruita lì dov'è, sulla spiaggia?
Assolutamente no, per tutti i motivi che ho spiegato. Coroglio deve tornare ad esser la spiaggia dei napoletani, è questo il primo punto del nostro piano, quello in vigore. Città della Scienza crebbe grazie a un cospicuo finanziamento pubblico contemporaneamente all'approvazione della variante per Bagnoli, che non la prevede. Non poteva star lì, ma ci furono appelli di premi Nobel contro l'amministrazione di Napoli. Alla fine si firmò un accordo di programma che prevede che una volta ammortizzati i capitali investiti, Città della Scienza andava demolita e ricostruita al di là della strada. Dove già c'è una parte delle strutture. A questo punto, dopo l'incendio, non vedo il problema. Si ricostruisca più bella e più grande di prima, ma dall'altro lato della spiaggia. C'è tutto lo spazio che serve.

Tentativi di trovare una sintesi tra spazio urbano e spazio rurale: gli orti urbani come risorsa ambientale e sociale per la città globale del terzo millennio in un documentario proiettato nelle sale italiane: God Save the Green. La Repubblica Milano, 13 aprile 2013 (f.b.)

Il verde urbano raccontato con un lungo viaggio attorno al mondo, da Nairobi al Brasile, da Casablanca a Berlino, alla scoperta di orti spuntati sui tetti di grattacieli o in slum di megalopoli del Sud del mondo, coltivati in sacchi di juta o in bottiglie di plastica riciclate. È God save the green, il documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi che, distribuito dalla Cineteca di Bologna (che l´ha pubblicato in cofanetto dvd e libro), arriva in anteprima milanese lunedì sera al cinema Mexico, presenti i registi (e dal 19 al 23 aprile sarà in tenitura al cinema Beltrade).

Punto di partenza, un dato di cui poco si parla, ma dalla portata enorme: nel 2007, per la prima volta nella storia, la maggior parte della popolazione mondiale non vive più nelle campagne, ma in città. «Eppure - dice Michele Mellara - in chi vive in città rimane un bisogno prepotente di immergere le mani nella terra, scardinando ritmi e obblighi del vivere urbano». Un gesto primordiale che diventa atto rivoluzionario. Con modalità e fini diversissimi: «Per necessità di sussistenza nelle periferie degradate del Sud del mondo, come gesto artistico e provocatorio nel guerrilla gardening, tra i palazzi delle nostre città».

Un paesaggio antropologico variegato che gli autori declinano nel film - prodotto dall´indipendente Mammut Film con sostegno partecipato "dal basso" - in un mosaico di sette storie raccolte nel Nord e nel Sud del mondo, alternate a momenti di riflessione, con i versi della Terra desolata di Eliot e gli appunti ironici del praghese Karel Capek (da L´anno del giardiniere), letti dalla voce di Angela Baraldi sulle note della chitarra di Massimo Zamboni, ex Cccp.

Il viaggio si spinge in uno slum di Nairobi, dove «nel groviglio di lamiere delle baracche - racconta Mellara - non c´è spazio per coltivare, tanto più che il terreno è contaminato». Qui, Morris e la sua famiglia si sono inventati un metodo ingegnoso: hanno riempito sacchi di terra vergine della foresta appena fuori città, e nei fori nella tela grezza piantano il sukuma wiki, lo spinacio locale che sfama loro e che vendono ai vicini, racimolando pure qualche soldo.

Ancora più lontano, nella periferia di Teresina, nel poverissimo Nord Est del Brasile, un gruppo di donne ha vinto la miseria con la coltivazione idroponica, termine oscuro per una pratica semplice: piantano ortaggi in bottiglie di plastica riciclata, risparmiando acqua e spazio. In Marocco, il film va alla ricerca dell´ultimo orto rimasto a Casablanca, centro della vita della famiglia di Abdellah e della sua comunità. Ma l´orto è il centro della comunità anche per i turchi di Kreuzberg, a Berlino, mentre tutt´altro sapore, sempre a Berlino, hanno le azioni di guerrilla gardening di due giovani creativi che piantano fiori nelle rotonde, decisi a scalfire il sistema con la bellezza. Perché il verde è anche riappropriazione, e resistenza.

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