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Fatto Quotidiano, 24 giugno 2013, con articoli di Ferruccio Sansa, Roberto Morini e Thomas Mackinson, dedicato ai danni gravissimi provocati a una delle più straordinarie isole del Mediterraneo. Ma le responsabilità non sono solo degli immobiliaristi che crescono all'ombra dei cappellacci, né solo dei Mazzarò locali, anche dei ministeri romani: in particolare del MIBAC. Come spieghiamo sinteticamente in una postilla

Sardegna oggi
di Thomas Mackinson e Ferruccio Sansa

Salvare la Sardegna. Ora o mai più. Sull’isola di Smeraldo stanno per riversarsi 50 milioni di metri cubi di cemento. Una colata senza precedenti, concentrata su coste tra le più belle e delicate del mondo. Luoghi che rendono unica la Sardegna e, proprio perché intatti, garantiscono la maggiore ricchezza economica di un’isola in gravissima crisi.
C’è la minaccia del cemento targato Qatar, uno schiaffo irrimediabile al paesaggio, ma anche all’orgoglio della gente sarda che vedrebbe la propria terra colonizzata con i soldi del petrolio. E ci sono imprenditori nostrani, come i Benetton, che alle origini della loro fortuna - prima di diventare i padroni delle Autostrade - amavano darsi un’immagine politically correct. Poi tanti grandi della finanza italiana, come il Monte dei Paschi o i Marcegaglia, che hanno chiesto di poter costruire o gestire alberghi. Insomma, nomi che contano nei salotti della politica e del potere nazionale, di fronte ai quali la gente di Sardegna pare disarmata.

Il grimaldello per aprire la porta è quello della crisi, come ricorda Stefano Deliperi, che con il Gruppo di Intervento Giuridico è una delle voci più appassionate e agguerrite nella difesa della terra di Sardegna: “Il 30% dei residenti in Sardegna in età lavorativa - dai 15 anni in poi – sono disoccupati o sottoccupati, mentre il 62,7% è privo di qualifica professionale. In tre anni (2008-2011) l’edilizia in Sardegna ha perso il 40,86% degli addetti, passando da 44.032 a 26.176 (dati Fillea Cgil)”.

La risposta della politica e della giunta di centrodestra guidata da Ugo Cappellacci sembra essere solo una: costruire. Non importa che l’attuale maggioranza tra pochi mesi scada e che decisioni tanto importanti non debbano essere prese da chi, forse, presto tornerà a casa. Non importa, soprattutto, che altre strade siano percorribili, “con vantaggi per l’ambiente e per l’economia”, come ricorda Deliperi. Una, per dire: la giunta di Renato Soru aveva previsto investimenti per mezzo miliardo per recuperare paesi e borghi dell’entroterra. Un modo per dare lavoro al settore edile, per portare il turismo oltre le coste, ma anche per risparmiare il paesaggio. Salvando i centri dell’interno - la vera anima della civiltà e della cultura sarde - altrimenti destinati all’abbandono. Eccole, allora, le principali minacce che incombono sulla Sardegna. Pericolose, soprattutto perché fatte con il benestare dell’amministrazione. A norma di legge.

Costa Smeralda, la grande preda è sempre lei il sogno degli immobiliaristi di mezzo mondo. Quella manciata di chilometri di granito affacciati sul blu. Ma stavolta l’incubo potrebbe diventare realtà: nel 2012 l’intera Costa Smeralda è stata acquistata (per 600 milioni) dalla Qatar Holding, il braccio finanziario della famiglia Al Thani, casa regnante del Qatar. “Con la benedizione di Cappellacci e degli amministratori di Olbia e Arzachena, è stato presentato un piano di massima per investimenti immobiliari da un miliardo”, racconta Deliperi. Un progetto che prevede tra l’altro: 500 mila nuovi metri cubi, il restyling della famosa piazzetta di Porto Cervo e dei quattro hotel “storici”, un “parco acquatico” a Liscia Ruja, un kartodromo, decine di ville extra-lusso, trasformazione di 27 caratteristici “stazzi” galluresi in ville esclusive. E subito sono partiti gli esposti delle associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico onlus e Amici della Terra e i provvedimenti del Servizio valutazione impatti della Regione autonoma della Sardegna. Sostiene Deliperi: “A nostro avviso il progetto viola il piano paesaggistico regionale e le altre normative di salvaguardia ambientale. Non ci risulta che siano stati svolti i necessari procedimenti sulle valutazioni di impatto sull’ambiente”. Risultato : la “Costa Smeralda 2” targata Qatar finora è stata bloccata dagli uffici tecnici della Regione.

Dune di Badesi. Costruire perfino in riva al mare. Addirittura sulle dune. “A Badesi”, racconta Deliperi, “a poche decine di metri dalla battigia, stanno fiorendo ville sulle dune. E nell’immediato entroterra appartamenti”. Servizio completo. Ancora Deliperi: “Mancherebbero le necessarie procedure di impatto sull’ambiente (come certificato del Servizio valutazione impatti della Regione autonoma della Sardegna) e il piano di lottizzazione degli anni 70 del secolo scorso è ormai ampiamente scaduto”.
Il contrattacco degli ambientalisti è a colpi di carte bollate, interrogazioni al Parlamento europeo (del deputato ecologista Andrea Zanoni), al Senato e alla Camera (Cinque Stelle) e in Regione (l’indipendentista Claudia Zuncheddu). La Commissione europea e il Ministero dell’Ambiente hanno chiesto chiarimenti.

Piscinas – Ingurtosu. Siamo sulla costa occidentale, in una distesa di verde a perdita d’occhio. Poi profumo di mirto e davanti solo mare. Ma il paesaggio cambierà se arriveranno 40-50 mila metri cubi di ville, residence, centro benessere, campo da golf. Nelle aree minerarie di Ingurtosu e Piscinas, a ridosso delle splendide dune costiere di Piscinas – Scivu. E le norme per la tutela del paesaggio? “Non sono state rispettate”, scrivono ambientalisti e comitati nei loro esposti. Ancora una volta la sorte del paesaggio sardo è nelle mani dei giudici.

Tuvixeddu. La più importante area archeologica sepolcrale punico-romana del Mediterraneo (oltre 2.500 tombe dal VI sec. avanti Cristo fino all’Alto Medioevo). Dentro Cagliari. All’estero ne farebbero un’attrazione capace di richiamare centinaia di migliaia di turisti (e tanto denaro). In Italia invece neanche sappiamo che c’è. C’è voluto il giornale inglese Times per tirare fuori la storia. Se digiti “Tuvixeddu” su internet ti compare il sito della società costruttrice: “Abitare non è mai stato così piacevole”, con tanto di immagini della futura colata. L’accordo del 2000 prevedeva 400 mila metri cubi affacciati sulla necropoli. Un progetto caro alla potentissima famiglia Cualbu, sostenitrice di Cappellacci, ma con amici nel centrosinistra. Marcello Sanna, che abita a pochi metri la descrive così: “Qui non è solo una questione di ambiente e storia. Ma di rispetto dei morti”. Ma dopo anni di dispute legali le ruspe affilano di nuovo i denti.

Capo Malfatano. Una lingua di terra e di vegetazione bassa, piegata dal vento. Una manciata di case di pietra, i furriadroxus, testimonianza di una comunità unica: anziani pastori, tutti uomini, che hanno speso qui ogni giorno della loro vita. Ecco cos’è Capo Malfatano, nell’estremo sud della Sardegna. Per rendervene conto potete vedere su internet il bellissimo documentario “Furriadroxus” di Michele Mossa e Michele Trentini. Un luogo perso in fondo alla Sardegna, ma gli appetiti delle grandi imprese sono arrivati fin qui: il progetto prevede 140mila metri cubi di cemento, come dieci grandi palazzi, sui 700 ettari incontaminati del promontorio. Un’operazione voluta da colossi nazionali del settore: società della famiglia Toti, dei Benetton, del Monte dei Paschi. Per capire cosa ne verrebbe fuori basta vedere il sito www.silvanototi.com  . Anche la Mita che fa capo ai Marcegaglia era pronta a gestire gli alberghi. Ma il progetto per adesso è fermo dopo la sentenza del Tar. La parola al Consiglio di Stato. Una buona notizia per i vecchi abitanti dei Furriadroxus che temevano di dover lasciare le loro case dopo una vita. Per far posto ad alberghi e centri benessere.

La storia urbanistica della Sardegna è un susseguirsi di battaglie a colpi di vincoli, piani casa, corsi e ricorsi. Sembrava che il rischio della cementificazione fosse stato scongiurato quando nel 2004 Renato Soru - patron di Tiscali eletto governatore con il centrosinistra - varò la “legge salvacoste” che vietava di costruire in prossimità del mare. Ma i nemici del nuovo vincolo non hanno dato tregua. Fino alle dimissioni di Soru e alla sua sconfitta elettorale nel 2009. In prima fila c’è Silvio Berlusconi, grande sostenitore di Ugo Cappellacci, eletto alla guida della Regione quasi cinque anni fa. Ma Soru, va detto, fu fortemente avversato anche dalla maggioranza che lo sosteneva. Anzi, furono proprio gli scontri all’interno della sua coalizione a farlo cadere. In Sardegna, dicono in molti, comandano le “3 M”: medici, massoni e mattone. Ma c’è chi ne aggiunge altre due: media e monsignori.
Grazie al sostegno della Regione e anche di amministrazioni locali sulle coste della Sardegna è prevista la realizzazione di progetti per un totale di 50 milioni di metri cubi. Più di una grande città.
I fondi del Qatar hanno acquistato la Costa Smeralda per 600 milioni. Il progetto prevede tra l’a l t ro : 500 mila nuovi metri cubi, un “parco acquatico”, un kartodromo e decine di ville extra-lusso. La fame di costruire non ha risparmiato Tuvixeddu, necropoli fenicia dentro Cagliari. Il progetto prevedeva 400mila metri cubi nuovi. Anche il Times si è scagliato contro il piano.


Stintino, spiaggia Pelosa sarà ben poco virtuosa
di Roberto Morini


La Turisarda potrà costruire altri 40mila metri cubi di cemento davanti alla spiaggia più bella del nord Sardegna, la Pelosa di Stintino, in una delle zone più belle del Mediterraneo, capo Falcone, in faccia alla splendida isola-parco dell’Asinara. Aumenterà così del 20 per cento la volumetria di quello che è giustamente considerato uno degli ecomostri sardi più noti, l’hotel Roccaruja.

Il lungo serpentone alto quattro piani costruito dai Moratti negli anni Sessanta, quando in mezzo a quelle dune non si era ancora visto nemmeno un mattone, passato poi sotto il controllo dell’Eni attraverso Snam, quando i petrolieri di stato facevano ancora gli imprenditori turistici, è finito nel 2000 in mano a una società sarda, la Turisarda, appunto. Di volontà di eliminazione dell’ecomostro riferirono tutti i giornalisti presenti alla conferenza stampa durante la quale il sindaco di Stintino Antonio Diana aveva presentato nel giugno 2010 quello che aveva battezzato “Puc salva coste”. Diana, il politico che nell’ultimo decennio ha partecipato più di tutti gli altri alle decisioni relative al cemento sulle coste di Stintino, prima come assessore all’Urbanistica poi, dal 2007, come sindaco, rieletto l’anno scorso per il secondo mandato, in quella conferenza stampa aveva parlato di svolta ambientalista. Aveva annunciato che l’albergo sarebbe stato demolito e ricostruito più lontano dalla spiaggia, che la Pelosa sarebbe rinata anche attraverso la cancellazione della strada che ora separa la spiaggia dall’albergo e dalla lunga e ininterrotta teoria di ville costruite in quarant’anni a Capo Falcone.

Una spiaggia ormai dimezzata nella sua superficie, trasformata in duro campo di sabbia umida e battuta dalle centinaia di migliaia di turisti che la calpestano ogni estate in ogni suo centimetro, rendendola impraticabile per chi non sia disposto a conquistarsi un posto al sole alle 7 del mattino. “L’hotel Roccaruja – aveva detto in quella occasione Antonio Diana – dovrà essere sottoposto a un radicale adeguamento con un progetto meno impattante”. Eppure a Stintino la distanza tra parole e fatti era stata osservata più volte. Come quando, negli anni Novanta, il Comune di Stintino aveva sfregiato uno dei panorami più belli del mondo con l’installazione di un filare di lampioni che spezzava, e continua a spezzare, una vista fino ad allora mozzafiato. Ora dietro le parole ambientaliste viene lanciato un aumento di cubature di cui nessuno si era accorto.

Il vero contenuto del Puc del Comune di Stintino viene alla luce solo ora perché a puntare la lente d’ingrandimento sui numeri del piano urbanistico ci ha pensato un geometra sassarese, Alfonso Chessa, con un esposto alle procure della Repubblica di Cagliari e Sassari e al Tribunale di Brescia. Chessa si riteneva vittima indiretta del grande crac Bagaglino-Italcase, un fallimento da 600 milioni di euro che in primo grado aveva visto la condanna di alcuni dei nomi più grossi della finanza nazionale, da Cesare Geronzi a Roberto Colaninno a Stena Marcegaglia, poi assolti in appello da una sentenza che confermava solo le condanne di Mario Bertelli, titolare del gruppo turistico bresciano travolto dal fallimento, e di alcuni imprenditori locali. Secondo il geometra sassarese, infatti, il Comune di Stintino aveva trasferito nel 2006 le cubature precedentemente attribuite al Country Village, il villaggio turistico di Bertelli, ad altre aree, tra le quali quella dell’hotel Roccaruja. Proprio nella causa relativa al fallimento Bagaglino-Italcase, Chessa era poi diventato perito del Tribunale di Brescia, che si era trovato svalutati, perché non più edificabili, i terreni che avrebbe dovuto vendere per tentare di pagare i numerosi creditori. E aveva già denunciato, con una serie di esposti, quell’operazione da lui ritenuta illegittima.

Ora, dopo il Puc, il nuovo esposto presentato da Chessa fa emergere la conferma di quella scelta, fatta nel 2006 quando l’attuale sindaco era ancora assessore all’Urbanistica nella giunta guidata da Lorenzo Diana. Nel Puc l’ipotesi di demolizione e ricostruzione dell’ecomostro esiste, ma sembra poco allettante per i proprietari dell’albergo: la premialità aggiuntiva in caso di demolizione e ricostruzione è infatti di soli 6mila metri cubi. Mentre i 40mila metri cubi, che si aggiungono agli attuali 200mila, sono immediatamente utilizzabili, senza nessuna demolizione, senza nessuno spostamento lontano dal mare.

A sua difesa il Comune sostiene di aver addirittura ridotto la volumetria che l’attuale proprietario del Roccaruja avrebbe a sua disposizione, dai 50mila metri cubi concessi nel 2006 ai 40mila del Puc. Ma Chessa afferma, norme e carte alla mano, che il diritto di costruire, in base alla lottizzazione avvenuta negli anni Sessanta, era scaduto nel 1978 ed era stato rinnovato solo fino al 1992. Da allora i proprietari avevano perso la possibilità di realizzare nuove costruzioni.

Lo scontro legale arriva a raffinatezze normative e verifiche sul campo come quella relativa all’esistenza o meno delle opere di urbanizzazione: strade, fogne, acquedotto. Secondo il Comune erano già quasi terminate e quindi il nuovo cemento sarebbe un diritto acquisito anche se l’area è a meno di trecento metri dal mare. Secondo Chessa quelle opere non ci sono, non ce n’è traccia. E all’occhio del profano sembra abbia ragione lui. Secondo il Comune invece ci sono. Ma in un atto della Regione, servizio Tutela del paesaggio, che nel 2006 autorizzava le nuove costruzioni approvate dal Comune negandone l’impatto ambientale, si affermava: “Resta fermo che tutte le opere di urbanizzazione (…) dovranno essere specificamente autorizzate”. Pare dunque che dovessero essere ancora realizzate.

C’è un altro fatto che solleva dubbi sull’operazione. Nel 2003, tre anni prima delle delibere con cui il Comune autorizza per la prima volta l’aumento di cubatura per il Roccaruja, Turisarda srl vendeva a Forrazzu srl un terreno di 16mila metri quadri di fronte alla Pelosa. Secondo alcuni a prezzi stracciati. I protagonisti hanno sempre difeso la correttezza dell’operazione. Un altro passaggio di proprietà tra le due società è registrato alla fine del 2006, pochi mesi dopo le due delibere favorevoli a Turisarda. In quel periodo Antonio Diana è assessore all’Urbanistica e contemporaneamente amministratore unico della Forrazzu srl. Si dimette da quell’incarico societario nel giugno 2007, quando viene eletto sindaco di Stintino. E resta socio al 25 per cento. Chiara e immutata una domanda di fondo: chi difenderà quel che resta di questo meraviglioso angolo di Sardegna che rischia di diventare una striscia di cemento senza soluzioni di continuità?

“Basta consumare terra, rischiamo catastrofi”
intervista al ministro dell'Ambiente, di Ferruccio Sansa

Il territorio non regge più. Ce ne siamo accorti tutti. In pochi anni per colpa di frane e alluvioni abbiamo rischiato che si ripetesse un Vajont. Basta. Serve una legge che difenda senza tentennamenti il nostro territorio. Per questo abbiamo presentato il disegno di legge per contenere drasticamente il consumo del territorio”.

Andrea Orlando (Pd), è ministro dell’Ambiente da pochi mesi. Al suo arrivo c’era stato chi aveva puntato il dito sulla sua mancanza di esperienza specifica. Proprio al dicastero che deve affrontare nodi come l’Ilva. Ma ecco che Orlando si appresta a presentare un disegno di legge sul consumo del territorio più severo di quello (molto criticato) lanciato da Ermete Realacci. Una disciplina che raccoglie consensi anche tra gli ambientalisti.

Ministro, che cosa prevede il vostro testo? Vogliamo ridurre drasticamente il consumo del territorio.

Come, concretamente? Tanto per cominciare prima di consumare suolo il pianificatore dovrà dimostrare il recupero e il riuso dell’esistente. Secondo, sarà fissato - regione per regione - un limite all'estensione massima di terreni agricoli consumabili. Ancora, si prevede l'istituzione di un Comitato interministeriale che controlli e monitori il consumo.

Le associazioni ambientaliste, come il Wwf, chiedono che ogni comune predisponga un “bilancio” del consumo del proprio suolo... Sono previsti censimenti comunali delle aree già interessate all’edificazione, ma non utilizzate e dove è possibile fare rigenerazione e recupero dei terreni. Sarà anche vietato per cinque anni trasformare i terreni agricoli che hanno usufruito di aiuti di Stato o Comunitari.

Basteranno cinque anni? La proposta di Realacci, che pure viene dal mondo dell’ambientalismo, è stata bersaglio di critiche perché non abbandonerebbe la logica delle compensazioni. Nel nostro decreto c’è un punto chiave: i comuni potranno utilizzare i proventi di concessioni e autorizzazioni edilizie solo per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, per il risanamento dei centri storici e la messa in sicurezza del rischio sismico e idrogeologico. É un passo avanti epocale. Finora i comuni erano istigati a cedere il suolo, a far costruire perché gli oneri potevano essere utilizzati per far quadrare i bilanci. Ora basta.

Non si potrebbe osare ancora di più e premiare chi non costruisce? Le premesse ci sono. Viene incentivato il recupero del patrimonio edilizio rurale evitando la costruzione di nuovi edifici con finanziamenti in materia edilizia. Ed è istituito il Registro dei Comuni che non prevedono un incremento di aree edificabili. Con le leggi di stabilità si potranno prevedere premi ai comuni virtuosi.

Ministro, dobbiamo crederle? Possibile che d’un tratto ci si ricordi dell’ambiente? La questione non era più rinviabile. Abbiamo rischiato tragedie, il nostro territorio non regge più.

È pensabile che la lobby del mattone che ha tanti appoggi nel centrodestra, e anche nel suo Pd, pieghi il capo? Non nego che le lobbies del cemento abbiano ancora peso politico e che magari ci sia chi vorrebbe reagire alla crisi con la solita soluzione: il mattone.

Appunto, non finirà con le solite belle intenzioni e il nulla di fatto? É un momento ideale per voltare pagina: in Italia ci sono milioni di case nuove invendute. Non si può costruire ancora. Non solo: oggi non costruire, risparmiare il suolo può portare più denaro e lavoro. Pensi che l’85% del nostro patrimonio di 2 miliardi di metri quadrati di abitazioni richiede una riqualificazione. É un’occasione straordinaria per imprese e lavoratori. Ancora: la principale industria del nostro Paese è il turismo, che si tutela proteggendo il territorio. Infine: riducendo il consumo del territorio diamo un forte impulso all’agricoltura, un settore in espansione.

Insomma, meno cemento più sviluppo? Sì.

Perdoni la diffidenza, ma voi siete alleati con il centrodestra dei condoni... Il condono non ci sarà mai. E sul consumo del suolo non ho avuto ostacoli. Chissà, forse le mire delle grandi imprese si sono concentrate sulle infrastrutture.

O forse sono tutti convinti che non arriverete in fondo e resteranno belle parole? Può darsi che qualcuno creda che il cammino sia troppo lungo. Che speri in emendamenti. Ma io credo che non sarà così, e i punti essenziali del nostro disegno di legge potremmo proporli con un decreto perché diventino subito legge. Ora o mai più. Difendere il territorio oggi significa uscire dalla crisi. Ed evitare tragedie. Gli italiani lo sanno e ci sosterranno.


SUOLO CONTRO TUTTI
di Thomas Mackinson
Non c’è più tempo, non c’è più lo spazio. Ogni quattro secondi - il tempo di terminare questa frase - 32 metri quadri di suolo vengono coperti dal cemento che viaggia ormai alla velocità media di quasi 90 ettari al giorno. Ogni cinque mesi divora una superficie grande come la città di Napoli, in cinquant’anni ha ricoperto un’area come il Trentino e il Friuli messi insieme e di questo passo, tempo vent’anni, avremo cementificato pure la Basilicata.

Dati e previsioni della pubblicazione più completa mai realizzata in Italia sul consumo di suolo e sulla rigenerazione del territorio che il WWF ha presentato insieme alla sua proposta di legge per “fermare la rapina del territorio” proprio mentre in Parlamento partiva una delicata discussione sullo stop al cemento. L’indagine è condotta dall’Università dell’Aquila e si basa sul confronto tra estratti originali delle cartografie storiche del secondo Dopoguerra e le carte regionali digitali d’uso del suolo. Monitora 13 regioni, il 58% del territorio nazionale, quindi è significativa dell’andamento generale dell’urbanizzazione: “Il tasso medio - spiega Bernardino Romano, professore di Pianificazione territoriale e curatore della ricerca - è passato dall’1,9% degli anni 50 al 7,5. La media pro capite è triplicata ai quasi 380 m2/ab. Il che porta a stimare oggi l’ammontare delle aree urbanizzate sui 2,5 milioni di ettari”.

Il paradosso è che altro cemento proprio non serve. Secondo Adriano Paolella, direttore generale di WWF Italia ci sono 210mila capannoni inutilizzati, 6.700 chilometri di ferrovie dismesse, 5 milioni di abitazioni vuote. A fronte di questa situazione è ormai maturata nel Paese una domanda sociale, diffusa e organizzata, che aspira ad una riqualificazione degli insediamenti urbani e del territorio. Il WWF l’ha colta con la campagna “Riutilizziamo l’Italia” che in cinque mesi ha prodotto 575 schede di segnalazione di ambiti di patrimonio inutilizzato e altrettante proposte di riuso. Il censimento può essere “il primo contributo per avviare un grande processo di recupero del territorio italiano dopo quello dei centri storici nel Dopoguerra”. Sempre che arrivino le risposte politico-normative che si cercano in Parlamento.

Perché se lo spirito del tempo è cambiato, questa sensibilità nuova chiama in causa la politica. In Parlamento, nel giro di poche settimane, si sono materializzate 11 proposte di legge sul consumo di suolo accompagnate da furibonde polemiche. Le iniziative corrono su un binario parallelo. Sul fronte parlamentare si è aperto un caso intorno alla proposta “Norme per il contenimento dell’uso di suolo e la rigenerazione urbana”, primo firmatario Ermete Realacci (PD), che ammette la possibilità di consumare nuovo suolo previo pagamento di un “contributo per la tutela del suolo e la rigenerazione urbana” (art. 2), l’attribuzione di quote di edificabilità e di diritti edificatori per compensare i proprietari di immobili ceduti al comune o per incentivare le trasformazioni, i recuperi e le demolizioni (art. 6). Tanti, compresa Italia Nostra , hanno preso le distanze; altri gruppi parlamentari si sono precipitati a depositare proposte alternative. Quelle di Pd, M5S e Scelta Civica hanno in comune l’eliminazione dei proventi delle concessioni edilizie per il finanziamento della spesa corrente dei comuni. Sel ha fatto propria al Senato quella elaborata dal WWF che chiede l’istituzione di un registro del consumo di suolo presso l’Istat e spinge sul recupero, indicando strumenti di fiscalità urbanistica che penalizzano chi spreca suolo e premiano chi riusa. Poco o nulla si sa, invece, di quella del Pdl. Intanto a muoversi è stato il governo che lo scorso 15 giugno ha approvato una versione rivisitata del Ddl dell’ex ministro Mario Catania, presentato alla fine della scorsa legislatura. Il testo mantiene il focus sulla tutela dei terreni agricoli ma fa riferimento anche al paesaggio. Salutato da tanti come un interessante passo avanti su cui avviare la discussione, definisce il suolo “bene comune” e “risorsa non rinnovabile” (art. 1) e ascrive a riuso e rigenerazione il primato in materia di governo del territorio (art. 2). Due principi che vanno al cuore del problema. Sempre che le contrapposizioni tra paladini del verde (sinceri e non) non blocchino tutto, lasciando ancora e sempre il suolo contro tutti.

Non lasciamo sola la Sardegna
di Ferruccio Sansa


Non lasseus assola sa Sardigna. Si deppeus ponni de bona voluntadi e aggiudai sa genti sarda. Cust'Isola non deppit accabbai pappada de su ciumentu.

Non lasciamo sola la Sardegna. Prendiamo questo impegno. Non abbandoniamo quest’isola che rischia di finire in pasto al cemento: 50 milioni di metri cubi di nuove costruzioni sulla costa significano la fine. Non porteranno turismo, ma un’umiliante colonizzazione compiuta con i soldi del Qatar o della nostra finanza.

Ce ne dimentichiamo facilmente, basta scendere dal traghetto che ci riporta a casa alla fine delle ferie. Ma alla Sardegna dobbiamo molto. Non solo vacanze felici. Il blu della sua acqua per tanti di noi è la misura di ogni mare. Il profumo che ci accoglie all’arrivo appena si apre il portellone della nave resta dentro per mesi, anni. Ricorda che c’è un altrove dove tornare e rifugiarsi. Anche solo nei pensieri.

Questa è la Sardegna che appartiene alla sua gente, ma cui tutti siamo legati. Una terra grande, con una sua cultura. Una lingua (noi abbiamo azzardato un passaggio nella variante campidanese).

Arriva l’estate, la stagione del riposo, della leggerezza. Del distacco da pensieri e fatiche. Forse ormai crediamo che questo bisogno dentro di noi, proprio nel corpo, sia suggerito dal calendario del lavoro, delle fabbriche (dove ci sono ancora). No, non è così. Le stagioni dell’uomo sono dettate da quelle della natura. Ce ne accorgiamo soprattutto in estate: questo risveglio che sentiamo nei muscoli (ahimè, quando ci sono) è lo stesso che vediamo negli alberi, nell’aria, negli animali. L’estate riavvicina al mondo, ricorda che ne siamo parte. Allora le vacanze - giuste, sacrosante, spesso dimenticate per colpa della crisi - potrebbero farci riallacciare un legame essenziale. Con il mondo, ma anche proprio con la terra... avete presente quelle zolle rosse, luccicanti che emergono quando l’aratro è appena passato nei campi... ecco quella. Un’appartenenza che a volte temiamo possa svilire il nostro essere uomini e che, invece, può essere fonte di consolazione e compagnia. Come diceva Vladimir Nabokov: “Mi sentii tuffato di colpo in una sostanza fluida e lucente che altro non era se non il puro elemento del tempo. Lo si condivideva con creature - proprio come bagnanti eccitati condividono la scintillante acqua del mare - che non erano te, ma a te erano unite dal comune scorrere del tempo”. Non sembrano parole scritte nel mare della Sardegna?

Il ministro Andrea Orlando, intervistato da noi ha preso impegni di rilievo. Ha ricordato l’importanza della terra che ci dà la vita e, se maltrattata, ce la toglie. Prendiamo anche noi un impegno, in italiano o in sardo: non abbandoniamo la Sardegna e la terra dove viviamo. Ricordiamocene mentre ci tuffiamo. Buona estate.


Postilla

E' giusto sollevare l'allarme sugli scempi che stanno avvenendo in Sardegna, Da tempo: da quando, grazie anche ai cedimenti dei suoi alleati, Renato Soru è stato battuto dall'uomo di Berlusconi, Cappellacci. Da quando, nell'indifferenza dei troppo deboli supporters di Soru, Cappellacci e i suoi hanno cominciato a tentar di demolire l'argine eretto in difesa delle coste della Sardegna e dei suoi paesaggi: il Piano paesaggistico regionale, approvato nel settembre 2006 e da allora vigente. Non riuscendo a demolirlo per via giudiziaria hanno tentato via via di svuotarlo con leggi derogatorie incostituzionali (le quali però, fino alla dichiarazione d'incostituzionalità, venivano applicate dagli immobiliaristi e dalle autorità locali loro succubi), e con lo smantellamento dell'ufficio regionale costruito per redigere vil piano e gestirne l'attuazione. Ma gli argini del PPR hanno retto: allora i berlusconiani e i loro nuovi alleati hanno avviato un processo di "revisione e adeguamento" del piano, dichiaratamente orientato a indebolire, moderare, alleggerire i maledetti "vincoili" volti alla tutela del paesaggio della Sardegna, Spiace doverlo affermare, ma in questa vicenda lo stesso Ministero per i beni e le attività culturali, che dovrebbe "copianificare" con la Regione per garantire il rispetto dell'articolo 9 della Costituzione, si appresta a coprire gli interessi economici dello sfruttamento del paesaggio sardo a vantaggio non solo degli emiri dei regni lontani, ma anche dei numerosi locali avvoltoi, grandi e piccini, che stanno arrotando becchi ed artigli. E' quindi soprattutto al titolare del MIBAC, più che a quello dell'Ambiente, che i valorosi giornalisti del Fatto quotidiano avrebbero dovuto, e dovrebbero, rivolgersi


Due iniziative di co-housing, promosse da gruppi di cittadine e sostenute dalle amministrazioni comunali, mostrano quanti spazi si possono conquistare, investendo con intelligenza nelle politiche abitative. Una riflessione tra Vienna e Ferrara (m.b.).


Testo pubblicato sulla rivista on-line inGenere il 06/02/2013. In calce, è disponibile un articolo più esteso, sullo stesso argomento, presentato dalla conferenza Espanet, nel settembre 2012. Le foto si riferiscono all'incontro organizzato il 6 giugno scorso da Chiara Durante presso la residenza ro*sa a Vienna, nell'ambito dell'iniziativa della scuola di eddyburg "Una città un piano: Vienna" (m.b.)

A fronte dell’incalzante arretramento dei sistemi di welfare, con l'attuale crisi si assiste a un rifiorire dei temi dell’economia solidale; tra questi c'è il forte ritorno di forme di abitare comunitario che rimanda ad una tradizione nata negli anni Settanta, quella del cohousing. Oggi questo modello abitativo offre l'opportunità di ripensare la condizione femminile e il lavoro di cura, attraverso lo sviluppo di forme di collaborazione che si spingono ben oltre le tradizionali “relazioni di buon vicinato” (1).
La formula che si è affermata nel corso degli anni prevede l’associazione di alloggi privati e spazi comuni, spesso caratterizzati dalla progettazione partecipata e da un disegno degli spazi volto a favorire lo sviluppo di “comunità”, nonché da forme di gestione (e a volte anche di proprietà) cooperativa di spazi e servizi, di cui si fanno carico in prima persona gli stessi abitanti.
Com’è facile immaginare, il cohousing non rimanda ad un modello univoco, ma costituisce un concetto con una forte carica suggestiva, che, in base ai differenti contesti e momenti storici, è stato reinterpretato e declinato a livello locale in molti modi. La grande fascinazione oggi esercitata dal cohousing si basa su una notevole semplificazione, ma la sua storia non è stata affatto lineare: in base alle caratteristiche dei gruppi che se ne sono fatti promotori è più o meno evidente come le iniziative della società civile abbiano fatto i conti con varie forme di conflitto sociale; infatti nonostante si tenda a pensare il cohousing come un fenomeno radicato nella sensibilità delle classi medie, molte delle esperienze originarie (soprattutto in Olanda) nascono dalla legalizzazione a posteriori di case occupate.
Oggi è interessante identificare il modo con cui le diverse iniziative si inseriscono nelle problematiche sociali e abitative in atto, di quali bisogni e istanze si facciano portavoce, e soprattutto come queste iniziative possano contribuire alla costruzione delle politiche pubbliche: due recenti esperienze europee ci permetteranno una piccola incursione in questa realtà.

Nel 2003 a Vienna un gruppo di donne (supportate dalla presenza di un’architetta-attivista) avviano un percorso dal basso: il progetto di cohousing ro*sa. Il progetto verrà poi sostenuto dalla municipalità, molto attiva nella sperimentazione sul fronte dell’housing sociale e in particolare delle politiche di genere. Un ruolo centrale è svolto da una struttura specifica della realtà viennese, il Frauenbureau (Ufficio delle donne) con funzioni di coordinamento dei diversi livelli e temi della pianificazione urbana; inoltre il progetto si colloca nel più vasto contesto di incentivazione/educazione alla qualità urbana e dell’abitare, attivato in un rapporto dialettico tra pubblico e privato, a partire dai primi anni Novanta. In particolare il gruppo di progetti Frauen Werk Stadt, di cui il cohousing ro*sa diventa l’espressione più recente, ha visto il coinvolgimento di imprese e professionisti in una progettazione più attenta alle differenze e una maggiore attenzione alla richiesta di servizi, che, pur riguardando l’edilizia pubblica, ha indotto un adeguamento anche nell’edilizia privata.

Con ro*sa, si riconosce un ruolo da protagonisti ai cittadini, anzi alle cittadine: un virtuoso percorso di contrattazione tra queste e la pubblica amministrazione ha fatto sì che le attiviste potessero realizzare il progetto con un supporto pubblico soprattutto rivolto all’acquisizione del terreno e all’assistenza alla progettazione, ma al tempo stesso ha permesso all’amministrazione di avere in cambio una quota di alloggi di edilizia pubblica. Si sono cioè messe in atto delle politiche di “social mix”, volte a promuovere una composizione sociale disomogenea degli abitanti (evitando così la realizzazione di quartieri esclusivi o, al contrario, di ghetti di povertà). Nel caso di ro*sa questo ha portato all’inclusione di un gruppo di donne immigrate nel progetto, le quali, attraverso il cohousing, hanno potuto ampliare la propria rete di conoscenze amicali aprendo una finestra sul mondo culturale e sociale della città, con possibili buone ripercussioni anche a livello lavorativo.

In realtà il rapporto tra cittadini “attivi” e amministrazione locale non appare del tutto privo di ambiguità e attriti: infatti alcune clausole a cui è vincolato il supporto tramite sussidi pubblici, sono state inizialmente contestate dalle attiviste. Tra queste l’eliminazione di forme di discriminazione positiva, quale la scelta di concedere la titolarità dell’alloggio alle sole donne, ma anche la stessa cessione del 30% degli alloggi alla municipalità, vista come un rischio per le dinamiche di coesione e collaborazione interna.

Il caso di Ferrara segue lo sviluppo di un’azione dal basso declinata al femminile un po’ “per caso”, in relazione alla specifica sensibilità “di genere” al tema dell’abitare comunitario. Quest’esperienza, condotta entro il quadro dell’iniziativa privata, ha portato alla maturazione di capacità di innovazione e “imprenditorialità” al femminile che si avvalgono però, almeno nell’avvio, del sostegno di politiche istituzionali sensibili, e in particolare di quelle legate ad Agenda21 locale per cui la città di Ferrara è nota. A partire da un gruppo di acquisto solidale, nel 2008 nasce l’associazione di cohousing Solidaria, che continuerà ad essere supportata con misure indirette dalla pubblica amministrazione (apertura di canali informativi, formativi e divulgativi).
L’associazione è composta prevalentemente da impiegati pubblici, ben dotati in termini di cultura, tempo e know-how: si pensi solo alla capacità di individuare dei referenti pubblici a cui rivolgersi, alla conoscenza di tempi e modi dell’azione delle istituzioni, all’atteggiamento implicito di fiducia in queste ultime, pur nella consapevolezza dei loro limiti, che caratterizza tutto il percorso. Nonostante l’interesse dimostrato per l’iniziativa, quello che qui non si verifica è tuttavia un riconoscimento diretto del valore collettivo dei processi di empowerment attivati nella gestione del processo costruttivo, che è anche costruzione di senso in comune: questi aspetti, valutati molto positivamente dalle donne coinvolte, sono relegati dalle istituzioni in una dimensione privata. Il risultato è che i soggetti coinvolti non possono che essere limitati a coloro che sono già in partenza caratterizzati da quella dotazione iniziale, sia economica che culturale, che li ha resi in grado di auto-organizzarsi e di farsi coinvolgere dalle stesse politiche per la partecipazione attivate a livello locale. A ciò si aggiunga che la mancanza di un impegno più diretto del pubblico ha indotto l’impossibilità di supportare il gruppo nei momenti di
difficoltà, sempre più pesanti rispetto all’avanzamento del progetto proprio perché la crisi rende sempre più fragili e isolati gli stessi promotori iniziali.

L’occasione perduta, anche nel confronto con l’esempio viennese, è quella di sfruttare il processo avviato con il Cohousing per supportare più a fondo l’attivazione dei cittadini, coinvolgendo al tempo stesso nei processi di empowerment anche i soggetti più fragili: la possibilità di prevedere quote di alloggi sociali nei cohousing autopromossi, rappresenta sicuramente un’opportunità (da indagare anche in Italia) per costruire dei percorsi di inserimento in un contesto di apprendimento e responsabilizzazione, oltre che un implicito correttivo contro i rischi di una eccessiva omogeneità sociale e culturale.
Il cohousing esprime oggi la ricerca di un welfare spaziale che è stato un cavallo di battaglia storico delle lotte femministe, col risultato di ottenere un miglioramento della qualità urbana con ricadute positive molto più generali. Il tema, riproposto nei termini di un più ampio diritto alla città, è ancora di forte attualità, ma (come argomentato efficacemente in varie occasioni da Cristina Bianchetti (2)) corre il rischio di essere declinato in chiave di “diritti privatistici”, rivendicati da differenti gruppi sociali con scarsi contatti reciproci.
Imprescindibile è allora la capacità delle istituzioni di svolgere un ruolo di regia, che passa attraverso il riconoscimento dell’esistenza di interessi molteplici, da incanalare però nella costruzione di convergenze (per quanto instabili o mutevoli) in una dimensione di interesse collettivo, oltre che comunitario.
Le opportunità offerte dal cohousing in questo senso riguardano soprattutto le componenti di processo che lo caratterizzano: il controllo diretto dell’intero processo costruttivo da parte degli abitanti, se opportunamente accompagnato e supportato dal pubblico, offre l’opportunità di migliorare l’accessibilità economica dell’alloggio, sottraendolo a dinamiche speculative. Questa è la logica sviluppata storicamente dalle cooperative di abitazione, oggi riletta nel cohousing attraverso l’attenzione alle differenze espressa a partire dalle esigenze e caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti.
Se nel contesto della crisi, le pratiche di vita comunitaria possono rappresentare un nuovo luogo di produzione di servizi, occorre partire proprio dai punti irrisolti, che vanno esplicitati come stimoli per definire un rapporto tra pubblico e privato “attivo” in cui il ruolo della governance istituzionale è centrale nel rendere più aperti e inclusivi i percorsi attivati dal basso.

Note
(1) Il tema è stato trattato con maggiore dettaglio nel contributo presentato in occasione delle V conferenza Espanet “Risposte alla crisi. Esperienze, proposte e politiche di welfare in Italia e in Europa” (Roma, 20 — 22 Settembre 2012).
(2) Bianchetti C., 2012, L’abitare, oltre la stagione neo-fenomenologica, Atti della XV Conferenza Nazionale SIU “L’urbanistica che cambia. Rischi e valori”, in Planum. The Journal of Urbanism n.25, vol.2/2012

Se ne sono accorti anche nell'ex paese della Fiat: il veicolo privato non è più né uno status symbol né un potenziale motore economico. Cosa significa per il territorio? Corriere della Sera, 23 giugno 2013, postilla (f.b.)

Se pensate — come da tradizione — che sedersi dietro al volante e partire con il vento nei capelli sia una conquista di libertà, preoccupatevi. Secondo questo standard, stiamo entrando in un'era illiberale. Nel 1989, anno di picco, a sostenere l'esame per la patente B in Italia furono 2.582.736 persone. Da allora, il declino è stato costante: a1.756.374 nel 2010. Poi il crollo: 1.413.031 nel 2011 e 1.322.872 nel 2012 (dati del ministero dei Trasporti). In 23 anni una caduta del 48,8%. In una certa misura è spiegabile con il calo delle nascite e, soprattutto negli ultimi anni, con la recessione, registrata anche dalla caduta verticale del numero di auto vendute. Probabilmente, però, qualcosa è anche cambiato negli stili di vita: i giovani si stanno disamorando dell'auto (sono loro, infatti, a dettare le tendenze: per circa il 70%, gli italiani prendono la patente tra i 18 e i 24 anni). Un fenomeno quasi mondiale.

L'anno scorso, l'Università del Michigan ha notato che il 30,5% dei ragazzi americani di 19 anni non ha la patente: in crescita dal 24,5% del 2008 e dal 12,7% del 1983. Certo, anche negli Stati Uniti la recessione ha colpito, il costo del gallone di benzina è aumentato, i giovani sono alle prese con debiti consistenti per pagare le rette delle università. In misura sempre maggiore, però, sono Angry Birds (il videogioco), Facebook, Twitter ad allontanarli dall'auto. «Le persone non hanno bisogno di vedersi l'una con l'altra come prima perché possono comunicare attraverso i social media», sostiene il professor Michael Sivak, che ha condotto la ricerca della University of Michigan. Quasi il 50% dei ragazzi americani tra i 18 e i 24 anni ha detto alla società di ricerche Gartner che, dovendo scegliere tra Internet e automobile, sceglie Internet. Non che Web e quattro ruote siano alternativi: il dato ha però valore, ribalta priorità che spesso si danno per scontate.
Tendenze simili i ricercatori del Michigan le hanno registrate in Paesi a forte penetrazione di Internet: Canada, Gran Bretagna, Germania, Giappone, Svezia, Norvegia, Corea del Sud (ma in Spagna, Israele, Polonia, Svizzera è vero il contrario). Analisi specifiche in Italia non ne sono state pubblicate: il cambio di preferenze e il diverso approccio all'automobile, in particolare tra i giovani, è però evidente dai dati riportati sul numero di esami per la patente.

C'è un'altra ragione, in qualche modo strutturale, che spiega il (relativo) disamoramento per l'auto. Secondo una ricerca dell'australiana Curtin University, in Europa e in Nord America sempre meno persone la usano perché l'urbanizzazione e la congestione del traffico ormai portano a cozzare contro il cosiddetto Marchetti Wall, il limite di tempo di spostamento oltre il quale un pendolare decide che non vale la pena di andare: secondo il fisico italiano Cesare Marchetti circa un'ora e mezza. La domanda è ovvia: ci rendono più liberi Internet e la metropoli o l'automobile?

Postilla
Pare quasi automatico (lo accenna anche l'articolo del resto) iniziare a pensare al modello di città sotteso a queste nuove tendenze, e ad esempio al corso che dovrebbero imboccare politiche virtuose di riuso, riorganizzazione spaziale, densificazione e sostegno ad alcune attività economiche piuttosto che ad altre. Se esiste un modello tangibile di smart city, insomma, è sicuramente quello che emerge da questa chiara tendenza: non aggeggi tecnologici a vanvera, magari buoni solo per chi ce li vende, ma facilitatori di nuovi comportamenti sociali fortemente legati alla sostenibilità ambientale (f.b.)

Nei capoluoghi di provincia italiani «in un decennio, dal 2000 al 2011, ilrapporto tra ordinanze e abbattimenti è solo del 10,6%». E già c'èda leccarsi le dita rispetto al passato e ai piccoli paesi. Corriere della Sera, 20 giugno 2013

Abbattuti, finalmente! Gli ecomostri che stupravano la splendida Scala dei Turchi non ci sono più. Ma sotto le ruspe deve finire in macerie anche la proposta pidiellina di togliere alle Procure l'ultima parola sulle demolizioni. Senza l'ultimatum dei giudici, infatti, quegli orrendi cadaveri cementizi agrigentini sarebbero ancora lì. Un quarto di secolo dopo la denuncia dell'abuso.
Era il 1989, quando venne tirato su il primo di quei mostri ai piedi di quella parete rocciosa di un bianco sfolgorante a picco sul mare sulla costa di Realmonte, in provincia di Agrigento. La rivolta studentesca di piazza Tienanmen era repressa coi carri armati, i sovietici si ritiravano dall'Afghanistan, Erich Honecker cercava barricarsi nella sua Germania Est comunista, a palazzo Chigi c'era Giulio Andreotti e lo scudetto andava all'Inter di Matthäus.

Insomma, era tanto tempo fa. E quegli osceni edifici al di qua e al di là della Scala dei Turchi vennero costruiti, sotto il profilo formale, «quasi» lecitamente. L'albergo fu inizialmente autorizzato dal municipio di Realmonte, pazzesco ma vero, nonostante fosse su terreno demaniale. Le dieci ville sulla spiaggia (di cui tre sole costruite almeno in parte prima del blocco dei cantieri) ottennero il via nonostante lo strumento urbanistico fosse scaduto. Di più: le concessioni, in violazione del vincolo paesaggistico, furono rilasciate a se stessi, a parenti, prestanome e amici da assessori, consiglieri e tecnici del comune di Realmonte.

Tutti i giochetti registrati più volte, negli ultimi decenni, soprattutto nel Mezzogiorno. E seguiti ogni volta da dispute processuali infinite e surreali: quale valore può avere una licenza concessa contro tutte le regole e tutti i piani paesaggistici da amministrazioni locali scellerate che magari, a volte, si sono pure vendute quelle autorizzazioni in cambio di mazzette? Anche lì a Realmonte, dove erano plateali gli sfregi alla legge e alle bellezze naturali subito denunciati dagli ambientalisti e in testa a tutti da Legambiente e dal suo leader di allora Giuseppe Arnone, le cose si sono trascinate, di ricorso in ricorso, per oltre un paio di decenni. A dispetto delle battaglie ambientaliste. Dei vincoli. Dei rifiuti alle pratiche di condono. Dell'inchiesta aperta dall'attuale questore della Camera Stefano Dambruoso che era al primo incarico in magistratura e fece ammanettare un po' di amministratori e tecnici.

Venti anni di ricorsi e contro-ricorsi, di perizie e contro-perizie, di fotocopie a quintali, di avvocati decisi ad attaccarsi al più minuscolo cavillo per tirarla in lungo. E mai un'ordinanza comunale di demolizione. Il paese è piccolo, pochi voti possono costare la rielezione, perché mai un sindaco dovrebbe cercare rogne mettendosi contro un po' di compaesani? E tutto ciò nonostante la richiesta all'Unesco, qualche tempo fa, di inserire la Scala dei Turchi tra i beni tutelati in quanto patrimonio dell'umanità! Una pretesa che, con quegli osceni scheletri cementizi di mezzo, era surreale e suicida...

Finché l'anno scorso, finalmente, dopo una cena dalle parti di Realmonte del procuratore Renato Di Natale, scandalizzato dalla scoperta («Nessuno in ventiquattro anni si era preoccupato di capire perché gli ecomostri fossero ancora lì!») decise di muoversi la magistratura agrigentina. Notificando a brutto muso al sindaco Piero Puccio, per mano del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e del sostituto Antonella Gandolfi, un'ingiunzione a demolire immediatamente quei mostri di calcestruzzo.

«Immediatamente» coi tempi italiani, si capisce. Fatto sta che dopo nuovi ricorsi al Tar (respinti) e al Consiglio di giustizia amministrativa (respinti) sono arrivate finalmente le ruspe. Buttando giù giorni fa lo scheletro dell'albergo e tra ieri e oggi gli scheletri delle ville. Dopo di che, se non ci vorranno altri vent'anni per rimuovere le macerie, la Scala dei Turchi tornerà ad essere quella meraviglia naturale che i più giovani non hanno mai potuto vedere nella sua abbagliante bellezza.
Proprio il caso che abbiamo raccontato dimostra quanto siano faticose queste battaglie per la legalità. E quanto sia insensato, quindi, il disegno di legge firmato dal senatore pidiellino campano Ciro Falanga che vorrebbe togliere alle Procure la competenza in materia di esecuzione delle demolizioni. Proposta che arriva dopo 18 tentativi a partire dal 2010, tutti e 18 respinti, di far passare un nuovo condono edilizio almeno per la Campania, la regione storicamente più devastata dal cemento fuorilegge. Si pensi a Ischia: 62.000 abitanti, 28.000 abusi.

Davanti alle proteste degli ambientalisti e di una parte della sinistra, che col presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza accusano Falanga di volere «legare le mani a chi, in un Paese devastato dal mattone illegale, ha provveduto fino a oggi alle demolizioni», il senatore berlusconiano ha risposto che si tratta solo di «dare ai cittadini, destinatari di tali provvedimenti, la possibilità di godere di tutte le garanzie del procedimento amministrativo». E si è avventurato a sostenere che «chi s'oppone negando tale sistema di garanzie, si assume tutte le responsabilità di eventuali tragici accadimenti ed il rischio di vite umane». Come se gli abusi fossero fatti solo da poveracci obbligati da chissà chi a violare le regole e costruirsi illegalmente la prima casa. Cosa che, come dimostrano il caso di Realmonte, quello dell'hotel Alimuri a Vico Equense e tanti altri, è assolutamente falsa.

Di più, spiega il dossier «Ecomafia 2013» di Legambiente sui comuni capoluoghi di provincia che «in un decennio, dal 2000 al 2011, il rapporto tra ordinanze e abbattimenti è solo del 10,6%». E già c'è da leccarsi le dita rispetto al passato e ai piccoli paesi dove il rapporto fra le amministrazioni e i cittadini è più diretto ma anche più vischioso. Basti dire negli anni 90 in Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, che da sole coprono il 37% degli abusi, le ruspe entrarono in azione contro gli edifici abusivi «non sanabili» e colpiti da ordine di demolizione, soltanto nello 0,97% dei casi. E vogliamo lasciare la responsabilità ai comuni? Ma dai...

La Repubblica 22 giugno 2013

COLPO di coda di Ornaghi, colpo di grazia ai musei italiani. Delegittimati davanti ai colleghi stranieri dallo scarso potere decisionale, umiliati da stipendi miserevoli, marginalizzati dall’assenza di risorse, i direttori dei nostri musei sono ora ufficialmente messi alla gogna da una circolare in gestazione da mesi (quando Ornaghi eraministro).

Ma diffusa solo ora dal segretario generale del ministero dei Beni culturali. Ne ha dato notizia il 20 giugno in queste pagine Francesco Erbani: l’idea di base è che nessun funzionario potrà restare allo stesso posto per più di tre anni, e ciò «come misura di prevenzione della corruzione». Il tutto in un intrico di norme e codicilli che, si pretende, risponderebbero a superiori disposizioni nientemeno che dell’Onu e del Consiglio d’Europa. Peccato che tali sollecitazioni, se pure esistono, non siano affatto vincolanti per l’Italia, dove l’obbligo costituzionale della tutela, come ha dimostrato Giuseppe Severini, costituisce un’“eccezione culturale” anche rispetto alle norme, in altri settori ben più cogenti, dell’Unione Europea. Peccato che in nessun Paese aderente all’Onu o al Consiglio d’Europa si stiano mettendo sul banco degli imputati i direttori di museo, ritenendoli (come vuole la circolare ministeriale) «particolarmente esposti alla corruzione».

Negli ultimi mesi, nuovi direttori sono stati nominati in importanti musei: al Louvre Jean-Luc Martinez (dopo dodici anni di brillante direzione di Henri Loyrette), al Getty Museum Timothy Potts, per fare solo due esempi. In nessuno di questi e altri casi è venuto in mente a qualcuno di contingentare la durata della direzione invocando pretese “sollecitazioni Onu”.

La sorda matrice burocratica che informa il tortuoso linguaggio della circolare è dunque made in Italy:ma è il prodotto dell’Italia di oggi con le sue marcate tendenze al suicidio, e non di quell’Italia dove fu creata l’istituzione-museo, non di quella dove nacque l’idea stessa di norme e strutture pubbliche della tutela, che dagli antichi Stati italiani si irradia fino ad oggi in tutto il pianeta. A monte dei pretestuosi giri di parole con cui la circolare schiaffeggia l’intero staff del ministero si legge la stolta concezione che assimila funzionari di soprintendenza e direttori di museo a passivi ingranaggi di una qualsiasi burocrazia, prefettura o anagrafe o catasto.

Si è dunque perso per strada, in questo smemorato Paese, l’alto progetto con cui l’Italia liberale da cui tanto ci resta da imparare inventò le soprintendenze territoriali e le articolazioni museali: strutture concepite come istituti di ricerca sul territorio, di conoscenza del patrimonio e dei paesaggi, di protezione della memoria storica, di custodia dell’anima stessa del Paese. Eppure fu questa concezione, nobile e funzionale insieme, a ispirare l’altissimo statuto della tutela scolpito nell’art. 9 della Costituzione. Perciò le soprintendenze furono espressamente ricordate, nella discussione in Costituente, da Concetto Marchesi, uno dei due proponenti dell’art.9 (l’altro fu Aldo Moro). Perciò la Corte costituzionale ha riconosciuto il ruolo delle soprintendenze e di «particolari misure di tutela» per «salvaguardare beni cui sono connessi interessi primari per la vita culturale del Paese e conservare e garantire la fruizione da parte della collettività» (sentenza nr. 269/1995).

Si parla tanto oggi, spesso a vuoto, di gestione e di valorizzazione dei beni culturali: ma come si fa a valorizzare quel che non si conosce? Le funzioni conoscitive (cioè di ricerca) delle direzioni museali e delle soprintendenze sono essenziali non solo alla loro missione, ma alla democrazia e alla vita culturale del Paese. Il loro obiettivo è di accrescere le conoscenze sul patrimonio e sui paesaggi, di farli conoscere ai cittadini, di consegnarli alle generazioni future migliorandone lo stato di conservazione e il contesto di fruizione. Quel che accomuna i musei di tutto il mondo (quelli, beninteso, che meritano questo nome) è la centralità della ricerca, la specificità delle competenze, la continuità dei programmi. È su questa base che inthe profession, come si dice, si svolge una perpetua conversazione, alla pari, fra archeologi e storici dell’arte di ogni Paese.

È su questa base che si stendono progetti di mostre, si formulano programmi di cooperazione, si stabiliscono sinergie, si scoprono affinità, si coltivano differenze. Professionalità e potere decisionale sono sempre intimamente connessi, anche se l’Italia mortifica i direttori dei musei sottoponendoli a una schiacciante gerarchia che toglie loro quel che i colleghi americani, francesi o tedeschi hanno di norma: il potere di dire l’ultima parola. Se di una riforma c’è bisogno, è per dare più potere, più indipendenza e più responsabilità ai direttori di museo, e non per umiliarli considerandoli d’ufficio come esposti alla corruzione. Chi ha scritto la circolare non sa forse che tre anni non bastano per conoscere a fondo un territorio e tutelarlo adeguatamente? Non sa che i musei più seri (per esempio negli Usa) progettano mostre ed altri eventi con cinque o sei anni di anticipo?

Non sospetta che denunciare la supposta corruttibilità dei funzionari italiani vuol dire esporli al ridicolo e al disprezzo dei loro colleghi? O il vero scopo di chi ha concepito la perversa misura è di impedire la conoscenza dei territori e dei musei, di paralizzare la tutela, di rendere impossibile la ricerca, di vietare ogni rapporto alla pari con i musei stranieri?

Qualcuno parla di oscure manovre di corridoio, secondo cui il pessimo ex ministro Ornaghi avrebbe deciso di sparare nel mucchio per colpire pochi funzionari a lui sgraditi. Se a un provvedimento già di per sé negativo si dovesse aggiungere questo ulteriore ingrediente, il degrado di quel ministero ne risulterebbe ancor più evidente. Ma è arrivato ora il momento della verità: se queste pretese sollecitazioni Onu sono vere, saranno applicate immediatamente anche ad altre categorie, come i professori universitari, i direttori generali di tutti i ministeri, i magistrati? O il sospetto di corruzione è riservato ai funzionari di soprintendenza?

Il nuovo ministro Massimo Bray ha trovato al Collegio Romano un paesaggio di rovine, e in qualche altro caso ha già mostrato la volontà di rimediare. Fiduciosamente aspettiamo che salvi presto dalla gogna il personale che da lui dipende, e che anzi ne valorizzi e riconosca le capacità migliorando la job description e le prospettive di carriera, accrescendo gli stipendi, provvedendo alle nuove massicce assunzioni che sono necessarie. Un ministro giovane e colto come lui non può essere il becchino del suo ministero. Può e deve essere il difensore della Costituzione.

Da sottoscrivere in pieno questa posizione del sindaco: la gestione del territorio locale appartiene solo alla società locale e alle istituzioni democratiche che la rappresentano. La Nuova Venezia, 21 giugno 2013

L'audizione del presidente dell'Autorità Portuale avanti le Commissioni consiliari, tenutasi nella giornata di giovedì, ha confermato quanto vado dicendo da tempo: chi rappresenta interessi economici forti non riesce a percepire (forse anche perché male consigliato) l'importanza di riconoscere i limiti entro cui può sviluppare la sua azione. Mi riferisco evidentemente, a quei soggetti (privati e non) che agiscono nell'economia in situazioni monopolistiche o, comunque, perché investiti di competenze pubblicistiche settoriali. Oggi (ieri, ndr) la stampa riporta un’affermazione del Presidente per nulla condivisibile e frutto di un palese fraintendimento delle competenze portuali.

A suo avviso «il Pat contiene soltanto dei desideri del Comune» giacchè esso, per essere operativo, deve ottenere l'intesa dell'Autorità portuale. Come se l'Autorità portuale fosse soggetto di pianificazione generale alla stessa stregua degli enti locali territoriali. Il Porto non ha poteri di pianificazione urbanistica, ma esclusivamente, come recita l'art. 5 della L. 84/94, il potere di approvare un piano del porto il quale deve disciplinare le funzioni e gli usi dei terreni all'interno dell'ambito portuale. Tale piano, come dice la legge, è subordinato alle scelte della pianificazione generale comunale. In altri termini il Piano portuale deve considerarsi alla stregua di un qualsiasi piano attuativo, limitato ad un ambito definito e soggetto alle scelte di pianificazione generale, e comunque all'approvazione comunale. Fin quando non si fa chiarezza su tale inequivocabile presupposto si finisce con il danneggiare il complesso sistema di pianificazione del territorio della città.

Infatti, l’errata prospettiva in cui si sta ponendo il Porto ha di recente determinato l'impugnazione avanti il Tar del Pat, solo perché non sono state recepite sue richieste di logistica al di fuori dell'ambito portuale ed in contrasto con lo stesso Piano regionale! Il che genera gravi difficoltà alla soluzione di importanti problemi di organizzazione del nostro territorio, che avrebbe invece necessità di collaborazione da parte di tutti i soggetti coinvolti ed alla stregua del rispettivo ruolo e secondo le gerarchie istituzionali stabilite dalla legge ed i compiti che essa attribuisce a ciascuno. In questa prospettiva è corretto che il Porto si preoccupi, come gli impone la legge, di proporre soluzioni per evitare i passaggi delle "grandi navi" davanti a San Marco.

Ma la preoccupazione non può diventare ingerenza nei poteri che sono attribuiti agli enti territoriali. Il porto nella sua interezza sta all'interno della programmazione generale del territorio come parte di esso e ad esso subordinato. Con grande disponibilità ed umiltà il Comune di Venezia ritiene di valutare tutte le proposte che fossero avanzate, purché conformi alle proprie scelte pianificatorie. Ciò al solo fine di individuare quelle più rispettose degli interessi della Città e della sua Laguna.

Ciò che tutti prevedevano (salvo gli accecati dallo "sviluppismo"): lo spreco delle risorse e la devastazione del patrimonio sono stati inutili a tutti i fini, anche a quelli della "crescita" del sistema capitalisico. greenreport, 20 giugno 2013

L’assemblea annuale dell’Associazione italiana tecnico economica del cemento (Aitec), l’organo di rappresentanza del 90% della produzione dell’industria cementiera nazionale, aderente a Confindustria e del Cembureau (Associazione Europea del Cemento) ha dovuto probabilmente prendere atto della fine di un’epoca. Le cifre snocciolate dall’Aitec sono rivelatrici di una crisi verticale frutto anche della bulimia di territorio ed ambiente del passato: «Consumi di cemento in Italia in forte calo nel 2012: – 22,1% rispetto al 2011, con volumi dimezzati in sette anni. Per il 2013 stimato uno scenario di ulteriore arretramento».

Il Presidente dell’Aitec, Alvise Zillo Monte Xillo, ha detto: «Invochiamo misure di rilancio dell’edilizia e dei progetti infrastrutturali: il Paese necessita di un piano di riqualificazione urbana in chiave di efficienza e sostenibilità». Parole nuove, ma bisogna capire a cosa pensano Zillo ed i suoi soci quando parlano di infrastrutture perché quelle che ha in testa ancora Confindustria sono quelle pesantissime e contestatissime che ben poco hanno a che fare con l’efficienza e la sostenibilità.L’Aitec sottolinea quello che da tempo diciamo anche qui a greenreport.it: «La crisi economica ha avuto impatto sull’industria del cemento più che su qualunque altro comparto: nel 2012 il decremento della produzione è stato di oltre un quinto ed ha portato così a dimezzare complessivamente i volumi nell’arco degli ultimi sette anni, in linea con l’andamento fortemente negativo del comparto delle costruzioni».

Uno scenario drammatico, soprattutto in un Paese che per lunghi anni ha avuto il record di consumo pro-capite di cemento ed il record della cementificazione del territorio e dell’abusivismo edilizio. Di fronte a questa crisi che è frutto di scelte sbagliate e della speranza che tutto continuasse come prima e più di prima in un settore più che maturo, «La filiera del cemento e del calcestruzzo lancia alle istituzioni un appello per l’adozione di politiche industriali strutturali in grado di far ripartire gli investimenti in edilizia e infrastrutture».

L’assemblea Aitec è stata l’occasione per il convegno “Edilizia e infrastrutture: opportunità di rilancio per il Paese” che ha messo a confronto ’imprenditoria, istituzioni ed esperti. Dai dati della Relazione Annuale di Aitec emerge che «Nel 2012 la produzione di cemento in Italia si è ridotta drasticamente, con un calo pari al 20,8% rispetto al 2011, attestandosi a 26,2 milioni di tonnellate. Anche i consumi di cemento hanno registrato una riduzione del 22,1% nell’anno, arrivando a perdere il 45% circa rispetto al massimo raggiunto nel 2006. Le prospettive per il 2013 permangono critiche, con l’attesa di un ulteriore forte calo dei consumi intorno al 20-25%, dopo che nel primo trimestre 2013 si è già registrato un decremento del 22,4%, e con una situazione di capacità produttiva in eccesso al momento stimata al 40-50%».

La filiera del cemento è comunque praticamente ferma in gran parte dell’Unione europea a 27, dove però il calo medio di domanda e produzione, anche se alto, si è attestato intorno al 19%, La Germania mantiene il ruolo di primo produttore e l’Italia in crisi nera si conferma comunque al secondo posto. Il rapporto sottolinea che «Tra i Paesi più importanti, proprio la Germania e la Francia sono riuscite a contenere più di altri la crisi, con un calo della produzione pari rispettivamente al 3,6% e al 7,3%» e questi due grandi Paesi non hanno certo il nostro tasso di consumo di suolo ed hanno ben atre politiche urbanistiche e/o infrastrutturali ed un’edilizia meno intossicata dalla rendita.

Ritornando al rapporto Aitec, «Il peso dell’export è aumentato nel 2012, arrivando a rappresentare una quota del 6,6% delle destinazioni del cemento, ma permane per ragioni strutturali, legate soprattutto all’elevata incidenza del trasporto sul costo finale del prodotto, l’impossibilità di considerarlo uno sbocco per compensare la carenza di domanda interna». Il settore del calcestruzzo preconfezionato, assorbendo circa il 49% della produzione, continua ad essere il comparto più rilevante tra quelli di destinazione del cemento, ma «Ha vissuto un anno molto negativo, facendo registrare un calo dei volumi di produzione pari al 22,5%, in linea con gli effetti della crisi sull’intera filiera».

Secondo il presidente dell’Aitec «Il rilancio di edilizia e infrastrutture rappresenterebbe un’opportunità di sviluppo per l’intero Paese, con effetti moltiplicativi su occupazione ed investimenti. Non è più rinviabile la decisione di avviare un piano di riqualificazione urbana, ispirato all’efficienza energetica e alla sostenibilità ambientale, in linea con quanto fatto nel resto d’Europa e che possa mettere al centro dell’attenzione il recupero di un patrimonio edilizio italiano, uno dei più vetusti in assoluto».

Qui si osserva veramente un cambio di passo, come i cementieri che cominciano a dire cose che fino solo a qualche mese fa bollavano come ubbie ambientaliste: «Proprio il tema del recupero del patrimonio abitativo italiano è oggi al centro delle proposte di Aitec. Il 60% degli edifici, pari a 1,5 milioni di unità, è stato costruito prima del 1974, anno di entrata in vigore della prima normativa antisismica e necessita pertanto di messa in sicurezza. Tale intervento di demolizione e ricostruzione, ad impatto zero pertanto in termini di consumo di suolo, consentirebbe circa 10 anni di piena occupazione per il mondo delle costruzioni e il riassorbimento di 600.000 addetti della filiera».

La proposta di Aitec è simile a quella che da anni fanno associazioni come Itala Nostra, Legambiente, Inu e gli urbanisti più avveduti: «Concentrare gli interventi sulle aree industriali dismesse e sui quartieri residenziali caratterizzati da una scarsa qualità architettonica e inadeguati rispetto alle attuali normative sismiche, idrogeologiche e di risparmio energetico. Il passaggio dalla demolizione alla ricostruzione può inoltre prevedere forme di reimpiego degli scarti provenienti dalla demolizione, ad esempio ricavando dal calcestruzzo armato gli aggregati per i nuovi conglomerati cementizi, limitando in tal modo sia il consumo di materie prime che il ricorso alle discariche».

Si potrebbe chiosare che dai diamanti non nasce niente, ma che dalla crisi del cemento italiano potrebbe anche nascere una nuova politica urbanistica che faccia tesoro dell’ingordo assalto al territorio che ci ha portato alla attuale crisi verticale della rendita diventata improvvisamente un insostenibile fardello, non solo per il paesaggio e la bellezza dell’Italia “assassinata dal catrame e dal cemento”, ma anche per le tasche di chi sul consumo di territorio ha investito.

La Repubblica, 20 giugno 2013

Dirigere un museo come la Galleria Borghese o Palazzo Barberini a Roma, gli Uffizi a Firenze, un sito archeologico, Pompei o Ercolano, per esempio, un complesso monumentale, sarà una mansione a termine. Durerà tre anni. Poi bisognerà cambiare aria, per evitare che si formino “posizioni dominanti”. E che si sia a rischio di corruttela. E lo stesso vale per un funzionario di soprintendenza: niente vigilanza per più di trentasei mesi sul medesimo paesaggio, sulla vallata o sulla cresta di collina di cui lui conosce ogni albero. È scritto in una circolare appena emessa dal segretario generale del ministero per i Beni culturali, Antonia Pasqua Recchia. Il ministro Massimo Bray di questa vicenda, pur sollecitato, non vuol parlare. Fa però sapere di aver chiesto un appunto a Recchia per verificare se è possibile interpretare diversamente le direttive internazionali da cui la circolare ha origine.

Il documento sta girando per gli uffici, dove suscita forti malumori: per alcuni è un colpo durissimo, l’ennesimo, che si abbatte su un corpo sfibrato, quello di chi custodisce il nostro patrimonio culturale ed è chiamato a compiti delicatissimi, ma da anni viene mortificato a causa dei tagli di bilancio, con un personale ridotto ai minimi termini, invecchiato e pochissime possibilità di ricambio.

La circolare è stata scritta, spiega l’architetto Recchia, in ossequio alla legge approvata nel novembre del 2012 (la numero 190) che risponde a una sollecitazione dell’Onu e del Consiglio d’Europa e che impone un piano triennale di prevenzione della corruzione. Ogni amministrazione deve stilarne uno. Il ministero per i Beni culturali lo ha adottato il 3 aprile scorso, quando c’era ancora Lorenzo Ornaghi (Bray gli è subentrato il 28 aprile). Già nel piano di Ornaghi si legge che la tutela archeologica, storico-artistica, architettonica e paesaggistica, divisa per zone di competenza e affidata, zona per zona, a singoli funzionari risponde a esigenze di competenza, che si acquisiscono col tempo, ed è dunque necessaria, ma, al tempo stesso, favorisce «la costituzione di posizioni dominanti nell’esercizio della funzione autorizzativa e suscettibili di episodi corruttivi». E per queste figure, il vero nerbo della tutela in Italia, sempre di meno, sempre più anziane (la media d’età è oltre i 57anni), costrette a pagarsi la benzina per i sopralluoghi, si auspica l’introduzione della rotazione.

Ma la circolare compie un passo in più. Oltre ai funzionari di zona, indica i direttori dei musei, quelli delle aree archeologiche e dei siti monumentali. Anche loro sarebbero, si legge, «particolarmente esposti alla corruzione». E per questo si invitano le Direzioni generali e quelle regionali ad applicare una serie di misure. Fra le quali, appunto, «risulta necessario prevedere un termine triennale per la durata dell’incarico ». La rotazione non è obbligatoria, aggiunge Recchia, «ma se un soprintendente ritiene indispensabile mantenere al suo posto oltre i tre anni un direttore di museo, deve motivarlo adeguatamente e, nel caso di episodi di corruzione, ne risponde personalmente». Ma i tre anni partono da subito? Chi li ha compiuti in una sede è già a rischio di rotazione? «Per quanto mi riguarda, sì», replica Recchia.

Le reazioni alla circolare si sono rincorse da un ufficio all’altro, da un museo archeologico a uno d’arte. Spesso restano sotto traccia, la paura di esporsi è tanta. Ma l’impressione di un’ulteriore sferzata a un personale che già si regge solo sulla forza di volontà, è molto diffusa. Anna Coliva, direttrice della Galleria Borghese, trova «singolare che si colpiscano proprio quelle figure che nel ministero non hanno facoltà di spesa: anche per far riparare una lampadina siamo costretti a una trafila fra le più farraginose che paralizza molte iniziative. È davvero strano che si imponga a noi la rotazione e non a figure dirigenziali che negli ultimi anni si sono moltiplicate a dismisura». Su un altro aspetto insiste Coliva: niente di tutto ciò accade in musei francesi, inglesi o americani, dove i direttori cambiano, la rotazione è vivace, masulla base di rigorose valutazioni e non di burocratici automatismi. Lei, architetto Recchia, sa se in altri paesi si applicano criteri altrettanto rigidi? «Su questo non ho indagato ». Ma perché la rotazione vale per il direttore di un museo e non per un direttore generale del ministero o per un direttore regionale? «Perché i loro contratti sono triennali, mentre chi guida un museo teoricamente può farlo a vita».

Anna Coliva dirige la Galleria Borghese dal 2007 e su di lei potrebbe cadere la mannaia della rotazione. Come su molti suoi colleghi, Anna Lo Bianco, per esempio, che dirige da oltre tre anni la Galleria di Palazzo Barberini, dove ha gestito un difficile riallestimento, una volta recuperate le sale occupate per decenni dal Circolo Ufficiali. A Maria Paola Guidobaldi, che dal 2000 regge il sito archeologico di Ercolano, impegnata in un esperimento di collaborazione con il magnate americano David Packard, esempio di partnership pubblico-privato fra i più produttivi in Italia. Ma di casi se ne possono citare infiniti fra i funzionari, che hanno accumulato anni di competenze e di esperienze e che, per 1.300-1.400 euro al mese, sorvegliano come possono che non si compiano scempi al paesaggio o non si manomettano opere d’arte.

La rotazione, come principio in sé, viene auspicato: ciò che colpisce è la rotazione triennale per decreto. Un direttore di museo come Rita Paris (che guida dal 2004 il Museo nazionale romano di Palazzo Massimo a Roma, stipendio 1.700 euro al mese) segnala il rischio «che si interrompano progetti scientifici, che si perdano saperi. È necessario intensificare i controlli, ma che cosa c’entriamo noi con la corruzione? ». E cita diversi esempi: «Uno scavo archeologico comporta anni di indagini, come pure la realizzazione di un catalogo o il rinnovo di alcune sale. Mantenere i contatti con i colleghi di altri paesi è un impegno che dura nel tempo. E che dire della programmazione di una mostra. Sono stata di recente al Metropolitan di New York dove abbiamo portato la statua del Pugile a riposo: lì pianificano esposizioni già per il 2016».

Grattacielo da 250 metri a dieci chilometri da San Marco, navi da crociera in Laguna, il Mose, il degrado. La direttrice di The Art Newspaper, denuncia il rischio di Venezia, patrimonio dell’umanità. La Repubblica, 18 giugno 2013

Forse, e per fortuna, l’investimento da un miliardo e mezzo di euro non si troverà, ma in caso contrario a luglio il comune di Venezia autorizzerà l’avvio dei lavori di un grattacielo alto 250 metri sulla terraferma dietro la città, a una decina di chilometri da piazza San Marco. Anche se il sindaco Giorgio Orsoni assicura che la torre non rovinerà lo skyline di Venezia, The Art Newspaper, di cui sono direttrice e fondatrice ha pubblicato un fotomontaggio, ricavato da calcoli matematici, della vista dal Lido. Il grattacielo si vedrebbe dall’imbarcadero di S. M. Elisabetta, alto due terzi del campanile di San Marco, e sciuperebbe l’immagine iconica che tutti abbiamo in mente.

Non è vero, dice il sindaco con ostinazione. Così ho chiesto un’analisi dei calcoli agli esperti dello studio di consulenza Miller Hare, che fa questo tipo di proiezioni per tutti i grattacieli di Londra. I risultati confermano i nostri. Negli ultimi trent’anni Venezia è diventata oggetto di così tanti dibattiti politicizzati, la cui prima vittima è stata la verità, che un calcolo aritmetico può essere trattato come una questione di opinioni e la maggior parte della gente si limita a fare spallucce. Dietro ciò che viene descritto in questo articolo, e mette a repentaglio la città, c’è proprio questo atteggiamento.

Quando nel 1987 è stata dichiarata Sito patrimonio dell’umanità dell’Unesco, Venezia avrebbe dovuto varare un piano di gestione. A marzo di quest’anno il consiglio comunale lo ha finalmente presentato al pubblico. Negli intenti del consiglio, il piano “definisce le strategie e seleziona le modalità di attuazione in Piani di Azione”. Peccato che il documento tradisca quasi del tutto entrambi gli obiettivi, visto che gli autori hanno ignorato le questioni più importanti.

Il riconoscimento di Sito patrimonio dell’umanità non viene conferito spontaneamente dall’Unesco, ma prevede che sia lo stato-nazione a farne domanda. È stata l’Italia a chiedere che Venezia entrasse nella lista. La città, ovviamente, soddisfaceva i requisiti necessari e in cambio del titolo l’Italia si è impegnata a produrre un piano di gestione e a definire una “Buffer Zone” (area di protezione) intorno a Venezia. Essere Sito patrimonio dell’umanità non assicura alcun finanziamento, perché per quest’anno l’Unesco dispone di appena 3,25 milioni di dollari da investire nelle sue attività e in tutti i suoi siti.

Tutto ciò che l’Unesco può fare è vigilare e, se nota abusi grossolani, protestare, presentare rimostranze formali al paese coinvolto, spostare il sito nell’elenco dei patrimoni a rischio e, come ultima risorsa, privarlo del titolo.

A Venezia l’Unesco ha una sede che però non si occupa della città. In altri termini, se la sede dell’Unesco di Venezia nota un uso improprio dello status di sito patrimonio non può intervenire in alcun modo se non inviando un rapporto al quartier generale di Parigi. Nel 2006 il governo italiano ha stabilito che tutti i siti Unesco del paese dovessero presentare il loro piano di gestione e a novembredel 2012 quello di Venezia è stato finalmente approvato dal consiglio comunale.

Il piano è un documento di 157 pagine frutto della consultazione di 250 enti pubblici, con 136 proposte. Non si sa chi siano gli enti, ma ho scoperto che il noto comitato NoGrandiNavi non è stato interpellato. Non è invece difficile dedurre che il consiglio comunale ha ascoltato l’Autorità Portuale di Venezia, poiché la questione delle grandi navi da crociera che attraversano la città è menzionata a malapena nell’elenco dei problemi da risolvere. Sebbene proponga di intraprendere studi sulle attività portuali e sulle navi da crociera da un punto di vista ambientale e socioeconomico, il piano specifica che devono essere coerenti con gli obiettivi “anche in un’ottica di valorizzazione del porto di Venezia quale patrimonio storico, economico e sociale di Venezia e della sua Laguna”. So da dove proviene questa frase. Il potente presidente dell’Autorità Portuale di Venezia, Paolo Costa, ha pronunciato le stesse parole nell’ottobre del 2011 durante il discorso alla riunione annuale dell’Associazione dei Comitati PrivatiInternazionali per la Salvaguardia di Venezia. Costa va fiero del fatto che, sotto la sua gestione, il porto veneziano è diventato il più importante del Mediterraneo per l’industria delle navi da crociera.

Quasi tutte le navi sono lunghe il triplo di un campo di football americano, con una stazza lorda di centomila tonnellate o più. Nel 1997 ne sono passate 206, nel 2011 sono diventate 655, e siccome entrano ed escono dallo stesso canale significa 1310 passaggi che oscurano la vista, inquinano l’aria, scuotono le case e spostano l’acqua nei canali intorno alla Giudecca.

Dal punto di vista politico, Costa se la cava decisamente meglio del sindaco Orsoni, che è solo un avvocato, mentre lui è stato ministro dei Lavori pubblici del governo nazionale, presidente della Commissione per i trasporti e il turismo del parlamento europeo e l’anno scorso è stato riconfermato presidente dell’Autorità Portuale di Venezia fino al 2016. Costa pensa in grande e ha in mente di trasformare il porto di Marghera in uno snodo per il trasporto delle merci nell’ambito del progetto dell’Unione europea di un corridoio che da Barcellona arriva ai Balcani e all’Ucraina passando per Venezia. Il porto di Venezia-Marghera diventerebbe il più grande del nord Italia. Il progetto, però, dipende dai finanziamenti europei e se in confronto il porto per il traffico dei passeggeri di Venezia è piccolo, per Costa ha il vantaggio di trovarsi interamente sotto il suo controllo, quindi può intervenire in maniera incisiva.

Dal 1997 l’Autorità Portuale ha investito 141 milioni di euro per modificare e modernizzare il porto passeggeri mentre la società fondata quello stesso anno per gestirlo, la Venezia Terminal Passeggeri (VTP), ha contribuito con 32 milioni. La SAVE, società che gestisce l’aeroporto veneziano, è azionista della VTP e ha interessi nella crescita del porto perché il grosso dei passeggeri delle crociere arriva o riparte in aereo. Il consiglio comunale, d’altro canto, non ha azioni né nella VTP né nella SAVE e non può incidere sulla loro gestione. Non ha neppure alcuna autorità sul canale della Giudecca, dove transitano le navi, perché questo rientra nella sfera di competenza dell’Autorità Portuale. È come se Broadway non fosse di pertinenza del sindaco Bloomberg ma del Dipartimento dei trasporti federale. Costa nega che il transito delle navi comprometta gli edifici o la qualità dell’aria, eppure chi lo contesta sostiene che non è stato effettuato nessuno studio indipendente.

Dopo l’arenamento della Costa Concordia davantiall’isola del Giglio il 13 gennaio 2012, Francesco Bandarin, vicedirettore generale dell’Unesco per la cultura, ha scritto una lettera al ministro dell’Ambiente dicendo che l’incidente “rafforza le preoccupazioni” sui rischi posti ai siti patrimonio dell’umanità, in particolare Venezia e la sua laguna. Poco dopo il governo ha emanato un decreto con cui vietava alle navi di oltre quarantamila tonnellate di percorrere il canale della Giudecca. È stato ignorato. Malgrado il decreto e l’appello ufficiale di un alto esponente dell’Unesco, malgrado il fatto che il consiglio comunale stesse redigendo il piano di gestione per l’Unesco, malgrado gli autori avessero la responsabilità di un Sito Patrimonio dell’Umanità, il piano non mostra il coraggio sufficiente per fare la minima obiezione agli interessi dell’Autorità Portuale.

Si arriva così alla questione del turismo. Secondo il piano di gestione, visto il numero documentato di persone che pernottano a Venezia e dintorni, ci sono 6,3 milioni di visitatori l’anno che, moltiplicati per il numero medio dei giorni di sosta, fanno 23 milioni di “presenze”. Quello che il piano non dice è che molti più turisti si trattengono un solo giorno e di solito in gruppi numerosi.Come i turisti che visitano il Louvre per la prima volta e vanno dritti alla Gioconda, così la maggior parte dei turisti pendolari punta subito a piazza San Marco. Quello che veniva chiamato il “salotto d’Europa” ora somiglia all’atrio affollato di una stazione ferroviaria, con centinaia di gente che gironzola, si riposa sugli zaini e fa il picnic.

Fra le tantissime cose che si potrebbero citare sugli abusi del settore turistico a Venezia ne spiccano tre in particolare. In primo luogo, senza un controllo del turismo non si potrà realizzare uno dei principali obiettivi del piano di gestione, ossia incoraggiare i veneziani a restare a Venezia e fare in modo che prenda piede una maggiore varietà di attività economiche. In secondo luogo, per potergestire il turismo, qualcuno piuttosto in alto deve ammettere pubblicamente che presto il numero dei turisti dovrà essere limitato. In terzo luogo, il turismo non contribuisce abbastanza alla manutenzione della città. Oltre a evitare la questione delle navi da crociera, il piano di gestione evita anche questo problema cruciale.

Limitare i flussi significherebbe anche introdurre biglietti d’ingresso e in questo modo i turisti potrebbero contribuire direttamente alla manutenzione della città. Se i 6,4 milioni di visitatori accertati versassero trenta euro in un fondo protetto si arriverebbe a 192 milioni di euro l’anno.

Il piano di gestione, però, teme di sollevare uno qualsiasi di questi punti per non urtare contro gli interessi dei diretti beneficiari delle masse di turisti: Costa con le sue navi da crociera, i tassisti, i proprietari delle pizzerie e quelli delle bancarelle che vendono maschere di carnevale.L’omissione in assoluto più grave del piano, però, è la mancata considerazione dell’aumento del livello marino. Ovviamente si parla dell’acqua alta e del Mose, i cui lavori dovrebbero essere ultimati nel 2016, ma l’aumento cronico del livello del mare è giusto accennato in relazione all’esigenza di approfondire le ricerche per stabilire le conseguenze dell’aumento dell’umidità sugli edifici veneziani, e il cambiamento climatico può “aumentare il rischio idraulico in tutto il territorio a causa delle prospettate intensificazioni delle piogge invernali e dell’aumento del livello dei mari”.

Quello che le barriere non possono fare è salvare la città dagli effetti di tale aumento (la malattia cronica) contrapposti agli allagamenti (le fasi acute) se non con la chiusura frequente e, in ultima analisi, permanente. Quando ho chiesto a Giorgio de Vettor del consiglio comunale di Venezia di spiegarmi perché l’aumento del livello marino non sia discusso nel piano, lui ha eluso la domanda: “È un problema che va affrontato in un modo diverso, prendendo in considerazione tutti i fattori e gli aspetti del caso”.

Alla base di tutto questo c’è il timore di riaccendere il dibattito attorno al Mose. A Venezia persiste una certa diffidenza verso le barriere accentuata dall’atteggiamento difensivo e dalla mancanza di trasparenza del Consorzio Venezia Nuova, il gruppo di industrie italiane che le costruisce e si astiene dal pubblicare resoconti dettagliati o rapporti dettagliati di avanzamento scientifico. Nel frattempo la città viene divorata dall’umidità. Adesso ogni centimetro di aumento del livello marino conta, perché l’acqua ha superato le basi di pietra impermeabile di moltissimi edifici e viene assorbita dai mattoni porosi, sgretolandoli e portandosi via la malta.

Il consiglio comunale conclude il piano di gestione dicendo che parteciperà adesso al coordinamento di tutti gli enti che hanno un ruolo o un interesse nell’amministrazione di Venezia e della sua laguna. Perlomeno riconosce che è questa l’essenza del problema: ci sono fin troppe organizzazioni. Ciò che serve disperatamente è un ente superiore con un reale potere. Ma questo piano di gestione, con la sua analisi poco convincente dei problemi della città, l’abilità di ignorare la realtà e l’evidente servilismo nei confronti dei gruppi d’interesse, dimostra che il sindaco Orsoni e il suo consiglio non potranno mai essere quell’ente. Purtroppo resta aperta la questione di chi salverà “la fiabesca città del cuore”, come la definì Byron, e il tempo sta scorrendo via.

Il rapporto Ecomafie di Legambiente: regioni del sud ai primi posti, la Campania al top. Il 17% delle costruzioni è illegale, solo il 10% degli scempi viene abbattuto. Il manifesto, 18 giugno 2013

Nell'Italia della Grande Frenata - economica, sociale, politica - le uniche industrie che non rallentano sono quelle del malaffare. Non recedono le agromafie e i traffici di rifiuti tossici, la tratta di schiavi e la prostituzione. Basta scorrere le aride cifre di dossier e rapporti che associazioni e sindacati periodicamente diffondono, per rendersene conto.

Da ultimo, l'annuale rapporto Ecomafie di Legambiente - presentato ieri mattina a Roma - legge in controluce il dibattito politico sull'abolizione dell'Imu e i periodici tentativi di infilare un condono edilizio tra le righe di provvedimenti che legiferano su tutt'altro. Denuncia il presidente dell'associazione, Vittorio Cogliati Dezza: «Quella delle ecomafie è l'unica economia che continua a proliferare anche in un contesto di crisi generale e a costruire case abusive quasi allo stesso ritmo di sempre, mentre il mercato immobiliare legale tracolla. Con imprese illegali che vedono crescere fatturati ed export, quando quelle che rispettano le leggi sono costrette a chiudere i battenti. Un'economia che si regge sull'intreccio tra imprenditori senza scrupoli, politici conniventi, funzionari pubblici infedeli, professionisti senza etica e veri boss, e che opera attraverso il dumping ambientale, la falsificazione di fatture e bilanci, l'evasione fiscale e il riciclaggio, la corruzione, il voto di scambio e la spartizione degli appalti. Semplicemente perché conviene e, tutto sommato, si corrono pochi rischi».

Al netto degli aspetti penal-giudiziari, dal punto di vista politico-sociale quello che Cogliati Dezza denuncia è il sempiterno «blocco edilizio» di cui parlava Valentino Parlato in un memorabile articolo del 1970 sulla Rivista del manifesto. Parlato riprendeva Engels, secondo il quale «gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato» per mostrare come quel «blocco edilizio», composto da «residui di nobiltà finanziaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, grandi imprese e capimastri, cottimisti», rappresentava un esercito in grado di bloccare qualsiasi riforma. È lo stesso «blocco» legato al ciclo del cemento che, secondo Vezio de Lucia (La città dolente, Castelvecchi editore), in appena un sessantennio ha cambiato i connotati a un Paese rimasto sostanzialmente immutato per due millenni.

In Italia, spiega Legambiente, l'incidenza dell'edilizia illegale nel mercato delle costruzioni è passata dal 9% del 2006 - alla vigilia della crisi, dunque - al 16,9% stimato per il 2013. Se il crollo del mercato immobiliare ha fatto più che dimezzare le nuove abitazioni - da 305 mila a 122 mila - quelle abusive sono rimaste sostanzialmente invariate: dalle 30 mila del 2006 alle 26 mila del 2013. La spiegazione va ricercata nelle spietate leggi del mercato: costruire una casa in regola costa mediamente 155 mila euro, edificarne una abusiva consente di ridurre le spese a un terzo, non più di 66 mila. Se si valuta, poi, che vedersela abbattere ha quasi la stessa probabilità che vederla crollare per una calamità naturale, si arriva alla conclusione che costruire senza tener conto di vincoli e piani regolatori conviene, e non c'è bisogno di essere dei delinquenti incalliti per diventare un piccolo abusivo. A maggior ragione se si ha la ragionevole certezza che prima o poi arriverà un colpo di spugna: dagli anni '80 a oggi ce ne sono stati tre - uno a firma Craxi, gli altri due Berlusconi.

Alla luce di questo ragionamento, non appare un caso se il leader del Pdl, nel disperato tentativo di rimontare nei consensi, alla vigilia delle elezioni di febbraio, oltre a chiedere l'abolizione dell'Imu si è lanciato anche in una promessa di «condono edilizio e tombale». Sapeva che, ricompattando il blocco edilizio e quello di chi non paga le tasse, sarebbe potuto riuscire nel miracolo di ribaltare le previsioni elettorali.

A governo delle larghe intese insediate, il Pdl ci ha subito riprovato. In maniera più accorta, stavolta: con un disegno di legge, firmato dal senatore Ciro Falanga, che toglie la competenza alle Procure sull'esecuzione delle demolizioni. Tanto per fare un esempio, con una legge del genere non sarebbe stato possibile abbattere, com'è avvenuto dopo 24 anni di battaglie ambientaliste, l'ecomostro di Scala dei Turchi, in provincia di Agrigento. E sarebbero posti al sicuro, anche senza condono - che è pur sempre oneroso per il privato cittadino - anche quel 10% circa di abusi - sui 25 mila complessivi - che ogni anno si riesce a buttare giù.

Ma c'è soprattutto un'altra ragione dietro la legge proposta dal senatore pidiellino. Falanga proviene da Torre del Greco. A separare la cittadina vesuviana dalla capitale dell'abusivismo diffuso è solo un lembo di mare. Ischia è il regno dei cosiddetto «abuso di necessità», una definizione che è stato necessario coniare per dare copertura semantica a una situazione di illegalità generalizzata, in cui la fanteria dei piccoli abusivi costituisce il cuore di uno schieramento contro il quale nessuna forza politica osa schierarsi. Neppure il locale Movimento 5 Stelle o l'autarchico Partito comunista italiano marxista leninista, che tra i confini isolani ha fatto registrare exploit elettorali di tutto rilievo. Ad Ischia sono in arrivo circa 700 sentenze di demolizione, e questo basta a spiegare la proposta di legge del senatore proveniente dalla città dei coralli.

Se Ischia è la punta dell'iceberg, la Campania domina incontrastata tutte le classifiche dell'ecocriminalità. Il dossier di Legambiente mette in luce come tutti i primati negativi siano detenuti dalle regioni del sud a più alto insediamento mafioso - con un vero e proprio «caso Calabria» e un'ascesa della Puglia - e un singolare sesto posto di una regione che non ti aspetteresti: la Toscana. È il segno che, in un pezzo d'Italia che ha visto crollare il Pil del 10% in cinque anni e perdere il 60% dei posti di lavoro, l'economia si muove secondo altri parametri.
Un rapido confronto tra il ddl presentato dal governo e la "minaccia Realacci"Ma più che quello tra i testi conterà quello che si svolgerà in parlamento. 16 giugno 2013

Alcune brevi considerazioni, dopo la lettura dei due disegni di legge:

1. Innanzitutto, c’è un problema di corrispondenza tra etichetta e contenuto, tra gli obiettivi dichiarati e quelli realmente perseguiti. Il ddl Realacci dedica al consumo di suolo meno di un terzo del testo dell’articolato. Il 70% del ddl è funzionale all’introduzione, con legge nazionale, degli istituti classici dell’urbanistica contrattata (perequazione, compensazione, trasferimento di diritti edificatori connaturati alla proprietà delle aree). Il consumo di suolo c’entra poco, lo scopo è quello di superare la 1150/42 e di mettere la mordacchia all’articolo 42 della Costituzione.

2. Il ddl governativo, invece, opera effettivamente entro il quadro del problema che si intende affrontare. La scelta è per il modello tedesco, basato sulla quantificazione di obiettivi quantitativi di consumo di suolo a scala nazionale e regionale. Gli obiettivi sono definiti e gestiti, con meccanismi co-decisionali contingentati, dal Governo e dalla Conferenza Stato-Regioni.

3. Il ddl Realacci simula un dispositivo in apparenza simile, declassandolo prudentemente però al rango di intese strategiche Stato-Regioni, su obiettivi generici di contenimento del consumo di suolo. Si tratta di fuffa allo stato puro.

4. Al posto degli obiettivi quantitativi stringenti proposti dal ddl governativo, il ddl Realacci punta tutto sui disincentivi economici: gli oneri di urbanizzazione triplicano nel caso di urbanizzazione di suoli forestali o a elevata naturalità, duplicano nel caso di suoli agricoli. E’ una scelta singolare nel panorama europeo, nel quale la leva economica è sempre complementare a quella regolativa, sia nel modello tedesco, sia in quello inglese, basato su obiettivi vincolanti di riuso di brownfields.

5. La maggiorazione degli oneri di urbanizzazione - misura di apparente concretezza -, finisce per avere in realtà un’effettività tutta simbolica, rispetto all’entità del plusvalore generato dalla trasformazione edilizia di suoli agorforestali.

6. C’è pure da osservare che le dinamiche di uso delle terre in Italia, con le formazioni forestali in fase di impetuosa espansione, e le aree agricole consumate al ritmo di 35.000 ettari l’anno (quattro volte la città di Napoli, i tre quarti nelle pianure fertili del Paese). non giustificano il maggior peso attribuito al naturale rispetto all’agricolo. Paradossalmente dovrebbe essere il contrario.

7. Il ddl Realacci prevede anche la possibilità, al posto del pagamento monetario, della cessione di aree verdi con funzioni di compensazione ecologica. In Germania queste cose si fanno, sulla base di procedure molto rigorose, e sempre come estrema ratio. Come introdotte dal ddl Realacci, di opzione percorribile in prima battuta, un simile istituto prefigura un doppio danno, con il consumo consentito di paesaggio rurale di qualità, in cambio di spazi banali, la cui gestione e destino futuri sono tutta un’incognita.

8. In conclusione: il ddl Realacci con il consumo di suolo e con la tutela delle aree agroforestali c’entra veramente poco: è una strana legge urbanistica camuffata. Il ddl governativo costituisce invece un’ottima base di discussione, per dare al Paese uno strumento efficace, del quale c’è assolutamente bisogno.

Un utile confronto tra alcuni testi di legge sul consumo di suolo (Realacci-Catania, Causi, Lanzillotta, Stefano, Catania-Realacci) :cercando di fare chiarezza in un panorama confuso, dove buone intenzione pronunciate e perverse intenzioni praticate ambiguamente s'intrecciano. 16.6.2013

Il 15 marzo sono state presentate contemporaneamente allaCamera le proposte di legge AC 70 e AC 150, primi firmatari rispettivamenteRealacci e Catania per la prima (AC70) e Causi per la seconda (AC 150) con duetitoli leggermente diversi (Norme per ilcontenimento dell’uso di suolo e la rigenerazione urbana la prima; Norme per il contenimento del consumo delsuolo e la rigenerazione urbana la seconda) ma con testi identici.
Lo stesso 15 marzo la medesima proposta di legge ècomunicata alla presidenza del Senato (AS 129) dalla senatrice Lanzillotta.
Il 3 maggio è comunicata alla presidenza del Senato unanuova proposta, a firma Stefano (AS 600), relativa a Norme in materia di valorizzazione delle aree agricole e dicontenimento del consumo del suolo. Il 15 maggio alla Camera sempre Cataniae Realacci (in questo caso a firme invertite) depositano invece quali primifirmatari una proposta (AC 948) di Leggequadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento delconsumo di suolo.
Il cosiddetto “consumo di suolo”, ovvero la progressiva eincrementale erosione del territorio rurale a opera di nuove urbanizzazioni èl’esito del combinato-disposto di norme nazionali non soltanto in materia digoverno del territorio, ma anche relative alla fiscalità locale[1],piuttosto che alla fiscalità d’impresa[2] o aicondoni edilizi che si sono succeduti negli anni, e delle norme regionali inmateria di governo del territorio e urbanistica.
Pur rimanendo alla radice del problema il fatto che lanostra legislazione statale non ha mai voluto o saputo affrontare in modoorganico il nodo del rapporto tra diritto di proprietà e diritto diedificazione, lasciando alla prassi interpretativa il compito di definire illabile confine tra ciò che il privato può esigere in nome del diritto diproprietà individuale e ciò che gli enti territoriali possono invece limitare edeterminare in nome dell’interesse collettivo, una legge nazionale che siproponga oggi di contenere realmente il consumo di suolo dovrebbe da un latoaffrontare in modo sistematico e coordinato le diverse cause del problema, edall’altro trattare adeguatamente la concorrenzialità tra Stato e Regioni inmateria di governo del territorio[3]. Leproposte presentate invece non considerano come punto di partenza lo statodell’arte delle legislazioni regionali vigenti in materia, e di come in particolareaffrontino il tema del consumo di suolo[4]. Nonsi pongono peraltro nemmeno il problema di una chiara definizione di cosa siintenda per consumo di suolo, e quindi quale sia il territorio da considerarsigià urbanizzato o consumato[5].
Partiamo dalla proposta Catania (AC 948), che seppur ultimacome data di presentazione (15 maggio 2013) riprende tale e quale la proposta asuo tempo presentata da Catania, già direttore generale del Mipaf, in veste diministro delle politiche agricole del governo Monti (DDL fine 2012), a suotempo dibattuta in sede di coordinamento delle Regioni con la produzione di uncomplesso lavoro emendativo[6] L’exMinistro Catania, senza tener minimamente conto di questo lavoro, ripropone unarticolato di legge che, per citarne soltanto i contenuti più critici:
prevede che il Ministero delle politiche agricole eforestali determini con decreto “l’estensione massima di superficie agricolaconsumabile sul territorio nazionale”, da ripartirsi tra le regioni;
prevede quale incentivo ai comuni e alle province virtuosela ”concessione di finanziamenti statali e regionali eventualmente previsti inmateria .edilizia”, finanziamenti di fatto irrilevanti;
fino all’adozione del decreto che fissa la superficieconsumabile, e comunque non oltre tre anni, non è consentito il consumo dellesuperfici agricole fatti salvi gli interventi già “previsti dagli strumentiurbanistici vigenti”.
Nella congiuntura economica e immobiliare attuale, faresalvi tutti i vecchi piani sovradimensionati, aggiungendo la previsione dinuovo suolo agricolo consumabile da ripartirsi fra le regioni, rischia dipromuovere alla grande il contrario di ciò che si dichiara di voler perseguire,ovvero un nuovo consumo di suolo.
La proposta che invece, va dato atto, recepisce i principaliemendamenti richiesti dal coordinamento delle regioni, è quella presentata dalsenatore Stefano (AS 600), ex referente del coordinamento delle regionisull’agricoltura, che rispetto alle criticità della proposta Catania sopraesposte:
prevede che venga definito “l’obiettivo nazionale in terminiquantitativi di riduzione del consumo di suolo agricolo”;
prevede quale incentivo a comuni, province e regionivirtuose la “priorità nella concessione di finanziamenti dell’Unione europea,statali e regionali”;
per tre anni non è consentito il consumo di superficieagricola, fatte salve le previsioni degli strumenti urbanistici con contenuticonformativi della proprietà”.
E veniamo invece alle proposte Realacci (AC 70), Causi (AC150), Lanzillotta (AS 129), di fatto aventi il medesimo contenuto.
Nulla da dire in merito ai principi, totalmentecondivisibili, introdotti dall’art.1, che tra l’altro prevedono, all’opposto dellaproposta Catania (che firma tranquillamente entrambe le proposte), che “gliobiettivi di contenimento quantitativo da perseguire su scala pluriennale nellapianificazione territoriale e urbanistica” siano definiti nell’ambito delRapporto annuale alle Camere sul consumo di suolo e sui processi di crescitadell’urbanizzazione.
Nel concreto, contraddittoriamente con l’obiettivo dicontenere il consumo di suolo, il consumo viene monetizzato con uno specifico“contributo” a carico delle nuove urbanizzazioni in “aree naturali,seminaturali o agricole”. Tale contributo, monetario oppure sostituibile con lacessione di aree compensative, avrebbe secondo i proponenti l’obiettivo dicontenere il consumo di suolo e, allo stesso tempo, promuovere la rigenerazioneurbana, aggiungendosi agli oneri di urbanizzazione con destinazione vincolata afinalità d’uso pubblico.
Questa destinazione di scopo, da tempo negata anche per glioneri di urbanizzazione[7],nelle attuali condizioni di bilancio degli enti territoriali di diversolivello, rischia di fare la stessa fine. Anzi, paradossalmente, rischia di tradursiin un incentivo, per i comuni, a promuovere nuovo consumo di suolo per poterdisporre di finanziamenti destinabili al recupero delle aree già edificate,spesso di proprietà pubblica, che oggi altrimenti rischiano di non averemercato.
E’ comunque sugli ambiti di rigenerazione urbana, obiettivonon solo condivisibile ma sinergico al blocco del consumo di suolo, che siconcentrano gran parte dei dispositivi, finanziari e non, previsti dallaproposta di legge. Oltre alla possibile destinazione dei fondi vincolatiderivanti dall’ulteriore consumo di suolo, sono infatti previste al fine dipromuovere la rigenerazione urbana: aliquote IMU ridotte, attribuzione didiritti edificatori in loco e in altre aree, imposte di registro minime per itrasferimenti immobiliari, uno strumento finanziario dedicato da parte dellaCassa depositi e prestiti Spa, perequazioni anche extra comparto, lapossibilità per la maggioranza della proprietà di un comparto di presentare al comuneun piano urbanistico attuativo di propria iniziativa, e nei casi di minoreentità, la possibilità di procedere direttamente tramite un permesso dicostruire convenzionato[8].
L’insieme delle misure previste, se da un lato accogliemolte delle proposte formulate in questi anni dall’ANCE[9], eprova complessivamente a costruire un pacchetto di incentivi in grado direndere fattibili molti interventi che oggi stentano a trovare attuazione, dall’altronon garantisce una sufficiente partecipazione dei diretti interessati, abitantidell’area, cittadini, e persino proprietari di minoranza, alla procedura didefinizione degli interventi di trasformazione, anche per la possibilità diprevedere spostamenti di crediti edilizi da un’area a un’altra.
Le trasformazioni urbanistiche dovrebbero infatti rispondere,anche in contesti di rigenerazione urbana, a principi ed esiti di utilitàcollettiva[10]. La libertà d’iniziativalasciata ai privati, sia pur in parte mitigata rispetto a quanto previsto dal disegnodi legge Lupi approvato dalla Camera nel 2005, accompagnata da un insieme diincentivi per i promotori senza chiare contropartite, non garantisconol’utilità collettiva[11].
Infine, nel confrontarsi con proposte che:
-ripropongono tali equali proposte già oggetto di una intensa attività emendativa da parte delle Regioni,senza tenerne alcun conto;
-non si pongono il problema di superare le contraddizionifra i diversi ministeri;
-non considerano ciò che le regioni, in quanto soggetti cheesercitano in materia di governo del territorio una competenza concorrente, potrebberoproporre,
si configura un quadro che consente di trattare i problemispecifici che alcuni comuni si trovano ad affrontare, dimostrando a sindaci,imprenditori e cittadini che le soluzioni possono essere trovate piùagevolmente saltando le regioni o relegandole comunque a un ruolo secondario (secondoil modello già testato con il CIPU, comitato interministerale per le politicheurbane che eroga finanziamenti in un rapporto diretto con i singoli Comuni e leloro proposte progettuali), e di rafforzare alleanze politiche con alcunisettori imprenditoriali.
Se si ritiene la concorrenza di competenze tra Stato e regioniin materia di governo del territorio elemento da rivedere, si abbia il coraggiodi mettervi mano con una modifica costituzionale. Altrimenti, ci si attenga aquesta concorrenza anche nella formazione delle leggi nazionali, tanto più inuna fase in cui la costituzione del Senato delle regioni è all’ordine delgiorno delle riforme costituzionali.
Le attuali proposte di legge nazionale rischiano invece divanificare le norme regionali di contrasto al consumo di suolo. Innanzituttoperché le disposizioni in esse contenute, dietro un apparente rispetto dellalegislazione nazionale che viene richiamata e fatta salva, non si limitano adettare principi, ma introducono norme dettagliate, auto applicative elimitanti la possibilità di ulteriori interventi regionali al riguardo. Lagiurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito che l’intesa Stato regioniè essenziale nel caso di competenze concorrenti, ma va ricordato che non tuttele regioni italiane hanno legislazioni così robuste, né stanno rafforzandolecome la Regione Toscana si appresta a fare.
In materia di contenimento del consumo di suolo si rischiapertanto di indebolire i dispositivi della legislazione regionale, ovepresenti, senza sostituirli peraltro con norme statali capaci di trattareefficacemente il problema.


* Assessore all’Urbanistica, Pianificazione delterritorio e paesaggio della Regione Toscana dal 2010; Ordinario di Pianificazionedel territorio, IUAV di Venezia
[1] La possibilità per iComuni, ad esempio, di utilizzare i proventi degli oneri di urbanizzazioneanche per finanziare la spesa corrente.
[2] Sono ben noti gli effettidi promozione del consumo di suolo prodotti ad esempio dalla norma introdottain finanziaria dall’allora ministro Tremonti che consentiva di detrarredall’imponibile delle imprese la spesa per nuovi capannoni, indipendentementedal fatto che questi fossero necessari all’attività produttiva, anzi in unafase di massiccia delocalizzazione delle attività verso paesi con minoridiritti dei lavoratori e tutele ambientali del nostro.
[3]Dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, sonoinfatti le regioni a statuto ordinario (all’epoca di recente istituzione) adassumere il ruolo centrale nella disciplina urbanistica (materia di loroesclusiva competenza). Negli anni più recenti, alcune fra queste regioni sisono spinte oltre, introducendo nella propria legislazione anche principi edispositivi riferibili all’esercizio delle attività di governo del territorio.
[4] La Regione Toscana, in particolare, con la leggen.1/2005 Norme per il governo delterritorio, ha inteso trattare anche il tema del consumo di suolo,perlomeno a livello di principio, definendo che:
“Nessunadelle risorse essenziali del territorio …può essere ridotta in modosignificativo e irreversibile” (art.3, comma 3) e che, “nuovi impegni di suoloa fini insediativi e infrastrutturali sono consentiti esclusivamente qualoranon sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degliinsediamenti e delle infrastrutture esistenti” (art.3, comma 4).
Nel2011, alla luce dell’esperienza applicativa, la giunta regionale su miaproposta ha non soltanto reso più accurato il monitoraggio dei dati di consumodi suolo, ma altresì avviato la procedura di revisione della legge 1 perrenderne più efficaci le misure di contrasto al consumo di suolo, inparticolare accompagnando le enunciazioni di principio con dispositivioperativi che ne assicurino l’effettiva applicazione. Da gennaio 2013 è allavoro un tavolo tecnico che, con le rappresentanze degli enti locali, haperfezionato la proposta di revisione, prossima ad essere approvata dallagiunta e trasmessa al consiglio regionale.
[5] A questo riguardo, la propostadi revisione della legge 1/2005 attualmente in discussione introduce per laprima volta una definizione di ciò che si intende per territorio urbanizzato, al fine di poter differenziare le procedure per letrasformazioni che insistono all’interno di questo rispetto a quelle cheinteressano il territorio agricolo: Ilterritorio urbanizzato è costituito da: i centri storici, le aree residenzialiedificate con continuità dei lotti, gli insediamenti produttivi, commerciali,direzionali, le attrezzature e i servizi, i lotti interclusi dotati di opere diurbanizzazione primaria. Non sono considerate territorio urbanizzato le areeche presentano caratteri riconoscibili di ruralità, ancorché incluse al suointerno, così come i singoli edifici, l’edificato sparso discontinuo nonché iborghi presenti nel territorio rurale.
[6] I punti salienti degliemendamenti proposti dalle Regioni riguardavano: la fissazione di obiettivo diriduzione del consumo di suolo anziché la distribuzione fra le regioni di quotedi ulteriore consumo ammesso; la previsione di incentivi reali per gli entiterritoriali virtuosi nell’assegnazione di finanziamenti; la salvaguardia dellesole previsioni urbanistiche conformative della proprietà.
[7] E’ di questi giorni laconferma, per i Comuni, della possibilità di utilizzare fino al 75% degliintroiti derivanti dagli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente.
[8] Come di fatto staavvenendo nei meccanismi attuativi dell’urbanistica fiorentina.
[9] Associazione nazionalecostruttori edili.
[10] Uso di proposito iltermine collettivo, e non pubblico, in quanto quest’ultimo tende a confondersicon la razionalità, anche finanziaria, dell’agire dei singoli soggettipubblici. Razionalità ovviamente importante, ma a volte potenzialmenteconflittuale con l’interesse collettivo degli abitanti e utenti di una città odi un territorio.
[11] Ad esempio, in relazioneall’utilità collettiva, la Regione Toscana ha introdotto nel 2011 nella legge1/2005 una procedura per la rigenerazione urbana che prevede che siano i comunia fissare obbligatoriamente criteri e parametri in base ai quali i privatipossano presentare proposte progettuali, da sottoporre alla discussionepubblica.

Recensione all'ultimo lavoro di Franco Arminio, con l'indubbio pregio di esplicitare quanto l'approccio a volte percepito della “logia” non appartenga in senso proprio a questo autore. Alias / il manifesto, 16 giugno 2013 (f.b.)

Arminio possiede due io: uno per vivere e l’altro per guardarsi vivere». Lo dice lo stesso Franco Arminio, ricorrendo alla terza persona, in un testo («Colui che non vivendo visse») contenuto in Circo dell’ipocondria (Le Lettere, 2006). Ma nel suo ultimo lavoro, Geografia commossa dell’Italia interna (Bruno Mondadori, pp. 136, € 14,00), un aggiornamento dell’analisi introspettiva fa pensare a un’intervenuta soluzione di questa particolare forma di schizofrenia: «Io sono ciò che vedo», scrive ora lo scrittore irpino, fondatore peraltro di una nuova disciplina, la «paesologia», imperniata appunto sull’atto di osservare e sulla centralità del corpo. Lo scrivere è per Arminio un descrivere, dove il percetto – per usare una terminologia cara a Deleuze – prevale sistematicamente sul concetto, la sensazione sull’opinione, l’emozione sul ragionamento.

Come i precedenti, i testi che compongono questa «geografia commossa» rispondono per la più parte all’esigenza di una sospensione del giudizio, procedono per accostamenti di immagini, poco importa se eterogenee tra loro. È il luogo che garantisce l’unità. «In effetti, il mio lavoro è questo accostare la poesia alla desolazione, la desolazione alla poesia», ammette.
Non c’è paese, tra quelli visitati da Arminio nelle sue continue peregrinazioni appenniniche, che – nonostante i sempre più pesanti sfregi della modernità – non conservi perlomeno un’oncia di poesia e di bellezza. In un dettaglio architettonico, nel cigolìo di una porta, nella piega di un volto antico. Perché, come disse lui stesso durante una lettura a Cesena, la poesia non è che «un mucchietto di neve con il sale in mano».
Fare in modo che l’ecologia della mente e quella del mondo convergano e si compiano nella nitidezza della parola. È questo lo sforzo di Arminio, che – come un artigiano – intende portare il linguaggio «al sangue, all’osso», nella consapevolezza che «noi non abbiamo niente, se non la nostra miseria, il nostro essere senza scampo».
Arminio ha definito «Geografia commossa» il suo libro più politico. E non è un caso che, a un certo punto, invochi due numi tutelari piuttosto lontani tra loro, quasi inconciliabili: Pier Paolo Pasolini e Robert Walser, i quali a suo dire rappresentano il primo il conflitto, il secondo la contemplazione, ma che condividono entrambi quella dichiarazione programmatica: «Io sono ciò che vedo». Possiamo dire che Geografia commossa dell’Italia interna sia insieme «scritto corsaro» e «passeggiata», un aggirarsi tra «ardori civili e intime mestizie».
È tutt’altro che imbarazzante per Arminio fare seguire a un reportage dall’Aquila terremotata, o da una Taranto devastata dalla tromba d’aria, una lettera al figlio, o una «al mio cuore»; oppure passare dalla malinconia che suscitano in lui Craco e Aliano, le «ambasciate della Luna sulla Terra», all’ardore dei conclusivi «saggi deliranti e facoltativi».
Ma se un poeta, con i suoi scritti, fa politica, è anche in grado di cambiare la politica? Può affiancare all’invettiva l’attività politica e candidarsi a sindaco del suo paese, in questo caso Bisaccia? Arminio ebbe questa idea quattro anni fa, quando il suo lavoro cominciò a trovare «un ascolto non solo letterario».
Molti, anche tra gli amici, gli sconsigliarono la candidatura dicendogli che la poesia non può mischiarsi alla politica. Ma il suo progetto era esattamente questo: dimostrare che la poesia, unitamente all’impegno civile, può migliorare la politica, un’impresa ad esempio tentata, in Senato, tra il 1983 e il 1993, da Paolo Volponi. Nel libro c’è un passaggio in cui Arminio ricorda quel suo proposito, che si arenò presto, soffocato dall’amarezza: quando si rese conto che Bisaccia – un posto che non è mai riuscito a lasciare – non lo vedeva di buon occhio perché era «uno che si corica sulle panchine a prendere il sole». Quasi un matto.

Geografia commossa dell’Italia interna potrebbe essere letto come la collezione dei discorsi mancati di Arminio in consiglio comunale, discorsi che invitano al recupero dei paesi (anche se i paesi «non devono vivere per forza»), al piacere di stare insieme e decidere insieme come passare il tempo, ma che prefigurano anche grandi utopie, come «un anno intero di silenzio», la «globalizzazione lirica», una «rivoluzione clemente» contro quell’«autismo corale», che ha trasformato il mondo in un grande io. In «Divagazioni sull’anno nuovo», in origine pubblicato sul manifesto, Arminio dice che cosa significa oggi essere rivoluzionari. Significa «aumentare l’attenzione, più che la crescita economica, togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, dare valore al silenzio, al buio, alla fragilità, alla dolcezza».

Il «francescanesimo» che emerge nella parte finale del libro non deve ingannare. Non è un elogio del pauperismo o della decrescita felice modello Latouche, ma la conferma che «siamo al mondo senza alcun mandato» e che ogni giorno dobbiamo convivere con il pensiero della morte. Più che il punto centrale dei libri di Arminio, la morte è il loro punto d’inizio, una luce, un faro che illumina retrospettivamente la vita, come dimostra Cartoline dai morti, il suo volumetto di maggior successo, pubblicato tre anni fa da Nottetempo. «Il pensiero della morte è il più ecologico che esista», scrive Arminio. E più avanti: «Chi non sa occuparsene non è un rivoluzionario». Anche perché «scrivere, in fondo, è arare la morte e cercare di trarne qualche frutto».

Tra le poche decisioni positive del governo, l'approvazione di un ddl sul consumo di suolo che riprende i contenuti del ddl Catania, con l'effetto di sparigliare il gioco dei lupacchiotti e mettere ai margini la "minaccia Realacci". In calce il testo del provvedimento.


Il Consiglio dei ministri, nella seduta del 15 giugno 2013, ha approvato un disegno di legge che costituisce di fatto una sconfessione della proposta presentata alla Camera e al Senato da numerosi parlamentari del centro-destra-sinistra, primi firmatari rispettivamente Ermete Realacci e Linda Lanzillotta. Pubblichiamo di seguito il testo del provvedimento - tratto dal sito del Sole 24ore. La discussione sulle diverse proposte presentate sull'argomento potrà in tal modo riprendere sulla base di una proposta almeno decente.

Testo del provvedimento

Disegno di legge - Contenimento del consumo del suolo eriuso del suolo edificato

Art. 1.
(Finalità e ambito della legge)
1. La presente legge detta princìpi fondamentali dell'ordinamento ai sensidegli articoli 9 e 117 della Costituzione per la valorizzazione e la tutela delsuolo non edificato, con particolare riguardo alle aree e agli immobilisottoposti a tutela paesaggistica e ai terreni agricoli, al fine di promuoveree tutelare l'attività agricola, il paesaggio e l'ambiente, nonché di contenereil consumo di suolo quale bene comune e risorsa non rinnovabile che esplicafunzioni e produce servizi ecosistemici e che va tutelato anche in funzionedella prevenzione e mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico.
2. La priorità del riuso e della rigenerazione edilizia del suolo edificatoesistente, rispetto all'ulteriore consumo di suolo inedificato, costituisceprincipio fondamentale della materia del governo del territorio. Salve leprevisioni di maggiore tutela delle aree inedificate introdotte dallalegislazione regionale attuativa, il principio della priorità del riusocomporta almeno l'obbligo di adeguata e documentata motivazione, in tutti gliatti progettuali, autorizzativi, approvativi e di assenso comunque denominatirelativi a interventi pubblici e privati di trasformazione del territorio,circa l'impossibilità o l'eccessiva onerosità di localizzazioni alternative suaree già interessate da processi di edificazione, ma inutilizzate o comunquesuscettibili di rigenerazione, recupero, riqualificazione o più efficientesfruttamento.
3. Le politiche di tutela e di valorizzazione del paesaggio, di contenimento del consumo del suolo e di sviluppo territorialesostenibile sono coordinate con la pianificazione territoriale e paesaggistica.

4. Le politiche di sviluppo territoriale nazionali e regionali perseguono latutela e la valorizzazione della funzione agricola attraverso la riduzione delconsumo di suolo e l'utilizzo agroforestale dei suoli agricoli abbandonati,privilegiando gli interventi di riutilizzo e di recupero di aree urbanizzate.

Art. 2.
(Definizioni)
1. Ai fini della presente legge, si intende:
a) per «superficie agricola»: i terreni qualificati tali dagli strumentiurbanistici nonché le aree di fatto utilizzate a scopi agricoliindipendentemente dalla destinazione urbanistica e le aree, comunque libere daedificazioni e infrastrutture, suscettibili di utilizzazione agricola;
b) per «consumo di suolo»: la riduzione di superficie agricola per effetto diinterventi di impermeabilizzazione, urbanizzazione ed edificazione non connessiall'attività agricola.

Art. 3.
(Limite al consumo di superficie agricola)
1. Con decreto del Ministro delle politiche agricolealimentari e forestali, d'intesa con il Ministro dell'ambiente e della tuteladel territorio e del mare, con il Ministro per i beni e le attività culturali econ il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, tenuto conto delladeliberazione di cui al comma 2 e dei dati di cui al comma 3, acquisito ilparere della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, e sentito il Comitato dicui al comma 7, è determinata l'estensione massima di superficie agricolaconsumabile sul territorio nazionale, nell'obiettivo di una progressivariduzione del consumo di superficie agricola.
2. Con deliberazione della Conferenza unificata sonostabiliti i criteri e le modalità per la definizione dell'obiettivo di cui alcomma 1, tenendo conto, in particolare, delle specificità territoriali, dellecaratteristiche qualitative dei suoli e delle loro funzioni ecosistemiche,delle produzioni agricole in funzione della sicurezza alimentare, dellatipicità agroalimentare, della estensione e localizzazione dei suoli agricolirispetto alle aree urbane e periurbane, dello stato della pianificazioneterritoriale, urbanistica e paesaggistica, dell'esigenza di realizzareinfrastrutture e opere pubbliche, dell'estensione del suolo già edificato edella presenza di edifici inutilizzati nonché dell'esposizione del territorioalle calamità naturali di cui alla legge 24 febbraio 1992, n. 225. Sonostabiliti, altresì, i criteri e le modalità per determinare la superficieagricola esistente e per assicurare il monitoraggio del consumo di essa.Qualora la deliberazione non sia adottata dalla Conferenza unificata entro iltermine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, siprovvede con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta delMinistro delle politiche agricole alimentari e forestali.
3. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano,entro il termine di tre mesi dall'adozione della deliberazione di cui al comma2, inviano al Comitato di cui al comma 7 i dati acquisiti in base ai criteriindicati dal comma 2. In mancanza, il decreto di cui al comma 1 può comunqueessere adottato.
4. Il decreto di cui al comma 1 è adottato entro un annodalla data di entrata in vigore della presente legge ed è sottoposto a verificaogni dieci anni, fermo restando l'obiettivo della progressiva riduzione delconsumo di superficie agricola, di cui all'art. 3 comma 1.
5. Con deliberazione della Conferenza unificata, da adottarenel termine di sei mesi dalla data del decreto di cui al comma 1, la superficieagricola consumabile sul territorio nazionale è ripartita tra le diverseregioni, tenuto conto di quanto previsto dai commi 2 e 3 e nel rispetto delleprevisioni della pianificazione paesaggistica vigente.
6. Qualora la Conferenza unificata non provveda entro iltermine di cui al comma 5, la deliberazione ivi prevista è adottata con decretodel Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consigliodei ministri, su proposta del Ministro delle politiche agricole alimentari eforestali, sentito il Comitato di cui al comma 7 e acquisito il parere dellaConferenza unificata.

7. Con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali,d'intesa con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del maree con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e acquisita altresìl'intesa della Conferenza unificata, è istituito, senza nuovi o maggiori oneriper il bilancio dello Stato, un Comitato con la funzione di monitorare ilconsumo di superficie agricola sul territorio nazionale e l'attuazione dellapresente legge. Il Comitato opera presso la Direzione generale per lapromozione della qualità agroalimentare del Dipartimento delle politichecompetitive, della qualità agroalimentare e della pesca del Ministero dellepolitiche agricole alimentari e forestali e le funzioni di segreteria sonosvolte dalla Direzione medesima nell'ambito delle ordinarie competenze. Allespese di funzionamento del Comitato si fa fronte nei limiti delle risorsefinanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente. La partecipazioneal Comitato è a titolo gratuito e non comporta l'attribuzione di alcunaindennità neanche a titolo di rimborso spese. Il Comitato redige, entro il 31dicembre di ogni anno, un rapporto sul consumo di suolo in ambito nazionale,che il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali presenta, entroil 31 marzo successivo, al Parlamento.
8. Il decreto di cui al comma 7 è adottato entro sei mesi dalla data di entratain vigore della presente legge.
9. Il Comitato di cui al comma 7 è composto da:
a) due rappresentanti del Ministero delle politiche agricole alimentari eforestali;
b) due rappresentanti del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorioe del mare;
c) due rappresentanti del Ministero per i beni e le attività culturali;
d) due rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
e) un rappresentante del Dipartimento della protezione civile della Presidenzadel Consiglio dei Ministri;
f) un rappresentante dell'Istituto nazionale di statistica;
g) sette rappresentanti designati dalla Conferenza unificata, di cui duerappresentanti dell'Unione delle province italiane (UPI) e due rappresentantidell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI).
10. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano stabiliscono,entro il limite di cui al comma 1 e con la cadenza temporale decennale di cuial comma 4, l'estensione della superficie agricola consumabile a livelloprovinciale e determinano i criteri e le modalità per la definizione dei limitid'uso del suolo agricolo nella pianificazione territoriale degli enti locali,fatti salvi i diversi sistemi di pianificazione territoriale regionale. Illimite stabilito con il decreto di cui al comma l rappresenta, per ciascunambito regionale, il tetto massimo delle trasformazioni edificatorie di areeagricole che possono essere consentite nel quadro del piano paesaggistico,ferma restando la possibilità che tale strumento, nella definizione diprescrizioni e previsioni ai sensi dell'articolo 135, comma 4, del codice deibeni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004,n. 42, e successive modificazioni, e in attuazione, in particolare, di quantoprevisto dalla lettera c) del medesimo comma 4 dell'articolo 135, determinipossibilità di consumo del suolo complessivamente inferiori.

11. Se le regioni e le province autonome di Trento e diBolzano non provvedono entro il termine di sei mesi dall'adozione delladeliberazione di cui al comma 5, le determinazioni di cui al comma 10 sonoadottate, in attuazione e nel rispetto del principio di leale collaborazione,con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione delConsiglio dei ministri, su proposta del Ministro delle politiche agricoleambientali e forestali, sentito il Comitato di cui al comma 7 e acquisito ilparere della Conferenza unificata. Il Consiglio dei ministri delibera, inesercizio del proprio potere sostitutivo, con la partecipazione dei Presidentidelle regioni o delle province autonome interessate.

Art. 4.
(Priorità del riuso)
1. Al fine di attuare il principio di cui all'art. 1, comma 2, i Comuni,nell'ambito dell'espletamento delle proprie ordinarie competenze e senza nuovio maggiori oneri a carico della finanza pubblica, procedono al censimento dellearee del territorio comunale già interessate da processi di edificazione, mainutilizzate o suscettibili di rigenerazione, recupero, riqualificazione;procedono altresì, all'interno delle aree censite, alla costituzione e allatenuta di un elenco delle aree suscettibili di prioritaria utilizzazione a finiedificatori di rigenerazione urbana e di localizzazione di nuovi investimentiproduttivi e infrastrutturali.
2. Il censimento e la formazione dell'elenco di cui al comma 1 sono effettuatientro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presentelegge e l'elenco è aggiornato annualmente. I Comuni vi provvedono ancheattraverso gli sportelli unici per le attività produttive e gli sportelli uniciper l'edilizia, avvalendosi della collaborazione delle Camere di commercio edei Consorzi delle aree di sviluppo industriale e stipulando appositi accordidi collaborazione con le associazioni imprenditoriali del territorio.
3. Decorso il termine di cui al comma 2 senza che il censimento sia statoconcluso o senza che l'elenco sia stato redatto, è vietata la realizzazione,nel territorio del Comune inadempiente, di interventi edificatori, sia pubbliciche privati, sia residenziali, sia di servizi che di attività produttive,comportanti, anche solo parzialmente, consumo di suolo inedificato.

Art. 5
(Divieto di mutamento di uso delle superfici agricole)
1. Ferme restando le vigenti disposizioni di legge in materia di urbanistica epianificazione del territorio, le superfici agricole in favore delle quali sonostati erogati aiuti di Stato o aiuti europei non possono essere utilizzate peruno scopo diverso da quello agricolo per almeno cinque anni dall'ultimaerogazione. Sono comunque consentiti, nel rispetto degli strumenti urbanisticivigenti, gli interventi strumentali all'esercizio delle attività di cuiall'articolo 2135 del codice civile, ivi compreso l'agriturismo, fatte salve ledisposizioni contenute nell'articolo 10 della legge 21 novembre 2000, n. 353, esuccessive modificazioni.
2. Negli atti di compravendita dei terreni di cui al comma 1 deve essereespressamente richiamato il vincolo indicato nel comma 1 pena la nullitàdell'atto.
3. Fatto salvo quanto previsto dalle disposizioni previste dal testo unico dicui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, nel casodi violazione del divieto di cui al comma 1 si applica al trasgressore lasanzione amministrativa non inferiore a 5.000 euro e non superiore a 50.000 euroe la sanzione accessoria della demolizione delle opere eventualmente costruitee del ripristino dello stato dei luoghi.

Art. 6.
(Misure di incentivazione)
1. Ai comuni e alle province che avviano azioni concrete per localizzare leprevisioni insediative prioritariamente nelle aree urbane dismesse e cheprocedono al recupero dei nuclei abitati rurali mediante manutenzione,ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti edella viabilità rurale e conservazione ambientale del territorio, è attribuitapriorità nella concessione di finanziamenti statali e regionali eventualmenteprevisti in materia edilizia.
2. Il medesimo ordine di priorità di cui al comma 1 è attribuito ai privati,singoli o associati, che intendono realizzare il recupero di edifici e delleinfrastrutture rurali nei nuclei abitati rurali, mediante gli interventi di cuial comma 1.
3. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, per le finalità dicui all'articolo 1, possono individuare misure di semplificazione, e misure diincentivazione, anche di natura fiscale, per il recupero del patrimonioedilizio esistente.

Art. 7.
(Registro degli enti locali)
1. Con decreto del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali,presso il medesimo Ministero è istituito, senza nuovi o maggiori oneri per lafinanza pubblica, un registro in cui sono indicati, su richiesta, i comuni chehanno adottato strumenti urbanistici in cui non è previsto nessun ampliamentodelle aree edificabili o in cui è previsto un ampliamento delle areeedificabili inferiore al limite di cui all'articolo 3, comma 10.

Art. 8.
(Destinazione dei proventi dei titoli abilitativi edilizi)
1. I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni di cuiall'articolo 5, nonché delle sanzioni di cui al citato testo unico di cui aldecreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, sono destinatiesclusivamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria esecondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, ainterventi di qualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini dellamessa in sicurezza delle aree esposte a rischio idrogeologico.

Art. 9
(Disposizioni transitorie e finali)
1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino allaadozione del decreto di cui all'articolo 3, comma 1, e comunque non oltre iltermine di tre anni, non è consentito il consumo di superficie agricola tranneche per la realizzazione di interventi già autorizzati e previsti daglistrumenti urbanistici vigenti, nonché per i lavori e le opere già inseritinegli strumenti di programmazione delle stazioni appaltanti e nel programma dicui all'articolo 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443.
2. Sono fatte salve le competenze attribuite in maniera esclusiva alle regionia statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano.
3. La presente legge costituisce legge di riforma economica-sociale ed èattuata dalle regioni a statuto speciale e dalle province autonome di Trento edi Bolzano nel rispetto dei relativi statuti e delle disposizioni diattuazione.

Uno dei più interessanti progetti per il rinnovamento urbano legati all'Expo, che pur nella sostanziale estraneità al tema ambientale centrale può far molto per un futuro più sostenibile. Corriere della Sera Milano, 15 giugno 2013, postilla (f.b.)

Milano è l'unica metropoli europea che, pur essendo collocata in un'area strategica come la Pianura Padana e con una rete di vie d'acqua così importante, ha rinunciato a essere una città d'acqua con tutte le conseguenze strutturali e simboliche che ciò ha comportato.
I lavori di chiusura dei Navigli iniziarono nel 1929 a partire dalla Cerchia per concludersi negli anni 60 con l'interramento del canale Martesana lungo via Melchiorre Gioia. Le motivazioni furono molteplici.

L'igiene urbana — i Navigli venivano utilizzati come fognature a cielo aperto — e lo «slancio verso la modernità» — leggasi motorizzazione di massa — che vedeva nelle vie d'acqua un ostacolo alla circolazione in città. Tutte ragioni pratiche e superabili — come dimostra l'esperienza di tante città europee — che hanno, però, cancellato una traccia fondamentale e peculiare di Milano.
Un progetto di riapertura dei Navigli, dunque, ha il grande vantaggio di ristabilire una connessione — storica, urbanistica e identitaria — tra la metropoli di oggi e quella del passato. Tuttavia non può essere vissuto come un semplice restauro, ma deve rappresentare un «ritorno al futuro». Un modo per realizzare una nuova Milano a misura d'uomo e di bicicletta, in cui a fianco di quella delle auto possa affiancarsi, e via via sostituirsi, una mobilità dolce in una nuova città più «pulita» fatta di isole pedonali e piste ciclabili.

I Navigli sono uno strumento con cui Milano potrà acquisire una nuova immagine rafforzando la sua centralità nell'area metropolitana e padana e arricchendo le sue relazioni con tutti quei territori che vivono ancora le vie d'acqua come parte integrante del proprio paesaggio urbano o rurale. La loro riapertura testimonierebbe la saldatura tra storia e sviluppo e si concilierebbe bene l'idea di una «città verticale» — a misura di ascensore e di cui constatiamo i limiti — con quella orizzontale, a misura d'uomo.

Il nuovo «paesaggio milanese» sarebbe un forte elemento di attrattività turistica non solo per gli stranieri (oggi il 63 per cento dei 9 milioni di presenze annue), ma anche per gli italiani. Tutti interessati a una città che fa della contaminazione — tecnologia e tradizione — un elemento di distintività, costituendo un esperimento eccezionale per una via italiana alle smart cities. Per i milanesi, la città d'acqua rappresenterebbe un elemento innovativo di riconoscimento, di incontro, di «pausa» urbanistica.

Questo progetto è espressione dell'essenza stessa del turismo che non è un bene, ma un prodotto di sistema. Esiste e acquisisce valore solo quando si afferma una relazione virtuosa tra tutte le componenti di un territorio: da chi governa le risorse culturali e paesaggistiche, agli attori economici e alla cittadinanza. L'operazione navigli, infine, può essere vissuta come legata a Expo 2015. Non lo è nella realtà, essendo indipendente, ma riflette il clima culturale nel quale l'Expo 2015 dovrebbe svilupparsi. Se c'è un elemento, infatti, che mette assieme il concetto di nutrizione e di energia, questo è proprio l'acqua, che gode già di tutte le attenzioni delle scienze umane e, in particolare, dell'antropologia culturale. I due progetti sono contemporanei e pertanto, nell'immaginario e nelle eredità che l'Expo 2015 può lasciare, quello di una «città dei navigli» sarebbe un segno duraturo di grande attrattività per il turista che viene a Milano, come lo è il Duomo che oggi è visitato da oltre 3 milioni di persone ogni anno.

(Franco Iseppi è presidente del Touring Club Italiano)

postilla

Parola di non-conservazionista a oltranza: il ripristino del sistema d'acqua centrale di Milano (magari presupposto per qualcosa di più ampio a scala metropolitana) è davvero potenzialmente un'operazione post-moderna. Così come nel segno della modernità ottimista e progressista erano state, tutto sommato, le varie iniziative urbanistiche parallele alla tombatura dei Navigli nella prima metà del '900, quando fra city terziaria, sventramenti auto-oriented, architetture in tema, pareva che il tessuto urbano della tradizione fosse da consegnare legato mani e piedi alla pura nostalgia, al folklore di qualche appassionato. A ben vedere anche un paladino della storia dell'arte e del restauro come Gustavo Giovannoni, in alcuni passaggi poco noti e citati, definiva la sua cosiddetta “teoria del diradamento edilizio” come ripiego temporaneo strategico di fronte alla modernità, in attesa di tempi migliori a cui quasi fatalmente ci avrebbero condotto gli sviluppi tecnologici, ad esempio quelli legati alla telefonia o alle scienze dei nuovi materiali da costruzione. Oggi queste idee le conosciamo come sostenibilità, mobilità dolce, smart city e, purché gestite in una logica progressista di politiche urbane integrate, potranno davvero realizzare ciò che promettono: efficienza, bellezza, e magari anche un po' di giustizia, che con le altre due non sempre si accompagna. Ma questo è compito della politica e della società, non certo di qualche antica via d'acqua ripristinata fra tante speranze (f.b.)

Dal noto ambientalista una riflessione alta sul valore politico dell'urbanistica conflittuale e partecipata, che come nel caso di Occupy esprime un'idea-progetto di città e società alternativa. La Repubblica, 14 giugno 2013 (f.b.)

Dal ponte di Galata a Gezi Park ci sono tre chilometri e mezzo. Tre minuti di funicolare per arrivare all'imbocco di Istiklal Caddesi, la strada che sfocia nella piazza Taksim. In basso, verso il Corno d'oro, il brulicare umano di sempre: traffico, cantieri aperti, tram modernissimi accanto a vecchi carretti di ambulanti. In alto, la via commerciale della Istanbul moderna. Tre minuti di funicolare sotterranea che sono stati il simbolo di una distanza tra due mondi completamente separati: da una parte la vita quotidiana assolutamente normale, dall'altra le scene di guerriglia urbana riprese dalle televisioni di tutto il mondo.

La raccomandazione era di non salire con la funicolare fino là, per l'aria resa irrespirabile dai lacrimogeni, per gli scontri in corso. Fa un certo effetto vedere la piazza Taksim “liberata” dai manifestanti e il contiguo Gezi Park, dove ancora tende e striscioni colorati spiccano tra gli alberi. Quegli alberi che sono oggi il simbolo di una rivolta forse più grande di quanto ci si aspettasse. C'è aria di smobilitazione, ma si avverte anche una tensione latente. Al centro della piazza, un uomo anziano con un improbabile impermeabile di nylon giallo sta in piedi immobile e tiene in alto una grande bandiera turca. La scalinata che dalla piazza sale all'entrata del parco è ancora chiusa quasi completamente dalle barricate, c'è uno stretto passaggio attraverso il quale però le persone circolano liberamente, tra striscioni e cartelli dei più diversi schieramenti. Dentro, chi raccoglie i sacchi a pelo, chi smonta l'accampamento, chi discute seduto in cerchio.

La via Istiklal, di solito affollata, riprende lentamente ad animarsi appena poche ore dopo gli scontri tra la polizia, armata di caschi, idranti e lacrimogeni, e migliaia di giovani, arrivati qui da tanti quartieri della Istanbul metropolitana, attrezzati con mascherine antipolvere ed elmetti da cantiere. Si ha l'impressione che il fuoco covi sotto la cenere e che questa giornata di tregua, durante la quale Erdogan si è impegnato a dialogare, non sia che una tappa di un percorso più lungo a venire. Il movimento appena nato per difendere gli alberi di Gezi Park minacciati dalla costruzione di un gigantesco centro commerciale (l'ennesimo a Istanbul) è qualcosa di completamente nuovo in questo contesto. Anche all'occhio di un turista senza particolari convinzioni ambientaliste, l'idea che questa macchia di verde nel pieno centro cittadino scompaia appare del tutto illogica. Non sono soltanto concezioni urbanistiche diverse a confrontarsi aspramente, ma due filosofie di vita, in questa Turchia che cresce a ritmi impressionanti ma fatica a trovare una sintesi tra due mondi culturalmente diversi. Per anni la laicità, imposta anche con la forza dell'esercito, ha sottomesso le istanze religiose della popolazione a maggioranza musulmana; oggi le parti si sono invertite e un governo di ispirazione religiosa sottomette la moderna laicità dei giovani che guardano all'Europa e alla democrazia. Certamente Erdogan gode di una maggioranza elettorale riconosciuta, ma sa anche essere totalmente irrispettoso e arrogante di fronte a questi giovani.

La distanza tra i due mondi si avverte proprio guardando al focolaio di piazza Taksim da una parte e l'umanità immersa nelle quotidiane occupazioni dall'altra, in tutto il resto della città. C'è però un elemento che sembra unire le due anime di Istanbul nel sostegno morale alla protesta per l'abbattimento degli alberi: alle nove di sera - e poi ancora più volte nel corso della serata - le luci delle case a Beyoglu, il vasto quartiere esteso dalle sponde del Bosforo in direzione nord ovest dove tutto questo si svolge, si accendono e si spengono, e dalle finestre aperte delle case la gente batte sulle pentole con gli attrezzi da cucina, facendo salire verso il cielo un costante martellare sonoro, dal timbro metallico, simile al rumore delle cicale che cantano d'estate proprio tra gli alberi che il progetto edilizio del governo vorrebbe abbattere.

A Gezi Park c'era e c'è ancora una piccola postazione di giovani simpatizzanti di Slow Food che durante l'occupazione hanno realizzato un orto. Oggi lo hanno smantellato, preparandosi una via di fuga in vista dello sgombero finale. Defne Koryurek, leader di Slow Food a Istanbul, mi dice: «È stato un gesto quasi spontaneo realizzare una biblioteca e un orto, basati sulla collaborazione e sulla voglia di condivisione. Quest’orto non ha padre né madre, ma è figlio del lavoro di una comunità intera. Per anni, come gruppo, ci siamo opposti ai progetti faraonici di questa città: il terzo ponte sul Bosforo, il nuovo aeroporto nella zona Nord (il più grande del mondo, ndr), e il centro commerciale che dovrebbe prendere il posto di Gezi. Sappiamo sempre cosa dire quando ci opponiamo a qualcosa. Più difficile è portare esempi virtuosi e concreti. L’orto di Gezi rappresentava il nostro modello di sviluppo, ciò che vogliamo fare con la nostra terra. E lo abbiamo curato assieme ai nostri figli, con loro abbiamo piantato semi e piante, perché siano loro a raccoglierne i frutti».

Refika Kortun ha diciotto anni, una generazione in meno di Defne. Racconta di essersi unita ai manifestanti per difendere il parco: «Gezi è occupato dai nostri sogni. L’energia che vivo in questi giorni è splendida, anche se ho paura. Qui abbiamo creato una comunità vera, come mai avevo sperimentato. Una comunità che è nata su Twitter e Facebook e che lì continuerà, anche se dovessero cacciarci da qui». Guardare negli occhi questi giovani, la loro determinazione, la loro passione è guardare a una nuova Turchia, capace di dare valore a cose semplici ma importanti, come gli alberi di un parco.

Ritorna il Progetto Fori: non solo il primato della cultura sul traffico, ma, come insegnava Cederna, un’altra idea di Roma, Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2013 (m.p.g.)
Sembra di essersi svegliati in un altro mondo: da Gianni Alemanno che, in barba a ogni legge, tiene il comizio di chiusura della campagna elettorale al Colosseo (complice la Direzione generale dei Beni culturali del Lazio, che pur di genuflettersi al potere politico ha scavalcato la Soprintendenza Archeologica di Roma), a Ignazio Marino che subito dopo l'elezione annuncia alla Città e al mondo di voler chiudere al traffico i Fori imperiali.

Si tratta di una vecchia, ottima idea. Di più: si tratta di una necessità. Già nel 1979 il sindaco, comunista, e storico dell'arte Giulio Carlo Argan diceva: «O le automobili, o i monumenti», e il grande Antonio Cederna rilanciava, scrivendo sul «Corriere della sera», che era ormai tempo di rimediare allo scempio di Via dei Fori Imperiali, realizzata dal Fascismo per «far vedere il Colosseo da Piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo».
Come Italia Nostra, Legambiente e molte altre associazioni ricordano, oggi quelle ragioni si sono moltiplicate: anche solo i lavori della Metro C, per esempio, impongono di diminuire lo stress subìto dai monumenti, e di ridare visibilità a questi ultimi, allentando la morsa del traffico e aumentando lo spazio per i visitatori.

Tutto bene dunque? Sì, purché l'annuncio clamoroso di Marino sia la parte emersa e mediatica di un progetto di città, e non un gesto fine a se stesso e isolato. Induce a qualche timore l'entusiastica citazione del modello Firenze da parte del neosindaco di Roma. Se chiedete a un fiorentino cosa ha fatto, di concreto, l'amministrazione di Matteo Renzi, questi risponderà – ormai con più di un filo di ironia – che ha pedonalizzato Piazza del Duomo: che è in effetti l'unico vero cambiamento che si può accreditare all'ex rottamatore. Ma a guardar bene non è per nulla un successo: si tratta dell'ennesimo passo verso la musealizzazione e la turisticizzazione di Firenze. Un altro passo verso il disastro di Venezia, insomma. La pedonalizzazione, infatti, è stata fatta dall'oggi al domani, ed è stata concepita non come una misura urbanistica, ma solo come un provvedimento stradale. E il risultato è che la piazza appartiene ancor meno ai cittadini (che non riescono a raggiungerla con mezzi pubblici), e che le attività commerciali sono sempre più da luna park. Così, oggi Piazza del Duomo non è più una piazza, se per piazza si intende uno spazio pubblico animato dalla vita civile.

Ecco, la speranza è che Marino non segua il modello Renzi, ma ne costruisca uno suo: all'altezza del suo ambizioso, e bel programma di governo. Cominciando dalla squadra di governo: laddove Renzi si è circondato di mezze figure che non rischiassero di fargli ombra, si spera che Marino scelga invece delle vere competenze. Potrebbe, per esempio, avere un ruolo importante l'archeologa Rita Paris, appena eletta con Marino in Consiglio Comunale, che ha combattuto con efficacia l'abusivismo sull'Appia, e dirige il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. È molto significativo che la Paris abbia sposato con entusiasmo l'idea di prolungare fino almeno al Colosseo la linea 8 del tram: solo con un servizio pubblico (possibilmente ecocompatibile come il tram) i Fori potranno tornare ad essere parte della città.

Perché è questo il punto vero. Occorre un progetto didattico che restituisca una leggibilità archeologica e storica ai Fori per chi li vede per la prima (e magari unica) volta nella vita, e occorre certo ripulirli dalla umiliante presenza terzomondista dei camion-bar e dei penosi personaggi in costume da gladiatore o centurione. Ma occorre soprattutto reintegrare i Fori nella città, rigettando radicalmente la visione fascista o cinematografica che ce li ha consegnati come retorico sfondo di parate, eventi o spettacoli vari.

È dunque vitale che chiudere i Fori voglia dire, in realtà, aprirli. Aprirli alle gite domenicali dei romani in bicicletta, alle passeggiate delle famiglie, ad un tempo liberato che renda consapevoli i cittadini della storia straordinaria della loro città. E soprattutto che aumenti la qualità della loro vita. L'errore cruciale della cosiddetta 'valorizzazione' dei centri storici delle città d'arte italiane è quello che li vuole infiocchettare e trasformare in tante San Gimignano o Alberobello. Il destinatario elettivo di queste operazione di make up è sempre e solo il turista, nuovo signore delle nostre città. Ai cittadini, invece, tocca vivere in periferie inguardabili a cui nessuno ha il coraggio di por mano. Per non ripetere questo errore Marino deve avere molto coraggio, e deve riprendere in seria considerazione l'idea che l'Italia Nostra di Cederna avanzò negli anni settanta: quella di realizzare una 'spina verde' che trasformi «in vero 'parco archeologico' tutta la zona monumentale che va dall'Appia Antica e attraverso la Via di San Gregorio (già dei Trionfi), Colosseo, Foro Romano e Fori Imperiali arriva praticamente alle soglie di Piazza Venezia». È una scommessa, scriveva Cederna, non sulla salvezza dei Fori, ma sul «riscatto del centro storico di Roma».

Se il chirurgo genovese facesse suo questo progetto, e fosse capace di realizzarlo, lascerebbe davvero il suo nome negli annali della storia romana: altro che Gianni Alemanno, o Matteo Renzi.

Emerge chiarissimo il cumulo di miserie dietro ai "sogni" di Umberto Veronesi per la sua mega-cittadella sanitaria privata. Si spera, con poca convinzione, che il professore finalmente prenda le distanze. Articoli di Simona Ravizza, Andrea Senesi, Alessandra Corica, Alessia Gallione, Corriere della Sera e la Repubblica ed. Milano, 13 giugno 2013 (f.b.)

Corriere della Sera
«Sconto dal Comune o Cerba a rischio»
di Simona Ravizza, Andrea Senesi

A quindici giorni dalla scadenza della convenzione è tutto o quasi da rifare. Del Cerba — la cittadella ospedaliera che deve nascere in fondo a via Ripamonti a due passi dallo Ieo (Istituto europeo di oncologia) — rischiano di rimanere solo i rendering ingialliti dal tempo.
La riunione della commissione Sanità della Regione di ieri è servita a fotografare la distanza che separa gli attori in scena. Da una parte gli avvocati rappresentanti per la curatela fallimentare della Im.Co di Ligresti, che deteneva i terreni del Parco Sud; dall'altra le istituzioni, la Regione e soprattutto il Comune.

Tutto da rifare. L'accordo di programma firmato nel 2009 non è più economicamente sostenibile, dicono i curatori fallimentari. A cominciare da quei 92 milioni di oneri d'urbanizzazione che andrebbero pagati al Comune. «Troppi per trovare un soggetto che si faccia carico di proseguire il progetto», dice l'avvocato Umberto Grella. La cifra andrebbe ridotta più o meno a un terzo. «Sono accordi basati su valutazioni economiche e finanziarie risalenti al 2003, durante il boom del mercato immobiliare e ora non più sostenibili né per un soggetto pubblico né per un soggetto privato», aggiunge il consulente legale per il fallimento della Im.Co.

Secondo Grella gli oneri di urbanizzazione andrebbero quindi rinegoziati e poi dilazionati. Da rivedere anche la questione della manutenzione del parco che secondo l'accordo sarebbe a carico del nuovo proprietario delle aree per 30 anni, la possibilità di realizzare housing sociale (il Comune vorrebbe che le case fossero assegnate solo a medici e infermieri) e la necessità di impiantare in via Ripamonti negozi e supermercati (Palazzo Marino è contrario a nuovi centri commerciali). «Se il Comune ha davvero a cuore il futuro del Cerba dovrebbe sedersi a un tavolo e rinegoziare».

Secca la replica dell'assessore all'Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «Qui non si tratta di fare generici richiami alla collaborazione o alla ragionevolezza, ma di intraprendere azioni per tutelare il concreto interesse pubblico». Secondo il Comune la strada è una e una sola: «I patti vanno rispettati e non è accettabile modificare un progetto scientifico, snaturandolo, con la previsione di housing sociale e, addirittura, di una media struttura di vendita, ossia un centro commerciale». Pessimista anche il consigliere pd Carlo Borghetti: «Al momento non mi sembra che ci siano le condizioni per una modifica del piano integrato che possa vedere d'accordo la curatela fallimentare e il Comune di Milano».

La vicenda dovrebbe avere un epilogo entro il 28 giugno, data di scadenza dell'accordo di programma. Altrimenti? L'ipotesi più immediata è quella del ricorso al Tar da parte dei curatori fallimentari. Ma sul medio periodo è già pronto un piano B. «Potremmo vendere alla Regione le aree per realizzare lì la Città della salute».

la Repubblica
Scontro sul futuro del Cerba
di Alessandra Corica

È SCONTRO tra Comune e banche sul futuro del Cerba. I curatori fallimentari di Ligresti hanno chiesto a Palazzo Marino di ridurre gli oneri sui terreni da 92 a 30 milioni di euro, per far partire la costruzione del polo di ricerca accanto allo Ieo. Netto il no dell’assessore De Cesaris: «Non si tratta di fare richiami alla collaborazione o alla ragionevolezza, ma di rispettare i patti e tutelare l’interesse pubblico». Se entro il 28 giugno banche e Comune non troveranno un accordo, il progetto rischia di naufragare.

Un braccio di ferro. Con una stretta di mano finale molto difficile. Sempre più vicina la rottura tra Palazzo Marino e banche sulla partita del Cerba. Ieri i curatori fallimentari (che rappresentano i creditori di Ligresti, tra cui ci sono i maggiori istituti bancari del Paese) lo hanno detto senza giri di parole: o gli oneri sui terreni si riducono a un terzo, e passano da 92 milioni di euro a 30, oppure l’accordo non si fa. «La cifra andrebbe ridotta — spiega Umberto Grella, consulente legale della curatela — perché si basa su valutazioni fatte nel 2003, prima della crisi. Oggi stipulare una fideiussione del genere, da pagare in un’unica tranche, è impossibile. Se il Comune ha a cuore il progetto dovrebbe negoziare».

Un appello che però non viene accolto in piazza della Scala. Dove l’assessore Ada Lucia De Cesaris puntualizza che «non si tratta di fare richiami alla collaborazione o alla ragionevolezza, ma di rispettare i patti e tutelare l’interesse pubblico. Un obiettivo che dovrebbe stare a cuore proprio ai curatori, visto che tra i creditori c’è anche il Comune ». Il tutto, mentre il tempo stringe. E il 28 giugno, termine in cui scadono i 90 giorni che il Comune con una diffida ha dato ai curatori e alla Fondazione per trovare un accordo, si avvicina: se entro quella data non verranno firmati alcuni atti integrativi all’Accordo di programma, il progetto rischia di naufragare. «Ma se dovesse accadere, ci rivolgeremo al Tar», minacciano le banche.

La partita del Cerba è legata a quella del crac di ImCo e Sinergia, le due immobiliari di Ligresti, fallite l’anno scorso con un buco di 460 milioni di euro, di cui 330 di debiti con le banche, compresa un’ipoteca di 120 milioni sui terreni del Cerba. Che allo stato agricolo valgono 3 milioni di euro: l’edificazione farebbe schizzare la cifra oltre i 200 milioni. Un affare conveniente per gli istituti bancari, che non solo sono tra i creditori di Ligresti, ma sono anche soci della Fondazione Cerba, che patrocina il progetto del polo di ricerca. La cui realizzazione è stata messa in forse dal crac: per cercare di salvare l’operazione, i curatori hanno chiesto al Comune alcune modifiche al progetto iniziale, per avviare comunque la costruzione del polo, che con isuoi 1,3 miliardi di euro di valore rappresenta il cuore del patrimonio di ImCo e Sinergia. Oltre alla riduzione degli oneri, la curatela ha proposto di mantenere allo stato agricolo la zona verde e di realizzare 40mila metri quadri di housing sociale (400 alloggi, che permetterebbero l’entrata nella partita di Cassa depositi e prestiti) e un centro commerciale. Proposte, però, ritenute irricevibili dal Comune, anche per il no dei curatori a trattare su un altro immobile di Ligresti, la cascina Campazzo, di cui Palazzo Marino vorrebbe la cessione.

Per discutere ancora della situazione, il 18 giugno si riunirà la Segreteria tecnica. Tra i nodi, anche la mancanza (a un anno dal crac) del concordato fallimentare, e di un soggetto che stipuli con il Comune gli atti per portare avanti il Cerba. «Ma il concordato — dicono i curatori — sarà presentato entro luglio, da una società che ha già scritto a Comune, Regione e Provincia». Ovvero, Visconti srl, società nata a marzo e capitalizzata proprio dalle banche creditrici di Ligresti. Sul fronte politico, la Provincia (tra i firmatari dell’Accordo di programma) sottolinea «l’importanza per Milano della ricerca. Abbiamo sempre sostenuto il progetto — ricorda il presidente Guido Podestà — Per questo avevamo proposto di realizzare la Città della salute su quei terreni». Per il Pd l’obiettivo non deve essere «risolvere i problemi urbanistici, ma potenziare ricerca e cura. Questi problemi — dicono i consiglieri Carlo Borghetti e Sara Valmaggi — non vanno quindi sottovalutati, ma non devono far perdere di vista il nodo centrale della questione».

L’eredità scomoda del crac Ligresti
di Alessia Gallione


L’impero è crollato sotto una valanga di debiti. Ma l’eredità di Salvatore Ligresti e di quel monòpoli fatto di terreni nel Parco Sud, cascine, cantieri aperti e palazzi realizzati da anni ma ancora problematici, è un’eredità pesante. Macerie lasciate in città dall’ex re del mattone. E molti fronti ancora aperti su cui si continua a combattere. Perché — dai fascicoli che si trascinano da anni a quelli appena inaugurati — per questioni legate alle vecchie proprietà della vecchia galassia legata all’ingegnere di Paternò ci sono una ventina di contenziosi urbanistici con il Comune. E Palazzo Marino, soltanto per oneri di urbanizzazione mai versati o obblighi dimenticati, pretende 10 milioni di euro.

Passano gli anni, ma l’obbiettivo sembra rimanere quello: il Parco Sud. È lì, su quella distesa di verde tutelata ai confini della città, che Ligresti ha sempre sognato di costruire. Aree potenzialmente d’oro, che il Pgt ha blindato. Ed è proprio per conquistare quel tesoro (che non si può spendere) che i curatori fallimentari della Imco hanno impugnato davanti al Tar il Piano per chiederne l’annullamento. Epoche diverse,interessi diversi, visto che in questo caso c’è un buco da 460 milioni da colmare. Ma lo stesso traguardo: passare all’incasso. E questa è soltanto una delle cause ancora aperte legate all’impero dell’ex re del mattone. In tutto, tra oneri mai versati, richieste di danni, piani decaduti, abusi edilizi, sono ancora una ventina i contenziosi sopravvissuti alle macerie. Con Palazzo Marino che, complessiva-mente, aspetta di ricevere almeno 10 milioni di euro.

È una mappa che comprende un po’ tutta Milano, quella disegnata dalle proprietà che Ligresti ha accumulato nei decenni. Un’eredità un tempo suddivisa in due tronconi: il ramo assicurativo con Fondiaria Sai e quello strettamente immobiliare con la cassaforte Sinergia che racchiudeva Imco e decine di altre società. Proprietà e problemi che, oggi, sono suddivisi tra la Unipol e i curatori fallimentari. Partiamo dai beni in mano a questi ultimi che, per recuperare quei 460 milioni, hanno continuato o apertoex novo diversi contenziosi. Perché i guai sopravvissuti al crac non riguardano solo i terreni del Cerba. A due passi dalla futura cittadella della scienza e dal Parco Sud ci sono le aree di Macconago. È per sbloccare quel vecchio piano edilizio (insieme ad altri due progetti) che Ligresti, nel 2009, dichiarò guerra a Palazzo Marino quando governava Letizia Moratti. Tutto rientrò in extremis e la possibilità di far venir su le case di via Macconago sembrò concretizzarsi: l’aula dette il via libera. Eppure, già sull’orlo del baratro, Ligresti non firmò mai la convenzione per il piano che — dopo una diffida delComune — è decaduto nel 2012. Per resuscitare quel quartiere da 60mila metri quadrati, i curatori hanno fatto ricorso.

Nell’elenco c’è di tutto: dalla cascina Campazzo ai presunti abusi edilizi per un centro sportivo. La causa più vecchia va avanti dal 2001. Per un progetto datato 1993 in zona stazione Centrale, piazza Scala pretende 2 milioni di oneri di urbanizzazione. Altri 2 milioni, invece, sono i danni che Palazzo Marino pretende per una vicenda preistorica: vicino a delle case Ligresti si era impegnato a cedere alla città un’area che, poi, vendette a un altro privato. Il carico da novanta, però, èarrivato con il ricorso dei curatori contro il Pgt che svaluterebbe troppe proprietà: dal Forlanini al Parco Sud, è vietato cementificare. Tra i cantieri c’è una torre che sta venendo su vicino a Porta Nuova. Per passare alla parte oggi in mano a Unipol, si arriva a uno dei simboli della città abbandonata: la Torre Galfa.

In questo caso l’atteggiamento verso l’amministrazione sembra essere più conciliante, visto che i proprietari avrebbero chiesto un incontro con Palazzo Marino per sanare vecchi guai. Questa parte dell’eredità è altrettanto strategica perché, tra l’altro, comprende molte delle cosiddette aree d’oro del Parco del Ticinello. Un ramoscello d’ulivo è rappresentato anche dalle case di via dei Missaglia: per anni gli inquilini sono stati in guerra con l’ingegnere perché le sue società non avrebbero adempiuto ai patti sull’equo canone e l’edilizia convenzionata. Oggi si cerca di aprire un tavolo, con il Comune come mediatore.

E il catalogo delle sciagure cucinate dai saccheggiatori “pacificati” non è finito: vedi la sintesi del "pacchetto semplificazioni", tratto da Edilportale, in calce. Qualcuno finalmente si opporrà? Il Fatto Quotidiano, 13 giugno 2013. Con postilla

Se il Ddl semplificazione, ancora in bozza, non verrà cambiato il paesaggio subirà un altro schiaffo. Iniziamo dalla riduzione dei tempi da 90 a 45 giorni per l'autorizzazione paesaggistica. Ecco cosa ne pensa Salvatore Settis, docente alla Normale di Pisa, uno dei più autorevoli e appassionati difensori della tutela del paesaggio e dell'ambiente, e vincitore del prestigioso premio letterario Gambrinus "Giuseppe Mazzotti": “È completamento sbagliato. Già i tempi sono stretti e le sovraintendenze non sono in condizione di lavorare visto il massiccio ridimensionamento del personale dovuto a pensionamenti che non vengono sostituiti”.

In cantiere c'è una procedura semplificata per ottenere l'autorizzazione edilizia e anche un decreto del Presidente della Repubblica sulle autorizzazioni paesaggistiche.Come si può “semplificare” d'ufficio anche nelle aeree soggette a vincolo individuale? Le cosiddette semplificazioni non debbono mai essere fatte a discapito della tutela del paesaggio, proprio come recita il principio sancito dall'art. 9 della Costituzione. Sarebbe un altro modo per mortificare il compito della sovraintendenza che negli ultimi anni ha subito tagli. Prima dal governo Berlusconi, poi da quello Monti. Semplificare non equivale ad andare contro la Costituzione.

Lei ha criticato duramente la proposta di legge di Realacci su “Contenimento dell'uso di suolo e rigenerazione urbana” e lui le ha risposto. Soddisfatto?

No. Realacci può rispondere ciò che vuole: è una legge sbagliata che non è contro il consumo di suolo ma lo incrementa. Ripeto: è un bel titolo, peccato che il testo abbia invece l’aspetto di un patto scellerato fra guardie e ladri di territorio. Alcuni firmatari della proposta Realacci mi hanno confessato di aver firmato sulla fiducia, senza capirne il senso. Mi chiedo: per quanto “larghe” siano le intese su cui si regge il governo, come possono passare inosservate queste norme-inciucio? Sono attentati al paesaggio e all’ambiente nonostante il ministro dell'Ambiente Orlando abbia definito prioritario il rischio idrogeologico, la tutela degli ecosistemi, la riduzione del consumo di territorio, la panificazione delle risorse idriche. La domanda è: nel buio delle “larghe intese”, come lavora questo Parlamento eletto con il Porcellum? Come può essere legittimato non dico a varare, ma anche solo sognare una qualsiasi riforma della Costituzione?”.

Postilla

L’ulteriore provvedimento sulle “semplificazioni” delle autorizzazioni edilizie, cui si fa cenno nell’articolo, (ne riportiamo qui sotto la sintesi da Edilportale) sono tutte volte a ridurre i controlli sulla legittimità e gli effetti delle procedure tecnico-amministrative. Sarebbe bene che i cittadini (almeno quelli che sono stati eletti – diciamo così – eletti per governare sapessero che quelle procedure sono una garanzia dei vari aspetti dell’interesse pubblico coinvolto nelle trasformazioni del territorio. L’esperienza insegna che quelle procedure corrispondono a tempi più o meno lunghi a seconda del modo in cui gli uffici pubblici funzionano: dove i comuni, le province e le regioni funzionano bene la procedura per l’approvazione di un piano urbanistico o di un progetto edilizio conforme alle regole può durare dieci o cento volte meno in un ufficio quailficato e attrezzato bene di quanto ne impiega un’analogo ufficio peggio qualificato e attrezzato. Da un trentennio circa contro gli uffici pubblici è in atto una campagna accanita di parole e fatti tendenti a indebolirne il ruolo, la responsabilità, l’autorevolezza, le capacità operative. Con le “semplificazioni” la campagna giunge alla sua logica conclusione: non “meno stato più mercato, ma “via lo stato, basta il mercato” E poi questi coccodrilli piangono sul consumo di suolo e la distruzione del paesaggio…Mais allez chier, direbbero Oltralpe (e.s.)

Ecco una sintesi del “pacchetto semplificazioni”, tratta da Edilportale

«12/06/2013 - Le ristrutturazioni con demolizione e ricostruzione non dovranno più rispettare il vincolo della sagoma dell’edificio preesistente. È una delle proposte contenute nel pacchetto per le semplificazioni all’esame del Governo. Nel testo spiccano anche l’obbligo di adottare un provvedimento espresso per il rilascio del permesso di costruire per lavori su beni vincolati e la proroga di due anni dei titoli abilitativi.
«Permesso di costruire

«In caso di interventi sui beni vincolati, la normativa attuale prevede che se uno degli atti di assenso dell’autorità preposta alla tutela del vincolo non è favorevole, dopo 30 giorni dalla proposta di provvedimento scatta il silenzio-rifiuto.
 
Il Pacchetto Semplificazioni propone invece che, dopo il rilascio dell’atto di assenso da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, il Comune concluda il procedimento per il rilascio del permesso di costruire con un provvedimento espresso e motivato. Nel caso in cui l’atto di assenso venga negato, scaduto il termine per il rilascio del permesso di costruire, questo si intende respinto. Come si legge nella relazione illustrativa, il cittadino risulta maggiormente tutelato da questa soluzione perché può subito impugnare il silenzio rifiuto.
 
Per quanto riguarda gli immobili vincolati, il testo del Pacchetto Semplificazioni specifica che, in caso di inerzia da parte della Soprintendenza, il Comune può pronunciarsi a prescindere dal parere.
 
Proroga dei titoli abilitativi
Per agevolare la prosecuzione delle attività edilizie, la bozza propone la proroga di due anni per Permesso di costruire, Dia e Scia. Se la misura dovesse passare, i lavori non dovranno più iniziare entro un anno dal rilascio del titolo abilitativo e concludersi entro tre anni dall’avvio dei lavori, ma avranno a disposizione un tempo maggiore. In questa direzione si stanno muovendo già alcune Regioni, come le Marche.»
«Scia e Sportello unico per l’edilizia

«Secondo la normativa attuale, lo Sportello Unico per l’Edilizia (SUE), deve acquisire direttamente o tramite conferenza di servizi gli atti di assenso necessari per il rilascio del permesso di costruire. Il Pacchetto Semplificazioni prevede che l’interessato, anche prima di presentare la Scia o la comunicazione di inizio lavori, possa richiedere al SUE di acquisire gli atti di assenso necessari per l’intervento edilizio. In questo caso i termini sono dimezzati perché se entro 30 giorni gli atti di assenso non vengono rilasciati il SUE indice la conferenza di servizi.»
 

«Attività di edilizia libera

«Il testo della bozza propone di eliminare l’obbligo di allegare alla comunicazione di inizio lavori la relazione asseverata dal tecnico abilitato che dichiara di non avere rapporti di dipendenza né con l’impresa né con il committente.»

La Repubblica, 12 giugno 2013

Lo ha promesso in campagna elettorale. E adesso ha fornito la data: il 15 agosto il nuovo sindaco Ignazio Marino chiuderà via dei Fori Imperiali al traffico privato, moto e motorini compresi. Isola pedonale da via Cavour a piazza del Colosseo. «Un segno di discontinuità con il passato», sottolinea lo stesso Marino. Ma anche il primo passo verso la realizzazione di un grande sogno. Quello che ispirò tutta l’attività dell’ambientalista Antonio Cederna e i progetti di grandi sindaci della capitale come Argan e Petroselli: trasformare la ferita aperta nell’area dei Fori dal fascismo nella suggestiva passeggiata dentro un gigantesco parco archeologico, esteso dal Campidoglio fino all’Appia Antica. «Perché proprio a Ferragosto? Perché non se ne accorgerà nessuno », scherza il sindaco Marino, aggiungendo: «Sicuramente mi direte che sarà questo il mio primo errore. Ma io sono deciso. Il 14 agosto farò l’ultimo giro con la mia Panda rossa su via dei Fori Imperiali, dopodiché ci tornerò con la mia bici rossa. Sono allenato, perché vado dalla mamma in bicicletta e anche lì devo fare una salita per arrivare a casa sua».

Esulta Legambiente Lazio, che per ottenere la pedonalizzazione dei Fori ha messo insieme 6.400 firme. « Raccogliamo subito la sfida e siamo pronti a dare il nostro contributo di idee e proposte», dice il presidente Lorenzo Parlati. E anche sul sito di Repubblica.it, che ieri alle 17 ha lanciato un sondaggio, in poche ore erano già arrivati quasi 5.000 voti, l’89% favorevoli alla pedonalizzazione, per il momento fruibile da romani e turisti solo la domenica e i giorni festivi.
«Tanti auguri - è invece il commento sarcastico del senatore Pdl Vincenzo Piso, con una lunga esperienza nel consiglio comunale di Roma - Ci hanno già provato gli ex sindaci Rutelli e Veltroni, ma non ha funzionato. Via dei Fori Imperiali è un asse viario importante, sarà un vero disastro. Nella fase estiva il provvedimento può essere metabolizzabile, ma il vero test sarà a settembre. Rimarrà soltanto un’idea».
Un piano che permetta la chiusura dei Fori c’è già. Lo ha stilato l’agenzia della mobilità della capitale, che aveva cominciato a lavorarci fin dal 2001, quando il neo eletto sindaco Veltroni decise di sperimentare solo nel periodo estivo il divieto al traffico privato. Marino lo ha fatto suo semplificandolo. Si tratta, in sostanza, di modificare la viabilità nelle strade intorno ai Fori Imperiali, per evitare che sulla via si riversino fiumi di veicoli, fino a 2.135 l’ora secondo Legambiente, l’81 per cento privati. «Allo stato attuale, con i lavori della metro C, è inevitabile la chiusura al traffico - dichiara Rita Paris, archeologa della Soprintendenza di Roma responsabile dell’Appia Antica, capolista della lista civica per Marino e ora eletta - ed è giusto iniziare d’estate, quando è minore l’impatto del traffico sulla città».


Riferimenti
Sul "progetto Fori", che riguarda ben più che una questione di viabilità, vedi i numerosi articoli in questa stessa cartella.

Qualcuno di quelli che gli elettori hanno scelto per governare avrà il coraggio di dire: basta turismo di massa per arricchire chi sfrutta 1000 anni di storia distruggendone il patrimonio? Il manifesto, 11 giugno 2013

Ha fatto il giro del mondo la protesta, par tera e par mar, che ha svelato l'incompatibilità fra i «grattacieli naviganti» e Venezia. No Grandi Navi è all'ordine del giorno non solo nel canal gran- • de, ma anche nell'agenda del governo locale e nazionale. Dopo il «blocco navale» dei transatlantici, le cariche della polizia sui manifestanti e tre giorni di concerti e dibattiti pubblici all'isola della Giudecca, si attende il faccia a faccia tra Comune e governo Letta. Sul tavolo, passato, presente e futuro delle Grandi Navi che ogni settimana fanno l'inchino a San Marco. In programma, soprattutto, il summit di giovedl tra il sindaco Giorgio Orsoni e il ministro dei trasporti Maurizio Lupi. Orsoni chiederà a Lupi di far traslocare i «mostri» del mare dalla Stazione marittima di Venezia a Porto Marghera.

Ma è un punto più che controverso: non tutta la maggioranza di centrosinistra sposa l'ipotesi del sindaco e il consiglio comunale si è già espresso per il trasloco definitivo dalle Grandi Navi dalla laguna. Intanto, si fa il saldo di un week-end di mobilitazione davvero popolare. A partire dalla terraferma: domenica mattina la protesta ha paralizzato il traffico in piazzale Roma producendo una coda chilometrica di bus e auto sul ponte della Libertà. In laguna cinque «mostri» (tra cui i transatlantici Costa Famosa e Msc Fantasia con a bordo Galliani e Allegri con la crociera Milan) sono rimasti agli ormeggi, ancorati alle banchine telescopiche. Ufficialmente, a causa delle folate di vento a 25 nodi che hanno impedito di prendere il largo. Di fatto per il blocco dei manifestanti che ha prodotto un ritardo di tre ore sulla tabella di marcia degli armatori.
E non basta: dalle 16 alle 18.30 una cinquantina di barche serravano l'ingresso al Bacino San Marco, con L500 persone (dai centri sociali, ai No tav, dai No Muos al No Dal Molin, dagli studenti alle famiglie veneziane) confluite tra il Porto e le Zattere. «È stata una bella vittoria» riassumono a caldo i manifestanti, ricordando tuttavia che la guerra contro i «mostri» è tutt'altro che vinta.
Silvio Testa, portavoce del Comitato Grandi navi lancia l'inequivocabile messaggio: «Deve essere chiaro. Se nell'incontro con il ministro Lupi il sindaco porterà avanti solo l'idea di spostare le navi a Marghera, sappia che lo farà senza alcun mandato popolare». Insomma, chi protesta chiede solo di applicare, tecnicamente, la legge vigente: nel dettaglio è il decreto Clini-Passera che ratifica l'incompatibilità con l'ambiente lagunare delle navi che superano le 40 mila tonnellate di stazza.
Poi c'è il ricatto occupazionale con l'indotto delle crociere che rischia di far rotta su Grecia e Turchia. «Ma deve finire. Non si può continuare a barattare l'ambiente e la salute con i posti di lavoro» avvertono al Comitato No Grandi Navi. L'impatto delle Grandi Navi in laguna era stato già fotografato dal manifesto il 28 ottobre 2009, dopo che la centralina Arpav installata a 200 metri dal porto aveva rilevato valori di particolato maggiori di quelli registrati della tangenziale di Mestre. All'Agenzia per l'ambiente avevano ammesso senza difficoltà che il traffico portuale è responsabile della diffusione del 10% del totale delle micropolveri dell'intera provincia. Dieci volte di più dell'aeroporto Marco Polo.

«La sopravvivenza della città, messa costantemente e fondamentalmente in pericolo (secondo l’intuizione di Hannah Arendt), dipende soprattutto da noi. Poiché la città costituisce un progetto rivolto all’avvenire, la nostra responsabilità starà nel sorvegliarne la crescita, senza abbandonarla agli specialisti». La Repubblica, 9 giugno 2013

Se la storia dell’uomo è ormai diventata quella delle sue città, bisogna dire che mai come nel Novecento la filosofia ha trattato di simili temi. Dalle analogie avanzate da Wittgenstein sul rapporto fra linguaggio e metropoli, alle ben più vaste considerazioni di Heidegger sulla differenza fra abitare e costruire, la città ha occupato un posto rilevante nella riflessione contemporanea. Lo dimostra Leggere la città - Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di Franco Riva (Castelvecchi, pagg. 146, euro 16,50). L’opera del grande studioso di ermeneutica, morto pochi anni fa, uscì nel 2008 da Città Aperta, ma ritorna ora con un ampio apparato tematico e una nuova introduzione di Riva, vero libro nel libro, che analizza la contrapposizione tra il decostruzionismo di Lyotard e Derrida da un lato, e la rilettura del costruire in senso narrativo di Ricoeur dall’altro. Ma veniamo ai quattro testi (escludendo l’ultimo, che l’autore stesso chiama una “semplice nota”), sulla base di un commento di Carmelo Schillagi e del gruppo di studio Petra Dura.

Il primo capitolo suggerisce come l’architettura sia per lo spazio ciò che la narrativa è per il tempo. Nella stessa maniera in cui l’architettura agisce sullo spazio per modificarlo, la narrativa interviene sul tempo per organizzarlo. In tal senso, concetti di durata e durezza si rivelano affini. «Se la scrittura conferisce durata alla cosa letteraria, la durezza del materiale assicura durata alla cosa costruita». Tuttavia, benché definibile come “pietra che dura”, l’architettura è solo una conquista provvisoria, sotto gli assalti della natura e dell’uomo. Ma ecco la grande mossa di Ricoeur: egli propone infatti di applicare all’arte del costruire gli stessi parametri cari all’arte del narrare, ossia i concetti di prefigurazione, configurazione e riconfigurazione.

L’esito di tale operazione si rivela tanto complesso quanto suggestivo. Assai più semplice appare invece il secondo testo, un’intervista del 1994. Qui l’autore sostiene che la sopravvivenza della città, messa costantemente e fondamentalmente in pericolo (secondo l’intuizione di Hannah Arendt), dipende soprattutto da noi. Poiché la città costituisce un progetto rivolto all’avvenire, la nostra responsabilità starà nel sorvegliarne la crescita, senza abbandonarla agli specialisti. Infatti, per Ricoeur, l’architettura non può né deve rientrare tra i saperi scientifici. In tale prospettiva, essa assomiglia alla politica, la cui gestione non è delegabile a tecnici. Vediamo perché: «Il politico è predisposto a dei mali caratteristici per il fatto stesso che sembra capace di esistere al di sopra di noi o, al limite, contro di noi. In quanto puro fenomeno di potere può perciò corrompersi, indipendentemente dalla sua base sociale ed economica. Per questo il politico deve rimanere sotto sorveglianza » (quando si dice l’attualità del filosofo…).

Arriviamo così al terzo testo, dedicato ai quattro requisiti di ogni centro urbano da cui derivano altrettante patologie. La prima dipende dalla moltiplicazione delle relazioni e degli scambi. Dato che la città rappresenta un crocevia di persone, il rischio insito in tale struttura risiederà nell’anonimato delle relazioni, come risposta a un mondo sovraccarico di impulsi. La seconda malattia deriva invece dalla mobilità accelerata, ed è legata al pericolo di un disorientamento e di una perdita del centro. Diversa l’aberrazione successiva, che consiste nel ben noto “fenomeno canceroso” della burocrazia. Quanto all’ultimo guasto urbano, esso discende dal predominio della tecnologia, davanti a cui l’abitante potrebbe finire per sentirsi un semplice ingranaggio in un contesto alienato e privo di progetto comune. Sono passati quasi vent’anni dalla stesura di queste pagine, eppure lo sguardo del pensatore protestante non ha perduto nulla del nitore con cui seppe guardare al nesso architettonico fra uomo, spazio e tempo.

Paul Ricoeur Leggere La Città, a cura di Franco Riva, Castelvecchi, pagg. 146 euro 16,50

«E' dalle trincee comunali che può iniziare la ricostruzione di una forma di partecipazione, la voglia di cambiare le cose». Il manifesto, 9 giugno 2013

Il sindaco di Piombino si prende le manganellate della polizia perché sta con gli operai della fabbrica, cuore industriale residuo della sua città. Si schiera con chi ha perso il lavoro o rischia di perderlo perché a volte l'amministratore locale rappresenta chi combatte sulla prima linea del fronte. Il sindaco conosce i problemi, sa che cosa succede e lo vede con la lente d'ingrandimento dei volti, delle storie, delle vertenze, delle proteste organizzate per non soccombere alla crisi. Su questa linea Maginot si svolge una cruciale battaglia - politica, sociale, economica - apparentemente locale, mentre è di rilievo nazionale.
Comuni ed enti locali - piccoli, medi, grandi - sono colpiti direttamente dalla drammatica situazione ma vivono in pieno anche la crisi della politica, testimoniata dallo sciopero del voto. Per questo intreccio cruciale, di conti che non tornano più e di distacco crescente dei cittadini, i ballottaggi di oggi e domani rappresentano una partita importante.
C'è la possibilità di un "cappotto" da parte dei candidati di sinistra e centrosinistra, arrivati ovunque al secondo turno. E c'è la sfida cruciale della capitale, dove è quasi obbligatorio sanare la ferita di aver lasciato scorrazzare per cinque anni le fameliche clientele della destra più nera. Ma c'è, soprattutto, la possibilità di recuperare un rapporto tra la politica e i cittadini, la speranza di colmare la distanza (abissale, a Roma) tra le istituzioni locali e gli elettori. E' dalle trincee comunali che può iniziare la ricostruzione di una forma di partecipazione, la voglia di cambiare le cose. Su ogni aspetto della nostra vita, dai servizi (l'acqua, la casa, la salute), alla vocazione del genius loci (la cultura, la rete, il turismo), si comincia dalla dimensione urbana, metropolitana.
Naturalmente la medaglia ha due facce. Basta ricordare che va al voto amministrativo anche la Sicilia. Certamente un test importante perché qui si svolge il primo turno elettorale dopo l'avvio dell'esperienza del governo regionale di Rosario Crocetta, e perché è acceso il faro sui candidati a 5Stelle, funestati dalle performance di un leader sempre più rabbioso e autolesionista. Ma anche un esempio di cosa sono capaci le cattive amministrazioni: lo scempio del territorio, l'abusivismo, le collusioni mafiose, la piaga del voto di scambio.
Così come mostra le sue crepe la stagione dei sindaci "arancioni", con la questione napoletana che sembra avvitarsi in una crisi pesante, con le difficoltà della giunta milanese a tenere alta la partecipazione della cittadinanza che ne aveva decretato il successo. Senza tralasciare l'interpretazione spesso personalistica del ruolo salvifico del sindaco. E tuttavia è dalla dimensione locale che si può ricominciare a costruire un'alternativa.
Stiamo ideologicamente slittando verso una deriva autoritaria, non sapremo dire se più ridicola o grottesca provenendo da una élite che passa da un emergenza all'altra, da un tecnico bocconiano alle larghe intese berlusconiane, incapace di avviarsi sulla strada di riforme, elettorali e costituzionali, indirizzate alla partecipazione dei cittadini. La perdita di credibilità, il dissesto morale, la rapacità distruttiva della classe dirigente, imprenditoriale e politica, non possono essere curate se non ricostruendo una "prima linea" di amministratori intenzionati a cambiare il paradigma dello sviluppo, con una visione radicalmente diversa su ciò che è bene comune, collettività, democrazia, rappresentanza. Un'alternativa tanto più importante adesso, perché oggettivamente contrapposta all'esplosione della sindrome presidenziale, primo frutto avvelenato delle larghe intese.

Il reportage-denuncia di uno dei più grandi fotografi dei nostri tempi.«Lasciamo stare un momento gli incidenti che sono drammaticamente possibili: già adesso queste navi stanno sgretolando Venezia, anche senza toccarla materialmente». La Repubblica, 8 giugno 2013

IL NEGOZIO era nella strategica Calle Larga di San Marco, «allora chi diceva Berengo Gardin pensava alle perle di vetro... Ora invece c’è un caffè». Tutto cambia a Venezia, non sempre per il meglio, ma questo non è un cambio, «questo è un disastro, una tragedia...». Il veneziano che c’è in lui si è ribellato. L’esito è un reportage duro, severissimo sulle, anzi contro le gigantesche navi da crociera che traversano la Laguna e sfiorano la regina del mare con i loro inchini interessati e «spaventosi».

Le sarà costato qualcosa, Berengo, dare questa immagine della città che
ama...
«Proprio perché amo Venezia, da molti anni non sopporto di vederla stuprata da orde di turisti che vengono a Venezia solo perché “bisogna andare a vedere Venezia” ma in realtà non gliene frega niente. Ma Venezia vive anche di questo, e mi sono sempre trattenuto. Però di fronte a questi mostri non ce l’ho fatta. Qui non è più solo questione di scempio del paesaggio veneziano, di sporcizia, di folla che straripa, qui c’è un pericolo, un pericolo reale. Ci vuol niente che succeda come a Genova, che uno di questi grattacieli orizzontali vada a sbattere su Palazzo Ducale, su San Giorgio, sulla Punta della Dogana. Li ho fotografati così perché si vedesse non solo che sono orrendi, ma che fanno terrore».

Un reportage di denuncia, un gesto politico?
«A Venezia c’è un gruppo di cittadini, mi pare si chiami “No Grandi Navi”, che si batte contro i mostri del mare, ma io mi sono mosso per conto mio. Sì, ho fatto un reportage di denuncia, schierato, i reporter fanno anche questo, è un dovere civile, ma è un lavoro giornalistico. Se poi mi chiederanno queste foto per appoggiare la loro battaglia, sarò lieto di dargliele».

Perché, per una volta, non ha usato la fotografia a colori? Non sarebbe stato più forte l’impatto?
«Al contrario. Il colore distrae. Un cielo azzurro brillante sistema molte cose. Il libro che dedicai a Venezia, nel ’62, era in bianco e nero, ma quella Venezia ora sembra irreale. Il bianco e nero dà quello scarto rispetto alla visione naturale che ti costringe a guardare meglio. Quel muro bianco che sembra un cielo e invece è pieno di oblò, appiccicato alle case veneziane grigie con le loro finestre gotiche: è il pittoresco ribaltato. Volevo che fosse un effetto di shock anche per i veneziani che sanno a memoria la loro città».

Ha usato qualche attrezzo del mestiere per dare più forza al suo sdegno?
«In alcuni casi ho usato un teleobbiettivo, ma molto moderato, un 80 millimetri, in altri un normale 50. Non c’è affatto bisogno di forzare l’immagine, chiunque passeggi per Venezia avrà coi suoi occhi le stesse impressioni di queste immagini».

Eppure i passanti nelle calli e nelle piazze sembrano indifferenti a quella massa di metallo che incombe.
«Ne passano anche quattro al giorno. I veneziani purtroppo ci stanno facendo l’abitudine. Per i turisti invece sta diventando la nuova meraviglia veneziana, li vedi tutti a fotografare le navi sullo sfondo delle calli, con i loro telefonini... Guardano più lo spettacolo delle navi che Venezia, ormai. I mostri hanno preso il sopravvento anche nell’immaginario ».

Ma Venezia è una città di mare. Ha sempre fatto i conti con le barche e con le navi.
«In un libro di inediti ho pubblicato un anno fa la fotografia di una nave mercantile che diversi decenni or sono vidi ormeggiata sulla Riva dei sette Martiri. La fotografai perché mi sembrò enorme, impressionante. Era niente al confronto con queste qui. Non c’è più alcuna misura, capisce? Sono navi smisurate rispetto alle proporzioni della città, non c’è comune misura. Sono alte il doppio di palazzo Ducale, lunghe il doppio di piazza San Marco. Nessun luogo resiste a questa sproporzione, a questa prepotenza visuale».

Perché lo fanno?
«Io posso immaginare che, vista da lassù, Venezia sia uno spettacolo meraviglioso. Ma in questo modo, vista così, Venezia diventa un modellino, una miniatura, un giocattolo. Non c’è più differenza fra questa Venezia vista dal dorso del mostro e le Venezie artificiali che hanno rifatto in America. Sono la stessa cosa, ormai. Anzi quelle resisteranno meglio e fra un po’ saranno più vere. Lasciamo stare un momento gli incidentiche sono drammaticamente possibili: già adesso queste navi stanno sgretolando Venezia, anche senza toccarla materialmente».


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