Il Fatto quotidiano online, 14 febbraio 2014
Se le parole sentite in questa campagna elettorale avessero una corrispondenza con la realtà, dovremmo buttare a mare la promessa tragicomica della Sardegna zona franca integrale, affogare senza pietà il nuovo spaventoso Piano paesaggistico che, privo di ogni legittimità e di decenza, è stato approvato oggi, a due giorni dalle elezioni e distruggerebbe quello che resta dell’isola. Scaraventare in acqua le promesse baggiane di felicità e indipendenza insiemealla balla per i creduli pinocchietti sardi di un’isola senza tasse e dove la benzina costa poco. Consegnare alle onde anche l’idea di una lingua sarda ufficiale, sintetica, inventata in un grigio ufficio regionale, foraggiata con 19 milioni di euro e ricordarci che una lingua non la impone certo una povera Giunta di passaggio verniciata di falso sovranismo né tanto meno qualche malinconico burocrate.
Se le parole di questi giorni avessero un collegamento con i fatti e con il nostro vero benessere avremmo dovuto scagliare in mare la legge elettorale sarda che un consiglio regionale di molti indagati ha varato con lo scopo di auto-conservarsi in eterno. Una simulazione di democrazia senza rappresentanza reale dell’elettorato. Una legge che alla prova dei fatti esclude le “grandi minoranze” e si ritorce oggi anche contro chi l’ha votata.
In Sardegna ci chiediamo in tanti che democrazia possa essere quella che prevede molti voti per il candidato presidente ma nessuna possibilità di ingresso in consiglio per il terzo classificato e, magari, nessuna o quasi nessuna rappresentanza per le sue liste. Nello sport la medaglia di bronzo ha un valore enorme, ma non da queste parti. Qui, chi arriva terzo è fuori da tutto. Mentre i girini della politica, trasportati dalle correnti maggiori oggi sono gongolanti.
Ma il “legislatore furbo” spesso muore di troppa furbizia, si sa. Dovrebbero, domenica, finire a mare anche le surreali considerazioni filosofiche dei partiti sui candidati-indagati.
In acqua si sono buttati da soli gli aspiranti candidati di 5stelle in Sardegna. Un suicidio di massa, come i lemmings dei mari del Nord. Un piccolo esercito di rimasugli elettorali, una raccolta indifferenziata della politica. C’erano dentro il movimento anche molte ottime persone, s’intende. Però sono state travolte dai lemmings suicidi. La prossima volta faranno di meglio, speriamo.
Dunque non si va a votare per il disgusto? Non si vota per protesta? Sembrano questi i sentimenti di metà dell’elettorato. Un milione e quattrocentomila votanti (un’isola di vecchi, visto che siamo un milione e seicentomila abitanti) con un’astensione che si prevede oltre il cinquanta per cento.
Anche questo è la Sardegna. Non certo la terra della giudicessa medievale Eleonora d’Arborea o quella del giudice rivoluzionario Giovanni Maria Angioy favoleggiata da indipendentisti sognanti, capaci di molte parole, talvolta perfino belle, ma incapaci di spiegarci come e quando l’isola potrebbe raggiungere una reale autodeterminazione.
Tuttavia l’unica possibilità di cambiare qualcosa è ancora solo nel voto. I cosiddetti partiti-feudo (il feudo non scompare mai dalla storia sarda) vorrebbero pochi, fidi votanti. E il migliore dei mondi consisterebbe, per loro, nel votarsi a vicenda. Coltivano il sogno di essere sessanta votanti e sessanta consiglieri il cui obiettivo è votare fedelmente se stessi e i figli dei figli per l’eternità. Il “non voto” è ambito, auspicato e ricercato. “Non votate” è lo slogan di chi è interessato alla conservazione e a un governo di pochi. Molti eletti e pochi elettori. “Non votate, oppure votate me”.
Ma dalla memoria comune non sono scomparsi i sedici morti dell’alluvione del 18 novembre, una tragedia così piena di significati che rappresenta la Sardegna e la stessa Nazione. “La prossima volta” ha detto un povero sfollato che spalava fango: “Non credo più a nessuno” e in quel “la prossima volta” era contenuta un’intera filosofia.“Le prossime volte” sono diventate talmente numerose nel nostro Paese che nessuno crede più a nulla.
Però c’è il rischio paradossale – è già accaduto dopo l’alluvione di Capoterra nel 2008 – di sentire ancora un coro a favore dell’alluvione di metri cubi che il nuovo Piano paesaggistico vorrebbe rovesciare sull’isola e che porterebbe inevitabilmente nuove disgrazie, altri morti e una definitiva povertà economica e culturale. C’è il rischio di sentire di nuovo sindaci a favore dei venticinque campi da golf e dei milioni di metri cubi che gli sono collegati perché, dice l’attuale Presidente della Regione, non si possono lasciare senza un tetto i golfisti, come degli sfollati. Alla Sardegna servono club house.
Lo spieghino agli sfollati di Terralba, di Uras, di Olbia.
Oggi, a due giorni dalle elezioni, con un colpo di mano, il Presidente ha approvato il suo nuovo Piano paesaggistico bocciato da tutti, dal Ministero, dalle Associazioni, dai movimenti. Si gioca tutto, disperatamente. Sa che è illegittimo, ma se n’è impipato. Deve risposte ai suoi referenti. Qatar compreso. Però, esibendo la sua forza ha mostrato la sua debolezza e la sua vera sostanza politica.
Sapremo presto quale sentimento vincerà e quale idea di progresso prevedono i sardi per se stessi.
Il manifesto sardo online, 13 febbraio 2014
Come facilmente preventivabile, il Presidente della Regione autonoma della Sardegna Ugo Cappellacci vuole e pretende l’approvazione definitiva del “suo”stravolgimento del piano paesaggistico regionale prima delle elezioni regionali del 16 febbraio 2014. Magari al cospetto del suo sempiterno nume tutelare,SilvioBerlusconi, il prossimo venerdi 14.
Per questo, incurante delle conseguenze, forse anche di carattere penale, è disposto anche a commissariare il povero ing. Gianluca Cocco, Direttore del Servizio valutazione impatti (S.A.V.I.) della Regione che deve esprimere il necessario parere conclusivo della procedura di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), tuttora in corso e regolarmente nei termini (180 giorni).
Il suo stravolgimento del nostro (di tutti noi cittadini) piano paesaggistico regionale è già davanti alla Corte costituzionale, impugnato dal Governo per violazione delle necessarie e vincolanti procedure di co-pianificazione, come già la Corte costituzionale ha recentemente indicato proprio in riferimento alla Regione autonoma della Sardegna (sentenza n. 308/2013)(1), con buona pace dei soliti soccorritori dell’arbitrio regionale di sinistra, progressisti, ambientalisti, e chi più ne ha più ne metta.
E non finirà qui. Perché il “nostro” P.P.R., pur migliorabile in vari punti, tutela il “nostro” paesaggio e continueremo a difenderlo in tutte le sedi. Il ricorso è già pronto. Le modifiche della Giunta Cappellacci sono infatti un autentico stravolgimento, illegittimo perché in violazione del Codice del paesaggio. Quali sono? Eccole, in estrema sintesi:
- i fiumi e i torrenti ritenuti “irrilevanti” non sono inclusi, con le relative sponde, fra i beni paesaggistici;
- “negli ambiti di paesaggio, in qualunque articolazione del territorio disciplinata dal PPR, sono ammessi”interventi edilizi e ristrutturazioni con aumenti di volumetrie fino al 15 per cento;
- gli accordi Regione – Comune possono prevedere anche nelle aree tutelate per legge, nei beni paesaggistici, “nuove strutture residenziali e ricettive connesse ai campi da golf”;
- in via transitoria, fino all’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali al piano, sono realizzabili gli interventi edilizi di quel piano per l’edilizia parzialmente a giudizio davanti alla Corte costituzionale, come la legge sul golf e quella per la “svendita” dei demani civici;
- sempre in via transitoria, si applicano gli strumenti urbanistici attuativi in base ad accordi Regione–Comune, possono essere resuscitati i progetti edilizi “zombie”nei Comuni dotati di P.U.C. approvati in base ai vecchi e illegittimi piani territoriali paesistici, si possono edificare strutture residenziali in area agricola, possono esserci interventi di ristrutturazione/completamento degli insediamenti edilizi e ampliamenti volumetrici fino al 25 per cento delle strutture ricettive anche nella fascia costiera dei trecento metri dalla battigia.
Di fatto un vero e proprio far west nella parte più pregiata del territorio sardo. L’operazione spregiudicata e demagogica, effettuata a fini elettoralistici sotto le elezioni regionali, sarà giudicata sul piano giuridico.
Siamo in uno Stato di diritto, per fortuna. Sta, però, agli elettori sardi far sì che questa povera Isola non sia amministrata in questo modo scellerato per altri cinque lunghi anni.
«Si è costruito molto e in modo mediocre negli ultimi 30 anni. Un ciclo edilizio perpetuo, che neanche la crisi ha fermato, dove città e campagna si sono confuse». La seconda inchiesta sel manifesto sulle città d'oggi, 13 febbraio 3014
Sarà sembrata una città prestante quand’era racchiusa dalle mura, di cui resta qualche lacerto a certificarne il ruolo nel povero sistema difensivo della Sardegna, con tutti quei campanili e gli edifici adibiti funzioni di direzione e di servizio che l’hanno accreditata come capoluogo di una vasta provincia. Così qualcuno ci ha creduto, fino al XVIII secolo, che potesse contendere il primato a Cagliari, favorita dalla presenza stabile del vicerè. Non le manca l’impronta ottocentesca: i luccichii di un teatro, e poi un piano di ampliamento, progettato secondo i criteri collaudati in Terraferma, una sferzata di energia dopo il 1837. Un disegno buono per un secolo, cornice alle architetture in linea con il sentimento nazionale, e poi premessa alla città moderna, con lo sguardo rivolto ai migliori modelli.
La popolazione è cresciuta con un ritmo lento ma costante; per quanto afflitta dalla sovrabbondanza di indigenti alloggiati in case basse e malsane, una circostanza che suscita grande inquietudine dopo la tragica epidemia del 1855. Appena confortata dalla processione dei Candelieri che ogni anno a Ferragosto rinnova il voto contro la peste.
Preoccupazioni fondate; e infatti negli anni ’50 del Novecento si diffonde la Tbc con picchi di mortalità molto più elevati di quelli riscontrati fino a quel momento in Sardegna. Si spiega con l’indice di affollamento (fino a 10 persone/vano), la penuria d’acqua, le fogne inefficienti. Un’emergenza igienico-sanitaria che s’immagina di affrontare con la ricetta di Concezio Petrucci, autore del Piano regolatore generale fascista, facendo tabula rasa del vecchio centro. Con un’idea vaga sul trasferimento della popolazione. I meno abbienti allo sbando, o in lista per accedere al programma Ina-Casa nelle aree di Monte Rosello. I più fortunati impegnati da un po’ a mettersi in salvo, con mezzi propri, lontano dalle vecchie strade Purior hic aer è scritto sulla facciata di una casa, timidamente liberty, nel colle dei Cappuccini).
Si è formato così un pregiudizio, chiave di volta di una ideologia resistente: il nucleo antico causa di tutti i mali, infetto e insanabile. Che sottintende la rinuncia a prestargli cure; meglio amputare, come/dove capita, per ricostruire a piacere; applausi per chi concorre alla catarsi. Primo cimento: due palazzoni (grattacieli — li chiamano i sassaresi) che gettano la loro ombra ben oltre la piazza che a mala pena li contiene.
Una trasformazione fuori misura ma modello per altri interventi più moderati nei dintorni, eccitati dalla convinzione che la vita della città continuerà a svolgersi in quell’area circoscritta dove la borghesia più istruita e facoltosa esprime una multiforme vitalità (nella sede del Pci di Enrico Berlinguer o nella parrocchia di Francesco Cossiga).
Compattezza e frammenti
Non ci sono sintomi che facciano prevedere la dispersione dell’insediamento che si avvierà di lì a poco. Alla propensione secessionista obbedisce la pianificazione intrapresa nei primi anni ’50, attuata nel decennio successivo. Il più rilevante esito di quelle previsioni centrifughe è il quartiere marginal-popolare di Santa Maria di Pisa dove si relega quasi tutta l’edilizia economica dell’ultimo mezzo secolo. Una mossa esiziale per il disegno della città, impedimento per ogni futuro proposito di coesione sociale. A cui si somma lo sparpagliamento nel territorio agricolo di abitazioni unifamiliari su lotti di varia misura, e anche in questo caso i suburbi, più o meno laschi, sono connotati dalla omogeneità del reddito: a sud le ville dei più fortunati, a nord, lungo il percorso dell’antica strada reale, il regno di autocostruttori, spesso abusivi, tollerati dalle amministrazioni altrimenti chiamate a farsi carico di un vasto disagio abitativo.
La crisi del vecchio centro murato è evidente quando, nel 1983, è approvato il nuovo piano regolatore, compiacente verso ogni propensione alla crescita, soprattutto nelle forme più speculative. Dappertutto, e ancora in danno del paesaggio urbano: questa volta alla fisionomia modernista, con la serie di demolizioni di eleganti casette del primo Novecento sostituite da più vantaggiosi edifici multipiano.
Si è costruito molto e in modo mediocre e ovunque negli ultimi 30 anni, anche per rispondere alla immigrazione dai paesi. Non sarebbe difficile quantificare la crescita e preoccuparsi della sproporzione. Il patrimonio edilizio che nel 1919 è costituito da circa 2600 edifici — realizzato in 5–600 anni — è aumentato di almeno sei volte volte nel tempo breve di mezzo secolo (a cui non corrisponde un cosi importante incremento di abitanti). La estensione di territorio investito dal processo di urbanizzazione, fotografata nel passaggio di secolo, è almeno venti volte quello della struttura urbana com’era negli anni Cinquanta, con i suoi preziosi oliveti e orti a contorno.
«Predda Niedda»
Dopo il 1980 è già difficile capire dove finisce la città e comincia la campagna, ma pochi ci fanno caso. Prevale la convinzione che si tratti del metabolismo giusto. E neppure la crisi economica — dagli esordi alla maturità — spinge a riconsiderare la smisurata fiducia riposta nel ciclo edilizio perpetuo, anche da parte delle banche domestiche (quando fiducia sta per credito). Si preferisce conservare l’atteggiamento corrivo che ha contribuito alla graduale svalutazione della città imbruttita dall’ingordigia, e indifferente come altrove al rischio di una bolla immobiliare.
Il più grande errore? Un’area chiamata «Predda Niedda» (pietra nera), centinaia di ettari urbanizzati con denaro pubblico: una «zona industriale d’interesse regionale» (Zir), ma sono pochissime le manifatture in una moltitudine di ipernegozi e negozietti a contorno. Il bilancio: 172mq di superficie commerciale ogni 1.000 abitanti nel distretto sassarese, un rapporto molto più elevato delle medie nel Centro e nel Nord del Paese e che a Cagliari si ferma a 121 mq.
Questo schiacciante trionfo della grande distribuzione ha provocato lo scollamento tra residenze e attività commerciali, amalgama indispensabile per dare senso all’abitare. E quindi la crisi delle attività commerciali nella città compatta, che pensano di risollevarsi omologandosi agli standard e ai codici estetici di «Predda Niedda» premiata da una cangiante movida pomeridiana.
Un nuovo piano urbanistico è in costruzione da una decina di anni. Le previsioni dell’amministrazione di centrosinistra non hanno trovato il consenso della Regione. Il confronto sulle importanti censure è in corso, e non è facile prevederne gli esiti. L’impressione è che l’attività di pianificazione non sia stata accompagnata da un dibattito all’altezza delle attese. Così permangono sottovalutazioni, specie della città «sdraiata», della seconda Sassari dove abitano ormai 30mila cittadini, un quarto della popolazione. Una doppiezza inesplorata: da una parte la città densa con profili da strapaese; dall’altra lo strampalato blob che la accerchia, con le figure tipiche e gli svantaggi della metropoli dissipatrice, energivora, inquinante, disequilibrata e disequilibrante, iniqua. E sconveniente, perché questo modo di vivere ha già un costo insostenibile.
È urgente guardarla bene questa realtà, tutt’altro che fantasmatica: per accettarla senza subirne le scosse, e quindi per governarla. Andando oltre le definizioni spicce (come quella di non-luogo — uffa!).
Nel frattempo sarebbe opportuno smetterla di compromettere altro suolo. Riconsiderando la crescita proposta: un volume per oltre 30mila nuovi abitanti, inconciliabile con il previsto decremento di popolazione di 10mila nel 2030. L’estensione delle urbanizzazioni ad aree ancora libere renderebbe più marcate le distanze, accrescendo le esclusioni e le disuguaglianze.
Il manifesto, 13 febbraio 2014
Sulla campagna per le elezioni regionali di domenica prossima in Sardegna si staglia il fantasma minaccioso del Piano paesaggistico dei sardi (Pps) di Ugo Cappellacci. Il governatore uscente ha pronto un progetto che modifica sino a snaturarlo il Piano paesaggistico regionale (Ppr) approvato nel 2006 dalla giunta Soru. E vorrebbe farlo approvare dalla sua giunta prima di domenica. Un colpo di mano che serve a Cappellacci per tenere caldo uno dei due cardini sui quali ha appoggiato la strategia per la rielezione: lo smantellamento dei vincoli previsti dal Ppr, con il conseguente via libera alla ripresa della speculazione edilizia sulle coste. L’altro cardine è la zona franca. Cappellacci vorrebbe che tutta la Sardegna diventasse una free zone fiscale. Da un lato, quindi, più cemento, dall’altro meno tasse.
Sul tema ambiente lo scontro è aspro e ieri è arrivato sugli schermi televisivi durante il programma Mattino 5, del quale erano ospiti, con Cappellacci, Francesco Pigliaru, il candidato del centrosinistra, e Michela Murgia, alla guida della coalizione Sardegna possibile. Pigliaru ha difeso l’operato della giunta Soru, nella quale è stato assessore al bilancio e alla programmazione dal 2006 al 2006. «Negli anni tra il 2004 e il 2009 — ha detto Pigliaru — il centrosinistra ha fatto un lavoro straordinario per il territorio. Il Ppr è stato la salvezza del paesaggio, che è un bene fondamentale per il nostro sviluppo turistico». Dopo l’annuncio di Cappellacci, durante il confronto di lunedì scorso in Confindustria a Cagliari, di voler commissariare il servizio di valutazione ambientale della Regione Sardegna che non ha ancora espresso il parere sul Pps previsto dalle procedure amministrative, Pigliaru ha attaccato frontalmente il governatore uscente: «Non è contento di aver commissariato tutto: i consorzi di bonifica, le agenzie, le province, le Asl, dicendo che avrebbe fatto le riforme; ora addirittura vuole commissariare dirigenti e funzionari che rispettano appieno le procedure previste dalla legge e giustamente non rispondono ai suoi ordini. Non si sogni di creare questo caos istituzionale per la sua propaganda; se deve fare campagna elettorale appenda manifesti, ma non usi le istituzioni e non si permetta di stravolgere il diritto dentro le istituzioni».
Davanti alle telecamere, incalzati su trasporti e tutela del paesaggio i tre candidati non hanno risparmiato reciproche frecciate. Sui trasporti Cappellacci ha nuovamente attaccato Murgia, ripetendo l’accusa secondo cui la candidata di Sardegna possibile avrebbe «l’appoggio di armatori privati», mentre la scrittrice ha ripetuto che «di queste affermazioni il presidente risponderà davanti ai tribunali». Pigliaru ha invece attaccato Cappellacci, che con i soldi pubblici ha creato una compagnia di navigazione della Regione Sardegna, sulla privatizzazione della Tirrenia, affermando che «la Regione non è stata presente al tavolo nazionale al quale si decideva la partita», di fatto lasciando via libera agli armatori privati. Sul fronte della tutela del paesaggio e del rischio idrogeologico Murgia ha puntato il dito sia contro il centrodestra sia contro il centrosinistra «che difendono gli stessi interessi immobiliari», ricordando che «la Giunta Soru è caduta sul tema urbanistico». In difesa del Ppr si è schierato il segretario regionale del Pd, Silvio Lai: «Approvare la revisione del Piano paesaggistico, per di più con un atto di forza nei confronti dei funzionari regionali, è da irresponsabili. Cappellacci gioca cinicamente la sua partita elettorale, sparando cartucce a salve e sapendo bene che sta approvando un atto senza alcuna efficacia». «L’unico effetto che sortirà — ha aggiunto Lai — sarà quello di creare confusione per chi lavora negli uffici tecnici comunali, dove non sapranno se attenersi al Ppr in vigore o a quello di Cappellacci, che nasce in pieno contrasto con il ministero dei beni culturali e che serve solo per far dire al presidente uscente che almeno una cosa di quanto promesso cinque anni fa in campagna elettorale è stata fatta»
Condono ambientali, patto del diavolo con gli inquinatori, coperto in extremis con la solita pelle d'agnello. Il manifesto, 12 febbraio 2014
Le imprese potranno compensare per il 2014 le cartelle esattoriali con i crediti verso la pubblica amministrazione; il fondo centrale delle Pmi potrà prestare garanzia anche per le società di gestione del risparmio; i soldi per i bonus libri erano troppo pochi e quindi sono diventati credito d’imposta per i librai, ma soprattutto l’articolo quattro ribattezzato sul Web come «condono ambientale». Tutto questo è il decreto Destinazione Italia approvato ieri alla Camera con 320 sì e 194 no (1 astenuto) che entro il 21 febbraio dovrà diventare legge al Senato, pena la decadenza. Per cui sembra più che probabile il ricorso alla fiducia. Un decreto che ha stralciato diverse norme rispetto al testo licenziato dal Consiglio dei ministri ma che conserva comunque numerosi articoli molto contestati.
Uno su tutti proprio l’articolo 4 che nel testo originario sembrava scritto per favorire le aziende inquinanti. In extremis ieri pomeriggio è arrivata una modifica voluta dal deputato Pd Ermete Realacci che ha comunque lasciato aperti numerosi dubbi. Per affrontarli ieri sono arrivati a Roma i comitati ambientalisti provenienti da tutta Italia e la Rete dei comuni Sin, i Siti di interesse ambientale, cioè i buchi neri d’Italia, i territori più inquinati del Paese.
L’articolo prevede che qualsiasi azienda responsabile di aver inquinato un determinato territorio (dall’Ilva di Taranto all’Eni di Porto Torres all’Enel di Porto Tolle, alla Caffaro di Brescia, c’è solo l’imbarazzo della scelta) potrà, grazie a questo articolo, stipulare un accordo con lo Stato e ricevere finanziamenti pubblici (la quantità non è specificata) per la riconversione industriale dei siti. Inoltre – questo è il punto che ha subito una modifica – era previsto un condono delle responsabilità per le aziende che sottoscrivevano l’accordo. I soldi sarebbero serviti per l’ammodernamento aziendale o per le bonifiche.
«Salta il principio europeo del “chi inquina paga” – ha detto Mariella Maffini, assessore all’ambiente di Mantova e coordinatrice della rete dei comuni Sin – è come scendere a patti col diavolo». Gli ambientalisti promettono dieci giorni di lotta in piazza mentre i sindaci affilano le armi per presentare un ricorso alla Commissione europea. «L’articolo deve essere cancellato, senza modifiche», hanno detto in coro. La risposta è stata indiretta, ma senza dubbio era inviata al presidente onorario di Legambiente Realacci che, in contemporanea con la conferenza stampa, faceva sapere in una nota di aver modificato l’articolo in questione.
Con il nuovo testo – poi votato – si prevede che il condono delle responsabilità possa avvenire, ma solo dopo che l’Arpa abbia accertato «l’avvenuta bonifica e messa in sicurezza dei siti». C’è scritto così: bonifica e messa in sicurezza, come se non fossero due azioni che si eliminano a vicenda. E poco importa se Realacci ha anche precisato che i soldi ricevuti dallo Stato dovranno essere spesi per l’impianto industriale e non per le bonifiche, di competenza delle aziende responsabili del danno.
I Sin sono 39. Rispetto a un anno fa sono 18 in meno: con un decreto del governo Monti, zone che vanno da La Maddalena alla Valle del Sacco inclusa anche la Terra del Fuoco sono stati «declassati», divenuti Sir, siti di interesse regionale. La competenza della bonifica spetta alle regioni. Contro questo decreto sono scese in capo anche le associazioni che lo hanno impugnato al Tar. Insomma, un pasticciaccio contro il quale meditano guerra gli ambientalisti.
«Occuperemo le piazze, saranno dieci giorni di battaglie», assicura Egidio Giordani, portavoce del comitato stop biocidio della Campania, forte della manifestazione che il 16 novembre scorso ha portato in piazza a Napoli circa centomila persone. I sindaci si muovono su un piano più istituzionale, preparando il ricorso alla Commissione europea perché, sostengono, anche in questa ultima accezione modificata è saltato il principio valido in tutta Europa del «chi inquina paga».
Benefattori della cultura o commensali?
I dettagli della cena che ha fatto infuriare la sovrintendenza
di Elisabetta Ambrosi e David Perluigi,
Qualunque visitatore che oggi entri al Metropolitan di New York può apprezzare i magnifici mazzi di fiori che adornano la sala principale. Un legato testamentario di una signora che ha voluto donare a tutti un piccolo dettaglio di bellezza. Se oltreoceano il mecenatismo ha ancora qualche legame con l’antico significato di colui che aiuta gli artisti ridotti alla fame – o comunque i musei – ad esempio donando con discrezione una collezione privata – da noi il mecenate è l’invitato del salotto buono alla cena “cafona”, stile Grande Bellezza. Che si affitta nientemeno la Galleria Borghese, a Roma, uno dei più bei musei del mondo, utilizzandone l’esterno per una cena sotto enormi en dehors (d’altronde ne è piena la Capitale), di ferro e plastica. Con tanto di cucina abusiva e di danni ai basamenti di tufo del piazzale, denunciati da un furioso Sovrintendente capitolino, che ha preso carta e penna per scrivere al competente Soprintendente del ministero dei Beni culturali.
3 febbraio scorso: sotto gli enormi gazebo – anzi, pardon, sotto il jardin d’hiver firmato dall’esperto di allestimenti Jean Paul Troili – va in onda una cena a tema immortalata da un video esclusivo che pubblichiamo oggi su ilfattoquotidiano.i . Quale il leitmotiv? L’ineffabile agitazione vitale dei ritratti dello scultore Giacometti, la cui mostra veniva inaugurata proprio quel giorno? O il Caravaggio tormentato e ascetico del San Girolamo, presente in Galleria? Macché. Per la cena barocca e dall’età media avanzata meglio ispirarsi alle nature morte del Merisi, opulente solo per chi non sa leggerne la decadenza raccontata dai frutti imprecisi.
Ad affollarsi intorno ai centrotavola con uva e melograni, trecento soliti arcinoti, questa volta in veste di novelli mecenati dell’associazione onlus “Mecenati per Roma”, presieduta da Maite Carpio: produttrice e già finanziatrice di Sant’Egidio, ex veltroniana, già nel Cda dell’Opera di Roma, soprattutto sposata con Paolo Bulgari (a sua volta sostanzioso donatore dell’Accademia di Santa Cecilia).
Invitati? Oltre all’esuberante direttrice della Galleria Anna Coliva, insignita della Légion d’Honneur dall’ambasciatore di Francia Alain Le Roy, lo stesso Alain Le Roy, Gianni Letta, ça va sans dire, (“Stasera vi dovete accontentare dello zio”), i principi Ruspoli, Gaetano Caltagirone, Paolo Scaroni e Fulvio Conti, Sonia Raule, Ferdinando Brachetti Peretti e Rosi Greco, Ginevra Elkann e marito, Luigi Abete, Carlo e Lucia Odescalchi. E poi i fondatori-dei-mecenati Jacaranda Caracciolo Borghese, Silvia Venturini Fendi e Miuccia Prada, il sottosegretario al Mibac Ilaria Borletti Buitoni, Carlo e Lisa Vanzina, Joaquin Navarro Valls, l’Ambasciatore d’Israele Naor Gilon, gli immancabili coniugi Bertinotti e la presidente del Maxxi Giovanna Melandri, apprendista-Coliva del mix pubblico privato all’italiana.
In questa vicenda in cui, al solito, la sensibilità culturale si traduce in spaghettata tra potenti, ci sono vari aspetti. I danni, anzitutto, riportati da una dettagliata relazione della Sovrintendenza capitolina, allertata – insieme alla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico per il Polo Museale della Città di Roma e alla Sovrintendenza ai Beni culturali – dal presidente del II municipio Giuseppe Gerace. Come riportato sulle pagine romane di Repubblica , oltre ai danni al piazzale, nella relazione del Sovrintendente Claudio Parisi Presicce, è stato evidenziato come vi fosse addirittura una cucina mobile montata senza autorizzazione, così come la tensostruttura collegata al padiglione principale del museo. Anche se le normative spiegano che l’autorizzazione è concessa solo se le strutture utilizzate “sono posizionate a distanza dalle emergenze monumentali e non coinvolgano le alberature e gli arredi presenti in loco”. Ma c’è, soprattutto, una gigantesca questione di stile. Non si poteva, ad esempio, fondare prima l’associazione, di cui non c’è praticamente traccia in rete, e renderla operativa (ad oggi c’è solo una vaga idea di finanziamento per vaghi studi su Caravaggio), invece di buttarsi subito sul magna magna? “Perché rinfocolare l’odio di classe, quando la charity è diffusa in tutto il mondo? Perché alzare i forconi del populismo se il pubblico può esistere solo col Privato”, ha scritto un’indignata Paola Ugolini. Glielo diciamo noi: in Francia fanno pure i bed and breakfast nei consolati, per racimolare fondi. Ma i tubi innocenti e i tiranti legati alle statue del Bernini, fossero anche copie fatte nella Silicon Valley, sono tutt’altra cosa. Perché l’immagine che si dà ai cittadini impoveriti è indelebile: mentre i ricchi si comprano pure la bellezza, il beneficio di tanta “eccellenza” sembra arrivare più alle persone coinvolte che a quelle istituzioni che si vorrebbe difendere dai tagli.
La posta in gioco, materiale e simbolica, del padiglione per feste montato accanto alla Galleria Borghese si comprende guardando alle mille altre situazioni analoghe (anzi, per la verità, assai peggiori) che costellano l’Italia: dalle auto da corsa che rombano nel Teatro Greco di Siracusa ai Masai fatti sfilare agli Uffizi nell’ambito di una sfilata di moda con annessa cena esclusiva; dalla festa di capodanno all’Archivio centrale dello Stato alle partite di golf disputate nelle sale di lettura di una Biblioteca Nazionale, fino al Ponte Vecchio noleggiato alla Ferrari da Matteo Renzi.
Anni e anni di sistematico e pianificato massacro dei bilanci degli enti locali e del ministero per i Beni culturali inducono sindaci, assessori e direttori di biblioteche e musei a far qualche soldo attraverso la privatizzazione temporanea dei loro gioielli. Come ha detto la direttrice della Borghese: “Senza risorse, è l’unico modo di mantenerci”. Ma la prostituzione per indigenza è il modo peggiore per rapportarsi agli interessi privati che chiedono di legittimarsi attraverso l’appropriazione dello straordinario spazio pubblico del nostro patrimonio. E, infatti, in nessun paese del mondo l’apporto dei privati è necessario per garantire la sopravvivenza delle istituzioni culturali pubbliche: perché un simile situazione di ricatto genera necessariamente sudditanza, svendita dei beni comuni, arbitrio.
Se invece lo Stato facesse la sua parte – e cioè se destinasse alla cultura almeno il 3% della spesa pubblica (la media europea è il 2,2, in Spagna è del 3,3: da noi dell’1,1) – potrebbe poi decidere da una posizione di forza quali contropartite eventualmente concedere ai privati.
Nel frattempo, sarebbe vitale che il ministero per i Beni culturali facesse rispettare le regole: perché se è vero che dalla pessima legge Ronchey (1993) i privati possono, in vario modo, “entrare nei musei”, il Codice dei Beni culturali (2004) prescrive che “i beni culturali non possono essere ... adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione”. E i pregiudizi possono essere elevatissimi: nel 1997 abbiamo perduto per sempre la più bella architettura barocca italiana, la torinese Cappella della Sindone, distrutta da un incendio scoppiati dalle cucine provvisorie installate negli adiacenti locali del Palazzo Reale in vista di una cena offerta da Lamberto Dini e Gianni Agnelli a Kofi Annan. Ma c’è un rischio anche più grande: trasformare il patrimonio culturale – che la Costituzione vuole al servizio del pieno sviluppo della persona umana e della costruzione dell’uguaglianza sostanziale – in un potente fattore di legittimazione della disuguaglianza, del dominio del mercato, dell’arbitrio assoluto di una ricchezza disonesta, ignorante, grottesca. Trasformare uno strumento di inclusione in una location esclusiva sarebbe letale: la grande bellezza non sopravvive alla grande ingiustizia.
Ancora una denuncia dei risultati di decenni di malgoverno del territorio. Peccato che si cerchino le soluzioni nei pannicelli caldi, e che nel proporre le risorse necessarie si dimentichino possibili cespiti come la riduzione delle spese militari e il prelievo dei plusvalori delle rendite finanziarie e immobiliari. l'Unità, 10 febbraio 2014
Diciamoci una molto scomoda verità: mai come in questi mesi inseguiamo i disastri senza avere a disposizione,come ormai da quattro anni, leve per gestire le emergenze e azionare quella politica di prevenzione che servirebbe da decenni al nostro Paese. Frane e alluvioni hanno messo in ginocchio centinaia di migliaia di italiani, migliaia di aziende, infrastrutture fondamentali, siti archeologici; bloccano linee ferroviarie verso la Francia, l’Austria, e in diverse Regioni dalla Porrettana alla Siena-Grosseto alle ferrovie calabresi. Gli eventi si aggiungono e si sovrappongono ai precedenti disastri con effetti drammatici: dal 1950 ad oggi abbiamo contato 5.459 vittime, 88 morti l’anno, e oltre 4.000 fenomeni idrogeologici devastanti, ma solo negli ultimi 12 anni hanno perso la vita 328 persone e dai 100 eventi l’anno registrati fino al 2006 siamo passati al picco di 351 del 2013 e ai 110 nei primi venti giorni del 2014.
Il danno economico per lo Stato è una voragine: dal dopoguerra ad oggi, stacchiamo ogni anno un assegno di circa 5 miliardi per riparare i danni e senza fare un passo avanti per prevenirli, anzi con incredibili salti indietro visto il consumo del suolo da record mondiale che ha reso i nostri territori talmente fragili che franano, crollano e si allagano con un ritmo impressionante e direttamente proporzionale al livello di dissesto. Il riscatto della politica doveva e poteva passare dalla Legge di Stabilità 2014, ma l’obiettivo è fallito miseramente fra troppe disattenzioni e la scure della Ragioneria di Stato e del Ministero delle Finanze, con il Parlamento che dal piano di 900 milioni l’anno proposto dal ministro Orlando, scesi a 500 proposti all’unanimità dalla Commissione Ambiente della Camera presieduta da Ermete Realacci, ha fatto crollare l’investimento più utile e urgente ad appena 30 milioni per l’anno in corso più altri 50 per il 2015 e altri 100 per il 2016.
Il nulla, di fronte al dissesto nell’81,9% dei 6.633 Comuni, dove vivono 5,8 milioni di italiani (il 9,6% della popolazione nazionale, con 1,2 milioni di edifici, decine di migliaia di industrie e un patrimonio storico e culturale inestimabile). È questo il momento di crederci e fare sul serio. Abbiamo il dovere morale prima che politico di far partire finalmente quel piano di difesa del suolo, ma nelle prossime settimane e mettendo la parola fine all’incuria cronica e al dominio della burocrazia che vede nemmeno il 4% degli interventi anti-dissesto finanziati negli ultimi 4 anni conclusi e 1675 interventi sul territorio italiano con 1.100 cantieri fermi. Mentre l’Italia cade a pezzi si aprono tavoli, concertazioni e spesso si aspettano firme, timbri e progettazioni.
Ci sono tutte le condizioni per crederci e stabilire un programma serio e coraggioso, in cima al patto di governo, per portare sicurezza a milioni di italiani guardando ai rischi futuri del global warming con scenari non più sottovalutabili, avviando uno sforzo gigantesco e quasi da New Deal. Ci sarebbe anche un motivo economico e di risparmio: un euro speso in prevenzione fa risparmiare fino a 100 euro in riparazione dei danni.
Come è possibile? Intanto con una nuova definizione istituzionale delle competenze per sbloccare le opere ferme con competenze di cassa e dire finalmente basta alla fitta giungla burocratica di 3600 enti e soggetti e centri decisionali spesso sovrapposti e contrapposti che si occupano a vario titolo di dissesto idrogeologico, alle prese con 1300 norme leggi e regolamenti statali e regionali emanate dopo la legge quadro del 1989. È diventato un altro argine alla prevenzione. Si può agire con modalità diverse: costituendo un Fondo nazionale e dedicando allo scopo una robusta Struttura di Missione come quella esistente (ed efficiente) del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, e inserendo tutte le opere in Legge Obiettivo per snellire le procedure (anche di VIA), agevolando progettazioni e direzioni lavori anche attraverso i Provveditorati alle Opere Pubbliche; creando una Agenzia nazionale o utilizzando la stessa Protezione Civile che negli ultimi anni è stata largamente depotenziata. Sarebbe persino possibile gestire risorse fuori dal Patto di stabilità per la prevenzione. Anzi, i vincoli potevano già essere sforati ma il tema non è mai stato oggetto di negoziazione con l’Europa, disposta a darci una mano e frenata dal governo tecnico di Monti, come conferma l’ex ministro Clini.
L’Europa, infatti, dovrebbe permetterci di sforare in presenza di un progetto serio, con procedure attentamente vigilate dall’Europa per evitare nuove cricche e vergognosi scandali. Altre due leve da azionare subito sono poi quelle dei Fondi europei 2014-2020 per ritagliare una quota dei 57 miliardi co-finanziati e l’utilizzo del Fondo Revoche (di opere e interventi fermi e non realizzabili).
Si può anche discutere seriamente sul prelievo di una quota di scopo aggiuntiva dalle tariffe idriche visto che le aziende sono tutte di proprietà e controllate dai Comuni: basterebbero solo 2 euro in più a bolletta per garantire circa 1 miliardo l’anno. È l’ora di introdurre anche un’assicurazione obbligatoria per la copertura dei rischi, e rafforzare il divieto di ogni uso del suolo nelle zone classificate a rischio idrogeologico molto elevato. L’unica certezza è che non possiamo più né star fermi, né rinviare, né piangere lacrime di coccodrillo. Perché nessun Comune è oggi in grado di misurarsi da solo con eventi che un tempo avevano cadenza duecentennale e oggi sono disastri ordinari.
Una grande opera di manutenzione e tutela dell'ambiente e del territorio di iniziativa e gestione statale secondo il modello sperimentato tra le due guerre, per il rilancio dell'occupazione. L'ennesima voce autorevole che racconta invano ai decisori come si dovrebbe lavorare per uscire dalla crisi. Ma hanno le orecchie tappate, od occupate da tintinìi.. Il manifesto, 7 febbraio 2014
Come scritto da Luciano Gallino nel suo libro Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa (Einaudi 2013), esistono quattro vie per creare occupazione: la prima quando sono realizzate grandi invenzioni come accaduto con l’avvento dell’automobile o con l’innovazione tecnologica; la seconda quando vi è un aumento di spesa pubblica per la realizzazione di grandi opere o la spesa in armamenti; la terza mediante la creazione diretta di posti di lavoro da parte dello Stato; la quarta attraverso politiche fiscali per incentivare le assunzioni o stimolare i consumi. Purtroppo la prima strada nel contesto odierno non è attuale; la quarta strada, quella delle politiche fiscali si è dimostrata sovrastimata, e, in ogni caso, non ha prodotto i benefici sperati; la seconda strada ha dimostrato di essere efficace, ma c’è da augurarsi che vengano sempre più ridotti gli investimenti nell’industria bellica.
La terza strada, quella che vede lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza, ha base teoriche molto approfondite ed è in grado di creare occupazione in tempi rapidi, anche in una situazione di recessione.
La nostra proposta individua una soluzione alla disoccupazione indicando lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza attraverso la creazione di un Programma nazionale sperimentale di interventi pubblici. L’obbiettivo che ci proponiamo e di creare almeno 1,5 milioni di posti di lavoro, sostenendo un occupazione produttiva e un lavoro dignitoso. Il Green New Deal dovrebbe essere realizzato da tutte le amministrazioni dello Stato e dagli enti locali per realizzare interventi nei settori della protezione del territorio, per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico; per bonificare e riqualificare tutte le aree del territorio nazionale; per recuperare, mettere in sicurezza e valorizzare edifici scolastici, ospedali, asili nido pubblici e il patrimonio immobiliare pubblico da destinare a prima casa e iniziative di cohusing e coworking; per incrementare l’efficienza energetica e ridurre i consumi per gli uffici pubblici; per recuperare e valorizzare il patrimonio storico, architettonico, museale archeologico italiano; per recuperare dall’inquinamento fiumi, aree paludose, spiagge e coste, con interventi che prevengano i disastri ambientali ricorrenti a cui anche in queste settimane sono state esposte vaste zone del paese.
Per realizzare questi interventi, il programma si prefigge l’obiettivo, nel triennio 2014–2016, di occupare 1,5 milioni di lavoratori tra le persone inoccupate, disoccupate o occupate in cerca di altra occupazione, qualora il loro reddito sia al di sotto di 8 mila euro. In tre anni ipotizziamo di destinare circa 29 miliardi di euro, recuperati prevalentemente attraverso il taglio per le spesa degli F35, una tassa sulle transazioni finanziarie e un utilizzo a nostro avviso più efficace delle poche risorse destinate al cuneo fiscale. Per creare più occupazione, i lavori creati dovrebbero essere a orario ridotto e le categorie svantaggiate dovrebbero avere una priorità di assunzione. Il governo italiano, poi dovrebbe, secondo i nostri propositi, chiedere che non vengano considerati aiuti di stato tutti gli interventi finalizzati a combattere la disoccupazione. Un piano straordinario per il lavoro, un Green New Deal per l’Italia che sia anche una proposta per un New Deal Europeo, per un’altra Europa capace di sostituire i vincoli di bilancio in costituzione con il contrasto alla disoccupazione e il diritto al lavoro per tutti i cittadini europei.
Dopo oltre trent'anni di veleni e morti «per far emergere verità inoppugnabili, c’è stato bisogno dell’intervento della magistratura che ha riconosciuto colpevoli i massimi dirigenti dell’Enel. Left, 8 febbraio 2014
Parallelamente, le ragioni dei cittadini inquinati costituitisi parti civili sono state verificate da una scrupolosa pubblico ministero, Emanuela Fasolato, che, sulla scorta di studi epidemiologici delle Asl e dei consulenti del tribunale, ha chiesto il riconoscimento del nesso causale tra inquinamento dell’aria e patologie respiratorie riscontrate specie sui bambini, oltre ad una mortalità in eccesso per tumore su tutte le fasce della popolazione.
Tutti d'accordo, nel comune governato dal "centrosinistra", nel regalare all'Ente Porto e allo sviluppo insensato del turismo "mordi e fuggi" una vasta area di Venezia. Un'argomentata denuncia di Italia nostra, e non solo.
Proprio oggi il Senato della Repubblica, non - con tutto rispetto - una bocciofila, ha approvato un Ordine del Giorno che impegna a valutare in alternativa le proposte e ha indicato le procedure. Bocce ferme e approfondimento di conoscenze! Informazioni da offrire a tutti i cittadini perché valutino la scelta finale in ragione delle compatibilità ambientali, dell’occupazione, dell’efficienza, degli inquinamenti, dei tempi di realizzo, della reversibilità degli interventi, del numero dei giorni di chiusura del MoSE per l’innalzamento del mare Adriatico, ecc. Un modo serio e responsabile per prendere decisioni, storiche perché condizioneranno la città per decenni. Ma coloro che ancora oggi pensano che basti nascondere il dito che ruba la marmellata nel vasetto per essere salvi (sono gli stessi che lo hanno già fatto per l’approvazione del MoSE, capovolgendo allora il mandato ricevuto del Consiglio Comunale), hanno optato per un’azione che modifichi, prima che sia troppo tardi, i rapporti tra i poteri. Chi potrà mai ristrutturare funzionalmente e urbanisticamente la Marittima per adattarla a navi compatibili, ad altri tipi di natanti, ad altri utilizzi dei territori liberati per funzioni essenziali per la città, quando “si è già investito tanto!” viene detto e ora quel “tanto” viene rafforzato con l’accordo sotto-banco, delegando a un Porto, che con le sue politiche non si è mai confrontate con la città, altri poteri rappresentati dalla conferma per sempre in quelle aree delle funzioni portuali che oggi il PRG nega: per decidere strategie il Piano Regolatore Portuale deve essere fatto assieme al Comune e quello esistente è del 1904!
Ma, come tutti gli imbrogli, questo che cerca di rendere irreversibile un Porto con le caratteristiche attuali in Marittima, comporta una decisione negativamente storica: la totale cancellazione del PRG vigente in tutta l’area (a Venezia non era mai successo) e la vanificazione delle promesse di partecipazione che tre Assessori (Urbanistica, Lavori Pubblici e Mobilità) avevano fatte nelle due partecipatissime assemblee pubbliche del marzo 2013 proprio a Santa Marta (questo a Venezia succede spesso).
Il PRG vigente pone al centro delle trasformazioni il quartiere urbano di S. Marta, si, quello per il quale Costa ha pubblicamente affermato che il quartiere, non il megaporto attuale, è oggi nel posto sbagliato!
Il Piano prevede di scavare, in prosecuzione del canale di S. Maria Maggiore, un nuovo canale fino alla Scomenzera e di aprire Santa Marta integrandolo all’intera area Italgas con affaccio sul canale della Scomenzera in un grande verde pubblico attrezzato, con strutture culturali, sportive e ricreative recuperate dagli edifici di archeologia industriale e da quelli lungo il rio di S. Maria Maggiore (60.000 mc. in totale) e a sud 50.000 mc. di nuova edilizia residenziale per le fasce più deboli della popolazione. Sul canale della Giudecca, da San Basilio alla Scomenzera, la formazione di un parco pubblico affacciato sull’acqua con l’abbattimento senza ricostruzione della lunga stazione passeggeri e delle due file di capannoni lungo la riva di Santa Marta: in concreto la Zattere dalla Punta della Salute alla Scomenzera! Le aree sono demaniali in concessione al Porto ma bloccate con queste destinazioni per cui il Porto non le può trasformare ma, con una Marittima ristrutturata per le navi compatibili ed il diporto, che abbisogna di superfici diverse e che non si espande fuori dal proprio perimetro, possono arrivare al Comune tramite il Demanio Pubblico.
L’Accordo di Programma annulla tutto ciò, cambiando le destinazioni rende definitiva la presenza del Porto al di fuori della Marittima, rende impossibile un recupero di Santa Marta fino all’acqua ed addirittura, lungo la Scomenzera, attribuendo al Porto l’area dei binari la cui proprietà è reclamata anche delle FF.SS, gli permette di edificare, sempre fuori della Marittima 40.000 mc. di attrezzature portuali. Concede tutta l’area d’angolo tra Scomenzera e canale della Giudecca per una nuova stazione passeggeri (2.500 mq.) e parcheggio a raso o in elevazione, rinchiudendo nuovamente l’affaccio della chiesetta e rendendo definitivamente impossibile la passeggiata nel parco sull’acqua in prosecuzione delle Zattere ma, in compenso, tramite un nuovo ponte sulla Scomezera tutti i turisti si potranno riversare nella città ma soprattutto servirsi del tram.
Appunto, e il tram? Questo trenino rosso si staccherà dal Ponte della Libertà e arriverà fino a San Basilio con una fermata a S. Marta ma passerà ora su terreni definitivamente del Porto che pure lo realizzerà: il Comune dovrà pagare per 40 anni un canone annuo di 200.000 €.
Per mantenere la grandi navi in laguna, la città viene privata di tutte le trasformazioni attese per anni. Con la scusa del Tram (il cui servizio avrebbe potuto realizzarsi diversamente sull’altro lato della Scomenzera, visto che essenzialmente servirà ai croceristi portuali, o fermarsi alla fine della Scomenzera come si chiedeva a Santa Marta, il Comune si indebita per 40 anni; la Marittima sarà ancora più difficilmente trasformabile non liberando aree ma sottraendole alla città; S: Marta rimarrà per sempre chiusa tra muri; i cittadini con queste procedure approvative, saranno ridotti al ruolo di spettatori.
Il Sindaco Orsoni saprà svelare l’inganno, come Cacciari, nel gioco delle tre tavolette o il vero trucco è che sono tutti d’accordo?
«Dagli anni Novanta la città e l’hinterland stanno subendo un cambiamento epocale, spinto da deregulation e appetiti speculativi. Rispetto al quale l’attuale giunta non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta. Il banco di prova sarà la gestione del post Expo nell’interesse collettivo».
Il primo di una serie di articoli che il giornale ha programmato per comprendere qual'è il risultato d'un trentennio di neoliberalismo in salsa italiana nelle nostre città. Il manifesto, 6 aprile 2014
Milano, che come molte grandi città del mondo occidentale ha subìto dagli Anni Novanta un cambiamento epocale tuttora in corso, sotto la spinta di un mutamento del modello produttivo caratterizzato dall’abbandono delle collocazioni urbane delle grandi fabbriche, delle infrastrutture di trasporto e distribuzione delle merci e delle grandi attrezzature istituzionali (caserme, mercati generali, fiere, ecc.) sostituite da residenze, uffici e grandi centri commerciali, ha da tempo ed ampiamente utilizzato tutte le possibilità consentite dagli strumenti di pianificazione negoziata (Accordi di Programma con la Regione e altri enti pubblici e privati, Programmi Integrati di Intervento per lo più proposti da privati) introdotti dal 1992 in poi, per imprimere nelle grandi trasformazioni urbane derivanti dal riutilizzo di aree dismesse dall’uso produttivo o da servizi tecnologici ampie modifiche di destinazione funzionale e quantità edificatorie rispetto alle previsioni del proprio Piano Regolatore, fissandole arbitrariamente sulla base delle convenienze economiche derivanti ai futuri realizzatori immobiliari dal prezzo della rendita fondiaria attesa dalla proprietà dell’area, anziché da un ragionamento di congruenza ad un progetto urbanistico di città civilmente pensata.
Questo quadro di derelogazione normativo-legislativa e di crescente aggressività dell’iniziativa immobiliare, passata dal circuito fondiario-edilizio a quello della grande finanza che la salda alla fase di riorganizzazione produttiva, ha caratterizzato la cosiddetta politica del “Rinascimento Urbano” perseguita dalle Giunte Albertini/Lupi (1997-2006), prima, e Moratti/Masseroli (2006-2011), poi, che ha costellato tutte le aree dismesse della città di tipologie edilizie estremamente concentrate in altezza e in molti casi con quantità doppie o triple di quelle programmate in precedenza e che, quindi, hanno reso ridicolmente insufficiente il 50% a verde, spesso sbandierato come grande conquista
In questa visione, ogni tentativo di porre limiti ed indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città è stato considerato un’indebita intromissione nelle “magnifiche sorti e progressive” che le forze economiche e finanziarie stavano attuando con la trasformazione delle città, e per la quale ritenevano propria legittima prerogativa non solo proporre quantità e funzioni secondo una propria valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta stimate e una docile adattabilità alle loro eventuali fluttuazioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione atteneva più al carattere della riconoscibilità del marchio o della pubblicità aziendale, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto urbano in cui si collocava l’intervento.
Una fase rispetto alla quale l’attuale Giunta Pisapia/De Cesaris non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta, subendo passivamente l’attuazione dei progetti già avviati sulle principali aree di trasformazione urbana (ex Fiera Citylife, Centro Direzionale/Porta Nuova/Garibaldi/Repubblica), e in prospettiva sugli scali ferroviari dismessi, sulle ex caserme, sul riuso delle aree dopo l’EXPO 2015, limitandosi a ridimensionare, ancorché sensibilmente, le quantità edificatorie del Piano di Governo del Territorio (PGT) adottato dalla precedente Giunta di centro-destra, senza però riuscire a cambiarne il carattere liberista e privo di indirizzi strategici, impressogli anche da una dirigenza tecnica avvezza ad essere succube degli interessi privati, quando non apertamente collusa, e che non si è avuto la forza e la volontà di avvicendare.
D’altra parte, sotto l’incontenibile appetito di oneri urbanizzativi per tamponare le contingenti esigenze di bilancio, del tutto analogamente si stanno orientando molte amministrazioni comunali dell’hinterland, tra cui l’amministrazione di Sesto San Giovanni, storicamente di sinistra, che nel riuso delle aree dell’ex acciaieria Falck, aderisce a un progetto di Renzo Piano proposto dalla proprietà dell’area con indici edificatori, tipologie e funzioni pressoché identiche a quelle avallate dalle Giunte di centro-destra a Milano.
Molti hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che le scelte in corso a Milano e nell’hinterland segneranno il destino urbanistico dell’area metropolitana per i prossimi venti-trent’anni: non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e di dubbia legittimità, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni dei PGT di Milano ed hinterland cesseranno di avere effetto verso il 2016-2018, giusto all’indomani della conclusione del mitizzato evento di Expo 2015.
E’ forse per questo che attorno alle aree di Expo 2015 gli appetiti speculativi sull’uso finale dell’area (che se resa edificabile potrebbe rendere alla proprietà circa 700 milioni di Euro, dopo essere stata acquisita da Fondazione Fiera a prezzi agricoli per circa 60 milioni di Euro e rivenduta alla newco regionale Arexpo a 200 Milioni di Euro) e che hanno aleggiato a lungo nella sotterranea contesa tra i potentati di CL, della Lega e delle Coop, tornano oggi a rispuntare.
Per quanto grande possa essere il potere di convincimento/condizionamento di una Regione Lombardia persistentemente amministrata dal centro-destra (Formigoni, poi Maroni), nell’ Accordo di programma sull’evento Expo 2015 la decisione sull’uso finale delle aree dopo l’evento resta in capo al Comune di Milano, che, dopo aver scelto la linea minimalista di riduzione del danno nell’approvazione del PGT, ora dovrà finalmente esprimersi sull’opzione strategica del mantenimento ad uso pubblico permanente di quell’area o della sua spartizione tra gli appetiti bi-partizan della sussidiarietà cooperativistico-edilizia.
Un banco di prova concreto per verificare, al di là di divisioni ideologiche e schieramenti strumentali, dove risieda la volontà reale delle forze politiche e dei programmi amministrativi di farsi difensori civici dell’interesse collettivo della città.
Infatti, se non si vuole ridurre la discussione sull’assetto urbano che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore, di questo o di quell’architetto di grido, occorre avere il coraggio di rivendicare alle scelte dell’amministrazione pubblica la responsabilità che una collettività si assume nei confronti della conformazione urbana di cui intende dotarsi, Un tempo l'urbanistica progressista vedeva nel contenimento della rendita fondiaria non solo la possibilità di destinare nuove risorse ad usi più produttivi e socialmente più utili, ma anche di rivendicare una democrazia nelle decisioni su quel bene primariamente pubblico e collettivo che è l’uso della città, del territorio, dell’ambiente.
Oggi, in questa frenesia di privatismo che nei consigli comunali sembra coinvolgere sia la maggioranze che le opposizioni, nemmeno le idee sono più in libera disponibilità, come accadrebbe in una pianificazione promossa da proposte dall’Ente pubblico. Esse, invece, tendono ad appartenere privatamente a qualcuno. Il Comune e i cittadini sono, cioè, liberi di discutere solo le impostazioni progettuali e insediative dell’acquirente con cui il proprietario delle aree ha stretto un contratto, di chi – col più caro prezzo pagato – si è comprato anche il diritto di essere padrone delle idee della città e suo interlocutore unico.
«Investire sulle foreste alpine per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico consente non solo di salvaguardare l’ambiente e l’ecosistema ma anche di ridurre i costi per la sicurezza del territorio». Corriere della Sera, 5 febbraio 2014
«L’abbandono delle aree collinari e montane è un fenomeno drammatico sia per la società che per l’equilibrio geologico del nostro Paese. Fino a vent’anni fa gli abitanti provvedevano alla manutenzione ordinaria del territorio, in alta collina e in montagna. C’erano le colture dei contadini i quali poi provvedevano a molte opere di manutenzione semplicemente perché amavano farlo, rientrava nella loro cultura. Aggiungiamoci il lavori dei consorzi di bonifica, e nel Mezzogiorno d’Italia la politica democristiana che portò a una forte forestazione. Tutto questo è finito, le aree collinari e montane si sono spopolate. Le aree non vengono più curate. Questa è la ragione di ciò che stiamo vedendo: l’aumento esponenziale dei disastri, appunto, in collina e montagna».
Giuseppe De Luca, segretario generale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, studi alla London School of Economics, professore associato di Urbanistica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, sostiene che sia impossibile occuparsi di ciò che sta a valle (le città e i grandi insediamenti industriali), soprattutto quando si analizzano le ragioni tecniche delle alluvioni e delle inondazioni, «se non si governa ciò che sta alle spalle, ovvero le alture». Le cifre parlano chiaro. Secondo uno studio del Dps, Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, molte zone considerate periferiche e ultra-periferiche (superiori ai 600 metri di altezza) dal 1971 si sono letteralmente spopolate.
Qualche dato tra i più evidenti. In Emilia-Romagna -52% della popolazione, nel Molise -46.9%, nel Veneto -33.3%, in Liguria -34,3%. E basta un pensiero ai terrazzamenti abbandonati in Liguria, caratteristica di quella regione, per capire il perché di frane e smottamenti. Il saldo finale della media italiana è -8.1% di popolazione nelle aree periferiche e -5.3% nelle aree ultra-periferiche. Un mutamento epocale non solo della società italiana, della sua economia diffusa, ma anche di un secolare approccio verso il territorio, soprattutto in un Paese in cui il territorio nazionale è per il 75% montano-collinare. Le conseguenze, in queste ore di nevicate e di intemperie, sono tangibili. Nelle aree collinari e montane tutto sembra diventato più difficile, anche garantire soccorsi. E soprattutto proseguire un’attività industriale, vista la quantità di continui smottamenti e frane.
Secondo i dati dell’Ispra, l’istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, la popolazione esposta a fenomeni franosi ammonta a 987.560 abitanti, tutti appunto nelle aree montano-collinari. Quasi un milione di italiani vive, insomma, nell’incubo quotidiano di un cedimento del territorio in cui ha organizzato la propria esistenza. Spiega il geologo Alessandro Trigila, responsabile del progetto Iffi (Inventario fenomeni franosi in Italia) dell’Ispra: «I fattori antropici hanno un ruolo sempre più determinante nell’aumento delle frane collinari e montane. E non c’è solo l’urbanizzazione, con le strade o gli scavi o la quantità di edifici. C’è da mettere nel conto la mancata manutenzione del territorio e delle opere di difesa del suolo. Un ottimo rimedio per le frane più superficiali è nelle opere di ingegneria naturalistica a basso impatto ambientale. Interventi realizzati con un sistema misto di piante, legno e pietra che consolidano il territorio in modo ben più vasto e diffuso delle opere in cemento».
Che fare nel futuro? Come restituire alle zone collinari e montane una loro vivibilità sottraendole al pericolo ambientale? La parola d’ordine è, come diceva Trigila dell’Ispra, tornare agli strumenti più naturali che si rivelano poi i più economici, oltre che i più rispettosi dell’ambiente. Afferma Marco Flavio Cirillo, sottosegretario al ministero dell’Ambiente: «Investire per esempio sulle foreste alpine per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico consente non solo di salvaguardare l’ambiente e l’ecosistema ma anche di ridurre i costi tra le 5 e le 20 volte, a seconda delle diverse situazioni, rispetto a quelli che si dovrebbero sostenere per realizzare opere con funzione protettiva. Sulle Alpi svizzere le foreste svolgono una funzione in termini di tutela della sicurezza del territorio comparabile a quella di infrastrutture il cui costo e manutenzione è stimato in 85 miliardi di euro». E dove trovare i soldi? Una proposta viene dall’Uncem, Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani, presieduta da Enzo Borghi che afferma: «L’unico sistema percorribile è quello sperimentato già in Piemonte. Prevedere che una quota della tariffa pagata dai cittadini per il servizio idrico integrato (acquedotto, fognatura, depurazione) venga destinata a interventi per la prevenzione del dissesto idrogeologico affidati agli enti locali, che ben conoscono i territori, in accordo con le Regioni. E non da inutili nuove agenzie nazionali...». Sempre dall’Uncem, vero «sindacato della montagna», arriva un altro dato. In vent’anni in Italia i boschi sono aumentati del 25-30%. Ma si tratta di boschi spontanei e invasivi, frutto dell’abbandono delle aree, che compromettono zone coltivabili. Dice un documento Ucem: «Mancano piani forestali per una gestione dei boschi con tagli regolari ogni 25-30 anni, eliminando quelli invasivi e valorizzando la filiera bosco-legna-energia». Risultato operativo: l’Italia importa il 70% del legno che usa mentre i boschi montani aumentano, creano danni all’agricoltura e non tutelano il territorio. Inutile aggiungere altro.
l Fatto quotidiano, 2 febbraio 2014
Bologna regala a Farinetti una Disneyland in campagna
di Carlo Tecce
La chiamano esperienza sensoriale. Non materiale. E sarà un olezzo di vacche, un profumo di mandarini, un impasto di pizza. E la mungitura farà il latte e il latte sarà mozzarella e la mozzarella sarà capricciosa e la capricciosa sarà fatturato. Un monumento a Eataly, in mezzo a svincoli e viadotti, a una radura larga e lunga 72 ettari, due volte il Vaticano. E il Colosseo sarà invidioso, Venezia e Firenze creperanno. E otto o nove, chissà dieci milioni di italiani e stranieri verranno qui. Dove la pianura bolognese s’ingrossa per i capannoni e le vetrate; la campagna sventrata ansima per il cemento, il legname, i pannelli fotovoltaici e d’acciaio. Ma Natale detto Oscar Farinetti, imprenditore con la passione per Renzi e il biologico di lusso, ha giurato: sarà la Disneyland per il cibo tricolore, datemi 100 milioni di euro, un treno veloce e vi porto 10 milioni di donne, bambini e uomini. E Bologna, la signora rossa sbiadita, s’è consegnata, disarmata, forse disperata.
La sigla Caab suona anonima. La politica l’ha creata vent’anni fa. E ci ha speso oltre 100 miliardi di lire. Caab è un mercato di proprietà pubblica, primo azionista il Comune (80%), che vive di notte e dorme di giorno, che distribuisce frutta e verdura, che incassa centinaia di milioni di euro, che fa lavorare 2000 persone, che sta a Bologna eppure non vicino a Bologna. La stazione centrale è lontana dieci chilometri e un binario morente è ficcato in qualche anfratto. Bob Dylan ha cantato qui per Giovanni Paolo II, era il ’97.
Anno 2012. I limoni e la bietola sono affari precari. E così Andrea Segré, presidente di Caab, ambizioso e renziano, fustigatore di sprechi alimentari (teorizza e pratica il consumo di yogurt scaduti), s’è inventato un acronimo più affascinante, doppio senso, doppio scopo: Fico, fabbrica italiana contadina, dove vendere e mostrare i prodotti. E Farinetti non c’era. Il sindaco Virgilio Merola, candidato da Pier Luigi Bersani e presto convertito a Matteo Renzi, osserva con l’entusiasmo di un vigile che incanala il traffico. E Farinetti non c’era. Il professor Segré, che insegna Agraria e frequenta la Leopolda di Renzi e che gestisce con profitto il Caab, fa un giretto che a Bologna è convenzionale: cooperative, fondazioni, mecenati, cattolici, agnostici. Ci vogliono dei milioni, non pochi, non troppi. Un mese di attesa, un anno e giorni, un anno e mezzo.
Natale detto Oscar non è più ospite di Bologna: il capoluogo emiliano è ospite di Farinetti. Ha convocato una conferenza stampa a Milano, l’11 di febbraio, e gli intrusi saranno Segré e forse Merola. Le ruspe stanno per cominciare a smontare il Caab e i milioni pubblici e privati costruiranno Eataly World. Se va male, Farinetti se ne torna a Firenze. Se va bene, ci guadagna un sacco di denaro. Per pareggiare il bilancio ci vorranno almeno 5,5 milioni di visitatori, che comprano, che mangiano, che vanno e vengono in automobile.
Il padre nobile di Bologna, Romano Prodi, ha posto una semplice domanda: “E con i trasporti come farete, voi dispersi in campagna?”. Il dubbio di Prodi non ha contagiato il sindaco Merola, né la Confindustria locale, né Provincia né Regione. Peggio. È vietato criticare Farinetti e Eataly World. Soltanto Alberto Ronchi, assessore alla Cultura, s’è permesso di suggerire un po’ di riflessione. Per Farinetti è l’investimento perfetto: rischio d’impresa zero contro un sostegno pubblico che vale 55 milioni e una superficie da base aerospaziale. E mentre un dirigente ti indica dove fiorirà la zucca e dove toseranno le pecore, proprio lì, fra le prossime piante di peperoncino e di finocchio, scoloriscono una ventina di Filobus Civis. Dovevano salvare i pendolari bolognesi, non dovevano inquinare e neanche fare rumore. Straordinari. Poi un giorno Bologna s’è accorta che questi Filobus non potevano circolare. E li hanno buttati qui. Prima di un monumento a Eataly World, c’è un monumento alla memoria. Ma non è Fico.
E Siena vuol dare a Eataly Santa Maria della Scala
di Tomaso Montanari
E ora tocca a Siena. Dopo aver accompagnato Oscar Farinetti in giro per la città, il sindaco di Siena Bruno Valentini (Pd, di osservanza renziana) ha detto che il complesso monumentale del Santa Maria della Scala potrebbe diventare un mega-supermercato di Eataly. E ora si aspetta che il sindaco risponda a una interrogazione, dei consiglieri comunali Andrea Corsi e Massimo Bianchini, che lo invita a render pubblico il progetto e ad aprire “una discussione sulla politica culturale del Comune di Siena con particolare riferimento al ruolo da assegnare all’antico Spedale senese”.
Dare un senso ai duecentomila metri cubi dell’ospizio che nel Medioevo accoglieva i pellegrini che percorrevano la Francigena, e che oggi occupa l’ “acropoli” senese è una delle sfide del governo di una Siena orfana del Monte dei Paschi. Il progetto più sensato sarebbe trasformare la Scala nel Museo di Siena per eccellenza, portandoci la Pinacoteca Nazionale e altri musei, il dipartimento di storia dell’arte dell’Università insieme a varie biblioteche, da unire a quella di uno dei più importanti storici dell’arte italiani, Giuliano Briganti. Un progetto che non esclude certo spazi espositivi, caffè e altri luoghi pubblici. Un progetto capace di trasmettere un’idea forte di cittadinanza basata sulla cultura.
Ma fin dagli scorsi mesi ha preso quota un’alternativa commerciale. Molti segnali lasciavano pensare che anche la Scala sarebbe finita in mano a Civita, la più grande concessionaria nazionale di patrimonio culturale, presieduta da Gianni Letta. Attraverso una sua controllata, Civita gestisce già il Duomo e la Torre del Mangia, e mira a conquistare i musei delle contrade e l’assai discutibile Museo del Palio da costruire nell’ambito della candidatura di Siena a capitale europea della cultura 2019. Ma ora le cose sembrano cambiare: un po’ perché la Procura di Siena ha aperto un’inchiesta sulla gestione del Duomo, un po’ perché il vento renziano fa volare la soluzione Farinetti.
Se davvero Eataly riuscisse ad aprire dentro uno dei più importanti spazi storici italiani, si tratterebbe di una importate svolta simbolica nel processo di mercificazione di quello che la Costituzione chiama “il patrimonio storico e artistico della nazione”. Il nuovo negozio fiorentino di Eataly viene reclamizzato sui giornali locali con intere pagine come questa: “Eataly Firenze merita una visita anche solo per gustare ... il Rinascimento. Antonio Scurati, celebre scrittore e professore universitario, ha curato in esclusiva per Eataly un percorso museale che racconta i luoghi, i valori e le figure storiche che hanno contribuito al periodo artistico e culturale più fulgido di sempre. Chiedi l’audioguida al box informazioni”. Ma se il progetto del sindaco di Siena andasse in porto, Eataly non avrebbe più bisogno di mascherare un supermercato dietro un museo inesistente: sarebbe il museo a trasformarsi in supermercato. E possiamo solo immaginare cosa ne verrebbe fuori: una specie di Mall del Gotico, una Gardaland di Duccio, una Las Vegas di Simone Martini.
Ora Siena è a un bivio, deve decidersi: i suoi straordinari beni comuni monumentali possono ancora servire a formare cittadini, o devono trasformarsi in una fabbrica di clienti? Il Santa Maria della Scala sarà una 'piazza' della cultura o sarà un supermercato?
Se Eataly aprirà un negozio a Siena, i senesi avranno un altro posto in cui poter andare a mangiare. Ma se a Farinetti verrà consegnato il Santa Maria della Scala, allora sarà Eataly a essersi mangiato Siena, e i senesi.
Tutto giusto, tutto vero. L’ennesima argomentazione del perché tutela del territorio e tutela del lavoro siano due temi strettamente intrecciati e la prevenzione sia essenziale per la nostra sopravvivenza. Però… La Repubblica, 1 febbraio 2014, con postilla
Una scena che si ripete a ogni inverno, anzi quasi a ogni pioggia. E se non ci sono vittime, ceri in tutte le chiese,Te Deum e processioni di ringraziamento. Questa Italia che si vuole tecnologica e si scopre incapace di badare a se stessa rivive ogni anno la stessa stagione di disastri, condita da dichiarazioni dei padri della patria che promettono immediate contromisure, elogiando l’indomito popolo italiano che sfida le avversità. Una sola cosa, a quel che pare, non viene in mente ai Soloni che affollano le aule della politica, le penombre dei partiti, le stanze dei bottoni: che bastava un po’ di prevenzione per evitare, o quanto meno ridurre, il danno. O meglio, di prevenzione si parla, ma senza poi far nulla. Per citare la voce più autorevole, è di ieri il discorso del Presidente Napolitano dopo l’alluvione delle Cinque Terre (quattro morti, ottobre 2011): «bisogna affrontare il grande problemanazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione». Sagge parole, alle quali non è seguito nulla di concreto.
In preda a colpevole amnesia, dimentichiamo la fragilità del nostro territorio, il più franoso d’Europa (mezzo milione di frane censite), il più esposto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste. Fragilità che colpiscono periodicamente, con danni gravissimi alle persone, alle attività economiche, al paesaggio, al patrimonio storicoartistico. Non sono i colpi di un destino avverso, ma eventi che dovrebbero innescare meccanismi di consapevolezza e di prevenzione: una miglior conoscenza dei territori, mappe del rischio, soluzioni possibili. E invece, rassegnati, passiamo dalla retorica della prevenzione a una cultura dell’emergenza che piange perennemente su se stessa.
Un esempio solo, ma eloquente: la carta geologica d’Italia, indispensabile per la conoscenza del territorio. La prima, al 100.000, fu voluta da Quintino Sella, ma è largamente superata, se non altro per l’enorme crescita degli insediamenti e delle cementificazioni che fragilizzano il territorio. La nuova carta, avviata da più di vent’anni, prevedeva 652 fogli al 50.000, ma solo 255 sono stati realizzati: abbiamo dunque una carta aggiornata solo per il 40% del territorio, e per completarla manca un adeguato finanziamento. Eppure, secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% della superficie italiana è collocato in frana (547 frane per Kmq nella sola Lombardia), il 10% è a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico. I costi della mancata manutenzione del territorio sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare le perdite di vite umane): negli anni 1985-2001 si sono registrati 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti. Nonostante questi terribili segnali di allarme, cresce ogni anno «l’abbandono della manutenzione e presidio territoriale che assicuravano l’equilibrio del territorio ».
Ma che vuol dire “prevenzione”, se mai il governo volesse prendere sul serio questo tema? Vuol dire limitare il dissennato consumo di suolo che “sigillando” i suoli ne riduce l’elasticità e accresce gli effetti di frane e sismi; vuol dire incentivare l’agricoltura di qualità, massimo baluardo contro il degrado dell’ambiente e dei paesaggi, mettendone in valore l’alto significato culturale ed economico. Vuol dire porre una moratoria alla cementificazione dei suoli, rinunciando alla menzogna secondo cui le “grandi opere” e l’edilizia sarebbero il principale motore dello sviluppo. Vuol dire rilanciare la ricerca sulle caratteristiche del nostro suolo e le strategie di prevenzione. Capire che la messa in sicurezza del territorio è la prima, la vera, l’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno. Secondo il rapporto Ance-Cresme, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per vent’anni, che assorbirebbe una consistente manodopera bilanciando il necessario decremento delle nuove fabbricazioni: e invece negli ultimi anni gli investimenti pubblici per la messa in sicurezza del territorio sono diminuiti mediamente del 50%. Un piano come questo può generare occupazione convogliando anche risorse private, purché sia evidente l’impegno pubblico in volontà politica, risorse economiche e capacità progettuale. Il governo Letta si mostrerà capace di un’inversione di rotta come questa, per esempio spostando sulla difesa del territorio, e su connesse politiche di occupazione giovanile, una parte dei 26 miliardi di spese militari?
postilla
Peccato che il “pensiero unico” che è alla base delle “grandi intese” e degli accordi renzusconiani, entrambi sponsorizzati dall’attuale presidente della Repubblica, abbiano nella delegittimazione della pianificazione del territorio e negli altri strumenti del governo pubblico del territorio, il fondamento della loro ideologia e delle conseguenti prassi. Peccato che da mezzo secolo si ripete invano che il governo pubblico del territorio e il metodo della pianificazione costituiscono l’unica prevenzione effice dai disastri reiteratamente annunciati. Leggete, sd esempio, questo articolo di Antonio Cederna del 3 gennaio 1973, nell’archivio del vecchio eddyburg.
Finalmente oltre la fase ideologica e lo stallo, cambia pelle e sostanza uno dei progetti simbolo della metropoli ingiusta dei berlusconidi. Corriere della Sera Milano, 1 febbraio 2014
Fase due. Il futuro di Santa Giulia è disegnato sulle carte di sir Norman Foster, vincolato alla bonifica dei terreni ex Montedison e appeso a una trattativa finanziaria che si trascina da oltre un anno tra la proprietà Risanamento e la sgr Idea Fimit. Il punto di ripartenza della maxi operazione immobiliare è indicato nella nuova proposta di masterplan depositata a Palazzo Marino il 22 gennaio: «È il primo passaggio di un lungo percorso di confronto con gli uffici comunali», dicono dal gruppo Zunino, cioè l’atto formale che introduce gli approfondimenti tecnici e gli accordi di programma. L’orizzonte temporale è piuttosto lungo: serviranno almeno otto-dieci anni, nella migliore delle ipotesi, per completare la trasformazione di 450 mila metri quadri di città al margine Sud-Est di Milano, l’enorme pianura (attualmente sotto sequestro giudiziario) definita come zona Nord di Santa Giulia. La porzione Sud è stata realizzata, dopo un lunghissimo travaglio legale, economico e amministrativo, sulle ceneri delle acciaierie Redaelli.
Questo schema dovrebbe venire approvato entro la fine del 2014. Spiega il vicesindaco e assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «Il procedimento di bonifica è già cominciato, ora valuteremo con attenzione — assieme ai cittadini e all’impresa — i parametri su volumetrie e servizi. Una prima conferenza di servizi potrebbe essere riunita a marzo. Le problematiche sono complesse: lavoriamo a ritmi spediti, ma con grande cautela». Quando potrebbero partire gli scavi di bonifica? «Se il privato si dimostrerà collaborativo, potremo procedere velocemente».
Il settore Sud è abitato fin dal 2009. Gli appartamenti sono quasi tutti occupati, c’è la farmacia, sono frequentati i bar-ristoranti ai piedi dei condomini, qualche vetrina è libera o promette l’arrivo di un’attività. Nel lato addossato alla ferrovia, tra via Pizzolpasso e Monte Penice, cresce il complesso Sky e aspetta i cantieri la zona destinata all’Hotel Nh. Stefano Bianco è il portavoce del comitato dei residenti: «L’avvio dell’istruttoria sulla zona Nord è un segnale positivo — riflette —. Ci auguriamo che l’operazione Santa Giulia venga portata avanti concretamente nei tempi previsti».
«Ieri la pioggia ricadendo trovava un territorio ancora integro, ovvero organizzato secondo razionalità ecologica. Oggi incontra la "città diffusa"». Il manifesto, 31 gennaio 2014
Affoga la «città diffusa». Ormai basta un temporale un po’ più consistente,neppure alluvionale, e pezzi interi di quartieri vanno sott’acqua, i fiumi esondano, i sottopassi diventano cisterne di acqua sporca e melmosa, pronta a riversarsi nell’intorno. Il clima impazzito, perché sovrabbondante di entropia ed energia da attività antropiche, scarica le proprie bizzarrie su un territorio indebolito; paradossalmente dall’elemento che più doveva consolidarlo, oltre che modernizzarlo, il cemento delle città.
In questi giorni – che sarebbero quelli della «Merla», ovvero i più freddi dell’anno – registriamo temperature e precipitazioni da inizio autunno. I trend ci dicono che il riscaldamento globale provoca frequenti alternanze di siccità e forme alluvionali, che provocano sempre più spesso, con precipitazioni concentrate (le così dette bombe d’acqua), autentici disastri. Che si eviterebbero se le piogge ricadessero su un territorio ecologicamente solido. Al contrario un ciclo dell’acqua alterato ricade su contesti ambientali e insediativi fortemente indeboliti proprio dalla diffusione urbana, con consumo di suolo e cementificazione che hanno dissestato, degradato, scassato gli ecosistemi, oltre ogni possibile capacità di tenuta. Fino ad ieri, specie in un ambiente tendenzialmente chiuso come quello mediterraneo in cui si estende la nostra penisola, cicloni ed uragani costituivano eventi eccezionali. Oggi invece precipitazioni alluvionali diventano la norma e trovano un territorio stravolto da un’urbanizzazione che ormai ingombra circa il 20% della superficie nazionale. Con il paradosso di aver sconvolto gli ecosistemi ed i paesaggi del Belpaese per realizzare un enorme patrimonio di volumi edificati, abitativi, commerciali, industriali, infrastrutturali, che in gran parte oggi restano vuoti; a testimoniare il doppio danno, da spreco e da disastri ambientali conseguenti alle loro realizzazioni. Decine di milioni di stanze vuote, miliardi di metri cubi di capannoni abbandonati sono un monumento al trionfo della rendita, ma soprattutto allo sfascio e all’idiozia nazionale. E contribuiscono costantemente a innalzare i livelli di rischio idrogeologico — come appare evidente ogni giorno di più — ma anche sismico, ci ricordano L’Aquila e gli altri centri colpiti da eventi recenti.
Ieri la pioggia (o la neve) ricadendo trovava un territorio ancora integro, ovvero organizzato secondo razionalità ecologica. I bacini montani erano i primi ad intercettare le precipitazioni, ma ne traevano giovamento nell’alimentazione delle fonti e del patrimonio boschivo. Il deflusso verso valle dell’acqua riscontrava versanti saldi e vie di fuga libere, pronte ad essere fruite in caso eventi alluvionali. A valle colture e insediamenti rispettavano gli alvei fluviali: in prossimità di questi rimanevano ambienti tendenzialmente naturali o colture umide.
Oggi la città diffusa, non solo italiana, ha stravolto tale paesaggio: dalla Megalopoli Padana, alla blobbizzazione del Nord Est, alla mega conurbazione lineare adriatica, alle città allargate dell’Emilia, della Toscana, della campagna romana, alla sporca marmellata insediativa napoletana, alle coste iperurbanizzate e spesso abusive di Calabria e Sicilia, fino alla cementificazione dei contesti urbani sardi (che Cappellacci vorrebbe ancora ampliare). Così le colture montane abbandonate favoriscono il dissesto e le frane, anche per l’abbandono della cura del bosco protettivo. Ancora l’urbanizzazione si è spinta spesso verso i versanti sub collinari, negando le vie di fuga di fiumare e torrenti, spesso intubati o cementificati. In regime alluvionale, i corsi d’acqua trovano argini sempre più alti – che devono «proteggere» la città estesa fino al limite o dentro gli alvei — e diventano condotte forzate. La rottura delle reti ecologiche e della continuità dei collettori per la diffusione urbana non permette più esondazioni «tranquille», in caso o fuoriuscita o rottura degli argini, o di innalzamenti repentini delle falde. Si tendono a formare così le «macrovasche urbane» che abbiamo visto l’anno scorso in Veneto e poi in Sardegna e oggi a Roma: muri e costruzioni hanno chiuso corridoi di deflusso e vie di fuga; l’intorno si riempie di acqua e fango e il liquido melmoso sale repentinamente. Urge una svolta drastica nelle politiche territoriali e ambientali
Studi Trentini, 2, 2013 (m.p.g.)
«Il museo è un'istituzione permanente senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto». Nell'imbarbarimento del discorso pubblico dell'Italia del 2014 anche la piana ed innocua definizione del museo messa a punto dall'International Council of Museums rischia di suonare rivoluzionaria. Ripartiamo dunque da queste parole: per tornare ad indicare con fermezza il senso dei musei.
«Il museo»
Sia consentito ricordare che delle nove Muse nessuna presiedeva alla pittura, alla scultura o all'architettura: il museo prende il nome da un consesso che praticava la poesia in tutte le sue varianti, il canto, il mimo e il teatro, la scienza e la storia. È l'uomo tutto intero intero, il vero progetto del museo. Le competenze specialistiche sono fondamentali: ma l'ago della bussola segue l'humanitas, la civilizzazione, «il pieno sviluppo della persona umana» (Costituzione della Repubblica, art. 3).
«è un'istituzione»
Politica: il museo è un'istituzione politica, un elemento cruciale nella costruzione della polis. E con le altre istituzioni politiche dell'Italia di oggi il museo condivide lo smarrimento, la confusione, a volte la corruzione, spesso il discredito. Ma, proprio come loro, non può essere sostituito con qualcosa di meglio: come loro, per tornare ad essere utile deve tornare ad essere davvero istituzione. Non asservita ai fini di chi temporaneamente la dirige: ma indipendente, autorevole, obbediente solo alla scienza, alla coscienza, alla legge.
«permanente»
Il museo non è una mostra. Non è effimero. Non si smonta. Non apre a singhiozzo. Non deve essere fagocitato, occultato, distrutto dalle mostre che ospita, né spolpato da quelle che alimenta. Deve essere un indirizzo sicuro: dove un cittadino sa che può trovare le opere che cerca.
Non può ridurre la sua attività scientifica, né la sua attività didattica, alle mostre. Forse in questo momento dovrebbe rifiutarsi di accoglierle, promuoverle, alimentarle. È un contesto intellettuale, non un'attrezzeria di scena.
«senza scopo di lucro»
Le opere dei musei sono uscite, faticosamente, dal circuito economico. Hanno un senso nuovo. Un senso che non si vende e non si compra. Un senso che dà senso a ciò che, invece, si vende e si compra.
Un museo che presta le sue opere a pagamento non è un museo. Un museo che noleggia le sue sale a pagamento non è un museo. Non si può servire a due padroni. In Italia, i musei pubblici dovrebbero essere gratuiti. Devono esserlo: come le biblioteche e le scuole.
«al servizio della società e del suo sviluppo»
I musei non sono al servizio di chi li dirige, né di chi ci lavora, né di chi li studia.
Non sono al servizio del denaro, né della classe politica. Non sono al servizio delle società di servizi – che, a Firenze o a Roma, ne hanno fatto 'cosa loro' – ma al servizio della società.
In Italia i musei sono al servizio del progetto della Costituzione: della sovranità del popolo, dell'uguaglianza sostanziale, del pieno sviluppo della persona umana. Al servizio dell'integrazione e della dignità di tutti. L'arte del passato, e i suoi legami con gli uomini e con la natura, ci introducono in un mondo di forme in cui sperimentiamo la disciplina e la libertà, l'invenzione e il realismo. E ci fa anche capire quanti modi diversi ci sono stati, e ci sono, per essere uomini: ci educa alla complessità, alla tolleranza, alla laicità. In una parola, accresce e sviluppa il nostro essere umani: la nostra humanitas, come si dice almeno dai tempi di Cicerone.
«aperta al pubblico»
Al pubblico: non al privato. Come la biblioteca, anche il museo deve essere una piazza del sapere. Non un luogo dove si va una volta nella vita, per vaccinarsi: ma uno spazio pubblico aperto. Ai cittadini, prima che ai turisti. Un luogo dove i bambini possono crescere, gli adulti rimanere umani, gli anziani godersi la libertà. Un luogo dove si va per vedere anche un'opera sola: come si va in biblioteca a leggere un libro. Un luogo dove, chi lo desidera, possa essere guidato: ma dove chi vuole perdersi possa farlo. Un luogo comodo: con molte sedie, buoni ristoranti, belle librerie.Un luogo aperto alla vita quotidiana, non il tempio di uno stanco rito sociale.
«che effettua ricerche»
Il cuore vero del museo è la ricerca. Un museo che non fa ricerca è un deposito di roba vecchia. Il fine non è la tutela: la tutela è uno strumento per la conoscenza. Quella scientifica, che poi deve diventare diffusa. Un museo non è una discarica per politici trombati, giornalisti finiti, membri cadetti di grandi famiglie. Un museo che non è guidato da un ricercatore è come un aereo che non è guidato da un pilota.Se non capiremo che un museo è più vicino ad un laboratorio di fisica che ad un club esclusivo, il museo non avrà futuro.
«sulle testimonianze materiali e immateriali dell'uomo e del suo ambiente»
Il museo è come l'orco della favola: segue l'odore del sangue umano. Non per divorarlo, però: per farlo scorrere più forte. Al centro di ogni museo c'è l'uomo, nel suo contesto: l'ambiente. Il museo non può diventare opaco, non deve essere un feticcio, un idolo. Il museo è un mezzo: più e trasparente, più funziona. Non deve separare dall'ambiente: deve permettere di ricostruire i nessi, non spezzarli. Deve dichiarare la propria condizione di frammento: non autodivinizzarsi, non assolutizzarsi. Non può essere un mondo separato: ma un crocicchio di strade che portano fuori dalle sue mura.
«le acquisisce, le conserva, le comunica»
Le acquisisce per conservarle, le conserva per comunicarle. Un museo che non sa comunicare è meglio chiuderlo. Un museo che appalta la didattica o le mostre a un concessionario, non è un museo.
Nessun mezzo della comunicazione moderna è troppo basso: un museo di ricerca e senza fini di lucro non dovrebbe temere alcun canale di comunicazione. E fosse dato ai musei un millesimo del denaro gettato per comunicare le grandi mostre trash! Il patrimonio è come il repertorio della musica, o quello del teatro: va eseguito, generazione dopo generazione. Va narrato: è indivisibile dal lavoro di chi lo studia, lo 'parla', lo rimette nell'anima dei sui coetanei, lo tiene al centro del discorso pubblico.
«e specificamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto»
Studio vuol dire amore, educazione vuol dire tirar fuori l'umanità che è chiusa nell'uomo, il diletto è la dolcezza che ci avvince alla vita.Se un museo riesce a ridare a queste tre parole il loro significato etimologico, quello profondo: ebbene, quello è davvero un museo.
Mentre l'economia finanzcapitalistica caccia il lavoro dalle fabbriche, la sopravvivenza della struttura fisica e di quella culturale della Penisola esprime una gigantesca domanda di forza lavoro. Ma di quanti decidono ci fa un pensierino e lo sviluppa in un'azione coerente. Il manifesto, 30 gennaio 2014
Dal 22 gennaio è visibile sul sito del ministro della Coesione Territoriale «La Strategia Nazionale per le Aree interne». La Strategia, lanciata dal ex ministro Fabrizio Barca più di un anno fa, oggi comincia a muovere i primi passi con un progetto pilota. A questo proposito su questo giornale ha scritto Piero Bevilacqua: «Si tratta di un progetto che, per visione e modo di procedere, si distacca nettamente dal modello di sviluppo economico tardo-novecentesco rappresentato dalla Tav… Sono due strade opposte e culturalmente inconciliabili».
Territori in movimento
A guardarle con maggiore attenzione, le aree interne non sono tutte uguali. In alcune l’emigrazione appare come un fenomeno fisiologico, di riequilibrio naturale, e a fronte di cittadini che se ne vanno, si moltiplicano le tracce di nuovi arrivi. Si tratta per lo più di giovani, con esperienza di lavoro e studio maturate altrove, impegnati nella costruzione delle condizioni materiali della loro vita, come nuovi coloni, in luoghi dove non esistono opportunità di lavoro. Queste aree interne sono fortunate se i cittadini sono in grado di organizzarsi, di promuovere una classe dirigente nuova, nel tentativo di contrastare i meccanismi che li condannano, e offrire una visione alternativa di futuro.
Rimangono comunque territori fragilissimi: per innescare un processo di desertificazione di un’intera area basta che il numero di bambini non sia più sufficiente ad aprire una prima elementare, che chiuda una scuola, che muoia la cartolibreria che viveva della scuola, e così via.
La Strategia prova a puntare su queste aree in movimento, in una logica di riequilibrio dei servizi e di promozione dello sviluppo e del lavoro. E prova a intervenire in maniera nuova, andando a raccogliere sui territori le dinamiche nate dalla collaborazione fra cittadini e amministrazioni, accompagnando quelle più promettenti, trasformando i conflitti in laboratori verso nuove modalità di relazione fra istituzioni e abitanti.
I territori muti
Ci sono poi le aree interne all’apparenza disperate, territori muti, dove il drenaggio continuo di uomini e attività economiche produce smarrimento, subalternità, assenza di futuro. La prima cosa che colpisce, muovendosi in queste aree, non è la mancanza di servizi, ma l’incapacità da parte di chi le abita di esprimere bisogni e rivendicare diritti, anche i più elementari. Sono luoghi dove si impara la lezione amara che più la gente viene stritolata, meno reagisce.
Qui l’azione della Strategia ha un altro segno, e si muove in discontinuità rispetto a quello che è stato fatto negli ultimi vent’anni di «sviluppo locale». Punta a portare o a rafforzare i servizi pubblici, promuovendo la loro gestione associata fra i comuni e una riorganizzazione della spesa ordinaria dei ministeri, mettendo al centro interventi su scuola, sanità, infrastrutture, messa in sicurezza del territorio, creando concrete opportunità di lavoro: in pratica opera sulle precondizioni per invertire il processo di impoverimento umano e materiale.
Dalle aree interne a una nuova politica
Questa prima fase della Strategia necessita della messa a punto di nuovi strumenti di ascolto del territorio, con una approccio che si avvicina a quello del civil servantinglese, per cui gli uffici, piuttosto che essere ingranaggi di una catena gerarchica di politiche scelte dall’alto, si pongono al servizio del cittadino, inteso come committente.
Inoltre, la Strategia interroga profondamente anche la politica. Il tema dello sviluppo sociale ed economico delle aree interne è, infatti, intrecciato a quello della trasformazione delle strutture decisionali, economiche e sociali del paese. Il modello democratico rappresentativo tradizionale, fondato sul peso elettorale dei territori, contribuisce a marginalizzare, nei processi decisionali e nell’attenzione pubblica, le aree scarsamente popolate; è tempo, anche per lo Stato, di fare i conti con le nuove forme sempre più diffuse di attivismo delle istituzioni locali e dei cittadini, alle quali troppo spesso si risponde soltanto con la repressione.
Proprio per questi motivi siamo difronte a un’operazione non facile che già trova resistenze negli interessi dei rentiers locali, coloro che beneficiano delle condizioni di marginalità delle aree interne, e di strutture fortemente conservative all’interno della stessa Pubblica amministrazione. Per avere successo, la Strategia deve avere le fattezza di una politica allo stesso tempo industriale e di tutela, meno dirigista e meno localista; deve essere ragionevole, in grado di fare i conti con la scarsità di risorse, ma ambiziosa, puntando a invertire un trend secolare di spopolamento, riaprendo un dibattito pubblico in grado di contrastare l’immagine di residualità che ha guidato le politiche di sviluppo su questi territori.
Quando il cosiddetto sviluppo del territorio caro ai grandi interessi e micidiale per tutto il resto diventa politica nazionale e pure strategica di occupazione autoritaria dello spazio. Il Fatto quotidiano, 29 gennaio 2014
Più che a un piano aeroporti, quello presentato nei giorni scorsi dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Maurizio Lupi, assomiglia a un piano strade. La riorganizzazione degli scalisuddivisi in strategici, nazionali e locali, non aggiunge né toglie nulla infatti alla situazione del traffico aereo, decide a tavolino che ogni regione deve avere un aeroporto di riferimento anche se di fatto fa meno transiti di un rifugio di montagna. Invece di lasciar parlare il libero mercato, il piano – di chiara impronta statalista – di fatto certifica anche per il futuro la possibilità di buttare altri soldi pubblici in nuove infrastrutture. Anche attorno ad aeroporti che non cresceranno mai.
E’ vero, rispetto ai ministri che lo hanno preceduto nel tentativo di riorganizzazione, le piste con il certificato di valenza nazionale sono diminuite numericamente, ma è il mix di scelta a lasciare profondi dubbi. In sostanza ora esistono undici aeroporti strategici e altri 26 scali di interesse nazionale. Per individuare gli scali strategici, il territorio nazionale è stato ripartito in 10 bacini di traffico e per ciascuno è stato identificato un aeroporto strategico, con l’eccezione del Centro-Nord, dove ce ne sono due: Bologna e Firenze-Pisa che dovranno fondersi. Nel testo portato al consiglio dei Ministri il 17 gennaio scorso si scopre che in Sicilia a meritare contributi pubblici nazionali anche per le relative infrastrutture saranno Catania, Palermo, Pantelleria, Lampedusa e Comiso, che nel 2013 ha fatto registrare poco più di 60mila passeggeri. Un nulla che riesce a fare comunque bella figura se lo si mette a confronto con Brescia-Montichiari. L’aeroporto D’Annunzio, in sistema con il Valerio Catullo di Verona, nei primi 11 mesi del 2013 (ultimo dato disponibile) ha visto atterrare o decollare non più di 30 passeggeri al giorno (circa 10mila in tutto). Costerebbe meno accompagnarli in auto a destinazione.
Eppure anche Montichiari è rientrato tra gli scali da premiare, perché prima o poi diventerà cargo. L’anno scorso, a maggio, fu annunciato un importante accordo con un vettore vietnamita che avrebbe dovuto assicurare almeno un volo settimanale cargo (al momento a Montichiari atterrano praticamente solo i velivoli delle Poste con lettere e missive da smistare). Tutto è saltato. Tant’è che alcuni maliziosi ci hanno visto una mossa mediatica per far credere che le potenzialità di crescita fossero concrete. La mossa evidentemente ha funzionato. Il governo scommette su Montichiari e quando avrà bisogno di fare investimenti potrà chiederne direttamente allo Stato. Quanto scommette? Non è dato saperlo, ma quello che è certo è che per il pianificatore i “milanesi”Linate (8,4 milioni di passeggeri) e Orio Al Serio (8,3 milioni) sono allo stesso livello dello scalo bresciano.
E tutti valgono meno di Malpensa verso cui dovranno essere deferenti a cedere il passo quando si tratterà di investimenti. Chiaro. Peccato che quando si decise a priori di sviluppare lo scalo di Varese e ridimensionare Linate, i passeggeri hanno scelto Orio. Nello sguardo di Lupi, ancora più importante di questi scali lombardi c’è l’hub (si fa per dire) di Lamezia Terme. Nonostante i suoi 2 milioni di passeggeri è strategico quanto Fiumicino o Venezia. Prevale la logica politica. In questo modo tutti i referenti locali possono vantare una vittoria. Tant’è che il piano del governo non ha scontentato quasi nessuno. A parte Torino che si aspettava la certificazione di strategico, ma che comunque già si muove per aprire una trattativa. “Quello del ministro Lupi è un piano aperto al confronto, ci sono tutti gli elementi per dimostrare la valenza strategica dell’aeroporto di Torino Caselle per il Piemonte e per l’Italia. Nei prossimi giorni avremo con Lupi un incontro per affrontare la questione”, ha detto il sindaco di Torino, Piero Fassino, sottolineando che “bisogna dotare la città di infrastrutture adeguate e tra queste è fondamentale il potenziamento dell’aeroporto”.
E così si torna a discutere del leit motive: strade e cantieri. Come quelli che verranno aperti “per il soddisfacimento del previsto aumento della domanda di traffico e al fine di migliorare la qualità dei servizi”, come recita il piano Lupi che contempla “l’individuazione delle opere necessarie per il miglioramento dell’accessibilità e dell’intermodalità; le priorità degli interventi di potenziamento della rete e dei nodi intermodali di connessione e l’inserimento nella programmazione e pianificazione delle istituzioni competenti, quali urgenti ed indifferibili, dei collegamenti viari e ferroviari con i tre gate intercontinentali”.
Restano tagliati fuori dai soldi pubblici e dagli aiuti solo gli scali declassati. Siena, Albenga, Aosta, Grosseto, Bolzano, Brindisi, Foggia, Taranto, Oristano e Forlì. Ma sul loro futuro c’è solo nebbia. Chiuderanno? Non sembra. Saranno finanziati dalle Regioni, probabilmente. Con quali soldi non si capisce. Certo definirli nazionali sarebbe stato stavolta un insulto all’intelligenza dei cittadini. Basti pensare che Siena-Ampugnano (per cui il cui ampliamento nel 2010 sono stati indagati l’ex numero uno del Monte dei Paschi Giuseppe Mussari e altri 15) nei primi 11 mesi del 2013 ha fatto registrare 258 passeggeri. Di cui 71 a gennaio scorso, 187 a febbraio e poi zero. E dire che erano stati stanziati 15 milioni di euro con la previsione di raggiungere 100mila passeggeri. Insomma, rileggendo il piano Lupi e cercando di rispondere alle domande che lascia senza risposta, viene da pensare che nella migliore delle ipotesi per l’ennesima volta l’Italia pensi che debbano essere i viaggiatori al servizio dei vettori e degli scali e non viceversa oppure viene da pensare che a guadagnare saranno le aziende che vivono del business dei cantieri. Che si apriranno anche se non necessari.
Nota: ce ne sono ovviamente decine di casi orribili di trasformazioni fini a sé stesse del genere, a suo tempo ci occupammo di una particolarmente grossa e spudorata, citata anche qui, quella dello Hub Montichiari (f.b.)
Come uno dei sue rami del potere legislativo distrugge la legalità, mediante convergenze parallele di senatori di Forza Italia e del Partito democratico. l'Unità online, blog "città e città", 24 gennaio 2014
Almeno una volta l’anno, a volte due. Quasi una malattia di stagione, il condonismo compare in Parlamento a cadenze regolari. Dando speranze, strumenti, cavilli giuridici agli abusivisti.
Stupefacente quel che è avvenuto in Senato, che ha approvato la proposta di legge presentata dal forzista Ciro Falanga su “Disposizioni in materia di criteri di priorità per l’esecuzione di procedure di demolizioni di manufatti abusivi”. In sostanza è una lista di 11 tipologie di abusivismi da rispettare negli ordini di demolizione: Prima gli abusi pericolanti, poi quelli non finiti, e ancora quelli usati per attività criminali, quelli di proprietà di appartenenti alle cosche, gli ecomostri (al quinto posto)… fino agli abusi “di necessità”, anche se con villetta di lusso e piscina. Discutibile la lista, ma ancor più dannoso lo strumento che si offre agli abusivi: la possibilità, per chi fosse arrivato al termine del già lungo e farraginoso iter della demolizione, di fare ancora nuovi ricorsi, bloccando ancora la demolizione. Insomma, un condono mascherato
Per l’ex senatore Roberto Della Seta, questa sarà “la pietra tombale sugli smantellamenti, chiunque infatti potrà appellarsi contro la loro decisione”. Per Vittorio Cogliati Dezza “è una camicia di forza alla lotta contro l’abusivismo, una beffa”. Anzi, incalza, “tutti si giocheranno la carta dell’abusivismo di necessità, che ora grazie al Senato è diventato un istituto giuridico”. Sostenuto con energia dai senatori della Campania – se qualcuno volesse andare a fare un viaggio per gli sconci di quella regione, un tempo meravigliosa, capirebbe il perché: 200 mila abusi censiti, quasi 70 mila sentenze di abbattimento già pronte all’esecuzione – il testo di legge ha diviso il Pd e ha avuto il voto contrario di M5s, Lega, Sel. La legge ora passa alla Camera, c’è da sperare che venga profondamente modificata prima che i prossimi temporali producano smottamenti e frane, e si sia costretti a piangere nuove perdite umane in case “che lì non ci sarebbero dovute stare”.
Stupisce nel brillante articolo l’accreditare De Luca come «il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato» e l’uomo «di sinistra» che ha trasformato Salerno in «una delle più vitali e solari città del sud, con un water front moderno e funzionante». Davvero sono troppi i giornalisti che non sanno comprendere che cosa avviene nelle città. La Repubblica, 25 gennaio 2014
Sembrava, sino a ieri, il meglio e il peggio del sud mischiati in una ganga compattissima: il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato e lo sceriffo guappo che sottometteva la città alla sua legge, padrone e al tempo stesso governatore coraggioso: con lui Salerno è diventata una delle più vitali e solari città del sud, con un water frontmoderno e funzionante, belle strade, grandi architetti e conti in ordine.
Ebbene, tutto questo successo gli ha dato alla testa. E adesso che ha deciso di non obbedire neppure al Tribunale civile, in lui ha definitivamente prevalso il sangue pazzo del meridionale sul politico arguto e virtuoso. E butta fumo dalle narici, subisce il Diritto come una soperchieria, insulta il ministro Lupi che da mesi gli chiede di scegliere: «figurati se mi faccio ricattare da uno come te». E non cede neppure ai giudici. È la versione salernitana del siciliano Mirello Crisafulli, del veneto Cota, del lombardo Formigoni, è il notabile di sinistra che mette se stesso al di sopra di tutto, come fosse un altro unto del signore.
È arrivato, in questo suo “teppismo democratico”, a fare l'elogio dell'immoralità «che ci permette di governare», ha esibito come scalpi le indagini alle quali è sottoposto, di cui non ci occupiamo, e dalle quali gli auguriamo di uscire pulitissimo: «Io sono orgoglioso. In questo paese siamo tutti indagati. Non c'è un amministratore che non abbia un avviso di garanzia. Chi non ce l'ha è una chiavica ». E ha sempre cercato cariche: quando era eletto alla Camera si ricandidava come sindaco; da sindaco si candidava come presidente della Regione; e, podestà di Salerno, “sindaco per sempre” più di Orlando a Palermo, ha golosamente accettato di fare il sottosegretario. E ha candidato pure il figlio, proprio come fecero Raffaele Lombardo in Sicilia e Bossi in Padania: «Quelli che ce l'hanno con mio figlio sono cialtroni e farisei ».
Avrebbe dovuto dimettersi allora, nell’aprile del 2013, quando venne nominato ai trasporti nel governo Letta. L'incompatibilità infatti non ha bisogno di sentenze, si impone per evidenza: se vuoi amministrare
(bene) i trasporti d'Italia non hai certo il tempo di governare (bene) Salerno. È roba da
fantuttone,
da “ghe pensi mi” che purtroppo tradotto in salernitano rimanda al pregiudizio della prepotenza antropologica: «A Salerno mi votano anche le pietre». Solo Brunetta avrebbe voluto fare allo stesso tempo il ministro della Funzione pubblica, il sindaco di Venezia e il deputato. I doppi incarichi e l'amministrazione come accumulo di roba non sono mai stati valori di sinistra, e non basta certo il tifo da stadio dei salernitani che lo eleggono per acclamazione a farne un eroe al di sopra della legge, come gli indimenticabili briganti delle due Sicilie.
E poi c'è quel parlare a gesti, quel lessico da duro pittoresco, una lingua impastata di esclamazioni, minacce, rancori e ripicche. E intanto si tocca, fa le corna e gli scongiuri, si gratta perché Lupi porta sfiga: «non si sa mai, ho due figli, abbiate pazienza: una grattatina ». E «la grillina Lombardi vada a mori’ ammazzata », «il collega del pd Zoggia sembra un raccoglitore di funghi», «il doppio incarico è una palla!», «coglioni!», «dei rom me ne frego!», «le discariche vanno aperte con il carro armato», «nel Pd c'è un gruppo dirigente di miserabili e il partito vive nella demenzialità », «spero di incontrare quel grandissimo sfessato e “pipì” di Marco Travaglio di notte e al buio», «Grillo sta con il panzone al sole», «Monti si mette il chihuahua sulla testa»...
Gli archivi e i blog sono pieni delle gag di De Luca e su Youtube è più cliccato di Ficarra e Picone. Ovviamente è molto parodiato, si ride di lui, è una specie di fattucchiero, una riedizione del Rosario Chiarchiaro interpretato da Totò... In realtà tutto questo divertirsi è una smorfia dolorosa, una partita sospesa sul Sud d’Italia, quello dei notabili e dei capibastone. De Luca, caudillo liberale («sono gobettiano» dice), è l'ennesima sconfitta, forse quella definitiva, dell'utopia dello sviluppo nella terra dei diavoli: da poveri a ricchi, da attardati a veloci, dall'indolenza alla nevrosi, dall'immobilismo all'iperattivismo. Nella miseria del guappo democratico stravaccato su due poltrone c’è la morte di un sogno antico che è anche nostro, il sogno di tutti i meridionali d’Italia, di un Paese che per tre quarti è Meridione.
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Sembrava, sino a ieri, il meglio e il peggio del sud mischiati in una ganga compattissima: il riformatore che aveva restituito dignità a un territorio desertificato e lo sceriffo guappo che sottometteva la città alla sua legge, padrone e al tempo stesso governatore coraggioso: con lui Salerno è diventata una delle più vitali e solari città del sud, con un
water front
moderno e funzionante, belle strade, grandi architetti e conti in ordine.
Ebbene, tutto questo successo gli ha dato alla testa. E adesso che ha deciso di non obbedire neppure al Tribunale civile, in lui ha definitivamente prevalso il sangue pazzo del meridionale sul politico arguto e virtuoso. E butta fumo dalle narici, subisce il Diritto come una soperchieria, insulta il ministro Lupi che da mesi gli chiede di scegliere: «figurati se mi faccio ricattare da uno come te». E non cede neppure ai giudici. È la versione salernitana del siciliano Mirello Crisafulli, del veneto Cota, del lombardo Formigoni, è il notabile di sinistra che mette se stesso al di sopra di tutto, come fosse un altro unto del signore.
È arrivato, in questo suo “teppismo democratico”, a fare l'elogio dell'immoralità «che ci permette di governare», ha esibito come scalpi le indagini alle quali è sottoposto, di cui non ci occupiamo, e dalle quali gli auguriamo di uscire pulitissimo: «Io sono orgoglioso. In questo paese siamo tutti indagati. Non c'è un amministratore che non abbia un avviso di garanzia. Chi non ce l'ha è una chiavica ». E ha sempre cercato cariche: quando era eletto alla Camera si ricandidava come sindaco; da sindaco si candidava come presidente della Regione; e, podestà di Salerno, “sindaco per sempre” più di Orlando a Palermo, ha golosamente accettato di fare il sottosegretario. E ha candidato pure il figlio, proprio come fecero Raffaele Lombardo in Sicilia e Bossi in Padania: «Quelli che ce l'hanno con mio figlio sono cialtroni e farisei ».
Avrebbe dovuto dimettersi allora, nell’aprile del 2013, quando venne nominato ai trasporti nel governo Letta. L'incompatibilità infatti non ha bisogno di sentenze, si impone per evidenza: se vuoi amministrare
(bene) i trasporti d'Italia non hai certo il tempo di governare (bene) Salerno. È roba da fantuttone,
da “ghe pensi mi” che purtroppo tradotto in salernitano rimanda al pregiudizio della prepotenza antropologica: «A Salerno mi votano anche le pietre». Solo Brunetta avrebbe voluto fare allo stesso tempo il ministro della Funzione pubblica, il sindaco di Venezia e il deputato. I doppi incarichi e l'amministrazione come accumulo di roba non sono mai stati valori di sinistra, e non basta certo il tifo da stadio dei salernitani che lo eleggono per acclamazione a farne un eroe al di sopra della legge, come gli indimenticabili briganti delle due Sicilie.
E poi c'è quel parlare a gesti, quel lessico da duro pittoresco, una lingua impastata di esclamazioni, minacce, rancori e ripicche. E intanto si tocca, fa le corna e gli scongiuri, si gratta perché Lupi porta sfiga: «non si sa mai, ho due figli, abbiate pazienza: una grattatina ». E «la grillina Lombardi vada a mori’ ammazzata », «il collega del pd Zoggia sembra un raccoglitore di funghi», «il doppio incarico è una palla!», «coglioni!», «dei rom me ne frego!», «le discariche vanno aperte con il carro armato», «nel Pd c'è un gruppo dirigente di miserabili e il partito vive nella demenzialità », «spero di incontrare quel grandissimo sfessato e “pipì” di Marco Travaglio di notte e al buio», «Grillo sta con il panzone al sole», «Monti si mette il chihuahua sulla testa»...
Gli archivi e i blog sono pieni delle gag di De Luca e su Youtube è più cliccato di Ficarra e Picone. Ovviamente è molto parodiato, si ride di lui, è una specie di fattucchiero, una riedizione del Rosario Chiarchiaro interpretato da Totò... In realtà tutto questo divertirsi è una smorfia dolorosa, una partita sospesa sul Sud d’Italia, quello dei notabili e dei capibastone. De Luca, caudillo liberale («sono gobettiano» dice), è l'ennesima sconfitta, forse quella definitiva, dell'utopia dello sviluppo nella terra dei diavoli: da poveri a ricchi, da attardati a veloci, dall'indolenza alla nevrosi, dall'immobilismo all'iperattivismo. Nella miseria del guappo democratico stravaccato su due poltrone c’è la morte di un sogno antico che è anche nostro, il sogno di tutti i meridionali d’Italia, di un Paese che per tre quarti è Meridione.
Riferimenti
Vedi su eddyburg i molti articoli dedicati al "crescent" di Salerno e alle gesta del suo patron politico. Li abbiamo raccolti in una cartella in cui presentevamo la Salerno di DeLuca come un caso di «demagogia e distruzione edilizia della città saldamente legate in un unico progetto politico e personale».
Attento titolista: La legge bocciata non riguardo solo Venezia, ma il Veneto, quindi anche Verona e Padova, Vicenza e Belluno, Rovigo e Asolo, e così via. Corriere della Sera, 25 gennaio 2014
Per settimane, mentre divampavano le polemiche degli ambientalisti, il vicepresidente di rito alfaniano Marino Zorzato, deciso a lanciare un messaggio ai suoi elettori a dispetto dell’appoggio assai tiepido da parte del governatore Luca Zaia, si è affannato a spiegare che, per carità, con la sua legge, il Terzo piano casa valido fino al 2017 per rilanciare l’edilizia non ci sarebbe alcun pericolo per il paesaggio e men che meno per i centri storici. Sintesi: «Gli altri piani hanno funzionato fino a un certo punto perché molti sindaci si sono messi di traverso. Noi vogliamo che tutti i cittadini siano sullo stesso piano. Quindi le nuove regole devono valere per tutti, al di là del consenso dei comuni».
Obiezioni istantanee e corali: si possono mettere sullo stesso piano certi brutti paesotti industriali traboccanti di aree produttive e i borghi medievali unici al mondo e assolutamente da proteggere? Per non dire dei mal di pancia dei sindaci, compresi quelli della stessa destra e della stessa Lega che governa la regione, decisi a contestare la filosofia di base: che coerenza c’è tra lo sbandieramento di parole come federalismo, sussidiarietà, democrazia dal basso e la scelta di tagliar fuori i sindaci da ogni possibilità di opporsi alla cementificazione del loro territorio? Quali devastazioni può creare alle aree verdi la possibilità concessa di ampliare la propria casa spostando la cubatura in un terreno il cui confine stia nel raggio di 200 metri dall’abitazione di partenza?
Cosa sia il Veneto oggi, nei numeri, lo spiega un breve saggio di Tiziano Tempesta, docente di economia territoriale: migliaia di aree industriali sparpagliate spesso a casaccio (1.077 nella sola provincia di Treviso, 23 ai piedi di Asolo, 28 a Crocetta del Montello, cioè una ogni 204 abitanti) nel culto dello spontaneismo. Il 20% della pianura centrale occupato da suoli edificati. Anni di sviluppo forsennato che hanno accatastato fino al 2006 una quantità di metri quadri per chilometro quadrato di nuove abitazioni «doppia rispetto alla media nazionale». Un aumento dal 2001 al 2011 di 88.000 abitazioni non occupate, diventate ormai un sesto del patrimonio edilizio. Un’esagerazione di spazi: «Il 64,9% della popolazione vive in abitazioni sottoutilizzate contro il 54,1% dell’Italia». Di più: «Il 62% abita in ville e villini (rispetto al 43% nazionale), tipologie edilizie che per loro natura si prestano maggiormente ad interventi di ampliamento». A farla corta, val la pena di insistere sul cemento, se «a livello nazionale il numero di compravendite immobiliari si è ridotto dal quinquennio 2004-2008 al quinquennio 2009-2013 del 33,5% mentre nel Veneto questa percentuale è stata del 39,2%»?
Non sarà una ricetta vecchia e stravecchia in un mondo in cui, dice l’ultimo rapporto di «MMOne Group» su dati Eurostat, la quota di fatturato che le imprese europee ricavano dall’«ecommerce» è salita al 15% (le nostre stanno al 6%) con punte del 20% in Svezia, 21% in Irlanda, 23% in Lussemburgo e addirittura 24% nella Repubblica ceca? Gli altri sono proiettati nel futuro e noi continuiamo col mattone?
A queste obiezioni sollevate da più parti e in prima fila dai sindaci (di tutti i colori, compreso il leghista Flavio Tosi) dei capoluoghi, si è sommata la preoccupazione di Venezia di ritrovarsi con una miriade di case, uffici e magazzini trasformati in alberghi e alberghetti, bar e trattorie e negozi di maschere senza che il Comune possa minimamente opporsi alla definitiva cessione della città, che è stata una grande potenza navale, militare, storica, culturale e universitaria, ai teorici di un «turistificio» destinato a vivere solo di locande, locandine, bar, baretti, botteghe di borsette e di souvenir di falso «vetro di Murano» prodotto in Cina.
«L’indiscriminata applicazione delle deroghe ammesse dalle Legge Regionale, in particolare per gli ampliamenti volumetrici, gli aumenti di superficie utile e i cambi di destinazione d’uso per gli edifici della Città Antica e delle isole», si legge nell’appello al governo del sindaco Giorgio Orsoni e della sua giunta perché bocci il «piano casa», «porterebbe a uno snaturamento dei contenuti» del Piano di gestione Unesco e al «rischio di irreversibile compromissione del sistema ambientale».
Tutte obiezioni accolte, nonostante la posizione più disponibile di Maurizio Lupi, dai ministri dell’Ambiente, della Cultura, del Turismo e degli Affari regionali Andrea Orlando, Massimo Bray e Graziano Delrio con l’aggiunta del ministro per lo sviluppo economico Flavio Zanonato. I quali, nella loro proposta di impugnare la legge veneta sono partiti contestando un po’ tutto. Dall’eccesso di «deroghe generalizzate» alla «automaticità delle misure premiali esautorando sostanzialmente i comuni dalla fondamentale funzione di pianificazione urbanistica», dal «contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza» di queste cubature-premio fino al rischio che le misure, anziché «tendere al recupero e al miglioramento del patrimonio edilizio esistente, possano determinare un ulteriore consumo del suolo». Le stesse rassicurazioni sul fatto che sarebbero esclusi da ogni pericolo i centri storici ha convinto affatto il governo. Insomma «la norma mina in radice i presupposti stessi della tutela paesaggistica» e «deve ritenersi viziata da illegittimità costituzionale».
Sintesi finale: la Regione Veneto ha qualche giorno di tempo per modificare una serie di punti. Ma sulla esautorazione dei sindaci, le deroghe sulle aree a rischio idrogeologico e le procedure facili sul cambio di destinazione d’uso, nessuna trattativa. Tutto bocciato.
Non ci sono più parole per protestare contro gli scempi che questo governo e questo parlamento stanno compiendo. Ma se passa la legge elettorale di Renzusconi i prossimi non saranno migliori. Il manifesto, 23 gennaio 2014
Il testo uscito dalla penna del senatore di Forza Italia Ciro Falanga e votato a larghissima maggioranza dal Senato della Repubblica è qualcosa di inaudito. Il potere legislativo si arroga la prerogativa di indicare ad un altro potere dello Stato indipendente dal primo l’ordine di priorità nella demolizione dei casi di abusivismo accertati e arrivati fino all’atto conclusivo previsto dalle leggi, e cioè all’ordinanza di demolizione.
Per comprendere il vulnus che questo provvedimento rischia di produrre nella struttura dello Stato si può pensare ad una serie infinita di altri reati. Perché non intervenire nella priorità di arresto per chi froda il fisco o per chi mette in commercio cibi adulterati? Non è l’indipendenza della magistratura in forza della legislazione vigente che deve sanzionare i reati. E’ il Parlamento che detta le regole da rispettare sulla base della più assoluta irrazionalità e discrezionalità dei criteri via via stabiliti sulla base delle meschine convenienze politiche ed elettorali.
Se c’era un modo per demolire ulteriormente la già scarsa fiducia che la quasi totalità del paese ha nei confronti del Parlamento, i senatori che hanno votato il provvedimento hanno raggiunto il loro scopo e c’è un unico rimedio: disconoscerlo pubblicamente e chiudere per sempre questa pagina buia.
Ma c’è anche una gravissima questione di merito che va evidenziata. Il provvedimento nella sua ipocrita classifica di priorità parla ancora di «difendere il tetto» delle famiglie che hanno subito l’ordinanza di demolizione, quando tutti sanno che l’abusivismo di necessità è finito dagli anni ’90 dello scorso secolo. Da allora è soltanto un modo per investire denaro di provenienza illecita o per tentare speculazioni affaristiche. Purtroppo, da venticinque anni grazie alla cultura del condono e ai piani casa si continua a solleticare il fai-da-te nel governo del territorio e il provvedimento Falanga rappresenta il tentativo di approvare il quarto condono edilizio. Dal primo condono (1985), gli altri si sono succeduti a distanza di nove anni. Stavolta arriva con due anni di ritardo, ma fa lo stesso.
In questi giorni l’Italia che spera in un diverso futuro guarda con sgomento che un’intera regione, la Liguria, sta scivolando a mare grazie al lassismo urbanistico e all’abusivismo. Il senato della Repubblica ha dimostrato di non essere in sintonia con questo sentimento diffuso. Il suo orizzonte si ferma alle convenienze elettorali
Un robusto contributo alla riflessione sui beni comuni e sulla loro legittimità del vicepresidente onorario della Corte costituzionale e coautore della Legge Galasso. Testo inviato dall'Autore
Relazione al Convegno di studi sul tema “Regole per il buon governo. La riforma della legge regionale toscana sul governo del territorio, Firenze, 20 novembre 2013; Relazione al Convegno di studi sul tema “Il governo del territorio nelle Marche: quali cambiamenti?”, Fermo, 6 dicembre 2013. In corso di pubblicazione sulla rivista cartacea Diritto e Società.
1. – La cosiddetta “crisi economico finanziaria”
Si parla impropriamente di “crisi economico finanziaria”, come una delle crisi cicliche dell’economia, dopo le quali torna il sereno. E’ questa la prima grande “falsità” che il “pensiero unico dominante del neoliberismo economico” fa credere al popolo italiano come una “verità” indiscutibile. Questa non è assolutamente una solita crisi economica ricorrente, è una “crisi economica finanziaria di sistema”, nella quale sono venuti a trovarsi in una situazione fortemente svantaggiata l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda, specialmente dopo l’attacco del novembre 2011, sferrato dalla speculazione finanziaria contro il loro debito pubblico.
I Paesi del sud Europa si trovano ora stretti da una tenaglia, che vede da un lato la corrosione continua della propria economia da parte della speculazione finanziaria e dall’altro la politica di austerity imposta dalla Germania. E’ una tenaglia che toglie liquidità alle imprese e causa di chiusure e delocalizzazioni, licenziamenti, disoccupazione, recessione, aumento del debito pubblico, miseria.. Non è difficile prevedere che l’esito finale di questo stato di cose sarà la svendita agli stranieri del territorio con tutte le conseguenze che ciò comporta, anche in termini di indipendenza nazionale.
Il dato fondamentale[1] consiste nel fatto che la “speculazione finanziaria”, la principale artefice di questo immane disastro mondiale, ha cessato di finanziare opere di investimento produttivo, che danno luogo a occupazione, ed ha preferito, per brama di guadagno immediato, comprare debiti, giocando in borsa con questi, quasi fossero valori economici positivi, ed investendo nei medesimi, dando così luogo, non a produzione di beni reali, ma a “raschiamento” della ricchezza esistente, ponendo in essere, per giunta, anche operazioni ad alto rischio, foriere di default,. E ben presto sono improvvisamente precipitate in una situazione fallimentare numerose banche americane ed europee, con la conseguenza, davvero insolita, che, essendo state giudicate “troppo grandi per fallire”[2] sono state poi salvate con interventi statali, quasi fossero banche in proprietà statale e non banche private, riversandosi così gli effetti del fallimento su ignari cittadini. E’ il caso della Goldman Sachs e della Morghen Stanley americane, dell’Ubi svizzera e del Monte dei paschi italiana. Raramente, ed invero anche inspiegabilmente, qualche banca è stata lasciata fallire, come nel caso della Lehman Brothers americana[3].
Detto in una sola parola, la speculazione finanziaria ha creato una enorme “ricchezza fittizia”, facendo valere come “diritti di credito reali”, “debiti non garantiti” (si pensi ai “derivati” ed ai “derivati dal credito”), con vari artifici giuridici e prevalentemente, “creando danaro dal nulla”, il cosiddetto “danaro dall’aria fina”, e sostituendo così al “mercato reale” dell’economia, il “mercato finanziario fittizio”. Un mercato nel quale si parla di “crediti” ai quali non corrispondono “beni reali”. Il dato di fatto è che, comunque, manovrando questa ricchezza fittizia, la speculazione finanziaria introduce negli scambi uno stato di assoluta incertezza, agendo a proprio esclusivo vantaggio indipendentemente dalla situazione economica reale e, addirittura, “determinando” a proprio piacimento i tassi di interesse che i vari Paesi devono pagare sul loro debito pubblico, il cosiddetto “spread”.
Alla radice di tutto c’è un incredibile salto logico: quello di far credere che il “debito” è un “diritto di credito” sicuro, mentre, in realtà, il debito, per ragioni soggettive del debitore, ovvero per il dato oggettivo di un mutamento dei prezzi dei beni dati in garanzia (come è avvenuto per subprime americani, parametrati sul valore delle costruzioni per civili abitazioni, i cui prezzi sono crollati precipitosamente per l’eccesso di offerta), non è affatto “un bene sicuro”, ma un bene, se così lo si vuole chiamare, fortemente “aleatorio”.
E vediamo come le banche “creano danaro dal nulla”. Sin dal medio evo[4], come è noto, le banche prestavano danaro senza intaccare i depositi di beni reali, quali gioielli, monete d’oro, arredi preziosi, e per un valore nettamente superiore all’insieme di questi beni avuti in custodia, nella certezza che i creditori non accorressero tutti nello stesso momento per ritirare i loro depositi. Questo antico principio è stato sempre seguito fino a non molto tempo fa dalle nostre “banche commerciali”, la cui funzione era quella di raccogliere i risparmi e concedere prestiti per produrre beni reali. Un sistema, come si nota, positivo, poiché permette a chi intende intraprendere un’attività produttiva di creare beni e servizi, e quindi maggiore ricchezza, e di restituire regolarmente la somma avuta in prestito.
Sennonché, a cominciare dagli anni ottanta del novecento gli speculatori finanziari hanno avuto un colpo di genio: quello di trasformare i “crediti”, che poi vuol dire i “debiti”, in “titoli commerciabili”, soggetti a valutazione di borsa, e quindi a “creare danaro dal nulla”, come si diceva “danaro dall’aria fina”.
Ben presto questa prassi ha invaso l’intero occidente. Ma, in Italia, essa è venuta a trovarsi in contrasto con la disciplina codicistica dei titoli di credito (di cui agli artt. 2008, 2011 e 2021 del codice civile), la quale, come si legge nella Relazione al Re del Ministro guardasigilli per l’approvazione del testo del codice civile del 1942[5], evitò con cura che i “titoli al portatore” potessero “usurpare la funzione della carta moneta, la cui emissione non può essere lasciata all’arbitrio dei singoli”.
Sta di fatto, comunque, che questo fondamentale potere dello Stato di coniare moneta è presto finito nelle mani di banche private. “Per l’Unione Europea si stima oggi che oltre il 90 per cento della massa monetaria presente nell’economia sia stato creato dalle banche. Meno del 10 per cento è creato dalla BCE, di cui una frazione non superiore al 2-3 per cento sotto forma di monete e banconote. Il resto viene largamente impiegato al fine di sostenere con il danaro legale da essa emesso la creazione di danaro bancario o danaro-credito da parte di enti privati, cioè da banche commerciali”[6].
L’Italia, allora non ha saputo far di meglio che adeguarsi a questa prassi, propria degli ordinamenti di common law, legittimando la violazione palese di un principio fondamentale del nostro codice civile, con le disposizioni della legge 30 aprile 1999, n. 130, sulle “cartolarizzazioni”. Questa legge legittima “le operazioni di cartolarizzazione realizzate mediante cessione a titolo oneroso di crediti pecuniari, sia esistenti, sia futuri, individuabili in blocco se si tratta di una pluralità di crediti”.
Dunque, derivati, derivati dal credito ed altri simili “prodotti finanziari”, hanno avuto diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento positivo. Il fatto poi che l’art. 3 di detta legge n. 130 del 1999, confermato dalle disposizioni della legge n. 410 del 2001 sulle privatizzazioni degli immobili dello Stato, sancisca che “i crediti relativi a ciascuna operazione costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società (cioè della banca) e da quello relativo ad altre operazioni”, costituisce un “limite” di pura facciata, poiché quello che conta, ai fini del mantenimento di un sano sistema economico, non è certo la costituzione di patrimoni separati, ma il divieto assoluto (come fecero i redattori del codice civile del 1942) che le banche private “creino danaro dal nulla”, senza alcuna corrispondenza con la creazione di beni reali..
Oggi nessuno sa quanto danaro creato dal nulla sia in circolazione[7]. Una stima relativa al periodo 2000-2008 calcola che le banche europee soltanto in quel periodo avevano immesso sul mercato un volume di cartolarizzazioni pari a 3,7 trilioni di euro[8].
Occorre poi tener presente, si ripete, che gli speculatori finanziari manipolano spregiudicatamente questo “danaro fittizio”, facendo investimenti per acquisire nuovi titoli di questo genere e aumentando con la loro azione “l’instabilità della moneta” ed i “rischi” di default.
Ma non è tutto. Oltre al danaro creato dal nulla, c’è il “sistema bancario ombra”[9] degli enti finanziari diversi dalle banche, i quali, essendo privi di “regolazione” e di “sorveglianza”, possono agevolmente, con la libera creazione di “società di scopo”, evadere gli obblighi imposti dagli Accordi di Basilea, e cioè l’obbligo di avere una “riserva”, oggi del 2 per cento del prestito concesso, e, a partire dal 2019, dell’8 per cento del prestito stesso[10].
Questa complessa articolazione del sistema bancario mondiale, come agevolmente si nota, ha aumentato oltre il “sostenibile” il “rischio” di insolvenza, scaricando, però i relativi danni, non sulle banche, ma sulla collettività. Occorrerebbe, dunque, una riforma a livello internazionale, globale, o almeno europeo, ma vi si oppone un nemico pressoché invincibile, e cioè l’imperversare delle citate teorie “neoliberiste”, che, non ostante gli evidentissimi danni prodotti, oscura tuttora le menti di molti economisti (per l’ovvio motivo che questi si pongono come fine “il massimo profitto” e non il “benessere” materiale e spirituale della società) ed è fortemente radicata nell’immaginario collettivo. Il postulato, mai pienamente dimostrato in sede teorica (posto per la prima volta negli anni 40 del secolo scorso da due docenti dell’Università di Chicago, Milton Friedman e Greorge Stigler), consiste nell’affermazione, clamorosamente smentita dai fatti, conseguiti alle politiche reganiane e tacheriane, secondo la quale il “mercato” è il “grande ordinatore” della vita civile e prevale su tutti i campi: da quello del diritto, a quello della filosofia, fino a quello della morale[11]. Ciò che conta è ottenere il “massimo profitto”. E’ da questo che scaturirebbe il benessere di tutti. Sennonché si tratta di un drammatico errore, poiché, come afferma il Bauman[12], “tutto questo è falso”.
Il disastro, come si vede, è immane e richiede un nuovo “sistema economico mondiale, o almeno europeo” da costruire a livello internazionale, ma, limitando l’esame a livello italiano, è ben possibile correre ad alcuni ripari, che, a tacer d’altro, sono già previsti dalla nostra Costituzione.
Prima di passare all’analisi giuridica del problema, tuttavia, non si possono non citare le seguenti illuminanti parole di Papa Francesco, pronunciate il 16 maggio 2013 in occasione della presentazione delle lettere credenziali di alcuni ambasciatori[13]. “La crisi finanziaria che stiamo attraversando”, dice il Papa, “ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del primato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr. Es. 32, 15-34) ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del danaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano…..Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. Inoltre, l’indebitamento ed il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di possesso è diventata senza limiti”.
Mai analisi fu più acuta e più scientificamente fondata di questa. C’è la condanna espressa della ideologia neoliberista che vede nel mercato la soluzione di tutti i problemi. E’ posto in evidenza come il mercato arricchisce i ricchi ed impoverisce i poveri, e come da “mercato reale” sia diventato un mercato essenzialmente finanziario. Non si ha timore di porre chiaramente in evidenza che causa prima ed efficiente di questa tragica situazione è “la assoluta autonomia dei mercati e speculazione finanziaria”, definite “una nuova tirannia invisibile”. Si sottolinea come nel sottofondo di tutto questo ci sia una gravissima malattia di carattere morale, individuale e sociale, la “corruzione”, “la volontà di potenza e di possesso”.
2. – “L’antisovrano”.
Ed è proprio in questo preciso ordine di idee che si inserisce, sul piano del diritto, il fondamentale contributo scientifico di un laico, Massimo Luciani, il quale, per sussumere in un solo concetto i fenomeni di cui parliamo, si è riferito alla figura “dell’antisovrano”, e cioè di “un quid che in tutto e per tutto si contrappone al sovrano da noi tradizionalmente conosciuto. “Non è un soggetto (ma semmai una pluralità di soggetti); non dichiara la propria aspirazione all’assoluta discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali oggettive, quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello sviluppo); non reclama una legittimazione trascendente (che sia la volontà di Dio oppure l’idea dell’eguaglianza degli uomini), ma immanente (gli interessi dell’economia e dello sviluppo, appunto); non pretende di ordinare un gruppo sociale dotato almeno di un minimum di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità indistinta, anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli di tutto il mondo che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme di strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzata su base timocratica)…. L’antisovrano si arroga un potere senza averne il legittimo titolo…. è detentore di un potere che aspira ad essere universale, ed è l’agente che determina la crisi del mondo come l’abbiamo fino ad oggi conosciuto. Un antisovrano, dunque, dal punto di vista concettuale, ma inevitabilmente anche dal punto di vista pratico, perché l’affermazione del suo potere presuppone proprio che l’antico sovrano nazionale sia annichilito”[14].
Essenziale è l’affermazione secondo la quale l’antisovrano “si arroga un potere senza avere un legittimo titolo….e che aspira ad essere universale”.
Dunque, il problema che ci si pone è se si vuole restare soggetti ad un potere che non ha titolo giuridico per esistere, ovvero si vuol fare valere la forza del diritto contro la sopraffazione bruta del danaro. E la nostra Costituzione, come si diceva, offre dei capisaldi importantissimi per far valere il diritto e l’equità.
Limitandoci a ciò che può fare l’Italia, appare evidente che è da eliminare innanzitutto l’estrema anomalia di sistema prodotta dalla citata legge n. 130 del 1999.
Si tratta di una legge palesemente incostituzionale sotto vari profili. Innanzitutto essa contrasta con il principio della “stabilità dell’economia”, di cui è espressione il riferimento “all’unità ed alla indivisibilità della Repubblica” (art. 5 Cost.), nonché il riferimento “all’unità giuridica ed economica” della Nazione, di cui all’art. 120 Cost.
Ma soprattutto si tratta di una legge che incredibilmente tende a “deprimere” la salvaguardia del “valore costituzionale del lavoro”, considerato che, come si è visto, l’instabilità economica si riflette ineluttabilmente sul lavoro delle imprese e, quindi, “sull’occupazione”. In questa prospettiva, le violazioni costituzionali sono davvero enormi. Lo stesso art. 1 della Costituzione, secondo il quale l’Italia è “una Repubblica democratica fondata sul lavoro” ne viene fortemente colpito. Di pari violazione è inoltre vittima l’art. 4 comma 1, Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”. Altrettanto plateale è la violazione dell’art. 35 Cost., secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. E, lo si creda, l’elenco potrebbe continuare, citando, ad esempio, l’effetto negativo che le cartolarizzazioni producono sulla “proprietà pubblica e privata”, di cui all’art. 42 Cost. Detto in una parola, si tratta di una legge in pieno contrasto con i principi fondanti della nostra Costituzione, poiché essa pone come “valore”, non lo sviluppo della “persona umana” e quindi “il lavoro dell’uomo”, ma il concetto capitalistico del “massimo profitto” individuale.
3. – Illegittimità della speculazione finanziaria.
Superata questa prima difficoltà, resta da dimostrare quanto l’azione dell’antisovrano contrasti con la nostra Costituzione repubblicana e con i Trattati europei.
A ben vedere, in contrasto con la Costituzione sono, non solo il regime delle “cartolarizzazioni”, ma l’insieme delle “transazioni finanziarie speculative”, che, mirando, non a produrre, ma a raschiare la ricchezza esistente in proprietà collettiva della Comunità nazionale, hanno certamente una finalità illecita e sono dunque “nulle per illiceità della causa”. E tutto questo a prescindere dalle eventuali illiceità penali scaturenti dagli accordi tra più speculatori finanziari, come prevede l’art. 501 del vigente codice penale.
Ne consegue che da negoziazioni prive di valore giuridico non possono scaturire validi “giudizi di mercato”, in base ai quali si stabiliscono i “prezzi di mercato”.
E, date queste premesse, appare del tutto evidente che anche i cosiddetti “spread” non sono affatto attendibili. Come poco sopra si accennava, gli speculatori finanziari agiscono nel loro personale interesse, indipendentemente da qualsiasi riferimento all’economia reale di un Paese, e la loro “determinazione” dei tassi di interesse che ciascun Paese deve pagare sul proprio debito pubblico, non deriva da valutazioni puramente economiche, cioè dall’applicazione della legge naturale della domanda e dell’offerta, ma da una arbitraria, e spesso concordata, scelta degli stessi speculatori finanziari. D’altro canto, in un mercato finanziario, che ha definitivamente perduto la finalità di investire in attività produttive di beni reali, ed investe invece in operazioni finanziarie per scopi soltanto speculativi, che hanno come risultato l’instabilità dei prezzi e l’aumento della disoccupazione, quale valore di misurazione dell’economia reale possono avere gli “spread”?
E si deve ricordare in proposito che la speculazione finanziaria, agisce sì sulle quotazioni del mercato secondario, ma finisce per influenzare anche il mercato primario, essendo stato dimostrato che le quotazioni del primo si trasferiscono, nello spazio di tre o sei mesi, anche sul secondo.
Allo stato attuale, non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di “disconoscere” la validità giuridica delle transazioni speculative, dei cosiddetti giudizi di mercato e, in particolare, degli spread.
Riguardo a quest’ultimo sarebbe forse opportuno prevedere una “determinazione” da parte di una Autorità indipendente, che offra la visione di un “differenziale” tra i tassi di interesse sul nostro debito pubblico e quelli della Germania, depurata dal “carico” della speculazione e sia dunque più vicina alla realtà dei fatti. Un documento del genere, periodicamente aggiornato, potrebbe servire a sminuire l’attendibilità degli spread finanziari.
Come si è accennato, problema gravissimo è quello relativo alla “posizione dominante” nella quale, ad opera degli speculatori finanziari (la cui azione, come si è visto, è del tutto inattendibile) è venuta a trovarsi la Germania, la quale insiste nella sua politica di austerity.
Anche qui la situazione che si è creata è del tutto in contrasto con quanto dispongono i Trattati, la nostra Costituzione, le Costituzioni degli Stati europei ed il diritto internazionale consuetudinario e pattizio (Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, divenuto esecutivo nel 1976)[15].
A ben vedere l’insistenza della Germania nella politica di austerity configura una palese violazione dell’art. 82 del Trattato, il quale sancisce l’incompatibilità con il mercato comune dello “sfruttamento abusivo della posizione dominante”. Si tratta di una “incompatibilità” che persegue l’obiettivo enunciato dall’art. 3 del Trattato di garantire che la “concorrenza” non venga falsata. Ed è proprio quello che sta facendo la Germania. Se ciò è vietato per le singole imprese, a maggior ragione deve essere vietato per il comportamento dello Stato tedesco, il quale, così facendo, finisce con il “legittimare” la violazione dei Trattati da parte di tutte le imprese.
A ciò si deve aggiungere che i mercati finanziari, nella loro avidità di guadagno, sono pronti ad aggredire una impresa (agendo sui titoli azionari o obbligazionari) o un intero Paese (agendo sui tassi di interesse sul debito pubblico) al primo sintomo di debolezza imponendo loro maggiori tassi di interesse e rendendo così impossibile qualsiasi possibilità di ripresa.
La politica dell’austerity va proprio in questa direzione. L’Europa, imponendo ai Paesi fortemente indebitati una diminuzione del debito con operazioni puramente contabili, senza tener conto degli effetti recessivi, persegue un fine opposto a quello che proclama: fa aumentare le tassazioni, fa diminuire la liquidità, provoca chiusura di imprese, licenziamenti, disoccupazione, recessione, conseguendo come ultimo risultato l’impossibilità assoluta di diminuire il debito. Insomma, il Paese sotto attacco è senza scampo, è costretto a non investire e ad aumentare la disoccupazione, e, infine, a svendere il proprio territorio.
Ed è da sottolineare che tutto questo, non solo lede quanto prescrive il citato art. 82 del Trattato in ordine “all’abuso della posizione dominante”, ma è altresì in contrasto con il principio fondamentale europeo, ribadito dalla carta di Nizza, della “coesione economica e sociale”[16]. E, a questo punto, il dilemma è insuperabile: o l’Europa recede da questo atteggiamento, oppure saremo costretti ad uscire dall’euro. Come ricorda Vladimiro Giacché[17], “l’uscita dall’euro potrebbe presto essere considerata come la vecchiaia per Maurice Chevalier: una gran brutta cosa, ma sempre migliore dalle alternative”. Soffriremmo del protezionismo da parte degli altri Paesi e dell’inflazione, ma potremmo esercitare la nostra “sovranità monetaria”, agendo su un piano di parità con tutti gli altri Stati del mondo, ed in particolare con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone, i quali, come è noto, hanno risolto i loro problemi stampando moneta.
A questo punto, restringendo l’analisi all’aspetto puramente giuridico riguardante il nostro Paese, balzano in primo piano due fondamentali “errori”, diffusi tra gli studiosi, ma anche nell’immaginario collettivo, dalla cultura borghese e dall’imperante teoria neoliberista. Si tratta, da un lato della nozione dello Stato, come “Persona giuridica” e dall’altro della proclamata esistenza di un solo tipo di “proprietà”, là dove esistono due tipi di proprietà: quella “collettiva”, fondata sulla “sovranità popolare”, e quella “privata”, la quale ha per fondamento la “legge”, cioè una manifestazione di volontà del popolo. E la proprietà collettiva, sia ben chiaro, ha una “precedenza storica”, come dimostra la storia del diritto, ed una “prevalenza giuridica”, come dimostra la nostra Costituzione, specialmente a proposito della disciplina della proprietà privata. Infatti, talune disposizioni costituzionali, come meglio vedremo in seguito, “subordinano” la tutela giuridica della proprietà privata all’interesse pubblico e allo “scopo della funzione sociale”.
E veniamo innanzitutto al concetto di “Stato”, che da più parti si ritiene superato ed in via di estinzione, là dove una indagine sulle fonti del diritto dimostra invece che la fonte principale di questo risiede sempre nella “sovranità” degli Stati, come dimostra a tacer d’altro, proprio l’organizzazione dell‘Unione Europea, che nasce dai “trattati” stipulati dagli Stati membri e vede la sua più alta Istituzione nel “Consiglio”, che ha il più ampio potere normativo, e che ha la natura di un “Organo di Stati”. I quali, fondando tutto sulla propria “sovranità”, stabiliscono quale sia la decisione da prendere nell’interesse della Comunità stessa.
D’altro canto, se si guarda alla nostra Costituzione, si scopre agevolmente che il nostro non è affatto uno “Stato persona giuridica”, come affermava lo Statuto albertino, ma uno “Stato comunità”, che è costituito dai “cittadini sovrani”. In questa visuale, che tarda ad affermarsi persino tra gli studiosi di diritto, lo “Stato persona” è solo la “Pubblica Amministrazione”, la quale, come da tempo ha dimostrato il Sandulli[18], è semplicemente un “organo” dello Stato comunità.
E, per capire l’essenza dello “Stato comunità”, ed in genere della “Comunità politica”, è indispensabile rivolgersi alla storia. Ed, in particolare, alla storia della Costituzione romana[19].
Infatti, fu la Respublica romana, che era costituita dal “Senatus Populusque Romanus”, il primo chiaro esempio di “Stato comunità”, o, se si preferisce, di “Comunità politica”. Ed il dato più importante che emerge dall’analisi storica è che la nascita di questo tipo di Stato si fonda su due concetti chiave (dei quali forse si è persa memoria): quello di “confine” e quello del “rapporto tutto parte”.
E’ innegabile, infatti, che la nascita della “Civitas romana”, e cioè della “Comunità politica di Roma” coincise con la “confinazione”, il fines regere della tradizione[20], con la quale Romolo, o chi per lui, distinse il terreno sul quale doveva sorgere l’urbs dai terreni circostanti, trasformando il terreno confinato in un “territorio”, dal latino “terrae torus”, “letto di terra”, il cui fine fu quello di ospitare l’aggregato umano che su di esso si insediava, prendendo il nome di “populus” (che significa “cittadini in armi”). Nello stesso momento, sorse anche la necessità di “confinare”, e cioè limitare la libertà dei singoli per rendere possibile la convivenza civile, attribuendo al popolo la “sovranità”, cioè la somma dei poteri necessari a perseguire questo fine. Insomma, tracciando il solco di Roma, Romolo dette luogo al nascere di tre elementi: il “territorio”, il “popolo” e la “sovranità”, dalla quale scaturì l’ordinamento giuridico. Ed è da sottolineare che, attraverso la “confinazione”, si dette luogo anche alla nascita del “primordiale rapporto giuridico di appartenenza”, quello della “proprietà collettiva del territorio”. Un rapporto che, come dimostra la stessa indagine filologica del termine (terrae torus), non fu affatto un rapporto di “dominio pieno ed esclusivo”, ma un rapporto quasi personale di appartenenza, come quello che normalmente si instaura tra un individuo ed il proprio letto
Ma non basta. Occorre porre in evidenza, come si accennava, che caratteristica fondamentale di quell’aggregato umano (detto in un primo momento “Civitas Quiritium”, ed in un secondo momento, e cioè dopo l’avvento dei re etruschi, “Urbs Roma”, dall’etrusco “rumen”, che vuol dire “fiume”), fu il forte senso di “solidarietà”[21] che legava gli uni agli altri, per cui, mutuando un concetto derivato dalla filosofia ellenistica di Empedocle di Agrigento e di Pitagora di Siracusa[22], secondo il quale “l’uomo è parte del Cosmo”, ogni cittadino fu considerato “parte strutturale” della Comunità politica[23], al punto di poter agire in giudizio per tutelare non solo gli intessi propri, ma anche, e nello stesso momento, gli interessi di tutti gli altri cittadini, senza ricorrere al concetto di “rappresentanza”. E fu proprio questa idea, questo profondo senso di solidarietà, che, come pose in evidenza Cicerone, fece grande Roma.
7. – La “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Venendo al tema della “proprietà”, il dato più importante è costituito dal fatto che a Roma la “proprietà collettiva”, che spettava al popolo a titolo di “sovranità”, “precedette” di ben sette secoli la proprietà privata, individuabile nel concetto di “dominium ex iure Quiritium”, nato, dopo una tormentata elaborazione della giurisprudenza, alla fine del II secolo a. C.[24], o addirittura agli albori del primo secolo a.C.
E’ da tener presente, comunque, che, per il trasferimento a singoli privati di “parti” del territorio comune, fu sempre necessario un “atto sovrano” di disposizione, che, in un primo momento si concreò nella “divisio” dell’ “ager publicus”, operata da Numa Pompilio tra i patres familiarum, a titolo di “mancipium” (che fu cosa ben diversa dall’attuale proprietà privata), lasciando peraltro buona parte del territorio in uso comune di tutti, l’ager compascuus, ed in un secondo momento nella lex centuriata o nel plebiscitum, che sempre precedettero il noto cerimoniale di origine etrusca della “divisio et adsignatio agrorum” ai veterani dell’esercito, a titolo di “possessio”.
Dunque, come si diceva, la proprietà privata derivò dalla proprietà comune e collettiva del popolo, fu una “cessione” a privati di parti del territorio in proprietà al popolo, mentre taluni beni, come l’ager compascuus, venivano “riservati” all’uso comune di tutti, mantenendo il carattere di “appartenenza sovrana al popolo”. Ed è da sottolineare in proposito che la giurisprudenza classica trovò un sistema ineguagliabile per tutelare l’uso comune dei beni riservati al popolo: li definì “res extra commercium” (ciò che è di tutti non può essere dato ad alcuno), a differenza dei beni privati, definiti “in commercio”[25].
8. – La “prevalenza giuridico costituzionale” della proprietà collettiva sulla proprietà privata.
Alla “precedenza storica” della proprietà collettiva sulla proprietà privata, si accompagna, sul piano della vigente Costituzione repubblicana” la “prevalenza costituzionale e giuridica” della prima sulla seconda.
Lo chiarisce l’art. 42 della Costituzione, secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta dalla legge….allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, sancendo la “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, e prevedendo che quest’ultimo è giuridicamente tutelato soltanto se ed in quanto “assicura” “lo scopo” della “funzione sociale”, rende cioè tutti partecipi dei benefici che provengono dalle attività produttive.
Il principio della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato è ribadito, inoltre, dall’art. 41 della Costituzione, riguardante “l’iniziativa economica privata” e cioè l’attività negoziale che il proprietario pone in essere per disporre della proprietà privata, e cioè per acquisire o vendere la proprietà dei beni economici.
Si legge in detto articolo che “L’iniziativa economica privata è libera”. “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo di recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Come si nota, alla “funzione sociale” dell’art. 42 Cost., fa riscontro “l’utilità sociale”, di cui al precedente art. 41 Cost.
Ma non è tutto. Questa “prevalenza” dell’interesse pubblico sull’interesse privato, va coniugata con la “distinzione” tra “proprietà pubblica” e “proprietà privata”, di cui al primo alinea del citato art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata”.
In sostanza, dal combinato disposto delle citate disposizioni emerge con estrema chiarezza che la nostra Costituzione, non prevede affatto un solo tipo di proprietà, ma due tipi: quella pubblica e quella privata, sancendo, nello stesso tempo, la “prevalenza della prima sulla seconda”. Insomma, i “limiti” alla proprietà di cui pure parla l’art. 42 della Costituzione, affermando che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti”, riguardano soltanto la proprietà privata, come è espressamente detto, e non la proprietà pubblica, la quale, in questo contesto, si identifica con la “proprietà collettiva demaniale”, che spetta al popolo a titolo di sovranità, come da tempo affermato da Massimo Severo Giannini[26].
Questa distinzione, inoltre, è stata chiarita da tempo dal Regolamento di contabilità generale dello Stato, approvato con R.D. 4 maggio 1885, n. 3074, il quale affermava testualmente: “I beni dello Stato si distinguono in demanio pubblico e beni patrimoniali. Costituiscono il demanio pubblico i beni che sono in potere dello Stato a titolo di sovranità, e formano il patrimonio quelli che allo Stato appartengono a titolo di proprietà privata” [27].
Insomma, la “dinamica giuridica” che segue la Costituzione ripete puntualmente la stessa dinamica che si è svolta storicamente. All’inizio, l’intero territorio appartiene al popolo a titolo di “sovranità”. In seguito, parte del territorio viene, con “legge”, “riservato” all’uso diretto della popolazione, restando “proprietà collettiva demaniale” come res extra commercium, e cioè come beni “inalienabili, inusucapibili ed in espropriabili” e parte viene “ceduta” a privati, diventando oggetto di “proprietà privata”.
Alla fine di questo discorso emerge un’indiscutibile verità. Se è vero, come è vero, che la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata e quest’ultima è storicamente “derivata” dalla prima, si deve necessariamente ammettere che la Costituzione ha operato un “capovolgimento” delle tradizionali concezioni borghesi e neocapitalistiche sulla proprietà. E’ questa che costituisce un “limite alla proprietà collettiva” ed all’interesse pubblico e non viceversa. Continuare a parlare di “limiti alla proprietà privata” è, dunque, un anacronismo: occorrerebbe parlare soltanto di “disciplina giuridica” della proprietà privata, avendo questa perso, nella visuale costituzionale, quel carattere di “inviolabilità”, e quindi di “preesistenza” rispetto all’ordinamento giuridico, che le assicurava lo Statuto albertino. Inviolabile è la “proprietà collettiva demaniale”, in quanto fondata sulla “sovranità”, non la “proprietà privata”, che in tanto esiste, in quanto è garantita e disciplinata dalla “legge”.
9. – Il cosiddetto “ius aedificandi”.
Sul piano pratico, c’è una importantisima conseguenza da sottolineare. Se la “proprietà collettiva” “prevale” su quella privata, ed il contenuto della proprietà privata è soltanto quello previsto dalla “legge”, davvero non c’è più alcuna possibilità di riconoscere il “ius aedificandi”, come insito nel diritto di proprietà privata. Il diritto di edificare è rimasto nei “poteri sovrani del popolo”, rientra cioè nei contenuti della proprietà collettiva del territorio e non risulta affatto “ceduto” a privati con la “cessione” di parti del territorio a singoli cittadini.
Quando ci lamentiamo degli scempi paesaggistici, della cementificazione, delle distruzioni della natura non possiamo limitarci alla “denuncia”: è un nostro “diritto di proprietà collettiva” che è stato leso, e questo diritto è ben più grande e più tutelato del diritto di proprietà privata. E, comunque, come si è detto, il ius aedificandi non ha nulla a che vedere con il diritto di proprietà privata. Non c’è nessuna disposizione del codice civile che lo preveda e lo si è fatto discendere dal semplice convincimento che la proprietà si estenda “usque ad coelum et usque ad inferos”. Questo poteva valere per il “dominium ex iure Quiritium”, non certo per il moderno concetto di “proprietà privata”, che, da sempre ha dovuto fare i conti con i “limiti posti dall’ordinamento giuridico”. Il diritto di superficie è distinto dal diritto di proprietà e, d’altronde, le leggi urbanistiche consentono l’edificazione solo a seguito di una “concessione”, malamente ridenominata, anche a seguito di una discutibile sentenza della Corte costituzionale sulla cosiddetta legge Bucalossi, “permesso di costruire”. Tutto questo perché la cultura borghese e neoliberista si è tenacemente opposta all’idea stessa della “proprietà collettiva del territorio”, che è invece viva e presente nel nostro ordinamento costituzionale e costituisce la sede propria di questo supposto “diritto di costruire”, che, per sua natura non può appartenere a singoli soggetti, ma a tutta la società.
10. - Il concetto di “territorio”.
Abbiamo sinora parlato più volte di “territorio” ed è evidente che, a questo punto si rende necessaria, prima di procedere oltre, ad una sua definizione.
Come si è visto, per i Romani, e da un punto di vista puramente materiale, il territorio è una “porzione di terra”, confinata dai terreni circostanti. L’idea si è puntualmente trasferita in epoca moderna, sennonché i diffusi inquinamenti dell’aria, delle acque e del suolo consigliano di considerare la terra in una visuale più completa e cioè come “ambiente”, meglio si direbbe, come ha affermato la Corte costituzionale, come “biosfera”[28], in modo da far rientrare in questo concetto, oltre il suolo ed il sottosuolo, tutto ciò che esiste sul soprassuolo, e cioè l’atmosfera, le acque, la vegetazione e le stesse opere ed attività dell’uomo.
Ciò che deve essere innanzitutto sottolineato è che il territorio è un “bene comune unitario”, formato da “più beni comuni”, in “appartenenza” comune e collettiva. Ed è da precisare, inoltre, che, appartenendo al popolo, ed essendo il popolo una entità in continuo mutamento per l’alternarsi della vita e della morte dei singoli individui, anche il “territorio”, come il popolo, deve essere considerato nel suo aspetto dinamico, e cioè tenendo conto dei mutamenti che si realizzano nel tempo, e soprattutto del fatto che esso deve necessariamente appartenere, non solo alla presente, ma anche alle future generazioni. Del resto, come è noto, popolo e territorio, insieme con la sovranità, sono “parti costitutive” della medesima “Comunità politica”.
D’altro canto, occorre tener presente che oggi esistono tutte le premesse per considerare il territorio, non solo come una entità materiale comprendente il suolo, il sottosuolo e tutto ciò che è sul soprassuolo, compreso i beni artistici e storici creati dall’uomo, come diffusamente, e giustamente, si ritiene, ma ci si può spingere più avanti facendo rientrare nel concetto di territorio anche entità immateriali e le stesse attività umane che sul territorio si svolgono. In ultima analisi, tutti quegli elementi che determinano il modo di vivere, ed in ultima analisi il tenore di vita, del popolo che quel territorio abita.
Si pensi alle opere dell’ingegno: alle invenzioni, tutelate con i brevetti, o alle opere letterarie, tutelate dal diritto di autore; o alle conoscenze ed ai saperi rinvenibili sul web. E si pensi, in estrema sintesi, alla “cultura”[29], non solo quella degli intellettuali, ma anche quella popolare[30], e, quindi, al complesso di idee che guidano le azioni degli individui e delle Nazioni nella vita di tutti i giorni.
E si pensi soprattutto all’influenza che hanno sul territorio le istituzioni della comunità politica, e cioè alla forma di Stato ed al relativo “ordinamento giuridico”, nonché alla forza spesso sconvolgente che esercitano sul territorio l’economia, la finanza, i mercati.
Il “territorio”, in altri termini, appare come uno “spazio di libertà” entro il quale trovano possibilità di svolgimento le capacità ed i caratteri dei singoli e della collettività considerata nel suo insieme, considerata soprattutto in quelle specificità culturali che caratterizzano un popolo, e che si estrinsecano, come si diceva, nella cultura e in ciò che da questa deriva.
Ne consegue che l’odierna cosiddetta “globalizzazione” non può e non deve prescindere dalla distinzione dell’intera superficie terrestre in vari “territori”, intesi come luoghi nei quali si esplicano le specifiche caratteristiche dei diversi “popoli”. La globalizzazione implica la “transitabilità” dei confini, non la soppressione dei singoli territori in vista di un unico territorio costituito da tutta la terra. A parte la considerazione che una cosa del genere è solo immaginabile, ma, almeno al momento, assolutamente irrealizzabile, resta il fatto che la perdita delle caratteristiche proprie dei vari territori e, quindi, dei vari popoli, sarebbe solo una perdita immensa di ricchezze naturali e culturali. Occorre, dunque, “difendere i territori”, poiché, è bene ripeterlo, essi costituiscono “spazi di libertà” per il pieno sviluppo delle singole persone e per il progresso materiale e spirituale della società.
11. – Lo sviluppo economico nella “dinamica costituzionale”.
E veniamo a quella che abbiamo denominato la “dinamica costituzionale”, e cioè all’insieme delle disposizioni che la nostra vigente Costituzione repubblicana prevede per lo “sviluppo economico” della nostra società.
Ed al riguardo è importante precisare che la nostra Costituzione parte dall’idea di comune esperienza secondo cui la ricchezza proviene da “due fattori”: “le risorse della terra” ed “il lavoro dell’uomo”. Infatti “due sono gli obiettivi” che la stessa si propone di raggiungere: a) “tutelare il territorio”; b) “proteggere il lavoro”. Ed è molto significativo, in proposito, il fatto che il Titolo III, Parte prima, della Costituzione, dedicato ai “Rapporti economici”, è in pratica dedicato, sia alla tutela del territorio, sia alla tutela del lavoro.
In particolare parlano del territorio l’art. 42, primo comma, secondo il quale “la proprietà è pubblica e privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti e a privati”, nonché l’art. 44, primo alinea, secondo il quale occorre “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”. Parlano invece di lavoro, l’art. 35, secondo il quale “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, l’art. 36, secondo il quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente a assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, nonché l’art. 38, importante per l’affermazione di principio secondo cui tutti devono lavorare, ed è esentato da questo dovere soltanto “il cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, per il quale è previsto il “diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale”.
Il quadro costituzionale, relativo ai due essenziali fattori della produzione, tuttavia, non si ferma qui. Basti pensare, quanto alla difesa del territorio, al riferimento dell’art. 9 alla tutela del paesaggio e dei beni artistici e storici[31], nonché alla disposizione dell’art. 52 Cost., secondo il quale “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. E, per quanto riguarda il fattore lavoro[32], al primo alinea dell’art. 1 della Costituzione, secondo il quale “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, nonché all’art. 4, primo comma Cost., secondo il quale “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Tutela del territorio, e cioè delle risorse della terra[33], e tutela del lavoro, e cioè della piena occupazione, sono, dunque, obiettivi fondamentali della nostra Carta costituzionale.
Come perseguire questi due obiettivi è specificato nel citato Titolo III, della Parte prima, Cost.
In questo titolo si prevede, innanzitutto, all’art. 43 Cost., un intervento pubblico nell’economia principalmente in relazione alle “imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazione di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”, precisandosi che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese categorie di imprese”.
Insomma, il principio è che le imprese strategiche debbono essere in mano pubblica e che non è accettabile rimettere alla speculazione privata la produzione di beni e servizi primari per la vita del Paese.
Questo punto essenziale è stato travolto dalle numerose e dannosissime “privatizzazioni”, che hanno privato l’Italia, in breve periodo, del 50 per cento delle imprese, sospingendola verso una irrimediabile miseria, propedeutica ad un finale ed irreparabile disastro economico e sociale.
Altro punto strategico proprio della nostra “dinamica costituzionale” consiste nell’aver “separato” la piccola e media proprietà, come la proprietà coltivatrice diretta e la proprietà della prima casa (artt. 44 e 47 Cost.), dalla proprietà la cui produzione eccede le strette esigenze di vita e sono in grado di far crescere la “produzione nazionale”.
Per questo tipo di proprietà, come si è già accennato, la stessa tutela giuridica è condizionata all’assolvimento della “funzione sociale”, cioè all’obbligo di dar spazio all’ “occupazione” ed alla “produzione” di beni che possano soddisfare i bisogni di tutti.
Quest’obbligo è sancito in modo espresso e con piena “precettività” dal citato art. 42 Cost., in base al quale, si ripete, “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge… allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E’ una norma universalmente riconosciuta in dottrina come “norma precettiva di ordine pubblico economico”, la quale, tuttavia, anche a causa di talune discutibili sentenze della Corte costituzionale, è rimasta del tutto “inapplicata”. Lo dimostrano il continuo e dannosissimo ricorso alle “chiusure e delocalizzazioni” di “imprese” desiderose solo di maggiori profitti, nonché la massa enorme di “immobili” e soprattutto di “terreni” “abbandonati” dai loro proprietari.
Al riguardo, è la stessa Costituzione che ci offre il rimedio. Se è vero, come è vero, che la “tutela giuridica” della proprietà privata è condizionala alla “funzione sociale”, il venir meno di quest’ultima, fa venir meno anche la tutela giuridica e, di conseguenza, vien meno il “diritto di proprietà privata” ed anche, e necessariamente, qualsiasi diritto di “indennizzo”, visto che non esiste più il diritto da indennizzare.
Si verifica, insomma, un “effetto automatico”, per il quale, il bene originariamente appartenente a tutti, e da tutti “ceduto”, mediante legge, ad un singolo individuo, torna con tutta evidenza nella proprietà collettiva di tutti.
Dunque, nel caso dell’abbandono, di terreni ed immobili, che ha un suo precedente storico “nell’ager desertus” della tarda Roma imperiale, implica il dovere, meglio si direbbe il “munus”, dell’autorità pubblica di riscrivere contabilmente nella proprietà pubblica e collettiva dalla stessa amministrata il bene di cui si discute, a ciò provvedendo, dopo la necessaria “diffida” ad adempiere al proprietario. Si tratta, in sostanza, di rileggere attraverso una “interpretazione costituzionalmente orientata”, quanto è già scritto nell’art. 838 del codice civile in relazione ai terreni abbandonati, tenendo conto, come poco sopra si accennava, che il “meccanismo giuridico” previsto dalle sopra ricordate “disposizioni costituzionali” di ordine pubblico economico” implica il venir meno, insieme con il diritto di proprietà, anche del conseguente diritto all’indennizzo.
C’è poi un ultimo punto molto importante da tener presente nell’analisi di questa “dinamica costituzionale”: è la “partecipazione” del cittadino alla “funzione amministrativa” normalmente affidata alla pubblica amministrazione. Infatti, come è noto, mentre la funzione legislativa è riservata al Parlamento e quella giudiziaria è riservata all’Autorità giudiziaria, la funzione amministrativa non è riservata alla P. A., ma condivisa da questa, con enti e con soggetti privati.
La disposizione principe in proposito è quella dell’art. 3, comma secondo, Cost., secondo il quale è compito della Repubblica assicurare “l’effettiva partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. E “partecipare” alla ”organizzazione”, in termini giuridici, vuol dire proprio partecipare all’azione amministrativa dei pubblici poteri. E parlare di “lavoratori” vuol dire parlare di tutti i cittadini, poiché, come si è visto, per la Costituzione non esistono i “fannulloni”: o si ha la capacità di lavorare e si “deve” lavorare, o si è “inabili al lavoro” ed allora si ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.
Accanto a questo principio a carattere generale, la Costituzione fa ricorso alla “partecipazione” anche nel citato art. 43, nel quale, come si è detto, si affida la gestione di imprese o di categorie di imprese “di preminente interesse generale” anche a “comunità di lavoratori o di utenti”, e cioè ad entità giuridiche diverse dalla pubblica amministrazione.
Di “partecipazione” infine parla diffusamente e con precisione l’ultimo comma dell’art. 118 del rinnovato Titolo V della Costituzione, nel quale si legge che ”Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e “comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Qui addirittura si afferma che l’iniziativa dei cittadini in tema di funzioni amministrative dovrebbe precedere, in casi di estrema vicinanza agli interessi del popolo, l’azione dei pubblici poteri: questo e non altro significa il ricorso al concetto di “sussidiarietà”.
In tema di “partecipazione”, occorre ricordare che, in base alla costruzione che abbiamo descritto della “Comunità politica”, il “cittadino è parte costitutiva” del popolo, e come tale può e deve agire, con un’azione popolare, nell’interesse proprio e di tutti gli altri.
Questo principio sembra sia stato accolto dalle Sezioni unite della Corte di cassazione e dalla Corte costituzionale (delle quali non disponiamo ancora delle relative sentenze), nel noto caso dell’azione promossa da un semplice cittadino per ottenere la cancellazione della legge elettorale, cosiddetta “porcellum”. Se così fosse, l’azione popolare, sarebbe diventata oggi una sicura realtà[34].
12. - Conclusione.
Salvare il territorio e salvare il lavoro di tutti, in ultima analisi, richiede, secondo la Costituzione, l’intervento di tutti. Ed è evidente che è in nostro potere salvare innanzitutto il nostro “territorio”, e cioè “le risorse” che la Terra, la “iustissima tellus”, abbondantemente ci offre.
Uno, dunque, è l’imperativo categorico che si impone per vincere la cosiddetta crisi finanziaria: “tornare alla terra”. Alla “nostra terra”, che è ricchissima di caratteristiche particolari, come la bellezza del paesaggio e la feracità dei suoi terreni coltivabili. Tornare alla Terra, tra l’altro, significa anche far rivivere le caratteristiche proprie del nostro popolo, universalmente riconosciute nella “creatività” e nel “culto della bellezza”, vuol dire anche impegnarsi nella ricerca, nella cultura e nelle attività produttive di beni reali.
Dunque, una volta assicurate in mano nostra le cosiddette “industrie strategiche”, occorre dedicarsi all’agricoltura, all’artigianato (protetto dal comma secondo dell’art. 45 Cost.), al turismo, e, come si diceva, cominciare da una grande opera pubblica di ristabilimento dell’equilibrio idrogeologico della nostra Italia.
In tal modo potremo vincere anche la pervicace speculazione finanziaria internazionale, e saremo in grado di tornare al “mercato reale”, rendendo produttivo il nostro impareggiabile territorio nazionale.