AltroVE -Rete dei comitati e delle associazioni per un altro Veneto": sbugiarda la Regione e tira le orecchie al Mibac. Ecco il comunicato dell'ufficio stampa, 7 giugno 2013
La Giunta Regionale ha recentemente approvato una “Variante parziale” al PianoTerritoriale Regionale di Coordinamento (PTRC), “adottato” nel 2009 dalla precedente Giunta Galan, al fine di attribuirgli la cosiddetta “valenza paesaggistica” prescritta dalla legislazione statale (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio -D.Lgs. 42 /2004).
Le associazioni e i comitati che da anni operano in tutto il Veneto a difesa del territorio e che già nel 2009 si erano mobilitati contro il PTRC, elaborando e presentando osservazioni sottoscritte da migliaia di cittadini, hanno ricostituito un tavolo di lavoro che si riunisce presso l’Università di Architettura di Venezia. Il loro obiettivo è di analizzare tale proposta di Variante (che, dopo la fase delle osservazioni e delle controdeduzioni, dovrà essere approvata dal Consiglio Regionale), di predisporre le Osservazioni finalizzate all’introduzione di norme cogenti per una effettiva tutela del paesaggio in una prospettiva di sviluppo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile del nostro territorio e di far conoscere a tutte le forze politiche, culturali ed economiche della Regione i reali contenuti, i limiti e le acrobazie procedurali di questo tentativo di aggiornamento del principale strumento della pianificazione e della programmazione regionale.
L’analisi sin qui condotta evidenzia purtroppo che, mentre nelle relazioni si affermano quali fondamentali principi ispiratori della Variante quelli del minor consumo di suolo e della tutela del paesaggio, nessuna norma è realmente prescrittiva a questo fine. Al di là dei titoli e delle dichiarazioni di principio, il Piano non contiene le indicazioni prescrittive, l’individuazione puntuale dei beni culturali e degli ambiti paesaggistici tutelati, dei relativi obiettivi di qualità e delle relative norme cogenti, che pure il Codice dei Beni Culturali esplicitamente richiede per conferirgli una reale valenza paesaggistica.
1. La Variante proposta non presenta affatto i contenuti necessari per assumere la prescritta VALENZA PAESAGGISTICA.
L’articolo 143 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio richiede al Piano paesaggistico di effettuare la ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’articolo 136 (ville, giardini, parchi, complessi di cose immobili di non comune bellezza...), delimitandoli e rappresentandoli in scala idonea alla loro identificazione, nonché determinando le specifiche prescrizioni d’uso.
Il piano adottato non assolve a questo compito. Ad un certo punto della relazione illustrativa si legge “Nel caso dei beni oggetto di dichiarazione di notevole interesse pubblico (art. 136 Dlgs 42/2004) è già a disposizione un primo archivio multimediale per la consultazione on-line: tale archivio, in fase di continuo aggiornamento, costituisce già un primo importante passo verso la sistematizzazione del materiale documentale inerente i circa 1000 decreti di tutela paesaggistica che rappresentano il vasto insieme dei beni tutelati ex art. 136 nel territorio regionale” (vedi allegato B, pag. 24). Ma questo archivio multimediale fa parte integrante del piano? Come fa ad essere parte di un Piano se non è completo, condiviso dal Ministero e se è in “fase di continuo aggiornamento”?
Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio “richiede” inoltre al Piano paesaggistico di effettuare la ricognizione delle aree tutelate per legge (già legge Galasso del 1985, ora art. 142 del Codice: territori costieri, fiumi, corsi d’acqua, foreste, zone d’interesse archeologico, zone umide, ecc.), delimitandole e rappresentandole in scala idonea alla loro identificazione, nonché determinando le relative prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei loro caratteri distintivi e – compatibilmente con tali caratteri – a promuovere la loro valorizzazione.
Neppure questo compito è assolto dalla Variante al piano: non sono – per esempio – rappresentati in scala idonea alla loro identificazione, i parchi e le riserve nazionali e regionali, né i territori coperti da foreste e boschi, ecc. Sempre nella relazione illustrativa (pag. 24) si legge: “Nel caso dei beni tutelati per legge (art. 142 Dlgs 42/2004), si tratta di procedere nella verifica delle perimetrazioni al fine di una loro sistematizzazione che tenga conto delle importanti relazioni ecosistemiche, storiche e sceniche che identificano la pertinenza paesaggistica del bene da tutelare”. Se si afferma che “si tratta di procedere….”, vuol dire che non si è proceduto. Detti adempimenti sono di fatto rinviati ai Piani paesaggistici d’ambito. Ma, in assenza di questi Piani, la attribuzione della Valenza Paesaggistica è solo dichiarata e non effettiva.
Va inoltre osservato che la mancata precisazione dei vincoli ope legis (ex Galasso) e la pretesa natura di validità ai sensi del Codice della "variante parziale" vanifica gli stessi vincoli già posti dalla Galasso o dai piani che la Galasso hanno recepito (come il Palav) Non solo non si completano né si aggiungono tutele, ma si sottraggono e riducono quelle che già c'erano.
A questo punto sorge la domanda: come fa la Direzione Regionale dei Beni Culturali - soggetto copianificatore, che per conto del Ministero deve sottoscrivere con la Regione il PTRC certificandone la “valenza paesaggistica” - a convenire e a dare il via libera su questa attribuzione, quando i Piani Paesaggistici d’ Ambito sono solo enunciati e rinviati, quando nessun vincolo è tracciato sulla cartografia e quando nessuna norma prescrive tutele né, tantomeno, indicazioni per il restauro dei paesaggi degradati intervenendo in tal senso in tutte le aree non vincolate ?
Nell’articolato delle nuove Norme si individuano genericamente alcune aree preferibilmente assoggettabili a progetti strategici (art. 38, Aree afferenti ai caselli autostradali, agli accessi alle superstrade e alle stazioni SFMR; art. 39, Portualità veneziana; art. 40, Cittadelle aeroportuali; art.41, Hub logistici di Verona e dell'area Padova-Venezia-Treviso; art.54, Attività diportistiche; art.63, Dolomiti e Montagna Veneta), ma di fatto la Giunta Regionale si riserva il diritto in qualsiasi momento di individuare nuovi Progetti Strategici attuabili con accordo di programma in deroga ai piani ed alle normative urbanistiche vigenti.
Ciò contrasta con quanto disposto dall’articolo 26 della legge regionale per il governo del territorio n.11/2004, da cui deriva la possibilità di utilizzare lo strumento dei progetti strategici. L’articolo 26, comma 1, della LR 11/2004 stabilisce infatti che sia il PTRC ad individuare i progetti strategici , il che sottintende una competenza del Consiglio Regionale, anziché della Giunta.
Il richiamo ai progetti strategici, soprattutto per quanto concerne la norma di cui all’articolo 38 che attribuisce alla Regione la possibilità decidere le trasformazioni urbanistiche in prossimità dei caselli autostradali e degli accessi alle superstrade, per un raggio di 2 km dalla barriera stradale, una enorme ed imprecisata quantità di ambiti territoriali, sembra di fatto principalmente finalizzato a consentire la realizzazione indiscriminata di nuovi centri commerciali (vedi anche commi 1.a e 1.b dell’art. 46 e comma 1.g dell’art. 67 delle Norme) e quindi nuove speculazioni immobiliari decisamente contrastanti con la finalità dichiarata di riduzione del consumo di suolo.
3. E’ possibile introdurre una Variante ad un Piano solo adottato nel 2009 e mai approvato dal Consiglio Regionale del Veneto ?
Sembra che la Variante venga definita come PARZIALE proprio allo scopo di eludere la necessità di predisporre e presentare un diverso e decisamente nuovo PTRC. Ma, se il fine è quello della attribuzione della Valenza Paesaggistica, senza la quale, ai sensi del D.Lgs. 42/2004, il PTRC non potrebbe mai essere sottoscritto dal Ministero per i Beni Culturali e, quindi, mai approvato, la variante sarebbe piuttosto da definirsi SOSTANZIALE.
La contraddizione non è solo in termini. Essa evidenzia invece il carattere strumentale e le finalità effettive di questa riadozione del PTRC, che sono quelle di dotare la Regione di uno strumento che è nominalmente un Piano ma che è improntato alla filosofia di Galan, fatta propria anche da Zaia, riassumibile negli slogan più volte proclamati di “nessuna norma, deciderà il mercato!” e de “il potere decisionale e la gestione vanno delegati al governo regionale”, che tratterà caso per caso direttamente con gli operatori immobiliari, come già sta avvenendo per Veneto City, per il Quadrante Tessera, per Verona sud e più recentemente per il Palais Lumiére. Il vero obiettivo è di assolvere nominalmente all’obbligo della attribuzione della Valenza Paesaggistica e di strappare al Ministero per i BB.CC. il necessario nulla-osta , per avere poi, una volta delimitate le sole aree già vincolate a norma di legge, mano libera sul restante 90 % del territorio regionale.
Sono queste alcune delle ragioni di fondo che ci inducono a denunciare l'inadeguatezza, la sostanziale non rispondenza e quindi l'illegittimità della Variante adottata alle norme di legge ed alle stesse finalità dichiarate.
. Un'inammissibile forzatura: subito una pista per gli aerei invece del parco. 7 giugno 2013
Il garante della comunicazione della Regione Toscana, prof. Morisi, il 6 e 7 dicembre scorsi ha organizzato un focus sul procedimento di adozione dell’integrazione del Pit (Piano di indirizzo territoriale della Regione Toscana), la seconda partecipatissima giornata verteva su “Parco agricolo della piana e qualificazione dell’aeroporto di Firenze-Peretola”. In quella sede è emersa in maniera approfondita e articolata l'incongruenza tra i due indirizzi: il parco agricolo non è compatibile con la nuova pista. Gli interventi dei tecnici, amministratori locali e associazioni lo hanno evidenziato chiaramente; il rapporto è consultabile su www.parcodellapiana.it.
Le ragioni sono molteplici, di carattere idrogeologico, ecologico, urbanistico, sanitario. Più in generale si può immediatamente intuire che il criterio ordinatore del parco agricolo, pensato per riorganizzare la Piana secondo criteri di compatibilità urbanistica, sociale e ambientale, è diametralmente opposto alla logica sviluppista del potenziamento aeroportuale. Tanto più che lo sviluppo, persino quello buono, è svanito e la Piana è già gravata da pesantissime scelte passate e paventate: area Fondiaria/Ligresti, inceneritore di case Passerini, terza corsia A11, scuola Marescialli, Polo scientifico (realizzato in deroga alle opere idrauliche che avrebbero dovuto compensare impermeabilizzazione e obliterazione del reticolo idraulico).
Sul piano della razionalità la scelta è obbligata, in ottica regionale, per la prossimità dell'aeroporto di Pisa: Peretola ha vocazione essenzialmente turistica e sarebbe naturale pensare ad una integrazione gestionale e modale tra i 2 aeroporti e la linea ferroviaria che li unisce, invece di creare concorrenza tra loro e tra treno e aereo. In ogni caso Peretola non sarà mai adeguato ai grandi numeri dei voli low-cost, fortunatamente, avendo Firenze caratteri diversi da Disneyland e trovandosi la cupola del Brunelleschi a 5 Km dal chek in.
Non sono poi eludibili le difficoltà per la realizzazione della nuova pista: andrebbe ad interrompere il collettore idraulico (con alternative ancora non individuate), stravolgerebbe l'assetto infrastrutturale dell'intera area, sarebbe il colpo di grazia per l'oasi di Focognano e le aree umide classificate come ANPIL (aree naturali protette), produrrebbe un incremento dell'inquinamento chimico e acustico su di un area densamente abitata. Tutto ciò avrebbe un impatto e un costo che pare difficile possa superare il vaglio di una corretta valutazione ambientale, sanitaria ed economica.
Rossi trovi quindi la sua traiettoria, scelga tra l'attenzione per le documentate istanze delle componenti sociali e il parco agricolo oppure l'autismo politico e l'aeroporto.
«Il popolo della sinistra chiede dappertutto una politica che le viene negata. E perciò diserta o rinnega i simboli che dovrebbero rappresentarla quando questi non corrispondono alla politica attesa». Questa la ragione ragioni del successo di Ignazio Marino nelle elezioni comunali a Roma, e per questo occorre votare per lui al ballottaggio . Il manifesto, 4 giugno 2013
Uno stile di vita che dovrebbe essere più promosso, perché è estremamente salutare anche per il territorio e le economie locali. La Repubblica, 4 giugno 2013, postilla (f.b.)
«Dovremmo diventare tutti vegetariani? » si chiede l’editoriale di oggi su Jama, il Journal of the American Medical Association. Ad ascoltare la voce dei numeri, la risposta giusta sembrerebbe sì. Chi elimina completamente la carne dalla dieta si ammala di meno e vive di più, conferma lo studio su 70 mila persone pubblicato dalla rivista medica. E chi a frutta e verdura associa il pesce vede migliorare ulteriormente la propria salute. La dieta senza carne permette di schivare soprattutto le malattie cardiovascolari, ma anche il diabete e — novità mai emersa in studi precedenti — l’insufficienza renale.
Secondo il rapporto Eurispes di febbraio, il 4,9% degli italiani è vegetariano e l’1,1% vegano. Le due categorie sono cresciute del 2% rispetto a un anno fa. Le motivazioni per evitare la carne nel nostro Paese sono soprattutto ideologiche (sensibilità per la sofferenza degli animali). Ma sui benefici per la salute di questa scelta le prove si vanno accumulando di anno in anno. I vegetariani, spiega oggi Jama, hanno un rischio di ammalarsi e morire nel prossimo anno di vita ridotto del 12% rispetto a chi mangia carne. Scavando nella categoria, si osserva che la dieta di frutta, verdura e pesce dà la protezione massima: meno 19% del rischio. I vegani si piazzano al secondo posto con un meno 15%. Aggiungere uova e latte abbassa il rischio al 9%. E una dieta vegetariana non rigorosa, con un piatto di carne alla settimana, assottiglia il beneficio all’8%.
A godere di più per la dieta di frutta e verdura è il cuore. I dati sulla riduzione del cancro sono invece modesti. E l’allungamento della vita si fa sentire più sugli uomini che non sulle donne, già gratificate da una vita media più lunga. I ricercatori della Loma Linda University in California sono arrivati a questi risultati seguendo 73 mila volontari canadesi e statunitensi, che per sei anni hanno compilato dei questionari sulla loro alimentazione quotidiana. Tutti gli individui del campione appartengono alla confessione degli avventisti delsettimogiorno.Ingenereiricolpiti
cercatori preferiscono studiare coorti con un background socioculturale omogeneo perché ritengono che i comportamenti siano più simili e i risultati abbiano meno distorsioni.
Nel caso degli avventisti, i vegetariani tendono a essere più longevi dei mangiatori di carne. Hanno anche un livello di istruzione mediamente superiore e sono più attenti alla salute: non bevono, non fumano e praticano sport regolarmente. L’effetto positivo della dieta a base di frutta e verdura potrebbe confondersi fra gli altri comportamenti virtuosi della categoria. E i ricercatori guidati da MichaelOrlichsonoiprimiadammettere: «La dieta vegetariana è associata a una ridotta mortalità. Ma non è ben chiaro se la relazione sia di causa ed effetto». Che ridurre la carne, soprattutto quella rossa, faccia bene (specialmente al cuore) è comunque un’osservazione assodata da tempo. In Europa è in corso uno degli studi più vasti del mondo, che si chiama Epic e coinvolge 520 mila persone in dieci Paesi. L’ultimo risultato, pubblicato dall’università di Oxford, è che il rischio di essere da un infarto nel corso della vita si riduce di un terzo mangiando solo frutta e verdura. A settembre dell’anno scorso era stata la rivale Cambridge a pubblicare uno studio sul British Medical Journal.
Vi si calcolava che ogni 50 grammi in più al giorno di carne rossa o processata aumenta il rischio di ammalarsi di cuore del 42%, di diabete del 19% e di tumore all’intestino del 18%. Ma la carne non è l’unica fonte dei guai di salute, ricorda nell’editoriale di Jama Robert Baron, professore di medicina all’università della California di San Francisco e vegetariano della prima ora (cioè dagli anni 70). «Sulla quantità ideale di carne da includere nella dieta il dibattito è aperto. Ma nessuno dubita che vadano evitati bevande zuccherate, cereali non integrali, grassi saturi e transaturi».
Postilla
Come insegnano infiniti studi, locali e non, legati alla cosiddetta dieta delle cento miglia o del suo equivalente territoriale chilometro zero, c'è un rapporto concreto diretto fra organizzazione spaziale e ciò che finisce sulla nostra tavola, semplicemente mediato dalla nostra capacità o possibilità di investire tempo, denaro, risorse nella modifica di tale rapporto. Il risultato finale, oggi perverso, di questa relazione, è il fatto che una dieta a base di prodotti del ciclo alimentare industriale globalizzato (carni rosse, cibi lavorati, merendine ecc.) costa assai meno al portafoglio di quanto non accada per i prodotti, poniamo, dell'agricoltura periurbana locale, della trasformazione artigianale, di tutto quanto insomma risulta integrabile entro un equilibrio territoriale ragionevole. Ad esempio quello che si delinea quasi sempre nelle discussioni sul contenimento dell'urbanizzazione e del consumo di suolo. Di cui il ciclo dell'allevamento intensivo è uno dei principali nemici, e rammentiamo sempre che allontanare il problema (in Amazzonia o simili) finisce per aggravarlo, e le produzioni del ciclo di allevamenti locali sono ben lontane dal garantire il genere di consumi attuali. Forse dire che mangiare carne fa male al territorio più che guidare un Suv può risultare schematico, ma si avvicina molto alla verità (f.b.)
Da un gruppo di amici di eddyburg, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, Luca De Lucia, Antonio di Gennaro, Edoardo Salzano, Giancarlo Storto, una proposta di legge statale, essenziale e rigorosa, per contrastare nell’immediato il consumo di suolo da dissennata espansione dell’urbanizzato. 3 giugno 2013
Relazione
Ricerche convergenti evidenziano come ogni anno, in Italia, si urbanizzano 35.000 ettari di suolo agricolo e forestale, una superficie pari a 4 volte quella di una città come Napoli (MIRAF, 2012). I tre quarti della crescita urbana interessano le pianure fertili del paese: si tratta di aree strategiche per la sicurezza alimentare della nazione (il tasso di auto approvvigionamento alimentare dell’Italia è attualmente, secondo i dati forniti dal MIRAF, intorno all’80-85%), a più elevata capacità produttiva, sovente caratterizzate da aspetti rilevanti di rischio idraulico e di fragilità ambientale. Un aspetto preoccupante del fenomeno, quando analizzato alla scala geografica nazionale, è che se da un lato la crescita urbana tende a concentrarsi, in termini di valori assoluti, nelle regioni a più elevato tasso di urbanizzazione (Lombardia, Emilia Romagna, Campania, dove si è prossimi o si è superato il valore del 10% della superficie territoriale), i tassi più alti di crescita urbana si riscontrano invece in regioni “insospettabili”, nelle quali il territorio e il paesaggio rurale si presentano più integri, come per esempio la Basilicata e il Molise (ISTAT, 2012), dove appaiono particolarmente attive le dinamiche di dispersione insediativa.
Il ritmo vertiginoso della nuova edificazione in territorio agricolo e nello spazio aperto è stato determinato in particolare da due fattori: da una parte, l’abbandono di un patrimonio sempre più vasto di immobili (privati e pubblici) dismessi, sottoutilizzati, variamente degradati; dall’altra, la realizzazione di nuovi insediamenti a bassa e bassissima densità. Basta citare alcuni dati relativi al comune di Roma, dove ammonta a circa 15 mila ettari, un quarto della città costruita, la stima della superficie urbanizzata da rigenerare (G. Caudo, 2013), e dove sono state realizzate nuove espansioni con densità insediative irrisorie (13 abitanti ad ettaro, W. Tocci, 2008), da borgo rurale e non da città europea.
La presente proposta intende contrastare questa drammatica situazione attraverso rigorose norme statali, immediatamente efficaci, che consentano di bloccare il consumo del suolo, avviando contemporaneamente un’azione a vasta scala di recupero e rigenerazione del patrimonio immobiliare abbandonato e di miglior uso delle aree edificate a bassa densità. È appena il caso di chiarire che la strategia proposta non va confusa con il cosiddetto sviluppo zero. Siamo pienamente consapevoli che i bisogni da soddisfare in Italia sono ancora enormi, anche se diversi da luogo a luogo, e sarebbe insensato pensare di limitarli: le disponibilità di spazio all’interno del territorio urbanizzato consentono di far fronte tranquillamente a ogni necessità.
È apparso invece opportuno e convincente indicare – all’art. 1 della proposta – che la salvaguardia del territorio non urbanizzato, in considerazione della sua valenza ambientale e della sua diretta connessione con la qualità di vita dei singoli e delle collettività, costituisce parte integrante della tutela dell’ambiente e del paesaggio. In quanto tale, la relativa disciplina rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione. Questo cambio di prospettiva, che si traduce in una significativa compressione delle competenze legislative delle regioni, è giustificato dal valore collettivo che tali porzioni di territorio hanno assunto non solo per i singoli e le collettività di oggi ma, in una logica di solidarietà intergenerazionale, anche per quelli di domani.
L’art. 2 fornisce – al comma 1 – un’essenziale definizione del territorio urbanizzato formato da centri storici ed espansioni recenti. Mentre – al comma 2 – il territorio non urbanizzato è articolato in tre segmenti: aree naturali, aree agricole, aree incolte. Il comma 3 rappresenta il nucleo centrale della proposta consentendo interventi di nuova edificazione esclusivamente nell’ambito delle aree urbanizzate. L’eccezionalità di eventuali deroghe – al comma 4 – è resa evidente dall’aver subordinato il loro assentimento ad appositi provvedimenti, caso per caso, dei consigli regionali.
L’art. 3 – al comma 1 – fissa in 120 giorni il termine entro il quale i comuni provvedono con deliberazione consiliare a perimetrare il territorio urbanizzato e stabilisce – al comma 2 – termini e procedure per l’esercizio dei poteri sostitutivi regionali in caso di inadempimento.
Infine, l’art. 4 abroga l’infelice norma del 2007 che aveva consentito di utilizzare gli oneri di urbanizzazione della legge Bucalossi anche per la spesa corrente, norma che ha operato come un formidabile impulso all’indiscriminata incentivazione dell’attività edilizia.
Articolato
Art. 1 (Tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali)
1. La salvaguardia del territorio non urbanizzato è parte della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s) della Costituzione.
Art. 2 (Territorio urbanizzato)
1. Il territorio urbanizzato di ciascun comune è costituito da:
- centri storici, comprendenti anche l’edilizia circostante realizzata fino alla caduta del fascismo;
- espansioni recenti edificate con continuità a fini residenziali, produttivi, commerciali, direzionali, infrastrutturali, di servizio, ivi compresi i lotti interclusi dotati di urbanizzazione primaria.
2. Non rientrano nel territorio urbanizzato:
- le aree naturali o in condizioni di prevalente naturalità;
- le aree ad uso agricolo, forestale, pascolativo;
- le aree incolte o in abbandono.
Dette tipologie di aree non rientrano nel territorio urbanizzato ancorché site all’interno di esso, o quando includenti edificato sparso o discontinuo, o borghi e piccoli insediamenti presenti nel territorio rurale.
3. A seguito della perimetrazione di cui all’art. 3, le trasformazioni insediative o infrastrutturali che comportano impegno di suolo non edificato sono consentite esclusivamente nell’ambito delle espansioni recenti come definite al comma 1.
4. Eventuali deroghe sono singolarmente autorizzate con provvedimento del consiglio regionale.
Art. 3 (Perimetrazione)
1. Entro 120 giorni dalla pubblicazione della presente legge, i comuni provvedono con deliberazione del consiglio a perimetrare il territorio urbanizzato.
2. In caso di mancato adempimento, le regioni interessate provvedono, previa diffida, nel termine dei successivi 120 giorni.
Art. 4 (Abrogazione di norme)
1. Il comma 8 dell’articolo 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 è abrogato.
Intervista a Rodrigo Basilicati, nipote di pierre Cardin: presentando le sue creazioni di mobili e soprammobili rilancia il progetto di torre sul bordo della Laguna e si propone come salvatore dell'Ilva e fornitore di megasoprammobili in Cina e in Sudamerica. L'Huffington Post, 3 giugno 2013
Avete annunciato di voler utilizzare l’acciaio dell’Ilva per costruire il Palais Lumiere…
Sì, ce ne serviranno circa 100mila tonnellate. E questa potrebbe essere la chiave per salvare l’Ilva di Taranto. Vorrei parlare a giorni con il Ministro allo sviluppo economico Flavio Zanonato per definire i dettagli ma soprattutto per capire la fattibilità dell’operazione.
Ci sono altre ragioni della scelta?
La scelta dei progettisti è stata dettata anche dalla comodità. Ci servirà acciaio di prima qualità e quello dell’Ilva lo è. In più non va sottovalutato che l’acciaio potrebbe arrivare ad appena 200 metri dal palazzo, velocizzando l’andamento dei lavori.
In che modo? Ad un passo da quello che sarà il basamento del palazzo c’è una sede ricettiva dell’Ilva. L’acciaio potrebbe arrivare lì ed essere lavorato al di là del canale, in Fincantieri. La nostra idea è di impiegare il più possibile aziende del posto e in questo modo la nostra volontà sarebbe rispettata.
Quanto manca al via libera di tutta l’operazione Palais Lumiére?
Speriamo poco. Proprio due giorni fa ci siamo incontrati con i rappresentanti della Regione per definire le ultime procedure e il nuovo cronoprogramma.
Cosa manca?
Ci sono diversi passaggi burocratici che mancano. Il primo è la firma dell’accordo di programma che vede sei istituzioni coinvolte. Da quel momento ci vorranno 180 giorni a partire coi lavori. Chiediamo che venga chiuso entro giugno o saremo costretti a rinunciare.
Perché?
Per ottenere il credito dalle banche ci vuole tempo. I tempi sono già stretti ora, ma conosciamo bene gli istituti di credito cui ci rivolgeremo, quindi c’è ancora margine.
Chi sono?
Gli istituti bancari che dovrebbero finanziare il Palais saranno 6 o 7, tutti extra europei, una su tutte la Bank of China. Stanno aspettando che tutta la trafila burocratica sia conclusa, però, prima di concederci un incontro per valutare la nostra proposta.
Un gatto che si mangia la coda insomma.
Sì, una spirale di garanzie richieste per partire che rallenta ormai da mesi i passi avanti. Ma è normale, accordi di questo tipo per opere di questa dimensione e questo calibro qui non sono frequenti, di paragonabile c’è solo il Mose forse, è normale un rallentamento.
E dal lato finanziario?
Il progetto finanziario che abbiamo fatto regge. La Kpmg ne ha fatto una valutazione positiva. Di questi tempi un’opera di questo valore senza garanzie di copertura non verrebbe nemmeno presa in considerazione ma le garanzie immobiliari di Pierre Cardin sono ampiamente superiori a quelle richieste da chiunque.
Anche voi però di recente avete chiesto nuove garanzie
Sì, chiederemo una proroga del diritto di recesso sull’acquisto dei terreni ai cinque proprietari di quel 51%. Si tratta di una spesa importante che incide per il 10% del costo totale dell’opera. Non possiamo certo acquistare i terreni se poi il Palais non si farà.
Se non ci sarà il via libera cosa farete?
L’abbiamo già spiegato qualche settimana fa. Ci hanno cercato, per costruzioni simili da Rio de Janeiro, da Macao e dalla penisola di Hainan, in Cina. A Macao vorrebbero mettere una coppia di torri uguali a quella del progetto veneziano, in un’area di 70 ettari già libera. A Rio si tratterebbe invece di una torre sola che dovrebbe servire come ricettività per le olimpiadi del 2016. Con loro abbiamo già avviato un percorso e ipotizzato un accordo. Nella penisola di Hainan la zona è ancora più ampia: 200 ettari, nella capitale, per costruire una serie di torri la richiesta arriva dalla compagnia aerea di bandiera.
Quindi ve ne andrete
Pierre Cardin vorrebbe che la sua torre fosse qui a Venezia. Ma non saremo certo noi ad insistere. Alla peggio Pierre Cardin non verrà più in questa città, l’ha detto ironicamente ma lo farà. Rispetto a due settimane fa però le cose sono cambiate, ho visto molto interesse da parte delle istituzioni, ormai ci incontriamo settimanalmente. Penso perciò che le cose si stiano sistemando, comincio a vedere la luce in fondo al tunnel. A questo punto noi vorremmo solo partire. Pierre Cardin, fin da subito aveva detto che la sua priorità erano i tempi di realizzazione, che sarebbero dovuti essere fulminei.
«Dovremmo preoccuparci della “rimozione collettiva” tanto dell’estetica, quanto dell’etica dall’orizzonte della nostra modernità che ci ha trasformato in vandali . Pretendere che vi siano “paesaggi perfetti, in una società piena di imperfezioni” porta solo le minoranze più avvedute a grandi frustrazioni, ad aumentare la “tristezza infinita di chi non vede vie d’uscita"»
Francesco Vallerani, Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento, Edizioni Unicopli, pp191, Euro16,00)
Cinquant’anni fa accadevano casualmente dei fatti che rendono il 1963 un anno cruciale per la storia del rapporto tra esseri umani e ambiente nel nostro paese. Il 9 ottobre il monte Toc franava sull’invaso idroelettrico del Vajont provocando la morte di 1910 persone. Giusto un mese prima, Le mani sulla città di Francesco Rosi veniva premiato con il leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia. Nella primavera, la segreteria nazionale della Dc sconfessava e affossava definitivamente la proposta di riforma di nuova legge urbanistica dell’ex ministro Fiorentino Sullo che prevedeva la possibilità di esproprio delle aree edificabili, separando diritto di proprietà dal diritto di edificazione. Sempre quell’anno, per merito della casa editrice Feltrinelli, usciva in italiano Silent Spring di Rachel Carson, il libro capostipite dell’ambientalismo scientifico che raccontava gli effetti persistenti del DDT sugli ecosistemi. Insomma, eventi apocalittici rivelatori e conflitti politici dirimenti aiutavano l’Italia ad uscire dall’ubriacatura collettiva degli anni del miracolo economico postbellico e ci facevano prendere coscienza delle ingiustificabili follie devastatrici di un non-modello di sviluppo “estrattivista” - diremmo oggi - asservito agli interessi della rendita. Tra speranze di cambiamento (il centro-sinistra) e successivi disastri (la frana di Agrigento e l’alluvione di Firenze e Venezia nel 1966, ad esempio), nulla cambierà fino ai nostri giorni. Anzi, gran parte della finanziarizzazione dell’economia iper-neo-liberista ha come unico “sottostante” il mattone e le grandi opere. Il nostro era e resterà “il paese della metastasi cementizia”, dello sprawl urbano, della città diffusa, dell’“espansione per adduzione continua”… tanto da finire per essere governato dal più noto immobiliarista formatosi nella Milano da bere.
Francesco Vallerani (Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento, Unicolpi, pp.191, 16,00 Euro) non lo dice, perché pensa che “i discorsi scientifici” abbiano scarsa efficacia nel convincere le persone a cambiare il mondo, ma in questa sede (per tenere i piedi per terra, non solo in senso materialistico filosofico!) è bene ricordare ancora una volta che dal 1956 al 2010 il territorio urbanizzato in Italia è passato da 170 metri quadrati di suolo per abitate a 343: raddoppiati. Il 6,9% del suolo nazionale consumato contro il 2,3% della media europea (stime dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Un vero primato negativo! I dati del Rapporto di Ambiente Italia sono ancora peggiori: abbiamo lastricato il 7,6% del suolo. In Lombardia il 15%, in Veneto l’11%. Le conseguenze le conosciamo bene: la maggior parte dei comuni è costretta a convivere con frane, inondazioni, smottamenti, erosione, perdita di fertilità e quant’altro.
La domanda che ci si deve porre è allora: come è stato possibile oltrepassare il punto di non ritorno del degrado ambientale in un paese in cui le valenze naturali, storiche, paesaggistiche e culturali non hanno pari al mondo? Com’è possibile che il più miope calcolo utilitaristico, l’egotismo proprietario sia riuscito a prevalere incontrastato su ogni altro motivo di interesse collettivo, non direttamente e immediatamente monetizzabile [p.43]? E non possiamo dire che siano mancati “profetici allarmi” e le denuncie civili di tanti straordinari osservatori e “viaggiatori”. Il capitolo centrale del volume di Vallerani ripercorre le avvincenti scritture di molti autori che costituiscono una sorta di “Accademia dei Sofferenti per il Paesaggio”, “quasi un genere letterario” [p.87] specifico: Guido Piovene, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Lucio Mastronardi, Guido Ceronetti, Giorgio Bassani, Leonardo Borgese, Antonio Cederna, Andrea Zanzotto fino a Paolo Rumiz. Oltre a Calogero Muscarà, Eugenio Turri, Marcello Zunica ed altri geografi di professione, colleghi dell’autore. E poi gli urbanisti come Alberto Magnaghi, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia. Intellettuali di punta come Salvatore Settis. Se non sono bastate le loro pagine a convincere l’opinione pubblica, ad alfabetizzare le classi dirigenti, a formare amministratori dignitosi…quale altra via seguire?
Il lavoro di Francesco Vallerani ci suggerisce di guardare al mondo in un modo diverso - almeno questo è l’effetto straordinario che la lettura del suo libro ha avuto in me. Non dovremmo tanto lamentarci e dolerci per la perdita di bellezza, funzionalità, salubrità dell’ambiente che ci circonda, quanto piuttosto dovremmo preoccuparci dell’impoverimento psichico e culturale che tutto questo provoca nel nostro stesso vivere, dell’ottundimento delle nostre capacità percettive del bello e del buono. Non dovremmo disperarci nel tentativo di salvare qualche pezzetto di paesaggio brutalizzato, ma dovremmo piuttosto preoccuparci della “rimozione collettiva” tanto dell’estetica, quanto dell’etica dall’orizzonte della nostra modernità che ci ha trasformato in vandali [p.40]. Pretendere che vi siano “paesaggi perfetti, in una società piena di imperfezioni” porta solo le minoranze più avvedute a grandi frustrazioni, ad aumentare la “tristezza infinita di chi non vede vie d’uscita” [p.28].
Il bravo geografo, allora, deve saperci aiutare a riconoscere e a prendere consapevolezza dei nessi che legano le persone ai luoghi. Non solo la bellezza - questo è il compito del paesaggista. Non solo la funzionalità biotica - questo è mestiere dell’ecologo e del naturalista. Non solo la razionalità - questo è l’urbanista. Serve un approccio “transdisciplinare”, olistico, e serve, soprattutto, una sensibilità particolare per le condizioni esistenziali del vivere quotidiano degli uomini e delle donne che popolano i territori martoriati dalle ruspe e dalle betoniere. Il “geografo umanista” è quello che riesce a creare un dialogo empatico tra la gente dei luoghi e i luoghi della gente. Per riuscirci dovrà sviluppare tecniche di “osservazione partecipata”, dovrà inevitabilmente farsi “coinvolgere emotivamente” e, soprattutto, scegliere di essere di parte; quella di quanti vengono espropriati e sradicati dalla violenza delle trasformazioni urbane lineari, incrementali. Vengono in mente le metodologie messe a punto dagli urbanisti della Scuola territorialista per l’elaborazione dei Piani paesaggistici (previsi dalla Convenzione europea) o dei Contratti di fiume attraverso le “mappe di comunità” costruite con la partecipazione attiva degli abitanti. Vallerani, non a caso, fa parte di quella piccola schiera di “consulenti di parte” di quella miriade di “comitati emergenziali” locali, associazioni, movimenti che presidiano e si battono quotidianamente a difesa del territorio: i mille NoTav d’Italia. Per il suo precedente lavoro, Il grigio oltre le siepi, che documentava puntualmente le devastazioni in Veneto, è stato minacciato e costretto a difendersi nei tribunali dagli avvocati del “partito del cemento”.
La sfida del geografo è quindi quella di superare l’indifferenza e la rassegnazione che troppo spesso rendono le popolazioni passive. Deve mostrare come “il paesaggio sfregiato produce disagio e angoscia”, che i “traumi geografici” (non solo i dissesti idrogeologici e gli eventi calamitosi, ma anche la cancellazione di valenze storiche e paesaggistiche) si traducono in “disagi esistenziali e psicologici”, in “inconsapevole disperazione”. Il moderno “labirinto oscuro delle geografie dell’angoscia” [p.20] in cui siamo costretti a vivere malamente ricompensati dalla promessa di consumi più copiosi (più ore da passare in automobile, più centri commerciali, più cibo spazzatura e merci usa e getta), influenzano la quotidianità del vivere e generano “affettività negative” [p.67], comportamenti compulsivi, competitivi e aggressivi. Più dolore. E, come in una spirale perversa, il dolore deprime, smarrisce le facoltà cognitive, conduce alla “dissoluzione fisica e affettiva dei rapporti della gente con le dinamiche ecosistemiche” [p.19].
Se il paesaggio è indubbiamente un bene comune (come lo può essere lo spazio, l’etere e l’atmosfera, ma anche la storia e la memoria collettiva, il genius loci che anima i luoghi), allora è tempo di bandire le timidezze e di iscrivere anche il diritto alla bellezza per tutti, anche per i commoners, nell’agenda di chi, “senza false nostalgie per una arcadica eredità romantica”, desidera cambiare per davvero il presente stato di cose. Vallerani ci dimostra che è possibile immaginare “altre geografie”, “recuperare il senso di appartenenza ai luoghi”, “avviare una ricucitura sentimentale con i territori della quotidianità” [p.36] .
La proposta di legge Ac/70, (ovvero la "minaccia Realacci") in discussione alla Camera, su «Contenimento dell’uso di suolo e rigenerazione urbana»: grande ritorno della filosofia di Maurizio Lupi e dello sprawl come scelta di vita, e giù gli argini all'eapansione infinita della "città della rendita" .La Repubblica 1 giugno 2013
LUPI in salsa ecologica: questo il senso della proposta di legge Ac/70, in discussione alla Camera, su «Contenimento dell’uso di suolo e rigenerazione urbana». Bel titolo: peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Riassunto delle puntate precedenti: nel 2008 Maurizio Lupi propone una legge dove il suolo ha mera vocazione edificatoria, senza la minima attenzione per la tutela del paesaggio, l’agricoltura, l’assetto idrogeologico.
Una concezione panurbanistica, in nome di “diritti edificatori” commerciabili; ma la proposta cade in un coro di proteste. Nel 2012 Mario Catania, ministro dell’Agricoltura nel governo Monti, presenta una legge sulla «Valorizzazione delle aree agricole e contenimento del consumo di suolo », che contiene due principi assai positivi: la riduzione del consumo dei suoli agricoli e la disciplina degli oneri di urbanizzazione (da destinarsi solo alle opere di urbanizzazione, secondo l’originaria norma Bucalossi, e non alla spesa corrente). Proposta caduta con la fine della legislatura. In che rapporto con questi “precedenti” è la proposta di legge Ac/70? Essa è totalmente dissociata non solo dal suo titolo, ma anche dalla relazione introduttiva.
La relazione, infatti, richiama il ddl Catania e ricorda i dati terrificanti (Istat, Ispra, Wwf) sul consumo di suolo in Italia, le misure di contenimento di altri Paesi, la risoluzione europea che impegna il governo a norme urgenti di analogo segno, il consenso dell’Ance (associazione dei costruttori) a un radicale cambio di rotta verso la riqualificazione degli immobili. Il testo della legge è fedele a queste premesse solo in minima parte ma per il resto non fa che rilanciare la legge Lupi. Dall’articolo 9 della proposta Lupi derivano, infatti, i «diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica », commerciabili senza limiti, nonché incrementati da ulteriori “premia-lità, compensazioni e incentivazioni”. Targata Lupi è anche l’idea che i Comuni, in cambio di aree per l’edilizia sociale, attribuiscano ai privati ulteriori «quote di edificabilità», per giunta trasferibili a piacere, perfino fuori Comune.
Nella proposta Ac/70, «il suolo non edificato costituisce una risorsa il cui consumo (...) è suscettibile di contribuzione » (articolo 1), e infatti gli oneri di urbanizzazione restano tal quali, anzi basta moltiplicarli per quattro (se l’area è «coperta da superfici naturali o seminaturali») o per tre (se si tratta “solo” di suoli agricoli), e il miracolo è fatto: qualsiasi territorio diventa edificabile, e i relativi diritti possono essere sommati e trasferiti ad libitum.
Ben lungi dal limitare il consumo di suolo, la norma lo consacra traducendolo in un sovraccosto. Infine, istituisce i «comparti edificatori», mostruosa neoformazione dell’articolo 5, una sorta di consorzio dei proprietari privati di un’area determinata, che presentano poi al Comune «il piano urbanistico attuativo riferito all’intero comparto»: una vera e propria privatizzazione della pianificazione territoriale.
Ecco i primi frutti dell’ascesa di Lupi al ministero- chiave delle Infrastrutture. Se questa legge da Lupi l’avesse firmata lui, tutto regolare; ma a presentarla è Ermete Realacci, lunga storia in Legambiente, oggi presidente della commissione Ambiente alla Camera. Tra i firmatari meraviglia trovare Mario Catania, autore di un ddl di segno opposto, e Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretario ai Beni culturali ed ex presidente del Fai. Intanto, è in dirittura d’arrivo un pessimo dpr sulle autorizzazioni paesaggistiche, “semplificate” d’ufficio anche nelle aree soggette a vincolo individuale. Per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, sfugge come gli attentati al paesaggio e all’ambiente di queste norme-inciucio possano stare insieme con le (buone) dichiarazioni programmatiche del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando che alla Camera ha insistito su ben altre priorità: controllare il rischio idrogeologico, tutelare gli ecosistemi, ridurre il consumo di territorio, pianificare le risorse idriche come bene comune, «puntare sulla trasformazione del tessuto urbano esistente e non su nuove edificazioni».
Se questo fosse il programma non di un ministro ma del governo, la proposta Ac/70, che si scrive Realacci e si legge Lupi, andrebbe immediatamente cestinata. Molto meglio sarebbe ripartire dal ddl Catania, da migliorarsi parametrando la riduzione del consumo di suolo su serie previsioni demografiche e sul censimento degli edifici abbandonati o invenduti. In questo senso, va la proposta presentata ieri da nove deputati del M5S (tra cui De Rosa e Zaccagnini), mirata a ridurre senza trucchi e senza inganni il consumo del suolo. Ma il tormentato iter di queste norme non avrà mai fine, se non ci decideremo a separare la proprietà dei suoli dai diritti edificatori, sottoponendo questi ultimi a una rigorosa pianificazione pubblica che non può limitarsi all’ambito meramente comunale.
Un ultimo punto: alcuni firmatari della proposta Realacci, interrogati privatamente, confessano di aver firmato sulla fiducia, senza capirne bene il senso. C’è dunque da chiedersi come, nel buio delle “larghe intese”, lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum. E se sia legittimato non dico a varare, ma anche solo a sognare una qualsiasi riforma della Costituzione.
Nuovo capitolo nella saga metropolitana di riorganizzazione dei poli ospedalieri dentro la cosiddetta Cittadella della Salute, i cui volumi e localizzazione paiono molto più importanti di organizzazione funzioni e contenuti. Articoli e interviste di Alessandra Corica e Rodolfo Sala, la Repubblica Milano, 31 maggio 2013 (f.b.)
Città della salute, Mantovani frena “Ritardi a Sesto, si può fare altrove”
di Alessandra Corica
Una frenata brusca. Per certi versi, inaspettata. E che adesso apre un grosso punto interrogativo sul futuro. Si riaccende la polemica sulla Città della salute: ieri l’assessore regionale alla Salute Mario Mantovani, in visita al Neurologico Besta, ha fatto vacillare le certezze sulla costruzione dell’ospedale nelle ex aree Falck. «C’è una convenzione con il Comune di Sesto San Giovanni ed è già partita la presentazione dei progetti — ha detto il vicepresidente della Regione — Non nascondo, però, che i problemi sono molti. E che non sappiamo se le bonifiche dureranno mesi, anni o secoli». Nulla di sicuro, quindi. Tranne che per l’istituto Carlo Besta, come ha sottolineato il suo presidente Alberto Guglielmo, «è fondamentale avere risposte in tempi brevi: la programmazione non è nostro compito, la Regione ci dica dove andare ». Ora il derby tra Milano e Sesto San Giovanni per accaparrarsi il sito del nuovo ospedale potrebbe ricominciare. «Per adesso c’è la certezza — ha detto Mantovani — di trasferire il Besta, ristrutturarlo e migliorarlo. Se però dovessimo riscontare che in quella sede (le aree Falck, ndr) ci sono troppi problemi, decideremo cosa fare. Siamo a Milano, di posti ce ne sono tanti».
Quella della Città della salute è una questione aperta da anni: la prima volta in cui se ne parlò era il 2000. Da allora le ipotesi su dove — e come — costruire la cittadella si sono moltiplicate, da quella di realizzarla a Vialba (unendo il Besta, l’Istituto dei tumori e il Sacco), fino alla querelle tra Milano (che offriva l’area dell’ex caserma Perrucchetti) e Sesto San Giovanni. I due Comuni si sono contesi la localizzazione della cittadella fino a giugno 2012, quando la Regione ha scelto (sembrava in via definitiva) le ex aree Falck. «Una decisione — ha commentato però Mantovani — presa dalla passata amministrazione. Noi non sappiamo quanto questo, sul piano ambientale, sia possibile: stiamo valutando». La situazione, a onor del vero, è complicata: il sito (200mila metri quadri sugli 1,3 milioni che compongono l’intera area) dovrebbe essere concesso dal Comune di Sesto, che a sua volta dovrebbe riceverlo dalla proprietà privata. Ovvero Sesto Immobiliare spa, cordata guidata da Davide Bizzi che lo ha comprate nel 2010 da Risanamento spa: proprio ieri però l’azienda ha annunciato di aver chiesto l’annullamento dell’acquisto e la restituzione dei 345 milioni sborsati, «considerando le gravi omissioni e reticenze delle controparti nella trattativa».
Anche la bonifica del sito dovrebbe essere a carico del gruppo Bizzi. Un fatto, questo, che un anno fa contribuì a far pendere l’ago della bilancia su Sesto: in questo modo le operazioni prima di costruire non sarebbero state un problema del Pirellone. Ora, però, anche su questo si aprono interrogativi: il ministero dell’Ambiente ha fatto numerosi rilievi al progetto Bizzi. Che, per questo, ha deciso di appellarsi al Consiglio di Stato con un ricorso che non verte sulla bonifica per l’ospedale, ma sul resto dell’area. Risultato, i primi rallentamenti. Perché, anche se ancora non è stato posto un mattone, rispetto al programma il ritardo è già di tre mesi. Unica certezza, i fondi necessari. Molti. Perché con i suoi 450 milioni di euro (di cui 330 regionali) la Città della salute è stata la partita più importante dei 17 anni del governo Formigoni. Che, non a caso, nel 2011 prese in mano la questione sciogliendo il consorzio di Besta, Int e Sacco incaricato di sviluppare il progetto. E lo affidò alla vicina - e controllata - Infrastrutture Lombarde.
“Progetto ormai stravolto con tutti quei finanziamenti ristrutturiamo quel che c’è”
intervista a un top manager della sanità
«PORTARE avanti questo progetto, adesso e a queste condizioni, è assurdo». È netto Alberto Scanni, ex direttore generale dell’ospedale Sacco e dell’Istituto dei tumori, sull’ennesima querelle nata intorno alla Città della salute. «La cittadella aveva un senso per unire il Besta, l’Int di via Venezian e l’ospedale Sacco. Quando però questa ipotesi è tramontata, l’intera operazione non ha avuto più ragion d’essere. Piuttosto, meglio utilizzare i fondi per ristrutturare gli attuali istituti».
Scanni, lei faceva parte del Consorzio Città della salute, che sotto la guida di Luigi Roth riuniva Besta, Int e Sacco e aveva avviato uno studio di fattibilità per realizzare l’ospedale.
«Non solo uno studio di fattibilità: il progetto era quasi pronto. Avevamo anche trovato un modo
per risolvere il problema di viabilità che rende complesso raggiungere il quartiere Vialba: allo studio, in collaborazione con il Comune di Milano, c’era l’ipotesi di realizzare un metrò a cielo
aperto che partisse dalla Fiera, si ricongiungesse con la linea gialla e migliorasse i collegamenti tra la zona e il resto della città».
Cosa è successo?
Perché?
Però sia il neurologico di via Celoria sia l’Int hanno denunciato più volte le carenze delle loro sedi.
Come?
E con via Celoria come la mettiamo?
In questo modo, però, tramonterebbe per sempre il sogno dell’“ospedale modello”.
Il Comune: “Riapriamo il tavolo”
Sembrano dunque riaprirsi i giochi sulla storia infinita della Città della salute. Un progetto sulla cui bontà le istituzioni locali si sono sempre dette d’accordo. La materia del contendere riguarda la localizzazione. Con la Regione targata Formigoni ostinatamente ancorata all’idea di realizzare sotto il cielo di Sesto San Giovanni l’unificazione dell’Istituto dei tumori con il Besta, finalmente accorpati in un polo sanitario d’eccellenza domiciliato in un’area industriale dismessa, l’ex Falck. Idea caparbia, quella del Celeste; e ovviamente condivisa dagli amministratori “rossi” della ex città delle fabbriche, ansiosi di dare finalmente una destinazione a quegli spazi vuoti. Formigoni ha fatto di tutto per lasciare immaginare che dietro la sua proposta ai partner si nascondesse in realtà una decisione già presa. Nonostante gli altolà che fin dall’inizio la giunta di Milano, con il sindaco in prima fila, aveva opposto, invitando la Regione a non ridurre il problema della localizzazione della Città della salute a «un’asfittica questione tecnica urbanistica », come ebbe a scrivere Giuliano Pisapia all’allora governatore nel maggio dello scorso anno, quando ormai la rottura tra Regione e Comune si era consumata.
Ma bisogna partire dall’aprile del 2009 per ricostruire una vicenda che, ridotta all’osso, racconta il tentativo di mettere insieme sanità lombarda, banche e interessi immobiliari. Dunque, quattro anni fa si costituisce, sotto la guida del formigoniano Luigi Roth, un consorzio tra Istituto dei tumori, Besta e Sacco (poi escluso dai finanziamenti), con il compito di avviare uno studio di fattibilità in vista della realizzazione di un unico polo sanitario nella zona di Vialba. Salta tutto nel 2011: ci sono problemi logistici e, soprattutto, a Vialba c’è un corso d’acqua di cui nessuno sembrava sapere nulla, e che impedirebbe al progetto di andare avanti.
Ecco allora che si fa avanti Giorgio Oldrini, all’epoca sindaco di Sesto: il posto giusto per la
Città della salute è l’ex Falck, area di proprietà di un’immobiliare che nel 2010 l’aveva rilevata dal costruttore Luigi Zunino. L’immobiliare fa capo a Davide Bizzi, che vuole ovviamente investire nel mattone (il piano di intervento contempla un milione di metri quadri tra residenze, alberghi, uffici, servizi e un megacentro commerciale, con un valore di mercato stimato attorno ai 4 miliardi). E la Città della salute, in tempi di crisi del mercato immobiliare, potrebbe costituire il quid che manca per risolvere il problema dell’invenduto. I soliti maligni puntano subito il dito contro gli interessi convergenti di costruttori vicini a Comunione e Liberazione e delle Coop rosse di Bologna, che
sono in cordata con Bizzi. Formigoni e gli amministratori sestesi non hanno dubbi: la Città della salute si farà lì, i 450 milioni che servono verranno coperti dalla Regione (330) e dallo Stato (40); gli altri 80 arriveranno dai privati.
Ma a Milano storcono il naso. E avanzano la candidatura dell’ex caserma Perrucchetti come sede del nuovo polo sanitario. C’è un problema: il ministero della Difesa non vuole cedere quello spazio, e Formigoni acchiappa l’occasione al volo. Fa la voce grossa, e nella primavera del 2012 lancia un ultimatum a Pisapia: un pugno di settimane per dire sì o no al progetto da realizzare a Sesto, e chissenefrega se Pisapia chiede tempo, «mantenendo al tavolo sia il Comune di Sesto sia quello di Milano ». Il Celeste non ne vuole sapere e il 30 maggio del 2012 (a due settimane dalla scadenza dell’ultimatum di Formigoni), Palazzo Marino si sfila, abbandonando il progetto. Ieri l’uscita di Mantovani. Che potrebbe rimettere tutto in discussione.
«Per 20 anni privatizzazioni, deregolamentazioni e flessibilità del lavoro sono state le stelle polari della politica di tutti i governi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti». Replica a Michele Salvati, che sul sito della rivista il Mulino» stronca il libro Sbilanciamo l'economia. Una via d'uscita dalla crisi». il manifesto, 31 maggio 2013
Ringraziamo Michele Salvati, direttore della rivista il Mulino, che ha commentato sul sito www.rivistailmulino.it il nostro libro «Sbilanciamo l'economia. Una via d'uscita dalla crisi» (Laterza, 2013). Abbiamo apprezzato il suo interesse e la sua sottile cortesia nel definirlo «un'ottima rassegna su che cosa pensa l'estrema sinistra pensante» e vogliamo cogliere quest'occasione di confronto su questioni essenziali per l'economia e la politica italiana.
Michele Salvati concorda su alcune delle nostre proposte e noi concordiamo con la sua conclusione che «sono i risultati della capacità produttiva e competitiva di un Paese quelli che determinano la sua ricchezza e il benessere dei suoi cittadini». Accogliamo volentieri le sue osservazioni sui problemi della «straordinaria inefficienza del nostro sistema pubblico« che nelle nostre proposte deve assumere nuove responsabilità per guidare uno sviluppo equo e sostenibile e sull'esigenza di pensare agli «effetti imprevisti, ma prevedibili e non di rado perversi» delle politiche che proponiamo. Vorremmo replicare solo a tre questioni.
La prima riguarda «il senno del poi» che guiderebbe la nostra analisi della crisi mondiale ed europea. In realtà, le stesse cose le avevamo già scritte nel «Rapporto 2002» di Sbilanciamoci!: «I limiti delle politiche neoliberiste di questi anni sono stati resi evidenti dall'aggravarsi della recessione negli Stati Uniti (...). E' finita una lunga fase di consumi opulenti finanziati da un enorme debito delle famiglie e dalle aspettative di una crescente ricchezza grazie al rialzo delle quotazioni di borsa», mentre sull'Europa spiegavamo che «l'avvio dell'euro apre nuove margini di manovra per la politica economica europea, offre una maggior autonomia nei confronti del dollaro (...). E' un'occasione che non va sprecata inseguendo le vecchie politiche di liberalizzazione indiscriminata, riflesso condizionato del modello di globalizzazione neoliberista in Europa» (Manifestolibri, 2001, p.18).
E per quanto riguarda il declino italiano, già nel primo «Rapporto sulla Finanziaria 2001» che aprì il lavoro della Campagna Sbilanciamoci! scrivevamo che: «nell'ultimo decennio l'economia italiana è cresciuta appena dell'1,5% l'anno (...) e l'occupazione è caduta dell'1% l'anno in media. L'economia italiana (...) si è trovata in una spirale di bassa crescita, senza creazione di occupazione, incapace di modificare la propria struttura produttiva e la logica della spesa pubblica (...). Per tutti questi fattori appaiono scarse le possibilità che questo modello economico, e la politica che lo sostiene, abbiano successo nel conseguire una nuova fase di sviluppo» (Lunaria, 2000, pp.16-17). In quegli anni si parlava - ricordiamolo - di «nuovo miracolo italiano»; il boom della finanza e le promesse della «new economy» dipingevano di rosa i commenti economici. Per vent'anni privatizzazioni, deregolamentazioni e flessibilità del lavoro sono state stelle polari della politica di tutti i governi, e tuttavia questo non ha portato a quell'espansione della «capacità produttiva e competitiva del Paese» che tutti avremmo desiderato. E' un fatto, questo, che ci sembra difficile ignorare.
La seconda osservazione di Michele Salvati ci richiama al rigore di bilancio necessario a un'Italia che non può cambiare le priorità europee. Nel nostro libro non c'è alcun programma di spese folli, - e Sbilanciamoci! ha da sempre fatto proposte che prevedono un saldo di bilancio pari a zero, o accantonamenti per la riduzione del debito. C'è invece il riconoscimento che senza una ripresa della domanda - che nell'immediato non può che venire dall'azione pubblica - la nostra recessione ci porta «sull'orlo del baratro». La via d'uscita che indichiamo, nel breve periodo, è un allungamento dei tempi del consolidamento fiscale - proposto da quattro istituti di ricerca nordeuropei di area socialdemocratica - e l'uso di risorse aggiuntive per una manovra di stimolo (...). Le risorse potrebbero venire da un prelievo ulteriore sui capitali «scudati» da Tremonti, da un accordo con la Svizzera per compensare i mancati introiti fiscali per i 150 miliardi di capitali italiani esportati illegalmente, dal ricorso a fondi della Cassa Depositi e Prestiti, dallo spostamento della tassazione dal lavoro ai patrimoni. Tutto senza modificare deficit e debito pubblico (...).
Infine, l'etichetta di libro di «estrema sinistra», seppur «pensante». Abbiamo passato al setaccio le buone idee «di sinistra», le proposte di finanzieri illuminati, imprese della «green economy», economisti liberal americani, sindacati europei, socialdemocratici di tutti i paesi, ambientalisti, verdi, associazioni laiche e cattoliche - non abbiamo citato l'enciclica di Papa Ratzinger, ma l'ha fatto il sottoscritto in un libro dell'anno scorso «Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa (Laterza, 2012). E Sbilanciamoci! lavora da 15 anni con 50 associazioni di tutti gli orientamenti. Perché mettere tutto questo nel ghetto dell'"estrema sinistra»?
Lo Stato continua il saccheggio del territorio privatizzando anche il patrimonio comune già pubblico: "valorizzazione" e svendita, i classici passaggi nell'Italia finalmente "pacificata "all'insegna del neoliberismo. Il manifesto, 31 maggio 2013
Secondo l'Agenzia del Demanio, che utilizza i dati del Censimento per l' Agricoltura 2010, l'estensione dei terreni agricoli demaniali in Italia ammonta ad oltre 338.000 ettari, per un valore che oscilla fra i 5 e i 6 miliardi di euro.
Un patrimonio importante che, grazie alla sua equa distribuzione geografica, consentirebbe la messa a punto di un progetto nazionale per una diversa agricoltura, per una conseguente salvaguardia e manutenzione idrogeologica del territorio e per il rilancio di nuova occupazione, in particolare giovanile, durevole e di qualità. Riflessioni che non sfiorano l'attuale Ministra dell'Agricoltura De Girolamo, che ha recentemente incontrato i vertici dell'Associazione bancaria italiana (Abi) e il presidente della Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini, per mettere a punto un programma di "valorizzazione" e (s)vendita dell'immenso patrimonio agricolo demaniale.
Replicando quanto sta già proponendo agli enti locali in merito alla svendita del patrimonio immobiliare, Cassa Depositi e Prestiti avrebbe la funzione di assegnare un prezzo ai terreni demaniali, di acquisirli consentendo allo Stato di fare cassa e di metterli successivamente sul mercato.
Ancora una volta l'obiettivo è quello di consegnare patrimonio pubblico alle banche e beni comuni alla speculazione finanziaria, con il paradosso di renderlo possibile attraverso l'utilizzo dei risparmi dei cittadini. La socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti e la sua gestione territoriale, democratica e partecipativa diventa un obiettivo sempre più urgente, che da oggi dovrà vedere coinvolte in prima fila tutte le esperienze e reti dell'altra economia, dei gruppi di acquisto solidale, dell'agricoltura autogestita e di qualità, del commercio equo e solidale.
Oggi e domani a Roma convegno promosso dal WWF contro il consumo del suolo e l'inutile produzione edilizia, per la riqualificazione urbana. Il manifesto, 31 maggio 2013, rapporto scaricabile
«La vera ricchezza d'Italia - già Belpaese per antonomasia - sta nel suo patrimonio artistico e storico, paesaggistico e culturale»: sono ormai in molti ad individuare in questi beni comuni i possibili milestone di un prossimo riassetto sostenibile, non solo fisico, ma socio-economico e civile del paese.
Oggi, però, questo «tesoro» italiano - lascito delle molte civiltà stratificatesi nella nostra evoluzione spaziale e temporale - è sempre più obliterato, abbandonato al degrado, occultato, «affogato» dall'abnorme crescita urbana, dal pervasivo consumo di suolo che fa del territorio italiano la disastrosa, esasperata punta di un fenomeno, sprawltown, la città diffusa, che marca negativamente vaste regioni europee e occidentali.
Due cifre emblematiche di quella che sta diventando una catastrofe ci vengono dagli osservatori sul consumo di suolo, operanti presso diverse università, e riprese dal Coordinamento per la Difesa del Paesaggio: le rilevazioni satellitari restituiscono suoli urbanizzati pari a quasi il 20% dell'intera superficie territoriale nazionale, mentre le stime aggregate dall'ultimo censimento forniscono un numero di quantità di stanze vuote superiore ai 25 milioni, di cui circa un quinto localizzato nelle grandi città, e quasi altrettanto nelle villettopoli costiere e turistiche.
Tale sfracello di produzione edilizia se, paradossalmente, non risolve la domanda abitativa sociale - essendo determinata e dominata dai cicli della rendita speculativa, urbana e soprattutto finanziaria - ha prodotto ingenti quote di «urbanizzato contemporaneo abbandonato»; conseguente alla dismissione recente di attività produttive, industriali e agricole, commerciali, di servizio, o residenziali. O semplicemente, è stata dovuta dalla velleità di realizzare macrostrutture - infrastrutture, attrezzature - tanto gratificanti per il consenso suscitato dal loro annuncio, quanto spesso inutili e ingestibili per il contesto in cui si calavano.
Agli edifici storici abbandonati, di cui all'apertura, si è aggiunta così una quota ingentissima di cementificazione dismessa di recente. Il Wwf, con le sue migliori competenze tecnico-scientifiche, insieme ad una decine di sedi universitarie nazionali, sta realizzando una ricerca in tutte le regioni del paese su caratteristiche e potenzialità delle aree abbandonate, storiche e recenti, e sulle loro prospettive in termini di riutilizzo ambientale e sociale. Oggi e domani presso l'aula magna dell'Università Roma Tre, nel complesso, appunto recuperato, dell'ex Mattatoio - verrà presentato il primo rapporto della ricerca.
Sono state censite circa 600 aree, corrispondenti ad altrettante «situazioni territoriali» (individuate anche perché rappresentative di categorie più vaste), in tutte le regioni italiane, suddividendole per caratteri tipologici e funzionali e per contestualizzazioni funzionali; in modo tale da prefigurare per ciascuna di esse non solo un progetto di recupero - pure importante di per sé -, ma la costituzione di «elementi forti» per strutturare e sostanziare processi di blocco di consumo di suolo e deterritorializzazione negli ambiti interessati.
Le categorie tipologiche individuate vanno dai manufatti storico-culturali in abbandono, anche se talora già vincolati per la tutela, alle aree archeologiche abbandonate, alle architetture di prestigio, alle infrastrutture dismesse o mai completate, alle fortificazioni militari, alle aree industriali in disuso, a macrostrutture realizzate e mai utilizzate o ingestibili, a spazi aperti da rinaturalizzare nella città consolidata, a vastissime porzioni di patrimonio residenziale da recuperare.
Le situazioni urbane e territoriali interessate nelle diverse regioni sono molteplici: da interi comparti interni alla città storica e consolidata, a mancate recenti «nuove centralità» che dovevano segnare le ex periferie, alla campagna urbanizzata da riqualificare, a molte aree costiere o collinari, o di elevata suscettività paesaggistica cui riattribuire senso ecologico tramite blocco della nuova cementificazione e strategie di restauro ambientale; utile anche per il riuso delle aree non solo industriali dismesse.
Il riutilizzo sociale e paesaggistico dei luoghi e degli intorni interessati presuppone anche la capacità di leggere i contesti, oltre i singoli siti: su questo spesso sono di ausilio i piani paesaggistici recenti - i cui progetti di riqualificazione ambientale vanno assumendo sempre più spesso i profili guida di prossime economie verdi territorializzate dei territori coinvolti- che, per dettato strategico-normativo, analizzano gli spazi regionali per ambiti locali e comprensoriali e spesso ne prospettano «scenari di tutela, riqualificazione e valorizzazione sostenibile», non solo ecoterritoriale, ma socio-culturale. In questo quadro, i cluster spaziali individuati dalla ricerca per il riuso possono giocare ruoli decisivi.
Il Report tocca anche un'altra questione sostanziale: chi può mettere in pratica queste «interessanti politiche» in un momento di profonda crisi della «Politica»? la ricerca recupera il concetto di «Laboratorio Territoriale», coordinamento di abitanti, ambientalisti, difensori del territorio, istanze di restauro civile e costituzionale, già presenti in alcune esperienze di difesa e recupero del territorio recenti, come le Reti del «Nuovo Municipio» o dei «Comuni Solidali», e mira a ricontestualizzarli sui paesaggi, anche sociali, individuati.
Il rapporto Riutilizziamo l'Italia è scaricabile anche direttamente da QUI
Dal 1 gennaio 2014 dieci grandi città italiane (Roma, Torino, Milano, Bologna, Venezia, Genova, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria) ai sensi della legge 135 del 2012 diventeranno “città metropolitana” con contestuale abolizione delle rispettive Province
Dopo la prima e timida comparsa della dicitura città metropolitana nell’ordinamento giuridico italiano (con la Legge 142 del 1990 sul riordino delle autonomie locali), ora sembra essere giunto finalmente il tempo del grande passo. I processi di internazionalizzazione economica in atto, infatti, pongono nuove e pressanti domande anche nei confronti delle politiche pubbliche, soprattutto in termini di dotazione infrastrutturale, di sostegno allo sviluppo locale, di strategie di marketing territoriale, di politiche per la riconversione della base produttiva, di miglioramento della qualità ambientale, di attenzione alle nuove emergenze sociali e di accesso ai fondi e ai finanziamenti comunitari. Senza soffermarsi ulteriormente sul ritardo con il quale il nostro Paese si è deciso ad affrontare questi temi rispetto allo scenario europeo né sull’estrema necessità di un livello di governo che sappia elaborare politiche di scala territoriale e quindi rispondere in modo efficace alle nuove sfide dell’economia globale, si ritiene utile entrare nel merito del percorso intrapreso dall’area milanese per l’istituzione dell’organismo metropolitano.
La regione urbana milanese è certamente una delle realtà territoriali italiane più complesse, nella quale la vivacità storica del proprio tessuto produttivo l’ha resa uno dei più importanti motori di sviluppo dell’economia italiana, in cui si concentrano funzioni e attività che sono alla base di processi economici di dimensione europea. Nonostante alcune ricerche abbiano attestato, a partire dalla metà degli anni Novanta, una progressiva perdita di competitività del territorio milanese rispetto ad altre aree europee dove, grazie ad accorte politiche di livello locale e metropolitano, si è saputo attrarre imprese multinazionali e aumentare il livello di competitività internazionale, Milano rimane un sistema territoriale fondamentale per il nostro Paese.
Numerosi studi (*) dimostrano come la perdita di appeal dell’area milanese sia da imputare non solo alle difficoltà, che comunque esistono, del tessuto economico, ma anche alla debolezza delle politiche pubbliche e in particolare di quelle legate alla pianificazione e all’ambiente, che ne comprometterebbero, nel medio e lungo periodo, la competitività complessiva. La mancanza di sinergia tra attori istituzionali ed economici, un sistema della mobilità (soprattutto quello relativo al trasporto pubblico) poco efficiente e bassa qualità urbana rappresentano le principali debolezze del sistema.
Investimenti volti a migliorare la connettività e la vivibilità, politiche per la riduzione dell’inquinamento e della congestione, strumenti volti a minimizzare tendenze di diffusione insediativa che compromettono le qualità ambientali, incentivi per i settori della ricerca e dell’innovazione necessitano di una regia istituzionale capace di elaborare uno scenario di sviluppo che sappia coniugare la dotazione territoriale con le dinamiche economiche e sociali. Per attuare tutto questo la città metropolitana appare, anche a Milano, il livello di governo più adatto.
In questo quadro locale però i principali nodi da sciogliere sembrano riguardare, ancora una volta, questioni di natura squisitamente amministrativa e politica. La legge di stabilità approvata nello scorso dicembre ha, di fatto, sospeso il ruolo della Conferenza Metropolitana, organo che avrebbe dovuto riunire tutti i sindaci dell’attuale territorio provinciale e deliberare lo Statuto provvisorio del nuovo ente entro il 31 ottobre 2013.
Dal prossimo 1° gennaio 2014 la Provincia di Milano verrà di fatto soppressa e il Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, diventerà il Sindaco metropolitano fino all'adozione dello Statuto, lasciando senza però norme precise sull’attribuzione di competenze e sul funzionamento del nuovo ente. In un contesto come quello italiano, dove la sovrapposizione delle competenze tra diversi enti rappresenta una delle prime cause di inefficienza della pubblica amministrazione, ciò appare come un forte ostacolo a un serio processo di riforma della governance locale.
La città metropolitana rischia così di diventare solo un ulteriore livello amministrativo, dalle competenze piuttosto vaghe, che sostituirebbe l’attuale struttura provinciale.
A ciò si aggiunge l’atteggiamento ambiguo del Comune di Milano che, se da una parte ha affidato alle principali università milanesi studi e ricerche sui diversi settori, dall’altra sembra essere scarsamente in grado di esercitare un ruolo da leader nei confronti dell’hinterland, limitandosi a gestire l’intero processo in un’ottica fortemente milanocentrica, poco rispettosa delle risorse e delle potenzialità che l’area metropolitana, nel suo complesso, può offrire. Questi problemi rischiano non solo di compromettere l’intero processo di riforma istituzionale ma anche di far apparire la “questione metropolitana” come un tema distante dai cittadini e dalla loro vita quotidiana.
Eppure per l’esercizio delle funzioni attribuite obbligatoriamente al nuovo ente, tra cui la pianificazione territoriale e la mobilità, è necessaria una forte azione di coordinamento tra le amministrazioni e di coinvolgimento della cittadinanza.
E’ necessario che Milano superi le logiche localistiche ed accentratrici portate avanti finora (anche nel proprio Piano di Governo del Territorio è assente qualunque riferimento alla dimensione metropolitana) e si decida ad assumere un ruolo di coordinamento nei confronti delle amministrazioni dell’hinterland. Si tratta di elaborare una serie di politiche di natura integrata in grado di:
- indirizzare uno sviluppo del sistema insediativo che punti sulla riqualificazione delle aree dismesse, soprattutto di quelle localizzate a ridosso delle principali infrastrutture esistenti, per limitare il consumo di nuovo suolo, così da scongiurare nuovi interventi di urbanizzazione (residenziali, commerciali o terziari) che rompono la continuità del sistema degli spazi agricoli ed ambientali residui così come nuovi insediamenti a ridosso delle principali reti stradali (esistenti e in progetto) che rischiano di generare un’urbanizzazione continua e ampliamenti dei nuclei esistenti che, realizzati secondo una logica dell’addizione, non tengono conto del rispetto del limite dell’urbanizzato;
- estendere e rafforzare tutto il sistema di mobilità. L’intermodalità diventa determinante per garantire l’interscambio tra tutte le linee trasportistiche: più i diversi sistemi di trasporto saranno interconnessi, più facile e veloce sarà muoversi sul territorio. In quest’ottica il potenziamento e la riqualificazione dei nodi del trasporto pubblico dovrà essere prioritario. Le diverse modalità di trasporto esistenti (ferroviarie, automobilistiche, ciclabili e pedonali) se rafforzate e messe in rete consentiranno alle persone e alle merci di muoversi in modo più efficiente sia alla scala locale che a quella sovra locale;
- valorizzare il sistema ambientale esistente. La capacità di coniugare spazio costruito, densità, popolazione e infrastrutture con una buona dotazione di spazio aperto naturale consentirà di migliorare la qualità della vita e la vivibilità dell’intera regione urbana;
- ideare un sistema di incentivazione per sostenere il campo della ricerca e dell’innovazione, che rappresenta una potenzialità latente, non pienamente sfruttata della metropoli milanese, e che necessita di un indirizzo pubblico, capace, al contempo, di attrarre risorse economiche private e di promuove modelli virtuosi di partnership pubblico/privati, creando maggiori sinergie tra il mondo della formazione e ricerca e quello della produzione;
- promuovere un modello di sviluppo sostenibile, secondo le linee guida elaborate dagli organismi dell’Unione Europea (come la Carta di Lipsia del 2007), che dia priorità alla qualità dello spazio pubblico, all’efficienza energetica, all’innovazione, alla coesione sociale, al trasporto pubblico e al mercato del lavoro locale.
Solo in questo modo la futura città metropolitana potrà definire obiettivi di sviluppo coerenti e realistici per l’intera area urbana ed elaborare una visione di scala vasta condivisa, che sia all’altezza delle sfide internazionali alle quali Milano è chiamata a rispondere.
(*) In particolare si fa riferimento allo studio elaborato dall’OCSE, Territorial Reviews - Milan, OECD Publishing, Paris, 2006
Nota: su Eddyburg abbondano i contributi sul tema della sovracomunalità e dell'ente di governo, per individuare almeno un quadro generale basta digitare "Città Metropolitana" nella finestrella del motore di ricerca interno, in alto nella homepage (f.b.)
Magari più che ai recinti che dividono le minoranze etniche o alla rete che separa immigrati e indigeni occorre guardare le differenze sociali, e ricordare che le “classi”esistono ancora . La Repubblica, 29 maggio 2013
Il poco socialdemocratico Nicolas Sarkozy aveva chiamato “feccia” i ribelli della banlieue parigina. Al di là delle definizioni, sono giovanissimi. La maggior parte delle persone fermate durante gli scontri è minorenne, non ha finito gli studi e non ha un lavoro, come un quinto dei ragazzi delle periferie più povere. Sempre in omaggio a un politicamente corretto che qui è stile di vita, si finge anche di ignorare la nazionalità di questi rivoltosi: la tradizione progressista impedisce alle autorità svedesi di fare classificazioni “etniche”. Ma sono tutti figli di quei profughi balcanici, afgani, iracheni, somali, siriani, che negli ultimi vent’anni hanno trovato rifugio qui e costituiscono ormai il 15% della popolazione svedese. Si sa, ma non si dice, e non lo si può neppure scrivere.
È ancora presto per dire se la Svezia, dopo gli incidenti di questi giorni, sia pronta a stravolgere una tradizionedi tolleranza e accoglienza, cedendo alle sue pulsioni più oscure, così ben raccontate, e quindi esorcizzate, nei noir degli autori scandinavi. «Stoccolma non brucia e la discriminazione non è sempre legata al razzismo», commenta la scrittrice di origine curda Nima Sanandaji. Parte della popolazione, spiega, viene lasciata ai margini per cause economiche, legate all’educazione, al retroterra culturale. «Smettiamo di colpevolizzare la nostra società», chiede Sanandaji. È cresciuta nelle periferie degli immigrati e diventata intellettuale di successo, così come Zlatan Ibrahimovic è uscito dal ghetto di Rosengärd, fuori Malmö, per diventare un campione di calcio. Henning Mankell, lo scrittore del commissario Wallander, sostiene che la Svezia è abituata a interrogarsi e scrutare il suo cuore di tenebra, in una ricorrente perdita di innocenza, cominciata addirittura con l’omicidio di Olof Palme, quasi trent’anni fa. Finora, dopo ogni esame di coscienza, il paese è sempre riuscito a restare in bilico, camminando sul filo della sua innata capacità al compromesso. Ma anche lassù, nella fredda e civile Svezia, conservare l’equilibrio è difficile, sempre più difficile.
Un interessante dibattito a partire da un interessante e utile libro di Mario De Gaspari. La rendita immobiliare, come ci distrugge come si può, e di deve, tornare a combatterla, fin da oggi.
In due recenti appuntamenti alla Casa della Cultura e alla Provincia di Milano si è discusso dell’ultima fatica di Mario De Gaspari: un libro snello ma importante dall’intrigante titolo e dall’inquietante sottotitoloBolle di mattone. La crisi italiana a partire dalla città. Come il mattone può distruggere l’economia (Milano, Mimesis edizioni). Invitati a discuterne Roberto Camagni e Giancarlo Consonni nel primo incontro; Arturo Calaminici, Massimo Gatti e Maria Cristina Gibelli nel secondo).
Preceduto da una bella introduzione di Walter Tocci (http://www.eddyburg.it/2013/03/bolle-di-mattone-di-mario-de-gaspari.html), Bolle di mattone affina ulteriormente, grazie a un supporto teorico rigoroso, le riflessioni sull’intreccio fra rendita, speculazione immobiliare, finanza e comportamenti della pubblica amministrazione: temi già affrontati dall’Autore in altri scritti recenti , e sempre con uno sguardo acuto che gli deriva dalla sua ‘doppia personalità’ di intellettuale critico ma anche, nel passato recente, di amministratore locale (prima come sindaco di Pioltello, un comune dell’hinterland milanese, e poi come consigliere della Provincia di Milano). Mario De Gaspari conosce quindi bene ciò che, con una locuzione efficace, definisce la “mostruosa fratellanza” fra pubblico e privato, fra chi dovrebbe amministrare per il bene collettivo e chi vuole trarre il massimo vantaggio dalla città della rendita: il settore finanziario immobiliare, e le sue “bolle di mattone” appunto, che ha ottenuto in passato e continua ad attendersi, anche in epoca di crisi, margini di gran lunga più elevati di qualsiasi altro settore produttivo.
Centrale in questo nuovo libro è una riflessione teorica su moneta bancaria, sviluppo e rendita che parte dai classici, Marx e Ricardo, e si estende a Keynes, Schumpeter e Minsky; fondamentale altresì la capacità di ricollocare la attuale e peculiare crisi del settore immobiliare e finanziario del nostro paese in una dimensione teorico-interpretativa complessa. Importante è il parallelismo, che De Gaspari illustra benissimo, fra creazione di moneta bancaria (attraverso l’attivazione del credito alle imprese) e creazione di moneta urbanistica, il “cubo”, (attraverso l’attivazione di concessioni e diritti volumetrici). In entrambi i casi, i processi portano a crisi rovinose non appena si invertono le aspettative di mercato: allo scoppio delle bolle finanziarie e immobiliari.
Come ha sottolineato Roberto Camagni nella prima tavola rotonda, c’e una differenza sostanziale fra i due processi. Nel primo, il credito bancario genera uno spazio all’imprenditore all’interno della distribuzione del reddito nazionale, attraverso un processo inflazionistico, a fronte di una promessa di profitti da innovazione (come indica Schumpeter), e dunque a fronte di uno sviluppo produttivo. Nel secondo caso, si realizza lo stesso effetto, ma a fronte di una generazione di rendita (e di qualche sviluppo edilizio): una rendita che in Italia non viene assolutamente intaccata dalla fiscalità pubblica per effetto proprio della sopra evocata“mostruosa fratellanza”.
De Gaspari, nelle due occasioni di presentazione del libro, ci ha spiegato il ‘suo’ malessere (oltre a quello della città, che aveva costituito il titolo di un suo precedente bel libro): un malessere che deriva dalla peculiarità della ‘speculazione edilizia’ italiana e dalla debolezza della pianificazione. Tutti i PRG (o loro succedanei) messi assieme valgono oggi in Italia – ci ha detto l’Autore- molto più di qualsiasi altra attività produttiva in termini di punti di PIL. Dopo 20 anni di liberismo e di deregolamentazione urbanistica, e in assenza di una riformata legge urbanistica nazionale e di una nuova legislazione di fiscalità immobiliare risolutamente orientata alla tassazione della rendita, i beni immobiliari si sono trasformati, con l’indebitamento sui mutui, in “risparmio abortivo” (una locuzione di Keynes).
Si tratterebbe attualmente, secondo quanto dichiarato recentemente dall’immobiliarista Puri Negri in un dibattito in televisione, di 400 miliardi di euro di crediti immobiliari complessivi in possesso delle banche più importanti. E questo dato evidenzia un intreccio fra mattone e finanza, fra filiera immobiliare e banche che appare sempre più soffocante e senza prospettive, in un contesto in cui il ‘cubo’ è diventato la moneta urbanistica corrente. Ma anche i governi locali hanno fatto la loro parte: per fare cassa hanno infatti inventato la “zecca immobiliare” (come la definisce Walter Tocci nell’introduzione al libro), continuando a concedere sempre più estesi diritti edificatori e consumando con voracità risorse territoriali preziose, perché “nella strisciante concezione estremisticamente liberista della città del 2000 la rendita dei suoli è considerata una variabile assolutamente avulsa, indipendente, ininfluente (…) e il governo della città un fatto quasi privato delle amministrazioni comunali e le conseguenze economiche delle scelte urbanistiche, a livello locale e sul piano nazionale, del tutto trascurate” (De Gaspari: 110).
Nel dibattito che si è sviluppato in occasione delle due presentazioni del libro sono emerse alcune considerazioni interessanti, sia da parte di studiosi che di amministratori locali.
A fronte della crisi immobiliare che ha colpito un po’ ovunque nei paesi avanzati, altrove ci sono già state delle risposte che hanno saputo ridurre il danno; e, certamente, sono alcuni paesi ‘mediterranei’ che hanno subito più danni perché, con l’entrata nell’Euro, hanno goduto del vantaggio dato dall’opportunità di sostituire monete deboli con una moneta forte concessa con prestiti a basso tasso di interesse. In Italia si è creata una grande quantità di moneta urbanistica, grazie alla concessione generosissima di diritti edificatori e alla altrettanto generosa attribuzione agli immobiliaristi di credito bancario con garanzia sui diritti stessi. Oltre un certo limite, ampiamente superato, di crescita irrazionale dei prezzi immobiliari, la crisi della bolla non poteva che esplodere. In più, in Italia il contesto politico-istituzionale si caratterizza per una evidente mancanza di cultura e di una legislazione sulle procedure negoziali pubblico/privato capace di garantire adeguati vantaggi pubblici nello scambio.
Due esempi sono stati evidenziati nella discussione per porre in evidenza questa ingiustificabile propensione allo scambio ineguale fra pubblico e privato: la tassazione ‘ordinaria’ associata ai permessi di costruire; gli ‘extra-oneri’ ottenibili dai progetti in deroga. A differenza di altri paesi europei, nel nostro paese gli oneri concessori di legge continuano ad essere molto bassi: 244 euro/mq a Milano; 155 euro a Torino; 105 a Bologna; i più elevati a Firenze con 480 euro.
Un’altra significativa differenza riguarda la ripartizione fra pubblico e privato dei valori realizzati attraverso progetti di rigenerazione in deroga ai piani urbanistici vigenti. Da indagini mirate sui bilanci di grandi progetti di trasformazione realizzati a Roma e Milano, è emerso che la quota della rendita si aggira fra il 45% e il 55%, mentre alla città pubblica spetta circa il 5% del valore complessivo. Si tratta di valori bassissimi, se comparati con altre città europee che con i progetti negoziati arrivano a recuperare per la collettività fino al 30-32%.
Come uscirne? Occorrerebbe ri-legittimare la pianificazione. Occorrerebbe porre argine alle procedure perequative - specie quelle ‘estese’, che distribuiscono diritti edificatori atterrabili ovunque -; porre argine alla flessibilità delle destinazioni d’uso e, sopratutto, porre argine alla inarrestabile concessione da parte dei comuni di diritti edificatori amplissimi e staccati da ogni razionale previsione sulla domanda effettiva: anzi, occorrerebbe revocarne molti elargiti in passato, come è nei poteri delle amministrazioni locali (importante, a questo proposito, la recente sentenza del Consiglio di Stato 6656/2012 che conferma la legittimità del nuovo PRG di un piccolo comune del Salentino che ha destinato a verde privato un’area precedentemente destinata a zona di completamento, affermando che « l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità…”: http://www.eddyburg.it/2013/02/e-confermato-non-esistono-diritti.html).
Ma l’ottimismo non è aleggiato negli incontri milanesi, perché né il contesto politico nazionale attuale, né i comportamenti delle amministrazioni locali, per lo più acquiescenti, o anestetizzate, o con un complesso di inferiorità nei confronti degli immobiliaristi e delle banche, lo autorizzano.
«No al consumo di suolo, Sì al Riuso dell' Italia». Il titolo di un appello che non possiamo non condividere e il programma di un convegno al quale ci sarebbe piaciuto essere presenti. L’appello e il programma del convegno dal sito Wwwf-Italia. con postilla
L’appello
PENSA insediamenti industriali non più utilizzati E IMMAGINA strutture di utilità sociale. TROVA zone commerciali sovradimensionate e semivuote E CREA nuove destinazioni d’uso a misura d'uomo. Individua aree e infrastrutture inutili E progetta zone pedonali, aree verdi e parchi giochi.
WWF con Riutilizziamo l’Italia mira a suscitare un movimento culturale e sociale che serva a reinventare il nostro territorio, riducendo il consumo del suolo.In un nuovo quadro di sviluppo sostenibile, il recupero e riutilizzo delle aree in disuso o degradate può partire dal basso e da iniziative spontanee, e potrebbe avere grandi effetti di incentivazione dell’occupazione giovanile e di freno all’irrazionale e bulimico consumo del suolo che ha caratterizzato lo sviluppo del nostro Paese negli ultimi 50 anni.
Abbiamo bisogno delle tue idee, della creatività delle comunità locali.
Riutilizziamo l'Italia è l'occasione per riappropriarti del tuo territorio. Per scegliere e ricostruire lo spazio in cui vivi. Ogni giorno.Non serve un altro territorio da consumare, serve un grande progetto di riqualificazione per riscoprire un'altra Italia.
Il convegno
Convegno Nazionale WWF - “Riutilizziamo l’italia”: Idee e proposte per contenere il consumo di suolo e riqualificare il Belpaese -
Il 31 maggio – 1 giugno 2013 a Roma si terrà il Convegno Nazionale WWF "Riutilizziamo l'Italia - Idee e proposte per contenere il consumo di suolo e riqualificare il Belpaese", l’appuntamento al quale invitiamo tutti a partecipare per condividere i risultati della prima fase dell’Iniziativa omonima del WWF Italia e il lancio di alcune proposte interessanti e sulle possibilità delle loro attuazioni.
Con il prezioso contributo di cittadini e gruppi attivi il WWF Italia ha raccolto più di 600 segnalazioni di aree ed edifici dismessi, di cui l’85% contenente anche idee, proposte e progetti di riuso. Un vero progetto collettivo di territorio, un insieme di idee che ora il WWF si impegna a promuovere e a far emergere la domanda sociale di spazi, di recupero, di riqualificazione e di contributo alla gestione territoriale che ne deriva.
Tappa fondamentale di questo percorso ora è il Convegno Nazionale, che si svolgerà a Roma nella nuova Aula Magna del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre, spazio in “tema” con l’Iniziativa, in quanto si tratta di un edificio dell’ex Mattatoio, recuperato a fini culturali.
Il Convegno presenterà una rassegna di esperienze positive e negative e di idee e un Set di Proposte e Strumenti. Su questa base la Rete territoriale WWF e la Rete Docenti dell’iniziativa “Riutilizziamo l’Italia” hanno intenzione di aprire un confronto con i cittadini e i soggetti più interessati a queste tematiche.
«Una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e della sua influenza sull’umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio». E' il capitalismo, baby anche se assistito. La Repubblica, 25 maggio 2013
Intanto nelle 46 fitte pagine del decreto di sequestro si trova una raccapricciante illustrazione del funzionamento di una grandissima fabbrica, e della sua influenza sull’umanità di dentro e di fuori. La città di Taranto è la piccola appendice di un gigantesco monnezzaio. Il provvedimento tocca i responsabili delle misure di prevenzione degli “incidenti rilevanti” (che mettono a repentaglio immediato o futuro persone e ambiente dentro e fuori da uno stabilimento, coinvolgendo più sostanze pericolose), della sicurezza dei lavoratori, e della tutela di ambiente e popolazione. Sono Emilio Riva e i figli Nicola e Fabio, l’ex direttore Capogrosso, il dirigente Archinà (indagati anche per associazione a delinquere, tutti già agli arresti, salvo Fabio latitante a Londra), il presidente Ferrante, i dirigenti Andelmi, Cavallo, Di Maggio, De Felice, D’Alò, Buffo, Palmisano, Dimastromatteo.
«Tutto ciò ha procurato negli anni un indebito vantaggio economico all’Ilva, ai danni della popolazione e dell’ambiente». È questo indebito profitto che la magistratura decide di confiscare, escludendone però quello che serve alla prosecuzione della produzione. L’onere, calcolato sommando gli interventi necessari alle varie aree, ammonta a 8.100.000.000 di euro, cui andrà aggiunto il costo per bonifica di acqua e suolo ai parchi minerari, impossibile da stimare oggi.
Intanto, l’Ilva ha consegnato all’operaio Stefano Delli Ponti, che ha contratto per due volte un carcinoma al collo, il primo versamento di ventimila euro, corrispettivo di novemila ore di lavoro devolute dai suoi compagni. La loro solidarietà per equivalente.
Il manifesto, 24 maggio 2013 (f.b.)
Leggere il commento del vicepresidente di Legambiente Stefano Ciafani (il manifesto del 15 maggio) all'articolo «Contadini in rivolta contro la dittatura del cardo» a firma di Giuseppe De Marzo (il manifesto del 10 maggio) non ci ha sorpreso. Ci ha anzi riportato alla mente la posizione di Legambiente ai tempi dei lavori per il G8 sull'isola parco naturale della Maddalena. Lavori ai quali Legambiente diede il suo placet sostenendo che non modificavano lo skyline dell'isola. Ciò che resta di quei lavori è in corso di giudizio in tribunale. Un enorme spreco di denaro pubblico per strutture mai utilizzate, neanche un posto di lavoro, bonifiche finte ed un inquinamento ancora maggiore.
Noi lo avevamo detto. Noi, comitati e movimenti, che Legambiente ignora insieme alle pratiche di partecipazione dei cittadini alla presa delle decisioni, impelagata in accordi di partnership con imprese che sulle risorse ambientali speculano. È un dato di fatto. Legambiente è slegata dall'ambiente e legata da mille fili alle multinazionali della «green economy» comprese quelle che vogliono realizzare la chimica «verde» a Porto Torres. Un esempio può aiutarci. In questi giorni Repubblica ha pubblicato l'ottavo studio del Forum Nimby (l'osservatorio sui contenziosi legati alla realizzazione di nuove opere) in questa mappa dei conflitti ci siamo anche noi dei comitati che si battono contro la chimica «verde» a Porto Torres. Tra i componenti del comitato scientifico del Forum c'è anche il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza. I maggiori sponsor di questo Forum sono: A2A Energia (inceneritore di Brescia), Enel (centrale a carbone di Porto Tolle) e altri tra i maggiori beneficiari della truffa dei contributi cip6. E' inutile che Stefano Ciafani cerchi di dirottare il dibattito chiedendo se sia meglio l'energia prodotta da fonti fossili o dalle rinnovabili. Sappiamo bene cosa è meglio. Il problema però è perché si produce e come.
E la situazione paradossale della Sardegna è quella di una regione che produce molta più energia di quella che consuma e molta di più di quella che, data l' attuale portata dei cavidotti, riesce ad esportare. Dunque perché si vuole installare ancora più potenza inutilizzabile se non per scopi speculativi, per beneficiare di contributi e del commercio dei certificati verdi? E per di più utilizzando terreni a destinazione alimentare. Se avesse fatto una indagine accurata come ha fatto Giuseppe De Marzo, il signor Ciafani si sarebbe trovato di fronte, ad esempio, alla piana di Cossoine -ancora oggi coltivata fino alla più piccola parcella - dove la Energogreen Power avrebbe voluto realizzare, devastandola per sempre, un impianto Termodinamico di 160 ettari. E avrebbe scoperto un'intera comunità in lotta che dopo mesi di mobilitazione ha detto un no compatto con un referendum che ha visto votare la quasi totalità dei cittadini.
Per quanto riguarda la chimica «verde» invece, ci troviamo di fronte prima di tutto a un'operazione di marketing. L'Eni intende distogliere l'attenzione dal fatto che questi stabilimenti si stanno realizzando in uno dei Sin più inquinati d'Italia. Lo dice anche Ciafani, però non dice che il pm chiedendo il rinvio a giudizio dell'Eni, ha presentato una perizia di 500 pagine in cui si dimostrano le responsabilità della multinazionale in una delle più grandi catastrofi ambientali italiane. La chimica «verde» è un modo per l'Eni di non sborsare i soldi necessari alle bonifiche a cui è obbligata per legge. Un vero e proprio ricatto: se volete qualche posto di lavoro non cercateci sul resto. L'alternativa non è tra lavoro e salute perché la sproporzione è immensa tra i 400 posti di lavoro promessi e il mantenimento del controllo assoluto dell'Eni su i 23 km quadrati che conta la zona industriale di Porto Torres. Un quarto della superficie del comune che continuerebbe a insterilirsi, ad avvelenare i terreni e le acque circostanti e a propagare cancri e morte su chi ci lavora, ci lavorerà o ci vive vicino. Inoltre, la chimica «verde» dovrebbe funzionare a partire da biomasse locali - che verrebbero dalla mirifica coltivazione del cardo.
Secondo Matrìca, la consociata dell'Eni che conduce il progetto, bisogna ora passare ad una produzione agricola del cardo su scala industriale poiché il fabbisogno in biomassa è pari a 250.000 tonnellate l'anno. E ciò richiederebbe una superficie di coltivazioni che va, secondo le stime, da 70.000 a 120.000 ettari. Altro che le terre marginali di cui discetta Ciafani! La quasi totalità delle terre coltivabili del Nordovest della Sardegna verrebbero coinvolte e sconvolte. Oppure si userà, grazie alla normativa italiana che la assimila alle biomasse, la parte non biodegradabile dei rifiuti solidi extra-urbani? Le nostre ragioni sono semplici e tengono al fatto che la monocultura del cardo sterilizzerebbe le terre, distruggerebbe il biotopo e farebbe scomparire la biodiversità. Pure Legambiente potrebbe capirle.
Ecco perché noi non abbiamo nessuna intenzione di sottoporre i nostri modi di fare di vivere e di produrre all'industria, chimica o energetica che sia. La campagna si fa rara nel mondo, la si compra e la si snatura a chi più può. Noi, in Sardegna, abbiamo ancora terre e campagne, esse sono un bene d'avvenire. Non le lasceremo distruggere e taglieremo le ali agli avvoltoi delle fonti energetiche «sostenibili», che si tratti di imprenditori dell'eolico, del fotovoltaico o della biomassa. Vogliamo continuare a produrre legumi e latte, verdure e formaggi, carne e vino. Questo sappiamo fare e questo il mondo ci chiede: e che sia buono, sano, fresco. Faremo anche energia, quando sarà necessario ma lo decideremo noi. La campagna è l'humus stesso in cui l'urbano è incastonato, radice umile e spesso dileggiata, mondo affettivo e sognante, misura aperta ma certa dell'esistenza stessa della città e del cittadino. Di cui siamo.
Comitato no-chimica verde, Comitato no al termodinamico di cossoine, Comitato «Nurra dentro»
Per arginare il consumo di suolo non bastano né allarmate tabelline statistiche, né i soli vincoli urbanistici, ma una politica del territorio che coniughi tutela, sviluppo, sostenibilità. L'Unità, 24 maggio 2013 (f.b.)
Li hanno chiamati con diversi nomi («choosy», bamboccioni), ma molto probabilmente sarà la prima generazione dal dopoguerra ad essere più povera di quella che l’ha preceduta. La pubblicazione del dato sul tasso di disoccupazione giovanile che nell’ultimo anno in Italia ha toccato il record assoluto del 35,3%, il livello più alto dal lontano 1977 è stata una scossa per il mondo politico che finalmente ha preso atto del fatto che non è più il caso di temporeggiare, ma di adattarsi ai nuovi cambiamenti imposti dalla nostra società.
Come annunciato anche dal presidente del Consiglio Enrico Letta in conferenza stampa subito dopo l’ultimo vertice straordinario del Consiglio Ue, il tema della disoccupazione giovanile è una «questione cruciale». E urgente, viene da aggiungere. Molto rischioso per la democrazia stessa, tanto da far datare il prossimo Consiglio straordinario dei 27 i primi di giugno.
Di fronte al tasso record della disoccupazione giovanile l’agricoltura si afferma come l’unico settore produttivo che ha difeso e anzi moltiplicato i posti di lavoro, con un incremento delle assunzioni del 3,6% nel 2012. Dati importanti, e che se analizzati nel dettaglio dimostrano, oltre i numeri, che questo fenomeno non coinvolge più solo i figli che subentrano all’attività di famiglia, ma neolaureati preparati e determinati che, a causa della crisi che chiude le porte degli altri settori, scelgono di scommettere sulla vita dei campi e reinventarsi produttori. Anche perché il settore è sempre più fiorente. Se un giovane su tre è senza lavoro e se per ricostruire l’Italia si è finalmente capito che si deve ripartire dalla terra, è necessario che il nuovo governo faccia tutto il possibile per incoraggiare l’approccio dei giovani all’agricoltura, favorendo un rinnovamento che passa attraverso le energie di questi «nuovi contadini» under 40 pieni d’ingegno e vena creativa.
I dottori dell'agricoltura
Secondo i dati Istat sull’occupazione, i nuovi «dottori dell’agricoltura» oggi sono quasi il 35% degli under 40 del comparto. Questa nuova agricoltura fatta di giovani anche con una laurea alle spalle è fondamentale per rinnovare un comparto che ha bisogno di aprire le porte alla competitività e alla creatività. E sono tante le imprese «junior» che hanno dimostrato un potenziale economico altissimo grazie ad una maggiore attitudine al rischio e al sempre più crescente interesse verso l’export, dimostrando anche un’elevata sensibilità per le tematiche sociali e ambientali.
Innovazione nei prodotti
Analizzando questo fenomeno e i dati Istat escono fuori altre curiosità sottolineate anche dalla Coldiretti, che ha individuato circa tremila giovani che hanno deciso di mettersi alla guida di un gregge come precisa scelta di vita per non arrendersi alla crisi. «Si tratta in gran parte di giovani che intendono dare continuità all’attività dei genitori – afferma la Coldiretti anche se non mancano nuovi ingressi, spinti da una scelta di vita alternativa a contatto con gli animali e la natura». Quando i giovani subentrano nelle aziende c’è un immediato riflesso sul prodotto aziendale. «La diffusa capacità di innovazione prosegue la confederazione si concentra sulla qualità e sulla sicurezza del prodotto ma anche nella capacità di presidiare il mercato attraverso nuove formule commerciali. La pastorizia è un mestiere ricco di tradizione, che ha anche un elevato valore ambientale e dalla sua sopravvivenza dipende la salvaguardia di razze in via di estinzione a vantaggio della biodiversità del territorio». La terra quindi come settore primario per creare opportunità e combattere la crisi.
Un segnale arriva anche con l’occupazione stagionale nei campi e con l’aumento di richieste di assunzione da parte di chi ha perso il lavoro in altri settori produttivi. Uno degli obiettivi da perseguire dovrebbe essere la possibilità di rendere l’agricoltura un’occupazione a tempo pieno, con interventi di tipo preventivo che consentano alle aziende agricole di mantenere i livelli occupazionali tramite l’adozione di provvedimenti straordinari per il contenimento del costo del lavoro, e non solo una soluzione temporanea per fronteggiare la crisi nell’immediato.
Nota: si veda anche sullo stesso tema e con i medesimi toni il pezzo di Piero Bevilacqua, "Una nuova agricoltura per le aree interne", dal convegno della Società dei Territorialisti (f.b.)
Saviano: «Scempio di cui è responsabile anche il Pd». La “pacificazione” e le “larghe intese” sono il collante della “città della rendita”. Guai a toccare i suoi eroi! La Repubblica, 23 maggio 2013
Dopo aver disertato l’apertura del dibattimento dieci giorni fa, aveva assicurato che avrebbe partecipato alle altre udienze e che si sarebbe difeso nel processo. Ma ieri, Filippo Penati è stato evocato in aula, senza successo, dal presidente del tribunale, poi dal suo avvocato che ha cercato di raggiungerlo al telefono, infine dal pm che — quando tutto era ormai deciso — ha sbottato verso il legale dell’ex presidente Pd della provincia di Milano: «Scusi, è sempre qui, ora è sempre fuori città? Poteva presentarsi anche l’altra volta...». Pochi minuti prima, il presidente del tribunale, Letizia Brambilla,aveva dichiarato la prescrizione per il politico, che è stato anche capo della segreteria di Pierluigi Bersani.
Evaporano così i tre capi d’imputazione sulle presunte tangenti per la riqualificazione delle aree Falck e Marelli di Sesto San Giovanni, dove Penati è stato sindaco dal 1994 al 2001, il filone più corposo dell’inchiesta dei pm di Monza, Franca Macchia e Walter Mapelli. «Una prescrizione “suo malgrado” — ha scritto Roberto Saviano su Facebook — Quella di Penati è una triste mistificazione». Prima di dichiarare la prescrizione, il giudice Brambilla ha chiesto al difensore di Penati, Matteo Calori, se Penati intendesse presentarsi in aula per dichiarare un’eventuale rinuncia. L’avvocato ha tentato di contattare, senza riuscirci, l’ex politico. «Penati non verrà, non posso dire altro sulla sua volontà» ha detto il legale. «Dobbiamo interpretarlo come una non rinuncia alla prescrizione? », ha chiesto ancora il giudice. «Non ho mandato per dire qualcosa su questo. Non posso assumere la responsabilità di una sua decisione», è stata la risposta di Calori.
Oltre ad accusare duramente Penati, Roberto Saviano prende di mira anche il Pd. «Non solo ha dolosamente contribuito alla modifica della legge, nascosta nel “pacchetto anticorruzione”, che ha ridotto i termini per la prescrizione, consentendo questo scempio, ma oggi nessuna voce si alza a stigmatizzare questa falsificazione della realtà. Se voleva rinunciare alla prescrizione, Penati avrebbe potuto farlo subito salvando non solo la sua dignità, ma quella di un intero partito, oggi smarrita».
L'Italia e in movimento o meglio, E in fermento. Da ALCUNI anni Ormai i Comitati locali per la Difesa delle Risorse comuni e dei beni del territorio nascono Venire funghi, e questo e Una cosa bellissima.
L'autodeterminazione dei Cittadini E ESSA STESSA Un patrimonio da Tutelare e valorizzare, niente non c'è di Più vero e genuino di un Comitato che sì forma per difendere la propria terra. L'unica discrepanza sta nel fatto che molte Volte, QUESTI "poveri" Cittadini, si devono difendere Dagli Stessi figuri Che Hanno Votato Nelle diverse Elezioni locali. Non mantenere le promesse, non di rado, E usanza del politico.
Ma Non E questo Il Punto, il tema che vorrei sottoporre E sempre collegato ai Movimenti per la Difesa del Territorio, ma SI discosta ambrogetta Scelte Politiche posandosi invece Silla Posizione delle Università italiane. Logicamente Visto Che Parliamo proprio di territorio, L'attenzione E Tutta per i corsi in stretto rapporto con l'ambiente e la Pianificazione. Quanto, per esempio, i corsi di Pianificazione Sanno di Cio che Succede Lungo il paese? e Quanto Sono Interessati a scoprilo?
In Italia, nonostante tutto, ABBIAMO dei buoni percorsi formativi per Quanto riguarda la PIANIFICAZIONE TERRITORIALE, Astengo ha Lasciato Una cospicua eredità, e ABBIAMO degli ottimi docenti Che Sanno Il Fatto il Loro. Se Una Carenza C'è, sta proprio nell'anello di congiunzione situato tra il Sapere accademico e la "rabbia territoriale" dei Cittadini; Le Due forme di Conoscenza non si incontrano, anzi Sembrano schivarsi correndo in parallelo su Uno Stesso piano.La Tendenza said manifesta anche quando si parla di progetti di ricerca, in ALCUNI Casi anche QUESTI si profilano Venire percorsi autoreferenziali, tortora la cosiddetta "Partecipazione" o riveste un ruolo e dai ricercatori e Dai marginale o manca del tutto.
La ricerca universitaria e importantissima, Soprattutto in un paese VIENE l'Italia un cui La conoscenza sta svanendo, e centrale cercare di mantenerla viva, Attiva e funzionale. Ma allo Stesso tempo, in un Periodo Venire questa Fatto di bisogni impellenti e di Risorse scarse, E Fondamentale canalizzare Gli Sforzi e le energie Direttamente su Situazioni di bisogni reali. Dall'altra parte ABBIAMO i Comitati, i Quali nascono principalmente per due Motivi: quando in data un territorio Gli abitanti percepiscono Che Un patrimonio collettivo e Sotto attacco, Allora Essi si Fanno Comunità Creando Uno spazio virtuale (ma neanche tanto) in cui discutere o SE Il caso lo consente, in cui decidere l'Azione. O quando un contesto non particolarmente E valorizzato e in questo Caso Sono Gli Stessi Cittadini un far nascere delle "buone Pratiche" per aumentare il benessere del Loro territorio.
La Caratteristica comune dei soggetti Interessati E Quella di sentirsi soli, di fronte ad un grande nemico, ed e per questo Che si uniscono perseguendo il motto: "l'unione fa la forza".
QUESTI Comitati Sembrano trovare appoggio Soprattutto Dalla e nella Rete, grazie a blog e siti che sì interessano di Loro e dedicano spazio alle Loro Battaglie.
Sarebbe di enorme Utilità UNIRE Gli intenti, Creando dei percorsi di ricerca rivolti a dei Territori in Pericolo (questo in ALCUNI Casi Già avviene). Realizzando degli Spazi di Comunicazione Tra Università e Comitati locali, in cui Gli uni con Gli Altri formino delle Proposte Specifiche per la salvaguardia dei Beni Comuni (comuni ai Cittadini comuni MA anche alle Università).
Il paese ha un estremo bisogno di Cooperazione interscalare e multidisciplinare, i Comitati Sono delle piccole (anche se forti) Esperienze di comunità civica Che Hanno dei grandi Valori Aggiunti Dalla Loro: La Buona Conoscenza del territorio e la voglia di cambiamento Le cose; d'altra parte le Università dovrebbero ascoltarli e Tariffa proprie le Loro QUANDO QUESTE Battaglie risultano Indispensabili, portando Quel Sapere tecnico teorico che manca nel cittadino comune. E 'auspicabile un lavoro di Squadra, per irrobustire lo scambio di Informazioni reciproche e per dividersi equamente la fatica nel cercare di controbattere in modo DECISO Gli sciacalli del territorio e del paesaggio.
Spazi virtuali vengono Eddyburg, o Salviamo il paesaggio, o Italia nostra potrebbero Essere I piu adatti per raccogliere questi Invito alla "Collaborazione territoriale". I blog in rete Già rivestono Il Ruolo di "megafoni" dei bisogni delle popolazioni locali, configurandosi Venire Luoghi di cultura civica, e ad Oggi Fanno un ottimo lavoro di Divulgazione e di rappresentazione delle Molteplici voci italiane (e Perché no Internazionali).
Comunque, la centralità del tema non a Qualcuno Non E sfuggita: la Società dei Territorialisti (Società dei Territorialisti), ad esempio, sta Cercando di Costruire un percorso finalizzato alla ricerca di "buone Pratiche" Portate avanti Dai diversificazione Comitati Cittadini sparsi Lungo Tutta la penisola italiana. Con la Realizzazione di un osservatorio e la redazione di Una rivista, l'associazione cercherà di gran lunga Emergere i Contesti in cui Gli abitanti Stessi Stanno formulando delle sane Proposte di rinascita patrimoniale. Nuovi Punti di Vista su Nuove priorita locali. Il tema e Stato descritto anche da Piero Bevilacqua (La vecchia talpa torna a scavare)
Allo Stesso Modo Anche la Biennale dello spazio Pubblico (Biennale Spazio Pubblico) svoltasi a Roma Pochi giorni fa ha replicato l'Importanza di diffondere le buone prassi Sulla Rigenerazione degli Spazi urbani, Soprattutto Attraverso l'Interazione di TRA Amministrazioni virtuose (quando esistono) e Comitati di Quartiere. Hanno partecipato cifra Diversa Nella impegnate Realizzazione di un nuovo Concetto di Comunità, Tra Gli Altri docenti anche, Studenti e Cittadini.
Quindi, potenziare i Flussi trasversali tra "territorio vero" e Sapere accademico dovrebbe Essere Uno degli Obiettivi futuri da perseguire, SIA Dai corsi attinenti alle scienze del territorio e SIA Dai Comitati locali; Perché se e vero Che la Consapevolezza del Fallimento Di Una cospicua parte del Sistema attuale E Ormai appresa Dai Più, dovrebbe Essere altrettanto sensato perseguire Una strada Diversa Che Porti Una Migliori RISULTATI.
Postilla
Sono Pienamente d'Accordo col considerare Una bellissima cosa il proliferare dei Comitati locali per la Difesa delle Risorse comuni e dei beni del territorio. Sono anche Consapevole dei Limiti della Loro Azione e delle Difficoltà Che la Loro Azione incontra: ne ho scritto in molte Occasioni, anche Ho Avuto in piu Occasioni il modo di sperimentarli Direttamente. Il volontarismo Non E SUFFICIENTE quando si devono combatte reguerre di Lungo respiro, e il localismo Minaccia di diventare Una gabbia, ed e comunque Insufficiente Una contrastare con Efficacia loscontro alla Scala globale. La SUA forza PUÒ Crescere quando ho Comitati si raccolgono in RETI (perciò mi Sembrano Insegnamenti utilmente esemplari Esperienze Venire Quella della Rete toscana (e di Quelle minori Che RETE associa), e del Forum per la Difesa del paesaggio e del territorio, e Venire la Più Recente rete interregionale No O-Me. Eddyburg, piccola Iniziativa povera di Risorse, fa Quello che PUÒ con Gli strumenti dell'Informazione, della Diffusione e della critica Condivido anche La tua convinzione Che l'accademia potrebbe osare un forte Sostegno al Consolidamento dei Comitati e delle Loro azioni, aiutando connettere un in Battaglie comuni i Sapere Esperti con Quelli territoriali: ma condivido La tua critica: VEDO solista impegni Molto LIMITAZIONI D'posta Personali Nelle facoltà Universitarie di Oggi, Volte Più un favorire successi Professionali di categoria oa ripiegarsi nell 'autoconservazione del Loro piccolo Potere. Quanto un Venire Istituti Culturali l'Istituto Nazionale di Urbanistica, Che tu citi, Accanto un segnale Qualche interessante Venire l'Iniziativa sullo Sazio Pubblico vedo Ancora prevalere Una linea di accettazione acritica delle Scelte mainstream, o addirittura la promozione, legittimazione e Consolidamento di Linee di cultura e di prassi urbanistiche Che giudico, non da oggi, perversa e in pieno contrasto con la storia del vecchio INU. Ma su questo punto varrà la pena di Tornare su QUESTE pagine, Perché Il Ruolo svolto da quell'istituto (Che ho Avuto l'Opportunità di Conoscere dall'Interno per MOLTI anni, Venire anche Suo presidente) Nella promozione della "città della rendita" e Stato devastante.
«Ovvero grandi opere, capitalismo post-fordista e corruzione liquida dello Stato post-keynesiano». Lo schema della relazione che il massimo svelatore italiano delle truffe nei lavori pubblici e nelle G.O. terrà domani al convegno indetto Ravenna contro lo spiedo Orte-Mestre, inviato il 24 maggio 2013
La grande impresa del capitalismo globalizzato è caratterizzata da una organizzazione fondata sul cosiddetto “outsourcing”, che sta ad identificare un processo di scomposizione e svuotamento della fabbrica fordista che passa da un'organizzazione “a catena piramidale” ad un sistema “a rete virtuale”. La piramide dell'impresa fordista si è decomposta in una enorme ragnatela formata da tante ragnatele sempre più piccole, con al vertice il ragno più grande, collegato alle altre ragnatele con tanti ragni sempre più piccoli.
In Lessico Virilio, di Silvano Cacciari e Ubaldo Fadini, il tentativo «di valutare, in maniera adeguatamente disincantata, i pericoli legati all'utilizzazione della scienza dell'informazione in chiave di dominio totale». il manifesto, 20 aprile 2013
Dall'urbanistica al predominio delle macchine nella scienza, i temi dello studioso francese
Lessico Virilio. L'accelerazione della conoscenza (Felici, pp. 120, euro 15) di Silvano Cacciari e Ubaldo Fadini ha una struttura molto singolare: è un dizionario composto praticamente da un'unica parola, velocità . In questo vocabolo solo apparentemente anodino sembra che possa essere racchiuso tutto il complesso discorso teorico che contrassegna il percorso filosofico e politico di Paul Virilio. Inoltre, in questa parola-chiave è compendiato anche il rapporto (per i due autori del saggio considerato come decisivo) tra politica ed estetica che lo contraddistingue. Il saggio si apre con una domanda: come mai su Virilio non esiste in Italia una riflessione adeguata alla sua importanza e al suo peso nella cultura francofona e anglosassone? Infatti, anche se la bibliografia delle traduzioni italiane degli scritti dello studioso francese è ormai copiosa (e Fadini ne rende conto nel suo saggio) non sarà inopportuno ricordare come questo urbanista e architetto (non accademico) sia passato alla riflessione filosofica e sia poi divenuto celebre in Francia per una serie di affermazioni di notevole importanza per la ricostruzione degli eventi fondativi della postmodernità. Il libro di Cacciari e Fadini si propone, di conseguenza, non solo di costituire una sorta di introduzione generale alla sua opera ma di approfondirne alcuni aspetti peculiari considerati come essenziali anche in rapporto all'utilizzazione politica della prospettiva di Virilio.
Le forme della guerra
Le Chernobyl informatiche
Un appello del "Gruppo di San Rossore" alla politica perchè si aprano le orecchie alla ragione e alle ragioni della tutela della natura. Con postilla
Tra le molte e complicate situazioni che il nuovo governo e il nuovo parlamento e con loro le regioni dovranno affrontare rientra - e non tra le ultime - l’ambiente. E se per altri aspetti si tratterà come già sta accadendo di rimettere mano a vecchie agende bisognose di revisione e aggiornamento nel caso dell’ambiente urge trovargli finalmente un posto che finora non ha avuto né nei programmi di governo quanto negli impegni parlamentari al punto da essere stato del tutto snobbato persino in campagna elettorale.
Che per qualcuno si debba ripartire con un condono la dice lunga sui tempi che corrono e sui rischi che ancora una volta le cose non cambino. Qui per uscire dal tunnel bisogna sia chiara soprattutto una cosa e cioè che la crisi sociale con i suoi effetti da macelleria dipende al pari dei disastri ambientali da una politica economico-finanziaria che si è messa sotto i piedi con i diritto al lavoro e alla solidarietà i valori dei beni comuni, della sicurezza, della salute, del paesaggio e della natura. Due facce insomma della stessa medaglia.Ne deriva quindi l’estrema necessità e urgenza di una nuova politica economico-sociale ma anche e non di meno di politiche di programmazione e pianificazione del governo del territorio di cui da tempo si sono perse le tracce.
Per essere più chiari onde evitare possibili ambiguità ed equivoci che in qualche misura si avvertono già da tempo bisogna finalmente imboccare politiche che puntino sulla greeneconomy che da sole tuttavia non rispondono alle esigenze complessive di nuove politiche ambientali in grado di fronteggiare adeguatamente e finalmente la gestione dei beni comuni, del suolo, del paesaggio, della natura. Politiche che non possono dipendere in nessun caso esclusivamente da quelle economiche che devono ‘sottostare’ costituzionalmente al governo pubblico.
Qui è indispensabile una riflessione seria sul carattere di queste nuove politiche ambientali con le quali si devono misurare le istituzioni e la politica ma anche i tanti movimenti i quali hanno l’indiscutibile merito di non essersi rassegnati a quel che finora ha passato il convento. Essi hanno il merito con le loro denunce, comitati, petizioni di essersi opposti a impianti insicuri o pericolosi, a infrastrutture invasive e molto altro ancora. Ma dall’insieme di queste iniziative locali o anche più ampie innegabilmente legittime spesso non emergono proposte, progetti, ipotesi in grado di configurare per aree vaste, regionali e nazionali quelle nuove politiche di cui ha bisogno oggi il governo del territorio. Vale sul piano nazionale ma anche regionale.
Se guardiamo in questo momento alle vicende toscane abbiamo conferma di questa contraddizione che vede regione e comuni quasi ai ferricorti sul paesaggio che si teme possa anche per certi atteggiamenti anche ma non solo delle sopraintendenze un impedimento ad interventi e operazioni a cui i comuni non possono sottrarsi. Qui si avverte subito quanto la rete istituzionale si sia smagliata in questi anni rispetto anche al passato che aveva visto entrare in gioco con la regione e i comuni le province, i parchi e le aree protette, le autorità di bacino come interlocutori fondamentali di nuove politiche nazionali. Protagonisti oggi sempre più deboli o scomparsi o in via di sparizione e il cui ruolo appare sempre meno incisivo nonostante –spesso - normative importanti che lo stato ha però spesso smantellato o messo in mora; la legge sul mare, la legge sul suolo, la legge sui parchi e le aree protette e tutte le nuove disposizioni comunitarie.Qui la politica per le sue responsabilità istituzionali e non solo sul piano nazionale ha bisogno di riconquistare credibilità, fiducia, consenso. E tanto maggiori sono le responsabilità dei singoli protagonisti tanto maggiore deve essere la loro capacità di farlo e presto.
Postilla
Sarebbe bello se quelli che il Porcellum ha eletto (con la nostra complicità) avessero le orecchie aperte alle parole come quelle del gruppo di San Rossore. Ma quelli che, per colpa nostra, ci governano non vedono certamente i parchi naturali e le aree protette come prime oasi strappate alla distruzione e, al tempo stesso, laboratori sperimentali nella marcia per giungere alla tutela delle qualità del territorio ovunque esse siano collocate, ma solo come ingombranti recinti che possono ostacolare il percorso di un’autostrada o una licenza a svillettare. Sviviamo sotto il dominio di un regime che si ammanta di belle parole (sostenibilità, green economy) per procedere in uno “sviluppo” basato sulla concezione del territorio come luogo del “diritto di edificare”; un regime di lupi travestiti, a volte, da agnelli.