loader
menu
© 2025 Eddyburg

Che siano beni pubblici, collettivi o comuni una cosa è certa:trasformarli in merci, privatizzarli, farne fonte di rendita per chi può impadronirsene.

Il manifesto, 23 febbraio 2013

Ache serve la crisi europea? Una delle risposte è che rende indispensabile la privatizzazione delle attività pubbliche, con grandi profitti per i privatizazione delle attività pubbliche, con grandi profitti per i privati. Come mostrano i casi di Spagna, Grecia e Portogallo.

L’Europa è avvolta in una spirale senza uscita fatta di ricette controproducenti, mentre la crisi fa il suo lento, inesorabile lavoro. Le famiglie, se possono, risparmiano e contraggono i consumi. Le imprese non investono. Le banche cercano di limitare i danni e riducono il credito. Una crisi di debito estero (prevalentemente privato) è stata spacciata per una crisi di debito pubblico. La spesa pubblica viene bloccata con perfetto tempismo da un trattato internazionale che impone un rozzo vincolo di pareggio di bilancio, senza troppo distinguere se si tratti di spesa per investimenti o di spesa corrente.

Era ben noto che una politica di repressione della spesa pubblica, in presenza di un eccesso d’indebitamento del settore privato e di tassi di interesse già bassi e ai minimi storici, non poteva che avere effetti deleteri. Il crollo della domanda interna ha raggiunto le economie più solide della zona euro, che si avvicinano anch’esse a scenari recessivi. Assumendo l’impossibilità di una follia collettiva di tutte le classi dirigenti europee, resta da chiedersi cui prodest? A chi giova tutto questo? Non è un caso che le ricette per uscire dalla crisi più in voga si concentrino su un punto: la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito. Ovviamente, la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco per le finanze pubbliche, con la scelta obbligata di privatizzare enti, beni e servizi pubblici, è la scena classica di un film già visto in tante parti del mondo.

Non ci si arriva per caso, anzi, spesso è uno degli obiettivi neanche troppo nascosti della lunga strategia di logoramento del settore pubblico, la cosiddetta starve the beast. La bestia è lo Stato, nemico ideologico da affamare, sottraendo continuamente risorse necessarie al suo funzionamento. La qualità dei servizi che esso eroga al cittadino diminuisce. Il cittadino lo nota e incomincia a chiedersi se davvero valga la pena mantenere in piedi con le proprie imposte un servizio pubblico sempre più scadente.

Poi arrivano i salvatori della patria, che comprano l’azienda o servizio pubblico a un prezzo conveniente e ne estraggono profitti. Quando va bene, il nuovo proprietario del servizio ex-pubblico lo eroga in modo più selettivo e a costi maggiori per il cittadino. Quando va male, scorpora la parte migliore da quella cattiva, scarica i costi sulla collettività (bad companies), sfrutta gli attivi ancora validi, e poi scappa.La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costiper i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.

L’esperienza delle «riforme» nell’Europa centrale ed orientale subito dopo la caduta del comunismo ci insegna che le privatizzazioni realizzate per necessità di far cassa si traducono in svendite di beni comuni a vantaggio di pochi privati, che i primi servizi a essere privatizzati sono quelli che funzionano meglio, i gioielli di famiglia, e che questo contribuisce a un notevole aumento delle disuguaglianze.

Altre parti del mondo, come l’America Latina, hanno vissuto esperienze simili, in cui beni e servizi pubblici sono stati ceduti a condizioni vantaggiose solo per l’acquirente. Non è un caso che Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, debba la sua fortuna alle privatizzazioni selvagge degli anni ’80-‘90 in Messico, dalle miniere alle telecomunicazioni. Adesso è il turno della vecchia Europa. Il Portogallo ha chiuso il 2012 privatizzando gli aeroporti, la compagnia aerea nazionale, la televisione (ex) pubblica, le lotterie dello stato e i cantieri navali. In Spagna le privatizzazioni «express» riguardano i porti, gli aeroporti, la rete di treni ad alta velocità, probabilmente la migliore e più moderna d’Europa, la sanità, la gestione delle risorse idriche, le lotterie dello stato e alcuni centri d’interesse turistico. La Grecia è stata recentemente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi erogati finora dallo stato, come condizione per continuare a ricevere gli aiutieuropei.
In Italia Mario Monti, poco prima di dimettersi da Presidente del Consiglio, decretava l’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale, spiegando la necessità di «nuovi modelli di finanziamento integrativo». L’agenda Monti oggi ci ricorda che «la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane» e quindi invita a «proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico». E sulle prime pagine di alcuni giornali c’è anche chi vede ancora «troppo Stato in quell’agenda».

La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.

Se chi vende (lo stato) ha urgenza e pressioni per farlo, chi acquista (privati) ha un chiaro vantaggio negoziale, che gli permette di ottenere condizioni più convenienti. E se le condizioni della privatizzazione sono più convenienti per il privato, esse saranno simmetricamente più sconvenienti per il pubblico, cioè i cittadini.Studi recenti dimostrano come i cittadini dei paesi che hanno subito privatizzazioni rapide e massicce negli anni ’90 siano profondamente scontenti degli esiti. I giudizi expost sono tanto più critici quanto più rapide erano state le privatizzazioni, maggiore la proporzione di servizi pubblici svenduti (acqua ed elettricità in particolare), e più alto il livello di disuguaglianza creatosi nel paese.

La questione delle privatizzazioni è il punto d’arrivo del processo che l’Europa e l’Italia stanno vivendo. Discuterne più apertamente è fondamentale, se si ha a cuore il bene comune. Le decisioni che si prenderanno in proposito definiranno la rotta che l’Italia sceglierà di seguire nel dopo-elezioni. I casi di Spagna, Grecia e Portogallo mostrano che la crisi è stata utilizzata per privatizzare le attività statali. Le ricette per uscire dalla recessione riguardano tutte la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito.

È lecito, dunque, chiedersi: cui prodest?

Chissà se dalla tragedia di Taranto su riuscirà almeno a comprendere che lo “sviluppo” e la “crescita” l’ideologia e la prassi del modello economico-sociale vigente, sono mortiferi, e che il “miracolo” necessario oggi è mettere al centro delle decisioni il territorio nella completezza dei suoi aspetti. Le notizie del giorno rivelano che sono ancora lontani da questa consapevolezza quanti si agitano sul palcoscenico elettorale, cioè i futuri decisori.

La Repubblica, 19 gennaio 2013

LO STILLICIDIO dei giorni del-l’Ilva ha un calendario di attese e strappi. Benché la tensione sia altissima, non è ancora avvenuto il passaggio dalla mobilitazione delle minoranze attive in fabbrica e in città, all’irruzione dei senza parte, di chi si batterà per la sopravvivenza.

Materia per i sociologi dell’ordine pubblico. Di chi sente di avere arte e parte, colpisce l’adesione a un copione irrigidito, senza che si intravveda un gesto spiazzante, una mossa del cavallo. Vale per tutti, padroni e operai e cittadini e partiti e ogni quadrato della scacchiera.

Il caso più esemplare è quello della magistratura, e anzi della magistrata, cui compete l’ennesima risposta sul dissequestro del prodotto. Non è sola, e la Procura ha promosso i suoi pronunciamenti: ma è lei a decidere. E al di là delle competenze ci sono i simboli, e l’acciaio la fabbrica e i suoi addetti sono uomini – come quelli della Marina Militare, dai “petti più forti del ferro che cinge le nostre navi” – mentre la città stretta fra gli uni e gli altri è donna. È impossibile mettersi nei panni di una persona, donna e giudice, sulla quale le cose rotolando vogliono addossare la responsabilità di decidere con un sì o un no delle sorti dell’intera siderurgia italiana. La giudice Todisco rischia d’esser sequestrata anche lei da un ruolo proprio e da un’aspettativa altrui, posizione la meno invidiabile. Per decidere di dissequestrare dovrebbe smentire, oltre che se stessa, quello che le sembra l’essenza e la lettera della legge. Confermandosi, non fa che adeguarsi alla parte che le spetta, avvenga quel che avvenga. Perché sia lei a rompere il cerchio vizioso, non ci sarebbe forse che una sua volontaria uscita di scena: rifiuto una responsabilità smisurata e impropria, e però confermo la fedeltà alla legge, dunque dissequestro e un momento dopo lascio. (È il conflitto fra etica della responsabilità e della convinzione, attribuito a Weber, che avrebbe preferito metterle d’accordo). Dico per dire, e per ribadire che il vicolo cieco stringe tutti e ciascuno.
La sensazione è di assistere alla fine di un’epoca. L’epoca è quella dell’acciaio. Si immagina che sia uno spettacolo grandioso, la fine di un’epoca: non lo è, non qui, non ora. E ci si chiede se davvero sia così fatale. L’acciaio non ha fatto il suo tempo, benché si pensi di poterlo congedare con quel Novecento che non si rassegna a sloggiare, come un vecchio inquilino moroso e fastidioso. L’acciaio è indispensabile anche nel nuovo millennio, e l’industria anche. Non lo si può più produrre allo stesso modo e con gli stessi costi. Non al modo e coi costi dell’Ilva tarantina. Ma la partita dell’acciaio italiano, e con lei tanta parte dell’economia industriale, non è giocata attraverso scelte argomentate: se la distanza fra Taranto e i suoi utilizzatori, già forte all’origine, non sia troppo forte quando le materie prime arrivano da altri continenti. O se impianti vecchi nella concezione e nell’ubicazione non debbano lasciare il passo a lavorazioni più sofisticate e pulite, i forni elettrici, gli acciai speciali. Invece, si va per consunzione.
Forse la conclusione era già inscritta nell’esordio, e deve corrispondergli, capovolta: come in una creazione alla rovescia. Quando, nel 1960, lo spirito di una “programmazione democratica” ai primi passi si incarnò nel progetto di insediare a Taranto il Centro siderurgico, la parola magica era il Salto. “Tutte le zone sottosviluppate richiedono un vero e proprio salto”.E, si specificava – erano le migliori intelligenze progressiste a sostenerlo, quel progetto aveva le firme di Guiducci, Fuà, Astengo, Dragone, e poi Saraceno, Giolitti, Sylos-Labini… – il “salto” non può farsi condizionare dal contesto, “l’iniziativa Italsider deve determinare una rottura in questo ambiente stagnante”. Spiegando i criteri dell’ubicazione, Paolo Radogna scriveva che “il Mezzogiorno non è propriamente un territorio, un’area sperimentata da secoli nelle sue colture e risorse…; il Mezzogiorno è il contrario di tutto ciò”, e impiegava parole ingenuamente coloniali: “…terre in parte ancora vergini e remote”. Ci ripensavo ieri mentre un tassista mi portava alle porte sbarrate della fabbrica presidiata e occupata, e diceva: “Ma vogliono far morire questa città, dopo averla devastata? Taranto esiste da prima di Roma…”. Ritornello futile, aggiornato però dalle pagine sulle sorti progressive che l’Italsider annunciava mezzo secolo fa. Non si trova, in quei progetti dettagliati dei migliori ingegneri ed economisti e urbanisti, alcun cenno ai veleni che la grande fabbrica – per 6 mila operai allora, poi diventati 20 e 30 mila, oggi 12 mila – avrebbe seminato: non si sapeva, non ci se ne curava. La parola bonifica era citata solo per nominare i lavori preliminari all’insediamento della fabbrica, le masserie da estirpare, gli ulivi da sradicare – 20 mila, 40
mila…
“Programmazione”, era la parola magica di allora: e non andrebbe forse recuperata, spogliata della magia e dell’ideologia che la facevano luccicare? Una Programmazione arrugginita, volta a fare un cammino all’indietro. Quello che vediamo giorno dietro giorno – i manifestanti alla Prefettura, operai dell’Ilva, delle ditte, camionisti, gli uni addosso agli altri, i blocchi alle porte e dentro la fabbrica colossale, gli annunci di chiusura – mostra come la gradualità negata alla partenza se ne vendichi, a mezzo secolo di distanza, con una gradualità negata e ingovernata all’arrivo. Il vicolo cieco di oggi è l’eco spenta dell’inno alla rottura, la dannazione alla chirurgia inscritta in quell’origine produttivista e “pesante”. Il decreto del governo finge una gradualità, la chiama “cronoprogramma” e finge anche che tre anni bastino: una de-programmazione nemmeno quinquennale, com’erano i Piani. Quando gli anni sono pochi in nome dell’urgenza, è perché la partita è destinata a chiudersi prima. Salvo che… Salvo che cosa? Che qualcuno, dal più basso al più alto, si mostri in grado di misurarsi con un caso decisivo e non ideologico di “decrescita”, di ripristino di dimensioni rispettose (si chiama tecnicamente “rispetto” la distanza che un’acciaieria deve tenere da una scuola elementare o da un gregge di pecore, e quella distanza è stata bruciata qui e altrove). Nessuna bonifica ripianterà quarantamila ulivi: ma intanto, su che cosa fare della fabbrica che chiude, le idee sono più opache ancora che sul come tenerla aperta. “Non c’è modo di tornare indietro perché il percorso è irreversibile”, scrivevano ancora quei programmatori, compiacendosi – generosamente, del resto – dei “tecnici venuti dal Settentrione”.
Ma se il “salto” non poteva avvenire, come loro spiegavano, che attraverso i poteri pubblici, anche il suo contrario ne ha bisogno. Gli ulivi e i greggi e la masserie erano ancora la natura, pur domestica, e natura non facit per saltus, in natura le cose non avvengono per salti. Reciprocamente, i salti non fanno per la natura. Tutto, di quell’epoca di dopoguerra, sapeva di arrembaggio: lo si chiamò infatti miracolo, il miracolo economico. La convalescenza dai miracoli è lunga e arrischiata.

Nell'occasione riproponiamo una riflessione di Michele Serra, che va al cuore del problema.

RLa Repubblica, 11 dicembre 2012Negli anni recenti i discorsi sulla disuguaglianza si sono concentrati per lo più sulla distribuzione tra lavoratori, e quindi o sul divario esistente tra i lavoratori più istruiti e quelli meno istruiti o sui redditi in forte rialzo di un pugno di superstar nel campo della finanza e di altri settori. Ma è giunto il tempo di rivalutare una contrapposizione molto più attuale per capire cosa sta succedendo: quella (marxiana) fra capitale e lavoro.

L’economia americana, sotto molti punti di vista, è ancora adesso gravemente depressa. Eppure gli utili societari stanno raggiungendo cifre da record. Come è possibile? Semplice: gli utili si sono impennati come frazione del reddito nazionale, mentre i salari e le altre retribuzioni della manodopera sono in flessione. La torta non sta crescendo come dovrebbe, ma il capitale se la passa bene arraffandone una fetta sempre più grossa, a discapito della manodopera.

Un momento: stiamo forse parlando ancora una volta di capitale in contrapposizione a lavoro? Non è un argomento obsoleto? Un soggetto quasi marxista di cui parlare, passato di moda nella nostra moderna economia dell’informazione? Beh, questo è quanto molti pensavano. er la scorsa generazione i discorsi sull’ineguaglianza non si sono concentrati per lo più sul capitale in contrapposizione a lavoro, ma su questioni di distribuzione tra lavoratori, e quindi o sul divario esistente tra i lavoratori più istruiti e quelli meno istruiti o sui redditi in forte rialzo di un pugno di superstar nel campo della finanza e di altri settori. Questa sì, in effetti, potrebbe essere storia passata.

Più specificatamente, se è vero che i pezzi grossi della finanza stanno ancora agendo da banditi – in parte perché, come ormai sappiamo, alcuni di loro effettivamente lo sono –, il divario retributivo tra i lavoratori che hanno un’istruzione universitaria e quelli che non l’hanno (che si acuì molto in modo particolare tra gli anni Ottanta e i primi Novanta) da allora non è variato granché. In verità, i lavoratori neolaureati avevano redditi statici addirittura prima che la crisi finanziaria colpisse. Sempre più spesso, gli utili stanno aumentando a spese dei lavoratori in genere, compresi i salariati che hanno le qualifiche ritenute adatte a portare al successo nell’economia odierna.

Perché sta accadendo questo? Il meglio che posso dire è che vi sono due spiegazioni plausibili, ed entrambe potrebbero essere vere in parte. La prima è che la tecnologia ha preso una piega che colloca in posizione di netto svantaggio la manodopera. L’altra è che stiamo assistendo agli effetti di un palese aumento del potere dei monopoli. Provate a pensare a queste due ipotesi come a una maggiore importanza conferita ai robot da una parte e ai signori della rapina dall’altra.

Parliamo di robot: è fuor di dubbio che in alcuni settori industriali di alto profilo la tecnologia sta rimpiazzando sempre più lavoratori di tutti i generi o quasi. Per esempio, una delle ragioni per le quali da qualche tempo alcuni processi produttivi di articoli hi-tech stanno tornando negli Stati Uniti è che ormai il componente di maggior valore di un computer, la scheda madre, è fabbricato in pratica da robot, e di conseguenza la manodopera asiatica a prezzi stracciati non costituisce più un motivo valido per produrlo all’estero.

In un libro appena pubblicato e intitolato Race Against the Machine (La corsa contro le macchine), Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee dell’Mit sostengono che la stessa cosa sta avvenendo in molti campi disparati, compresi servizi quali la traduzione e la ricerca legale. Negli esempi da loro addotti in particolare colpisce il fatto che molti posti di lavoro soppressi richiedono alte competenze e sono ben retribuiti. Ne consegue che lo svantaggio della tecnologia non è limitato ai mestieri più umili.

E tuttavia: innovazione e progresso possono danneggiare davvero un gran numero di lavoratori o addirittura i lavoratori in genere? Spesso mi imbatto in affermazioni secondo le quali ciò non può accadere. In verità, invece, può accadere eccome, e illustri economisti sono consapevoli di tale probabilità da almeno due secoli. David Ricardo è un economista dell’inizio del XIX secolo famoso per lo più per la sua teoria del vantaggio comparato, che costituisce uno dei capisaldi del libero commercio. Ma nel medesimo libro del 1817 nel quale Ricardo illustrava quella teoria c’è anche un capitolo su come le nuove tecnologie della Rivoluzione industriale ad alto impiego di capitale di fatto avrebbero potuto peggiorare le condizioni dei lavoratori, quanto meno per un po’. Gli studiosi moderni puntualizzano che le cose in realtà sono andate avanti così per parecchi decenni.

Che dire dei signori della rapina? Di questi tempi non si parla molto del potere dei monopoli. L’applicazione delle leggi anti-trust durante gli anni della presidenza Reagan è stata per lo più abbandonata e da allora non è mai ripresa davvero. Eppure Barry Lynn e Phillip Longman della New America Foundation sostengono – in modo convincente, dal mio punto di vista – che la crescente concentrazione di aziende potrebbe costituire un fattore determinante ai fini della stagnante richiesta di manodopera, dato che le corporation usano il loro potere monopolistico in netta espansione per aumentare i prezzi senza passarne gli utili ai propri dipendenti.

Ignoro in che misura la tecnologia o il monopolio possano spiegare la svalutazione della manodopera, in parte perché si parla molto poco di quello che sta accadendo. Tuttavia, penso che sia corretto affermare che lo spostamento del reddito dalla forza lavoro al capitale non è ancora entrato nel nostro dibattito nazionale.

Quello spostamento, peraltro, è in corso, e ha implicazioni ragguardevoli. Per esempio, vi sono forti pressioni, lautamente finanziate, a favore della riduzione delle aliquote fiscali applicate alle grandi società. È davvero questo che intendiamo lasciare che accada nel momento in cui gli utili sono in forte aumento a detrimento dei lavoratori? E che dire delle pressioni volte a ridurre o abolire del tutto le imposte di successione? Se stiamo per tornare a un mondo nel quale è il capitale finanziario – e non le qualifiche professionali o il livello di istruzione – a determinare il reddito, vogliamo davvero rendere ancora più facile ricevere in eredità la ricchezza?

Come ho premesso, questo dibattito non è ancora iniziato sul serio. In ogni caso, è ora di iniziarlo, prima che i robot e i signori della rapina trasformino la nostra società in qualcosa di completamente irriconoscibile.

(Traduzione di Anna Bissanti) © 2012, The New York Times

Una "utopia concreta": un proposta che indica l'unica strada per uscire dalla crisi dell'ILVA di Taranto e dal conflitto tra lavoro e ambiente, ed evitare che - come al solito da noi_ l'intervento dello stato produca devastanti privatizzazioni All'insegna della riconversione ecologica dell'economia.

Il manifesto, 4 dicembre 2012

Alla fine le parole fatidiche sono state pronunciate. «Confisca» (Passera e Cremaschi) e «requisizione» (De Benedetti e Leon), riferite all'Ilva di Taranto o forse a tutto il gruppo Riva; e «nazionalizzazione» (Hollande: riferita al gruppo Mittal, che vuole dismettere uno dei più antichi altoforni della Francia, con tutti i suoi operai: ma solo una parte dell'impianto, per impedire a un eventuale compratore di poterlo utilizzare per fargli concorrenza: con tanti saluti per le sorti e la vita dei lavoratori. «E' l'economia, stupido!», direbbe qualcuno).

Ma era comunque da trent'anni che non si sentivano più quelle parole. Al loro posto si parlava e si parla solo di "privatizzazioni" o - ma è solo un modo per mascherare la sostanza della prima - di "liberalizzazioni". E non se ne parla soltanto; le hanno fatte e continuano a farle; salvo poi nazionalizzare, senza dirlo, le banche per salvarle dal crack. Ma solo temporaneamente, per poi restituire subito tutto ai legittimi speculatori che continuano a controllarle.

La privatizzazione più celebre ed esemplare del mondo è forse quella dell'Alitalia promossa, per fare vincere le elezioni del 2008 a Berlusconi, dal ministro Passera quando dirigeva la banca Intesa-San Paolo. E' costata 3 miliardi ai contribuenti e ne costerà ancora altri, ma ciascuno dei compratori che hanno messo un po' di soldi "a perdere" per entrare in un'azienda che Air France avrebbe comprato a condizioni mille volte più favorevoli ha poi avuto una consistente contropartita.
Alla famiglia Riva, che ci ha messo più soldi di tutti, è stata concessa un'AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) fabbricata su misura per consentire all'Ilva di continuare a fare strage di lavoratori e di cittadini, più la garanzia che neppure quella sarebbe stata rispettata. Do ut des, dicevano gli antichi. Garante dell'accordo, il ministro Clini, allora, e da oltre 10 anni, direttore e vero dominus del ministero dell'Ambiente, dato che in quel periodo a succedersi nel ruolo di ministro era stata una sfilza di personaggi incompetenti, ignoranti, imbroglioni o decisamente deficienti, con tanti saluti per l'oggetto del loro incarico.
Se vogliamo parlare di privatizzazioni, oltre a Ilva, ceduta quasi gratis ai Riva, possiamo citare il resto di Italsider ceduto alla famiglia Lucchini, e da questa alla Severstal, che adesso sta liquidando tutti gli impianti, lavoratori compresi, e al gruppo ThyssenKrupp, che se ne va anche lui, dopo aver ammazzato un bel po' di operai. O l'Alcoa, che se ne è andata una volta finiti gli incentivi che le hanno fruttato miliardi a spese delle nostre bollette elettriche. O Telecom, regalata prima agli Agnelli con la gestione Rossignolo, poi assegnata al superprotetto Bernabé, poi conquistata dai "capitani coraggiosi" di D'Alema, che ci hanno fatto sopra plusvalenze di miliardi, poi acquisita dalla Pirelli di Tronchetti Provera, che ne ha fatto una centrale di spionaggio a proprio uso e consumo, per ritornare a Bernabè che oggi è poco più di un ufficiale liquidatore; perdendo peraltro per strada importanti fornitori come Siemens Italia, Telettra ed altri gioielli tecnologici acquisiti da gruppi come Alcatel, e poi da Lucent, che la sta liquidando, o privatizzati da Nokia-Siemens, che ne ha fatto il veicolo di una truffa internazionale attraverso il marchio Jabil: tutte operazioni fatte anche queste a spese dei lavoratori. Oppure l'AlfaRomeo, inghiottita nella voragine della Fiat; o Motta Alemagna, grandi marchi scomparsi con i loro operai; eccetera, eccetera, eccetera.
Per non parlare della Cassa Depositi e Prestiti, nata per finanziare le opere pubbliche e le imprese di comuni e province e trasformata, con la sua privatizzazione, in una piovra impegnata a spogliare gli enti locali delle loro ex-municipalizzate e a finanziare autostrade in dissesto e grandi opere inutili. O delle BIN (Banche di Interesse Nazionale) ora sull'orlo del collasso perché impegnate, una volta "privatizzate", solo a "crescere" speculando invece di fare il loro mestiere, che era il credito a imprese e famiglie (famiglie e non famigghie!) e per questo imbottite di prestiti inesigibili concessi a immobiliaristi come Ligresti, Zunino e compagnia; o, ancora, della Banca Nazionale del Lavoro (del Lavoro: avrà pur significato qualcosa questo termine, quando la banca era nata come Istituto di Credito per la Cooperazione!), ora dissolta insieme al suo personale tra le fauci di Paribas, dopo essere scampata a quelle del Pd. «Abbiamo una banca!», aveva esultato Fassino intercettato da Berlusconi. Ma c'era poco da esultare: di banche ne avevano già una, il Monte dei Paschi, e abbiamo visto che fine ha fatto proprio grazie alla sua privatizzazione. Insomma, l'elenco delle privatizzazioni italiane - ma non solo di quelle - è un cimitero di imprese e di lavoratori: sono altrettanti casi di studio che andrebbero, questi sì, insegnati alla Bocconi al posto delle scemenze («Niente funziona se non è privato») propagandate dal professor Monti che ne ha diretto e continua a ispirarne i programmi.
Ma è certo che l'ultima cosa che Passera pensa di fare è espropriare i Riva, una famiglia di pirati (uno agli arresti domiciliari e l'altro latitante) a cui sono stati invece affidati non solo il risanamento di una fabbrica trasformata, sotto la loro gestione, in una macchina di morte, per sfruttare gli impianti senza rinnovarli fino all'esaurimento, ma persino la salvaguardia del Pil italiano, messo in forse dai magistrati tarantini. Ma il problema si porrà nuovamente se e quando i Riva cercheranno di sottrarsi ai loro obblighi, magari con un bel fallimento. Passera però ha tirato fuori la storia dell'esproprio solo per coprire l'operato di un governo - il suo; e anche quello che aspira a dirigere dopo le elezioni - che in un anno ha cercato, e in parte è riuscito, ad azzerare, in perfetta continuità con Berlusconi, il voto dei referendum contro la privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici locali; e poi la sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava illegittime quelle norme e, ora, anche le ordinanze e le funzioni della magistratura di Taranto. Il tutto controfirmato dal supremo custode della Costituzione, Giorgio Napolitano. Se è questa la democrazia per quelli che sostengono il governo Monti, e che si apprestano a sostenerne la continuità, meglio erigere al più presto una barricata. "Cambiare si può".

D'altronde, che cosa potrebbe mai fare dell'Ilva il Governo, dopo averla espropriata, requisita o nazionalizzata? Lasciarla in gestione ai "quadri" messi lì dalla famiglia Riva con il solo scopo di trasformare la fabbrica in un Lager? Riva è già stato condannato per l'istituzione di un reparto confino e per inquinamento, e oggi governa lo stabilimento con una rete di "fiduciari dell'azienda", non inseriti nell'organico della fabbrica, e per questo in grado di dare ordini illegali senza assumersene la responsabilità. Oppure venderla a un suo pari o a un gruppo che la compra per chiuderla e impadronirsi del mercato italiano? O sostituire quei quadri così compromessi con quelli di un'industria di Stato che non esiste più? Una volta c'era l'IRI, che era anche una importante scuola di management. E' vero che i suoi quadri erano stati poco per volta scalzati da ladri di stato, provenienti dal pozzo senza fondo dei partiti, che avevano portato quelle imprese al disastro. Ma molti di quei quadri e di quei processi di formazione dell'IRI restavano pur sempre a disposizione di chi si fosse ritrovato nella necessità di sostituire rapidamente un management da esautorare perché criminale. Oggi invece c'è il deserto. Se mai un governo decidesse di nazionalizzare l'Ilva, come spesso chiedono Bertinotti e altri come lui, con quali uomini la governerebbe? Per questo, a salvare ambiente, produzione e occupazione non saranno certo gli uomini dei Riva, e meno che mai il prefetto Ferrante, uomo per tutte le stagioni, che qualche anno fa ha già messo a disposizione nome e curriculum per coprire il disastro provocato dall'Impregilo con i rifiuti della Campania; ma nemmeno i manager dell'industria di Stato che non ci sono più e che comunque, in una situazione come questa, non avrebbero assolutamente la cultura per farlo. Si dovrebbe ricominciare da zero nel crearli e nel formarli.

Allora tanto vale cominciare, non da zero, ma da quello che già c'è, per imboccare una strada del tutto diversa. E quello che c'è è il "Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti", che quella fabbrica la conosce perfettamente come conosce perfettamente la città e i suoi malanni, ed è ben radicato in entrambe. Ma che ha anche i collegamenti e i titoli per chiamare a raccolta una miriade di competenze tecniche, economiche, ambientali, sanitarie e sociali per costituire innanzitutto il nucleo di una struttura di controllo sulle prossime mosse del management aziendale e dei governi, sia quello nazionale che quelli locali; ma poi anche per candidarsi alla gestione del risanamento del sito e del territorio e di una produzione siderurgica ridimensionata e impostata su basi nuove e più sane. Un Consiglio di gestione partecipato per promuovere la conversione ecologica dell'impianto che prefiguri, pur in un regime giuridico che non concepisce, per ora, niente di diverso dall'alternativa tra proprietà privata e proprietà pubblica, le modalità di una gestione dell'impresa come bene comune; e di un'economia e di una produzione improntate ai principi della sostenibilità sociale e ambientale.

Può sembrare un'utopia, e lo è; ma è "utopia concreta". Molto più concreta e realistica dell'ipotesi insensata di riaffidare la gestione di un'impresa delle dimensioni dell'Ilva a una famiglia criminogena, o di vendere l'impianto a un acquirente, magari estero, che lo porterebbe a una sicura chiusura e all'abbandono del sito così com'è; o di tornare alla gestione tradizionale di un'impresa "nazionalizzata", affidandola a un management che non c'è e che non ci sarà mai più. Da qualunque parte lo si guardi, il futuro dell'Ilva va posto in mano di quei cittadini e lavoratori che con la loro lotta e le loro contestazioni stanno mettendo gli attuali padroni con le spalle al muro

Le ragioni dello scontro fra politica e magistratura a sottolineare l’inadeguatezza dell’approccio contabile ai problemi della città e del clima.

La Repubblica, 30 novembre 2012, postilla (f.b.)
A chi sarà affidata la gestione e il controllo dell’azienda “dissequestrata” d’autorità (dubbia), e da dove verranno i soldi necessari a ottemperare alle prescrizioni di magistrati e periti che il governo stesso dichiara di voler seguire alla lettera. Perché l’idea che gestione e controllo stiano nelle mani di una gerarchia aziendale che ha portato a questo punto è temeraria. Ancora più temeraria l’idea di dare a chi ha portato le cose a questo punto (e se stesso in galera) il denaro necessario alla riparazione, piuttosto che farselo restituire.

La chiusura dell’Ilva di Taranto, i cui pericolanti titolari hanno ribadito ancora che ne deriverebbe immediatamente la liquidazione della siderurgia genovese e del resto d’Italia, sarebbe differita di due anni: come la Troika con la Grecia. Tra le poche cose che si sono capite in questi giorni convulsi, c’è che la frase fatta sull’Italia secondo paese manifatturiero d’Europa, ripetuta mille volte come un esorcismo, decadrebbe nel momento stesso in cui finisse la produzione di acciaio. La quale non è per sé novecentesca né ottocentesca, come a qualcuno piace ripetere, salvo che sia condotta nel modo più regressivo e speculativo. L’Italsider pubblica degenerò a rotta di collo, per essere regalata ai Riva che ne tirarono fuori profitti colossali alla condizione tacita (salvo che nelle telefonate e nelle tavolate) di produrre calpestando salute e diritti di cittadini e lavoratori. Produrre diversamente si può, e lo si fa in paesi meno corrivi – persino i Riva lo fanno, quando sono costretti.

Altri paesi dominano la produzione mondiale dell’acciaio, come la Cina, in condizioni di nocività pubblica e di sfruttamento del lavoro che renderebbero Taranto invidiabile. Il vincolo fra controllo delle prescrizioni e investimenti necessari alla bonifica diventa perfino più stringente nel momento in cui l’intervento chirurgico della magistratura viene sostituito dalla dilazione del decreto, senza di che i due anni – se tanti saranno – significano soltanto la rassegnazione a che i danni per la salute di chi lavora e di chi abita la città continuino immutati. E poi, davvero, chi vivrà vedrà.

Il governo – per il quale forse la questione industriale e sociale viene dopo quella dell’ordine pubblico – sottolinea la propria premura verso la magistratura. È difficile immaginare che la Procura tarantina voglia alzare ulteriormente il tiro sulla chiusura dell’Ilva: per sollevare piuttosto, con tempi meno urgenti, un problema di legittimità. Però restano aperti diversi filoni di indagine, e possono arrivare, così si mormorava attorno all’incontro beckettiano di ieri a Roma, nuovi avvisi di reato di peso aziendale e politico. D’altra parte è difficile immaginare che un commissariamento dell’Ilva, che non sia solo di facciata, possa conciliarsi con la proprietà e la direzione di un’azienda decapitata. C’è un ambientalismo che mira senz’altro alla chiusura dell’Ilva e coltiva la bella e sconfinata utopia dei lavoratori siderurgici trasformati in operatori della bonifica e della conversione. Anche la proposta di una specie di rinazionalizzazione dell’Ilva, oltre a fare scandalo per l’ortodossia privatista, è utopica, a proclamarla.

Forse sarà la strada sulla quale le cose si incammineranno ma con prudenza, con ipocrisia, con mezze misure, e senza mai ammetterlo: dunque nel modo peggiore. Un po’ come si è fatto con la Grecia e i suoi due anni di rianimazione. Intanto ieri a Taranto il mare era ancora tempestoso, e la città era piuttosto vuota. Si facevano comunque incontri interessanti. In un caffè del lungomare ho incontrato un ammiraglio di squadra molto importante, dev’esserci un’esercitazione sulla portaerei Cavour, che ha il nome della infelice corazzata. Si avverte spesso che Taranto è sì la capitale dell’acciaio, ma prima ancora della marina militare, e che il suo ruolo strategico nel Mediterraneo fa tenere le briglie strette sulla città. Mi sono chiesto se l’idea che l’Europa smetta di avere 28 eserciti e di dilapidare risorse per avere invece una difesa comune, una forza armata federale, e una capacità comune di tutela della pace e della legalità al proprio interno e fuori, appaia come una diminuzione ai nostri marinai e ai nostri ammiragli: mi sono detto di no, per incoraggiamento. Poi ho incontrato dei funzionari di polizia. Erano appena arrivati, da lontano, alcuni da Trieste, perché il Viminale è preoccupato dalle tensioni sociali di questi giorni. Per ragioni infantili, ho sempre pensato a Trieste e Taranto come città sorelle, ai due capi dell’Italia.

Sembrava anche a loro, per il mare che sale sulle strade, stupiti da un vento da far invidia alla bora, che per giunta, dicevano, “qui soffia continuamente, non a raffiche”. La loro prima volta a Taranto, non avevano ancora visto l’Ilva. Del resto la Ferriera triestina è ancora più nel cuore della città che l’Ilva a Taranto, e cancerogena altrettanto. All’Ilva andranno, e troveranno le differenze. Per esempio, lungo i recinti della fabbrica intossicata, l’ultimo giorno di novembre, le bougainville sono slanciate e fiorite come nel luglio di una città moderata. Per il resto, vedranno che le questioni si assomigliano molto.

Postilla
Molti commentatori americani dopo i vari eventi che hanno accompagnato la catastrofe tascabile (resa efficientemente tale) di Sandy, sottolineavano l’emergere, finalmente, nella coscienza pubblica, della consapevolezza del cambiamento climatico. Una verità scomoda per tutti coloro che vogliono per motivi sostanzialmente stupidi e egoisti continuare nel business as usual come niente fosse. E pare che anche dalle nostre parti gli scimmiottatori dei Repubblicani negazionisti, delle specie di Nando Mericoni Americano a Roma, siano saldamente al potere. Eppure col composito caso di Taranto ci sarebbero in campo tutti, ma proprio tutti gli elementi per iniziare una seria riflessione e azione sulla scomoda verità che ci attende al varco, compresi coloro che continuano a procedere a paraocchi innestato: una grande area urbana industriale costiera, con tutti i suoi problemi sociali, economici, ambientali e insediativi, legati al modello di sviluppo a emissioni intense che va superato molto alla svelta. Potrebbe trasformarsi in un laboratorio di innovazione legislativa, per le politiche energetiche, produttive, urbane: lo dicono da anni e anni gli esperti di tutto il mondo, che saranno proprio le città ex industriali a indicarci la via per evitare (per cercare di evitare) la catastrofe climatica che ci aspetta, inesorabile, fra una manciata di anni. Invece pare si stia nelle mani di una schiera di sobri coglioni, con rispetto parlando. A chi volesse aggiornarsi sul tema, propongo in lettura un capitolo di Carbon Zero, libro ancora inedito in Italia, che ho tradotto per Mall (f.b.)

«Il manifesto, 28 novembre 2012

Presentata la manovra 2013 contro rendite e privilegi. Mentre Palazzo Chigi annuncia nuovi tagli alla salute e non rinuncia ai nuovi cacciabombardieri F35 Aliquota Irpef al 75% per i redditi sopra al milione. Tassa sui profitti al 23% come in Europa. Ferrovie per i pendolari. Reddito minimo e abolizione dei Cie

Ieri a Roma, presso la Fondazione Basso, si è tenuto il consueto appuntamento annuale in occasione della presentazione della «Controfinanziaria» di Sbilanciamoci!
Il Rapporto 2013 (scaricabile su www.sbilanciamoci.org), giunto alla sua quattordicesima edizione, contiene analisi e soluzioni concrete per uscire dalla crisi tutelando i diritti e l'ambiente e formula 94 proposte - in una «manovra» da 29 miliardi di euro - sia per entrate e uscite, sia per riduzioni della spesa pubblica come quelle che, nelle intenzioni della campagna, dovrebbero interessare gli stanziamenti per la Difesa (nel complesso, più di 5 miliardi di euro) o le «grandi opere» (2 miliardi e 700 milioni di euro).
La filosofia alla base del rapporto è opposta rispetto a quella delle politiche di austerity del governo Monti: investire nel rilancio dell'economia, nella redistribuzione della ricchezza, in un nuovo modello di sviluppo sostenibile; sgombrare il campo da neoliberismo e subalternità ai mercati finanziari e da una politica economica che acuisce le sofferenze sociali e la recessione dell'economia reale.
Serve un modello di sviluppo in cui alcune merci, consumi, pratiche economiche siano condannate alla decrescita (tra tutte, la speculazione e la rendita finanziaria, il consumo di suolo e la mobilità privata) e altre siano destinate a crescere.
È necessario promuovere un'idea di economia radicalmente alternativa che si fondi su tre pilastri: sostenibilità sociale e ambientale; diritti di cittadinanza, del lavoro, del welfare; conoscenza come architrave di un sistema di istruzione e formazione capace di far crescere il paese con la ricerca e l'innovazione.
Ecco alcune delle proposte del rapporto di Sbilanciamoci!, suddivise per ambiti di intervento:

Giustizia e legalità fiscale
Tassa sui milionari. Introduzione di un'aliquota Irpef del 75% sui redditi al di sopra del milione di euro. Gettito addizionale: 1 miliardo e 400 milioni di euro.
Rendite finanziarie. Portare la tassazione di tutte le rendite al 23%, soglia che accomuna i grandi paesi europei e non presenta rischi di fughe di capitali. Si otterrebbero almeno 2 miliardi di euro.

Ambiente e sviluppo sostenibile
Riduzione stanziamenti grandi opere. Cancellazione del finanziamento di 2,7 miliardi di euro destinato dalla Legge di Stabilità 2013 alle grandi opere.
Ferrovie locali per i pendolari. 1 miliardo di euro per l'ammodernamento e il potenziamento delle linee locali di collegamento all'interno dei cosiddetti Sistemi Locali del Lavoro.

Disarmare l'economia, costruire la pace
Riduzione dei programmi d'arma. Cancellazione del programma di produzione dei 90 cacciabombardieri F35, dei 4 sommergibili Fremm e delle 2 fregate Orizzonte. Risparmio: 800 milioni di euro.
Riduzione delle spese militari attraverso il ridimensionamento degli organici delle forze armate a 120mila unità. Entrata: 4 miliardi di euro.

Welfare e diritti
Liveas e politiche sociali. Stanziamento di 2 miliardi di euro per il finanziamento del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali e l'introduzione dei Livelli Essenziali di Assistenza previsti dalla legge 328/2000 e tuttora inattuati.
Chiusura dei Cie. Con i 236 milioni previsti nella Legge di Stabilità 2013 per l'attivazione di nuovi Centri di Identificazione ed Espulsione si potrebbe finanziare un programma nazionale di inclusione sociale per i migranti.
Cancellazione dei fondi alle scuole private e del buono scuola. Si risparmierebbero 500 milioni di euro dall'eliminazione dei sussidi pubblici alle scuole private, in modo da utilizzare le stesse risorse per rilanciare la scuola pubblica.

L'impresa di un'economia diversa
Sostegno ai redditi dei lavoratori, delle famiglie e dei disoccupati attraverso una serie di misure:
a) introduzione della 14° per i pensionati sotto i mille euro lordi mensili;
b) reintroduzione del Reddito minimo d'inserimento per i disoccupati e per chi non gode di altre forme di ammortizzatori sociali; c) indennità di disoccupazione (della durata di 6 mesi con l'80% dell'ultima retribuzione) per tutti i co.pro monocomittenti sotto la soglia retributiva di 23mila euro lordi l'anno; d) recupero del fiscal drag.
Stima della spesa: 5 miliardi di euro.
Sostegno a chi assume i ricercatori. Concessione di un ulteriore credito d'imposta alle imprese che garantiscano l'assunzione di giovani ricercatori - sulla base di commesse a università, a istituti di ricerca o costituendo laboratori - per un periodo fino a 18 mesi. 100 milioni di euro per l'assunzione di 4000 ricercatori.

*** Il documento definitivo con tutte le proposte su www.sbilanciamoci.org

Nello spirito di Donald Rumsfeld, potremmo distinguere tra eventi inevitabili naturali e innaturali. Un giorno, ad esempio, il precario pendio del vulcano di Cumbre Vieja, a La Palma, isole Canarie, crollerà creando un mega-tsunami attraverso l'Atlantico. La devastazione che si abbatterà allora su Boston e New York City farà rimpicciolire il disastro dell'anno scorso in Giappone. È inevitabile: ma i vulcanologi non sanno se l'eruzione destabilizzante sia per domani o tra cinquemila anni. Così per il momento non è altro che un eccitante argomento per il National Geographic Channel

Un altro esempio, molto più frequente, di evento naturale inevitabile è il ciclo degli uragani dell'era pre-riscaldamento globale del clima. Due o tre volte ogni secolo una «tempesta perfetta» si è abbattuta sulla costa atlantica degli Stati uniti, provocando rovina e distruzione fino ai Grandi laghi. Ma un disastro da 20 miliardi di dollari di danni ogni qualche decennio è ciò per cui abbiamo un'industria delle assicurazioni. Perfino la perdita ogni tanto di un'intera città travolta dalla Natura (San Francisco nel 1906, New Orleans nel 2007) è una tragedia che possiamo affrontare. Il fatto è che la costruzione, a partire dal 1960, di un patrimonio immobiliare del valore di parecchie migliaia di miliardi di dollari su isole esposte, ai bordi di baie, su paludi interrate e lungo coste al livello del mare, ha radicalmente cambiato il calcolo dei danni. Anche togliendo dal conto ogni molecola di anidride carbonica aggiunta all'atmosfera terrestre negli ultimi trent'anni, i «normali» uragani provocano danni sempre più pesanti in zone costiere cementificate oltre ogni ragionevole sostenibilità. L'anidride carbonica intanto prospera. Le emissioni globali, secondo la più ottimistica delle stime, sono giunte a quello che il Panel Intergovernativo sul Cambiamento del Clima considera il «caso peggiore». La Banca Mondiale da parte sua ha accettato che sia inevitabile un aumento globale della temperatura media di almeno 2 gradi Celsius - vicino alla famosa «linea rossa» evocata dalle Cassandre climatiche dell'ultimo decennio. La Banca sta spostando i suoi aiuti allo sviluppo dal «mitigare» il cambiamento del clima all'«adattarsi» ai suoi effetti ormai ineluttabili.

Questo è il vero messaggio dell'uragano Sandy: siamo alla resa dei conti. «Adattarsi» al cambiamento del clima è sinonimo di un affare multi-multi-miliardario di ricostruzione delle infrastrutture costiere urbane e del sistema di uso del territorio. Imitare gli olandesi o vivere nel Mondo Acquatico. Quanto ci vorrà prima che la coscienza di questa sfida penetri nel cervello tumorale della politica americana? Fino al 2006, l'opinione pubblica americana era in sintonia con la preoccupazione diffusa in Europa circa il riscaldamento globale del clima. Dopo il Climagate però la super-sovvenzionata industria energetica è andata all'offensiva e i sondaggi hanno registrato un crollo nella percezione pubblica del cambiamento del clima come fatto scientifico.

Ancora più sorprendente: i sondaggi che hanno osservato la reazione pubblica a eventi climatici estremi, non hanno registrato un cambiamento significativo di opinione. La campagna presidenziale, nel frattempo, è stata una gara a quale candidato si chinava di più per regalare sesso orale ai produttori di combustibili fossili. La stampa d'affari esulta per le brillanti prospettive del gas di scisto e del petrolio «non tradizionale», quello estratto da sabbie bituminose e simili. Gli Stati uniti, per la prima volta da 33 anni, esporta di nuovo prodotti petroliferi. E siamo bloccati nella dipendenza dai combustibili fossili per ancora una generazione o due. Le alternative si dissolvono. La creazione di posti di lavoro «verdi», principale strategia industriale dell'amministrazione Obama, è fallita grazie alla rivoluzione dei gas di scisto e alla Cina che ha inondato il mercato mondiale con le sue celle solari economiche. Il crollo del sistema europeo di «scambio delle emissioni», oltretutto, non ha certo aiutato a rendere più credibile un sistema di limiti obbligatori delle emissioni di gas di serra accoppiato a una borsa delle quote di emissione (il «cap and trade») durante la recessione americana.

Il diluvio e le onde di tempesta sulle coste del New Jersey, purtroppo, non si traducono automaticamente in entusiasmo per le energie rinnovabili o urgenza di costruire chiuse e terrapieni. Ma prima o poi il cambiamento dovrà arrivare, e Washington comincerà a pagare gli interessi composti per non aver lavorato prima a frenare il riscaldamento del clima e rivedere l'uso del territorio. Ma non è questa la notizia davvero cattiva. Quella peggiore, e più feroce, è la relazione inversa tra il costo dell'adattamento al cambiamento del clima nei paesi ricchi e la quantità di aiuti disponibili per i paesi più poveri. I paesi tropicali e semi-tropicali che sono meno responsabili di aver creato un pianeta-serra sono quelli che sopporteranno il peso maggiore di inondazioni costiere, penuria d'acqua per l'agricoltura. Certo nessuno si aspettava che i grandi emettitori di gas di serra sarebbero corsi a salvare i poveracci a valle: ma Sandy segna l'inizio della corsa ad accaparrarsi il salvataggio del Titanic.

* È uno dei più famosi saggisti e autorevoli intellettuali della nuova sinistra americana. Il suo saggio su Los Angeles. «Città di quarzo» (manifestolibri, 2008) è un classico, come influenti sono stati i suoi volumi, tra cui «Olocausti tardovittoriani. El Niño, le carestie e la nascita del Terzo Mondo» (Feltrinelli 2002), «Il pianeta degli slum» (Feltrinelli 2006)

Novità e persistenti debolezze dello sforzo di costruire transnazionalmente una nuova democrazia.Il manifesto, 30 ottobre 2012.

Un linguaggio cosmopolita, la rivendicazione di diritti globali e la critica al capitale finanziario internazionale. Ecco cosa pensano gli «europeisti critici».

Emersa a dieci anni di distanza dalla nascita del movimento per una giustizia globale, la nuova ondata di protesta che è cresciuta in Europa, contro la crisi finanziaria e le politiche di austerity, mostra certamente continuità ma anche discontinuità rispetto al passato. Diversa è soprattutto la forma di transnazionalizzazione della protesta, simile l'attenzione alla costruzione di un'altra democrazia.

Per quanto riguarda la costruzione di un movimento transnazionale, entrambe le ondate di protesta parlano un linguaggio cosmopolita, rivendicando diritti globali e criticando il capitale finanziario globale. In entrambi i casi, in Europa i movimenti hanno sviluppato una sorta di europeismo critico, opponendosi all'Europa dei mercati (e oggi, di banche e finanza) e impegnandosi a costruire una Europa dal basso (oggi, «con l'Europa che si ribella»). Mentre il movimento per una giustizia globale si è però mosso dal transnazionale al locale, coagulandosi nel Forum sociale mondiale e nei controvertici, e organizzandosi poi nei forum continentali e nelle lotte locali, la nuova ondata di protesta sta muovendosi verso un percorso opposto, dal locale al globale.

Seguendo la storia, la geografia e l'economia della crisi - che ha colpito aree diverse in momenti diversi, con diversa intensità, ma anche con caratteristiche differenti (debito pubblico o private, indebitamento con banche nazionali o internazionali) i movimenti anti-austerity hanno dei più evidenti percorsi nazionali. Innanzitutto, tra la fine del 2008 e l'inizio dell'anno successive, in Islanda - primo paese europeo colpito dalla crisi - cittadini autoconvocati hanno reagito al crollo provocato dal fallimento delle tre principali banche del paese, denunciando le responsabilità delle otto famiglie che dominavano politica ed economia (significamente definite come parte di un octopus tentacolare), e imposto un referendum che si è concluso stabilendo una rinegoziazione del debito. Proteste nelle forme più tradizionali dello sciopero generale e delle manifestazioni sindacali hanno accompagnato la crisi irlandese, opponendosi ai tagli nelle politiche sociali. Nel marzo del 2011, in Portogallo, una manifestazione organizzata via Facebook ha portato in piazza 200 mila giovani. In Spagna, un paese rapidamente caduto dalla ottava alla ventesima posizione in termini di sviluppo economico, la protesta degli Indignados si è diffusa da Madrid in tutto il paese, conquistando visibilità globale. Mentre il numero degli attivisti accampati a Puerta del Sol a Madrid cresceva da quaranta il 15 maggio del 2011 a 30 mila il 20 maggio, centinaia di migliaia occupavano le piazza centrali di centinaia di città e paesi. La protesta del 15 di Maggio ha poi ispirato simili mobilitazioni in Grecia, il paese più colpito da drammatiche politiche di austerity, che hanno aggravato le condizioni economiche del paese, facendo crescere esponenzialmente il numero dei cittadini al di sotto della soglia di povertà. In Italia, dove il governo di Mario Monti (governo di grande coalizione, sostenuto da una maggioranza parlamentare Pdl-Pd-Udc) ha imposto politiche ultra-liberiste, la protesta sta crescendo dal basso, a livello locale, ma anche con momenti di aggregazione nazionale.

Ci sono stati certamente numerosi esempi di diffusione cross-nazionale di forme d'azione e schemi interpretative della crisi. Dall'Islanda, simboli e slogans hanno viaggiato verso il Sud Europa, diffondendosi attraverso canali indiretti, mediatici (soprattutto attraverso le nuove tecnologie), ma anche diretti, fatti di contatti tra attivisti di diversi paesi, per natura geograficamente mobili. Il 15 ottobre 2011, una giornata mondiale di lotta, lanciata dagli Indignados spagnoli, ha visto eventi di protesta in 951 città di 82 paesi. Nel 2012, mentre le proteste sindacali e gli scioperi si susseguono intense in tutto il Sud Europa, i sindacati spagnoli, greci e portoghesi hanno chiamato ad una giornata di lotta europea contro le politiche di austerità, oltre che a scioperi generali in tutti e tre i paesi per il 14 novembre. Tra i sindacati dei paesi più colpiti dalle politiche di austerità, solo quelli italiani, confermando subalternità ai partiti che sostengono il governo, non hanno (ancora) proclamato uno sciopero generale.

Il grado di coordinamento transnazionale della protesta è comunque certamente ancora minore che per il movimento per una giustizia globale, per il quale i forum mondiali e i controvertici hanno rappresentato fonti di ispirazione per identità cosmopolite e occasioni importantissime di costruzione di reticoli transnazionali. Sondaggi fra i cittadini mobilitati nelle proteste anti-austerity in Europa hanno inoltre indicato una crescente attenzione alla dimensione politica nazionale, seppure non disgiunta da quella alla politica europea e mondiale. Le forme di comunicazione transnazionale di questi movimenti sono emerse, se non più deboli, certamente diverse rispetto a quelle dei movimenti di inizio millennio. La dispersione sociale prodotta dalle politiche di austerity ha portato anche ad una maggiore rilevanza delle forme di comunicazione più individuali favorite dal Web 2.0, rispetto a quelle dei network organizzati della precedente ondata.

Nonostante questa (importante) differenza, ci sono comunque molte continuità rispetto alla precedente ondata di protesta: una delle più importanti è l'attenzione alla degenerazione della democrazia liberale in democrazia neoliberista («La chiamano democrazia, ma non lo è», recitano i cartelli degli indignados spagnoli), insieme però alla volontà di costruire una democrazia diversa: dal basso, partecipata e deliberativa. Le critiche sono, allora come ora, alla corruzione di parlamenti e governi, accusati di avere provocato la crisi, non solo per adesione ideologica alle dottrine economiche neoliberiste ma anche per diffuse connivenze politico-affaristiche in un coacervo di interessi forti (dell'1% contro il 99%). Anche dal movimento per una giustizia globale viene ai movimenti di oggi l'attenzione alla privazione di diritti di cittadinanza provocata dalla sempre maggiore delega di decisioni ad organizzazioni internazionali, che sfuggono strumenti di controllo - privazione aggravata oggi dal moltiplicarsi di trojke totalmente prive di legittimazione democratica. Allora come ora, inoltre, i movimenti rivendicano il loro ruolo nello sperimentare nuove forme di democrazia, basate su una ampia partecipazione dei cittadini non solo nel momento della decisione, ma anche nella elaborazione di idee, identità, soluzioni ai problemi. In questo, i movimenti di oggi rappresentano anzi una sorta di radicalizzazione della idea di partecipazione e deliberazione estesa a tutti. Nelle acampadas si realizza infatti una continua sperimentazione di quello che gli attivisti di inizio millennio chiamavano il "metodo" del social forum, che vuole facilitare il consenso attraverso la costruzione di una molteplicità di sfere pubbliche, plurali e orizzontali. E' attraverso queste pratiche democratiche che, anche oggi, movimenti transnazionali possono crescere dal basso.

Mannaggia alla bomba atomica! Senza questo piccolo particolare, la recessione mondiale sarebbe già alle nostre spalle. Infatti le altre crisi gravi sono state sanate solo quando è scoppiata una bella guerra: l'esempio più indiscutibile è la Grande Depressione degli anni '30 superata solo grazie alla Seconda guerra mondiale.

La ragione è semplice: di solito della guerra percepiamo solo la messe umana che miete, ma dal punto di vista economico i milioni di morti sono marginali; quel che conta è che la guerra distrugge un'immane quantità di edifici, prodotti, macchinari, in definitiva di capitale; e quindi crea la necessità di una nuova accumulazione, grazie alla ricostruzione materiale. Tanto che, dopo la guerra, a vivere i miracoli economici più rigogliosi di solito sono proprio i paesi più rasi al suolo, perché i nuovi impianti sono più moderni mentre gli stati più risparmiati si tengono anche le fabbriche più desuete e vengono scavalcati. Joseph Schumpeter aveva in mente proprio la guerra quando parlava della «distruzione creatrice» come caratteristica essenziale del capitalismo.

Però non tutte le guerre vanno bene. Quella in Iraq è sì costata agli Usa migliaia di miliardi di dollari senza apportare alcun beneficio all'economia statunitense, proprio perché non ha richiesto un massiccio aumento della produzione, non ha mobilitato la popolazione, non ha messo in campo quel connubio di spesa illimitata (per armi e materiale bellico) da un lato e razionamento (dei consumi privati) dall'altro che costituisce tutto l'appeal dell'economia di guerra. La guerra consente infatti ai governi di mandare a quel paese i diktat dei "mercati", rende non solo lecito, ma necessario spendere ed espandere il debito pubblico in nome di una causa superiore. Nessuno criticherà un governo se sfora per difendere la patria.Le guerre locali e a questo scopo non servono, ci vogliono vere e proprie guerre mondiali. E' col capitalismo che nasce la nozione di "guerra mondiale": la prima fu quella dei Sette anni (1756-1763) che decise il destino coloniale di interi continenti, dal Canada all'India; mondiali furono le guerre napoleoniche (anche Bonaparte, come Rommel, pensò di andare a fiaccare la potenza inglese in Egitto, e come Von Paulus finì impantanato in Russia); mondiali furono le due grandi guerre del secolo scorso.

Sono proprio queste guerre mondiali - conflitti totali tra grandi potenze - che l'arma atomica ha reso impossibili. Il capitalismo si trova così prigioniero dell'impossibilità di ricorrere alla soluzione bellica. Una prigionia tanto più asfissiante quanto più è totalitaria la dittatura dei mercati e quanto più risulta incrollabile la fede superstiziosa negli effetti salvifici dell'austerità. Durante la guerra fredda i propagandisti occidentali coniarono un'immagine assai efficace per descrivere la dittatura materiale e ideologica cui erano sottoposti i paesi del Patto di Varsavia: "socialismo reale" fu chiamata. Termine di straordinaria comunicativa perché diceva tutto senza dire: di fronte alle promesse di un "radioso sol dell'avvenire", nella sua realtà attuale e quotidiana il socialismo era solo sorveglianza del Kgb o della Stasi, penuria materiale, censura, file davanti ai negozi di generi di prima necessità, oppressione totale (o totalitaria) sotto un tallone nello stesso tempo poliziesco e ideologico (un pensiero unico sovietico diremmo oggi). Quel che caratterizzava il socialismo reale era che non potevi sfuggire, non potevi andartene, non potevi né cambiarlo, né ricusarlo. Ci pensavano i carri armati dei "paesi fratelli" a ricordarlo.

Una volta spazzato via il socialismo reale e delegittimato il socialismo immaginato, l'ironia della storia vuole che oggi ci accorgiamo di vivere nel "capitalismo reale". Anche noi siamo topi in gabbia che non possiamo sfuggire né allo spread né agli interessi del debito; anche per noi non c'è rifugio per quanto lontano dove non ci raggiungano gli esattori del nostro debito: ci rincorrerebbero anche su Marte. Anche noi dobbiamo vivere nella penuria: i greci anziani devono privarsi della sanità e gli spagnoli giovani del lavoro, per ottemperare agli ordini dei nostri "banchieri fratelli", cui per imporre i diktat non servono più carri armati, ma ispettori finanziari. Anche noi siamo strangolati dall'ideologia.

Ed è straordinario come tutti facciano finta di credere all'idea che l'austerità serva a qualcosa mentre invece è solo la corda a cui impiccarci. Perché, se superstizione è una fede immotivata, anzi contraddetta nell'esperienza, allora la fiducia nel potere terapeutico dell'austerity (come è più bello dirlo in inglese!) è una superstizione che non ha niente a invidiare a San Gennaro. Le ricette prescritte oggi da Bruxelles e da Francoforte ai paesi "sviluppati" del sud Europa sono identiche a quelle che per decenni il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale hanno imposto agli stati del Terzo mondo: decenni di austere terapie monetariste non hanno mai fatto prosperare nessun paese, ma tutti li hanno lasciati stremati, impoveriti, socialmente più feroci.

D'altra parte anche un bambino capirebbe che uno stato NON è una famiglia: una famiglia in difficoltà stringe la cinta e forse ne esce; ma se in uno stato tutti stringono la cinta, nessuno consuma più, le industrie non hanno più clienti, la produzione e le vendite crollano, le tasse che lo stato percepisce precipitano, tanto che in questi anni di lacrime e sangue il debito greco è aumentato, non diminuito, e anche quello italiano si è avviato sulla stessa china.

Nell'ultimo numero di Harper's Magazine, in un articolo intitolato The Austerity Myth, Jeff Madrick scrive che l'ideologia dell'austerità «va considerata una superstizione tanto quanto una teoria economica... Dall'Odissea al Vecchio Testamento, l'abnegazione è stata la reazione tradizionale a circostanze difficili. Sacrificio è la parola d'ordine che mobilita in guerra, come digiunare è la pratica centrale in molte religioni. L'auto-sacrificio è anche, triste a dirsi, profondamente attraente come risposta ai problemi economici. Suona giusto - una forma di penitenza e di machismo... Il problema è che anche se l'austerità può funzionare per gli individui raramente funziona per le economie».

I riti dell'austerità inflittici dalla Germania e dalle Borse diventano allora l'equivalente mercantile delle processioni autoflagellanti del Medioevo, delle penitenze cui si sottoponevano i pietisti per salvarsi l'anima. Con la differenza che magari i flagellanti il paradiso lo trovarono (il contrario non è dimostrabile), mentre noi la ripresa economica ce la possiamo sognare. Da ex consulente di Goldman Sachs (la più potente banca mondiale) è normale che Monti sia un piazzista di questa superstizione. Più problematico è che la stessa fede cieca animi molti esponenti del Partito democratico. Forse il dirigente che più somiglia al moschettiere Aramis (non solo per i baffetti) è stato per una volta nel giusto quando ha detto che costoro «si faranno male». Il guaio è che lo fanno

Il mantra del pensiero economico dominante recita che il debito pubblico è il male assoluto. Consolatorio, ma non spiega nulla. Rivela semmai la difficoltà delle teorie neoclassiche a venire a capo della crisi del sistema capitalistico. Un percorso di lettura Da Bretton Woods alla libertà di movimento dei capitali. Le tappe più rilevanti che hanno segnato il passaggio dai «gloriosi trenta anni keynesiani» all'attuale crash finanziario.

Nell'attuale dibattito di politica economica, su una cosa si concorda tanto dalla maggioranza quanto dall'opposizione: il debito pubblico è un male assoluto. Da Monti a Grillo, passando per Bersani, Di Pietro e Vendola, non c'è praticamente nessuno che abbia da dissentire. Magari ci si divide su come ridurlo, ma sul fatto che il debito sia di per sé un problema gravissimo perfino la «sinistra d'alternativa» sembra essere d'accordo - quasi che si potesse considerarlo come la misura degli eccessi del nostro consumo ai danni di Madre Terra.

J. M. Keynes scrisse a conclusione della Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936) che gli uomini pratici sono spesso schiavi di qualche economista defunto. Probabilmente la sua affermazione andrebbe rivista per tener conto del fatto che anche gli economisti hanno beneficiato dell'innalzamento della vita media prodotto dal welfare state, ma nel suo significato centrale tiene. La communis opinio sul debito pubblico come male assoluto discende infatti dai teoremi che costituiscono l'ossatura della teoria economica neoclassica, i cui postulati - a cominciare da quello della «scarsità» - governano a ben vedere anche quelle visioni asseritamente «alternative» che l'obiettivo della crescita si propongono invece deliberatamente di abbandonare.

Dominanti per default

Cosa dimostrino questi teoremi è presto detto: dati il progresso tecnico e la crescita della popolazione, e almeno fino al raggiungimento dell'equilibrio di crescita stazionaria, il tasso di crescita del reddito del sistema economico dipende da quello del capitale, che a sua volta dipende dal risparmio. Ne derivano ovviamente implicazioni negative circa le possibilità di intervento della politica governativa, perché l'unico scopo di quest'ultima diventa l'accrescimento del tasso di risparmio nazionale. È vero, l'evidenza empirica non è ancora riuscita a sciogliere il dubbio se siano il risparmio e gli investimenti a generare la crescita del reddito o sia invece quest'ultima a rendere parte del reddito disponibile al risparmio e all'investimento. Ma non è meno vero che la perdurante assenza di un paradigma idoneo a contenderle la scena (oltre che la drammatica mancanza di forze organizzate capaci di combattere contro l'assetto di interessi che essa tende a consolidare) rende la teoria neoclassica dominante per default: giusto come Windows, che si avvia immediatamente appena accendiamo il nostro pc.

Naturalmente, una situazione del genere favorisce l'insorgere di pregiudizi. Ad esempio, suggerendo la teoria che l'azione pubblica non può influire positivamente sulla crescita, ci si è interrogati sulla possibilità che possa danneggiarla. E siccome la fantasia degli economisti ortodossi non è certo minore di quella di tanti novelli costruttori di falansteri «dal basso», si sono elaborate al riguardo numerose risposte affermative, per giunta matematicamente molto eleganti.

Una delle più note muove dalla raffigurazione di due diagrammi relativi al mercato del lavoro: nel primo si mostra il settore in cui offrono i propri servizi individui «produttivi» che pagano le imposte, nell'altro il settore degli individui «sfigati» (per usare la pregnante espressione di un fortunato giovanotto, sottosegretario al Lavoro), che vivono di sussidi e trasferimenti pubblici. Questa coppia di diagrammi intende suggerire che vi sono costi da entrambi i lati del sistema di tassazione-trasferimenti: dal lato dei «produttivi» perché l'imposta innalza il costo a carico dei datori di lavoro e/o riduce il compenso dei lavoratori, disincentivando gli uni dall'assumere e gli altri dal produrre di più; dal lato degli «sfigati» perché il sussidio è di norma ancorato al (basso o nullo) reddito che essi percepiscono e dunque li disincentiva dall'offrire i loro servizi e/o dall'acquisire abilità che potrebbero suscitarne la domanda.

Sennonché, per quanto gli economisti ortodossi si siano ingegnati di offrire riscontri empirici circa l'ammontare di quella che, in termini di mancata crescita, sarebbe una «perdita secca», non disponiamo ancora di alcuna evidenza al riguardo: come ha scritto l'economista Peter H. Lindert, siamo ancora nel regno della «immaginazione, sia pur sorretta da capacità teoriche».

La spiegazione unificante

Non dissimile è la situazione per ciò che riguarda i presunti rapporti fra l'intervento pubblico e le crisi economiche. Gli economisti mainstream concedono senz'altro che le crisi hanno un tratto comune costituito dall'eccessiva accumulazione di debiti da parte di tutti gli attori del sistema economico (stato, imprese, lavoratori-consumatori) e ammettono pure che, ciò nonostante, l'indebitamento resta uno strumento fondamentale per il funzionamento stesso del sistema. Recentemente, però, sono giunti a ipotizzare che sia il debito pubblico il vero «problema unificante» delle crisi finanziarie, quanto meno di quelle degli ultimi otto secoli (!). E al netto della loro stupefacente capacità di mantenersi tanto più imperturbabili quanto più gli esiti delle loro «ricerche storiche» contraddicono il più elementare buon senso storiografico (una caratteristica ormai affinata in tre decenni di dominio della cliometria), bisogna riconoscere che anche qui l'evidenza empirica non aiuta, e semmai spinge in direzione opposta.

In effetti, è un dato incontrovertibile che la frequenza delle crisi bancarie e delle crisi valutarie - particolarmente elevata dall'inizio del XIX secolo, soprattutto nei paesi che di volta in volta hanno costituito i centri finanziari mondiali - ha subito un significativo decremento un po' dovunque dopo la seconda guerra mondiale e fino ai primi anni Settanta del Novecento. E altrettanto incontrovertibile è il fatto che da allora in poi (più precisamente, dalla denuncia statunitense degli accordi di Bretton Woods) la quota dei paesi che hanno registrato difficoltà nel settore bancario ha ripreso ad accrescersi, fino a generalizzarsi con l'ultima crisi finanziaria esplosa nel 2008.

Tra l'uno e l'altro di questi due periodi di tempo se ne colloca un terzo, approssimativamente databile tra il 1945 e il 1975, che i francesi di orientamento progressista solevano chiamare «trenta gloriosi keynesiani» e gli economisti neoclassici preferiscono piuttosto denominare «età della repressione finanziaria». Fu un periodo in cui gli stati, limitando i movimenti di capitali verso l'estero, costringevano di fatto i residenti a depositare il loro denaro nelle banche e queste ultime ad acquistare titoli del debito pubblico, attraverso la gestione delle riserve obbligatorie. Poiché a ciò si accompagnava quasi ovunque un controllo politico sulla banca centrale, che consentiva ai pubblici poteri di intervenire nella determinazione del tasso di sconto, ne veniva che gli stati si indebitavano a tassi molto bassi e, di fatto, «tassavano» il capitale monetario, infliggendogli un rendimento minore di quanto avrebbe potuto spuntare in regime di «libertà finanziaria». La riprova è che, mentre nel periodo in questione i rendimenti dei debiti pubblici risultarono inferiori ai tassi di interesse di mercato, sia prima che dopo è accaduto (e accade) l'esatto contrario.

Ovviamente, nemmeno gli economisti ortodossi hanno potuto fare a meno di rilevare la chiara correlazione esistente tra la maggiore mobilità dei capitali che ha contraddistinto il periodo precedente e successivo al trentennio 1945-75 e l'aumentata incidenza delle crisi bancarie, né hanno potuto esimersi dall'ammettere che la (relativa) calma dei «trenta gloriosi» dipendesse dalla «repressione finanziaria» attuata dallo stato: già nel 1985, del resto, era apparso sul Journal of Development Economics un profetico articolo di Carlos Díaz-Alejandro, eloquentemente intitolato Goodbye Financial Repression, Hello Financial Crash. Ma se è vero che l'evidenza empirica suggerisce che l'aumento dei debiti pubblici è una conseguenza delle crisi e non certo la loro «causa» (basti pensare che nei tre anni successivi ad una crisi l'indebitamento dello stato fa registrare in media un balzo dell'86 per cento), come giustificare l'insistenza sul debito pubblico, al punto da considerarlo - come s'è visto - il «problema unificante» delle crisi?

In termini teorici, la risposta è semplice. Poiché i neoclassici sostengono che l'ammontare del risparmio nazionale è positivamente correlato al tasso d'interesse, quanto più la «repressione finanziaria» riesce a tenere quest'ultimo «artificiosamente» basso tanto più si riduce la crescita (potenziale) del sistema economico. Si tratterebbe insomma di una «perdita secca» del tutto analoga a quella ipotizzata a proposito del sistema di tassazione-trasferimenti, e la crisi finanziaria non farebbe altro che sanzionarla.

Sennonché, proprio come in quel caso, non abbiamo alcuna evidenza che il supposto legame tra risparmio e tasso d'interesse sia qualcosa di diverso da un prodotto dell'immaginazione, sorretta o meno che sia da capacità teoriche. Lo ha riconosciuto perfino l'attuale Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco: «il principale risultato neoclassico - che il livello del risparmio dipende, per dato reddito, dall'andamento del tasso d'interesse - non ha trovato conferme di rilievo nelle verifiche di natura empirica, così come anticipato da Keynes». E allora, perché ostinarsi a non riconoscere quel che i dati suggeriscono a chiare lettere, che cioè la crescita del reddito appare positivamente correlata alla «repressione finanziaria», ossia a quella «signoria pubblica sul denaro» che costituisce l'esatto rovescio della costituzione monetaria degli ultimi quarant'anni?

Una risposta semplice ma non banale offrì Harry Dexter White, il negoziatore americano alla conferenza di Bretton Woods: il controllo dei movimenti di capitale varato allora significava «meno libertà per i proprietari di capitali liquidi», ossia «restrizione ai diritti di proprietà di quel cinque o dieci per cento di persone che hanno abbastanza ricchezza o reddito per investirne una parte all'estero». Una restrizione attuata non per capriccio o cattiveria, ma semplicemente perché la possibilità per i pubblici poteri di garantire - attraverso la gestione della domanda effettiva - una crescita del prodotto coerente con le potenzialità del sistema implicava anzitutto che le bilance dei pagamenti non fossero turbate dai movimenti repentini ed erratici che sono tipici degli investimenti finanziari. Diversamente, i cambi fissi si sarebbero trasformati in una camicia di forza per le prospettive di crescita delle nazioni, poiché non appena la bilancia dei pagamenti avesse registrato squilibri provocati da movimenti di capitali alla ricerca del massimo profitto a breve, il mantenimento del tasso di cambio avrebbe richiesto enormi dosi di «rigore fiscale» alla nazione in deficit: un rigore inutile e perfino dannoso, perché - oltre a tradursi in un ingigantimento del debito pubblico - avrebbe compromesso ogni strategia di politica industriale volta alle necessarie trasformazioni della struttura produttiva.

L'enigma del pasto gratis

Bisogna riconoscerlo: vista in quest'ottica, la costituzione economica europea varata a Maastricht e recentemente implementata con il Fiscal Compact sembra piuttosto riecheggiare un accorato e anonimo appello lanciato dalle colonne del New York Times il 1° luglio 1944, mentre prendevano avvio i lavori della conferenza di Bretton Woods: «Ogni nazione dovrà abbandonare l'idea fallace secondo cui avrebbe un vantaggio a vietare ai propri cittadini di esportare oro, capitale o credito». Non possiamo dirne qui. Quel che possiamo aggiungere è che, se è vero che non esiste alcuna correlazione inversa tra la crescita del reddito, da un lato, e la «repressione finanziaria», l'imposizione fiscale e una spesa pubblica non condizionata dall'obiettivo di remunerare a tassi di mercato il denaro preso a prestito, dall'altro, sorge «l'enigma di un pasto potenzialmente gratis», come lo ha definito Lindert: come mai i paesi con spesa sociale elevata registrano livelli altrettanto elevati di produttività del lavoro e per di più i lavoratori che vi abitano riescono a godere di più tempo libero all'anno, vanno in pensione prima e lavorano meno ore pro capite? Bisognerà tornarci.

Otto secoli di follia finanziaria

Una ricca (ancorché orientata) panoramica sulle diverse teorie della crescita e sulle loro verifiche empiriche è quella messa a punto da Enzo Grilli poco prima di scomparire prematuramente nel 2006 («Crescita e sviluppo delle Nazioni. Teorie, strategie e risultati», Utet, pp. 497, euro 29). Peter H. Lindert ha invece esposto la sua prospettiva eterodossa sui rapporti tra spesa sociale e crescita in un bel libro che nel 2005 ha vinto l'Allan Sharlin Prize per la storia delle scienze sociali (trad. it. «Spesa sociale e crescita», a cura di R. Artoni e A. Sommacal, Università Bocconi Editore, pp. 463, euro 30).

Definito dal Washington Post «semplicemente il libro sulle crisi finanziarie», l'ultima fatica di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff («Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria», Il Saggiatore, pp. 426, euro 22), è piuttosto l'ennesima riprova delle difficoltà - ma verrebbe da dire: dell'incapacità - dell'economia ortodossa di venire a capo dei dilemmi che il funzionamento del modo di produzione capitalistico continuamente le propone. Una difficoltà che affligge la pur meritevole disamina di Massimo Amato e Luca Fantacci, «Fine della finanza» (Donzelli, pp. 332, euro 18,50), ai quali sembra sfuggire che solo un cambiamento nei rapporti di produzione dominanti può rendere la moneta altro dal capitale.

Mary Kaldor, società civile alla London School of Economics, ha guidato un gruppo di ricerca europeo che ha analizzato per due anni l'evoluzione dei movimenti di protesta contro la crisi in Europa. Il lavoro che presenta i risultati ha come titolo The 'bubbling up' of subterranean politics in Europe (Il 'ribollire' della politica sotterranea in Europa) .

Di fronte alla crisi economica e politica in Europa, come possiamo interpretare le proteste che hanno caratterizzato le piazze di Madrid, Francoforte e Atene? Quanto sono legate ai contesti nazionali e che cosa hanno in comune?

«Siamo di fronte a uno di quei rari momenti in cui quella che noi abbiamo definito "politica sotterranea" - rappresentata ad esempio dagli Indignados in Spagna o dal movimento Occupy a Francoforte - raggiunge la superficie. La sfiducia verso i governi e la classe politica in generale è ampiamente condivisa in tutta Europa. Si è aperto un divario tra politica e cittadini e le dimostrazioni di piazza, le proteste e le occupazioni riscuotono sempre più appoggio in tutta la società. I movimenti della "politica sotterranea" non sono solo espressione del malcontento per la crisi economica o per le politiche di austerità imposte dai poteri europei, ma l'espressione di un rinnovato bisogno di espressione politica che va al di là delle normali forme di partecipazione democratica. La piazza assume un ruolo centrale nella pratica delle nuove forme democratiche, come ad Atene o Madrid. In Italia la campagna per il referendum dello scorso anno rappresenta un esempio di quelle pratiche democratiche dal basso che sono state sviluppate dalle iniziative della "politica sotterranea". Internet rappresenta inoltre uno strumento di organizzazione comune e molti attivisti sono preoccupati per la libertà della rete e per le norme anti-pirateria. Il rifiuto della politica tradizionale e la richiesta di democrazia è quello che hanno in comune le diverse proteste, poi i temi e i modi delle azioni sono legate ai contesti nazionali. L'idea di una "politica sotterranea" che sta emergendo mi sembra molto più efficace per capire gli sviluppi attuali della contrapposizione tra politica e "anti-politica"».

Qual è la percezione che questi movimenti hanno delle istituzioni europee?

«L'Europa non ha alcun ruolo nel dibattito interno delle iniziative e organizzazioni che abbiamo analizzato. L'Unione europea è percepita come un'istituzione neoliberista che impone le sue regole dall'alto, senza alcun rapporto con i cittadini, e di cui molto spesso non si conosce il funzionamento. Anche se molti degli intervistati si sono definiti "europei", soltanto una ristretta cerchia di critici ed esperti sembra interessata ad agire a livello europeo. Molte delle lotte condivise mantengono un orizzonte europeo, come la Tobin Tax, le politiche per la tutela dell'ambiente e la libertà della rete, ma non c'è interesse a sfidare le istituzioni europee in quanto tali. Inoltre, come per le istituzioni democratiche nazionali, c'è sfiducia anche nella democrazia europea. Quello che interessa ai movimenti è la possibilità di esperienze immediate di democrazia, e il livello che prevale è quello locale».

La "politica sotterranea" è una reazione temporanea o può evolversi in un nuovo modello di azione politica?

«Finora hanno prevalso le reazioni immediate, ma c'è bisogno di raccogliere e incanalare queste nuove forze verso una nuova politica. Questo vale per il bisogno di una politica che restituisca ai cittadini forme di controllo sulle decisioni che si prendono a livello nazionale e sull'esigenza di ridimensionare il potere della finanza - un tema posto da Occupy a New York e alla City di Londra. E vale anche per l'Europa; nonostante la percezione negativa delle istituzioni europee, questi movimenti rappresentano l'opportunità di costruire una vera democrazia trans-europea sottraendo energie a quei populismi che premono per l'opposto. Il primo passo in questa direzione è riconoscere il ruolo della "politica sotterranea" nel dibattito pubblico, darle lo spazio perché si possa sviluppare. Non sarà possibile risolvere la crisi economica senza prima risolvere la crisi della democrazia; entrambe si presentano innanzi tutto con una dimensione europea. L'Europa deve diventare il nuovo spazio per re-immaginare la democrazia, e la "politica sotterranea" rappresenta un punto di partenza.

Info

(Mary Caldor è professore di Global governance alla London School of Economics ed è tra i curatori dell'annuario "Global civil society yearbook", Palgrave. L'edizione 2012, appena pubblicata, è dedicata a "dieci anni di riflessioni critiche" sull'azione della società civile a scala globale. Il suo prossimo libro è su "La politica sotterranea" in Europa. I materiali sono disponibili sul sito http/www.gcsknowledgebase. org/europe. Kaldor è stata negli anni '80 tra i leader del movimento per la pace in Europa)

La crisi e il governo Monti (con il Pd alleato) segna un calo della piazza. E' contro i governi di centrodestra (Spagna e Grecia) che la protesta sale. In Italia è passata nei media l'autorappresentazione del "governo tecnico". Di fronte alle dure politiche di austerity che, già da tempo ma oggi con maggiore vigore, colpiscono ampie fasce di popolazione ("Nove su dieci", dimostra il libro di Mario Pianta), una delle domande spesso rivolte agli studiosi di movimenti sociali (così come ai loro attivisti) è: perché a fronte di una sfida così grande, la mobilitazione si mantiene limitata? Perché - diversamente da Spagna, Grecia e Stati Uniti, ma anche dall'Islanda prima di loro - c'è apparentemente così poca protesta?

Occorre innanzitutto osservare che la protesta c'è, cresce e si focalizza sui temi dei diritti sociali intrecciati con domande di democrazia reale. Una ricerca che abbiamo condotto (con Lorenzo Mosca e Louisa Parks) sulle proteste riportate su un quotidiano nazionale nel 2011, dimostra una mobilitazione non solo elevata, ma anche concentrata su temi sociali. Quasi la metà degli eventi di protesta riportati coinvolge lavoratori (in condizioni occupazionali stabili), oltre la metà se si aggiungono i precari (tabella 1). Più di un quinto coinvolgono studenti. Inoltre, se i sindacati sono ben presenti nella mobilitazione, attori importanti della protesta sono anche gruppi informali di movimenti sociali, centri sociali occupati e associazioni di vario tipo (tabella 2). Non a caso, le statistiche sugli scioperi segnalano un aumento del 25% nell'ultimo anno.

Se gli episodi di mobilitazione anti-austerity sono numerosi, è però vero che, negli ultimi mesi, sono mancate le grandi manifestazioni che avevano contribuito alla caduta del governo Berlusconi, segnalando tra l'altro che politiche neoliberiste non potevano essere imposte efficacemente da un capo di governo libertino, e variamente delegittimato. Il passaggio da Berlusconi a Monti non ha segnalato un mutamento di indirizzo delle politiche pubbliche, ma l'acquisto (a prezzi modici, a dire il vero) del sostegno ad esse di quella che era stata l'opposizione politica. Se il 15 ottobre 2011, con una grande capacità di mobilitazione, ha rappresentato una eccezione, la sua evoluzione non ha facilitato la ripresa di un processo di aggregazione nella protesta, tutt'altro.

Una prima ragione della difficoltà nel mettere in rete le mobilitazioni esistenti può essere individuata nella crisi stessa. Ripetutamente, la ricerca sui movimenti sociali ha sottolineato che non è quando c'è più privazione (né assoluta, ne relativa) che la protesta aumenta, ma piuttosto quando maggiori risorse sono disponibili per chi vuole contestare le decisioni di chi governa. Già gli studi sul movimento operaio hanno rilevato che gli scioperi crescono con la piena occupazione, non quando aumenta la disoccupazione. Se l'insicurezza scoraggia l'azione collettiva, l'effetto depressivo della crisi non può che essere accentuato dal nuovo tipo di mercato del lavoro, e per le nuove figure produttive meno protette sul mercato del lavoro e sul luogo di lavoro. Chi è precario ha, certamente, più difficoltà a mobilitarsi in difesa dei suoi diritti, perché è più ricattabile, ha meno tempo libero, e spesso mancano gli stessi luoghi fisici di aggregazione che erano stati così importanti per il movimento operaio.

Se questo tipo di spiegazione, diciamo strutturale, ha qualche granello di verità, non ci aiuta però a capire perché in Spagna, Grecia, o negli Stati uniti (ma anche in Italia in altri momenti) i gruppi più colpiti dalla crisi economica e dalle crescenti diseguaglianze prodotte dalle politiche neoliberiste (peraltro responsabili di quella stessa crisi) si sono mobilitati in momenti di protesta ampia e visibile (dagli Indignados a Occupy). I precari hanno, tra l'altro, in Italia protestato in maniera ampia e visibile, in particolare nella prima metà dello scorso decennio.

La ricerca sui movimenti sociali ci offre un'altra spiegazione, più specificamente applicabile al caso italiano. La protesta, per crescere, ha bisogno di alcune opportunità politiche. Fra di esse, fondamentale per i movimenti di sinistra è la posizione di potenziali alleati come partiti e sindacati, che sono importanti per estendere la mobilitazione, sia per le risorse logistiche che possono offrire sia, soprattutto, per la possibilità di accrescere l'influenza politica di chi protesta. E' contro governi di centro-destra che la protesta di massa è stata più consistente è visibile, quando ha trovato il sostegno di partiti e sindacati. Ciò è tanto più vero in Italia dove, nonostante reciproche critiche, i rapporti tra movimenti e partiti di sinistra (quando c'erano) erano sempre stati intensi.

Se questi alleati c'erano contro Berlusconi, un governo di grande coalizione come il governo Monti ha drasticamente ridotto le opportunità di alleanze politiche. Non solo partiti che votano per il governo neoliberista e le sue politiche sarebbero alleati poco credibili per chi a quelle politiche si oppone, ma il governo in carica è anche riuscito a propagare efficacemente la sua auto-immagine di "governo tecnico".

Che questa auto-rappresentazione abbia pochi appigli nella realtà è evidente, tra l'altro guardando alle carriere della maggior parte dei ministri all'interno di istituzioni non certo neutrali rispetto alle scelte politiche, così come nelle politiche di deregolamentazione, privatizzazione, e riduzione della volontà e capacità dello stato di intervenire a ridurre le diseguaglianze prodotte dal mercato.

Ma è anche evidente che l'autorappresentazione come governo tecnico abbia attecchito sulla stampa e oltre. Non solo i principali giornali nazionali inneggiano acriticamente al "super Mario", ma istituzioni come quelle accademiche, che avevano in passato gelosamente custodito una immagine di neutralità politica, offrono oggi, spesso e volentieri, un palcoscenico politico al capo di un governo che si autodefinisce tecnico, palcoscenico utilizzato poi per fare discorsi prettamente politici e ideologicamente neoliberisti.

Questa anomalia italiana contribuisce certamente a sp

iegare la difficoltà di mettere in rete i tanti rivoli della protesta - che pur ci sono. Questa resistenza diffusa potrebbe comunque contribuire a una aggregazione e politicizzazione delle mobilitazioni, non solo attraverso la contestazione di specifiche politiche, ma anche sottolineando la natura - politica e neoliberista - di questo governo.

Info

Donatella Della Porta, professore all'European Universtity Institute di Fiesole, esperta di movimenti sociali. Tra i suoi libri recenti "Democrazie", Il Mulino 2011; "Another Europe", Routledge 2009; "le ragioni del no. Le campagne contro la Tav in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto, con Gianni Piazza, Feltrinelli 2008)

Info

Donatella Della Porta, professore all'European Universtity Institute di Fiesole, esperta di movimenti sociali. Tra i suoi libri recenti "Democrazie", Il Mulino 2011; "Another Europe", Routledge 2009; "le ragioni del no. Le campagne contro la Tav in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto, con Gianni Piazza, Feltrinelli 2008)

Le mille argomentazioni per spiegare la crisi in cui sono immersi i paesi occidentali da cinque anni a questa parte non ci appaiono molto convincenti e, come ha ricordato Vladimiro Giacché, riportano alla mente le giustificazioni di John Belushi nel film dei

Blues Blothers.

Per convincere l’ex fidanzata abbandonata sull’altare a non ammazzarlo, Belushi dice: «Quel giorno finì la benzina. Si bucò un pneumatico. Non avevo i soldi per il taxi! Il mio smoking non era arrivato in tempo dalla tintoria! Era venuto a trovarmi da lontano un amico che non vedevo da anni! Qualcuno mi rubò la macchina! Ci fu un terremoto! Una tremenda inondazione! Un’invasione di cavallette!».

Alle mille spiegazioni della crisi, noi ne aggiungiamo un’altra: la liberazione del movimento dei capitali, che, all’inizio degli anni ’80, pose fine al grande compromesso di Bretton Woods fondato appunto sul divieto di circolazione dei capitali a cui faceva da contrappeso la libertà di circolazione delle merci.

Lo strappo effettuato dai due leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario.

A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del

mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della c

Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non

Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattor

Ma c’è anche un altro motivo, l’enorme concorrenza che si stabilisce dopo la liberazione dei movimenti di capitale tra i capitalismi nazionali e il mercato finanziario internazionale. Questa concorrenza acuisce e aumenta l’importanza del profitto nell’ambito della struttura economica. Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioniazionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo.

Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. Le recenti decisioni della Banca Centrale Europea sugli interventi “antispread” rappresentano un primo passo importante per ricostruire la sovranità monetaria dell’Unione Europea e per ridimensionare l’influenza della speculazione finanziaria sulle politiche economiche dei paesi in difficoltà. Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.

Non è un problema tecnico. Non c'era bisogno di particolari competenze ingegneristiche o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto fu presentato in pompa magna, che il piano «fabbrica italia» stava sulle nuvole. Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle 650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli destinati all'esportazione di cui «300.000 per gli stati uniti» (sic!), quel raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila) in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi di euro d'investimenti in italia (i due terzi dell'intero volume mondiale del gruppo fiat!), senza uno straccio d'indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul tavolo verde.

Non è nemmeno un problema politico. O meglio, non è solo un problema politico. I pochi - pochissimi! - che annusarono il bluff e lo dissero o lo scrissero, non lo fecero perché «ideologicamente» ostili alla Fiat, o all'«impresa», o al «capitale». Se gli uomini della Fiom, unica organizzazione nell'intero panorama sindacale, capirono al volo che quel patto leonino proposto da Sergio Marchionne - sacrifici operai subito in cambio di una chimera lontana - era una trappola mortale, non lo fecero perché politicamente schierati contro. Lo fecero perché, appunto, erano «uomini», non marionette. Ben radicati nella realtà di fabbrica, spalla a spalla con altri uomini e donne con cui condividevano difficoltà, sentimenti e interessi.

Forse sta tutta qui la soluzione dell'arcano del «caso Marchionne». In una questione di «antropologia»: nella materialità di una condizione umana e di un sistema di relazioni su cui è passata come un rullo compressore una drammatica «apocalisse culturale». È sicuramente il prodotto di un'apocalisse culturale l'anti-eroe eponimo della vicenda, l'ad Sergio Marchionne, svizzero fiscalmente, americano aziendalmente, apolide moralmente. Così come lo sono i variopinti eredi della famiglia Agnelli - i «furbetti cosmopoliti» di cui parla Della Valle - figure ormai abissalmente distanti dal tipo umano dell'imprenditore del primo e anche del secondo capitalismo. Feroce, certo, spregiudicato e «creativamente distruttore», calcolatore e cinico, ma non incorporeo, sradicato e irresponsabile. Non avulso da ogni terra e da ogni luogo come sono i nuovi manager globali e la nuova proprietà finanziarizzata, la cui parola vale l'éspace d'un matin, e la cui appartenenza è sconosciuta («siamo qui. Anzi io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia», ha detto l'a.d. Fiat a Ezio Mauro nell'intervista pubblicata proprio ieri da Repubblica, erettasi per l'occasione a informale tramite tra impresa e governo). Marchionne non è un imprenditore in senso stretto. Non sa «fare macchine» - macchine le fanno ancora i tedeschi, come la volkswagen che ne produce 8 milioni all'anno e veleggia verso i 10 milioni, e che investe in ricerca e sviluppo quasi 7 miliardi di euro, mentre lui va poco sopra i 2 per lo più finanziati dalle banche italiane e impegnati per trasferire oltre oceano la tecnologia fiat.

Marchionne sa fare soldi: nel solo 2010, l'anno di Fabbrica Italia, ha provocato la più severa caduta sul mercato europeo mai registrata (la fiat è scesa ad appena il 6,7%) ma in compenso ha portato il proprio gruppo a guidare la classifica della redditività per gli azionisti, «con un ritorno sul capitale del 33%»! vale per lui quanto scritto da Richard Sennett sui manager globalizzati di ultima generazione nel suo ultimo volume su la cultura del nuovo capitalismo: gente che vive strutturalmente - in forza della distanza abissale, di reddito e di stile di vita, che li separa dai luoghi e dalle figure del lavoro - la divaricazione tra guida e responsabilità. Ambivalenti per ruolo e natura. Specializzati nel pensare per «tempi brevi», sul raggio della prossima trimestrale, e a muoversi per improvvisazioni più che per programmazione e pianificazione. Gente, diciamolo, di cui non fidarsi!

Ma prodotto di un'apocalisse culturale sono anche gli altri. Quelli che dovrebbero stare di fronte a Marchionne, e che invece gli stanno dietro (o sotto): i Bonanni, gli Angeletti, buona parte della politica, quasi tutta l'amministrazione. Che cosa ha portato il capo della Cisl Raffaele Bonanni, nell'aprile del 2010 a «brindare alla salute di Fabbrica Italia», definendola «una minirivoluzione che potrebbe riportare l'italia ai vertici produttivi di un tempo»? E ancora l'anno successivo a dichiarare: «sarà brusco, sarà crudo, ma Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat. Grazie a dio c'è un abruzzese come Marchionne». Che cosa ha spinto il segretario della CISL torinese Nanni Tosco - che pure dovrebbe essere un po' più vicino ai luoghi della produzione - a sbilanciarsi definendo il piano di Marchionne «un'opportunità irripetibile per il sindacato e assolutamente da cogliere, evitando di infilarsi tra le ombre del 'piano b'»? E il futuro sindaco fassino, alla vigilia del famigerato referendum sull'accordo a Mirafiori, a dichiarare senza esitazione che se fosse stato un operaio FIAT (sic) avrebbe votato sì? Ma è pressoché tutto il mondo politico ad aver assistito ai preparativi della fuga di Marchionne - come ha scritto Loris Campetti - «con il cappello in mano, spellandosi le mani ad applaudire le prodezze di un avventuriero». Perché?

Non erano così gli uomini di «prima». Non dico i Pugno (il leggendario segretario della camera del lavoro di Torino venuto dagli anni duri), ma nemmeno i Cesare Delpiano, gli Adriano Serafino, i Pierre Carniti, i responsabili della cisl piemontese e nazionale che guidarono la riscossa operaia. Gente che sapeva conoscere e valutare gli uomini che aveva di fronte, perché conosceva e rispettava gli uomini di cui aveva la responsabilità. E non erano così i Berlinguer, i Novelli, i Damico, ma nemmeno il democristiano Donat Cattin e persino il vecchio sindaco Giuseppe Grosso... In mezzo, tra questi due diversi «tipi umani» - tra queste opposte antropologie - è passata, come un vomere, la lama di una sconfitta storica del mondo del lavoro. Di un arretramento epocale nelle condizioni materiali del lavoro, nel livello delle remunerazioni e dei salari dei lavoratori, e insieme nel ruolo stesso che il lavoro gioca nello spazio sociale, nella sua capacità di parola e di presenza.

Luciano Gallino, nel suo splendido La lotta di classe dopo la lotta di classe calcola che nel corso del ventennio a cavallo tra il novecento e il nuovo secolo lo spostamento di ricchezza dal monte salari al monte profitti sfiori i 250 miliardi di euro all'anno: l'equivalente di numerose manovre finanziarie lacrime e sangue. E' la misura della perdita di potere del lavoro, che è stata anche sua «privatizzazione». Espulsione del lavoro dalla sfera pubblica (quella in cui l'aveva riconosciuto anche formalmente l'art. 1 della nostra costituzione), e suo confinamento nella dimensione privata, senza voce e senza forza, regolata da rapporti di comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente asimmetrici. Di questa dimensione pubblica del lavoro sono orfani, di questa sua privatizzazione (a cui hanno assistito passivamente e collusivamente) sono figli, gli attuali politici maggioritari e i sindacalisti in ginocchio davanti al Marchionne di turno. L'insostenibile leggerezza del loro essere è il riflesso di una strutturale perdita di terreno. L'evaporare della politica e della rappresentanza in generale (istituzionale o sindacale) nella nuvola eterea dei sistematici luoghi comuni che avvolgono ormai la comunicazione pubblica come un involucro asfissiante (la «cattura cognitiva» di cui parla Gallino), riflette questa liquefazione.

Ora, se questa massa liquida cui si è ridotta la politica nazionale e buona parte dello schieramento sindacale viene chiamata a misurarsi, nelle forme ultimative che la crisi impone, con la dimensione gassosa della nuova imprenditoria globale - con il marchionne di turno - il risultato è scontato: essa è destinata ad esserne dissolta e fagocitata irrimediabilmente, con la comune rovina di se stessa e di noi tutti. Dovrebbe farci pensare il fatto che gli unici a confrontarsi, con durezza, con Marchionne sono i «forti», altri «padroni» come lui, mentre ministri, politici e sindacalisti di regime emettono flebili vagiti e si rimettono, come dice Giorgio Airaudo, «alla clemenza della corte». Se una speranza è data vedere, se una possibilità di rinascita si può immaginare, essa consiste nei punti di resistenza di ciò che ha saputo restare «solido» nel generale processo di dissolvimento. Mantenere un rapporto col proprio suolo, culturale, sociale, produttivo. Per questo tanta ammirazione - anche al di fuori del campo ristretto delle tradizionali sinistre - avevano saputo suscitare quel 40% di «inattuali» che a pomigliano avevano avuto il coraggio di dire no, e quel quasi 50% di mirafiori. Per senso di dignità, prima che per calcolo di utilità. Sapendo di giocare una partita disperata (perché il ricatto di Marchionne lasciava solo l'alternativa tra «arrendersi o perire»). Oggi sappiamo che vedevano più lontano degli altrettanto disperati operai che votarono sì. Come vedeva lontano la fiom, a cui andrebbe fatto un monumento per aver saputo mantenere aperto un varco, attraverso cui tentare di passare oltre. Di esistere ancora, nel mondo che verrà.

La chiusura ventilata della Carbosulcis avrà forse delle ragioni economiche, ma per diversi aspetti ha un forte contenuto politico, e un non meno rilevante potenziale di innovazione del modello industriale.Se le ragioni economiche finissero per prevalere sulle altre, come rischiano di prevalere, sempre in Sardegna, nei casi dell’Alcoa, dell’Euroallumina, della Portovesme, le relazioni industriali in Italia farebbero un altro passo all’indietro, e le spinte a innovare qui e ora un modello industriale superato subirebbero un lungo rinvio.

Il contenuto politico deriva dal fatto che si tratta di minatori. La memoria non può non andare al durissimo attacco che venne sferrato dal governo Thatcher nel 1984-85 contro il sindacato nazionale dei minatori, il più forte del Paese. Ben più che ridurre i costi dell’industria mineraria o avviarla a qualche tipo di conversione, esso aveva lo scopo manifesto di spezzare le reni all’intero movimento sindacale. L’operazione ebbe successo. I sindacati britannici non si sono mai più ripresi da quella sconfitta. Inflitta loro dal governo a carissimo prezzo per l’intero Paese. Tra perdite di produzione, riduzione degli introiti fiscali e sussidi che si dovettero pagare per un lungo periodo, la vittoria della signora Thatcher costò al Regno Unito circa 36 miliardi di sterline di allora, più di tre punti di Pil.

La Carbosulcis è ben più piccola dell’industria mineraria britannica di quei tempi, ma il nodo di fondo rimane. Si tratta di decidere se il primo obbiettivo da conseguire è ridurre alla sottomissione i diretti interessati, e con essi il numero assai maggiore di lavoratori che sono costretti a dirsi “se non accetto tutto ciò che mi chiedono domani toccherà a me”, oppure di convenire che i lavoratori hanno delle buone ragioni per opporsi alla chiusura. Al tempo stesso si tratta pure di decidere se una differenza del rendimento economico rilevabile tra un sito produttivo locale e un sito analogo che risiede chissà dove, giustifica la decisione di togliere il lavoro a qualche centinaio o migliaio di persone. Differenza di rendimento comparato, si noti, non di produzione in perdita: è la stessa situazione dell’Alcoa. I lavoratori italiani hanno pagato e stanno pagando un prezzo durissimo alla crisi, di cui peraltro non portano alcuna responsabilità, anche se qualcuno ha il coraggio di dirgli che hanno vissuto al di sopra dei loro mezzi. I quattro milioni effettivi di disoccupati, il miliardo di ore di cassa integrazione previste per il 2014, i quattro milioni di precari, dovrebbero essere uno scenario sufficiente per stabilire che nessuna impresa piccola o grande dovrebbe chiudere, licenziando, ma va guidata e sorretta affinché trovi il modo di far transitare i lavoratori ad altre occupazioni.

Regione e governo sono quindi dinanzi alla sfida di non smantellare un altro pezzo del tessuto produttivo, del sistema occupazionale e delle relazioni industriali in Italia, dopo il degrado che essi hanno subito negli ultimi anni e mesi.

C’è di più. Nel quadro deprimente che appare disegnato non soltanto dalla crisi, ma anche dalle politiche che ogni giorno vengono prospettate per superarla, la modernità appare stare proprio dalla parte dei minatori sardi. Non chiedono di continuare a estrarre carbone. Chiedono di convertire la miniera in un contenitore di anidride carbonica, quella che avvelena i nostri cieli e le nostre città. Sarebbe un passo significativo verso un modello produttivo che non si proponga di tornare presto a produrre esattamente quel che si produceva prima, in quantità ancora maggiori – una ricetta sicura per accelerare il disastro non solo ambientale ma pure economico e sociale che ci attende. Al contrario rientra in una idea di produrre condizioni e servizi e ambienti che migliorino la qualità della vita. Saremmo sconfitti tutti noi, cioè l’intero Paese, se ancora una volta vincesse lo spirito conservatore e revanscista che contraddistinse il governo britannico un quarto di secolo addietro.

Non che sia proprio una fuga, ma solo un lento allontanarsi. Da quell'aria avvelenata, da quel gas che spezza il respiro, da quella polvere assassina. Nessuno vuole lasciare Taranto al suo destino forse ormai segnato, alla sporca dannazione a cui in tanti l'hanno condannata. Ignavi o compiacenti o corrotti e dunque complici di un'accumulazione omicida, che però costituisce lo zero-virgola-zero-qualcosa del Pil e ci fa competere con i tedeschi, i cinesi e perfino i coreani. Nessuno vuole che Taranto affondi nei due mari, con gli altoforni a sobbollire in una brodaglia fumante e contaminata.

Solo che appena fuori dalla città, qualche chilometro a Ovest, c'è un piccolo tempio greco. Due filari di colonne doriche che fioriscono in un nulla apparente, proprio accanto alla statale 106, la sgangherata Taranto-Reggio Calabria, che è la stessa disegnata dai romani duemila anni fa, appena ritoccata dai cartografi del Regno delle due Sicilie. C'è insomma un rudere della Magna Grecia lungo una strada ottocentesca: e allora? E allora diciamo subito che timpani e capitelli non inquinano e non uccidono i bambini. Non producono laminati né travature, non aiutano l'esportazione, non movimentano il mercato internazionale dell'acciaio: ma lasciano respirare e sono anche belli da vedere. E inoltre intorno a quell'esile reperto c'è un intero mondo di storia e di cultura.

Nel Metaponto il granaio di Roma

C'è per esempio Metaponto con la sua sterminata area archeologica, che però resta sepolta perché scavare costa troppo, e l'archeologia è diventata un lusso per un paese che si è fatto imprigionare dal suo debito. Più in là, lungo la costa, ci sarebbero anche Eraclea e poi Sibari. E chissà cos'altro ancora, se solo si potesse scandagliare e penetrare quella terra accarezzata dal mare, che ha visto transitare mille popoli e mille culture.

Da quelle parti c'erano quelli che oggi definiremmo «meridionali incazzati». I messapi. Furiosi perché una volta sì e l'altra pure vedevano arrivare barconi pieni di migranti greci che cercavano fortuna in giro per il Mediterraneo. E fu proprio un manipolo di attici reduci dalla guerra di Troia (in quel tempo c'era sempre qualcuno che girovagava di ritorno da Troia) a impossessarsi pian piano di quel territorio italico, uno dei più fertili d'Europa. Ma quella gente che veniva dall'altra parte del mare sembrava più sveglia e intraprendente, a sua volta contagiata da altre esperienze e altre avventure. Si portava dietro arti e scienze, ma anche guerrieri e armi. Pitagora con la sua tavola leggendaria, ma anche manipoli di spartani attaccabrighe.

Poi, al solito, ci pensarono i romani a stabilizzare lo stato delle cose. Si presero tutto e chi disobbediva veniva raso al suolo: come capitò proprio a Metaponto perché aveva ospitato il cartaginese Annibale. Per un periodo bazzicò da quelle parti anche Spartaco con il suo esercito di liberi ma disperati, e per i romani furono dolori; ma poi sappiamo come finì. E per secoli quella terra miracolosa, graffiata dall'acqua che scende dall'Appennino, diventò la più grande riserva alimentare dell'impero.

La storia certo non finì così. Ci fu la stagione dei Bizantini e dei Longobardi, dei Saraceni e anche dei Normanni, un lungo medioevo tra grotte di tufo e calanchi, chiese rupestri, santi combattenti e madonne varie, guerricciole infinite tra francesi e spagnoli. Per non parlare di briganti, cardinali e piemontesi; il regno d'Italia sfruttatore e tirannico che cambiava nome ai paesi, da Salvia a Savoia; gli antifascisti mandati al confino nei paesi più nascosti, Tursi, Aliano, Craco. Infine arrivarono gli anni '60: e proprio allora il presidente dell'ancor giovane repubblica inaugurò l'acciaieria di Taranto, allora Italsider di stato, oggi Ilva della famiglia Riva.

Italsider, Eni, Fiat e le altre

Non fu solo Taranto a ricevere in dono quella polpetta avvelenata, anche Napoli ne beneficiò. E ne sanno qualcosa pure sardi e siciliani. Ma in quel tempo tutti ritenevano di promuovere sviluppo e ricchezza, senza particolari distinzioni: partiti di governo e d'opposizione, industriali e sindacalisti, scienziati e intellettuali. Si localizzavano al Sud gli impianti più pericolosi affinché il Sud potesse somigliare al Nord. Basta con la maledizione dei campi, con la paura della grandine o della siccità. Tutti operai, tutti salariati, tutti garantiti. L'avvelenamento di terre, mari e aria, con i polmoni che si spappolano e il sangue che diventa stracciatella sono solo un danno collaterale. O meglio, il prezzo da pagare all'emancipazione della società.

Dopo cinquant'anni di devastazione e di malintesa modernità sono ancora in molti a pensarla allo stesso modo. Sì, d'accordo, l'acciaieria ha un po' inquinato, qualcuno c'è morto per quelle particelle svolazzanti, ma adesso diamo una ripulita e si ricomincia di più e meglio di prima. E per favore dite a quei quattro magistrati di non esagerare con le loro accuse, ché qui è in gioco il futuro del paese, del suo permanere nel club delle potenze industriali del pianeta. Fronti aggrottate, sguardi a piombo, parole ben scandite, l'esercito di furieri al servizio di Mario Monti non ha dubbi. Le sorti della nazione si giocano sulle ciminiere di Taranto; che nessuno s'azzardi neanche a pensare di chiudere gli impianti.

Cinquant'anni passati invano. Anzi, in una condizione ambientale stressata allo stremo, con una biosfera largamente necrotizzata, tra bambini stroncati dai tumori e animali mutanti, quel che incredibilmente si propone è di andare a caccia di petrolio. L'ha annunciato con grottesca solennità il ministro più contemporaneo e intelligente che c'è, Corrado Passera. Non dunque la riconversione ecologica dell'acciaieria, ma neanche la produzione energetica da fonti naturali. Andiamo a trivellare un po' di montagne e a pescare in fondo al mare. Raccogliamo dalle profondità il respiro e lo sputo del diavolo. Mettiamo il tutto a cuocere in raffineria e poi imbottigliamolo dentro oleodotti e gasdotti che per centinaia di chilometri attraverseranno vallate e pianure, si tufferanno in mare per poi riemergere e continuare il loro viaggio velenoso.

Poco distante da Taranto, piegando un po' verso l'interno, c'è un paese che si chiama Ferrandina. Da quelle parti, con scarso successo in verità, per decenni hanno succhiato un po' di metano. Era stato annunciato come il tesoro nascosto di quella terra, ma di quei giacimenti oggi restano solo impianti abbandonati, simulacri vuoti e scrostati. Per fortuna, una manciata di contadini hanno continuato a coltivare le loro piante d'ulivo. Piantagioni di una varietà tuttavia speciale, l'oliva Majatica: che produce un olio tra i più buoni d'Italia e che viene anche infornata e poi esportata in tutto il mondo. Certo, non si può vivere soltanto con le olive. Ma con il metano, di sicuro, s'invecchia presto e male.

Si torna dunque a prospettare lo sfruttamento minerario e l'agricoltura, l'archeologia, l'ambiente, la cultura, ecc. vengono nuovamente accantonate, relegate a un destino residuale e scarsamente redditizio. Si continua a preferire lo sfruttamento di risorse limitate e comunque effimere e non si coglie il valore strategico dell'uso e la cura di altre risorse naturali, queste sì sempre disponibili. Anzi, privilegiando le prime si rischia di danneggiare le seconde. Come provarono a fare quando decisero di seppellire a Scansano le scorie radioattive.

E come purtroppo hanno fatto in Val d'Agri con l'estrazione del petrolio. Da diverso tempo questa splendida valle lucana, che si trova in pratica alle spalle dell'area jonica e che, tra montagne, pascoli e verdi piegature, somiglia a un paesaggio alpino, è attraversata da una rete di pozzi, centri di raccolta, oleodotti. A grande profondità c'è il petrolio. Ovviamente a sfruttarne il potenziale ci sono grandi compagnie globalizzate, anche se lasciano un po' di soldi allo stato e una mancetta al territorio.

Dal latte al metano (e ritorno?)

Da quando c'è l'attività estrattiva lo scenario ambientale e sociale è sensibilmente cambiato, e non poteva andare diversamente. Su quei crinali ruminavano le vacche podoliche dal cui latte si produce il provolone più buono del mondo, in quelle pianure si coltivavano legumi e ortaggi fantastici, i fagioli di Sarconi, le melanzane rosse di Rotondella, i peperoni gialli di Senise. In realtà è ancora così ma spesso affiora il dubbio che qualcosa tenda ad alterarsi nell'equilibrio bio-territoriale. Siamo tuttavia sicuri che, alla fine, tra un po' di tempo, esaurito il giacimento, smantellati gli impianti, il futuro della Val d'Agri potrà contare ancora sui fagioli e i peperoni.

Dove esattamente s'incrociano la produzione d'acciaio e l'estrazione di idrocarburi è a Melfi, che si trova ancora più a nord. Qui la Fiat produce automobili, sebbene non si sappia fino a quando. Per localizzare lo stabilimento e il suo cospicuo indotto di fabbriche e fabbrichette è stata completamente cementificata un'enorme area agricola, dove in sovrappiù hanno insediato un bell'inceneritore. Siamo sul limitare del Tavoliere delle Puglie, dove la terra comincia ad arrampicarsi verso l'Appennino. Ebbene, proprio in quella piana si produceva forse il miglior grano duro di tutto il Mezzogiorno. Difficile torni a crescere come prima, quando gli impianti industriali chiuderanno le loro attività.

Ma a Melfi non si coltivano solo ottimi cereali, c'è anche la produzione di uno dei vini rossi più prestigiosi d'Italia, l'Aglianico del Vulture, un vitigno portato fin quassù proprio da quei migranti greci che sbarcarono sul litorale di Metaponto. E inoltre questa capitale normanna è davvero splendida, al centro di una zona densa di beni culturali stratificati lungo secoli e secoli. Musei, siti archeologici, castelli medievali, chiese meravigliose. Ma nonostante tutta questa ricchezza, a Melfi si è pensato di far atterrare la Fiat, che per anni ha distribuito salari ridotti (e bisognava anche ringraziarla) e oggi è lì a minacciare di chiudere l'impianto e volarsene in America.

La domanda a questo punto del nostro viaggio nel Sud è la seguente: ma siamo sicuri che le colate d'acciaio facciano vivere meglio delle coltivazioni di fagioli, che gli inceneritori siano più moderni e redditizi del provolone, e il petrolio più vantaggioso di un esile tempio greco, e le nuvole rosse di Taranto più salutari delle onde lunghe dello Jonio?

Ho letto con il consueto interesse ma anche con qualche stupore l'articolo («Ilva, i corni del dilemma», il manifesto, 31 luglio) di Rossana Rossanda, la quale commenta un mio articolo («Operai e padroni, una strana alleanza», il manifesto, 25 luglio) sulle questioni dell'Ilva di Taranto e molte altre connesse. Rossana ci ricorda che esiste la proprietà privata e che gli operai ne sono vittime, non complici.

Benissimo. Ma io, e altri, parlavamo di una cosa diversa. Ci torno su perché la considero non una delle problematiche fondamentali, ma la problematica fondamentale, con la quale avremo a che fare nel corso dei prossimi decenni.

Nel suo per ora inarrestabile processo di sviluppo, il grande capitale si è impadronito di quote e settori sempre più vasti del nostro essere qui su questa terra, nel corso del nostro breve (ma per ciascuno di noi, penso, abbastanza significativo) percorso vitale. Ciò, a dir la verità, è vero fin dall'inizio del gigantesco ciclo: si potrebbe dire anzi che la modalità espansiva del capitale (industriale, ma per certi versi anche quello finanziario) non prevede limiti all'impossessamento di tutto ciò che nel mondo vivente e inanimato ne rappresenta alternativamente o un'occasione da afferrare o un ostacolo da rimuovere. L'ambiente e il territorio, e conseguentemente la salute e le modalità di vita delle grandi masse di cittadini, ne costituiscono le vittime predestinate. Occorre fare esempi?

Quando i bubboni scoppiano - e ciò accade per ora, occorre dirlo, in una maniera fin troppo episodica e casuale, ma per fortuna accade quasi sempre (sempre?) gli operai, per difendere il lavoro, che rappresenta ovviamente la condizione basilare della loro sopravvivenza, individuale e personale, ma anche (se volessimo usare espressioni più impegnative) del loro esistere e resistere come classe, si schierano dalla parte dei padroni, che sono contemporaneamente sfruttatori e inquinatori. Fanno finta cioè di non vedere che i padroni sono inquinatori (anche se ne pagano un prezzo salatissimo: l'inquinamento miete le sue vittime prima in fabbrica che fuori), per consentire ai padroni di continuare a svolgere il loro ruolo di sfruttatori. Per loro, infatti, non c'è allo stato attuale delle cose un'altra possibilità: oggi il lavoro è sfruttamento e lo sfruttamento è lavoro. Il preteso modello alternativo (molto preteso, s'intende) ce lo siamo giocato nei decenni scorsi. E per ora nessuno ha deciso seriamente di pensarne uno che, almeno problematicamente, almeno provvisoriamente, cominci a subentrare all'altro. Potrei anche aggiungere, a stringata giustificazione storica della mia analisi, che la classe operaia italiana è stata selvaggiamente respinta nel bunker della sua ultima resistenza - il lavoro! il lavoro! perché senza lavoro noi non ci siamo - dall'inesausta campagna di attacchi alla sua autonomia e alla sua significazione sociale, che dura pressoché ininterrottamente da trent'anni.

Destituita - anche a sinistra, sì, anche a sinistra - della sua identità di «classe generale», è stata ridotta a «classe particolare», che lotta (giustamente, certo) per esserci ancora, ma per farlo smarrisce talvolta il filo che porta più esattamente al centro della matassa. Questa è la situazione: situazione di fatto, intendo, sulla quale c'è poco da discutere ma molto da riflettere. Ripeto: se si va avanti così, lavoro contro ambiente e magari - gli integralisti, si sa, stanno da tutte le parti - ambiente contro lavoro, andiamo verso la catastrofe. Le due direttrici o marciano consensualmente insieme o precipitiamo nell'abisso. Questo vuol dire - la formula può sembrare stantia, ma non me ne viene in mente un'altra - che va cercato, individuato, costruito e praticato un diverso modello di sviluppo. O non sono tutti qui gli strateghi della borghesia illuminata a raccontarci d'imboccare un'altra strada rispetto a quella dispendiosa, consumistica e sprecona, che loro stessi a suo tempo ci hanno indicato e costretto a percorrere per decenni? Prendiamoli sul serio una volta tanto: ma una volta tanto facciamo a modo nostro. Non comprimere i consumi e i livelli di vita per continuare a vivere, ma peggio, come prima; ma cambiare radicalmente il nostro approccio alla produzione e al consumo, ma per star meglio.

Ora, un diverso modello di sviluppo non è affare dei capitalisti, i quali vedono e credono possibile solo quello che c'è: è affare dei governi, ed è questo ciò di cui noi parliamo, quando ipotizziamo che possa esserci un ragionevole tasso di sviluppo economico e produttivo senza provocare la distruzione dell'ambiente, del territorio e della salute, per noi e soprattutto per le prossime generazioni. Hic Rhodus, hic salta . La mia impressione è che il caso Ilva, con tutto il suo carico drammatico di conflitti, paure e tensioni, rappresenti tutto sommato un punto di svolta rispetto alle questioni di cui stiamo parlando, a patto, naturalmente, che nessuno pensi di fare un passo indietro dalla giusta e clamorosa denuncia che ne è stata fatta. Per esempio, per la formazione di una coscienza ambientalista, specifica e peculiare, della classe operaia italiana; ma forse anche per una visione più ampia e dialettica dell'ambientalismo, italiano, che spesso stenta a vedere la propria missione come un affare che riguarda la società nel suo complesso, e non solo alcuni suoi episodici e marginali aspetti. Neo-operaismo e neo-ambientalismo sono le categorie nelle quali collocherei, per farmi capire, il senso del mio discorso: stanno benissimo insieme.

«Purché le due cose - difesa dell'occupazione e difesa dell'ambiente - vengano fatte insieme». Così scrive Alberto Asor Rosa, in occasione del dilemma fra chiudere l'Ilva smettendo di contaminare la zona o lasciarla aperta contaminandola. E ricorda che un dilemma simile si era verificato in val di Chiana, sul riuso di uno stabile dismesso, proposto da un'impresa che si occupava di biomasse e che aveva visto gli ambientalisti chianini disturbati da una invasione di disoccupati che volevano lavoro.

Giusto dunque operare insieme per lavoro e natura. Ma a chi si parla? Mi si permetta di protestare quando ci si rivolge, in ugual modo, alla proprietà e agli operai e ai loro sindacati. È un pezzo che anche questi sono accusati di essere stati "sviluppisti", e quindi avvelenatori del pianeta, anche da parte di noti padri della patria. Come se fossero loro a decidere se aprire o chiudere una fabbrica, e a determinarne le linee e l'organizzazione della produzione, nonché la distribuzione. Ma non sono loro affatto! Non essendo in condizioni di investire, può investire e decidere su che cosa produrre sempre e solo la proprietà del capitale. Agli operai non resta che afferrare un salario, se se ne presenta la possibilità, vendendo la propria forza di lavoro; salario con il quale vivono, non avendo altri redditi, e del quale quindi non possono fare a meno. La fabbrica inquina o, peggio, infetta? Non sono loro né a infettare né a smettere di infettare, non hanno scelta se non combattere, come hanno fatto al Petrolchimico di Marghera.

Ma è difficile chiedere loro di cambiare l'azienda, da cui traggono quel misero salario in cambio di niente. Ed è perfettamente ipocrita chiedere loro di produrre pulito, produrre ecologico. Essi non hanno scelta, e se sono messi davanti a quella di perdere il lavoro o rischiare di avvelenarsi, rischieranno prima di avvelenarsi, salvo battersi poi per rischiare di meno. Non possono fare altrimenti.

Per questo non parlerei di alleanza fra operai e capitale. Nella difesa di una produzione sporca, gli operai non sono "alleati" con la proprietà sono "ricattati" dalla proprietà. Quando Viale o altri dicono: si produca meno o si passi a una produzione ecologicamente sana, si cessi di inquinare il pianeta, a chi parlano? Seriamente? Seriamente possono parlare soltanto alla proprietà, privata o pubblica, diretta o per azioni, nazionale o multinazionale, e solo ad essa, i salariati non potendo decidere né che cosa né come né dove produrre. Sì, qualche volta hanno cercato di farlo, come nel '69, ma sono stati sconfitti dai padroni, dal governo, dalla stampa, in nome della democrazia, e la loro lotta è stata subito dopo resa sempre meno possibile dai licenziamenti in massa che sono seguiti. Chi si ricorda che la Fiat aveva allora 129.000 dipendenti? Ora, ci informa Gabriele Polo, ne ha circa 15.000. L'operaio è meno di un uomo libero, lo è meno di un altro cittadino.

Da un mese a questa parte, dopo la vittoria dei socialisti in Francia - socialisti, non bolscevichi, anzi un po' meno di socialdemocratici delle origini - il padronato dichiara in difficoltà una dozzina di grandi imprese. E ristruttura. Licenziando. Esempio: la Psa automobili (Peugeot +Citroen) ha annunciato ottomila "esuberi", tra l'altro chiudendo del tutto il sito di Aulnay, alla periferia di Parigi, del quale ha occupato più di metà della superficie. Poiché per un occupato nell'automobile licenziato si calcolano altre quattro perdite di posti di lavoro (dal panettiere, macellaio, fruttivendolo del sito, all'indotto vero e proprio) la Psa decide dunque di aumentare i disoccupati di circa 35.000 persone. Il governo protesta, e si dichiara disposto a una serie di aiuti soltanto a condizione che la Psa imposti la produzione in vetture elettriche, riducendo il noto inquinamento della benzina o diesel. Zac, il presidente del consiglio d'Europa, Rompuy, assieme all'altra testa fina che dirige la Commissione, Manuel Barroso, aprono un'inchiesta se ha diritto di farlo o no, per le conseguenze che questa condizione potrebbe avere sul mercato. L'altra grande azienda automobilistica, la Renault, che ha probabilmente commesso meno errori nella produzione, ha fatto in questi giorni un contratto con la Corea per le batterie che le servono per la medesima, il governo si dice d'accordo, ma a condizione che la proprietà coreana produca in Francia. Apriti cielo, protezionismo!

Nessuno osa dire in questo luglio fatale: menomale che meno automobili escono dalla fabbrica. Fanno troppo spavento le facce stravolte di chi ha lavorato dieci o venti anni per Peugeot o Citroen e si sente dire di colpo che sarà licenziato, e sa che di lavoro difficilmente può trovarne un altro. Ma nessuno neanche dice che i responsabili di questo disastro umano, e del peso che ne deriverà per i conti pubblici, sono i signori del Cac 40, le proprietà quotate in borsa. I "mercati" sembrano incorporei, quanto per il Vaticano lo spirito santo, che come loro spira dove vuole.

Si deve essere ecologisti. Ma quindi anticapitalisti. O, come minimo, sostenitori di una primazia del pubblico sull'economico, in modo da determinarne l'indirizzo e la non dannosità per l'ambiente. Perché non si dice anche questo? Perché dal 1989 in poi non si ha più coraggio di dire nuda e cruda la verità sul meccanismo dell'impresa del capitale, nonché sulla rinuncia della sfera politica, continentale o nazionale, a controllarle.

Per l'Ilva, come qualche anno fa per la val di Chiana, non c'è dilemma fra lavoro e ambiente, c'è un sistema di proprietà, accettato dalle ex sinistre, che distrugge l'uno o l'altro, o tutti e due.

Il 20 luglio la Camera ha approvato il “Patto fiscale”, trattato Ue che impone di ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in vent’anni. Comporterà per l’Italia una riduzione del debito di una cinquantina di miliardi l’anno, dal 2013 al 2032.Una cifra mostruosa che lascia aperte due sole possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà.

Approvando senza un minimo di discussione il testo la maggioranza parlamentare ha però fatto anche di peggio. Ha impresso il sigillo della massima istituzione della democrazia a una interpretazione del tutto errata della crisi iniziata nel 2007. Quella della vulgata che vede le sue cause nell’eccesso di spesa dello Stato, soprattutto della spesa sociale. In realtà le cause della crisi sono da ricercarsi nel sistema finanziario, cosa di cui nessuno dubitava sino agli inizi del 2010. Da quel momento in poi ha avuto inizio l’operazione che un analista tedesco ha definito il più grande successo di relazioni pubbliche di tutti i tempi: la crisi nata dalle banche è stata mascherata da crisi del debito pubblico.

In sintesi la crisi è nata dal fatto che le banche Ue (come si continuano a chiamare, benché molte siano conglomerati finanziari formati da centinaia di società, tra le quali vi sono anche delle banche) sono gravate da una montagna di debiti e di crediti, di cui nessuno riesce a stabilire l’esatto ammontare né il rischio di insolvenza. Ciò avviene perché al pari delle consorelle Usa esse hanno creato, con l’aiuto dei governi e della legislazione, una gigantesca “finanza ombra”, un sistema finanziario parallelo i cui attivi e passivi non sono registrati in bilancio, per cui nessuno riesce a capire dove esattamente siano collocati né a misurarne il valore.

La finanza ombra è formata da varie entità che operano come banche senza esserlo. Molti sono fondi: monetari, speculativi, di investimento, immobiliari. Il maggior pilastro di essa sono però le società di scopo create dalle banche stesse, chiamate Veicoli di investimento strutturato (acronimo Siv) o Veicoli per scopi speciali (Spv) e simili. Il nome di veicoli è quanto mai appropriato, perché essi servono anzitutto a trasportare fuori bilancio i crediti concessi da una banca, in modo che essa possa immediatamente concederne altri per ricavarne un utile. Infatti, quando una banca concede un prestito, deve versare una quota a titolo di riserva alla banca centrale (la Bce per i paesi Ue). Accade però che se continua a concedere prestiti, ad un certo punto le mancano i capitali da versare come riserva. Ecco allora la grande trovata: i crediti vengono trasformati in un titolo commerciale, venduti in tale forma a un Siv creato dalla stessa banca, e tolti dal bilancio. Con ciò la banca può ricominciare a concedere prestiti, oltre a incassare subito l’ammontare dei prestiti concessi, invece di aspettare anni come avviene ad esempio con un mutuo. Mediante tale dispositivo, riprodotto in centinaia di esemplari dalle maggiori banche Usa e Ue, spesso collocati in paradisi fiscali, esse hanno concesso a famiglie, imprese ed enti finanziari trilioni di dollari e di euro che le loro riserve, o il loro capitale proprio, non avrebbero mai permesso loro di concedere. Creando così rischi gravi per l’intero sistema finanziario.

I Siv o Spv presentano infatti vari inconvenienti. Anzitutto, mentre gestiscono decine di miliardi, comprando crediti dalle banche e rivendendoli in forma strutturata a investitori istituzionali, hanno una consistenza economica ed organizzativa irrisoria.

Come notavano già nel 2006 due economisti americani, G. B. Gorton e N. S. Souleles, «i Spv sono essenzialmente società robot che non hanno dipendenti, non prendono decisioni economiche di rilievo, né hanno una collocazione fisica». Uno dei casi esemplari citati nella letteratura sulla finanza ombra è il Rhineland Funding, un Spv creato dalla banca tedesca IKB, che nel 2007 aveva un capitale proprio di 500 (cinquecento) dollari e gestiva un portafoglio di crediti cartolarizzati di 13 miliardi di euro. L’esilità strutturale dei Siv o Spv comporta che la separazione categorica tra responsabilità della banca sponsor, che dovrebbe essere totale, sia in realtà insostenibile. A ciò si aggiunge il problema della disparità dei periodi di scadenza dei titoli comprati dalla banca sponsor e di quelli emessi dal veicolo per finanziare l’acquisto. Se i primi, per dire, hanno una scadenza media di 5 anni, ed i secondi una di 60 giorni, il veicolo interessato deve infallibilmente rinnovare i prestiti contratti, cioè i titoli emessi, per trenta volte di seguito. In gran numero di casi, dal 2007 in poi, tale acrobazia non è riuscita, ed i debiti di miliardi dei Siv sono risaliti con estrema rapidità alle banche sponsor.

La finanza ombra è stata una delle cause determinanti della crisi finanziaria esplosa nel 2007. In Usa essa è discussa e studiata fin dall’estate di quell’anno. Nella Ue sembrano essersi svegliati pochi mesi fa. Un rapporto del Financial Stability Board dell’ottobre 2011 stimava la sua consistenza nel 2010 in 60 trilioni di dollari, di cui circa 25 in Usa e altrettanti in cinque paesi europei: Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. La cifra si suppone corrisponda alla metà di tutti gli attivi dell’eurozona. Il rapporto, arditamente, raccomandava di mappare i differenti tipi di intermediari finanziari che non sono banche. Un green paper della Commissione europea del marzo 2012 precisa che si stanno esaminando regole di consolidamento delle entità della finanza ombra in modo da assoggettarle alle regole dell’accordo interbancario Basilea 3 (portare in bilancio i capitali delle banche che ora non vi figurano). A metà giugno il ministro italiano dell’Economia – cioè Mario Monti - commentava il green paper: «È importante condurre una riflessione sugli effetti generali dei vari tipi di regolazione attraverso settori e mercati e delle loro potenziali conseguenze inattese».

Sono passati cinque anni dallo scoppio della crisi. Nella sua genesi le banche europee hanno avuto un ruolo di primissimo piano a causa delle acrobazie finanziarie in cui si sono impegnate, emulando e in certi casi superando quelle americane. Ogni tanto qualche acrobata cade rovinosamente a terra; tra gli ultimi, come noto, vi sono state grandi banche spagnole. Frattanto in pochi mesi i governi europei hanno tagliato pensioni, salari, fondi per l’istruzione e la sanità, personale della PA, adducendo a motivo l’inaridimento dei bilanci pubblici. Che è reale, ma è dovuto principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella Ue al fine di salvare gli enti finanziari: parola di José Manuel Barroso. Per contro, in tema di riforma del sistema finanziario essi si limitano a raccomandare, esaminare e riflettere. Tra l’errore della diagnosi, i rimedi peggiori del male e l’inanità della politica, l’uscita dalla crisi rimane lontana.

Una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita sta portando alla rovina l'Europa e con essa le principali conquiste che il movimento operaio e la cultura democratica avevano realizzato nel corso di un secolo. Contrattazione collettiva, pieno impiego, diritti sindacali, sanità, pensione, istruzione, ricerca e cultura come diritti universali: promossi per il bene di tutti e non nel solo interesse di chi li paga o ne beneficia. La combinazione di tante manchevolezze nelle nostre classi dirigenti è riconducibile all'adesione, per molti esplicita e per gli altri sottintesa alla teoria liberista che affida il governo della società al mercato. Anzi, ai mercati.

Quei mercati sempre meno identificati come un sistema di relazioni tra soggetti indipendenti e sempre più come un insieme di potenze imperscrutabili nelle cui mani è riposto il destino del mondo. Sotto la copertura di questa pseudoteoria che ha impregnato di sé i vertici di imprese, istituzioni finanziarie, governi, partiti e mondo accademico si sono andati realizzando, nel corso dell'ultimo trentennio, l'asservimento totale della vita di intere popolazioni e dei loro governi, da un lato, al potere della finanza (e un gigantesco trasferimento di risorse dal lavoro al capitale) e, dall'altro, a uno spirito proprietario (condito di nazionalismo e razzismo: «padroni in casa nostra») che quelle stesse classi dirigenti sono andate diffondendo per fidelizzare il loro elettorato.

La politica è stata così ridotta a mera contabilità: dapprima sostenendo che solo il mercato promuove il benessere; da quando è scoppiata la crisi, terrorizzando la gente con la prospettiva di disastri crescenti se non si obbedisce ai mercati, sacrificando loro ogni volta qualcosa.

Sacrifici che non bastano mai: ogni nuova misura viene prospettata come risolutiva per poi scoprire che non basta ancora e che ce ne vogliono altre. In questa rincorsa alle richieste dei mercati anche l'unione politica dell'Europa è stata declassata al rango di mera misura per far fronte agli spread: una misura contabile da affiancare all'unione bancaria, agli eurobond, al fondo salva-stati, alla mutualizzazione dei debiti, alla trasformazione della Bce in prestatore di ultima istanza, ecc. Non c'è progetto, non ci sono valori condivisi, non c'è road-map, non c'è alcuna idea né considerazione per la democrazia. Confrontate questo non-pensiero con gli ideali dei "padri spirituali" o con la cultura dei fondatori della Comunità Europea: avrete una misura della caduta dello Zeitgeist di tutto l'Occidente.

Di questa cultura da contabili Monti e Draghi sono oggi gli esponenti di punta, per molti versi intercambiabili. Solo mere contingenze temporali hanno assegnato all'uno il governo dell'Italia e all'altro quello della Bce. Qualche mese in più o in meno avrebbe potuto invertire le loro carriere e i loro ruoli: sono entrambi espressione dello spirito predatorio della banca Goldman Sachs che li ha allevati. Formula, missione e filosofia del governo tecnico di Monti sono la traduzione in lingua odierna di un cartello che ornava gli uffici pubblici del ventennio fascista: «Qui si lavora e non si fa politica». La politica, cioè il governo e l'autogoverno della società, erano stati da tempo aboliti dai partiti che hanno preparato l'avvento di Monti e che oggi ne sostengono il governo. Sappiamo dove ci ha portato quel cartello: cultura soffocata, libertà distrutta, leggi razziali, guerra, milioni di morti, distruzione del paese. Non sappiamo ancora - ma possiamo immaginarlo guardando la Grecia, che ci precede di qualche mese lungo un cammino segnato - dove ci porterà un governo che si adegua ai diktat della finanza internazionale.

E' evidente che lungo questo tragitto non solo la Grecia o la Spagna, ma l'Europa intera, Germania e satelliti compresi, sono votati al disastro. In tempi di globalizzazione non esiste una via di ritorno alle sovranità dei singoli paesi, come non esiste via di ritorno alle valute nazionali che non siano un disastro ancora peggiore. Il mondo è cambiato e ripercorrere le vie battute nei cosiddetti "trent'anni gloriosi" (1945-1975) non è più un'alternativa praticabile. Bisogna convertire il sistema a nuove produzioni compatibili con i limiti ambientali del nostro pianeta; ma anche questo non basta. Perché per poterlo fare ci vogliono una nuova cultura e una nuova classe dirigente che se ne faccia interprete (quelle attuali sono quasi interamente da rottamare); e la corresponsabilizzazione di una vasta cittadinanza attiva a loro supporto. Una svolta epocale. Saremo mai in grado di farcene promotori? Sì, e per molti motivi:

Innanzitutto, gli attuali esponenti dell'establishment europeo e occidentale - come l'apprendista stregone che non riesce a controllare le potenze occulte che lui stesso ha evocato - sono incapaci di trovare una soluzione alla strapotenza della finanza a cui hanno sciolto le briglie. L'impotenza della Bce non è il frutto di un errore di progettazione, ma della scelta di sottrarre ai governi il controllo di uno strumento fondamentale della sovranità - la creazione di moneta - per contenere le rivendicazioni salariali e l'espansione del welfare finanziato con la spesa pubblica.

In secondo luogo non bisogna sopravvalutare nemmeno le loro competenze: creare un Gas (Gruppo di acquisto solidale) o dirigere un cooperativa sociale o un quotidiano come il manifesto è spesso più difficile che diventare amministratore delegato di una grande banca grazie agli appoggi politici di persone altrettanto incompetenti. E i risultati si vedono!

Poi possiamo e dobbiamo ricostituire delle scuole di auto formazione - quel ruolo una volta svolto dai partiti, e da tempo abbandonato - contando su una molteplicità di competenze e di buone pratiche oggi completamente ignorate, se non derise, dalla cultura ufficiale.

Ma soprattutto dobbiamo fare nostra l'idea che non esiste democrazia politica senza democrazia economica, cioè autogoverno nei e sui luoghi della produzione e del lavoro. È questo il grande buco nero del pensiero politico del secolo scorso: l'idea che si possa contare nella società anche se le decisioni su cosa, come, dove e per chi produrre vengono sottratte alla comunità che ne dipende. La storia del ventesimo secolo è stata di fatto un percorso di progressiva espropriazione delle classi popolari e lavoratrici dalle componenti più significative della loro esistenza.

Da un lato, il fordismo, che dalla fabbrica ha progressivamente investito tutta la società, ha svuotato il lavoro del suo contenuto, della possibilità di far valere i propri saperi e il proprio saper fare nella determinazione dei rapporti con le altre componenti della società e, in particolare, nei rapporti di forza con il capitale. Dall'altro il consumismo ha svuotato la vita quotidiana, la riproduzione della vita sociale, l'insieme del lavoro di cura, riducendole all'acquisto di merci e al consumo di servizi sempre più mercificati: quelli che il mercato offre, che la pubblicità impone e che il nostro reddito consente. Ma da tempo questi processi sono arrivati al capolinea: e milioni di persone si sono già messi alla ricerca di soluzioni alternative, di un mondo diverso.

Un recupero di democrazia, di possibilità e capacità di autogoverno, non può basarsi solo su aspetti formali, sulla possibilità di concorrere a decidere sulle leggi e sul loro rispetto, che pure sono aspetti essenziali. Una vera democrazia ha bisogno di affiancare alla rappresentanza formale sedi e strutture di partecipazione sostanziale in tutti gli ambiti: e innanzitutto in quelli della produzione, del lavoro e della cura. Partecipare non vuol dire solo "scegliere", delegando alle proprie rappresentanze o al mercato il compito di rendere operative le nostre scelte. Vuol dire contribuire, con l'interezza delle nostre persone, dei nostri corpi, dei nostri affetti, dei nostri saperi, della nostra esperienza, alla realizzazione delle nostre scelte.

Se l'"uomo artigiano", che riunisce nella stessa figura competenza tecnica, manualità e affettività - o per lo meno, grande attenzione - nei confronti dell'oggetto del suo lavoro (pensiamo al lavoro di chi ripara o mantiene oggetti o impianti non più funzionanti) è l'emblema di una figura professionale che va oltre - in positivo - al fordismo; e se il consumo critico, nella sua accezione più ampia, a partire dalle forme di condivisione promosse nei gruppi di acquisto solidale, adombra la strada di un modello di cura della vita quotidiana che va oltre la ripartizione tradizionale dei ruoli tra i generi, il cuore di una riconversione ecologica del sistema sarà il processo attraverso cui una intera comunità, coinvolgendo in esso i governi locali, l'associazionismo e l'imprenditoria disponibile, prende in carico le sorti delle produzioni che insistono sul proprio territorio di riferimento, a partire dai servizi pubblici locali, delle aziende in crisi e votate alla scomparsa, dall'agricoltura di prossimità.

Certamente una nuova idea di Europa non può prescindere da un confronto a tutto campo con il potere della finanza, imponendo una radicale ristrutturazione dei debiti (una soluzione che ormai cominciano a prendere in considerazione diversi economisti mainstream), prima che sia la finanza a portare allo stremo, una dopo l'altra, le economie di tutti i paesi.

Depositando due lunghe e articolate sentenze, la 199 e la 200 del 2012, la Corte Costituzionale ha reso giustizia al movimento referendario e ha posto finalmente un limite al delirio di onnipotenza del legislatore neoliberista nella sua versione bipartisan di casa nostra. Dietro a tecnicismi talvolta eccessivi (che già avevano reso la discussione orale del 19 giugno scorso meno interessante di come avrebbe potuto essere), con i quali la Corte (soprattutto nella sentenza 200) ha probabilmente cercato di depotenziare in parte la bomba politica rappresentata da questa decisione, un dato è chiarissimo.

I referendum del giugno 2011 non riguardavano soltanto l'acqua ma costituivano un tassello chiave nella costruzione di un'altra visione del pubblico che coinvolge l'intero settore dei servizi pubblici e che è coerente con la nostra Costituzione economica ben più di quanto non lo sia la politica neoliberale delle dismissioni. Su questa diversa visione, antitetica rispetto al riformismo neoliberale, il popolo sovrano si era pronunciato e la volontà popolare doveva essere rispettata tanto dal governo di Berlusconi quanto dal suo successore «tecnico».

La sentenza, oltre che politicamente dirompente perché da oggi più nessuna amministrazione locale di qualsivoglia colore politico potrà trincerarsi dietro l' obbligo di smantellare i servizi pubblici ma dovrà assumersi tutta la responsabilità politica delle proprie scelte, è tanto storica quanto essenziale in questo momento di frana della democrazia costituzionale. Storica perché mai prima la Corte aveva tracciato così chiaramente, in una ratio decidendi, l'esistenza di un vincolo referendario non superabile dal Parlamento. Vincolo che in un regime fisiologico di rappresentanza politica potrebbe pure non sussistere sul piano formale (come ha fin qui sostenuto, ieri smentita dalla Corte, gran parte della dottrina costituzionalistica italiana) ma che in questa situazione di non rappresentatività del parlamento e di sospensione della democrazia prodotta dal «governo tecnico» costituisce un baluardo prezioso per il nostro sistema delle garanzie.

Esattamente un anno fa, dopo aver fatto invano pervenire al Presidente Napolitano (che la Costituzione fa supremo garante del suo ordine) un plico contenente quasi 10.000 firme che lo invitavano a non firmare il Decreto di Ferragosto oggi dichiarato incostituzionale, avevamo scritto al presidente della Puglia, Vendola, proprio dalle pagine del manifesto, pregandolo di darci mandato di rappresentare la regione Puglia in un ricorso diretto dal significato politico importantissimo, ben superiore ai tecnicismi pur importanti del rapporto fra Stato e Regioni. Lo avevamo fatto perché convinti che il Comitato Referendario, organo costituzionale caduco, non avesse legittimazione ad agire e ben consci dei rischi che la particolare prospettiva di un ricorso da filtrarsi tramite l'interesse della Regione avrebbe prodotto. Il presidente Vendola ci aveva ascoltati, e il senso politico di questa operazione è chiarissimo e documentato sulle pagine del nostro giornale.

In effetti, la Corte, che certo avrebbe potuto cavarsela con il tecnicismo (che invece ha adoprato per indorare al governo la pillola del suo operato, tramite qualche frecciatina alla «genericità» del nostro argomento) è invece andata al sodo dichiarando forte e chiaro che la democrazia diretta è una cosa seria e che tutti, proprio tutti, dovrebbero rispettare la volontà del popolo piuttosto che legittimare la depredazione del suo patrimonio comune a vantaggio di alcuni interessi privati. La Corte Costituzionale, che già aveva dimostrato un certo coraggio nel respingere il castello di menzogne che volevano l' inammissibilità del Referendum (sentenza 24 2011) ha saputo interpretare con queste sentenze la sua funzione di garante della Costituzione e dell' interesse pubblico. Speriamo che altre alte istituzioni prendano esempio.

© 2025 Eddyburg