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Scenari allarmanti per la città: aumenteranno ancora le orde del turismo "mordi e fuggi". I trasportatori: «Priorità ai residenti, consegne impossibili prima delle 9». Un destino denunciato da almeno 30 anni. La Nuova Venezia, 5 settembre 2013, con postilla

Venezia travolta dal turismo. Succede già oggi, ma lo scenario potrebbe diventare drammatico se si avverasse quanto annunciato ieri dai rappresentanti di Unindustria al vertice sul traffico acqueo in municipio. «Entro qualche anno il numero dei turisti raddoppierà», si è detto. Come fare? Di tagli e numero chiuso non si parla, e nemmeno di politiche per non incentivare gli arrivi. Anzi. L’Expo di Milano del 2015 i contatti con la Cina, il continuo espandersi di aeroporto e grandi navi da crociera annuncia entro breve l’invasione finale.

Il sindaco Orsoni ieri ha di nuovo messo sul piatto la sublagunare. Progetto già archiviato per i suoi impatti e i costi insostenibili. Che porterebbe in città altri milioni di turisti aggiuntivi. Ieri intanto si è parlato di trasporti e fasce orarie. E di come arrivare a una migliore gestione del Canal Grande dopo il tragico incidente di agosto.

Trasportarori. Toni distesi, ma sostanza immutata. «Abbiamo definito irricevibile», scandisce il segretario degli artigiani Gianni De Checchi, «la proposta di consegnare le merci all’alba. Possiamo discutere, ma noi chiediamo che la priorità in questa città sia data ai residenti. Dunque al trasporto pubblico, al trasporto delle merci senza penalizzare il traffico privato che incide solo per il 2 per cento del totale». Giovanni Grandesso, rappresentante dei trasportatori, ha ricordato che commercianti e artigiani hanno già opposto un rifiuto alla consegna delle merci prima delle 9 del mattino. «Ci sarebbero difficoltà anche per la consegna al Tronchetto, soprattutto adesso che l’Interscambio non è ancora disponibile».

Turismo. Difficile contemperare le varie esigenze. Soprattutto se non si comincia ad agire sul traffico turistico, migliorando la viabilità in Canal Grande. La scelta è ora tra il ridimensionare taxi e gondole oppure stringere su trasporto pubblico, merci e privati. Pontili. Sembra imminente la revoca dei pontili concessi a Rialto, a cominciare da quello del Magistrato alle Acque, proprio il luogo dove è successo l’incidente, e quelli dell’area più a rischio. Potrebbero esser spostati anche posti acquei delle gondole e dei taxi (Riva del Carbon e del Vin) per rendere più agevole il passaggio.
Imbarcaderi Actv. Una delle proposte che si discutono in queste ore è quella di spostare l’imbarcadero linea 2 di Rialto di là del ponte della Banca d’Italia. Doppio pontile in Riva del Carbon, uno solo vicino a Rialto, solo per gli arrivi. Si eviterebbero così incroci pericolosi. Linea 1 e 2 .Va avanti lo studio sull’unificazione di linea 1 e 2. Mezzi ogni cinque minuti, tutte le fermate. Risparmio per l’azienda, servizio «metropolitano» (ma più lento) per pendolari e residenti. Negli ultimi mesi i vaporetti non arrivano più in orario e si intasano alle fermate principali. Ieri duro botta e risposta tra azienda e sindacati. «Non accettiamo che i lavoratori siano denigrati», dicono in un comunicato congiunto Cgil, Cisl, Uil e Ugl, «bisogna garantire prima di tutto un servizio degno di questa città». Gondole e taxi. Va avanti l’idea di eliminare le carovane dal Canal Grande e di modificare gli itinerari turistici delle gondole. «Non ci fermiamo», dice l’assessore Bergamo. I 26 punti approvati dalla giunta sono ora all’esame degli uffici. Ieri intanto a Roma incontro chiarificatore tra il direttore generale Agostini e il Garante della Privacy: i controlli del sistema Argos forse potranno ripartire a breve.
postilla<Bestiale la cecità e sordità degli amministratori, e dell'intera classe dirigente della stanca e sfibrata erede della Serenissima. E' dagli anni della prima giunta di sinistra Rigo-Pellicani (inizio anni Ottanta) che la Giunta municipale individuò nell'espansione incontrollata del turismo "mordi e fuggi" una delle cause della decadenza del bene costituito dalla città. Quando il craxiano Gianni De Michelis propose di tenere a Venezia .'Expo 2000 la città (eccetto le forze che successivamente issarono il vessillo del MoSE) si sollevarono contro quella proposta ottenendo il consenso del Consiglio d'Europa e del Parlamento italiano: il rischio grave che si paventava era proprio l'accesso indiscriminato di visitatori che la città avrebbe subito (allora uno dei protagonisti della lotta contro l'Expo fu proprio quel Paolo Costa, che oggi è uno dei maggiori facilitatori dell'invasione del turismo "mordi e fuggi"). In quegli anni fu lanciata da Luigi Scano la proposta del "razionamento programmato dell'offerta turistica": un metodo che avrebbe consentito di governare i flussi di visitatori della città privilegiando (e contemporaneamente accrescendo l'impatto economico) di quel turismo interessato a conoscere il grande patrimonio di arte, bellezza, civiltà e cultura costituito dalla città e dalla sua laguna.
Negli anni successivi tutto è stato dimenticato nelle teste (sempre più riempite di paglia) e contraddetto nei fatti. Su propone di combattere le conseguenze del morbo aggravandone le cause. Come se, per chiudere una falla nella diga, ci si proponesse di allargarla a dismisura. Se si dovesse pensare che gli attuali reggitori della città sono savi si dovrebbe concludere che la loro sapienza (il loro potere) è volto al male. La nostra bontà ci induce a credere che siano soltanto (diciamolo con parole molto soffici) del tutto inadeguati alle loro responsabilità.

Non sono necessaria Grandi Opere per danneggiare la crosta del pianeta che abitiamo: bastano i Grandi Eventi (tanto, le Opere seguiranno). Il Fatto quotidiano online, 3 settembre 2013

Piccolo è bello di Ernst Friedrich Schumacher, considerato uno dei testi più influenti dello scorso secolo, e comunque sicuramente uno dei testi cardine dell’ambientalismo, anticipatore, in particolare, dell’economia a livello locale ed anche, massì, della decrescita.

Ovvio che, appunto nell’ottica del piccolo è bello, dovrebbero essere bandite le grandi manifestazioni, per lo meno come sono oggi concepite. Ho pensato questo leggendo il terribile post pubblicato da questo quotidiano in merito al disastro ambientale causato dalle Olimpiadi invernali che si svolgeranno in Russia nel 2014.

Partiamo da un presupposto. Le Olimpiadi, se proprio si vogliono fare, estive o invernali che siano, dovrebbero essere un momento di comunione tra le persone, ma non solo, anche tra le persone e l’ambiente. A costo di essere tacciato per ingenuo, esse dovrebbero essere una occasione per relazionare le persone, e non già per far fare affari ai costruttori. In questa ottica, innanzitutto, chi l’ha detto che olimpiadi si debbano tenere sempre in una località diversa ogni quattro anni? Se si devono semplicemente vedere delle persone correre, saltare, lanciare, nuotare, sciare, queste benedette olimpiadi facciamole svolgere sempre nelle stesse località che le hanno ospitate in passato e che di conseguenza sono attrezzate per ospitarle di nuovo. Questo dice il buon senso.

Ma ammettiamo che si voglia far girare il mondo agli atleti e si vogliano alternare località di diversi continenti. Almeno, in tal caso, in un’ottica di fratellanza tra uomini e madre terra, perché non si coglie l’occasione per non solo non distruggere suolo vergine ma per recuperare terreni da bonificare, aree degradate, e così via? Perché non si coglie l’occasione per fare qualcosa che migliori anziché deteriori l’ambiente?

Lo so, me lo dico da solo, sono un povero ingenuo e la mia sembra quasi una provocazione. Ho vissuto in prima persona l’organizzazione delle olimpiadi invernali di Torino 2006. Allora formulammo come associazioni proprio proposte simili a quelle di cui sopra. Nessuno ci dette ascolto. Allora scendemmo nell’analisi delle singole opere e dicemmo: “Ma i trampolini per il salto con gli sci ci sono già ad Albertville, in Savoia: usate quelli”. No, ne costruirono di nuovi sventrando una montagna a Pragelato ed adesso sono una cattedrale nel deserto. “La pista di bob si può fare amovibile, esiste la tecnologia: finiti i giochi si smonta ed amen”. No, la vollero fare permanente a Cesana Torinese: ora ditemi, chi la usa? Si dice che grazie alle olimpiadi invernali Torino si è rifatta il lifting, che adesso è vivibile, che c’è la movida, che è meta turistica. Questa è una faccia della medaglia. Il pazzesco debito pubblico ammontante a 3 – 3,5 miliardi di euro che ha accumulato è l’altra, ben più triste. Non sono state solo le olimpiadi a causarlo, ma esse hanno fatto la loro bella parte.

Così come Milano si sta indebitando per ospitare l’Expo 2015, e lo dice il segretario della CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi. Qui non c’è neanche la foglia di fico della comunanza tra gli atleti ed il favore ai costruttori appare in tutta la sua platealità. Eppure ben ricordo quando Milano si aggiudicò questa disastrosa manifestazione il giubilo dei nostri politici, Napolitano ovviamente su tutti. Leggiamo cosa disse all’epoca (marzo 2008) evitando di commentare: “Il brillante risultato odierno premia lo sforzo comune e la vincente strategia di cooperazione fra tutte le istituzioni interessate, confermando come l’eccellenza del sistema Italia sia pienamente riconosciuta ed apprezzata a livello internazionale. Al Governo, alla Regione Lombardia, alla Provincia, al Comune di Milano, a tutte le forze politiche e sociali che si sono adoperate con tenacia ed encomiabile dedizione per il conseguimento di questo importante traguardo va il vivo apprezzamento e ringraziamento del capo dello Stato che ha costantemente seguito e sostenuto l’impegno comune. L’Esposizione universale di Milano del 2015 è per l’Italia intera motivo di orgoglio. Tale prestigioso appuntamento impegnerà ancor di più il nostro Paese nella ricerca di soluzioni innovative e condivise per migliorare la qualità della vita dei cittadini e fare fronte alle grandi sfide che attendono il pianeta”.

Ho iniziato il post citando un libro. Lo chiudo con un’altra citazione per chi volesse approfondire le pesanti eredità dei grandi eventi: Davide Carlucci e Giuseppe Caruso, Magna Magna, Ponte alle Grazie Editore.

Una questione per nulla patetica e di guerra fra poveri, nell'uso dello spazio urbano, solleva problemi generali e attuali. La Repubblica Milano, 2 settembre 2013, postilla (f.b.)

Da una parte, i novanta anziani di Quarto Oggiaro che coltivano gli orti in via Lessona. Dall’altra, gli anziani di Novate in attesa che lì sia costruito un ospizio. La contesa per quei 1.800 metri quadrati di terreno si trascina da decenni. Ora Novate, proprietaria dell’area dal 1992, ha mandato ai milanesi lo sfratto: entro il 30 settembre dovranno lasciare gli orti per fare posto al cantiere della casa di riposo. Ma gli “ortisti” non ci stanno.

Alcuni degli anziani che entro fine mese dovranno sloggiare hanno più di 90 anni. A differenza della grande maggioranza degli orti milanesi — che nascono come abusivi, occupati nel primo Dopoguerra da famiglie pugliesi — in via Lessona la presenza agricola è nata in modo regolare. A partire dagli anni Sessanta, e fino al 1992, la grande maggioranza dei coltivatori ha pagato un affitto all’ente del Comune di Milano che ai tempi era proprietario dell’area. In quell’anno Palazzo Marino cedette ai vicini di Novate la proprietà del terreno, nonostante si trovi dal lato milanese dell’autostrada. «Dal 1992 al 2006 il Comune di Novate nemmeno si è preoccupato di registrare al catasto la proprietà del terreno — racconta Lorenzo Croce, presidente dell’associazione ambientalista Aidaa — quando ha deciso di entrarne in possesso, dopo 14 anni dalla cessione, si è messo a fare la guerra agli ortisti, definendoli abusivi. Tutto questo è assurdo esbagliato».

Ora Novate rivuole il suo terreno. Nonostante ancora non siano stati fatti i necessari carotaggi, i tecnici comunali hanno il forte sospetto che il sottosuolo richiederà una pesante bonifica prima dell’apertura del cantiere: sotto gli orti, infatti, si trova una vecchia cava, con ogni probabilità riempita di macerie dopo la seconda guerra mondiale. Scavando le fondamenta, sarà necessario bonificare. E bonifica significa due cose: costi elevati e tempi lunghi. «È evidente che il cantiere per edificare la casa di riposo non partirà a breve — dice Croce — per questo, non ha senso cacciare gli anziani prima del dovuto. Si lascino in pace, e intanto si trovi una soluzione alternativa». Essendo gli anziani ortisti quasi tutti milanesi, il Comune di Milano ha offerto loro appezzamenti alternativi, ma senza dare garanzie sulle dimensioni e soprattutto sulla collocazione, con il rischio che si possano trovare a chilometri di distanza. Gli ortisti, fra cui ci sono diversi vecchi partigiani della val d’Ossola, si dicono pronti a «resistere fino all’ultimo».

postilla
Emergono almeno tre questioni, che si possono riassumere anche se certo non esaurire in tre punti: 1) la destinazione d'uso a orti urbani non può più essere lasciata al caso per caso, ma rientrare in una strategia urbanistico-ambientale-sociale di lungo periodo; non sta né in cielo né in terra che un elemento base costitutivo del quartiere come il verde collettivo, tanto più essenziale quanto più autogestito e non gravante sulle casse comunali, sia alla mercé di decisioni discrezionali e private; 2) non sta neppure né in cielo né in terra che le strategie sullo spazio pubblico di quartiere (o più in generale quelle sullo spazio urbano inteso come rete) si sviluppino al chiuso di segrete e competenti stanze, rovesciando poi sulla cittadinanza le proprie deliberazioni, e aprendosi al massimo ex post al confronto, specie in un ambito così essenziale come le infrastrutture verdi, in cui gli orti si inseriscono: quell'area è coerente o meno rispetto alla logica di rete continua? Infine 3) il “cattivo” della favola altro non è che il Comune di Novate, ovvero non un'entità extraterrestre, ma la circoscrizione amministrativa i cui confini stanno un paio di isolati più a ovest dei quegli orti; probabilmente di cose del genere dovrebbe anche tenerne conto, la nostra politica, nel delineare le competenze della Città Metropolitana, che notoriamente si estende anche oltre le sale consiliari, e arriva ad esempio proprio a lambire gli orti, le case di riposo, e gli anziani che sono costretti a farsi inutilmente guerra (f.b.)

La Nuova Sardegna (e su eddyburg) la solitaria protesta contro i disastri territoriali, paesaggistici e (pardon) morali della Giunta Cappellacci, 31 agosto 2013

Capita di vederla con una frequenza inquietante questa scritta: uno dei tanti indizi della crisi che sta divorando il Paese. Come succede nei momenti di grande difficoltà c'è chi vende per tirare a campare. E c'è chi attende il momento più conveniente per comprare, e fa affari - d'oro appunto- perché da ogni tragedia, e pure nel corso delle guerre, c'è qualcuno che si arricchisce. Me l'immagino chi vende, il rimpianto e la vergogna a disfarsi del bracciale della nonna pensando che sarà fuso e perderà le sue sembianze per diventare un lingotto insieme a tanti altri ricordi di famiglia. Come gli stazzi galluresi, documenti preziosi della civiltà pastorale candidati a diventare inespressive ville con piscina.

La Sardegna è tra le aree più disarmate di fronte a questa dura prova di resistenza (il film “Cattedrali di sabbia” di Paolo Carboni descrive con efficacia lo smarrimento postindustriale).

E si ha l'impressione che c'entri poco la malasorte. Non penso a una regia occulta per gettare l'isola nel baratro della disoccupazione di massa. Ma che qualcuno, appena informato delle teorie del generale von Clausewitz, abbia pensato che disarmata sarebbe stata più facilmente espugnabile, è plausibile.

Ed ecco la sequenza di bandiere bianche per la gioia di chi si aspetta pure gli applausi qualsiasi cosa voglia fare in Sardegna. In fondo nessuno ha quasi mai trovato ostacoli nello sfruttamento dei beni naturali dell'isola, dal legno al corallo; alle spiagge e alle scogliere “naturalmente” destinate a fare da piedistalli di brutte case. E oggi tocca al sole, al vento, al sottosuolo.

Lo stesso programma, portare via senza investire granché, prendere senza restituire praticamente nulla, provocando danni irreversibili al paesaggio e all'ambiente. Gran parte delle coste sono state acquisite da avveduti pionieri negli anni Sessanta (anche a 50 lire a mq, quanto per sentire una canzone nel juke box). Con soddisfazione dei venditori d'oro, e gratitudine per l'imprenditore “innamorato della Sardegna”, ricevuto a Cagliari nel palazzo della Regione. Oggi - non si trascuri il valore simbolico - il presidente Cappellacci va a Doha e a Dubai, il piglio del piazzista, a chiedere a quegli investitori di volgere lo sguardo verso la Sardegna che sarà compiacente. Più la scaccio e più mi torna in mente la scena - “Maestà, gradisca! ”- nel film di Fellini.

Quei mercati sono spietati. I fondi di quegli stati sono gestiti da rapaci finanzieri a caccia di opportunità nel Mondo, prediligono comprare debiti. Ma ai sardi, prigionieri di un format, sono proposti come principi e cavalieri generosi, invaghiti della trasparenza del mare e della prestanza del cannonau; pronti a investire con liberalità nella filiera agroalimentare, nei trasporti o nei cavalli. Così che sembri un dettaglio l'interesse vero: il profitto che solo la speculazione edilizia può garantire nel brevissimo periodo.

Nessuna sorpresa, Cappellacci e Berlusconi lo hanno ripetuto in campagna elettorale: il disprezzo per il piano paesaggistico, il proposito di eliminare le tutele per favorire lo sviluppo (?) così come la destra in Italia lo intende al di la delle dissimulazioni. E poco conta che il ciclo edilizio per alimentare due mesi di turimo non sia la panacea, com'è ampiamente dimostrato. Altrimenti Gianni (intonachino spesso in nero) e Maria (aiuto cuoca 40 giorni all'anno) non sarebbero emigrati in Germania a cercare fortuna.

Colpisce invece che la sinistra, salvo eccezioni rare, mantenga un profilo basso che proviene anzitutto dalla esitazione del PD, diviso su questo e non solo. Una parte di quel partito non ha mai voluto bene al Ppr e ha spesso recriminato sulla ostinazione di Soru colpevole di averlo voluto (curioso che le sue dimissioni da presidente non abbiano mai portato a un chiarimento).

Così si lascia che M5S occupi la scena. Grillo è il solo leader nazionale che ha denunciato il pericolo, già evidente nelle leggi approvate della Regione per consentire le brutture di cui si legge su queste pagine. Ma è solo l'anteprima. I tre o quattro piani casa e la legge sul golf - impugnati dal governo per incostituzionalità [ma intanto “attivi”-ndr]._ non bastano per assicurare l'obiettivo di distribuire salvacondotti per più consistenti trasformazioni di aree di pregio (da Bosa a Alghero, dalla Gallura al Sulcis all'Ogliastra, e a domanda si vedrà). L'approvazione della grande variante del Ppr è annunciata per settembre. Non sappiamo se il disegno riuscirà: se il governo darà l'assenso a conclusione di un processo di copianificazione di cui non si sa quasi nulla, mentre si attende che parli il ministro (interrogato dai parlamentari Luigi Manconi, Michele Piras, Emanuela Corda). C'è - e questo è un segnale incoraggiante- una rete di movimenti che sta contrapponendo il buon senso a dissennati programmi di trasformazioni di territori non solo litoranei. Ne fanno parte molte donne determinate, “dolcemente complicate”, e questa è una garanzia.


Gli effetti perversi e previsti del Piano Casa (nelle suediverse edizioni) sono ormai visibili anche ai più distratti, compresi ifrequentatori stabili della Costa Smeralda. Manufatti improbabili sono sorticome funghi lungo le coste, così come negli insediamenti urbani vi sono statinumerosi abbattimenti di edifici, tanto di quelli degradati quanto di quelli dipregio, sostituiti da costruzioni sovradimensionate. Manufatti prevalentementevuoti perché, checché se ne dica, non c’è popolazione sufficiente che possaoccuparli e le persone che hanno bisogno di una casa, continuano a non vederesoddisfatto il loro bisogno primario perché non si possono permettere diaccendere i mutui per acquistare queste nuove residenze. A quanto pare anchegli sceicchi utilizzeranno lo strumento del Piano Casa per ampliare gli stazzi.E poco importa che ciò venga fatto con gusto (il nostro) oppure no. Di sicuropotranno permettersi architetti che faranno di tutto per assecondare i gusti dichi paga le loro parcelle. La responsabilità è degli architetti o dei nuoviproprietari? Direi di no, ma di chi ci amministra (male) regionalmente direi disì. Il Piano Casa ha risolto qualcuno dei problemi sociali ed economici deisardi, così come avevano promesso i promotori e sostenitori di questostrumento? Neppure uno. Si è creato un po’ di lavoro qua e là, pocoqualificato, a termine e sottopagato. Lavoro scarso e povero a fronte di unaltissimo costo in termini di aggressione al territorio e senza una qualsiasiidea di riqualificazione complessiva. Rispetto al Piano Casa poco hanno potutofare gli amministratori locali, giacché sono stati esautorati dal governoregionale e non hanno potuto impedire – anche se lo avessero voluto – i troppiscempi che si sono perpetrati in questi ultimi anni. I frequentatori abituali diCosta Smeralda (le Marzotta in prima fila) si sono accorti di questi effettiquando davanti alle loro ville immerse nella macchia mediterranea sono sortiedifici sovrastanti le colline che si affacciano sul mare e che impedisconoloro la bella vista di cui hanno goduto finora. Questo fatto ci rende solidalicon detti frequentatori? Neanche un po’, è ciò che è già accaduto ad Alghero,Castelsardo e via dicendo a persone che, magari, hanno investito la loroliquidazione per acquistare una casa al mare, che hanno pagato un sovraprezzoper i piani più alti e che all’improvviso si sono visti defraudare del bene (mail paesaggio non è un bene pubblico?) acquisito a caro prezzo. Ma avremmosolidarizzato anche con i frequentatori della Costa Smeralda se avesseroprotestato contro le politiche del presidente Cappellacci, così come ha fatto(inutilmente e per senso civico) una manciata di persone all’indomani delleprime dichiarazioni. Probabilmente, se avessero protestato anche loro, vista lasensibilità dei nostri governanti verso chi ha denaro e “conta”, a detta dellecronache mondane, forse saremmo riusciti ad evitare alla Sardegna uno strumento“fuori luogo” come il Piano Casa, così tanto voluto dall’allora presidenteBerlusconi e acquisito in tutta fretta dalla nostra Regione, la prima che haadottato il Piano Casa e che, almeno per questo, si colloca ai vertici dellagraduatoria.
Qualcuno dei fautori del Piano Casa ha pensato di fare unavalutazione costi/benefici delle loro decisioni? Ho paura di no. In Italia nonsi usa mai lo strumento della valutazione degli interventi proposti e adottati,né pre e né post. Eppure, sul PianoCasa non sono mancati i pareri degliesperti (dai giuristi ai sociologi ed economisti) e anche degli imprenditoripiù attenti e lungimiranti, e tutti hanno espresso pareri negativi. Inoltre,dar conto degli effetti equivarrebbe a dire che di affari se ne sono fattimolti in termini di speculazione, ma ciò non si è tradotto in ricchezza per lapopolazione e, tanto meno, in occupazione. Chi pagherà i danni prodottiall’ambiente e al territorio dal Piano Casa? Nessuno dei responsabili. Eppure,mi piacerebbe che anche in Italia e in Sardegna qualcuno iniziasse a pagare ilconto, magari bonificando a proprie spese quei territori che ha contribuito adegradare, oppure rendendosi utile ai servizi sociali.

Tra le molte ombre del governo napoletano di De Magistris anche qualche sprazzo di luce: l'Osservatorio sui Beni comuni: un tentativo controcorrente per restituire all'uso comune beni privatizzati. Il Fatto quotidiano, 30 agosto 2013 L'esperienza del governo napoletano di Luigi De Magistris presenta, come è ormai evidente, non poche zone d'ombra. Alcune di queste riguardano proprio la politica culturale: e in modo particolare la gestione infelicissima del luna park noto come Forum delle Culture, un progetto fallimentare ereditato dalla precedente amministrazione, e che il sindaco arancione non ha avuto il coraggio di cestinare. La vicenda ha registrato proprio in queste ore un passaggio grottesco: con l'assessore alla Cultura Nino Daniele (subentrato alla bravissima Antonella Di Nocera, rimossa per eccesso di onestà intellettuale) che affida al fratello del sindaco un importante incarico retribuito collegato al Forum. E quest'ultimo poi costretto a rinunciare.

Accanto alle ombre, tuttavia, ci sono anche luci. Tra queste credo che vada conteggiata l'istituzione di un Osservatorio sui Beni Comuni: lo credo al punto di aver accettato di farne parte insieme ad altri colleghi universitari (giuristi, economisti, storici). Il decreto istitutivo conferisce all'Osservatorio «funzioni di studio, analisi, proposta e controllo sulla tutela e gestione dei beni comuni».

Nelle nostre prime riunioni siamo partiti da una base giuridico-politica per nulla ovvia, e cioè che «laddove beni, anche in proprietà privata, siano abbandonati e perciò non assicurino quella funzione sociale, imposta dalla Costituzione, per cui il diritto di proprietà è riconosciuto e garantito dalla legge, sia possibile ritenere non più sussistente il diritto di proprietà e, dunque, acquisire il bene stesso alla collettività, ritenendolo un bene comune, ossia un bene oggetto di proprietà collettiva». Si tratta di tentare un'applicazione sistematica di quel radicalismo costituzionale che ha condotto a esperienze notissime (come il Valle a Roma, l'Asilo Filangieri a Napoli e molte altre in tutta Italia). Non solo: si tratta anche di alzare il piano di questa applicazione, coinvolgendo un'intera amministrazione comunale e non solo singoli cittadini, inevitabilmente più esposti ad eventuali azioni penali.

Da un punto di vista procedurale, l'Osservatorio sta definendo gli strumenti amministrativi di acquisizione di beni (privati o pubblici), abbandonati e dismessi. Nel merito, si tratta invece di elaborare una mappatura dei beni abbandonati e/o dismessi, e poi di elaborare procedure amministrative di nuova destinazione, di modelli partecipati di assegnazione e gestione, di piani di sostenibilità finanziaria.

Il caso del patrimonio artistico, di cui mi sto occupando, è particolarmente delicato. Non c'è città al mondo che abbia un patrimonio culturale tanto importante e al contempo tanto degradato, e inaccessibile ai cittadini. La cosa è atrocemente paradossale, se si pensa che il patrimonio, a Napoli, è diffuso capillarmente: ogni strada del gigantesco centro storico, anche la più devastata, è in qualche modo monumentale. In particolare, l'enorme «Napoli sacra», la cittadella religiosa fatta di chiese, oratori, confraternite, conventi, monasteri, innerva capillarmente il corpo della città: e ne è, in qualche modo, l'anima. Un'anima che può assolvere ad un cruciale funzione civile: la Napoli sacra offre alla Napoli di oggi un'enorme quantità di spazio pubblico di straordinaria qualità, ubicato in una zona popolarissima e disagiata.

Ma come è possibile rendere di nuovo accessibile ai cittadini (e specie agli ultimi) questo straordinario patrimonio negato? Con un intollerabile ritardo culturale (che, per esempio, rispetto agli Stati Uniti si misura in almeno tre decenni) l'opinione dominante in Italia vuole che la via d'uscita sia affidare in concessione questi luoghi monumentali a società private con scopo di lucro, o nel migliore dei casi ad onlus. La sfiducia nella gestione pubblica del bene comune è così elevata che siamo disposti a credere che società con il legittimo fine dell'interesse privato saprebbero coltivare l'interesse pubblico in modo più efficiente dello stato. Una posizione puramente ideologica, quest'ultima, che non solo rigetta alla base il progetto della Costituzione sul patrimonio culturale (rivolgendosi non a cittadini sovrani, ma a clienti a pagamento), ma non tiene in minimo conto i pessimi risultati della sostanziale privatizzazione della gestione del patrimonio inaugurata dalla Legge Ronchey all'inizio degli anni Novanta.

Un altra strada è, tuttavia, praticabile: e proprio Napoli può essere il laboratorio in cui sperimentarla. L'Osservatorio può individuare alcuni casi di monumenti importanti (da un punto di vista storico, artistico, sociale o altri ancora), in proprietà pubblica o privata, che siano negati e inaccessibili da molto tempo, per la cui riapertura non esistano progetti, o che addirittura siano esposti al rischio di distruzione (e l'elenco sarebbe assai lungo!). Questi monumenti andranno innanzitutto restaurati, lavorando in accordo con le strutture territoriali del Ministero per i Beni culturali, e cercando i fondi necessari (pubblici, europei, o anche di mecenati - ma non di sponsor - privati).Quindi si dovrà elaborare un progetto che tenga insieme la ricerca (e dunque la produzione di conoscenza e cultura) e l'apertura ai cittadini: un progetto che restituisca ognuno di questi monumenti alla città, sia sul piano culturale che su quello sociale. La gestione potrebbe allora essere affidata a cooperative di giovani storici dell'arte e dell'architettura laureati nelle università napoletane, che operino in convenzione sia col vomune sia con i fipartimenti universitari: secondo uno schema socialmente e culturalmente sostenibile, e orientato secondo i principi fondamentali della Costituzione.
Naturalmente, perché questa prospettiva sia credibile, il comune di Napoli deve essere un medico capace di curare prima di tutto se stesso: recuperando e utilizzando gli enormi spazi monumentali che possiede. L'Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga è solo il più clamoroso dei banchi di prova che attendono una gestione comunale che ha ereditato un bilancio completamente dissestato.
Ma non ci sono scorciatoie: se si crede che un altro modo di possedere è davvero possibile, bisogna saperlo dimostrare.

Il Fatto quotidiano, 28 agosto 2013, postilla

Il Prato della Valle a Padova, sul quale un tempo si affacciarono dai loro palazzi il cardinale Bessarione e Palla Strozzi, ne ha viste di tutti colori: sacre rappresentazioni e corse di cavalli, mercati popolari e assassini politici rinascimentali, raduni fascisti intorno a Mussolini e messe oceaniche di Giovanni Paolo II. Bisognava aspettare il 2013 perché questo luogo simbolo del paesaggio e della civiltà urbana veneti corresse il serio rischio di soccombere sotto le ingiurie collegate alla più rapace delle destinazioni: scatolone di cemento per parcheggio sotterraneo, con annessi gli immancabili centro commerciale e albergo. Il consigliere comunale Pd Giuliano Pisani,dopo aver difeso la Cappella degli Scrovegni (minacciata dai progetti dell'ex sindaco e ora ministro Zanonato), guida ora l’insurrezione dei padovani contro la sua stessa maggioranza, affidata al vicesindaco Ivo Rossi.

Gli argomenti del professor Pisani sono solidi: 1) il parcheggio sotterraneo non si può fare perché sotto il Prato si trova il cimitero medioevale dei monaci della prospiciente abbazia di Santa Giustina (un argomento, ahimè, che avrebbe dovuto bloccare anche il mostruoso scempio di Piazza Sant’Ambrogio a Milano, perpetrato con lo stesso fine speculativo); 2) Padova non ha bisogno di altri alberghi: i troppi costruiti negli ultimi anni hanno le camere vuote; 3) il Prato è uno straordinario spazio pubblico per cittadini liberi,è criminale trasformarlo nell'ennesimo supermercato/non-luogo rivolto a clienti anonimi; 4) i posti auto non saranno rivolti ai cittadini, ma saranno venduti, affittati, o comunque saranno a pagamento. Pisani promette una sacrosanta battaglia in consiglio comunale, affiancato da molte associazioni di cittadini (tra cui Amissi del Piovego, Legambiente e Italia Nostra).
Ma ciò che moltissimi padovani si chiedono è: come è possibile che la Soprintendenza per i Beni architettonici del Veneto Orientale abbia approvato la trasformazione di un simile luogo monumentale in un silos di cemento porta-auto? Una maggioranza di sinistra e una soprintendenza che aprono le porte ad una smaccatissima speculazione edilizia: le colate di cemento non coprono solo l'ambiente. Coprono anche troppi tradimenti.

postilla
I disastri delle città e dei territori appaiono e scompaiono all'attenzione dell'opinione pubblica come fiumi carsici. Lo scandalo dell'autosilo al Pra' della Valle emerse in tutta la sua ampiezza nel novembre 2010, grazie a un convegno organizzato a Padova, all'Accademia Galileiana, per iniziativa di un gruppo di associazioni ambientalistiche (vedi qui su eddyburg). Riemerge oggi, e nulla sembra cambiato da allora. Come già allora si argomentò, la vera questione, oltre le degnissime obiezioni dei padovani pensanti a questo stupido incistamento tumorale in un ambito storico-monumentale di pregio assoluto, è l'idea perversa degli autosilo che si sono fatti tanti amministratori. Forse ingannati dagli schizzi irrealistici sfornati dagli studi di progettazione, e che fanno apparire del tutto inserito e digerito dal contesto ciò che non lo è affatto, facendo sparire traffico, inquinamento, rampe di accesso e uscita, modifiche stradali indispensabili. Cose che rendono, in quasi tutti i casi, il modello dell'autosilo indigeribile per i nostri contesti storici, così come è indigeribile anche il suo presupposto, ovvero il diritto naturale all'accessibilità automobilistica se si è residenti, e relative trasformazioni edilizie. Come la cultura urbanistica italiana predica (e quando può pratica) da almeno mezzo secolo

Rinasce, grazie al prezioso lavoro della Cineteca nazionale un altro splendido film: dopo la Roma della lotta al fascismo (Roma città aperta, di Rossellini) è la volta della Napoli del comandante Lauro e della speculazione, Le mani sulla città di Rosi: quasi un documentario di un'Italia che è dura a morire. Il manifesto, 25 agosto 2013

Martedì 27 Agosto, a Venezia, verrà proiettato “Le Mani sulla Città” di Francesco Rosi, nella versione ristrutturata dalla Cineteca Nazionale. Si celebra così il cinquantennio del conferimento del Leone D’Oro al Festival Cinematografico al capolavoro neorealistico del Grande Regista (alla stessa ora RAI Movie ne offrirà visione TV).

Rosi denunciava lo sfascio urbanistico e politico di Napoli, in grande espansione in quegli anni. Non poteva sapere –forse lo intuiva- che la sua opera avrebbe costituito una magistrale, anche se assai inquietante, previsione circa i disastri delle politiche, non solo urbanistiche , che avrebbero segnato tutto il Paese,l’Italia intera, nei cinquantenni successivi. Sfregiandone irrimediabilmente quel volto “illuminato e gentile” colto dai viaggiatori del Gran Tour e che le era valso il soprannome di “Belpaese”.

Rod Steiger, nei panni del costruttore e politico Nottola, che spiega come un terreno agricolo “che vale 500 lire”, se diventa edificabile “ne vale 50.000”, costituisce una significativa interpretazione del ruolo della rendita speculativa nella crescita urbana, più efficace di molte lezioni di analisi urbanistica.,Il film spiega appunto il disfacimento delle politiche urbane rispetto agli interessi della rendita speculativa (la camorra restava sullo sfondo, allora, o come “utilizzatore finale” di piccolo cabotaggio).
Il film venne premiato con il Leone D’Oro nel settembre 1963: un mese dopo si sarebbe registrato il disastro del Vajont, seguito qualche tempo dopo dalla Frana di Agrigento e d’Alluvione di Firenze (1966). Eventi che dimostravano già come la crescita urbana, pure ancora relativa –e circoscritta alle città grandi e medio grandi- avveniva a scapito della sicurezza territoriale e della qualità ecopaesaggistica.

Nonostante i disastri, i tentativi di riforma urbanistica e di “nuovo regime dei suoli”, portata avanti dal democristiano Fiorentino Sullo con l’appoggio della sinistra socialista e del PCI venne bloccata, segnando addirittura la fine politica dell’ex ministro. Le emergenze ambientali della crescita territoriale portarono ad una serie di provvedimenti normativi, parziali, che nell’arco di un decennio, dal 1967 alla fine dei settanta, avviarono un processo pure timidamente riformista; la legge Ponte-Mancini, sulla scissione tra diritto di proprietà e di superficie, del ‘67; i decreti su zoning e standard, nel ‘68; la legge sulla casa e gli espropri, del ‘71; l’onerosità della concessione a costruire e degli oneri di urbanizzazione, del ‘77; l’avvio dei piani di recupero, del ‘78.

Questa intenzione –ed i modesti tentativi di pianificazione progressista che avevano comportato- venivano frustrati all’alba del decennio successivo da una serie di sentenze della Corte Costituzionale che mettevano in discussione vincoli urbanistici e criteri di esproprio. Annunciavano gli anni ottanta, con la crisi di Welfare state, l’avvio di un ventennio abbondante di iperconsumismo e una sorta di controriforma urbanistica, introdotta dalle sentenze citate e continuata con i tentativi di svuotare le capacità prescrittive dei piani con la cosiddetta “programmazione concertata”, in nome di un “Nuovo”, che invitava a “Fare”, in realtà a consumare senza senso e limiti,anche il territorio. E meno male che di lì a poco esplodeva anche in Italia la “questione ambientale”. In realtà, le criticità urbane e le “mani sul territorio nazionale” non si erano mai interrotte; la rendita speculativa, agraria ed edilizia, diventava industriale, poi commerciale e infrastrutturale,infine finanziaria dettata dal marketing urbano globalizzato:la semplice operazione di trasformazione diventava un affare, con i relativi lavori,più o meno grossi;migliore, se la nuova,anche ipotetica destinazione d’uso,trovava dei potenziali investitori. Neutralizzata la pianificazione efficace, razionalmente basata sulla domanda sociale, la città diffusa pervadeva sempre più i vari ambiti del territorio nazionale: una blobbizzazione cementizia industriale, che cancellava il paesaggio, seppelliva i beni culturali, degradava l’ambiente, deterritorializzava.

L’ex Belpaese diventava la Bengodi delle costruzioni e del consumo di suolo: laddove nel mondo, dal 1945 al 2005, si sono quintuplicati i volumi urbanizzati, e in Europa si è registrata una crescita di quasi otto volte, in Italia tale tasso supera i dieci punti, e nelle tre regioni ad alta densità mafiosa (in cui la criminalità organizzata era divenuta uno degli attori dominanti la scena politica) l’incremento è di oltre 13 volte!
Così, mentre si intensificavano i disastri sismici ed idrogeologici di un territorio fortemente indebolito dalla cementificazione, la quota di suolo nazionale consumato è oggi pari ad oltre il 20% dei 301.000 Kmq di superficie (raddoppio dell’ingombro negli ultimi 15 anni) e si producono costruzioni per una domanda inesistente (oltre 25 milioni di stanze vuote), mentre il bisogno sociale di abitazioni permane inevaso. Certo, questo è dovuto anche al fallimento della politica: il film di Rosi rappresentava perfettamente il dissolvimento dell’etica e della razionalità sociale che dovrebbe caratterizzare la gestione della cosa pubblica: il sistema decisionale viene prima circuito, poi incorporato dall’offerta di trasformazione urbana e territoriale, dettata da interessi speculativi. Finchè –a partire dagli anni novanta- una governance “ubriacata di pseudoliberismo” se ne fa strumento dichiarato: oggi, le politiche urbane e territoriali ai diversi livelli sono spesso extraistituzionali, dettate dalle imprese e soprattutto dagli istituti finanziari. Carlo Fermariello, che nel film rappresenta se stesso, è un’icona della buona politica legata alla reale domanda sociale: figura sempre più rara, poi quasi sparita, dalle nostre assemblee elettive.

.Per “aver fornito un contributo fondamentale alla cultura e alla cultura urbanistica nazionale”, Francesco Rosi qualche anno fa è stato insignito della Laurea ad honorem dal Corso di laurea in Urbanistica dell’Università di Reggio Calabria. È emblematico come –a causa dei tagli e delle controriforme Gelmini/Tremonti/Profumo - oggi, perfino quel Corso di laurea sia stato cancellato (i Corsi di laurea di Urbanistica e Pianificazione peraltro si continuano a tenere in diverse altre sedi). Nonostante le accorate declaratorie e denuncie sulla necessità di svolte radicali nelle politiche ambientali nazionali, il sistema politico decisionale restringe anche ricerca e formazione. Per tutto questo –ha ragione Roberto Saviano- il film resta un capolavoro, “una grande rappresentazione non solo di Napoli,ma dell’Italia, anche di oggi”. Anche se oggi forse Rosi girerebbe gli esterni in Val di Susa e gli interni tra Parlamento e Ministeri.

Riferimenti:
A proposito del film di Francesco Rosi e di un'iniziativa in proposito dell'Università di Reggio Calabria vedi anche qui su eddyburg un articolo in proposito e alcune scene del film

L'ermo colle che sovrasta Recanati e che fu sempre caro a Giacomo Leopardi rischia di scomparire sotto il peso di un residence. Siamo nel 2012 quando, sfruttando il piano casa regionale, spunta fuori un progetto chiamato «Piano di recupero di iniziativa privata», che prevede, tra le altre cose, la trasformazione della casa colonica sul colle da manufatto rurale a lotto residenziale: aumento delle volumetrie, metri cubi di cemento armato e locali interrati. Appresa la questione, i funzionari della sovrintendenza dei Beni culturali prima sbiancano e poi fanno presente ai costruttori che, su tutta l'area, esiste un vincolo imposto dal ministero nel 1955. La vendetta della modernità sulla poesia, però, si consuma qualche tempo dopo, in un'aula del Tar: il vincolo è da sciogliere, sull'ermo colle si può costruire, è proprietà privata. A nulla sono servite le parole dei tecnici, secondo i quali «l'incidenza visuale determinata dagli interventi in progetto si configurerebbe come un danno al patrimonio paesaggistico». Dall'altra parte si ribatte che «il colle così com'è non ha senso», che «la zona è abbandonata al degrado» e che la casa colonica è soltanto «un rudere», concludendo che, in ogni caso, i proprietari della zona hanno il diritto di disporre dei propri averi come meglio credono.

La questione va avanti da anni, con l'amministrazione e la famiglia Leopardi che si oppongono a oltranza al progetto della country house al posto della veduta che ispirò quello che forse è il componimento più famoso del poeta di Recanti. Dietro il progetto c'è una proprietaria terriera, Anna Maria Dalla Casapiccola, titolare di una dimora «esclusiva» nel recanatese nata nel '600 per ospitare i pellegrini diretti a Loreto e che ora dispone di tre camere doppie da 130 euro a notte. La signora, segnalano le gazzette locali, qualche tempo fa si esibì anche in un imperdibile «Corso di bon ton» nel quale lei «molto preparata sull'argomento, essendo continuamente in contatto con personalità di alto rango e del jet set internazionale, ha spiegato con modestia, semplicità e competenza le regole del buon vivere affascinando i partecipanti».
Ogni manuale di letteratura parla del rapporto difficile tra Leopardi e i suoi conterranei, ma il poeta, sicuramente, non si aspettava che i posteri avrebbero avuto in serbo per lui un contrappasso tanto doloroso: la ginestra si arrende alle «magnifiche sorti e progressive», il titanismo nulla può davanti alla ben più prosaica giustizia amministrativa e ai voleri di una donna che svende i propri quarti di nobiltà a turisti con le tasche piene e la voglia di immergersi, almeno per qualche ora, nel fascino per nulla discreto di un'aristocrazia affondata dalla Storia: altro che canto notturno, questa è proprio la notte in cui tutte le vacche sono nere. In Regione, d'altra parte, Leopardi torna utile soltanto quando c'è da far recitare qualche suo verso a uno spaesato Dustin Hoffman in un costosissimo spot delle bellezze locali mandato in onda qualche anno fa.
In Sovrintendenza sono disperati: «Non abbiamo i soldi, non abbiamo personale, non siamo in grado di gestire tutti i casi che ci arrivano», e allora la signora Dalla Casapiccola ha giocato sul velluto e, in poche udienze, ha ottenuto il permesso per fare quello che vuole con la casa colonica, che tra le altre cose è a un tiro di schioppo da un altro simbolo leopardiano: la torre del passero solitario. Un problema - quello della mancanza di fondi - che si presenta sempre uguale davanti ad ogni questione che riguarda i beni culturali sparsi lungo la penisola: Pompei cade a pezzi, ogni volta che dal sottosuolo delle città emerge qualche testimonianza del passato si preferisce coprire tutto e continuare i lavori, i pochi precari della cultura che dispongono di un contratto hanno stipendi da fame. Il paese che, secondo diverse statistiche, dispone della maggior parte dei beni artistici e culturali del pianeta Terra preferisce sempre voltarsi dall'altra parte. L'ultima carta da giocare prima dell'arrivo del cemento è un ricorso al Consiglio di stato. La Sovrintendenza sta lavorando a ritmo febbrile per produrre una documentazione convincente da depositare entro i primi di ottobre: bisogna dimostrare che, i progetti presentati dalla signora Dalla Casapiccola snaturerebbero un'area dall'indiscutibile valore storico e culturale, vincolata da sessant'anni. Detta così potrebbe anche sembrare una cosa semplice, ma il giudizio espresso dal Tar è un precedente inquietante. L'Infinito che scopre i suoi confini; un naufragare molto poco dolce, in questo mare di cemento.

Qui "l'infinito" nei suoi confini

«Non dovremmo disperarci nel tentativo di salvare qualche pezzetto di paesaggio brutalizzato, ma dovremmo piuttosto preoccuparci della «rimozione collettiva» tanto dell'estetica, quanto dell'etica dall'orizzonte della nostra modernità che ci ha trasformato in vandali» L'ultimo libro di Francesco Vallerani. Il manifesto, 23 agosto 2013

Frane, smottamenti, alluvioni, perdita di fertilità. Il territorio urbanizzato è passato da 170 metri quadrati di suolo per abitante a 343. Un primato negativo
Cinquant'anni fa, accadevano casualmente dei fatti che rendono il 1963 un anno cruciale per la storia del rapporto tra esseri umani e ambiente nel nostro paese. Il 9 ottobre il monte Toc franava sull'invaso idroelettrico del Vajont provocando la morte di 1910 persone. Giusto un mese prima, Le mani sulla città di Francesco Rosi veniva premiato con il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia.

Nella primavera, la segreteria nazionale della Dc sconfessava e affossava definitivamente la proposta di riforma di nuova legge urbanistica dell'ex ministro Fiorentino Sullo che prevedeva la possibilità di esproprio delle aree edificabili, separando diritto di proprietà dal diritto di edificazione. Sempre quell'anno, per merito della casa editrice Feltrinelli, usciva in italiano Silent Spring di Rachel Carson, il libro capostipite dell'ambientalismo scientifico che raccontava gli effetti persistenti del Ddt sugli ecosistemi. Insomma, eventi apocalittici rivelatori e conflitti politici dirimenti aiutavano l'Italia a uscire dall'ubriacatura collettiva degli anni del miracolo economico postbellico e ci facevano prendere coscienza delle ingiustificabili follie devastatrici di un non-modello di sviluppo «estrattivista» - diremmo oggi - asservito agli interessi della rendita.

Tra speranze di cambiamento (il centro-sinistra) e successivi disastri (la frana di Agrigento e l'alluvione di Firenze e Venezia nel 1966, ad esempio), nulla cambierà fino ai nostri giorni. Anzi, gran parte della finanziarizzazione dell'economia iper-neo-liberista ha come unico «sottostante» il mattone e le grandi opere. Il nostro era e resterà «il paese della metastasi cementizia», dello sprawl urbano, della città diffusa, dell'«espansione per adduzione continua»... tanto da finire per essere governato dal più noto immobiliarista formatosi nella Milano da bere.

Francesco Vallerani (Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento, Unicopli, pp.191, euro 16,00) non lo dice, perché pensa che «i discorsi scientifici» abbiano scarsa efficacia nel convincere le persone a cambiare il mondo, ma in questa sede (per tenere i piedi per terra, non solo in senso materialistico filosofico!) è bene ricordare ancora una volta che dal 1956 al 2010 il territorio urbanizzato in Italia è passato da 170 metri quadrati di suolo per abitante a 343: raddoppiati. Il 6,9% del suolo nazionale consumato contro il 2,3% della media europea (stime dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Un vero primato negativo. I dati del Rapporto di Ambiente Italia sono ancora peggiori: abbiamo lastricato il 7,6% del suolo. In Lombardia il 15%, in Veneto l'11%. Le conseguenze le conosciamo bene: la maggior parte dei comuni è costretta a convivere con frane, inondazioni, smottamenti, erosione, perdita di fertilità e quant'altro.

La domanda che ci si deve porre è allora: come è stato possibile oltrepassare il punto di non ritorno del degrado ambientale in un paese in cui le valenze naturali, storiche, paesaggistiche e culturali non hanno pari al mondo? Com'è possibile che il più miope calcolo utilitaristico, l'egotismo proprietario sia riuscito a prevalere incontrastato su ogni altro motivo di interesse collettivo, non direttamente e immediatamente monetizzabile? E non possiamo dire che siano mancati «profetici allarmi» e le denunce civili di tanti straordinari osservatori e «viaggiatori».

Il capitolo centrale del volume di Vallerani ripercorre le avvincenti scritture di molti autori che costituiscono una sorta di «Accademia dei Sofferenti per il Paesaggio», «quasi un genere letterario» specifico: Guido Piovene, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Lucio Mastronardi, Guido Ceronetti, Giorgio Bassani, Leonardo Borgese, Antonio Cederna, Andrea Zanzotto fino a Paolo Rumiz. Oltre a Calogero Muscarà, Eugenio Turri, Marcello Zunica ed altri geografi di professione, colleghi dell'autore. E poi gli urbanisti come Alberto Magnaghi, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia. Intellettuali di punta come Salvatore Settis. Se non sono bastate le loro pagine a convincere l'opinione pubblica, ad alfabetizzare le classi dirigenti, a formare amministratori dignitosi... quale altra via seguire?

Il lavoro di Francesco Vallerani ci suggerisce di guardare al mondo in un modo diverso - almeno questo è l'effetto straordinario che la lettura del suo libro ha avuto in me. Non dovremmo tanto lamentarci e dolerci per la perdita di bellezza, funzionalità, salubrità dell'ambiente che ci circonda, quanto piuttosto dovremmo preoccuparci dell'impoverimento psichico e culturale che tutto questo provoca nel nostro stesso vivere, dell'ottundimento delle nostre capacità percettive del bello e del buono. Non dovremmo disperarci nel tentativo di salvare qualche pezzetto di paesaggio brutalizzato, ma dovremmo piuttosto preoccuparci della «rimozione collettiva» tanto dell'estetica, quanto dell'etica dall'orizzonte della nostra modernità che ci ha trasformato in vandali. Pretendere che vi siano «paesaggi perfetti, in una società piena di imperfezioni» porta solo le minoranze più avvedute a grandi frustrazioni, ad aumentare la «tristezza infinita di chi non vede vie d'uscita».

Il bravo geografo, allora, deve saperci aiutare a riconoscere e a prendere consapevolezza dei nessi che legano le persone ai luoghi. Non solo la bellezza - questo è il compito del paesaggista. Non solo la funzionalità biotica - questo è mestiere dell'ecologo e del naturalista. Non solo la razionalità - questo è l'urbanista. Serve un approccio «transdisciplinare», olistico, e serve, soprattutto, una sensibilità particolare per le condizioni esistenziali del vivere quotidiano degli uomini e delle donne che popolano i territori martoriati dalle ruspe e dalle betoniere.

Il «geografo umanista» è quello che riesce a creare un dialogo empatico tra la gente dei luoghi e i luoghi della gente. Per riuscirci dovrà sviluppare tecniche di «osservazione partecipata», dovrà inevitabilmente farsi «coinvolgere emotivamente» e, soprattutto, scegliere di essere di parte; quella di quanti vengono espropriati e sradicati dalla violenza delle trasformazioni urbane lineari, incrementali. Vengono in mente le metodologie messe a punto dagli urbanisti della Scuola territorialista per l'elaborazione dei Piani paesaggistici (previsi dalla Convenzione europea) o dei Contratti di fiume attraverso le «mappe di comunità» costruite con la partecipazione attiva degli abitanti. Vallerani, non a caso, fa parte di quella piccola schiera di «consulenti di parte» di quella miriade di «comitati emergenziali» locali, associazioni, movimenti che presidiano e si battono quotidianamente a difesa del territorio: i mille NoTav d'Italia. Per il suo precedente lavoro, Il grigio oltre le siepi, che documentava puntualmente le devastazioni in Veneto, è stato minacciato e costretto a difendersi nei tribunali dagli avvocati del «partito del cemento».

La sfida del geografo è quindi quella di superare l'indifferenza e la rassegnazione che troppo spesso rendono le popolazioni passive. Deve mostrare come «il paesaggio sfregiato produce disagio e angoscia», che i «traumi geografici» (non solo i dissesti idrogeologici e gli eventi calamitosi, ma anche la cancellazione di valenze storiche e paesaggistiche) si traducono in «disagi esistenziali e psicologici», in «inconsapevole disperazione».

Il moderno «labirinto oscuro delle geografie dell'angoscia» in cui siamo costretti a vivere malamente ricompensati dalla promessa di consumi più copiosi (più ore da passare in automobile, più centri commerciali, più cibo spazzatura e merci usa e getta), influenzano la quotidianità del vivere e generano «affettività negative», comportamenti compulsivi, competitivi e aggressivi. Più dolore. E, come in una spirale perversa, il dolore deprime, smarrisce le facoltà cognitive, conduce alla «dissoluzione fisica e affettiva dei rapporti della gente con le dinamiche ecosistemiche».

Se il paesaggio è indubbiamente un bene comune (come lo può essere lo spazio, l'etere e l'atmosfera, ma anche la storia e la memoria collettiva, il genius loci che anima i luoghi), allora è tempo di bandire le timidezze e di iscrivere anche il diritto alla bellezza per tutti, anche per i commoners, nell'agenda di chi, «senza false nostalgie per una arcadica eredità romantica», desidera cambiare per davvero il presente stato di cose. Vallerani ci dimostra che è possibile immaginare «altre geografie», «recuperare il senso di appartenenza ai luoghi», «avviare una ricucitura sentimentale con i territori della quotidianità».

Per curare il declino del comparto immobiliare si usano le stesse ricette che hanno portato al fallimento. Il manifesto, 21 agosto 2013, con postilla

Dall'azzardo berlusconiano al crollo delle quotazioni, e poi una tassa iniqua Si è costruito e si continua a costruire troppo. Aumenta la quota dell'invenduto. È un sogno la casa dell'ineffabile Roberto Carlino che da mesi incombe sugli schermi nazionali per reclamizzare le "sue" abitazioni. Niente di male: ognuno è libero di spendere i soldi guadagnati con i folli livelli delle quotazioni immobiliari come vuole. Soltanto che il nostro eroe esagera spudoratamente. Con inequivocabile accento all'amatriciana per invogliare all'acquisto afferma infatti che «...del resto la risalita del mattone è fenomeno inevitabile e fisiologico».

Scherza, il nostro, inducendo alla confusione tra un suo legittimo auspicio e un principio della fisica. Non è affatto detto che nel prossimo futuro sia inevitabile e fisiologica la crescita delle quotazioni immobiliari. Molti operatori di settore temono anzi un nuovo calo in autunno. Perché si è costruito troppo in questi anni di deregulation e la quota dell'invenduto continua ad aumentare perché nel frattempo si costruisce ancora molto.

Roberto Carlino ha avuto una fugace (per colpa di Renata Polverini) incursione nella politica regionale: è stato presidente della commissione urbanistica, eletto nel vasto arcipelago berlusconiano. Così dal sogno di una casa passiamo all'incubo che perseguita il leader della destra che proprio sul sogno di far arricchire tutti gli italiani con il mattone ha fondato molta parte delle sue fortune. Dal 1994 è iniziata l'offensiva condotta sulla parola d'ordine «padroni a casa propria»: legge dopo legge dalla semplificazione edilizia alla cancellazione del falso in bilancio - che c'entra molto con questa storia come ci insegna il caso Ligresti - i valori immobiliari sono saliti vertiginosamente per quindici anni. Molti italiani hanno continuato a dare a Berlusconi il loro consenso, nonostante il crescente disgusto, proprio perché anche il loro piccolo salvadanaio cresceva.

Dal 2008 quel castello di carte è stato spazzato via dal fallimento del neoliberismo e inizia la fase dell'inarrestabile caduta dei prezzi delle case. Ci sono famiglie che hanno acquistato dieci anni fa una casa che oggi vale dal 20 al 40% in meno di quanto l'hanno pagata. Il decremento non è omogeneo, è molto più accentuato al sud rispetto al nord; nelle aree interne rispetto alle grandi città; ma interessa tutti ad eccezione degli immobili di pregio dei centri storici accaparrati dai vampiri che dominano l'economia di rapina. Il sogno berlusconiano era dunque un azzardo: ha fatto credere in un paradiso per tutti e ha fatto arricchire senza misura solo pochissimi speculatori e immobiliaristi.

Il rischio della perdita del consenso era così evidente che Berlusconi ha giocato d'azzardo, strumento in cui eccelle anche perché l'opposizione parlamentare al suo ultimo governo fu talmente inesistente che il gioco gli è riuscito alla perfezione. All'inizio del 2009, pochi mesi dopo la crisi dei mutui subprime statunitensi, lancia il piano casa. Il mattone continuerà a girare, avrete una stanza in più e diventerete ancora più ricchi. Un flop miserevole, oggi ammesso da tutti. Allora tutti ci credettero, comprese le regioni guidate dal centro sinistra che con la loro dabbenaggine coprirono la finzione berlusconiana.

A volte, poi, il destino è imprevedibile e proprio nel momento in cui era chiaro il fallimento del piano casa ecco un vero amico, Supermario. E' il governo dei professori a togliere le castagne dal fuoco al centro destra imponendo una tassa immobiliare iniqua e contraria al criterio costituzionale della progressività che invece di tassare i grandi patrimoni immobiliari accumulati in venti anni ha colpito indiscriminatamente il ceto medio, spesso proprietario di un'unica abitazione. Il paradosso italiano è che la bandiera di questo grande segmento di società non è stata presa in mano dalla sinistra ma dalla stessa destra che con la sua follia cementizia ha posto le basi per la discesa dei valori immobiliari.

Il Pdl urla di togliere l'Imu. Per tutti, compresi i possessori di ville e di grandi patrimoni immobiliari. Pochi urlano più forte che essa va tolta solo ai piccoli proprietari e aumentata per tutti coloro che detengono la stragrande maggioranza del patrimonio immobiliare italiano. Del resto il governo Letta non ha mai affermato che ci sarà un provvedimento progressivo che rimetta un poco a posto la bilancia dell'equità. Ciò di cui si sente parlare in questo scorcio di agosto è una furbesca evoluzione dell'Imu, camuffata nella tassa sui marciapiedi e di altri servizi urbani.

Così la compagine berlusconiana si avvia a portare a casa qualche prezioso risultato per le lobby che la sostengono. A meno che il Parlamento abbia un sussulto e accenda i riflettori sulla folle politica che ha favorito il cemento negli ultimi venti anni. Non c'è da essere ottimisti. Del resto, e lo affronteremo in un prossimo articolo, nel decreto del "fare" strenuamente difeso dal Pd c'è un'ulteriore spinta alla deroga edilizia. Per curare il declino del comparto immobiliare si usano le stesse ricette che hanno portato al fallimento. Favorendo ancora la rendita e intaccando l'ultimo salvadanaio, la casa, delle famiglie italiane sempre più povere e senza rappresentanza.


Postilla
Ciò che a me stupisce di più è che tutti si affannino a battersi pro o contro il reddito percepito dal possesso di un immobile e nessuno si proponga di sottrarre ai proprietari di immobili il maggior valore che la loro proprietà ottiene grazie alle decisioni e agli investimenti dell'azione pubblica. Da Giovanni Giolitti ed Ernesto Nathan (per non parlare della borghesia post-risorgimentale), fino a Fiorentino Sullo e ad Aldo Natoli, liberali "veri" e sinistre si sono sempre proposti di restituire al pubblico ciò che è del pubblico: il maggior valore degli immobili nel momento del passaggio di proprietà.

ope legis) collaborazione tra Stato e Regione nella formazione e variazione dei piani paesaggistici: a proposito del PPR della Sardegna, dei tentativi deregolatori di Cappellacci e del silenzio di Bray. Il parere di un autorevole testimone della vicenda ancora in corso

Arrivato a gennaio 2008 in Sardegna come direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici, ho subito provato la sensazione di essere stato proiettato in una troppo facile riserva di caccia. All’interno di una bomba a orologeria che la troppa bellezza e il ritmo sfacciato della natura non potevano non aver innescato, di un’armonia continuamente insidiata.

Ho visto giorno dopo giorno materializzarsi sul mio tavolo i più svariati tentativi di violare quell’armonia ed ho presto “scoperto” uno strumento che (da lontano) conoscevo poco: il Piano paesaggistico regionale. Un modello di coerenza fra necessità, comportamenti e idee. Un Piano, familiarmente indicato con il brutto suono di Ppr, in cui le esigenze della tutela delle qualità avevano la priorità, il primo caso in cui le prescrizioni del “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio” erano rispettate a pieno. Un documento unico e compiuto, con tanto di riconoscimenti conquistati su innumerevoli campi di battaglia, fino alla Corte Costituzionale e passando attraverso centinaia di ricorsi vinti ed un referendum abrogativo superato. E non senza medaglie appuntate, come la “menzione” dell’ONU.

Era però attiva anche un’informazione settoriale e fuorviante che, partendo da gruppi portatori di interessi concreti da soddisfare rapidamente, calava su un’opinione pubblica non sempre innocente, spesso impossessandosene. Insieme all’affermazione del Piano, si faceva avanti una gran voglia, anche pubblicamente dichiarata, di smantellarlo. E, contro le norme di tutela, la Giunta regionale ha lanciato in successione quattro siluri sotto forma di Piani Casa, in attesa di concludere il “procedimento di revisione” del Piano paesaggistico, iniziato e condotto in solitudine per oltre tre anni.

Ci si è alla fine arresi al fatto che la sola Regione, senza l’intervento del Mibac, non avrebbe potuto apportare nessuna modifica: e si è individuato un possibile grimaldello per la soluzione finale. Si sono improvvisamente ricordate le disposizioni inserite nel “Codice” nel 2008 (le quali, dopo l’approvazione del Ppr, hanno imposto la perimetrazione di tutti i beni paesaggistici e la definizione delle relative “prescrizioni d’uso”) e si è pensato di giustificare il quasi concluso procedimento di revisione con la necessità di recepire le “nuove” prescrizioni.

Sottoscritto l’accordo, le procedure adottate per “l’adeguamento” fanno malinconicamente pensare che il ruolo del Ministero sia stato ritenuto di mera sussidiarietà e sostanzialmente formale: ed è proprio su questa inaccettabile presunzione che ritengo di potere (anzi di dovere) esprimere il mio pensiero.

In particolare, dopo la tavola rotonda a Cagliari su “dove va il Piano paesaggistico della Sardegna” ed il dibattito che ne è seguito (a partire dalle considerazioni di M.P. Morittu per eddyburg.it), vorrei, utilizzando tre parole-chiave, riflettere invece proprio sul ruolo di primo attore -e non di semplice notaio- che spetta al Mibac nel procedimento di revisione. Un ruolo che non consiste solo nel prendere la parola, farsi ascoltare e co-pianificare, ma anche nella proposta di visioni alternative a quelle seguite dalla Regione fino a questo momento.

La prima parola-chiave è competenza.

Naturalmente non quella della burocrazia amministrativa: mi tocca…non mi tocca…muovo i miei bastoncini dello sciangai senza mai toccare i bastoncini -o le suscettibilità- altrui… Competenza, invece, intesa come specificità e capacità, come saperi esperti e comportamenti conseguenti, quelli che da sempre hanno caratterizzato le professionalità interne al Mibac. Competenze che, numerose, si sono sempre riconosciute nella tutela dei beni paesaggistici, nella loro individuazione e pianificazione, nel loro controllo e gestione. Come d’altronde indica con chiarezza il “Codice dei beni culturali e del Paesaggio” e come impone la Costituzione.

Elaborare congiuntamente alle Regioni i Piani paesaggistici è, per il Ministero, un’occasione unica di incidere nella realtà territoriale e far valere la propria vocazione tecnica e le proprie idee, che sono poi quelle della parte più avvertita del Paese. Puntando, ovunque, sul principio della competenza contro ogni crisi di rappresentatività.

Le comunità aspettano dal Ministero azioni energiche e coerenti, ponendo al centro dell’attenzione la tutela del paesaggio prima ancora dell’urbanistica e, ancor più, di ogni ipotetico atto negoziale. Senza debolezze, senza timidezze, senza assenze.

Naturalmente, non è questione di povertà di mezzi ma di volontà, di atti che devono essere ben concepiti, elaborati e motivati (e che, come tali, non “costano” nulla). Atti o strumenti che possono avere una forza dirompente con il semplice rispetto della legge.

Gli adeguamenti di co-pianificazione di un Piano che già c’è -e già assolve a pieno la sua funzione- sono un atto dovuto che va colto come la “madre di tutte le tutele”. Ma rappresentano anche, per il Ministero, la possibilità di dimostrare la reale e non burocratica competenza delle sue strutture e dei suoi tecnici e funzionari. Per dare un senso concreto alla propria esistenza (è questa la seconda parola-chiave), alla propria funzione civile, alla propria consapevolezza culturale.

In Sardegna si contrappongono due realtà. Una, apparentemente sonnolenta, è l’indifferenza, un albero secco che tuttavia molto contamina e infetta con il virus del disincanto. L’altra, come abbiamo visto molto viva ed agguerrita, esprime invece i molteplici interessi in gioco ed ha il dichiarato intento di annientare i sistemi di tutela, a partire dal Piano paesaggistico vigente. Ed ha fretta, molta fretta.

Le azioni che la Regione Sardegna va compiendo sembrano consequenziali a questa fretta. Esse implicano il recepimento di norme considerate incostituzionali dallo stesso Governo e ancora al vaglio della Corte. Comportano la “dimenticanza” dei vincoli definiti di “terzo genere” (che riguardano la fascia costiera, la necropoli di Tuvixeddu, gli insediamenti rurali sparsi che caratterizzano il territorio della Sardegna: stazzi, furriadroxius, medaus). Dimostrano inoltre una volontà di “spezzettamento” -come l’anomala trattazione delle aree archeologiche e della forma del paesaggio che include i siti archeologici- creando accordi diversi ed asincroni per problemi che sono invece unitari, senza coinvolgere nella revisione le Associazioni Ambientaliste, organismi giudicati “pericolosi”.

Funzionale a questa strategia appare l’adozione della procedura degli “incontri informali” e quella del “blocco” di tutti i PUC con procedure anche terminate. L’obiettivo sembra chiaro: giungere subito all’approvazione del Nuovo Piano, che diventerà -ed è questo il “punto”- immediatamente esecutivo appena portato in Giunta e senza la necessità di approvazione in Consiglio regionale.
Non sembra importare che il PPR comprenda invece la puntuale individuazione di oltre diecimila beni paesaggistici. Anzi, questa meticolosa individuazione è giudicata un elemento di disturbo da chi non tollera vincoli e tutele. Non sembra neppure interessare che, così facendo, si renda impossibile la proposizione di una disciplina paesaggistica unitaria, generale e specifica, dell’intero contesto naturale e storico-paesaggistico, a cominciare dalle fondamentali prescrizioni d’uso, altro strumento che ostacola chi coltiva una visione edificatoria del paesaggio sardo.

Non sembra importare neanche il principio generale che la Sardegna, Regione a statuto speciale, non possa comunque “diminuire la tutela” (come palesemente si tenta di fare) ma solo aumentarla e che tutto questo finirà all’esame della Corte Costituzionale. Importa “chiudere” le procedure in corso, in modo che sia possibile procedere con “i progetti strategici” e con tutta l’azione del costruire.

Sono stato Direttore Regionale in Sardegna, fino agli inizi dell’anno 2010 ed ho, tengo a dirlo con forza, piena fiducia (che è la terza parola-chiave) negli organi del Ministero, sia quelli locali che quelli centrali, e nella loro competenza tenacia e fermezza. Strutture che hanno un ruolo preciso, una loro missione e compito, e che mai potrebbero avallare scelte “paesaggistiche” come quelle che sembrano invece prendere corpo. E’ sul tappeto, oltre tutto, la fiducia nel Ministero come tale, in giorni in cui persino un ex Ministro della Cultura rilascia pubbliche dichiarazioni di possibile “soppressione” proprio di quella struttura e del conseguente suo spacchettamento.

Ecco: tre parole chiave, competenza, esistenza, fiducia. Tutte riferite a un Ministero che ha certo bisogno di cure ma che, già oggi, molto può fare per il bene della collettività. Molto può fare contro la soluzione finale che, rendendo innocuo il Ppr, lascerebbe la Sardegna sola e indifesa.

Alla vigilia dei probabili accordi fra Comune e Difesa, una riflessione alta sul ruolo di un patrimonio pubblico, che a uso pubblico dovrebbe sostanzialmente servire, in tutte le città. La Repubblica Milano, 19 agosto 2013 (f.b.)

Le caserme abbandonate non sono come le aree industriali dismesse. Sono spazi pubblici destinati alla servitù militare che ora tornano nella disponibilità dei cittadini. Non è una differenza da poco. Prima di tutto perché il loro futuro può essere deciso con una libertà molto maggiore, non essendoci in gioco interessi privati e quindi, giocoforza, la necessità di mediarli con l’interesse pubblico. In secondo luogo perché, a differenza che per le vecchie fabbriche, le vecchie caserme sono un territorio vergine, tutto da esplorare per la comunità civica. Chi ha avuto la fortuna di partecipare, nell’inverno 2011, all’anteprima di Piano city alla caserma di via Mascheroni sa a cosa si allude: un momento magico, una piccola città nella città dove il tempo si è fermato, spazi immensi e carichi di suggestione, infiniti sotterranei con gli archivi di generazioni di reclute.

Un ambiente nascosto alla città per decenni che ritrova una vita nuova attraverso la musica, che per una sera diventa padrona di un campo una volta occupato da ordini, divise, armi, sofferenze. Leggendo i nomi sconosciuti di questi luoghi risalta ancora di più questa distanza: Milano ha tollerato la presenza di infrastrutture militari sul suo territorio ma, a differenza di altre città — si pensi a Torino o a La Spezia — non ne è mai rimasta condizionata o prigioniera. Sara stato per via delle cannonate di Bava Beccaris al popolo affamato, o semplicemente perché questa è la città del 25 aprile partigiano.

Ma non c’è dubbio che Milano non sia mai stata prona alle divise o incline alla retorica militare. Anche per questo l’occasione di ripensare questi luoghi, di immaginarne altri usi e destinazioni è straordinariamente importante. Per la giunta Pisapia può rappresentare una grande scommessa anche nella modalità di approccio alla loro ridestinazione. Quale occasione migliore di sperimentare la via di una progettazione condivisa e partecipata? Per esempio immaginando una raccolta pubblica di idee e proposte per la grande area verde della Piazza d’armi ex Santa Barbara. O recuperando progetti di grande impatto, come l’idea dell’orto planetario lanciata, e poi abbandonata per Expo 2015, magari coinvolgendo il forum delle culture e delle comunità straniere.

E ancora: visto che il complesso militare delle vie Monti, Mascheroni e Pagano dovrebbe diventare la nuova sede dell’Accademia di Brera, perché non testare la possibilità di destinare parte di quegli enormi spazi a un villaggio per giovani artisti? A una specie di grande atelier che richiami talenti e intelligenze creative da tutto il mondo? O destinare una di queste strutture, naturalmente trasformata, a quel grande museo del «saper fare» l’automobile di cui Milano è stata capitale con l’Alfa, la Bianchi, l’Innocenti, l’Iso Rivolta, le carrozzerie Touring, Zagato, Castagna?

La possibilità di programmare un nuovo destino per edifici, complessi e spazi di centinaia di migliaia di metri quadri in aree centrali di Milano, senza vincoli dettati da interessi immobiliari (o principalmente dettati da questi) rappresenta un’opportunità probabilmente unica. Certo, è giusto immaginare che parte di queste risorse sia destinata all’edilizia popolare. Ma sarebbe un grave errore limitarsi a questo e non cogliere la grande occasione di indicare insieme ai cittadini un percorso verso una città più creativa, più aperta, più libera. Più desiderabile.

L'Unità, 18 agosto 2013 , con postilla.

Petrolio, petrolio!, un sol grido risuola dall'Alpi al Lilibeo, rimbalza da un grande giornale alla rete ammiraglia del servizio pubblico televisivo. Hanno scoperto nuovi e impensati giacimenti petroliferi in Italia? Macché. «Petrolio» sono, o sarebbero, i nostri beni culturali e paesaggistici, i 4mila musei, le 95mila chiese e cappelle, i 40mila castelli, le 2mila aree archeologiche e via sgasando idrocarburi.

La Rai dovrebbe esporre periodicamente il cartello: «È severamente vietato definire i beni culturali il “nostro petrolio”. Pena la reclusione di alcuni giorni in fortezza». E invece, venerdì, dalla mattina alla sera, con l’assenso di alcuni importanti testimonial, abbiamo visto campeggiare in una nuova trasmissione sulle risorse del nostro Paese la fulminante scritta: «I beni culturali petrolio del Belpaese».

Ora mi domando: come si fa a usare – in una trasmissione nuova di zecca – una espressione tanto equivoca, stantia e offensiva? Il petrolio puzza, inquina, sporca, corrode i nostri marmi, non è rinnovabile... Cose che abbiamo detto e ridetto milioni di volte da quando, decenni fa, un ministro dei Beni culturali, il non memorabile Mario Pedini, dc, emerso poi dalle liste P2, propose quella sciagurata equazione Beni culturali=Petrolio italiano.

Due volte sciagurata perché, oltre ad accostare semanticamente monumenti, palazzi, chiese, centri storici, paesaggi a un “nemico” dei più insidiosi, suggerisce che quei beni fragili e preziosi “devono” per forza rendere dei bei soldi. Come succede, a loro dire, in tutto il mondo tranne che in Italia dove siamo notoriamente dei poveri cretini.

Balle. Sonore balle. I musei - a cominciare dal colossale e pomposo Grand Louvre - non danno profitti (a Londra i dieci maggiori musei sono rigorosamente gratuiti). I danè, i schèi, le palanche, li sordi li può dare un turismo rispettoso e ben organizzato, cioè l’indotto di quel patrimonio sterminato che dovremmo tutelare, curare, manutenere, proteggere.

Anche dalla scemenza. Ho sentito alla radio lamentare che i quadri del sublime Lorenzo Lotto sono «troppo sparsi per le Marche». A parte il fatto che basta andare nella magnifica Loreto e nella non meno bella Jesi per ammirarne già un bel po’, cosa dovremmo fare? Un solo museo di Lorenzo Lotto? La nostra forza sta nella straordinaria, diffusa rete di musei (e non solo) unica al mondo. Attrezziamoci su entrambi i versanti, ma senza mai confondere i beni primari, unici e irriproducibili, con l’indotto economico che essi possono produrre. Non confondiamo la nostra identità nazionale, regionale, locale con lo sfruttamento di un giacimento petrolifero o con quella managerialità improvvisata che propone di accorpare i “troppi” musei italiani.

Turismo rispettoso? Ma non vedete che non si riesce a liberare davvero Venezia dall’incubo delle maxi-navi che portano masse di turisti da un panino, una birra e via? Non vedete che Roma è stata ridotta a una sorta di indistinta e ininterrotta “mangiatoia” dove si ammanniscono quei «surgelati precotti» che camion e furgoni portano a ogni ora (sindaco Marino, se vuol dare una immagine internazionale nuova alla sua città, pensi anche a questo e in fretta)?

A Firenze poi la micragnosità dei passati governi ha indotto anche i responsabili di grandi palazzi, giardini e musei a fissare un tariffario: 20mila per una cena di manager nel Dugento, 30 o 40 mila per un matrimonio esotico a Pitti, e via banchettando o ballando (sì, c’è stato anche un ballo non meno esotico). Non vi pare che siamo ormai ad una sorta di accattonaggio di Stato?

Negli ultimi anni ci sono tele e tavole del ’400, quindi delicatissime, come la Città Ideale di Urbino e la non meno urbinate Madonna di Senigallia di Piero della Francesca che hanno girato per mostre d’arte varia. In Giappone è andato, con altri fragili Raffaello (una trentina), il misterioso ritratto di dama, detta la Muta, perché non c’erano i soldi, 30mila euro, mi pare, per restaurarlo. Eppure una commissione di esperti creata da Francesco Rutelli, quand’era titolare al Collegio Romano, aveva stilato un codice rigoroso per viaggi e prestiti. Tutto dimenticato, ridicolizzato dai nostri petrolieri dell’arte. Un museo di provincia fa pochi ingressi? Chiudiamolo, o accorpiamolo. Pompei non ce la fa a governare problemi complessi aggravati dal turismo di massa e dalla camorra? Diamola ai privati. Magari ai petrolieri medesimi.

Il ministro Bray ha nominato una commissione assai larga di esperti per riformare il suo ministero che al corpaccione (o al testone) già esistente ora ha unito pure il Turismo. Prevarranno i Beni culturali come valore in sé, prevarranno la tutela, la didattica, lo studio, la ricerca, oppure la spettacolarizzazione, l’affitto a questo e a quello, la gestione privatistica? Un’ultima notazione: ma dei piani paesaggistici destinati a salvaguardare quanto resta e a frenare cemento e consumo di suoli liberi, a tenere insieme tutto il patrimonio descritto come in un millenario palinsesto che notizie ci sono? Tutto tace, o quasi. Di quelli non frega niente a nessuno, su giornali e tv.

postilla
Una precisazione sul filo della memoria, per dare il merito (e il demerito) a chi ne ha diritto. Non ho sottomano le annate di Urbanistica informazioni e non posso quindi trovare la referenza precisa, ma ricordo bene che l'invenzione del concetto cui si riferisce criticamente Vittorio Emiliani deve essere attribuita a un altro ministro, non democristiano piduista ma socialista craxiano, Gianni de Michelis. Fu l'abile e intelligente colonnello craxiano che, da ministro del settore, coniò l'espressione "giacimenti culturali". Su Urbanistica informazioni, che in quegli anni dirigevo, commentai quell'espressione, e la politica che le era sottesa, sostenendo che, proponendola, si prefigurava per i beni culturali lo stesso destino dei minerali estratti dalle miniere: essere, appunto, estratti, trasformati (da beni in merci), venduti, consumati, dissolti. Certo, a differenza di altri minerali il petrolio ha una ulteriore caratteristica negativa: inquina.

La Nuova Sardegna, 17 agosto 2013
Sarebbe bello se la strada Alghero-Bosa conquistasse il riconoscimento Unesco. Una strada di altri tempi, adagiata naturalmente in quella morfologia complessa, senza le forzature per accorciare le distanze consentite dai mezzi che oggi bucano le montagne. E' uno spettacolo fantastico quello che offre, con i colpi di scena che si susseguono andata e ritorno. Naturalmente diverso in ogni stagione, ma d'estate è davvero difficile immaginare quanto è Sturm und Drang d'inverno. Lo sguardo senza ostacoli da una parte e l'incombenza dei rilievi dall'altra (l' autoradio che a tratti riceve solo emittenti spagnole ti ricorda la posizione). Non sono molte le strade che si dispiegano per decine di chilometri senza deluderti o annoiarti (va bene anche in auto per chi non ce la fa a piedi o in bicicletta).

Ma soprattutto non ti aspetti – com'è raramente – l'assenza di tappe edificate per cui questo luogo sembra indivisibile e irriducibile. Un' amica molto devota prova a convincermi che quel profilo impervio è una scelta del Creatore in un impeto di precauzione: la difficoltà di accesso – e i costi di urbanizzazione nolto elevati – ne hanno impedito la razzia, toccata a luoghi espugnabili a più basso costo. La Provvidenza contro la speculazione.

Eppure ecco il programma di Condotte Immobiliare di rompere l'incantesimo. L'impresa romana che detiene una grande proprietà nel percorso, vuole fare un campo da golf con annessi 70mila mc proprio lì a Tentizzos nel Comune di Bosa. Una frattura in questo punto (un sacrilegio – secondo la mia amica) avrebbe un effetto travolgente, perché tutto si tiene in un ecosistema così delicato, habitat ideale per i grifoni che rischiano a ogni volo una overdose di biodiversità nella quale stanno felici.

Il benemerito piano paesaggistico regionale vieta la trasformazione di questo luogo interno alla fascia costiera tutelata. Il sindaco di Bosa sarebbe orgoglioso dell'attenzione Unesco, ma è fatalmente attratto dal progetto di Condotte. E quindi azzarda la solita capriola: sì a Tentizzos patrimonio del Mondo – spot ambito – ma no alle tutele del Ppr che la Regione di oggi rinnega. Attenzione: la Val d'Orcia ha rischiato di essere esclusa dall'elenco Unesco per poche case a schiera nei pressi di Montalcino.

A Cappellacci dell'Unesco non gli importa niente, e lavora alacremente per derogare a domanda il Ppr: immaginando il salvacondotto discrezionale (come il guidaticum medievale ?) in Planargia e in Gallura, e per conseguenza ovunque: a chi saprà bussare forte sarà aperto. Un piano riconfezionato a domanda. Un disegno palesemente illogico anticipato da atti traballanti che si puntellano a vicenda e già impugnati dal governo per sospetta incostituzionalità. Nel quale la gerarchia degli interessi è capovolta a vantaggio di quello edilizio, ovviamente subordinato nel Codice dei beni culturali a quello paesaggistico.

Il programma del governo regionale si dovrebbe concludere in autunno. Solo se lo Stato, che rappresenta un interesse non solo locale per la conservazione del paesaggio sardo, deciderà di farsi coinvolgere nel vortice di contraddizioni.

Conterà molto nei prossimi mesi la risposta che sapremo dare. Il gruppo di cittadini, organizzato nel web (SalviamoTentizzosPerBosa) ma con i piedi in terra, dimostra in modo clamoroso quanta attenzione si possa suscitare su questi temi. Questa mobilitazione, al di fuori di processi partecipativi sollecitati e assistiti, sta contribuendo a spiegare l'inutilità del ciclo edilizio nelle coste che da decenni sottrae bellezza all'isola senza restituire quasi nulla. Dalla difesa di Tentizzos alla difesa delle regole senza eccezioni: è la risposta che la Sardegna darà se potrà contare su una informazione senza reticenze e se la politica farà la sua parte senza ambiguità.

Un corridoio autostradale lungo 400 km, con centinaia di cavalcavia e gallerie. Si tratta della più grande opera dopo il Ponte sullo Stretto. Aggirando il patto di stabilità grazie ai privati. La puntuale denuncia da parte di una rete di comitati e associazioni avvalendosi di saperi interdisciplinari. Il manifesto, 17 agosto 2013
La cupola delle grandi opere da realizzare in project financing ha da tempo programmato di sventrare l'Italia da Orte a Venezia con un nuovo corridoio autostradale lungo 396 chilometri, 139 dei quali in viadotti e ponti, 64 in galleria, con 246 tra cavalcavia e sottovie, 83 svincoli, aree di servizio ecc. ecc. Movimentazione di terra per 34 milioni di metri cubi prelevati fin dalla Puglia e - già che ci siamo - dal canale industriale del porto di Ravenna che ha bisogno di dragaggi. Lazio, Toscana, Umbria, Emilia, Veneto attraversate.

Aggrediti ventidue siti di interesse ambientale riconosciti dall'Europa comprese le valli di Comacchio, il parco del Delta del Po, la laguna sud di Venezia, la Riviera del Brenta, le valli del Mezzano e le Foreste Casentinesi negli Appennini Centrali. Anche se ancora poco conosciuta, si tratta della più grande grande opera, dopo il ponte sullo Stretto di Messina, compresa nell'elenco delle 390 «infrastrutture strategiche» dichiarate di «interesse pubblico» e inserite nella Legge Obiettivo in attesa di essere finanziata dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Peccato che la nuova autostrada non avrà mai i veicoli/giorno in transito minimi necessari (90 mila contro i soli 18 mila attualmente rilevati, ad esempio, nel tratto veneto) per ammortare i costi di realizzazione e sostenere le spese di gestione dell'opera. Ciò nonostante il progetto preliminare è stato approvato dall'Anas con tanto di attestato di Valutazione di Impatto Ambientale rilasciato dalla Commissione nazionale, che oramai non lo nega a nessuno, neppure a chi chiede di fare un parcheggio nel Colosseo.

Qualche dubbio sembra averlo avuto nel passato governo solo l'ex ministro Barca. Per esplicita ammissione dei proponenti, infatti, il piano economico e finanziario del progetto (ancora riservato) non sta in piedi. Per la precisione, non sarebbe "bancabile". Per esserlo lo Stato italiano dovrebbe impegnarsi a: 1) versare direttamente un generoso contributo a fondo perduto di 1,4 miliardi di euro; 2) detassare le imprese costruttrici rinunciando ad altri 1,5 miliardi di entrate; 3) autorizzare l'emissione di project bond sul mercato finanziario da parte delle imprese, garantiti però dalla Cassa Depositi e Prestiti (con i soldi dei correntisti postali) e assicurati dalla Sace; 4) affidare l'opera in gestione con un contratto che garantisca un minimo di proventi tariffari e, soprattutto, le autorità statali concessionarie dovrebbe fingere di credere che l'opera venga a costare davvero "solo" 10 miliardi di euro.

Insomma, come è stato detto a un recente convegno organizzato a Ravenna dalla rete ambientalista Stop Orte-Mestre (www.stoporme.org), la nuova autostrada è un mostro che dorme sornione, pronto a mettersi in moto al segnale del nuovo, arrembante ministro Maurizio Lupi.

Chi invece non dorme affatto sono i cittadini dei 48 comuni che saranno investiti dai cantieri. Sono questi i veri instancabili presidi democratici a difesa del territorio e dei denari pubblici che da più di dieci anni si battono a mani nude per denunciare la follia di questa grande opera inutile e devastante. Decine di comitati locali sorti un po' per volta, con un passaparola iniziato dal comitato Opzione Zero della Riviera del Brenta. Comune per comune lungo il tracciato, hanno prima conquistato l'appoggio delle grandi associazioni quali Legambiente, Wwf, Lipu, Mountain Wilderness e Pro Natura, poi hanno dato vita ad un coordinamento e alla rete Stop Or Me con la campagna Salviamo il Paesaggio e i gruppi politici che ci sono stati: Movimento 5 Stelle e Alba.

I comitati avrebbero potuto limitarsi a denunciare l'insostenibilità di alcuni impatti quali l'attraversamento dello storico canale navigabile Brenta, in mezzo al paesaggio palladiano delle ville venete, o i viadotti sulle Valli di Comacchio, o le "varianti di valico" sulle Foreste Casentinesi, e sarebbero stati nel giusto. Hanno invece preferito affrontare un lungo percorso di studi multidisciplinari (trasportistici, economici, ambientali, paesaggistici, giuridici) e di autoformazione, scoprendo quanto solitamente non viene detto dai grandi organi di informazione e, tantomeno, divulgato dalle istituzioni politiche. Ad esempio, che promotrice del progetto è la Gefip Holdin, il gruppo di famiglia di Vito Bonsignore, europarlamentare del Pdl, che nel 2003 comprò per 4,5 milioni di euro la prima società promotrice del progetto, la Newco Nuova Romea SpA presenti le maggiori coop rosse Cmc e Ccc. Che, a sua volta, nacque per concretizzare l'indicazione della Associazione Nuova Romea Commerciale, il cui presidente era niente meno che Pierluigi Bersani. Quel che si dice grandi e losche intese!

Grazie al lavoro dei comitati scopriamo che il vice-presidente della allora NewCo, Lino Brentan, e l'amministratore delegato (ora dimissionario) della Mantovani, una delle principali imprese della associazione di imprese promotrici, l'ing. Baita, sono agli arresti per corruzione, associazione a delinquere e frode fiscale. Scopriamo che in realtà le società di progetto sono scatole vuote create dagli intermediari finanziari per farci affluire i finanziamenti bancari. Scopriamo che la finanziarizzazione dell'economia - tanto deprecata a parole - in realtà nasce per mano e per volere dello stato attraverso il meccanismo truffaldino del project financing.

Come non si stanca di spiegare l'ingegnere Ivan Cicconi, la finanza di progetto, figlia della Legge Obiettivo, serve a bypassare i patti di stabilità (che comporterebbero il blocco degli investimenti) concedendo a società di diritto privato la realizzazione e la gestione delle opere (così da evitare persino di cadere nelle maglie dei reati di corruzione) ma pur sempre scaricando, alla fine e tramite i contratti di concessione dell'opera, sulla spesa pubblica allargata i costi della realizzazione e gestione dell'infrastruttura che non dovessero essere coperti dai pedaggi, dalle royalties, dai canoni degli autogrill o delle pompe di benzina... In barba al rischio di impresa! Un keynesismo alla rovescia che gonfia i costi di realizzazione e moltiplica le intermediazioni finanziarie.
Con molto meno si potrebbero realizzare molti più interventi puntuali, a portata del sistema delle piccole imprese, creando lavoro per più persone. Come, ad esempio, mettere in sicurezza le strade esistenti, diversificare il traffico pesante, attrezzare i porti come scali delle autostrade del mare e collegandoli con la rete ferroviarie. La differenza sta tutta nell'obiettivo che ci si pone: aumentare il flusso di denari gestito dal sistema finanziario o migliore la mobilità del maggior numero di persone e la quantità delle merci trasportare per mare e per treno?

Si amplia quantitativamente e si articola qualitativamente la rete del governo del traffico metropolitano, a delineare un piano che va ben oltre il progetto di area C. Corriere della Sera Milano, 17 agosto 2013
Venti nuovi «cancelli» ai confini della città. Varchi con telecamere per controllare l'ingresso dei camion. Il modello della futura politica ambientale del Comune resta Londra: la congestion charge in centro, la tassa sul traffico, e cioè Area C, c'è già. L'evoluzione sarà una «zona a bassa emissione», come nella capitale del Regno Unito. Un territorio molto più ampio, che grosso modo coincide con i confini di Milano, nel quale cercare di ridurre lo smog prodotto dai mezzi pesanti o mezzi da cantiere.

Dai camion, alle betoniere: poco meno di 25 mila mezzi, ma molto vecchi e molto inquinanti, che da soli producono un quarto delle polveri sottili scaricate ogni giorno nell'aria di Milano. Il documento firmato lo scorso 7 agosto dalla Direzione centrale mobilità del Comune (a seguito di una delibera di giugno) è l'atto amministrativo che apre il percorso per la low emission zone milanese. Con l'autunno partirà la gara d'appalto per comprare le prime telecamere e montarle sulle strade.

La seconda «cintura»

Si parte dalle localizzazioni: viale Forlanini, via Gallarate, viale Fulvio Testi, via Ripamonti e altre grandi arterie di accesso in città. I primi varchi saranno 20 e verranno installati molto vicini ai confini di Milano e alle tangenziali. Nel suo sviluppo finale, il progetto prevede 106 telecamere. Solo a quel punto l'intero territorio milanese sarà «blindato» e tutte le strade di ingresso saranno «sotto osservazione». Vista dall'alto, Milano avrà così due cinture di controllo del traffico: quella interna di Area C e quella esterna sui confini. Ma come saranno utilizzate?

La prima fase coinciderà con lo studio della mobilità milanese.

Sarà una fase di conoscenza: l'Agenzia per la mobilità e l'ambiente (a cui il 7 agosto sono stati affidati 352 mila euro per l'avanzamento del progetto) dovrà elaborare tutti i dati raccolti dalle telecamere per capire nel dettaglio quanti mezzi pesanti circolano, quanto impiegano a spostarsi, per quanto tempo restano in marcia ogni giorno. L'obiettivo è avere una conoscenza approfondita della frazione più inquinante del traffico milanese (i mezzi pesanti sono quasi tutti a gasolio e molto vecchi).

Le nuove telecamere potrebbero però essere usate anche per un secondo scopo: controllare il rispetto dei divieti di circolazione per le auto più inquinanti durante l'inverno, tra ottobre e aprile. Quella misura antismog è tra le meno rispettate perché i controlli delle pattuglie in strada sono pochissimi. Il Comune di Milano, stando al progetto, dovrebbe invece cominciare a usare le nuove telecamere anche per i controlli e le multe. L'evoluzione finale è la creazione di una low emission zone vera e propria, con divieti di circolazione o il pagamento di un ticket per i camion.

Grande fratello

I documenti tecnici parlano di «sistemi di tracciamento». I mezzi pesanti che devono entrare a Milano saranno dotati di grossi bollini di riconoscimento (vetrofanie), di diversi colori in base a quanto il mezzo è vecchio e inquinante. Questo è l'aspetto «esteriore» del progetto, che sarà poi alla base delle nuove regole quando il Comune approverà un sistema di regole per ridurre l'inquinamento da mezzi pesanti. Finestre di accesso e tariffe di pagamento saranno infatti legate al tipo di mezzo, che sarà riconoscibile a vista dai vigili proprio grazie alle vetrofanie. Allo stesso tempo, nelle vetrofanie ci sarà anche una sorta di piccolo sistema radio o Gps.

È in base a questi segnalatori, e incrociando i dati delle due «cinture» di telecamere, che i tecnici dell'Amat saranno in grado di elaborare i dati per avere un quadro realistico e dettagliato dei flussi del traffico in città. Una parte di fondi per avviare il progetto, poco più di un milione, arriverà dal ministero. Si tratta di risorse vincolate a progetti sperimentali sulla mobilità. Altri finanziamenti spettano a Comune (1,7 milioni) e Regione (1,5).

Il decreto"Fare", letto dal quotidiano della Confindustria, aiuta a disfare quel che resta delle regole che volevano difendere il territorio e i suoi abitanti. Sotto l’egida delle "larghe intese" con il PD riescono a fare ciò che al PDL non era riuscito. Il Sole 24 ore, “Edilizia e Territorio”, 8 agosto 2013

Il «Decreto del fare» contiene anche importanti misure di semplificazione in materia edilizia, riconducibili sia sotto il profilo procedurale (si pensi alla soppressione del comma 10 dell'art. 20 TUE, qualora l'immobile oggetto dell'intervento sia sottoposto ad un vincolo la cui tutela non compete all'amministrazione comunale o all'introduzione del nuovo art. 23-bis in materia di autorizzazioni preliminari alla SCIA), ma anche sostanziale, dato il mantenimento, in sede di conversione, dell'originaria rimozione dell'obbligo generale di rispetto della sagoma per tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione (contenuto nel previgente art. 3, comma 1, lett. d) e art. 10, lett. c) del TUE).

Viene altresì prevista, in favore degli ordinamenti locali, la possibilità di introdurre deroghe ai limiti (fino ad oggi inderogabili) di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444.

Le novità procedurali

Il provvedimento cesella e precisa alcune modifiche apportate al TUE ad opera della recente legge 134/2012, al fine di semplificare gli incombenti procedurali sia in materia di edilizia libera (rimozione della dichiarazione preliminare dall'asseverazione del tecnico abilitato allegata alla comunicazione di inizio lavori per gli interventi di manutenzione straordinaria e per le modifiche interne di immobili produttivi), che di rilascio del permesso di costruire (soppressione del comma 10 e riformulazione dei commi 8 e 9 dell'art. 20 per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali: ora in caso di diniego dell'atto di assenso, eventualmente acquisito in conferenza di servizi, decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta e il responsabile del procedimento trasmette al richiedente il provvedimento di diniego dell'atto di assenso entro cinque giorni dalla data in cui è acquisito agli atti).

Importante novità è senza dubbio l'inserimento dell'art. 23-bis che disciplina ex novo le modalità di richiedere autorizzazioni preliminari alla presentazione della SCIA. Dopo la novella l'interessato potrà richiedere allo Sportello unico di provvedere all'acquisizione di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, necessari per l'intervento edilizio, o presentare istanza di acquisizione dei medesimi contestualmente alla SCIA: lo Sportello unico dovrà comunicare tempestivamente l'avvenuta acquisizione degli atti di assenso entro 60 giorni, in difetto si dovrà procedere attraverso la Conferenza di servizi di cui al comma 5-bis dell'art. 20 TUE.

In materia di agibilità, la novella sancisce che la certificazione potrà essere richiesta anche per singole porzioni della costruzione o unità immobiliari, purché funzionalmente autonome, qualora siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio e siano state completate e collaudate le parti strutturali connesse, nonché collaudati e certificati gli impianti relativi alle parti comuni.

Infine, in caso di interventi manutentivi eseguiti in economia dai proprietari degli immobili senza ricorso a imprese, non sussiste più l'obbligo di richiedere il DURC agli Enti competenti.

Le deroghe urbanistiche

In sede di conversione è stato inserito un ulteriore articolo al TUE (il 2-bis) recante la possibilità per le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano di prevedere, con proprie leggi e regolamenti, deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati previste dal dm 1444/68.

Viene fatta salva, ovviamente, la competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, ma ora a livello locale si potranno dettare disposizioni in deroga relativamente agli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici (purchè funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali).

In materia di urbanistica commerciale e produttiva, vengono precisate altresì le vigenti disposizioni in materia di promozione e tutela della concorrenza (legge 214/2011 di conversione del dl Salva Italia), introducendo la facoltà per gli ordinamenti locali di prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali.

Le ristrutturazioni con diversità di sagoma

Gli interventi di ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione (che prima della novella doveva appunto intendersi come ricostruzione "fedele"), vengono a perdere un requisito sino ad oggi fondante per distinguerli dalle nuove costruzioni, cioè il rispetto non solo dei volumi preesistenti, ma della sagoma.

Ne consegue che le ristrutturazioni, anche se eseguite con integrale demolizione e ricostruzione, non saranno più legate al mantenimento della sagoma preesistente (che in precedenza poteva essere derogata solo in caso di innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica). Inoltre saranno riconducibili nell'ambito delle ristrutturazioni tutti gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.

Rimane invece fermo l'obbligo del mantenimento della sagoma preesistente con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli di cui al D.lgs. 42/2004, non solo per gli interventi di demolizione e ricostruzione, ma anche per quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti, che potranno definirsi "ristrutturazione edilizia" soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.

La riforma dell'istituto, immediatamente esecutiva negli ordinamenti regionali a statuto ordinario, spiega comunque i suoi effetti anche nelle Regioni autonome con specifica competenza legislativa primaria in materia, dato che la modifica dell'art. 10, comma 1, lett. c) del DPR 380/2001 incide direttamente sulle valutazioni in ordine all'assenza di titolo e conseguentemente assoggettamento alle sanzioni penali previste dall'art. 44 del TUE medesimo.

Le misure transitorie

La novella, pur sopprimendo la possibilità di intervenire in regime di ristrutturazione edilizia con modifiche alla sagoma anche con demolizione e ricostruzione, conserva la norma transitoria che impedisce di eseguire in SCIA interventi di demolizione e ricostruzione ovvero varianti a permessi di costruire comportanti modifiche della sagoma, all'interno delle zone omogenee Adi cui al dm 1444/68 in assenza di specifica deliberazione comunale. I Comuni dovranno, entro il 30 giugno 2014, individuare con propria deliberazione le aree nelle quali non è applicabile tale fattispecie di SCIA; mentre, all'infuori dei Centri storici, gli interventi sopra indicati cui è applicabile la SCIA non potranno in ogni caso avere inizio prima che siano decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della segnalazione.

In sede di conversione è stato altresì aggiunta la previsione dell'intervento sostitutivo della Regione in caso di inerzia del Comune, e in caso di assenza di intervento sostitutivo regionale, la deliberazione di è adottata da un Commissario nominato dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.

Nell'ottica della semplificazione, risultano ex lege (salva diversa disciplina regionale) prorogati di due anni (su espressa richiesta del soggetto interessato), tutti i termini di inizio e di ultimazione dei lavori, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del dl 69/2013. In sede di conversione è stato però precisato che la proroga opererà solo nei casi in cui i termini non risultino già scaduti al momento della comunicazione dell'interessato e che i relativi titoli abilitativi non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici (approvati o anche solo adottati).

Circostanziata denuncia di un potere - quello del direttore dei Musei Vaticani - tanto inaffondabile, quanto scientificamente inconsistente. In gioco, il patrimonio culturale delle nostre città. Il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2013, con postilla (m.p.g.)

Cosa c’è di meglio, per rilanciare il Monte dei Paschi, di mettere nella sua nuova Deputazione la zavorra di uno dei più chiacchierati e intoccabili residui del vecchio potere democristiano come Antonio Paolucci?

Nato nel 1939 a Rimini in una famiglia di mercanti d’arte molto intraprendenti, Paolucci è uno storico dell’arte la cui importanza scientifica (prossima allo zero) è inversamente proporzionale all’immensa influenza che ha esercitato nel suo governo del patrimonio artistico fiorentino, durato per quasi vent’anni: dal 1988 al 2006.

Un regno lunghissimo – interrotto solo dalla (dimenticabile) esperienza come ministro per i Beni Culturali nel governo del fiorentino Lamberto Dini (1995-96) – che gli ha permesso di creare un sistema di potere ancora intatto (il figlio Fabrizio è l’attuale responsabile delle antichità agli Uffizi).

Il capolavoro di Paolucci fu l’acquisto della Collezione Martelli. Questa importantissima collezione d’arte fiorentina era stata lasciata al Seminario della Curia di Firenze, ma un onere testamentario disponeva che dovesse essere aperta al pubblico: dunque si trattava di una raccolta già, di fatto, della città. Ma il fratello dell’allora arcivescovo, Silvano Piovanelli, si appropriò di decine di opere d’arte immettendole sul mercato antiquario: nel luglio del 1996, Paolo Piovanelli patteggiò la pena di un anno e mezzo di reclusione per furto continuato e aggravato. Paolucci pensò di risolvere l’imbarazzante situazione attraverso un accordo in forza del quale, se lo Stato avesse acquistato il donatelliano Stemma Martelli, la Curia avrebbe donato allo Stato il palazzo e quanto vi era conservato. Così fu: nel novembre 1996 l’arcivescovato incassò ben diciassette miliardi e mezzo di lire per la scultura, e nel maggio del 1998 venne firmata la donazione. Così Paolucci premiò una clamorosa infedeltà con una regalìa colossale: non stupirà che nel 2007 Paolucci divenga direttore dei Musei Vaticani.

È nel passaggio tra Firenze e Vaticano che Paolucci organizza l’“operazione Michelangelo”.
Nel 2004 egli espone a Firenze un piccolo crocifisso ligneo di proprietà di Giancarlo Gallino (antiquario torinese con cui Paolucci aveva già trattato l’acquisto per gli Uffizi di una rovinatissima e strapagata opera di Antonello da Messina), avallandone l’attribuzione a Michelangelo. Nell’estate del 2007, Paolucci si guarda bene dal comperare il “Michelangelo” per i Musei Vaticani, ma scrive al “caro Francesco ” Rutelli, allora ministro per i Beni culturali, consigliandogli caldamente di comprare l’opera per lo Stato. Cosa che avviene, sotto Sandro Bondi, per 3.250.000 euro. Ma visto che la scultura non è di Michelangelo e vale (secondo una stima di Christie’s) 85.000 euro, oggi la Corte dei Conti processa per danno erariale la successora di Paolucci a Firenze, che concluse l’acquisto.

Paolucci stesso, invece, è inaffondabile. L’anno scorso l’allora ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi pensò bene di confermarlo (sebbene dipendente ormai di un altro Stato, il Vaticano) nel massimo organo consultivo del Mibac, il Consiglio Superiore dei Beni culturali, del quale divenne anzi vicepresidente. Ed è da qui che il sempre agile Paolucci spicca il salto verso il Monte dei Paschi. A giugno, a Siena decidono di chiedere due nomi ad “alti organismi scientifici” come il CNR e, appunto, il Consiglio Superiore del Mibac. Quest’ultimo, contro ogni decenza, indica nella terna un proprio membro, anzi il suo vicepresidente: e il gioco è fatto.

Ma l'atterraggio a Siena di Paolucci è tutto tranne che pacifico. Non solo egli guida la commissione scientifica delle Scuderie del Quirinale (un mostrificio con mille cointeressenze col mondo delle banche), ma soprattutto è il capo del comitato scientifico dell’Associazione Civita, cui fa capo la potente società di servizi Civita, presieduta da Gianni Letta. Proprio una controllata di Civita, Opera Laboratori Fiorentini, sta prendendo il controllo di tutto il patrimonio artistico pubblico senese: prima di un “ramo d’azienda” dell’Opera del Duomo (cessione su cui ora indaga la Procura di Siena), poi del Santa Maria della Scala e ora anche dei Musei Civici e addirittura della Torre del Mangia, simbolo della città. Insomma, con Paolucci non arriva al Monte dei Paschi un tranquillo pensionato, ma uno dei nuovi padroni di Siena.
Non c'è più nemmeno bisogno dell’ipocrisia gattopardesca: ormai, per non cambiare nulla, non si cambia direttamente nulla. Meglio non rischiare.

postilla
La gravità della denuncia di Montanari non sta solo nella constatazione dell'inamovibilità della nostra classe dirigente. Un gruppo di potere responsabile in prima persona, per avidità personale e incapacità intellettuale, del disastro in cui ci troviamo e che, lungi dal ritirarsi, anche solo per questioni anagrafiche, cerca di perpetuare con ogni mezzo la propria influenza: in prima persona e con l'immortale pratica del nepotismo clientelare.
Gravissimo è l'intreccio di ruoli, cariche, interessi che la vicenda denuncia: un conflitto di interessi esponenziale che avrà pesanti ricadute sia sulla gestione del patrimonio culturale di Siena, ma anche sull'intera vita della comunità cittadina. Concentrare nelle mani di pochi - nominati con criteri opachi e con forti interessi personali - i destini di buona parte dei preziosissimi spazi pubblici della città, quali sono - almeno fino ad ora - monumenti e luoghi culturali, significa stravolgere assetti urbani e sociali sulla base di procedure nè democratiche, nè trasparenti.
Eppure il disagio con cui si confrontano quotidianamente i cittadini di Firenze, con un centro storico e i servizi stravolti dalla "valorizzazione" e dal turismo "culturale" e di cui è corresponsabile, almeno culturalmente, il neo membro della Deputazione MPS, avrebbe dovuto indurre a maggiore riflessione chi sta cercando di uscire dalla melma dello scandalo Monte Paschi.

Ma memoria storica e lungimiranza intellettuale sono merci rare, di questi tempi. (m.p.g.)

Rassegna superficiale e turistica di discutibili e discusse colonizzazioni del nostro territorio. Corriere della Sera, 15 agosto 2013, postilla (f.b.)

Il caso più recente, che ha attirato l'ammirata attenzione dell'inserto «Travel on sunday» del quotidiano The Independent dell'11 agosto, è quello di Castelfalfi, frazione di Montaione in provincia di Firenze. Uno spettacolare borgo medioevale citato già nel 754 in un atto di donazione, abitato fino agli anni Sessanta quando fu abbandonato sull'onda del boom economico, e al centro di 1.100 ettari di terra: un castello, un piccolo paese, 36 casali, boschi che ospitano daini e mufloni. Nel 2007 il tutto venne acquistato dalla Tui, Touristik Union International, gigante tedesco del settore turistico con sede ad Hannover. Una previsione di spesa di 250 milioni di euro, di cui 140 già stanziati, 18 casali già ristrutturati, 40 appartamenti in consegna. Una campagna pubblicitaria che ha attirato nuovi residenti da mezzo mondo: australiani, un sudafricano, belgi, austriaci, tedeschi, inglesi, canadesi, svizzeri. Tre giorni fa è comparso il primo cliente russo. «A Tuscan transformation», ha titolato entusiasta The Independent raccontando i restauri filologici (solo pietre e materiali locali e originari), la cura del verde. E la nascita di un luogo insieme italiano e cosmopolita. La bellezza è assoluta, lo sa bene Roberto Benigni che girò qui il suo «Pinocchio» quando Castelfalfi era deserto.

Sono tanti i casi di borghi e piccoli centri «salvati», o comunque avviati a nuova vita, da stranieri che investono e decidono di vivere circondati dal nostro Paesaggio, lo stesso che fece la fortuna del Grand Tour dalla seconda metà del Seicento in poi. Nel 1974 gli svizzeri di Hapimag (sempre turismo) comprarono il borgo medioevale di Tonda, anche questo nel comune di Montaione: appartamenti per 400 abitanti, la chiesa trasformata in sala riunioni. Denaro sudafricano ha finanziato il recupero del magnifico borgo di Fighine, vicino Siena: solo residenti anglofoni, il sito www.fighine.it non prevede traduzione in italiano. L'imponente borgo-castello di Casole, che risale al X secolo e fu per anni proprietà di Luchino Visconti, è stato acquistato da Timber Resort che ha restaurato il castello e le trenta fattorie. Ora tutto è in mano ai turisti ma anche a nuovi residenti stabili in larga parte americani (un solo italiano, forse protetto dal Wwf). Il Borgo di Santa Giuliana a Umbertide è stato ripristinato da investitori tedeschi. E in tedesco si parla spesso per i vicoli: quasi tutti i neo-sangiulianesi sono austriaci, tedeschi, svizzeri. Poi ci sono gli insediamenti storicizzati.

Come il «Villaggio olandese» di Bettona, in provincia di Perugia: una signora olandese comprò negli anni 70 circa sessanta ettari di bosco realizzando una serie di lotti edificabili. Da allora centinaia di sudditi del nuovo Re Guglielmo hanno cambiato l'economia e le abitudini della cittadina. Stessa situazione alla località La Cima a Tuoro sul Trasimeno: dagli anni 70 la cittadella delle ville è abitata solo da olandesi, belgi, francesi danesi. Dice Carolina Dorothea Seijffert, olandese, dal 2001 titolare dell'agenzia «Le case di Dorrie», con un portafoglio di 160 bellezze architettoniche in vendita sparse nel centro Italia: «Il fascino dell'Italia resiste, nonostante la crisi. Il sogno italiano è saldo nell'immaginario di mezzo mondo. Ora i tedeschi stanno tornando, gli inglesi tendono di più a vendere dopo lunghe permanenze, bene le trattative con i belgi e gli olandesi che risentono complessivamente meno della crisi».

Secondo Scenari Immobiliari, nel 2012 sono state 4.600 le famiglie straniere che hanno acquistato un immobile in Italia con una crescita del 53% rispetto al 2005. Ricchezza vera: dal 2005 la spesa media è passata da 245 mila euro a 455 mila. Lo sanno, per esempio a Cianciana, centro collinare agricolo in provincia di Agrigento, autentico caso studiato sulla stampa internazionale. Ormai il 10% dei residenti è straniero. Un fenomeno basato esclusivamente sul passaparola. Anche l'attore Ray Winstone ha comprato casa ma nelle stradine si incontrano fotografi, modelle, musicisti: inglesi, canadesi, svedesi, statunitensi, austriaci. Spiega Carmelo Panepinto, presidente della pro loco e marito di Giuseppina Montalbano, titolare dell'agenzia My House: «Sono attirati tutti dai ritmi del posto, dalla bellezza, dalla tranquillità e dalla mancanza di criminalità. E anche dai prezzi. Con 20-30 mila euro e altri 10 mila di ristrutturazione si può comprare una bella casa dell'800 col prospetto in tufo e il solaio a volta».

Altro caso studiato è quello di Irsina, in provincia di Matera, uno dei paesi più antichi della Basilicata: nel centro storico hanno comprato casa cinquanta famiglie inglesi, americane, tedesche. E infine, il classico dei classici, Airole, paesino arroccato in Val Roja a pochi chilometri da Ventimiglia e dal confine francese. È uno dei paesi con la più alta densità di stranieri in Italia: il 31.4%, soprattutto tedeschi, olandesi, francesi, statunitensi, inglesi, svizzeri. Il segreto? La posizione baricentrica (vicini al mare, anche alla Costa Azzurra, e alle piste di sci di Limone Piemonte). La tranquillità. La civiltà dei rapporti. La capacità di accantonare particolarismi. Diciamo così: una piccola Unione europea ben riuscita, amalgamata e non litigiosa.

postilla
Ecco un caso in cui anch'io adotterei la famosa dizione “città dell'uomo” che spesso sfotto in modo sbrigativo e piuttosto maleducato (lo ammetto, ma è per esasperazione) quando utilizzata da altri di solito a vanvera. Nel senso che esiste una città dell'uomo intesa come casa della società, e una città delle pietre che di quella casa è solo il contenitore. I nostri borghi “recuperati a nuova vita” come dice l'articolo, potrebbero benissimo essere il contenitore di una vita che in realtà si svolge altrove, senza alcun rapporto organico col territorio che a sua volta li contiene. Perché non siano semplicemente la versione di destra della cosiddetta paesologia, scatole di nostalgia da cartolina da rivendere sul mercato globale, forse servirebbe un'idea più chiara di che farne, della risorsa borghi tradizionali, ovvero in che contesto si inseriscono le funzioni turistiche, come si sviluppano, come si integrano ambientalmente, socialmente, economicamente. Altrimenti queste gated communities rischieranno di diventare una versione civile ma per nulla amichevole delle basi militari dei sedicenti liberatori, che nel caso specifico ci hanno liberato dai ruderi, portandosi però a casa gratis tutto il resto (f.b.)

«Occorre solo una politica che governi e non si faccia governare dagli interessi privati”, spiega il senatore del Pd Felice Casson»: se di questi tempi e con questo PD ti sembra poco...Il Fatto quotidiano, 13 agosto 2013

Se è vero che il decreto Passera-Clini dice che le navi dovranno rispettare il limite di 40mila tonnellate di stazza dopo che l’Autorità Portuale avrà “individuato soluzioni alternative e condivise al transito”, è anche vero che, nel frattempo, per metter fine allo scandaloso passaggio di questi colossi nel cuore della città la soluzione ci sarebbe. “Sancire un accordo bonario tra Autorità Portuale e Compagnie di Navigazione. Li si convoca e gli si dice: cari signori, è ora di smetterla con questo scempio altrimenti inaspriamo i controlli sull’inquinamento, sulla sicurezza, ecc...
Occorre solo una politica che governi e non si faccia governare dagli interessi privati”, spiega il senatore del Pd Felice Casson. Parole chiare quelle dell’ex Pm, che all’indomani del passaggio ravvicinato a Riva dei Sette Martiri della “Carnival Sunshine” (oltre 102mila tonnellate di stazza, lunga 272 metri, larga 35 e alta 62), ha presentato un emendamento al decreto legge del “Fare” – indirizzato al Presidente della Commissione Cultura Andrea Marcucci per evitare che Autorità Portuale, il Magistrato alle Acque, la Capitaneria di Porto, la Regione e la Provincia continuino a rimbalzarsi le responsabilità trasferendo la competenza sul passaggio delle Grandi Navi al sindaco. Ma il Governo ha dato parere contrario dicendo, in sintesi, “questa è competenza nostra”. Così come si è persa traccia del Disegno di Legge per la salvaguardia di Venezia e della sua Laguna, sempre a firma Casson, per l’estromissione delle Grandi Navi, per l’apposito terminal crocieristico dedicato e l’istituzione di un Consiglio Superiore capitanato dal sindaco e la realizzazione del Porto Off-shore. “Porto già finanziato dall’Europa, manca che il Governo si decida di fare il progetto esecutivo” continua Casson. “Nella scorsa legislatura è stato approvato in Commissione un Testo Unico pronto per il voto, bloccato dal Governo che non aveva presentato la copertura finanziaria. Lo abbiamo ripresentato integrato con le osservazioni del Comitato No Grandi Navi ecc..., ma è fermo in Commissione Ambiente. Bisogna estromettere gli Enti e affidare tutto al Comune che vuol dire privarli dei poteri.
Un esempio è il Consorzio Venezia Nuova per la realizzazione del Mose, concessionario unico (abolito dall'Europa e salvato dal Governo Berlusconi) che produce zone grigie e un alto indice di criminalità nei soggetti interessati, in quanto in mancanza di effettivi controlli, vale anche per l'Autorità Portuale, tende a sovrapporsi all’Autorità pubblica. Il Magistrato alle Acque (Ufficio lagunare del Ministero), la Capitaneria e l'Autorità Portuale sono state ancelle non controllori. Ho chiesto ai Ministri Orlando, Lupi e a quello della Cultura: ma come fate ad affidarvi a soggetti che si sono sempre comportati come sottomessi? Ci sono troppi interessi forti e contrastanti fra loro, a discapito del Bene Comune. Stavano per nominare Magistrato alle Acque un signore implicato con Angelo Balducci nell'inchiesta sul G8”. Ma il Pd da che parte sta? “C'è un consenso unanime nei circoli ma non a livello di vertici regionali, posizione incomprensibile, attendiamo l’evolversi dell'inchiesta”. Ipotizza un loro coinvolgimento ? “No, ma so che quando non si prende posizione una ragione c'è sempre”. Condivide la soluzione di Costa, scavamento del Canale Contorta-Sant'Angelo? “È la peggiore possibile sconvolge l'equilibrio idrogeologico della laguna, avrà costi enormi e tempi biblici, se dovesse passare la combatteremo”. Intanto i mostri galleggianti continueranno ad oltraggiare San Marco per la gioia delle compagnie di navigazione.

Ancora sulle un po' positive rilevazioni ambientali nelle aree urbane, stavolta con una critica di Legambiente alla latitanza di politiche di sostegno. (Ma attenti agli effetti perniciosi che può avere la green economy). Corriere della Sera, 13 agosto 2013, postilla (f.b.)

ROMA — Il governo Letta è avvisato: «Urgono politiche nazionali e locali che incanalino una nuova sensibilità ambientale, sostengano i rinnovati stili di vita che possono nascere dalla crisi». Parola di Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente mentre analizza il report Istat sui dati ambientali nelle città italiane del 2012. Gli effetti della crisi si accavallano alle abitudini che cambiano. Il tasso di motorizzazione (sicuramente collegato al calo degli acquisti di automobili) scende dello 0,7% rispetto al 2011. E nello stesso tempo (qui siamo invece nell'ambito delle scelte personali) per la prima volta le vetture meno inquinanti sono più diffuse di quelle non ecologiche.

Nei comuni capoluogo le macchine fino alla classe euro 3 sono 303,9 per mille abitanti contro le 305,3 delle classi euro 4 o superiori. E nello stesso tempo le auto a benzina calano dell'1,2% a favore di quelle a gasolio (+0,9%) e bifuel benzina/gpl o benzina/metano (+0,3%). Migliora poi la situazione di massimo allarme per la qualità dell'aria e diminuisce da 59 a 52 il numero dei capoluoghi dove il valore limite per la protezione della salute previsto per il Pm10 viene superato per più di 35 giorni. Buone notizie anche dall'ambiente: la superfici di verde urbano crescono dell'1% nei comuni capoluogo di provincia.

Dice ancora Vittorio Cogliati Dezza: «Non mancano segnali di una certa inversione di tendenza legati sia alla crisi sia a comportamenti diversi. Penso alla produzione di rifiuti che è indubbiamente calata. Ma questo si innesta anche sulle pratiche virtuose adottate per fortuna da un numero crescente di comuni». In quanto agli spostamenti, sottolinea Cogliati Dezza, c'è anche la nuova realtà dei ciclisti in aumento. Secondo una recente stima di Confindustria Ancma nel 2012, tra acquisti e mezzi rimessi a nuovo, sono state vendute oltre due milioni di biciclette di vari modelli, un incremento netto di 200 mila pezzi in più rispetto al 2011. Ancora Cogliati Dezza: «I ciclisti italiani stanno aumentando continuamente, c'è una vera e propria esplosione dei movimenti di base che si stanno diffondendo al di là della presenza o meno delle piste ciclabili. Qui siamo sempre a metà tra crisi economica e consapevolezza civile diversa dal passato. Ma sono necessarie nuove politiche e nuove visioni. Per ora non ne vediamo molte».

E in questo caso è impossibile non pensare alla Gran Bretagna dove, invece, il governo Cameron ha recentemente deciso di stanziare 160 milioni di sterline per la creazione di piste ciclabili in nove città tra cui Londra, Manchester, Oxford, Cambridge, Birmingham, Bristol. Un responsabile delle politiche ciclistiche risponderà direttamente al primo ministro sull'attuazione del piano.
Anche Dante Caserta, presidente nazionale del Wwf, concorda con l'analisi di Cogliati Dezza: «La crisi ci mostra come molte abitudini che ci sembravamo irrinunciabili possano essere abbandonate. L'uso dell'auto privata è chiaramente in calo e spetta al governo centrale e alle amministrazioni locali investire nel settore dei trasporti pubblici. Sarebbe bene che il governo comprendesse che la green economy non è un settore particolare ma indica un modello di sviluppo positivo. Faccio un esempio. Se l'inquinamento nelle città cala, ci si ammala di meno e lo Stato spende meno in sanità pubblica. Non è questo un grande investimento per il futuro, se governato con consapevolezza»?

postilla
Sicuramente è il caso di ricordare, sia al governo che all'opinione pubblica che alla stessa Legambiente così critica sulla latitanza di alcune iniziative, che la cosiddetta green economy difficilmente si può basare su singoli progetti, per quanto grandi e importanti, ma costituirsi invece sistema integrato. Il citato governo britannico (come del resto altri) ha fatto le proprie scelte energetiche, che stanno alla base di tante altre fondamentali strategie. Da noi si pasticcia in modo contraddittorio, come nella notizia riportata ieri da questo sito sul land grabbing per la produzione di biogas, dove da un lato si contraddice di fatto lo spirito delle linee ufficiali (pdl Catania e assimilati) sul contenimento del consumo di suolo a usi urbani e a sostegno delle produzione agricola, dall'altro si punta su una produzione come il biogas, che gli esperti di energie alternative (si leggano i Commenti al medesimo articolo) giudicano fallimentare. Insomma: andiamo da qualche parte, oppure anche qui al massimo si tenta di vivacchiare, concedendo un po' di investimenti alle piste ciclabili, sperimentando progetti pilota di car-sharing che non ci piloteranno da nessuna parte eccetera? (f.b.)

In un’intervista di Marco Filoni un'autorevole denuncia dell'economicismo miope, di cui i governanti sono succubi, che porta Venezia alla morte. Nessuno risponde alla domanda: come passare da un turismo che distrugge a uno sviluppo di attività che salva il nostro patrimonio? Il Fatto quotidiano online, 12 agosto 2013

La nave va. Purtroppo. A Venezia, in quella laguna fra le più belle al mondo, passano i mostri giganti, quei "templi del consumismo che somigliano più a uno dei colossali alberghi di Las Vegas che non a semplici navi", ci dice Salvatore Settis. Alla questione delle navi che solcano il canale fra la Giudecca e San Marco il noto storico dell'arte ha dedicato denunce amare. Su Repubblica, subito dopo la tragedia del Giglio, Settis aveva avvertito: attenzione che può succedere anche a Venezia. Fu subito apostrofato: "il solito catastrofista che non conosce i fatti". Come apostrofato con supponenza è stato Adriano Celentano che dalle pagine del Fatto ha lanciato il suo grido d'allarme che è quello di tutti. Ma c'è chi a Venezia, come il presidente dell'Autorità portuale ed ex sindaco Paolo Costa, dice che quello che è accaduto al Giglio non può succedere in Laguna.

Professore è vero?
Loro dicono che non può accadere per una ragione: prima che le navi arrivino a una distanza dalla riva per cui poi non possono più fermarsi e sfondare così la terra ferma, il fondale è talmente basso che la nave s'incaglierebbe quindi non può arrivare. Hanno fornito alcune cifre sui fondali del canale.

Quindi tutto risolto?
Non proprio. Gian Antonio Stella ha fatto un'inchiesta mirabile sul Corriere della Sera ha passato in rassegna i posti che loro indicavano con un capitano di marina e hanno scandagliato i fondali. Ecco: le misure erano completamente diverse. Non è vero perciò che le profondità sono quelle indicate dalle autorità veneziane, sono altre. Stiamo parlando di un reportage realizzato non dallo "scatenato" Fatto Quotidiano, ma dal compassato Corriere. Perciò non è vero che a Venezia non possa succedere quanto è avvenuto al Giglio: può succedere in qualsiasi momento, magari in altre forme ma può succedere. E l'ha dimostrato Stella.

Paolo Costa dice che se chiude l'attuale canale utilizzato dalle grandi navi deve scavarne un altro: per lui è scontato che i colossi debbano entrare in Laguna perché altrimenti sarebbe un danno economico per la città e per l'indotto. Credo che questo discorso sia il frutto di una visione che definire miope è già generoso. Costa pensa all'impatto economico della presenza di una mega-nave a Venezia nel momento in cui arriva e nei cinque giorni successivi. Ma l'impatto economico non si calcola soltanto nel breve periodo, ma anche nel lungo. Queste navi producono un gigantesco inquinamento visivo - sono colossi che sovrastano il Palazzo Ducale o tutte le altre architetture veneziane - e danneggiano l'immagine di Venezia, la biodiversità della Laguna. Una singola nave nel bacino di San Marco inquina come 14.000 automobili. Allora: queste cose hanno un valore economico o no? Qual è il calcolo che fa Costa del danno alla salute dei cittadini? Qual è il calcolo che fa Costa del danno all'etica pubblica, del danno alla bellezza della città? Bisognerebbe ricordarsi che non esiste soltanto l'economia: esiste la tutela dei beni culturali, è scritto nella Costituzione.

Sembra che il turismo e tutto il denaro che questo genera a Venezia debba avere la meglio su tutto: ma così la città non diventa un luna park?
È una storia antica: l'idea che Venezia possa diventare un parco di divertimenti - la metafora più ricorrente è che sia sempre più una Disneyland - è un'idea che ricorre da decenni. Ed è vero, purtroppo. Ma così Venezia rinuncia a essere città, anzi l'archetipo di tutte le città, per diventare una non-città. A chi pensa che questo processo sia giusto vorrei chiedere allora che differenza vede fra la Venezia reale, sul Mar Adriatico, e quella che è ricostruita, posticcia, a Las Vegas o in Cina.

E qual è?
Una città privata della cittadinanza, ridotta a un parco divertimenti, cioè la negazione di una storia millenaria, negazione di quel legame stretto fra la bellezza artistica, i diritti della cittadinanza e l'uguaglianza dei cittadini - che è alla base della tradizione italiana della conservazione dei beni culturali. E le navi? La vicenda della navi è opposta all'uguaglianza. E uno stupro quotidiano in cui il veneziano che abita la città deve, alzando gli occhi, vedere in luogo delle gondole o dell'altra riva con i palazzi e le chiese, questo mostruoso, tremendo grattacielo galleggiante. Che testimonia che Venezia non esiste più.

Luigi D'Alpaos, tra i messimi esperti italiani di idrodinamitica e profondo conoscitore della Laguna di Venezia denuncia il tentativo di Paolo Costa di utilizzare il suo nome per avallare una scelta che sacrificherebbe l'ambiente lagunare pur di salvare i traffici della Grandi navi. Il Fatto quotidiano, 11 agosto 2013

Una delle tre proposte al vaglio del comitato ministeriale con l’obiettivo di mettere fine allo sfregio causato dal passaggio delle Grandi Navi nel cuore di Venezia è quella del presidente dell’Autorità Portuale, Paolo Costa: allargamento e approfondimento del canale Contorta-Sant’Angelo dal canale dei petroli fino all’attuale stazione marittima. Costo previsto: 170 milioni di euro. Consegna in un anno, dice lui.

Costa nella lettera pubblicata ieri dal Fatto in risposta ad Adriano Celentano, scrive testualmente: “Il come fare ce lo dicono Luigi D’Alpaos, Università di Padova, e l’Ismar Cnr, tutta gente che alla laguna ha dimostrato, non solo detto, di tenerci più di Lei (riferito a Celentano) e me”. Chiamato in causa, il professor D’Alpaos, ordinario di idrodinamica all’Università di Padova, esclama: “Trovo scorretto che si citi solo una parte di tre paginette, non di uno studio, scritte dieci anni fa quando Costa era sindaco di Venezia, e non si faccia riferimento ad alcune frasi fondamentali che evidenziano la necessità di tener conto anche di altri problemi che l’inserimento di un nuovo canale navigabile inevitabilmente creerebbe. Concetti che ho replicato in una nota inviata a Costa il 18 luglio scorso quando il mio nome fu di nuovo strumentalizzato affinché capisse bene, ma vedo che non è stato sufficiente.
Le Grandi Navi non debbono entrare nel cuore di Venezia, e per questo dovrebbe bastare il buon senso: si deve costruire un porto fuori dalla laguna. Poi di fronte alla necessità, in fase transitoria, si può trovare una soluzione ingegneristica, studiare interventi reversibili graduali inquadrabili nella legge speciale su Venezia e non come è stato fatto nel passato.
Sono onorato che si citi il mio dipartimento, seppure sia stato sempre stato tenuto al margine. Sarei tranquillo se fosse chiamato a dire la sua su questa vicenda. Invece viene tenuto all’angolo dai soliti noti, in questo caso le Compagnie di navigazione, alle quali è asservita la politica, perché fa ricerca, non business, non è formato da signor sì. L’iniziatore degli studi di idraulica lagunare, il professor Augusto Ghetti, ci ha insegnato a non essere mai consulenti del Principe. E infatti il Principe sceglie altri consulenti. Non è stupefacente che al dipartimento lavori un gruppo di ricercatori, massimi esperti in campo internazionale di idrodinamica lagunare e di morfodinamica e per i problemi di modellazione del Mose si sia preferito andare all’istituto DHI di Copenaghen oppure a Delft, in Olanda?
Il Cnr di Venezia (citato da Costa), essendo finanziato dal Consorzio Nuova Venezia (per la realizzazione del Mose) non è certo un esempio di coerenza. Prima di parlare bisogna formarsi delle idee e di fronte a fatti scientifici le idee debbono derivare dalle evidenze scientifiche. Mi scuso per la franchezza ma nella mia vita, compio 70 anni tra un mese, mi sono occupato a lungo delle questioni veneziane dicendo solo ciò che pensavo a prescindere dalle conseguenze che ne sarebbero derivate. Come testimonia il mio libro Fatti e misfatti di idraulica lagunare: potrei raccontare molto di più ma temo che mi farebbero inaugurare i Piombi (le famose galere della Repubblica)”.
In conclusione il progetto sostenuto da Costa è fattibile o no? “Cosa vuole, tutto può esserlo se si è convinti che sia il solo obiettivo. Ma l’unica soluzione è tenere fuori le grandi navi dalla laguna, e non continuare nella follia di adattare la laguna alle dimensioni delle navi. Poi si può parlare di soluzioni praticabili sul breve periodo. Ma per non creare danni irreparabili bisognerebbe costruire questo canale con saggezza, neutralizzarlo dal punto di vista morfodinamico per evitare la demolizione dei fondali, perché questi giganti quando passano producono anche correnti locali estremamente dannose per la stabilità della Laguna”.

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