Oggi la terra conta 6,5 miliardi di persone. I demografi avevano ben previsto questa cifra, ma avevano parlato di 15 miliardi per il 2050. Questa previsione è ora rivista al ribasso: gli abitanti del pianeta saranno «solo» tra gli 8 e i 9 miliardi a metà secolo. Da ieri fino al 23 luglio, sono riuniti a Tours circa 2mila specialisti provenienti da 110 paesi, per il congresso che ha luogo ogni 4 anni, organizzato dall'Unione internazionale dei demografi. Dagli scambi che avranno luogo a Tours dovrà venir fuori un panorama degli anni a venire. Intanto, è già possibile dire che la crescita demografica sarà ineguale: attualmente, il 95% dell'aumento di popolazione ha luogo nelle regioni meno sviluppate e il 5% in quelle industrializzate. Ma già oggi, più della metà della popolazione mondiale vive in paesi a debole fecondità (al di sotto di 2,1 bambini per donna): si tratta di un fenomeno nato nei paesi ricchi, ma che ha toccato più in fretta del previsto quelli in via di sviluppo. Nel 2050, la popolazione dei paesi ricchi sarà in diminuzione, all'incirca 1 milione di persone in meno l'anno, mentre quella dei paesi in via di sviluppo crescerà di 35 milioni l'anno, 22 dei quali nei paesi meno avanzati. L'11% della popolazione mondiale che abiterà nei 50 paesi meno avanzati sarà responsabile di un quarto della crescita demografica mondiale nel 2050.
L'Africa ancorat raumatizzata. La maggior parte dei paesi meno favoriti si trova in Africa. Le previsioni per questo continente sono complesse. Da un lato, la fecondità dell'Africa sub-sahariana è ancora molto forte, superiore a 5 bambini per donna. Ma dall'altro, questa regione è la più colpita al mondo dall'aids e da un'alta mortalità infantile. In Africa australe, la speranza di vita è crollata da 62 anni del periodo 1990-1995 a 48 anni per il 2000-2005 (34 anni in Mozambico, paese dove è la più bassa al mondo). I demografi prevedono quindi una crescita demografica nulla per il periodo 2005-2015 in Africa australe. Complessivamente, la popolazione africana dovrebbe aumentare dagli 0,8 miliardi attuali a 1,9 miliardi nel 2050.
Invecchiamento progressivo. Oggi sono le giapponesi a battere il record mondiale di longevità: 85 anni di speranza di vita. In Europa, le francesi e le spagnole sono già a 84 anni. Il fenomeno, che è una delle principali novità di questi ultimi anni, sarà in crescita dappertutto, Africa sub-sahariana esclusa. Lo spopolamento, già nel periodo 2000-2005, ha riguardato 17 paesi sviluppati. Questo fenomeno dovrebbe riguardarne 51 entro il 2050, a cominciare da Germania, Italia, Giappone e la maggior parte dei paesi dellex Urss. Mentre la popolazione dei paesi sviluppati dovrebbe restare stabile, intorno all'1,2 miliardi, la proporzione delle persone con più di 65 anni dovrebbe passare dal 15% attuale al 26% a metà secolo. Soltanto il saldo migratorio positivo - 98 milioni previsti entro il 2050, cioè 2,2 milioni in media l'anno - potrà compensare il saldo negativo delle nascite rispetto alle morti. Ma l'invecchiamento possibile maschera una crescita delle ineguaglianze: non solo tra Nord e Sud, ma anche « all'interno di uno stesso paese - afferma Jacques Vallin direttore dell'Ined francese - dove lo scarto aumenta tra diverse categorie sociali. Lo si vede bene nella lotta contro le malattie cardio-vascolari». Nei due giganti, Cina e India, la situazione non evolverà allo stesso modo: oggi rispettivamente con 1,3 e 1,1 miliardi di abitanti, la posizione si rovescierà quando nel 2030 l'India (che ha un tasso di natalità più alto della Cina, 2,9 contro 1,7) avrà superato la Cina. Nel 2050, l'India dovrebbe avere 1,6 miliardi di abitanti, contro 1,4 miliardi in Cina, paese che vive oggi uno squilibrio demografico tra uomini e donne, dovuto agli effetti della politica del figlio unico, in un paese dove la preferenza va ai figli maschi. L'India, inoltre, avrà una popolazione più giovane di quella cinese: nel 2052, in India, gli abitanti dai 65 anni in su saranno il 15% della popolazione (sono oggi il 5%, mentre in Cina saliranno dall'8% attuale al 24%).
L'uomo sarà unurbano. Già oggi, la metà circa dei 6,5 miliardi di abitanti della terra vivino in città. Il fenomeno tocca addirittura l'80,2% in America del nord. I demografi prevedono che l'esodo rurale si generalizzerà, fino a toccare anche nel mondo in via di sviluppo il tasso dei paesi industrializzati, che equivale ai tre quarti della popolazione ormai urbana. Lagos, in Nigeria, è passata dagli anni `70 a oggi da 1 a 16 milioni di abitanti. Oggi in Europa, il 73% della popolazione vive in città, contro solo il 40% in Asia. Ma in Europa la popolazione urbana rappresenta 531 milioni di abitanti, mentre in Asia è di un miliardo e 562 milioni. Con un tasso di crescita urbana inferiore allo 0,1% in Europa e del 2,7% in Asia. Una vera sfida all'umanità, che dovrà ripensare le città, per renderle meno divoratrici di energia, meno inquinanti, più vivibili.
La Francia in testa. In Europa, è la Francia, con l'Irlanda, ad avere il più alto tasso di natalità, con 1,9 bambini per donna. In Germania, una donna su quattro nata nel `60 non ha figli, contro solo il 14% in Francia. E le francesi hanno uno dei più alti tassi di attività lavorativa in Europa: l'80% tra 24 e 49 anni e con bambini al sotto di 3 anni lavora. Politica degli asili nido e della scuola materna ormai dai 2 anni gratuita, centri di vacanze molto diffusi, mense in tutte le scuole, sovvenzioni e sgravi fiscali notevoli per le famiglie, fin dagli anni di Giscard d'Estaing. Ma anche una politica che ha favorito non solo le nascite fuori del matrimonio (il 50% dei bambini nati in Francia), ma anche la famiglia monoparentale, una donna sola con figli non ha nessun problema di accettazione sociale. Una questione di mentalità, che dà i suoi frutti.
DI FRONTE a Cloptar (4 anni), Tuca (6 anni), Mengi (8 anni) e Eva (11 anni) bruciati nella loro baracca sotto un cavalcavia alla periferia nord di Livorno, non esistono i buoni e i cattivi sentimenti. La sorte di quei bambini smuove dentro di noi qualche cosa di più difficile da confessare. La tentazione è cavarcela addebitando a genitori negligenti per natura – giustamente perseguiti dalla magistratura – una tragedia che ci appare letteralmente di un "altro mondo", spuntato di fianco a casa nostra senza chiedere il permesso, indesiderato. Tendiamo quindi a concederci una deroga culturale, nei confronti dei rom. Gente per la quale la vita e la morte avrebbero un valore diverso da quello che noi gli attribuiamo, perfino quando a morire sono i loro figli. Dubitiamo che soffrano come noi.
Li consideriamo un popolo dall´innata propensione al vagabondaggio, al furto, alla brutalità sulle donne e sulla prole. Ma ne siamo proprio sicuri? Abbiamo eretto solidi tabù culturali contro il razzismo biologico. Condanniamo chi discrimina il prossimo in base al colore della pelle. Pochi giorni fa un sacerdote ha dovuto chiedere scusa per una infelice battuta sugli ebrei. Grazie alla globalizzazione vi sono poi comunità immigrate la cui tutela viene assunta direttamente dai paesi d´origine: attaccare i cinesi di via Paolo Sarpi a Milano provoca l´immediata, temibile protesta del governo di Pechino.
I rom non hanno potenze straniere dietro le spalle. Rappresentano l´eccezione alla regola del "politically correct". L´alto tasso di delinquenza, alcolismo, nomadismo, disoccupazione che li contraddistingue, è un fatto comprovato. Un fatto che inquieta e impaurisce. E allora scatta una generalizzazione impensabile nei confronti di altri popoli: la maggioranza degli italiani si sente autorizzata a pensare che i rom sono pericolosi. Colpevoli. Tutti quanti. Per loro stessa natura. Per tradizione culturale. Al massimo se ne salverà qualcuno, poche mele sane in un cesto di mele marce da rispedire al mittente. Solo che il mittente non esiste, e non si sa a chi rispedirli.
Scatta così la licenza verbale. Quando la Lega nord ha tappezzato Milano di manifesti con su scritto "Campi rom, fora de ball", nessuno vi ha ravvisato gli estremi dell´incitamento all´odio razziale. Quando amministratori di destra e di sinistra dichiarano che una metropoli di milioni di abitanti "non può sopportare la presenza di più di tremila rom", quest´idea di numero chiuso su base etnica viene accettata come ragionevole. Perché i rom sono troppo diversi, i rom non diventeranno mai come noialtri.
La licenza verbale anticipa così il bisogno di purificazione del territorio. Con il fuoco, se necessario. Erano cittadini benpensanti, non delinquenti, quelli che applaudirono il 21 dicembre 2006 la spedizione punitiva che bruciò le tende di 73 nomadi (più di metà bambini) autorizzati a un insediamento provvisorio in un campo di Opera, nel milanese. Troppo facile liquidare come "cattivi" i paesani di Appignano del Tronto che il 25 aprile scorso incendiarono l´accampamento in cui viveva Marco Ahmetovic, il rom ubriaco che investì e uccise quattro poveri ragazzi. A proposito: Ahmetovic è tuttora detenuto in carcere, a differenza dell´ubriaco che il 15 luglio ha travolto una sedicenne in provincia di Torino, scarcerato dopo 27 giorni.
La paura degli zingari è antica come la leggenda che attribuisce loro il ratto dei bambini: rinverdita ogni anno da denunce puntualmente archiviate. Li si accusa di malefici riti magici e di propensione alla violenza carnale. Un pericolo ingigantito come le cifre che li riguardano: 140 mila persone, più di metà cittadini italiani, lo 0,3% della popolazione. Con l´incremento dovuto a un flusso migratorio dalla Romania di rom divenuti quest´anno nostri concittadini dell´Unione europea.
Accade così che un sindaco impegnato ad attrezzare piccole aree d´accoglienza (la soluzione vigente altrove) rischi per ciò stesso la sua carriera politica. Se poi ai rom vengono assegnate case popolari e se si garantisce l´inserimento dei loro figli nelle scuole primarie, scatta immediata l´accusa di favoritismo. A Rho, città in pieno sviluppo grazie al nuovo polo fieristico milanese, la giunta di centrosinistra è caduta per l´ospitalità garantita a 60 (sessanta!) romeni. Mentre si propagano false voci di sussidi pubblici garantiti agli zingari nullafacenti, per giunta portatori di malattie contagiose.
Molto più redditizio politicamente è invocare lo sgombero generalizzato degli insediamenti abusivi che spuntano come funghi negli interstizi del tessuto metropolitano. Chiunque invoca lo sgombero riceve plausi generalizzati, salvo che da parte delle forze dell´ordine. La retorica dello sgombero facile si scontra infatti con banali considerazioni di fatto: la maggioranza degli abitanti delle baraccopoli è costituita da persone non estradabili. Dunque la polizia agisce malvolentieri, spesso concordando il sostegno preventivo delle strutture di volontariato che garantiscono almeno a donne e bambini il ricovero provvisorio negato dalle amministrazioni comunali. Sapendo benissimo che la notte dopo i senzatetto andranno a dormire in un altro campo abusivo, sotto un altro cavalcavia.
Il popolo rom si trova così a simboleggiare un nomadismo, eredità di secoli di persecuzioni, che ormai riguarda controvoglia decine e decine di migliaia di altre vite a perdere. Mariti separati, famiglie sfrattate, anziani soli, lavoratori immigrati senza alloggio, clandestini di ogni tipo, manovali della criminalità organizzata. Tutti mescolati nelle baraccopoli che sorgono dappertutto –simili a campi profughi- sempre più derelitte, minacciose, quindi difficili da non vedere.
Solo una politica demagogica può avere la sfrontatezza di prometterne la cancellazione. Ma risulta tremendamente impopolare lavorarci dentro con l´obbiettivo di sanare le emergenze delinquenziali, sanitarie e d´inciviltà. Un´impresa difficilissima, soggetta a continui fallimenti, ma priva di alternative. Dopo avere proposto invano la costruzione di piccoli "villaggi solidali" nei comuni dell´hinterland, la Casa della Carità di Milano ha concordato con il Comune il varo di un "Patto di socialità e legalità". Per essere ospitati nelle strutture attrezzate, i rom vengono censiti e sottoscrivono un vero e proprio contratto di cittadinanza che li eleva a titolari di diritti e doveri: il pagamento delle bollette, il rispetto dell´obbligo scolastico, normative di sicurezza. Intorno a loro però dilagano la paura e l´intolleranza, alimentate da una cronaca ben poco incoraggiante: quando i giornali pubblicano la sequenza fotografica dei bambini rom borseggiatori sul piazzale della Stazione Centrale, serpeggia una comprensibile furia ed è come se si dovesse ricominciare da capo.
Non ci sono buoni e cattivi di fronte agli abitanti più scomodi delle nostre periferie urbane. Per questo l´atroce fine dei bambini lasciati soli sotto il cavalcavia di Livorno, e la sofferenza della loro sorella quindicenne incinta, suscitano riflessioni inquietanti.
Una cosa però dobbiamo dircela chiara, anche se è scomoda. Non possiamo più permetterci di considerare i rom e gli altri abitanti delle bidonvilles come materiale umano di scarto. Cancellarli non si può, a meno di concepirne lo sterminio. Una follia? Niente affatto: è l´unico esito coerente, dilazionato nel tempo, del malumore che cova e dello scricchiolio sinistro del nostro codice morale. Chi lo avrebbe mai previsto, nell´Europa dei primi decenni del Novecento, che l´ostilità nei confronti di un popolo definito "colpevole" nel suo insieme sarebbe sfociata nella soluzione finale?
Fino a ieri erano previsioni allarmanti. Da oggi, sono notizie agghiaccianti. La temperatura del pianeta, nel 2006, è risultata superiore di 0,42 gradi rispetto alla media di riferimento del 1961-90. Nell´emisfero settentrionale l´aumento è stato di 0,58 gradi rispetto al trentennio. Il 2006 è stato l´anno più caldo da un secolo e mezzo ad oggi. Tra settembre e novembre in Europa si è superata la media di tre gradi. A chi giudica modeste queste cifre bisognerà ricordare che un aumento di 4 o 5 gradi comporterebbe gigantesche inondazioni, che minaccerebbero Venezia, Londra, New York. Per completare il quadro delle belle notizie il buco dell´ozono ha registrato nell´anno un record di 29,5 chilometri quadrati: il più grande a memoria d´uomo. Sono dati comunicati dall´Organizzazione mondiale della meteorologia.
In un articolo pubblicato dal Corriere della Sera del 22 novembre scorso Giovanni Sartori, rilevando la portata drammatica del fenomeno, tornava su una sua denuncia di parecchi anni fa, che ne attribuiva alla sovrappopolazione la causa determinante. Sartori, che fu accusato allora, particolarmente da insigni economisti, di allarmismo catastrofista, costata come da allora le Cassandre siano aumentate di numero e di credibilità, e quelli che potremmo chiamare i Pangloss abbiano perduto credito. In effetti, a parte il recente summit di Nairobi, una vasta serie di ricerche scientifiche di incontestabile serietà hanno accreditato purtroppo la fondatezza della minaccia. Cito per tutte la più recente, il rapporto Stern, dal nome dell´economista, almeno altrettanto insigne, incaricato dal ministro inglese dell´Economia di fare il punto sul problema. Dire che le conclusioni del rapporto Stern sono preoccupanti è un eufemismo. Tali le ritiene comunque un giornale non sospetto di allarmismo catastrofista, l'Economist. Quale che sia il grado di probabilità che uno scioglimento dei ghiacci artici provochi la sommersione di Londra e di New York (nonché di Venezia, con buona pace dei Pangloss nemici del Mose) non è concepibile, come il rapporto conclude, (e l´Economist approva), che considerazioni di costo economico siano accampate per evitare gli investimenti necessari per scongiurare anche gli eventi più improbabili, ma fatali.
Poiché anch´io, modestamente, sono iscritto, non da oggi, nella consorteria delle Cassandre (ma non aveva forse ragione, la povera ragazza?), insieme con cari amici come Carla Ravaioli e Bruno Trentin; e poiché a suo tempo ho avuto con Sartori un cortese scambio di idee sul tema, vorrei intervenire. Primo, per osservare che catastrofisti sono i fatti, e non le opinioni di Sartori che condivido: anche quella relativa alla determinante causa della sovrappopolazione (e quindi alla pesante responsabilità nei riguardi della vita umana che si sono assunti tutti quelli che non se ne sono fatti carico); secondo, per ribadire la mia convinzione che la crescita della produzione e dei consumi porti una responsabilità almeno altrettanto pesante. Il che mi fa pensare che la reticenza su questa seconda responsabilità sia altrettanto grave della prima.
Consideriamo anzitutto il problema della popolazione. Secondo le più recenti stime dell´Onu, la popolazione mondiale dovrebbe continuare a crescere almeno fino al 2050, raggiungendo un livello compreso tra i 7,6 e i 10,6 miliardi di persone (9,1 miliardi è la previsione intermedia). La possibilità di comprimere questa cifra è scarsissima. Dati i livelli di fertilità e quelli di mortalità, i giochi sono praticamente fatti. Non ancora, invece, quelli della crescita della produzione e dei consumi. Sempre sulla base dei calcoli del Wwf, la media planetaria di spazio disponibile per assorbire sostenibilmente i rifiuti e gli scarti della produzione e dei consumi (lo spazio bio-produttivo) è di 1,8 ettari pro capite. Gli americani oggi ne assorbono 9,6 e gli europei 4,5. Se il resto del mondo volesse raggiungere questi livelli, tre altri pianeti non basterebbero. Il problema che si pone, tremendo, è di comprimere i consumi dei più ricchi, frenando le aspettative imitative e insostenibili degli altri. Chi avrà il coraggio di dire agli americani e agli europei che devono comprimere i loro consumi almeno della metà? Chi avrà il coraggio di dire a cinesi e indiani che non potranno mai raggiungere neppure la metà dell´attuale livello dei consumi americani ed europei (due miliardi di auto cinesi e indiane in più significa, secondo l´Economist, il 30% del livello attuale americano e già fa saltare tutti i Kyoto immaginabili).
Questo, della crescita insostenibile, è il più formidabile problema che l´umanità abbia mai incontrato. E che richiederebbe l´attuazione di modi di sviluppo basati sulla stabilizzazione e sulla redistribuzione mondiale delle risorse. Una svolta antropologica, non solo economica. L´economista Heilbroner l´ha configurata in un suo bellissimo libro: An inquiry into the Human Prospect. In un modo o nell´altro, questa svolta ci sarà. Il treno che, in un famoso film, viaggiava veloce verso Cassandra Crossing, si andò a schiantare sul ponte crollato, e lì si fermò. Perché questo articolo non si chiuda così tragicamente, mi viene in mente, a proposito di treni, una storiella romanesca. Il casellante viene a sapere che due treni stanno viaggiando sullo stesso binario, l´uno contro l´altro. Fa di tutto, ma proprio di tutto, per evitare l´urto fatale. Telefonate, fuochi, piccioni: tutto inutile. Quando non c´è proprio più niente da fare, chiama la moglie: «A Nannì, viett´a vedè sto scontro».
In meno di un secolo «l'egemonia americana ha lasciato tracce altrettanto particolari, se non altrettanto durature, di quelle che l'impero romano impresse su un arco di quattro secoli. Come il latino, l'estetica classica, il giudeo-cristianesimo, i codici legali e il `pacchetto urbano' di acquedotti, fortificazioni cittadine e colossei, questi residui sono diventati i mattoni e la calce che la gente locale troverà, userà, avrà a disposizione per farsi una ragione e capire l'irresistibile ascesa e inesorabile declino dell'Impero del Mercato». Così si conclude, dopo 480 densissime pagine, il libro Irresistible Empire (appena uscito presso la Belknap Press of Harvard University Press) di Victoria de Grazia, storica della Columbia University. Ma quali sono questi residui così influenti quanto le maestose vie consolari dell'antica Roma? Sono oggetti minuti, quotidiani, che ormai passano inosservati: i carrelli dei supermercati, i detersivi, i dentifrici, i frigoriferi, l'acquisto a rate. Ma ancora più a monte - come il latino - è un linguaggio (quello del cinema, quello della pubblicità), è la cultura, quella del consumo di massa: «Per la maggior parte del `900, la cultura americana del consumo ha agito come una forza rivoluzionaria, e le sue invenzioni sociali e il suo messaggio sul diritto alle comodità sono stati un dissolutore degli antichi legami potente quanto una rivoluzione politica».
L'americano medio
Irresistible Empire ripercorre le tappe con cui gli Stati uniti hanno imposto alle diverse, conflittuali tradizioni europee, un unico modello di consumo e di società, il modo in cui hanno «venduto» al Vecchio continente il proprio impero, innanzitutto riuscendo a «vendere la propria tecnica di vendere». Il libro ci ricorda quanto precoce fu quest'offensiva: già nel 1926 si parlava d'«invasione di Hollywood».
Quel che gli Usa riuscirono a imporre fu il livello di vita americano come «criterio», come standard cui misurare la propria esistenza. Così, quel che de Grazia ci racconta è come rappresentanti di commercio, pubblicitari, attachés commerciali, produttori cinematografici, gestori di supermercati sono riusciti a imprimere nella mentalità europea la definizione stessa di livello di vita. Nel 1929, secondo una ricerca di mercato (altra invenzione statunitense), una famiglia americana di quattro persone (padre, madre, figlio e figlia) spendeva il 12% del proprio reddito in abbigliamento e, per esempio, il marito si comprava ogni anno cinque camicie, due cravatte, due vestiti, 14 paia di calzini di cotone, due paia di scarpe, mentre la mamma si comprava 8 paia di calze (di cui 4 di seta o naylon). A quel tempo una simile ricerca sarebbe stata, ed era, impossibile in Europa, semplicemente perché non esisteva «l'europeo medio». Ma già negli anni `50 il governo francese era costretto a lanciare una ricerca sulle abitazioni del proprio paese per scoprire che solo il 18% degli alloggi francesi era dotato di bagno (contro il 90% negli Usa), che il 76% delle case era senza corrente, il 91% senza frigorifero, il 90% senza lavatrice (e in Italia la situazione era di gran lunga peggiore).
La lavatrice è un ottimo esempio della devastante efficacia delle «Tre S» con cui gli Usa hanno sottomesso l'Europa: standardizzazione, semplificazione, specializzazione. Contro le tre S si sono rivelate impotenti le ricorrenti litanie contro la massificazione, l'anonimato, la perdita dell'originalità individuale: «Meglio vivere in una casa standardizzata, con scaldabagno, riscaldamento centrale e un bagno, piuttosto che in una casa personalizzata, individuale e originale, senza acqua calda, con stanze scaldate a stufa e una vasca di zinco in cantina». Intanto un lettore italiano può riflettere sul fatto che negli Usa «l'anno della lavatrice» fu il 1925 mentre da noi quest'elettrodomestico si diffuse solo negli anni `60. Il fatto è che la lavatrice è resa possibile solo da, e in, una particolare concezione della famiglia e della donna. Qui de Grazia mette in atto il precetto di Michel Foucault cui si richiama esplicitamente: «Affrontare la politica alle spalle e traversare la società in diagonale». L'idea soggiacente è che il soggetto del mercato sia non l'individuo, ma la famiglia: «Già dagli anni `20 era assodato per gli esperti americani di mercato che l'unità familiare era centrale nel consumo di massa, che le donne erano le alacri api dell'innovativo shopping a orientamento familiare e che l'amore familiare era un legame ubiquo e fondamentale che il venditore poteva sfruttare per profitto».
La famiglia fordista
Questa famiglia veniva vista come un'impresa fordista, con i suoi macchinari (elettrodomestici), il suo bilancio, i suoi investimenti, da gestire razionalmente. Di questa famiglia fordista il manager era la donna. Nella famiglia tradizionale europea sarebbe stato impensabile che il marito sparecchiasse o lavasse i piatti, come invece avveniva negli Usa. Qui De Grazia entra in uno dei nodi più delicati dell'offensiva culturale americana e ci mostra come fin dall'inizio essa abbia parlato alle donne facendo balenare loro l'evitabilità del destino di mani screpolate dalla lessiva, di ore e ore ai fornelli (cibi precotti, moulinex, friggitrici, tostapane). Ci mostra che la trascuratezza del socialismo verso gli agi della vita quotidiana è dovuta alla matrice maschile del movimento operaio per cui tra la miseria e l'automobile non c'era nulla, non c'erano fon, né arricciacapelli né aspirapolvere, né lucidatrici, né lavastoviglie. È alla donna che si rivolge la pubblicità. Lei il target che dagli anni `20 prende di mira Eleanor Lansdowne Resor, la grande creativa dell'agenzia J. Walter Thompson (la n. 1 al mondo), dai cui scripts emana «la calma sicurezza che la dimensione della vita contemporanea non comporta la perdita dell'intimità, la pubblicità dei bisogni non comporta la perdita della privacy, né la standardizzazione dei prodotti la perdita dell'individualità». Come dice un testo dell'epoca, «se l'oggetto di studio idoneo per l'umanità è l'uomo, quello idoneo per il mercato è la donna». È quest'immagine di famiglia e di donna che la pubblicità, ma ancor più Hollywood ha imposto al mondo.
La famiglia fordista però può permettersi la lavatrice solo con gli acquisti a rate, un'altra grande invenzione americana: ancora oggi in Germania l'uso della carta di credito è assai difficoltoso. E anche le rate sono possibili solo a un certo livello di stipendio. C'è voluto che le retribuzioni medie dei lavoratori europei raddoppiassero tra la fine della guerra e gli anni '70 perché i consumi di massa si diffondessero. Con le lavatrici e le lavastoviglie, i detersivi diventano per la casa quello che la benzina è per l'auto. Infatti «i detergenti sono merci insolitamente utili per riflettere su processi più ampi, in questo caso niente di meno che il declino e l'ascesa delle grandi potenze».
La rivoluzione degli enzimi
Le grandi tappe della modernità diventano il 1952 (lancio di Omo), 1968 lancio di Ariel (primo detersivo «con gli enzimi»). E proprio nel maggio `68 francese (quei «figli di Marx e della CocaCola» di cui parlava Jean-Luc Godard), uno slogan detersivo - «L'autotrasformazione lava più bianco della rivoluzione» - suscita in de Grazia una riflessione che ci porta al nodo cruciale di Irresistible Empire: «Nello stesso momento, primavera 1968, in cui centinaia di migliaia di giovani attivisti dimostravano, scioperavano, facevano barricate per protestare contro la guerra in Vietnam, per ribellarsi contro lo stato, la scuola, i militari, la chiesa e altre burocrazie autoritarie, e per condannare l'artificiosità, lo spreco e l'alienazione della società dei consumi, tutta un'altra e più vasta mobilitazione procedeva sotto gli slogan delle corporazioni multinazionali: la sua base erano milioni di famiglie, la sua fortezza la casa, la sua utopia pile stirate profumanti di lavatrice».
Il nodo è che la penetrazione, la pervasività della «rivoluzione americana» è stata tale che perfino l'antiamericanismo si esprime oggi in americano. Se oggi in molti campi l'Europa si presenta (o cerca di presentarsi) come un'alternativa agli Stati uniti è grazie all'unificazione dell'Europa che gli Usa hanno compiuto con le armi certo ma anche imponendo un mercato europeo comune. Come la protesta No global si organizza per Internet, cioè attraverso un'invenzione del Pentagono, così la rete Al Jaizeera contrasta il monopolio Usa dell'informazione adottando le tecniche tv americane. Avviene in tutti i campi quel che de Grazia descrive nel primo capitolo sulla diffusione dei Rotary Club in Europa: inventata a Chicago, quest'istituzione si diffonde negli anni '20 anche nella Germania di Weimar dove però la base sociale rotariana è più aristocratica, più intellettuale, meno commerciale, e dove soprattutto il Rotary diventa uno strumento per affermare i valori del «Vecchio continente» contro la massificazione del nuovo: il cerchio si chiude con il cantore della Kultur germanica, Thomas Mann, che era rotariano e scriveva testi per il bollettino del Club.
Non a caso, alla fine del volume, dopo le note e la bibliografia, de Grazia confessa: «Uno scrive sempre lo stesso libro, una questione primordiale che tarla il cervello. Il mio libro è sul potere e le sue due facce - consenso e forza, persuasione e violenza, bastone e carota, soft e hard power». Se gli americani sono riusciti a imporre il loro impero, durante il XX secolo, è stato negando di essere un impero: «l'impero per spasso ( for fun)», «l'impero a invito». La loro cultura ha conquistato il mondo negando di essere cultura (il cinema americano si vede come un'industria, non come un'arte). Hanno propagandato l'America non facendo propaganda («La propaganda attraverso il divertimento» diceva Billy Wilder). «Mentre altri paesi usavano la propaganda per perseguire i loro interessi, con un pesantissimo uso di slogan statali, invece per perseguire la sua missione globale l'America usava la pubblicità, usando essenzialmente mezzi privati, il sofisticato consiglio delle sue industrie della comunicazione».
Tra coercizione e persuasione
Negli anni `50 è l'agenzia J. Walter Thompson che organizza la campagna pubblicitaria per conto della Nato, a colpi di slogan («Buona notte, dormi bene, la Nato ti protegge). «I veri statisti dell'America sono stati John Ford e Walt Disney, il suo diplomatico più prestigioso Paperino».
Irresistible Empire racconta la sinergia, la sagacia, la lungimiranza con cui i vari spezzoni della classe dirigente americana hanno cooperato tra loro per imporre un'organizzazione della produzione- il fordismo in fabbrica -, delle categorie mentali (le Majors di Hollywood come organizzazione fordista dell'immaginario), dell'organizzazione sociale - la famiglia come unità fordista del consumo -, della distribuzione - il supermercato come catena di montaggio dell'acquisto, come grande metafora della democrazia commerciale, dove ogni consumatrice è uguale all'altra consumatrice, ognuna col suo carrello; e infine delle merci - McDonalds è il fordismo e la standardizzazione nell'alimentazione. È illuminante il capitolo sul piano Marshall: in termini di capitale l'aiuto americano rappresentò solo il 5% degli investimenti, ma fu decisiva la sua opera di coercizione politica, d'ingegneria sociale, d'imposizione di un modello.
Il problema è che oggi siamo nell'era del postfordismo e che, secondo molti indicatori (sanità, tempo libero, speranza di vita) l'Europa è davanti agli Stati uniti. Non è più Ford che invade l'Europa con la Taunus, ma sono Toyota, Bmw e Daimler che impiantano fabbriche negli Usa. Persino negli Stati uniti sembra in crisi la cultura dei malls. Sembra esaurita la spinta propulsiva dell'Impero del Mercato, forse perché ha compiuto la sua missione, siamo tutti cittadini americani, i francesi hanno abbandonato la casquette per il berretto da baseball, i turisti italiani si aggirano per Manhattan in scarpe da ginnastica con tute la jogging (griffate), lo star system si riproduce tradotto in tutti gli idiomi locali. Nello stesso tempo, o forse proprio per questo, le «americanate» non sembrano più tanto divertenti e l'impero, da Abu Ghraib a Guantanamo è sempre meno spassoso ( fun).
Le prime notizie d'agenzia non ne riportavano neppure i nomi. Come senza nome sono le decine di morti del Canale di Sicilia o del Canale d'Otranto: corpi di possibili intrusi. La statistica anonima degli ultimi, delle «vite di scarto». Poi qualche dato anagrafico è filtrato: quattro bambini Rom, tra i quattro e i dieci anni. Eva, Danchiu, Lenuca e Dengi. Sono bruciati vivi nella baracca in cui vivevano sotto un cavalcavia: uno dei tanti luoghi degradati che caratterizzano la nostra «urbanistica del disprezzo», terre di nessuno vicino a una discarica, a uno scolo fognario, a uno scarico industriale, là dove la nostra ostilità li spinge e li ammucchia, lontano dalle nostre vite decorose, fuori dalla vista della «gente per bene». Sono le vittime, atrocemente innocenti, di quella che è apparsa fin da subito come una tragedia sconvolgente. E tuttavia il linguaggio giornalistico stenta a trovare i toni della costernazione genericamente umana che la circostanza dovrebbe suggerire. Resta irrimediabilmente sospettoso. Insinua allusioni a una presunta «fuga dei genitori». Enfatizza le parole del magistrato secondo cui «si configura in ogni caso una serie di reati di una certa gravità».
Si parla di «colpevole disattenzione». Di un «uso improprio dei materiali» (le candele usate per illuminare la baracca, priva di energia elettrica, come di acqua corrente, di servizi igienici, di tutto...). Perché quando si tratta di zingari, è difficile sottrarsi al pregiudizio, o anche solo all'abitudine di farne oggetto di cronaca esclusivamente nera, dove la carezza a un bambino diventa un tentativo di rapimento, e l'assenza di ogni più elementare genere di comfort il segno di una colpa.
Eva, Danchiu, Lenuca e Dengi sono morti perché non hanno trovato in questo grande paese di 301.000 km² un solo posto civile in cui posarsi e abitare. Perché per quelli come loro, che possiedono solo la loro vita nuda, e se la portano dietro come una casa, non c'è spazio nel mondo recintato, segregato, privatizzato, appropriato che abbiamo costruito. Non un prato, la sponda di un fiume, la radura di un bosco, il piazzale di un paese, dopo questa lunga, sistematica «recinzione delle terre» che chiamiamo civiltà. Solo gli interstizi degradati e avvelenati delle periferie, dove anche farsi un po'di luce la sera diventa mortalmente pericoloso. O i «campi» a numero chiuso dove stoccare i corpi non omologati alla logica del buon cittadino consumatore (quelli che piacciono tanto ai nostri sindaci, da Roma a Torino a Milano).
«Fuori gli zingari», titolava qualche giorno fa il quotidiano della Lega - quelli che hanno quotato l'odio per l'altro alla borsa della politica. Ma «fuori» da dove? Dalle proprie città (come se quel «proprio» ne indicasse una sorta di proprietà privata)? E se sì, verso quali altre? O fuori dall'Italia? Ma se molti di questi anomali «migranti» sono già fuggiti dal proprio paese, dalla miseria, o dalle persecuzioni... O «fuori dal mondo», da questa Terra, da questa vita, la nostra, che non tollera più le vite degli altri. O gli «stili di vita» altri. C'è una verità terribile in questo atroce slogan, ed è che per gli ultimi non c'è più spazio d'esistenza nel mondo di chi crede di essere tra i primi. Che chi possiede solo la propria vita nuda «non è gente» per chi vive solo per possedere. La città di Livorno, il suo sindaco, il presidente della Regione Toscana, hanno risposto con civiltà, proclamando il lutto cittadino e mostrando un sincero cordoglio. Ma il rischio rimane. L'antropologia del disprezzo e il rischio di una disumanizzazione di massa nel mancato incontro con l'altro, sono veleni in agguato. E il rapporto con gli «zingari» ne è un sensibilissimo indicatore. Da questo misureremo il livello della nostra degradazione o della nostra residua umanità.
Negli ultimi mesi gli interrogativi sulle sorti del nostro pianeta si sono fatti più acuti e drammatici, e hanno cominciato a trovare risposte da far accapponare la pelle. La domanda “Dove va il mondo?”, che ancora recentemente serviva ad economisti e politici poco fantasiosi a tirare per le lunghe senza spendersi troppo, trova oggi riscontro in ponderose analisi e dati difficilmente oppugnabili. Ciò che più impressiona è il confluire, in un periodo storico relativamente breve, di una serie di fenomeni rovinosi, ciascuno dei quali in grado di mettere in discussione il futuro della terra, ma tali da apparire decisamente irreparabili se considerati tutti insieme.
All’ordine del giorno c’è in primo luogo il rapido aggravarsi del global warming, l’effetto serra. Un ponderoso studio (settecento pagine) commissionato dal governo britannico a Nicholas Stern, già dirigente della Banca mondiale, documenta che, per riparare i danni prodotti dal nuovo clima nel corso di questo secolo, sarà necessario spendere il 20% circa del prodotto lordo mondiale, pari all’inimmaginabile cifra di 5,5 trilioni di euro. Tra gli effetti che occorre mettere sul conto vi sono fenomeni estremi come gli uragani (si pensi alle tragedie che stanno provocando in grandi città e territori), le alluvioni, la siccità, il collasso di intere produzioni agricole, il rialzo del livello dei mari e il pericolo che esso rappresenta non solo per le economie, ma per la sopravvivenza stessa di intere specie viventi. Nello stesso tempo, l’inaridimento già in atto di vastissimi territori, la mancanza d’acqua anche per dissetarsi, costringerà circa 200 milioni di persone a migrare in altri paesi, determinando una pressione demografica assai più rapida e acuta di quella già in atto.
Per quanto sia da annoverare fra i paesi con il clima più temperato, anche l’Italia è sempre più soggetta ai fenomeni negativi del riscaldamento della Terra. Chi va in vacanza nelle zone alpine non può non rimanere colpito dal cambiamento dei ghiacciai da un anno all’altro: lo straordinario candore di vaste aree montane improvvisamente sostituito da macchie nere. La perdita di superficie dei ghiacciai è stata del 50% tra il 1850 e il 1980. Se non interverrà un radica-le cambiamento della tendenza, tra i cinquanta e i cento anni spariranno del tutto.
Per un futuro non lontano si prevede che circa 4500 km quadrati di litorali italiani saranno sommersi dalle acque marine, mentre l’aumento del caldo e delle piogge tropicali – soprattutto nelle regioni meridionali – ridurranno e modifi- cheranno le coltivazioni agricole. Ma già oggi assistiamo a un deterioramento del paesaggio, sconvolto dal moltiplicarsi degli incendi e dall’irresponsabile speculazione edilizia. Con conseguente indebolimento dell’economia turistica. Un rapporto non meno significativo e importante è stato recentemente reso pubblico dal Wwf, con il titolo Living Planet Report 2006. Qui la questione che viene posta è il consumo della Terra da parte dell’uomo. Il principio per cui ad ogni indebitamento deve corrispondere una restituzione viene da molto tempo radicalmente violato. Classico il caso della caccia alle balene da parte dei giapponesi, che mette ormai a rischio l’esistenza stessa dei grandi cetacei.
Ma tutte le risorse del pianeta, a cominciare da quelle più necessarie per la sopravvivenza dell’uomo, tendono a ridursi e a sparire con crescente rapidità. Si consuma più acqua, si distruggono più alberi, intere specie animali vengono aggredite dall’inquinamento dei mari, dei fiumi, delle terre stesse. Secondo il rapporto del Wwf, nel 2050 i prodotti del nostro pianeta basteranno soltanto alla metà dell’umanità; mentre è già scomparsa una parte cospicua dei quasi dieci milioni di specie animali che con noi abitano la Terra. Tanto che lo stesso Wwf formula la previsione che per sopravvivere avremo bisogno di dividerci su due pianeti. Molti biologi, peraltro, si spingono a prendere in considerazione l’ipotesi di una sesta estinzione di massa, che sarebbe poi la prima provocata dagli stessi esseri umani.
L’elenco dei guai che sovrastano il futuro non finisce qui. Ed è la loro contemporaneità a sollecitare la nostra massima attenzione. Già abbiamo fatto cenno alle migrazioni in atto. Esse ci richiamano ad una delle grandi astrazioni scientifiche formulate da Karl Marx: quella che attribuisce allo sviluppo del capitalismo la tendenza a produrre nuovi fenomeni di impoverimento e, in particolare, un crescente distacco fra ricchi e poveri. Legioni di economisti hanno speso le loro energie intellettuali a smontare l’intero impianto del pensiero economico di Karl Marx partendo dal “clamoroso fallimento” della teoria dell’impoverimento assoluto e relativo. È del tutto evidente – secondo costoro – che, identificandosi il capitalismo con il mercato, lo stesso mercatonon può che procedere automaticamente ad un’equa redistribuzione delle ricchezze prodotte. Qui starebbe la base dello Stato sociale.
George Soros, difficilmente catalogabile fra i comunisti, nel suo La bolla della supremazia americana, ha scritto:
Lo Stato sociale così come lo conosciamo è diventato insostenibile e la redistribuzione internazionale delle risorse praticamente non esiste. Complessivamente, nel 2002, la cooperazione internazionale ammontava a 56,5 miliardi di dollari, il che costituisce soltanto lo 0,18% del Pil. Di conseguenza, il divario fra ricchi e poveri continua a crescere: l’1% dei più ricchi nell’ambito della popolazione mondiale riceve quanto il 57% dei più poveri; un miliardo e 200 milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno; due miliardi e 800 milioni con meno di due; un miliardo non ha la possibilità di procurarsi acqua pulita; 827 milioni soffrono di malnutrizione. Tutto questo non è stato necessariamente causato dalla globalizzazione, ma la globalizzazione non ha fatto niente per porvi rimedio.
La teoria marxiana dell’impoverimento si conferma più valida che mai. Proprio negli ultimi decenni si è venuto stabilendo un rapporto stringente fra lo sviluppo del capitalismo moderno e l’impoverimento crescente di una parte notevole dell’umanità. Tanto che alcuni studiosi, che in passato avevano considerato la questione come un semplice abbaglio di Marx, cominciano oggi a fare autocritica.
Le crescenti migrazioni dai paesi e dai continenti della fame verso l’Occidente industriale provocano a loro volta tensioni assai acute e pericolose nelle zone d’arrivo, ne sconvolgono l’equilibrio economico e sociale, richiedono cambiamenti radicali dei modelli di sviluppo. Si pensi a ciò che di negativo rappresenta il sistema energetico dominante, incentrato sui combustibili fossili. L’influenza che esso esercita nel processo di cambiamento climatico è fuori discussione, e si basa soprattutto sul consumo di petrolio, di carbone e di metano. I profitti legati a questo sistema sono di tale dimensione che, uniti a quelli dell’industria degli armamenti, inducono le grandi potenze interessate a una sorta di guerra continua, e a correre il rischio di un conflitto atomico, pur di non cambiare questo modello suicida.
È del tutto evidente che i sistemi politici attuali non sono in grado di realizzareun cambiamento radicale, che pure sarebbe concettualmente realizzabile (nuove fonti di energia, nuovi sistemi di trasporto, ecc.). Siamo giunti a un punto in cui solo una presa di coscienza e una grande mobilitazione democratica della collettività internazionale possono far uscire il mondo dalla situazione critica attuale. Facciamo un esempio specifico: quanto può andare avanti il processo di cementificazione del nostro Paese, che ha ormai assunto, soprattutto in alcune regioni, un carattere rovinoso, nel complice immobilismo delle istituzioni? La reazione a questo fenomeno può essere lasciata a pochi intellettuali, mentre la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica sembra non rendersene conto, o averne una conoscenza apparentemente limitata al proprio orticello?
Ecco dunque che, dai pericoli del global warming e delle minacce atomiche, al flagello della fame, alla salvezza dei tanti Monticchielli, la grande questione che viene posta è una presa di coscienza collettiva che può realizzarsi soltanto attraverso una vera e propria rivoluzione del sistema informativo e della comunicazione. Si deve partire dalla consapevolezza che l’informazione è minacciata ogni giorno dal controllo politico ed economico sui media, favorito anche da fusioni e complicità internazionali. In Italia, proprio in questo periodo, gli editori tentano di liquidare l’autonomia professionale e contrattuale dei giornalisti. In altri paesi (leggi Russia, ma non solo) c’è chi ricorre addirittura all’assassinio di giornalisti colpevoli di praticare la libertà d’espressione e di critica. Libertà e pluralismo dell’informazione debbono costituire l’obiettivo centrale di un grande movimento di opinione pubblica e delle istituzioni democratiche. Il nostro impegno è di fornire ai cittadini una chiave di lettura dei processi reali, per essere protagonisti critici della comunicazione e per contribuire al superamento della crisi di cultura che segna questo nostro tempo.
Che cos'è la nuova rivista aideM raccontato dal suo sito
Nel corso del XVII secolo in Inghilterra scomparvero le terre comuni o comunitarie, commons - quelle che per diritto consuetudinario erano di uso collettivo delle popolazioni rurali. Recintate poco a poco, furono trasformate in proprietà privata con leggi apposite, Enclosure Bills, leggi sulla recinzione. La scomparsa dei commons fu una premessa della rivoluzione industriale - le terre erano recintate perché servivano all'allevamento intensivo di pecore la cui lana era necessaria alla nascente industria tessile - e fu seguita da un'offensiva ideologica contro l'uso condiviso della terra, a favore della «libertà» di trasformarla in bene commerciale per «metterla a frutto» e trarne profitto. Tutto questo è cosa nota - è parte della nascita del capitalismo. Le terre di uso comune però non sono tutto scomparse (terre, pascoli,foreste, e sorgenti d'acqua da attingere, o fiumi e lagune con i pesci che vi si possono pescare, e così via): forme di proprietà e uso collettivo restano molto diffusi nel grande Sud del mondo e in parte, sotto forma di «usi civici», perfino nella vecchia Europa. Né è scomparsa la battaglia politica (e ideologica) attorno a questi «beni comuni», o la spinta a recintarli/privatizzarli. E ormai non si tratta solo terre o risorse naturali, ma di un'amplissima gamma di beni e servizi necessari alla sussistenza degli umani e al loro benessere collettivo. Di questo tratta un numero monografico della rivista Csn-Ecologia politica: «Beni comuni tra tradizione e futuro», a cura di Giovanna Ricoveri e con la collaborazione di Antonio Castronovi, Giuseppina Ciuffreda e Marinella Correggia. Numero importante, anche perché segna la reincarnazione della rivista nata nel 1991 come Capitalismo Natura Socialismo, che ora prende la forma di quaderni monografici pubblicati da Emi, Editrice missionaria italiana. La prima cosa da notare è come si sia estesa la categoria di «beni comuni». Le risorse naturali, certo: terra, acqua, aria, foreste, pesca. Per bene comune però si intende non solo la risorsa ma il diritto collettivo d'uso, «la forma partecipata e comunitaria della proprietà o dell'uso di determinate risorse» (dall'introduzione di Giovanna Ricoveri, che richiama qui The Ecologist: e infatti la rivista ripubblica un articolo del 1992, «I beni comuni, né pubblici né privati»). I beni comuni dunque sono beni di sussistenza e insieme «spazi di autorganizzazione delle comunità», esprimono «un modello di organizzazione sociale e produttiva e un modello culturale che si contrappone a quello del mercato». Poi ci sono beni globali come l'atmosfera e il clima, gli oceani, la sicurezza alimentare, la pace: qui rientrano «i saperi locali, i semi selezionati nei secoli dalle popolazioni contadine, la biodiversità». Terza categoria di beni comuni sono i servizi pubblici forniti dai governi in risposta ai bisogni essenziali dei cittadini - acqua, luce, sanità, trasporti ma anche sicurezza sociale e alimentare, amministrazione della giustizia: «I servizi pubblici sono infatti un elemento di legame sociale, prima ancora che redistribuzione del reddito e componente del welfare».
Ridefiniti così, rivendicare i «beni comuni» significa riprendere i nodi fondamentali del conflitto politico, l'idea di sviluppo, la giustizia ambientale e quella sociale. Basti pensare a come le organizzazioni finanziarie internazionali vanno predicando (e imponendo) ai paesi «in via di sviluppo» politiche basate sul privatizzare i beni comuni (dall'acqua alle foreste) e tagliare la spesa sociale: l'equivalente attuale della «recinzione» del 17esimo secolo è la privatizzazione di terre e acqua, sementi e sanità, dicono gli autori. Indicative le vicende italiane di «usi civili» e bacini idrografici (ne scrivono Franco Carletti e Giorgio Nebbia). La «recinzione» poi raggiunge una nuova frontiera con la brevettazione degli organismi viventi (che Juan Martinez Allier descrive come «biopirateria globale contro i saperi locali») e la privatizzazione di ospedali e scuole. Parlare di «beni comuni», sostiene la rivista, significa uscire dall'alternativa secca tra pubblico e privato e ridare importanza sociale, politica ed ecologica al «collettivo».
"La domanda è: sarà un soggetto anticapitalista o no?" Così, in una recente intervista apparsa su Liberazione (3 luglio), Rossana Rossanda indica l’identità che a suo parere dovrà darsi il nuovo gruppo di varie sinistre in via di formazione, per avere una funzione positiva.
Credo abbia ragione. Anch’io da tempo sono convinta che la più grave debolezza di gran parte delle sinistre sia la mancanza di una decisa rimessa in causa del sistema capitalistico; e la sostanziale accettazione di una realtà di fatto ritenuta senza alternative: il mercato vissuto come un fatto naturale, la crescita del prodotto non considerata come un dato della forma capitalistica, ma vista positivamente come una politica socialmente necessaria e irrinunciabile. Non è un caso che nel pubblico dibattito di rado venga nominato direttamente il capitalismo, e si preferisca indicare il nemico nel "neoliberismo", o nella "globalizzazione neoliberista". Come se il neoliberismo non fosse la faccia attuale del capitalismo, e dichiararsi antiliberisti non significasse in realtà essere anticapitalisti. E come se (sotto l’immane potenziamento tecnologico, la spettacolare dilatazione di mercati e consumi, il continuo moltiplicarsi e velocizzarsi delle comunicazioni) non fossero i meccanismi di un rapporto irrecuperabilmente disuguale a dettare, oggi come ieri, il confronto tra capitale e lavoro.
Credo anche che questo adeguamento alla realtà attuale come un fatto ineluttabile si debba a una insufficiente rilettura critica della propria storia da parte delle sinistre, le quali (come da tempo sostiene Wallerstein, e come di recente anche Tronti ha notato) paradossalmente hanno perseguito il superamento del capitalismo usando i suoi stessi strumenti e logiche, inevitabilmente rimanendone "imbrigliate". Ciò che non può non aver contribuito all’affermarsi del capitalismo come una necessità storica non discutibile, o addirittura come un fenomeno metastorico.
"Che significa essere anticapitalista in piena mondializzazione?", si chiede ancora Rossanda. E se il primo interrogativo centrava il nodo dell’"essere" del nuovo soggetto politico, il secondo pone l’altro più che mai cruciale nodo del "che fare". Il quale non può innanzitutto prescindere da un’attenta valutazione della realtà mondiale. In cui il prodotto continua ad aumentare, e l’umanità parrebbe ormai in condizioni di sconfiggere la povertà, ma nulla di simile si intravede. Al contrario ciò che si verifica in misura crescente è la polarizzazione del reddito, di cui circa metà finisce in mano al 10 % della popolazione mondiale; è l’aumento delle disuguaglianze anche nei paesi più floridi, con la pauperizzazione di ceti fino a ieri partecipi del diffuso benessere; è il decadimento ineluttabile dei popoli più poveri, abbandonati a sé, come irrecuperabili eccedenze umane; è un panorama mondiale del lavoro fatto di masse sempre più numerose di disoccupati e precari, masse di sfruttati, costretti ad ogni insicurezza - di mansione, di salario, di orario, di futuro – insieme a masse sempre più folte di migranti. Il capitalismo, nella sua attuale versione neoliberistica, per mille modi va dunque via via riducendo o addirittura cancellando i benefici che le classi lavoratrici, sia pure a caro prezzo, avevano tratto dallo sviluppo dell’economia industriale.
Ma da qualche decennio il mondo si trova a confrontarsi anche con un nuovo fenomeno altamente pericoloso, che va rapidamente aggravandosi e che la scienza mondiale indica come la più grave minaccia per il futuro dell’umanità. Parlo dello squilibrio degli ecosistemi, del problema ambiente. Nei confronti del quale – occorre dire – le sinistre a lungo hanno osservato una chiusura pressoché totale. Una malintesa difesa del lavoro, e forse una sorta di "riflesso di classe" nei confronti dei movimenti verdi, ritenuti espressione di ceti privilegiati, hanno impedito una responsabile considerazione dei fatti, e causato una tenace gravissima sottovalutazione della questione. Cosa che presenta tra l’altro un aspetto vistosamente contraddittorio, perché i più colpiti dalla crisi ecologica sono proprio coloro che le sinistre per loro natura sarebbero tenute a difendere: operai che trattano materiali fortemente tossici e ne muoiono, contadini che usano quantitativi massicci di pesticidi, profughi in fuga da alluvioni, desertificazioni, laghi e fiumi in secca: vittime dell’assalto capitalistico al pianeta.
Ma la ragione che, in modo ancor più pregnante e radicale, avrebbe dovuto orientare le sinistre verso la difesa dell’ambiente, è l’origine stessa e il peggiorare del degrado. La cosa è ampiamente studiata e narrata. E’ con l’avvio della società industriale capitalistica che il lavoro inizia a trasformarsi in modo da alterare e mettere a rischio gli equilibri naturali, che fino a quel momento l’umanità – pur accentuando via via la propria invadenza e aggressività – aveva in sostanza mantenuto. Prodottosi con l’insediamento delle prime industrie e a lungo rimasto circoscritto ad alcune regioni, lo squilibrio degli ecosistemi si è poi diffuso e aggravato con la rapida espansione delle attività produttive e la contemporanea crescita della popolazione, la moltiplicazione degli insediamenti urbani, dei manufatti, dei trasporti, dei consumi, dei consumatori.
E’ la sua stessa forma di sistema economico definito dall’accumulazione, cioè dalla produzione di valore in crescita esponenziale all’interno di un mondo finito e non dilatabile, a rendere il capitalismo insopportabile dalla realtà naturale. E questa è la verità che da gran tempo avrebbe potuto, forse dovuto, orientare le sinistre alla lotta per la difesa dell’ambiente, in perfetta coerenza con la loro origine e il loro stesso statuto. Non era il capitale il nemico storico da battere? E la crescente devastazione del mondo, la stessa sopravvivenza umana messa a rischio dall’iperattività industriale, dal mito della crescita e dalle "leggi" del mercato, non confermavano il fatto che il capitalismo è del tutto indifferente al bene sociale e indifferentemente, se occorre, agisce contro di esso? E più che mai oggi - di fronte al moltiplicarsi di immani catastrofi e previsioni apocalittiche a prossima scadenza, in presenza di analisi scientifiche che inoppugnabilmente dimostrano il rapporto tra lo squilibrio ecologico e i modi e le quantità di produzione tipici dell’economia industriale capitalistica - non dovrebbero imporsi domande definitive circa la linea politica che da decenni ormai pigramente le sinistre perseguono? E’ possibile insomma essere anticapitalisti (come Rossanda auspica e anche io credo necessario) senza affrontare seriamente ciò che la crisi ecologica comporta?
"Non può esistere una crescita infinita in un mondo finito. Una tale concezione dello sviluppo mostra di essere insostenibile, è dunque da respingere e da superare," recita il documento elaborato dall’Ars lo scorso anno in occasione del convegno di Orvieto e firmato anche da "Rosso-Verde" e "Uniti a sinistra". "Proprio la devastazione dell’ambiente (…) potrebbe forse imporre la necessità di un sistema produttivo nettamente diverso da quello attuale, e dunque farsi presupposto di un salto logico, di una nuova razionalità economica e sociale," ha scritto di recente il segretario di Prc, Franco Giordano. "Il capitalismo è incompatibile con la salute del pianeta," ha detto Fabio Mussi inaugurando Sinistra Democratica. Parole di questo tipo sono del tutto assenti dal consueto discorso politico, anche di sinistra, e non solo in Italia. Che vengano pronunciate dai principali leader di questa aggregazione di sinistre che sta definendo la propria fisionomia e la propria linea, è benaugurate segnale di una nuova consapevolezza. Quanto necessaria lo dicono le notizie che senza sosta ci raggiungono.
Cito a caso dalle recentissime. Ogni anno in Cina 750mila muoiono per inquinamento. A varie forme di inquinamento si deve il 20 % dei decessi in Italia. Nel giugno scorso (un mese non particolarmente sfortunato dal punto di vista ambientale) 288 persone sono morte e 7mila sono state evacuate in seguito a inondazioni in varie zone del mondo, 399 sono morte di caldo nei paesi mediterranei, 49 sono morte di freddo in Sudafrica. Sempre più veloce è nel frattempo lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento dei mari. Quale risposta dalla nostra celebratissima civiltà? Intere città si spostino nell’interno e dighe sempre più alte si ergano lungo le coste. Il business verde prosperi con produzione accelerata di biocase, pale eoliche, pannelli solari, lampadine a basso consumo, benzine alternative. Intanto affannosamente si incentiva il mercato dell’auto, si propone di dare la patente guida ai sedicenni, si fabbrica un superaereo che va da Parigi a New York in un’ora e mezzo, a Manhattan si avvia la costruzione - rigorosamente ecorispettosa - di un centinaio di nuovi grattacieli. E davvero non sai se ridere o urlare di fronte alla criminale insensatezza di politiche del genere, puntualmente omogenee alla stessa razionalità che è causa dello sconquasso.
E’ pensabile che quanto non è accaduto finora, possa ancora accadere, e accadere in tempo utile? Così da arrestare, o almeno rallentare il degrado del Pianeta, e scongiurare le peggiori profezie? La cosa forse non è del tutto irrealistica, se innanzitutto ci si dà conto della ormai evidente impossibilità per il capitalismo di agire indefinitamente nei modi su cui ha fondato la propria fortuna; magari anche ascoltando chi parla della sempre più esigua quantità di territori ancora disponibili all’espansione dei mercati, e vede sintomi di crisi irreversibile nella finanziarizzazione in abnorme aumento e nella crescente ferocia della competitività. Se quindi, sulla base di tutte queste verità, si tocca la certezza che solo un cambiamento radicale, una netta discontinuità storica, addirittura un salto epistemologico, possono consentire di dare riposta ai problemi del mondo. Che insomma l’umanità, se vuole salvarsi, è costretta a riorientare la propria storia, a reinventare se stessa.
Ma a questo scopo occorre innanzitutto che la nostra cultura sappia elaborare un netto cambio di prospettiva nei confronti del problema ambiente; anzi nei confronti dell’ambiente in sé. Occorre che ci si renda conto che l’ambiente naturale è qualcosa a cui noi stessi tutti apparteniamo, è ciò da cui traiamo alimento, continuità vitale, forma biologica. E’ quello che fornisce la base di ogni nostra attività, è tutto quanto trasformiamo mediante il lavoro, è insomma condizione e presupposto anche dell’agire economico in ogni sua forma e momento. La crisi ecologica - questa cosa che a lungo le sinistre hanno considerato estranea alla politica - in realtà non può non essere anche crisi sociale.
Fare dell’ambiente l’asse portante di una nuova rivoluzione anticapitalistica forse è possibile. Ma sarebbe una rivoluzione diversa da tutte le altre della storia. Rivoluzione non violenta ma ancor più radicale, che insieme a un’equa distribuzione della ricchezza dovrebbe volere un modo diverso di produrla, anzi un modo diverso di pensarla e desiderarla: si tratterebbe infatti di liberare coscienze e cervelli dall’ideologia capitalistica del produttivismo e del consumismo, della crescita non importa quale, della quantità senza qualità. Una rivoluzione non fatta di eventi traumatici e sanguinosi, ma di una molteplicità di scelte politiche, anche minori e minime, capaci di incidere sulla trama complessa della cultura e dei comportamenti individuali e collettivi. Progetto immane, certo, ma non impossibile forse, se l’assunto fosse definito con chiarezza e soprattutto concordemente sostenuto da una solida unità delle sinistre critiche.
Ma una cosa, non di poco conto, credo si possa dire fin d’ora: e cioè che una scelta politica come questa non mancherebbe di trovare adesione di base. Ormai il disagio di un clima totalmente fuori norma, l’insicurezza di ciò che si mangia, si beve, si respira, l’angoscia per il futuro dei figli, la paura anche delle conseguenze economiche dei fenomeni meteorologici estremi, hanno creato non solo larga attenzione al problema, ma una diffusa angoscia. Diversi sondaggi (uno recentissimo promosso da Legambiente, un altro apparso qualche tempo fa su Repubblica) dicono che la crisi ecologica preoccupa più di terrorismo, epidemie, criminalità, ecc. E d’altronde il lungo lavoro dei movimenti altermondialisti e in genere dell’associazionismo di base ha creato l’humus più adatto ad accogliere e sostenere una politica ad un tempo sociale e ambientale, cioè anticapitalista.
Peccato che ci sia sfuggito l'articolo di Rossanda. Lo riprenderemo. Intanto condividiamo il contenuto di quello di Ravaioli. Dedicheremo all'argomento una riflessione più ampia. Vogliamo sottolineare subito che le questioni delle quali questo sito tratta non sono risolvibili se non si riesce a costruire (e prima ancora a pensare)un sistema economico nel quale non solo le "merci" abbiano rilevanza economicca, ma anche i "beni" in quanto tali (e non solo se e quando siano ridotti a "merci").
Altrimenti il territorio, i beni culturali, l'ambiente e le sue risorse resteranno sempre res nullius , o comunque oggetti utili (economicamente rilevanti) solo se mercificabili (cioè "ridotti ad altro da sé").
Altrimenti il destino delle città (e del mondo) sarà di essere più caratterizzate da divisione, contrasto sempre crescente tra miseria e ricchezza, formazione progressiva di muri divisori e ghetti, aumento della repressione e aumento parallelo del potenziale di rivolta.
Pensare e costruire un nuovo sistema economico non sarà facile, ma è necessario. Intanto, si possono fare piccoli passi. Ma è essenziale avere consapevolezza del problema, e in primo luogo non pretendere che il mercato funzioni per cose diverse dalla misurazione del valore di scambio delle merci; che è molto, ma non è tutto.
I fatti di Napoli, inclusi omicidi in serie, emergenza rifiuti e illegalità diffusa, discendono in ultimo dalla prolungata scarsità di risorse destinate a cose come la scuola, la formazione degli adulti, il rinnovamento urbano, i servizi pubblici, il funzionamento della giustizia e delle forze dell’ordine. Sono cioè un segno drammatico di povertà pubblica. Qualcuno può pensare che si tratti d’un problema particolare di Napoli. In realtà Napoli è solo il lampeggiante rosso che segnala l’immenso divario che esiste in Italia tra ricchezza privata e povertà pubblica.
Con i suoi 29.200 dollari di reddito pro capite, calcolati a parità di potere d’acquisto, l’Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo. Il suo reddito è quasi uguale a quello di paesi che si sanno benestanti, come Svezia, Francia, Regno Unito e Germania; ed è appena duemila dollari sotto il ricco Giappone, tremila sotto la ricchissima Svizzera. È vero che a causa delle forti disuguaglianze nella distribuzione del reddito disponibile un quinto della popolazione italiana se la passa piuttosto male; ma i quattro quinti restanti se la passano piuttosto bene, e il quinto più ricco di questi se la passa magnificamente. Della ricchezza privata degli italiani sono indicatori efficaci, più che le rade statistiche ufficiali, il numero degli alloggi di proprietà, delle auto che costano dai 40.000 euro in su, dei lussuosi negozi di abbigliamento di ogni città grande e piccola, dei giorni annuali di vacanza che possono in totale permettersi.
Se tutto ciò distingue in meglio l’Italia, in peggio la distingue il povero stato dei beni pubblici. Fare confronti tra noi e i paesi sopra nominati è perfino umiliante. Abbiamo le peggiori autostrade della Ue, insieme con servizi ferroviari di serie B. I metro di Genova, Milano, Napoli, Roma, Torino, città dove il traffico è ormai un incubo, non arrivano, in totale, a 130 chilometri di lunghezza, meno d’un terzo del metro della sola Parigi. Siamo gli ultimi della Ue a 15 quanto a spese in ricerca e sviluppo, numero di ricercatori, brevetti per milione di abitanti. Metà dei nostri edifici scolastici sono fatiscenti. L’università è strozzata dalla mancanza di risorse. Oltre metà del territorio corre un elevato rischio idraulico – e dopo le alluvioni del ‘66 a Firenze e Venezia quasi nulla è stato fatto per scongiurare il loro ripetersi. Lo stato dei parchi cittadini è in media penoso. In assenza d’una politica del territorio, il paesaggio viene distrutto a ritmi senza paragoni nella Ue. In un terzo del paese, chiunque gestisca un’attività economica deve includere le tangenti alla criminalità come voce normale del bilancio d’esercizio. Non riusciamo nemmeno a smaltire i rifiuti che produciamo. Quanto ai processi civili o penali, la loro durata è ormai materia da geologi.
In astratto, lo scarto esistente tra ricchezza privata e povertà pubblica dovrebbe apparire scandaloso a tutti noi, e impegnare allo spasimo la politica nel tentativo di ridurlo. In pratica non si verifica una cosa né l’altra. Lo scontro sulla finanziaria è esemplare. La destra è insorta, e sta cercando di mobilitare mezzo paese, contro il mite tentativo che la finanziaria compie di ridistribuire in complesso meno d’un decimo di punto di Pil dai redditi più alti ai più bassi. Il messaggio che lancia la destra è qui chiarissimo: se il prezzo della difesa dell’ultimo centesimo di ricchezza privata è il degrado crescente dei beni pubblici, noi scegliamo la prima. Inutile nascondersi che almeno metà degli elettori condivide questa posizione.
D’altra parte nella finanziaria, l’atto politico più importante dell’anno, l’impegno a ridurre il divario tra ricchezza privata e povertà pubblica è pressocchè invisibile, dato che il suo impianto è schiacciato dall’intento di ridurre il debito dello stato, appianare il deficit di bilancio, rilanciare la crescita e la competitività. Intenti lodevoli, se non fosse che uno degli ostacoli principali per raggiungerli risiede precisamente nella pubblica povertà. Se un paese non investe in risorse per assicurare la legalità, dalle forze dell’ordine alla giustizia, gli imprenditori, specie quelli stranieri, si guardano dall’investire in mezzi di produzione e impianti. Se il settore pubblico non destina fondi alla ricerca e sviluppo, anche i privati ne restano lontani, e l’idea di competere con tedeschi o americani appare patetica. In Usa, per dire, la mano pubblica (governo federale, stati locali e altro) ha investito nel 2002 in R&S 98,3 miliardi di dollari, e l’industria 193,3; l’Italia appena 9 per ciascun settore. In proporzione sarebbero dovuti essere oltre 57. Un altro tasto è la produttività oraria del lavoro, che da almeno un lustro ristagna in Italia; su di essa influisce fortemente la qualità della scuola, della formazione professionale, dell’università. Per non dire dei miliardi di euro che ogni anno sono ingoiati da alluvioni, frane e crolli che una preveggente difesa del territorio potrebbe limitare.
La proposta di mettere la riduzione del divario tra ricchezza privata e povertà pubblica al centro della politica del centrosinistra si presta ovviamente a varie obiezioni. Tra le prime che vengono a mente: la Ue ci chiede anzitutto di ridurre il debito dello stato e dei nostri beni pubblici le importa poco; migliorare la condizione di questi costa, e lo stato non ha più un euro; la crescita economica indotta dalla finanziaria produrrà più risorse, che si potranno così destinare a ridurre la povertà pubblica; il solo argomento che gli elettori capiscono è meno tasse per tutti, altro che parlare loro di povertà pubblica da diminuire.
Tento quindi qualche risposta. Bisognerebbe anzitutto decidere tra finanza e sostanza. Si potrebbe infatti sostenere, guardando all’Europa, che ciò che ci allontana davvero da essa non è tanto il permanere del debito al livello attuale per qualche altro anno, quanto le dimensioni della nostra povertà pubblica a confronto degli altri paesi. Ove si ammetta questo, il debito potrebbe attendere ancora un po’, e almeno parte delle risorse ad esso destinate venire dirottate sui beni pubblici. Da parte sua l’argomento «più crescita uguale più risorse uguale più fondi per i beni pubblici» non tiene conto del fatto che l’economia contemporanea «manifesta una tendenza implacabile a provvedere una fornitura sovrabbondante di alcune cose e una quantità misera di altre» – in primo luogo dei beni pubblici. Lo ha scritto cinquant’anni fa un economista che vedeva lontano, John Kenneth Galbraith. Quanto agli elettori, magari non lo sanno, ma l’80 per cento di essi hanno in realtà un interesse materiale, oggettivo, diretto, alla riduzione della povertà pubblica. Infatti lo stesso stipendio può valere molto di più, o molto di meno, a seconda che i beni pubblici siano abbondanti o scarsi. La politica potrebbe provare a farglielo capire.
In attesa quel segnale rosso, che il caso vuole si sia acceso per ora a Napoli, continua a lampeggiare.
Nel contesto delle relazioni internazionali, il segnale del passaggio da un ordine mondiale basato sul consenso tra gli stati-nazione a un mondo basato sulla coercizione praticata da una singola superpotenza si è avuto nel giugno del 2002, quando il presidente George W. Bush jr rese pubblica la sua nuova politica per la sicurezza nazionale. Per la maggior parte degli americani, l'11 settembre 2001 il mondo era cambiato in modo irrevocabile: Bush alimentò questa convinzione quando, nel suo discorso sullo stato dell'Unione del febbraio 2002, affermò che di fronte a un nemico senza stato gli Stati Uniti non avrebbero più potuto fare affidamento sugli strumenti di deterrenza tradizionali per prevenire attacchi contro la propria popolazione e il proprio territorio.
Dopo la fine della guerra fredda
Gli Stati Uniti avrebbero pertanto dovuto prevedere in quali luoghi tali attacchi potevano essere preparati e assumere azioni preventive per impedire l'attuazione degli attacchi stessi. Ma un esame più approfondito del modo in cui si è evoluta la politica estera e militare americana dopo la guerra fredda dimostra come il passaggio dagli interventi finalizzati alla difesa del sistema degli stati-nazione agli interventi tesi a minare tale sistema sia iniziato molto tempo prima.
L'evento scatenante fu la fine della guerra fredda, nel 1989. Nei quindici anni successivi, quella che era iniziata come una serie di tentativi di intervento militare finalizzati all'ingerenza negli affari interni di altri paesi si trasformò in un assalto frontale all'istituzione dello stato-nazione e all'ordine westfaliano. I primi interventi militari dell'era successiva alla guerra fredda, finalizzati alla riorganizzazione di uno stato-nazione attraverso un intervento decisivo nei suoi affari politici interni, sono stati attuati in Bosnia, nella Somalia e a Haiti tra il 1992 e il 1994, e sono stati interventi minori che hanno coinvolto dalle 3000 alle 25.000 unità di truppe terrestri statunitensi. Tutti questi interventi furono portati avanti sotto il mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
Un cambiamento irreversibile
C'è poi voluto meno di un decennio perché gli Stati Uniti, sostenuti dal Regno Unito, passassero a un'invasione non provocata dell'Iraq con 200.000 uomini, nonostante la forte opposizione dell'opinione pubblica mondiale, senza le autorizzazioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con gli espliciti obiettivi messianici di abbattimento del regime di Saddam Hussein e successivo insediamento di un governo amico degli Stati Uniti, dell'Occidente e di Israele, e di trasformazione dell'Iraq in una democrazia modello e in un esempio per il resto del mondo arabo.
Pertanto, è difficile non concludere che qualcosa sia cambiato irreversibilmente a partire dalla fine della guerra fredda, un cambiamento che ha esercitato una pressione senza tregua sulla potenza egemone spingendola all'attuazione di interventi sempre piú diffusi e frequenti e sempre piú invasivi negli affari interni degli stati membri delle Nazioni Unite. Questa pressione stava rendendo sempre piú difficile il mantenimento del sistema westfaliano configurato dalla carta costitutiva delle Nazioni Unite.
Quel cambiamento irreversibile fu l'avvento del capitalismo globale, che a partire dagli anni Settanta iniziò a minare le fondamenta economiche dello stato-nazione allo scopo di creare un unico sistema globale di commercio e produzione. Negli anni Novanta, questo processo iniziò a rimodellare il sistema politico e quello internazionale per adeguarli ai propri scopi. In un saggio scritto all'inizio degli anni Novanta, Jürgen Habermas aveva sottolineato che, poiché la democrazia era stata creata per sostenere le finalità degli stati-nazione, la sua sopravvivenza avrebbe potuto essere messa in serio pericolo in caso di crollo di queste istituzioni.
I timori di Habermas si rivelarono ben fondati. La prima vittima dell'attacco alla democrazia fu il sistema di stati-nazione nato con il trattato di Westfalia e il Congresso di Vienna, e consacrato, nella sua piú recente espressione, dalla Carta delle Nazioni Unite. Il trattato di Westfalia fu firmato nel 1648 dalla Francia e dai suoi alleati con il re Ferdinando II di Spagna, per porre fine alla guerra dei trent'anni che aveva devastato l'Europa. Per raggiungere tale scopo, il trattato legittimò i governi esistenti, ricompose le loro dispute territoriali e stabilì le regole di base per i futuri rapporti reciproci tra gli stati. Questo processo stabilizzò le frontiere e diede vita al concetto di sovranità nazionale, i due attributi essenziali del moderno stato europeo.
-I princìpi che governavano le relazioni tra gli stati emersi dal trattato di Westfalia furono poi formalizzati dal Congresso di Vienna. Sebbene i confini tracciati da questi trattati siano stati alterati piú volte dalle ambizioni egemoniche dell'una o dell'altra potenza europea, i princìpi fondamentali che li avevano ispirati vennero invariabilmente riaffermati, e l'ordine del trattato di Westfalia ripristinato, ogniqualvolta la pace si riaffermava. Quei princípi erano il rispetto della sovranità e dei confini nazionali e il rifiuto di intervenire negli affari interni di un altro stato sovrano, perché qualsiasi intervento del genere sarebbe stato considerato alla stregua di un atto ostile.
Gli strumenti attraverso i quali fu mantenuto il nuovo ordine furono la diplomazia e la strategia militare. Lo scopo della diplomazia era quello di mantenere un equilibrio di potere nell'ambito della comunità delle nazioni, mentre la strategia militare agiva come deterrente contro le aggressioni. Nella pratica, il sistema westfaliano non riuscì a prevenire le guerre: nel Seicento e nel Settecento le principali nazioni europee combatterono tra loro 60-70 conflitti durante ciascun secolo. Tuttavia, riuscì a instillare in tutte le nazioni una profonda avversione per le azioni di disturbo dello status quo, e nel contempo la disapprovazione per le aggressioni non provocate di un paese ai danni di un altro. L'ordine westfaliano raggiunse l'apice della sua efficacia durante la pace dei cent'anni, tra il 1815 e il 1914.
Dopo la sconfitta della Germania nella seconda guerra mondiale, l'ordine westfaliano riprese vigore ottenendo poi una definitiva consacrazione nella Carta costitutiva delle Nazioni Unite. L'Articolo 1 limitava la partecipazione esclusivamente agli stati sovrani. L'Articolo 2(4) imponeva agli stati di «astenersi, nell'ambito delle relazioni internazionali, dalla minaccia o dall'uso della forza ai danni dell'integrità territoriale o dell'indipendenza politica di qualsivoglia stato, o comunque da qualsiasi iniziativa in contrasto con le finalità delle Nazioni Unite». L'Articolo 2(7) proibiva non solo agli stati membri ma alle Nazioni Unite nel loro complesso di intervenire negli affari interni degli altri stati: «Nessuna disposizione del presente statuto potrà autorizzare le Nazioni Unite a intervenire nell'ambito di questioni essenzialmente di pertinenza della giurisdizione nazionale di qualsivoglia stato». Rafforzato dalla minaccia di «distruzione reciproca garantita», che emerse con lo sviluppo delle armi nucleari, il sistema delle Nazioni Unite impedì l'esplosione di guerre di grandi dimensioni durante i cinquant'anni di guerra fredda. Solo quando l'avvento del capitalismo globale iniziò a minare gli stessi stati-nazione, il sistema iniziò a essere sottoposto a serie tensioni. Come potenza egemonica del XX secolo - il cosiddetto «secolo breve» - intenta a estendere la propria egemonia nell'era del capitalismo globale, gli Stati Uniti hanno guidato l'attacco al sistema degli stati-nazione e all'ordine westfaliano internazionale. I critici di area liberal dell'espansionismo statunitense escludono l'ipotesi di un cambiamento rapido e ritengono che la fine della guerra fredda abbia fatto riaffiorare una tendenza imperialista nella politica estera statunitense le cui origini risalgono alla dottrina Monroe. (...)
La vittoria nella guerra fredda e la successiva «Rivoluzione degli affari militari» di fatto rimossero solo l'ultimo ostacolo al consolidamento dell'impero americano. La debolezza di questa ipotesi sta nella sua presunzione di continuità. Indubbiamente, la creazione di una rete di basi militari e l'acquisizione del territorio su cui costruirle sono state un processo continuo. I primi passi furono compiuti nel decennio successivo alla guerra ispanoamericana del 1896, quando l'America installò basi militari in luoghi distanti tra loro come Guam, Hawaii, Filippine, il canale di Panama, Porto Rico e Cuba. Ma furono la seconda guerra mondiale e poi la guerra fredda a consentire agli Stati Uniti di ampliare la loro rete di basi in Europa occidentale, Okinawa, Giappone, Corea, Tailandia, Australia e Nuova Zelanda. L'espansione della presenza militare degli Stati Uniti continuò anche dopo la fine della guerra fredda. Dopo la prima guerra del Golfo, nuove basi americane sorsero in Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrain, Oman, Egitto e Gibuti. La disgregazione della Jugoslavia divenne il pretesto per la creazione di basi in Bosnia e Kosovo e quella dell'Unione Sovietica condusse alla creazione di basi in Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan e Kirghizistan. Dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti costrinsero il Pakistan, di fatto con la minaccia delle armi, a unirsi alla nuova guerra globale contro il terrorismo: il Pakistan concesse agli Stati Uniti l'uso delle basi aeree di Jacobabad, Pasni e Quetta. Infine, dopo la guerra afghana, gli Stati Uniti hanno acquisito tre ulteriori basi aeree in Afghanistan: a Bagram, nei dintorni di Kabul, a Mazar-i- Sharif, a nord della catena dell'Hindu Kush e a Kandahar, nel sud del paese.
Ma questa continuità maschera, e quindi impedisce di riconoscere, una differenza molto importante nel modo in cui le basi furono create. Alcune lo furono attraverso la coercizione, e cioè l'invasione o la minaccia di invadere un territorio appartenente a un altro stato sovrano. Le restanti, e si tratta comunque della maggior parte, furono create con il pieno consenso delle nazioni interessate. Inoltre, la scelta del metodo per ampliare la potenza e la sfera di influenza americana non fu casuale.
I cicli del capitalismo
Gli Stati Uniti ricorsero alla coercizione per acquisire territori o basi in due periodi distinti: il primo nell'ultima decade del XIX e nella prima decade del XX secolo, il secondo dopo la guerra fredda, e in particolare dopo l'11 settembre. A cavallo dei due periodi, con rare eccezioni, l'ampliamento della potenza militare e dell'influenza degli Stati Uniti è stato tollerato o, addirittura, accolto con favore dalle nazioni interessate. La ragione di questa differenza va ricercata nell'espansione ciclica del capitalismo. Il primo ricorso alla forza coincise con l'avvento del caos sistemico che contrassegnò la fine del terzo ciclo di espansione e, di conseguenza, dell'egemonia britannica. Il secondo ricorso alla forza è una risposta al caos sistemico che è stato innescato dalla fine del quarto ciclo di espansione del capitalismo e dall'avvento del quinto, cioè la globalizzazione. Questo è il riflesso del tentativo americano di forgiare il nuovo ordine mondiale e di stabilire la propria egemonia sopra di esso. L'esteso e pacifico ampliamento della rete di basi americane tra queste due epoche rispecchiava invece il consolidamento dell'egemonia americana durante il quarto ciclo di espansione del capitalismo.
Allarme a livello mondiale
Il processo fu reso più semplice dall'assunzione da parte degli Stati Uniti del ruolo di stato amico e protettore durante la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, e dal fatto che l'espansione del capitalismo che innescò la crescita degli Stati Uniti ebbe luogo nel quadro del sistema westfaliano degli stati-nazione. Di contro, l'espansione della potenza americana dopo l'11 settembre, soprattutto in Afghanistan, Pakistan e Iraq, rivela il palese disprezzo per la sovranità nazionale ed evidenzia l'intento di sostituire il sistema westfaliano con un impero americano costruito sulla supremazia militare e sulla costante minaccia del ricorso alla forza. Questo ha innescato un allarme a livello mondiale e ha costretto i paesi che in precedenza avevano accettato di ospitare le basi e l'egemonia militare americana a riconsiderare l'opportunità di continuare a ospitarle. Ha inoltre già spinto l'Arabia Saudita a chiedere agli Stati Uniti di chiudere le basi sul proprio territorio e convinto Francia, Germania e Belgio a rilanciare la proposta per la creazione di una forza difensiva europea al di fuori dell'ombrello della Nato. Ha inoltre allarmato i liberal americani non solo perché trovano ripugnante l'idea di un impero americano, ma anche perché questa strategia sta distruggendo l'egemonia creata, in modo prevalentemente pacifico, duran
VIVIAMO in un mondo diviso, disgregato dalla disuguaglianza economica e dalla disaffezione politica, ma anche, sempre di più, dalla coltivazione, a fini violenti, di sistemi univoci di classificazione degli individui, che limitano profondamente la ricchezza degli esseri umani. Lo sfruttamento di un’identità conflittuale si manifesta in molte forme diverse, in distinte aree dell’interazione sociale. Gli individui combattono contro altri individui in nome di ciò che la loro presunta identità unica esige da loro, dividendosi rispettivamente secondo criteri di razza, di religione, di etnia o di nazionalità: tali divisioni si traducono in scontri razziali, massacri intercomunitari o stragi politiche. In cui immancabilmente finiscono con l’essere cancellate tutte le altre affiliazioni degli individui diverse da quella specifica caratteristica in nome della quale viene combattuta un’artificiale battaglia ideologica. A livello globale, la forza divisoria della classificazione univoca assume sempre di più la forma della difesa di una separazione rigida, e teoricamente impenetrabile, tra religioni, o comunque tra civiltà concepite su base religiosa. Il XX secolo, nella sua fase terminale, ha visto fiorire le teorie – formulate esplicitamente o avanzate implicitamente – sul cosiddetto "scontro di civiltà". Spessissimo, ormai, gli aspetti politici dello scontro globale in corso sono considerati un corollario delle divisioni religiose o culturali a livello mondiale, e il mondo è visto sempre più spesso, quanto meno indirettamente, come una collettività di religioni, o di cosiddette "civiltà" definite innanzitutto in base alla religione, un’ottica che ignora tutti gli altri modi, e sono centinaia, attraverso cui gli individui vedono se stessi. Tutto questo è basato sul curioso presupposto che la popolazione mondiale possa essere classificata esclusivamente in base a un sistema di suddivisione unico e dominante.
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Questa visione univoca dell’identità, che attualmente è molto in voga, non è solamente incendiaria e pericolosa, è anche incredibilmente ingenua. Nella vita quotidiana, noi ci consideriamo membri di una quantità di gruppi, e a tutti questi gruppi riteniamo di appartenere. La stessa persona può essere, senza che ciò rappresenti la minima contraddizione, cittadina americana, di origine asiatica indocinese, con antenati vietnamiti, cristiana, progressista, donna, vegetariana, storica, insegnante scolastica, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, velocista, musicista jazz e profondamente convinta che gli alieni, immigrati dallo spazio nel corso dei secoli, siano presenti in massa sulla Terra e che siano facilmente identificabili in virtù della loro propensione a citare incessantemente Shakespeare (che è materia di insegnamento comune nei licei spaziali). Una persona possiede molte affiliazioni diverse, alcune abbastanza consuete (per molti versi assolutamente ordinarie, come l’essere ricco o l’essere povero, l’essere donna o l’essere uomo), altre piuttosto particolari, perfino eccentriche (a volte estremamente eccentriche). Ma ognuna di queste collettività, a cui la persona in questione appartiene simultaneamente, le conferisce un’identità specifica che può avere grande importanza, a seconda del contesto e delle circostanze, per determinare il suo comportamento e le sue priorità.
Data la natura ineludibilmente plurale delle nostre identità, siamo chiamati a prendere decisioni (a scegliere) sull’importanza relativa delle nostre diverse associazioni e affiliazioni in ogni determinato contesto. Se i terroristi e gli istigatori di violenza cercano di coltivare e sfruttare l’illusione di unicità, la classificazione a senso unico della popolazione mondiale in base a un unico criterio identitario dominante, legato alla civiltà di appartenenza, facilita loro il compito. Quelli che amano classificare per civiltà possono usare questo metodo come base di partenza per arrivare a sostenere la tesi dello "scontro di civiltà" (strada oggi molto battuta), oppure possono imboccare la via, confortevole e rassicurante, che porta a raccomandare il "dialogo tra civiltà", che è un sentimento di gran lunga più bello (e non del tutto impopolare anche nelle stesse Nazioni Unite): entrambi gli approcci, tuttavia, sono accomunati dall’errata convinzione che le relazioni tra esseri umani differenti, con tutte le loro diverse diversità, possano in qualche modo essere espresse sotto forma di rapporti tra civiltà, invece che di rapporti tra persone. Tutti e due questi approcci, in un modo o nell’altro, ci rendono più difficile adempiere a quelle che sono delle necessità, e cioè ragionare sulla varietà di affiliazioni e associazioni che ci caratterizza e assumerci la responsabilità delle nostre scelte.
Un esempio dei danni che provoca un simile approccio è bene illustrato dal modo in cui il mondo occidentale si è appropriato del patrimonio storico mondiale in materia di scienza e matematica, arrivando a considerare la scienza e la matematica moderne come discipline occidentali per eccellenza (nonostante molti fondamentali concetti scientifici o matematici abbiano origine da tutt’altra parte). Per fare un esempio, quando un matematico americano dei giorni nostri ricorre a un "algoritmo" per risolvere un difficile problema di calcolo, sta rendendo omaggio – di solito senza saperlo – ai contributi del matematico musulmano del IX secolo al-Khwarizmi, dal cui nome deriva lo stesso termine di algoritmo (il termine "algebra" viene dal libro arabo Al-Jabr wa-l Muqabalah). Ignorando l’importanza di questa tradizione storica araba e musulmana, le grossolane classificazioni per civiltà tendono a mettere la scienza e la matematica nel paniere della "scienza occidentale", lasciando le altre civiltà a cercare motivi d’orgoglio nella profondità delle dottrine religiose. E il risultato è che i militanti non occidentali concentrano la loro attenzione sulle tematiche che li differenziano dall’Occidente (come i credi religiosi particolari, le usanze locali caratteristiche e le specificità culturali), invece che su quegli argomenti che rispecchiano le interazioni globali (e che includono la scienza, la matematica, la letteratura, la musica, la narrazione, la libertà di espressione e così via). La compatibilità tra oltranzisti occidentali ed estremisti islamici – né agli uni né agli altri, per fare un esempio, importa granché di un al-Khwarizmi – è una delle più perniciose alleanze di fatto di questo nostro inizio di secolo.
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Qualcosa di analogo si può dire del modo in cui l’oltranzismo occidentale si è appropriato del fondamentale concetto dell’assumere le decisioni attraverso il dibattito e il confronto pubblico, concetto che può essere considerato la base della democrazia deliberativa nel mondo moderno. La lunga tradizione di esempi di questo genere di processo deliberativo in Africa, in India, in Iran e nell’Asia occidentale, in Cina, in Giappone e nell’Asia orientale, viene totalmente ignorata allo scopo di creare la tesi peculiare dell’"eccezionalismo" occidentale. I fautori di questa visione della storia un tantino superficiale spesso ricorrono a ogni possibile diversivo per distogliere l’attenzione dai numerosi esempi di tolleranza e dialogo presenti nella storia mondiale, altrettanto diffusi degli esempi di intolleranza. La tesi dell’origine esclusivamente occidentale della democrazia deliberativa può essere sostenuta a partire da una curiosa, doppia rimozione: da un lato la rimozione degli esempi di tolleranza nelle culture non occidentali, dall’altro la rimozione dei casi di manifesta intolleranza all’interno della tradizione occidentale.
Non si dà alcuna importanza, ad esempio, al fatto che quando l’eretico Giordano Bruno veniva bruciato sul rogo a Roma con l’accusa di apostasia, l’imperatore indiano Akbar, un musulmano, aveva appena portato a termine il suo progetto di tradurre in legge il diritto di ogni cittadino a professare liberamente la propria fede, e aveva appena completato una serie di intensi incontri di discussione che avevano coinvolto le diverse comunità religiose presenti in India: induisti, musulmani, cristiani, ebrei, parsi, giainisti e altri, inclusi gli atei. La persecuzione operata dalle inquisizioni europee, o dai nazisti, se è per questo, sono implicitamente considerati casi insignificanti, mentre gli episodi di intolleranza nella storia islamica e nella storia di altre società non occidentali sono visti come la prova evidente dell’onnipresente intolleranza esistente in quelle società, svolgendo la funzione di fondamento empirico per lo sviluppo di una teoria monolitica sulla natura unicamente e intrinsecamente "occidentale" della tolleranza e del processo decisionale condiviso.
Le lezioni che traiamo dalla storia non possono, naturalmente, non basarsi su un’elaborata selezione, e non c’è niente di strano nel fatto che i democratici abbiano ragioni a sufficienza per celebrare certe conquiste del passato e contestualmente sminuire il pessimismo generato dalle infrazioni alla regola della tolleranza sociale e del dialogo pubblico. Questa selezione distorta viene fornita come dimostrazione della tesi, inspiegabilmente dogmatica, della contrapposizione tra il liberalismo dell’Occidente e l’intolleranza del resto del mondo, tesi che meriterebbe un’analisi molto più approfondita di quanto non avvenga normalmente.
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La grossolanità di questa "teoria delle civiltà" generata dall’illusione "solitarista", oltre a menomare la nostra capacità di comprensione della storia mondiale e del mondo contemporaneo, e a impedire una comprensione adeguatamente approfondita delle influenze causali che stanno dietro ai recenti sviluppi del terrorismo globale, confonde le idee su una serie di questioni politiche. Uno degli argomenti più penalizzati dalla retorica riduzionistica è quello dell’individuazione dei modi e dei mezzi per contrastare il terrorismo globale . Ma la ristrettezza della "teoria delle civiltà" rappresenta un ostacolo, un ostacolo artificiale, anche in molte altre questioni di rilevanza politica, tra cui la valutazione dei problemi creati dall’immigrazione da un Paese a un altro.
Al di là della gravità dei problemi pratici di un flusso migratorio in entrata relativamente cospicuo (e non si fa fatica a concepire problemi di difficile soluzione che siano reali, e non immaginari), va anche tenuto conto del fatto che storicamente le civiltà hanno tratto grande beneficio dall’immigrazione, sia l’immigrazione delle persone che quella delle idee. Anzi, la rapida diffusione delle idee spesso è stata merito dei movimenti delle persone. Non voglio dire che dovrebbe prevalere una concezione ampia della positività dei movimenti migratori, mettendo in secondo piano tutti gli argomenti che possono essere avanzati a discapito, ma difficilmente potremo giungere a una soluzione adeguatamente obbiettiva di determinati problemi se ci ostiniamo a non tenere minimamente conto di considerazioni generali. La specificità di un problema consiste in una descrizione delle sue dimensioni e del suo ambito. Non consiste in un irresistibile invito a essere limitati, sia di spirito che di mente. La storia dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa, dell’America, sarebbero alquanto incomplete se le migrazioni fossero considerate ininfluenti. Poiché la tesi dello "scontro di civiltà" tende a promuovere, quantomeno implicitamente, una visione estremamente limitata della storia delle civiltà, è particolarmente importante esporre con chiarezza le tematiche generali.
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Se la follia della "teoria delle civiltà" è un esempio efficacissimo del danno che produce un sistema di classificazione "solitarista", esistono molte altre applicazioni, in altri ambiti dell’interazione sociale, di quello che è fondamentalmente il medesimo, scarno approccio. Lo stesso problema dell’immigrazione è caratterizzato da molte altre semplificazioni eccessive, legate alla tentazione di attribuire un’importanza univoca a una determinata identità umana. Per illustrare l’ampiezza e la portata del problema, mi soffermerò brevemente su alcune delle questioni che forse non sono affrontate nel modo dovuto negli Stati Uniti, con i loro dibattiti sull’immigrazione illegale e l’identità linguistica e letteraria.
Pensiamo, ad esempio, alla strombazzatissima richiesta di espellere dagli Stati Uniti tutti gli immigrati illegali, proposta che ultimamente sta guadagnando un certo seguito, nonostante la straordinaria storia di accoglienza ai nuovi arrivati che può vantare questo Paese. Gli immigrati clandestini, questo è ovvio, hanno l’identità di immigrati, oltre che quella di clandestini, e le autorità devono tenerne conto al momento di definire la linea politica da seguire sull’argomento. Ma, con l’aiuto di una propaganda ad hoc, gli americani già insediati nel Paese possono venire persuasi a considerare l’identità di immigrato clandestino come una descrizione completa di questi individui. Eppure queste persone hanno anche altre identità, non semplicemente quelle, che li accomunano a tutti noi, relative alla loro natura di esseri umani e al loro impegno per la loro famiglia e la loro comunità, ma anche quelle identità relative alla professione che svolgono, al ruolo particolare che interpretano nel sistema economico e alla prospettiva globale che apportano – direttamente o indirettamente – al dibattito pubblico americano.
L’identità ha un ruolo importante anche riguardo al trattamento di coloro che già sono immigrati e si sono stabiliti qui, negli Stati Uniti, oggi, a prescindere dal fatto se abbiano già acquisito o no la cittadinanza americana. In questo contesto, la questione della lingua è importante. L’apprendimento dell’inglese dovrebbe essere imposto a tutti? Certo, è evidente l’importanza che riveste la padronanza dell’inglese per chiunque venga a stabilirsi in questo Paese, e quello di cui si può fruttuosamente discutere sono i modi e i mezzi per ottenere questo risultato.
La cosa particolarmente nociva, però, è la proposta, di cui si è parlato molto, che mira a cancellare il diritto a ricevere spiegazioni sulle leggi federali e altri strumenti legali in una lingua che non sia l’inglese. La proposta ha senso soltanto in un contesto di profonda confusione tra il tipo di identità linguistica che una persona dovrebbe idealmente avere (in particolare essere in grado di parlare inglese, oltre a qualsiasi altra lingua che l’individuo in questione può aver imparato da piccolo) e l’identità linguistica che una persona effettivamente ha, che può essere ben lontana dall’ideale, in qualsiasi frangente, se quella persona, magari nonostante tutto l’impegno possibile, non possiede un’adeguata padronanza dell’inglese. Poter avere accesso alle leggi e alle normative è parte dei diritti fondamentali dell’individuo, e l’importante identità degli esseri umani in quanto persone in possesso di questi diritti fondamentali non può essere arbitrariamente rimossa adducendo punitive motivazioni di insufficienze linguistiche.
C’è poi una considerazione molto generale da fare, che si aggiunge alle tematiche che ho trattato in questi ultimi minuti. Una quota importante della violenza presente nel mondo in questo momento nasce dalla focalizzazione sull’identità religiosa degli esseri umani, come se nient’altro avesse importanza. In questo contesto, sostenere la rilevanza di un altro strumento di classificazione, diverso dalla religione, vale a dire le lingue che parliamo e con cui ci troviamo a nostro agio, contribuisce, secondo me, a neutralizzare l’artificiosa brutalità dei conflitti interreligiosi.
La lingua ha interpretato un ruolo simile in molti movimenti politici. Un esempio è la secessione del Bangladesh, dove la rilevanza attribuita alla lingua bengalese ha avuto l’effetto di rendere più semplice, al nuovo Stato, sviluppare una politica non religiosa – per non dire laica – e ha aiutato la consistente popolazione non islamica del Bangladesh a integrarsi meglio con la comunità maggioritaria, a cui era accomunata dalla lingua bengalese, a prescindere dalla fede religiosa. Di più: lo spostamento dell’attenzione dalla religione alla lingua ha avuto un grande effetto lenitivo, contribuendo a seppellire il ricordo degli scontri degli anni 40 tra induisti e musulmani in quello che oggi è il Bangladesh (analogamente a quanto accadeva nel resto del subcontinente): un processo costruttivo che è cominciato quasi subito dopo la divisione del subcontinente, avvenuta nel 1947 (molto prima della nascita del Bangladesh, nel 1971).
Il punto da affermare riguardo all’identità è il seguente: concentrare l’attenzione su un altro elemento di identificazione, diverso dalla religione, rappresenta un passo avanti, nel mondo di oggi, perché toglie centralità ai conflitti religiosi. La tendenza, nel mondo contemporaneo, a privilegiare un’identità in particolare rispetto a tutte le altre ha già fatto grandi danni, fomentando violenze razziali, conflitti intercomunitari, terrorismo religioso, repressione degli immigrati, negazione dei diritti umani fondamentali e via discorrendo. Mentre il nuovo secolo si dipana, è importante riaffermare la pienezza di esseri umani non miniaturizzati nella gabbia di un’unica identità. Non ci dobbiamo far rinchiudere in tanti piccoli compartimenti, come vorrebbero gli artigiani del malcontento e del terrore. Un unico, limitato sistema di classificazione non è in grado di cogliere la grandiosità dell’essere umano. Questa, a mio parere, è la sfida centrale del pensiero identitario all’inizio del XXI secolo.
Traduzione di Fabio Galimberti
L'immagine è di Gopi Gajwani
Romano Prodi canta vittoria: ho la maggioranza aritmetica e anche quella politica. Ma non è vero: ha avuto una fortunosa maggioranza contabile, frutto di diverse manovre, in testa quella di Lamberto Dini che ha votato la finanziaria per imporre il suo no a ogni emendamento o al pacchetto welfare, gettando sulla sinistra la patata bollente della caduta del governo. Stona ancora di più l'uscita di Berlusconi che agita i suoi gazebo ululando di avere con sé nientemeno che il popolo italiano per liquidare i dubbi dei suoi ex alleati e ricordare che il padrone è lui. I due leader protagonisti degli ultimi quindici anni si sentono accerchiati dalla loro stessa coalizione.
Non hanno torto. All'orizzonte di tali agitazioni si delinea un altro scenario, che liquida tutti e due - un «centro» bizzarro, meta confessata di Veltroni, Casini e frattaglie del centrosinistra e della Cdl, ma con poderose radici fuori delle Camere e in un'opinione ormai spostata, a cominciare dalla grande stampa. Bizzarro perché destinato a prefigurare non una nuova Dc onnireggente, ma un bipolarismo più simile all'agognato modello americano. Una destra (diciamo i repubblicani) condotta da Gianfranco Fini - se a Berlusconi non riusciranno gli ultimi azzardi - e una «sinistra» (diciamo i democratici) guidata da Veltroni. Esse escluderebbero la sinistra detta radicale da un lato e forse l'anfibia Lega dall'altra. Costretta anzitempo a un bipolarismo che non stava né nella sua fisionomia sociale, né nella sua tradizione politica, l'Italia va producendo questo mostro.
Mostro ma con i piedi per terra, reso possibile dalla «svolta» di 180 grandi dell'ex bacino Pci, ex Pds, ex Ds che ha raggiunto un orizzonte di sistema comune con una destra più presentabile dell'ego del Cavaliere e della mattane di Bossi. E' un quadro comune infatti quello che permette un bipolarismo «perfetto», perché non muta l'idea di società ma soltanto un certo metodo dell'amministrazione, e di solito la politica estera. Collante un liberismo più o meno temperato: largo al mercato, meno stato, meno proprietà pubblica, più liberalizzazione cioè più privatizzazioni, e una riconosciuta partecipazione della Chiesa alla conduzione «morale» del paese da parte dell'uno e dell'altro schieramento. Fini ha capito che questa è la «democrazia moderna» e si è sganciato da Berlusconi, che si sente mancare il terreno sotto i piedi e cui non resta che il ricorso al «popolo». A Prodi sta scivolando via tutta la sinistra sociale, penalizzata e sgomenta dalla sua politica, versione italica della Commissione Ue e della Banca Centrale. Ne vedremo delle belle.
Resta la domanda se l'idea di una società non tutta mercificata, fatta dalle figure non ancora del tutto a pezzi, di un lavoro dipendente sempre più diffuso e più precario, e da alcune culture non assimilate - non tanto quella ecologica cui per forza i «democratici» daranno posto ma una parte del femminismo se si deciderà a dire la sua - sarà ridotta allo spazio che negli Usa hanno i Nader, i Chomsky, le femministe, la Nation o quel che resta della Monthly Review, cioè alcuni centri universitari, assieme a ricorrenti sussulti o movimenti dei quali il sistema non mette molto a sbarazzarsi con le buone o con le cattive. Finora l'inerzia della Cosa Rossa - definizione quanto mai scoraggiante calcata sulla sfigata Cosa di Occhetto - fa di tutto perché così accada. Anzi, basta che resti come oggi inerte e abbacinata davanti al basamento della costruzione seguita al 1989, la fatalità dell'economia e del mercato, svolazzando fra questa e quella «soggettività» ma in impotente silenzio davanti all'architrave del sistema. Di questo passo la deriva verso una perpetua minorità, prima o poi esclusa dalla scena, è assicurata.
[…] A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia «elettorale» e, più in generale «politica», del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere mediatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca «macchina» televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per «riprendere il filo») è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano.
Il lato geniale ed irresistibile di questo genere del tutto muovo di «conquista dell'opinione» è che esso non si manifesta mai in modo direttamente politico. Essa ha fatto tesoro della constatata sconfitta dell'altro metodo: quello, per così dire, «concettuale» del «lavaggio del cervello» esplicitamente propagandistico. Come s'è visto, dovunque il metodo di indottrinamento diretto ha suscitato fastidio, estraneità e alla fine ripulsa. Lo si può praticare con successo solo se lo si destina ad una ristretta élite gravata di speciali responsabilità (è il caso della Chiesa cattolica nella formazione dei suoi «quadri»): altrimenti sortisce I'effetto contrario. Invece il metodo «subliminare», anche perché le opzioni che deve indurre a preferire sono di carattere elementare se non proprio infantile (più merci = più felicità), è di effetto certo: non fa che prospettare, ininterrottamente, immagini, brevi e di facile fruizione intellettuale anche per deficienti, di un mondo (fittizio) già reso perfetto e felice dalla sovrabbondanza delle merci di ogni genere. Non meno efficace è il ritrovato, costante nell'intera straripante produzione pubblicitaria, di mostrare intorno ad ogni (singola) merce la vita felice di tutti i giorni (nello sua forma più luccicante e attraente) di infinite «persone qualunque»: le quali in realtà sono sapientemente selezionate al fine di determinare un immediato effetto di auto-identificazione, immedesimazione e conseguente spinta mimetica, al prodursi del quale «il gioco è fatto». Non c'è bisogno di un orwelliano «grande fratello» per orchestrare tutto questo: è una macchina che si autoregola e si moltiplica per il fatto stesso di essere, anche economicamente, sommamente redditizia.
Prima di indurre centinaia di migliaia di uomini a transitare al di qua dell'ormai affondata «cortina di ferro», o a varcare i mari rischiando anche la vita pur di sbarcare nel «paese di Bengodi» (si parlò a questo proposito, anni addietro, di spot people), quegli influentissimi testi - la cui produzione costa miliardi e che movimentano milioni e milioni di consumatori in tutto il mondo - avevano preliminarmente conquistato la mente, per non dire l'anima, innanzitutto dei cittadini di serie A, cioè di quelli che «già c'erano» nel paese di Bengodi. I grandi creatori di pubblicità sono dunque i veri e a loro modo geniali «intellettuali organici» della vincente dittatura della ricchezza. Non ha molta importanza la patetica battaglia per pareggiare più o meno equamente gli spot elettorali: tutto il resto sono i veri spot elettorali. Essi indirizzano milioni di utenti a simpatizzare per quelle forze che gridano con santo sdegno: «lasciateci godere della nostra ricchezza!», e come unica «ideologia» trasmettono il più sollecitante dei messaggi: «cercate di diventare come noi!».
Al potere incontrastabile dell'«ideologia della ricchezza» si associano altre mitologie di massa: i grandi «miti analfabeti», di cui lo sport è forse il massimo esempio, divenuto infatti ormai, non a caso, un fattore direttamente politico, oltre che unica occasione di mobilitazione spontanea delle masse.
Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della «parola demagogica». Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimento della capacità critica: l'allarme lanciato da Giacomo Leopardi, «dove tutti sanno poco e' si sa poco», poteva sembrare, al tempo in cui fu formulato, affetto da aristocratismo; è oggi che trova il suo pieno inveramento.
Sembrava il fascismo aver dato il massimo contributo in questa direzione: era invece pur sempre un movimento che affondava le sue remote radici nel secolo precedente e nel sempre ritornante modello bonapartista. Il fascismo prendeva di petto e manipolava «la folla» così come l'aveva conosciuta e descritta Gustave Le Bon. Al contrario l'attuale «democrazia oligarchica», o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del «piccolo schermo»; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, Inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni.
L'epilogo è stato la vittoria, che ha prospettive di lunga durata, di quella che i Greci chiamavano la «costituzione mista», in cui il «popolo» si esprime ma chi contano i ceti possidenti: tradotto in linguaggio più attuale, si tratta della vittoria di una oligarchia dinamica e incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali. Scenario beninteso Iimitato al mondo euro-atlantico e ad «isole» ad esso connesse nel resto del pianeta. Pianeta che, altrove, viene messo in riga le armi in pugno. […]
Di Luciano Canfora vedi anche La demagogia
“Ma soprattutto guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più durantura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso.”(1) Con queste parole Keynes chiude “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, portando al tono di aperta beffa quel distacco ironico e lievemente snobistico abitualmente osservato verso la propria materia, e in particolare verso i propri colleghi.
Non è da credere che Keynes davvero sperasse in un futuro in cui l’economia potesse giocare un ruolo secondario, di puro servizio. E tuttavia certo non immaginava - non nei termini e nella misura in cui si è verificata - quella trasformazione della società che nella seconda metà del secolo scorso ha portato l’economia a invadere la vita in ogni suo snodo e scansione, interamente subordinandola alle proprie dinamiche e ai propri fini. Così come (lo s’è visto) ormai viene denunciato perfino da convinti fautori del mercato e della globalizzazione, che giungono a mettere in questione l’economia neoliberista nel suo statuto logico, attaccando il pilastro stesso del suo operare, cioè la crescita produttiva, l’accumulazione.
E però “resta il problema se l’economia possa essere concepita in altro modo,” come diceva Napoleoni. Che è in sostanza il problema, accennato sopra, della mancanza di un modello alternativo, di una diversa ipotesi sia pure soltanto abbozzata da proporre tentativamente. L’unica risposta oggi avanzata sembra l’avvio di un processo inverso a quello seguito negli ultimi decenni, che restituisca cioè autorità e poteri agli Stati nazionali, come i soli istituti capaci di limitare l’arbitrio del mercato e dei potentati economici; i soli che possano farsi carico dei bisogni collettivi, con un recupero del welfare oggi sotto continuo e duro attacco, e quindi in grado di agire contro le sempre più macroscopiche disuguaglianze sociali. Questo è l’orientamento che - certo da posizioni variamente articolate e notevolmente differenziate nel concreto delle proposte - accomuna autori duramente critici del neoliberismo ad altri assai più indulgenti: da Stiglitz a Lunghini, da Sylos Labini a Luttwak, da Soros a Gallino, da Aglietta a Ruffolo, da Passet a Bello, da Del Debbio a Reich, da Barber a Kaul….
Ma è praticabile un ritorno alle tradizionali politiche dello stato sociale in un mondo così profondamente trasformato? La difficoltà dell’impresa appare evidente a quanti (vedi Giorgio Lunghini, Susan George, Joseph E. Stiglitz, Inge Kaul) pongono l’accento su quelli che la Kaul chiama “nuovi beni pubblici”, (2) i quali nella nuova società globalizzata si definiscono secondo una dimensione sovranazionale: l’ambiente, con l’aggravarsi dell’effetto serra e del mutamento climatico, la crescente scarsità idrica, la deforestazione, la desertificazione, la perdita di biodiversità, ecc.; la “giustizia internazionale”, cioè gli enormi problemi di sfruttamento di un paese sull’altro, creati dall’organizzazione produttiva “globale”; le masse degli emigranti che dal mondo più povero premono alle frontiere dell’Occidente; le epidemie (come l’Hiv ma non solo) che a causa della maggiore mobilità e delle più facili comunicazioni raggiungono oggi una diffusione senza precedenti; le “nuove schiavitù” legate ai diversi mercati sessuali, al commercio di organi per trapianti, ecc. E’ una massa di nuovi bisogni collettivi, che – dice la Kaul – esigono di essere trattati come problemi internazionali dagli stati nazionali, e come problemi nazionali dagli istituti internazionali, in una continua interazione tra i due livelli; ma che soprattutto impongono la necessità di creare nuovi organismi sovranazionali in grado di affrontarli adeguatamente, togliendo di mezzo quelli esistenti, Banca mondiale, Fondo monetaro internazionale e Organizzazione mondiale del commercio in primis. Appare difficile infatti accettare l’idea – non esclusa nemmeno dalla Kaul – di potere riorganizzare a fondo questi istituti restituendo loro la democraticità perduta (o non piuttosto mai posseduta?) e superare così una situazione che Stiglitz descrive a questo modo: “C’è un solo potere nel mondo che ha il potere di veto nel Fondo, ed è il G1, gli Stati Uniti.” (3)
Di fronte a una realtà come questa, che un brillante gioco di parole fotografa meglio di ogni dotta analisi, è difficile vedere salvezza se non nella rimessa in causa dell’ordine attuale nella sua totalità, a partire dai suoi principi fondativi. E’ quanto Napoleoni aveva capito, sia pure in una prima e ancora combattuta riflessione su cose che i quattordici anni seguiti alla sua morte hanno portato a ben altra evidenza. “Appunto perché il sistema si autoregola, non si può che prenderlo nella sua globalità; e darsi il compito di uscire da esso non regionalmente o settorialmente, ma in linea di principio (…) nella linea di una rifondazione dell’economia che superi il condizionamento di principio esercitato sulle categorie economiche dal sistema sociale dato; che riaffronti in termini diversi la questione della scarsità; che allarghi le categorie alla questione dell’abbondanza (…) del superamento di ogni e possibile scarsità(…) Che è la determinazione di un nuovo modo di concepire l’economia.” Ed è su questa base che vede, più che la difficoltà, la reale impossibilità di funzionare del riformismo. “Il riformismo ha sempre voluto la luna….nel senso che ha sempre voluto tenere insieme tre cose: lo sviluppo, quindi l’accumulazione e l’incremento dell’occupazione ottenuto in questo modo, i servizi dello ‘Stato del Benessere’, e i consumi privati. Il fatto che tra queste cose il riformismo sia sempre stato incapace di stabilire un ordine di priorià… secondo me non è casuale.(…) Perché il riformismo accetta i valori che la società in cui opera gli trasmette. Accetta gli stessi valori e cerca di abbassare il più possibile i livelli del disagio.” (4)
Oggi nemmeno questo obiettivo minimo, abbassare i livelli del disagio, sembra più possibile. Quando la riduzione del costo del lavoro è l’imperativo prioritario dell’imprenditorialità, e flessibilità precarietà contrattazione a termine o nessuna contrattazione stanno diventando regola e imponendosi come condizione imprescindibile per la prosperità economica. Quando i margini per una meno iniqua distribuzione della ricchezza prodotta sono sempre più ridotti, e “emendare” il sistema appare ormai un’ipotesi irrealistica. E’ questo che paralizza le sinistre, le irretisce tra la minoritaria ma inesausta retorica di una radicalità impraticabile nella situazione data, e politiche che finiscono per essere solo brutte copie della linea economica neoliberistica; le quali d’altronde pagano ben poco anche sul piano dei consensi, e aprono invece pericolosi spazi al riemergere delle destre. Né migliori prospettive sembrano aspettare le varie “terze vie” periodicamente estratte dal cilindro di qualche imbonitore da fiera (vedi le mistificatorie e nemmeno più così sicure fortune di Blair e del suo ispiratore Giddens).
Ma è lecito alle sinistre perseverare nell’asfissia di questa “non politica” in cui negano se stesse? E’ ragionevole ancora una volta porre al centro dei propri programmi l’impresa, e più precisamente l’impresa industriale manifatturiera, ad essa riservando facilitazioni e incentivi, ad essa concedendo lavoro sempre più flessibile e meno costoso, onde aumentarne l’efficienza e la produttività? Senza considerare che l’industria è il settore che non solo inquina maggiormante ma che più pesantemente ha licenziato negli ultimi decenni e tuttora licenzia, che dunque nulla garantisce ai fini occupazionali. E senza domandarsi, o comunque ritenendo irrilevante, che cosa le imprese in questione producano, e se tali prodotti rispondano in qualche modo a bisogni presenti nella società. Automobili, magliette, telefonini, scarpe da ginnastica? Non fa differenza. Ciò che conta è produrre, far crescere il Pil. Continuando insomma a muoversi all’interno di un’economia distruttiva, si direbbe senza nemmeno rendersi conto della sua distruttività.
Forse una via per reinventare la propria funzione critica le sinistre potrebbero rinvenirla sulla traccia indicata da Napoleoni, provando a non accettare “i valori che la società in cui operano gli trasmette”. Facendo magari un’operazione di “autocoscienza” (per usare una vecchia parola su cui è cresciuto il femminismo) guardandosi allo specchio e cercando di riconoscere in sé quel tanto, non poco, dei valori dominanti nella società attuale che - come tutti d’altronde - hanno più o meno inconsciamente assimilato. Per impegnarsi a valutarne la possibile rispondenza, o la totale discrasia, rispetto a quelli che sono stati, e tuttora dovrebbero essere, gli obiettivi delle sinistre, anzi le ragioni stesse del loro esistere, riassunti nella loro sostanza dalla “giustizia-sociale-come-fine”, e domandarsi infine se davvero sia il caso di chiamarli ancora “valori”. E dunque tentare di intravvedere che cosa si potrebbe, si dovrebbe, “mettere al posto del capitalismo”, per dirla con Keynes. Non, per carità, progettando impossibili “città del sole”, disegnando “progetti alternativi” completi di tutto. Forse basterebbe, per cominciare, dire “ciò che non siamo”, ciò che noi sinistre non possiamo essere, e “ciò che non vogliamo”, ciò che non possiamo volere, anzi nemmeno accettare, dei cosiddetti valori che la società ci trasmette.
Il primo “valore” da rifiutare dovrebbe essere il dominio incontrastato della ragione economica, criticato dagli stessi grandi vecchi della disciplina, come Adam Smith e Stuart Mill, che pure parlavano quando la ricchezza disponibile e gli strumenti della sua produzione erano infininitamente inferiori a quelli attuali; e oggi con crescente insistenza criticato anche dall’interno del “sistema”, come prova una ormai vastissima letteratura, sovente tutt’altro che espressione di un pensiero estremo. (5) L’economia ha, ha sempre avuto, un’importanza fondamentale per l’umanità come parte essenziale della sua stessa sopravvivenza, ma non può imporre le proprie regole e le proprie dinamiche a tutti i rapporti sociali, secondo la tendenza omogeneizzante e onnivora tipica del capitalismo, e in particolare posta in opera con massima efficacia dal capitalismo neoliberista. Non può dunque conformare a sé, quale istanza decisiva e insindacabile, tutte le scelte politiche.
Il secondo “valore” da rifiutare, d’altronde in piena coerenza col primo, è la “quantità” come misura di tutto il “positivo”, su cui fonda la propria certezza la crescita produttiva illimitata, assunta come prioritario obiettivo economico. E’ ormai largamente diffusa la consapevolezza che l’aumento costante della produttività e della produzione non agisce, non più, per la riduzione delle disuguaglianze, al contrario da qualche decennio le accresce. E sono notizie diffuse da fonti insospettabili, come l’Onu e la Fao, a dirci che la ricchezza oggi esistente, qualora fosse meno iniquamente distribuita, sarebbe sufficiente a garantire benessere all’umanità intera; che il cibo giacente nei frigoriferi delle imprese occidentali, oppure distrutto deliberatamente o involontariamente (circa il 40 per cento di quello prodotto) basterebbe a sfamare tutti, come illustra nel modo più convincente Piero Bevilacqua in un suo recente prezioso libretto, straordinaria sintesi della distruttività umana al servizio del profitto in agricoltura e zootecnia (6); che i mezzi tecnici resi disponibili dal progresso scientifico potrebbero consentire a tutti anche un elevato livello di comfort, purché non usati esclusivamente per l’utile di pochi; che oggi “portare l’umanità al di là del bisogno” non è più, può non essere più, utopia. E ciò ripropone l’ipotesi, su cui Napoleoni si interrogava, di affrontare “in termini diversi la questione della scarsità (…) e della categoria opposta, l’abbondanza, (…) e del superamento di ogni e possibile scarsità (…) Che è la determinazione di un nuovo modo di concepire l’economia.”(7) In effetti la definizione standard dell’economia come “il comportamento umano in quanto influenzato dalla scarsità” appare sempre meno calzante nella società dell’iperconsumo e dello spreco; nella quale però – spreco supremo e oltraggioso – si continua a morire di fame.
Il terzo “valore” che le sinistre non possono permettersi di accettare, tanto più quando anche personaggi di tutt’altra estrazione come Luttwak o Soros lo rigettano, è “il danaro come religione”, per usare appunto le parole di Luttwak. E’ vero, le sinistre hanno lontane tradizioni di parsimonia, ma da tempo non sembrano propense a sottrarsi alle sirene della ricchezza. Fin dagli anni Settanta si profilava quella accondiscendenza verso il consumismo di cui ho già detto, che infatti in Italia trovava il Partito comunista in totale dissenso di fronte al coraggioso e lungimirante invito di Enrico Berlinguer all’austerità. E d’altronde il prevalere di una linea decisamente economicistica conduceva a privilegiare politiche redistributive rispetto a diritti civili e democratici, non certo secondari nel rapporto di lavoro, come ha severamente rilevato Bruno Trentin (8). E’ proprio su questi valori “altri”, accantonati nell’ubriacatura dei consumi, che le sinistre dovrebbero seriamente puntare, e non credo che specie da parte dei giovani mancherebbe la risposta. Perché dopo tutto chi ha detto che ricchezza significhi necessariamente danaro, possesso di cose? Esistono altre richezze, che non si riducono nell’essere distribuite, anzi nello scambio e nella diffusione si accrescono: il sapere ad esempio, gli affetti, l’amicizia, il senso della comunità. Chi ha detto che non esistano – magari non ancora chiaramente formulate e leggibili – altre domande da appagare, oltre al reddito, ai consumi, all’affermazione del proprio io: domande anch’esse oggi riservate al privilegio di pochi fortunati, che la possibilità di coltivare la propria mente rende in qualche misura meno soggetti ai condizionamenti di massa? I “No glob” sono una testimonianza in questo senso.
Quarto “valore” da condannare senza riserve è quello espresso nel popolare aforisma che afferma: “il tempo è danaro”. Valore anche questo strettamente intrinseco al precedente, ma che implica sensi e conseguenze di enorme portata, e merita perciò qualche particolare attenzione. Perché il tempo è una categoria al cui interno si colloca il vivere umano in tutte le sue espressioni. Non è un caso che il tempo sia una dimensione di cui solo la specie umana ha coscienza conoscenza e scienza, che ha studiato, calcolato, misurato, analizzato, suddiviso, rapportandolo dapprima al movimento degli astri e ai cicli naturali, poi imparando a riprodurne il cammino e a leggerlo in orologi via via più esatti, capaci di computarne frazioni infinitesimali. Dopotutto che altro è la vita di ognuno di noi, o quanto meno il contenitore della nostra vita, se non un dato numero di anni, mesi giorni ore minuti, che ci viene dato di trascorrere sul Pianeta Terra? Ed è lungo lo svolgersi di questo tempo, e nella qualità del suo impiego, che la nostra esistenza assume carattere e fisionomia propri, determinandosi per le funzioni, gli interessi, gli obiettivi, i rapporti, che ognuno sceglie, o è costretto ad accettare, per conseguire non solo il necessario alla sopravvivenza ma quanto ritiene utile o desiderabile alla pienezza del proprio essere. Che accade quando tutto ciò viene equiparato al danaro, ridotto all’aumento del proprio reddito, identificato con la produzione e la disponibilità di ricchezza soltanto materiale? Accade quello che l’economista Robert B. Reich brillantemente descrive ne “L’infelicità del successo” (9) raccontandoci di gente largamente abbiente ma forsennatamente impegnata ad accrescere la propria retribuzione e il proprio livello di consumo, incapace di pensare la vita e il mondo se non in termini di “valore aggiunto”. O quello che ci mostrano certi film americani i quali, per ora, scherzano su gente che vive di telefono e computer, e solo per questa via comunica e perfino si ama, senza nemmeno mai incontrarsi. O quella generalizzata tendenza all’assunzione acritica dei principi dell’economia e del mercato in ogni comportamento, che ho rapidamente analizzato e indicato come “inquinamento sociale”.
Quinto “valore” non più accettabile è l’illusione della inesauribilità della natura, e la presunzione del diritto umano al suo illimitato sfruttamento. Cioè il “valore” su cui si è impiantata e continua a reggersi l’evoluzione economica degli ultimi due secoli, e di cui (occorre ripeterlo e senza mezzi termini) anche le sinistre sono state pienamente e irresponsabilmente partecipi: non solo fino a ieri ignorando il rischio ambientale, ma - quando finalmente hanno dato segni di avvedersene - trattandolo come un “a parte”, un tema estraneo ai problemi sociali e ai grandi filoni del dibattito politico, da delegare a qualche “esperto” o peggio a qualche “tecnico” di partito. Come se la natura, il consumo di natura (metalli, legno, pietre, sabbia, acqua, petrolio, gas) non fosse la base indispensabile di ogni attività economica; come se le alterazioni apportate all’ambiente naturale dal privato che produce merci non rappresentassero un danno per l’intera collettività; come se la natura non fosse in ogni momento parte essenziale del nostro esistere, quando mangiamo quando beviamo quando ci laviamo quando respiriamo; come se il pianeta Terra non fosse una quantità finita, e non esistessero limiti fisici al nostro agire vivere produrre consumare. Questa è oggi la nuova, tremenda, scarsità. E’ in essa che dovrebbe - prima o poi dovrà - trovare motivo e senso una nuova razionalità economica, “un nuovo modo di concepire l’economia”, capace di recepire e accettare “la finitezza non come negatività”.
Sesto “valore” da abiurare è quella tenacissima fede nel progresso che pervade l’intera nostra cultura, e che le sinistre hanno abbracciato nel modo più acritico (in qualche misura anche in conformità a certi aspetti delle dottrine storicistiche che appartengono alla loro radice teorica). In gran parte identificato con l’evoluzione scientifica e tecnologica - a loro volta assunte in assoluto come l’espressione massimamente qualificante della specie umana e del suo agire, garanzia per un divenire puntualmente portatore di miglioramenti nel nostro esistere - il progresso è stato visto come strumento irrinunciabile per il superamento stesso dell’ingiustizia sociale: che non a caso si è chiamato appunto “progresso sociale”. Modificare un atteggiamento così profondamente strutturato nel gruppo può risultare tutt’altro che facile. E tuttavia non dovrebbe nemmeno essere così difficile se si riflette su quanto la storia ha dato e dà come “progresso”: per fare un solo esempio - ma ce ne sarebbero non pochi di ben più terrificanti - pensiamo a quell’artificializzazione dell’agricoltura e della zootecnia che, separate dalle regole dei cicli naturali, sono state ridotte a “un ramo subalterno dell’industria chimica” (10), e sono oggi tra le cause prime dello squilibrio alimentare del mondo. Oppure sulla tenace quanto funesta convinzione di poter ovviare al deterioramento ecologico mediante l’uso di dispositivi tecnici, al quale praticamente si è limitato finora l’impegno politico sul problema ambiente, con i risultati che sappiamo. O su quella distorsione mentale, strettamente derivata dall’idea di progresso, che meccanicamente e a prescindere da ogni altra specificazione giudica in positivo il “moderno”, il “nuovo”, per cui non è raro sentire leader di sinistra affermare convinti (peraltro esattamente come quelli di destra) la necessità di rinnovamento e di modernizzazione, si tratti di trasporti, di produzione industriale, di organizzazione del lavoro, dell’intero paese, e annunciare programmi conformi.
Pervenire a un netto giudizio critico e a una lucida capacità di distacco rispetto a quelli che costituiscono la principale costellazione valoriale della nostra società, e che si traducono nelle “attitudini comuni alle società che hanno beneficiato del modo internazionale di arricchimento”(11), per usare parole di Partant, significa andare oltre il rifiuto del mercato quale regolatore generale dell’allocazione delle risorse, e l’auspicio di restituzione di potere allo stato, secondo la proposta da tante parti avanzata. Significa negare la validità dell’accumulazione quale obiettivo primario, inseguito mediante una crescita del prodotto sottratta a ogni regola e discrimine, e dunque mettere in discussione non solo il neoliberismo, ma il capitalismo di ieri e di sempre. Più ancora significa muoversi in direzione opposta a quella dell’“intera cultura occidentale”, che al capitalismo fornisce base epistemologica, ragione ideologica e supporto etico; proporsi l’azzardo di una rivoluzione tutt’affatto diversa da quelle del passato, priva di qualsiasi ipotesi di confronto violento o di sovvertimento improvviso, ma centrata sulla consapevolezza che la produzione, nei modi in cui si è storicamente via via configurata – a partire dalla società schiavista e dalla servitù della gleba, fino alla forza-lavoro concepita e usata come merce, e mediante lo sfruttamento della natura ritenuto insindacabile diritto della specie umana - è stata ed è aggressività e dominio. E che questo non è più accettabile.
Note
1) John Meynard Keynes, “Prospettive economiche per i nostri nitpoti”, op. cit. p. 68.
2) Inge Kaul, “ I beni pubblici globali, un concetto rivoluzionario”, in “Le Monde Diplomatique” eedizione italiana, maggio 2000.
3) Joseph E. Stiglitz, In un mondo imperfetto, Mercato e democrazia nell’era della globalizzazione, Donzelli Editore, Roma 2001, p.23
4) La libertà del finito nel “Discorso sull’economia” di Claudio Napoleoni, Conversazione con Claudio Napoleoni, op. cit. pp.22-23
5) E’ inutile sottolineare che le opere qui citate sono solo una parte minima delle numerosissime in qualche modo allineate su queste posizioni.
6) Piero Bevilacqua, La mucca è savia, Ragioni storiche della crisi alimentare auropea, Donzelli Editore, Roma 2002.
7) La libertà del finito nel “Discorso sull’economia” di Claudio Napoleoni, Conversazione con Claudio Napoleoni, op. cit. p.23
8) Bruno Trentin, La città del lavoro, Feltrinelli, Milano 1998
9) Robert B. Reich, L’infelicità del successo, Fazi Editore, Roma 2001
10)Piero Bevilacqua, La mucca è savia, op. cit.
11)François Partant, Que la crise s’aggrave! op. cit.
Quelli che, come me che scrivo e voi che leggete, stanno dalla parte di gran lunga privilegiata del mondo hanno forse perso il significato drammatico della parola straniero. Se i rapporti sociali fossero perfettamente equilibrati, la parola straniero, con i suoi quasi sinonimi odierni (migrante, immigrato, extra-comunitario) e le loro declinazioni nazionali (magrebino, islamico, senegalese, rom, cinese, cingalese, eccetera), sarebbe oggi una parola neutrale, priva di significato discriminatorio. Non sarebbe più una parola della politica conflittuale. E invece lo è, e in misura eminente.
Se consultiamo costituzioni e convenzioni internazionali, traiamo l’idea che esiste ormai un ordinamento sopranazionale, che aspira a diventare cosmopolita, dove almeno un nucleo di diritti e doveri fondamentali è riconosciuto a ogni essere umano, per il fatto solo di essere tale, indipendentemente dalla terra e dalla società in cui vive.
Questo è un progresso della civiltà. Nelle società antiche, lo straniero era il nemico per definizione (hospes-hostis), poteva essere depredato e privato della vita. Il presupposto era l’idea dell’umanità divisa in comunità separate, naturalmente ostili l’una verso l’altra. Lo straniero, in quanto longa manus di potenze nemiche, era da trattare come nemico. Da allora, molto è cambiato, innanzitutto per le esigenze dei traffici commerciali. Il nómos panellenico e lo jus gentium, lontanissimi progenitori del diritto internazionale, nascono da queste esigenze. L’universalismo cristiano, in seguito, ha dato il suo contributo. Nella medievale res publica christiana e nello jus commune l’idea di straniero perde di nettezza, sostituita se mai, nella sua funzione discriminatoria, da quella di infedele o di eretico. E l’universalismo umanistico e razionalistico ha dato l’ultima spinta.
Il concetto di straniero, nella sua portata discriminatoria, non è però mai morto, anzi ha sempre covato sotto la cenere, a portata di mano per affermare "legalmente" l’esistenza di una nostra casa, di un nostro éthnos, di un nostro ordine, di un nostro benessere. I regimi totalitari del secolo passato vi hanno fatto brutale ricorso. Ad esempio, per restare da noi, la "Carta di Verona", manifesto del fascismo di Salò, all’art.7 dichiarava laconicamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri», come prodromo della confisca dei beni e dello sterminio delle vite. Una sola parola, terribili conseguenze.
Si può ben dire che, dopo quelle tragedie xenofobe, la "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo" del 1948 rappresenti, nell’essenziale, la condanna di quel modo di concepire l’umanità per comparti sociali e territoriali, ostili tra loro. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti»: l’appartenenza a uno Stato o a una società, piuttosto che a un’altra, passa in secondo piano e non può più essere motivo di discriminazione. Ciò che conta è l’uguale appartenenza al genere umano e la fratellanza in diritti e dignità non conosce confini geografici, etnici e politici.
Da allora, l’idea di una comunità mondiale dei diritti ha fatto strada. Le convenzioni e le dichiarazioni internazionali si sono moltiplicate e hanno riguardato ogni genere di diritti. Se si tratta di essenziali diritti umani, la protezione non dipenderà dalla nazionalità, riguardando tutte le persone che, per qualsiasi ragione, si trovano a essere o transitare sul territorio di un Paese che aderisce a questa concezione dei diritti umani e non è condizionata dalla reciprocità.
Tutto bene, dunque? La parola straniero non contiene oggi alcun significato discriminatorio o, almeno, è destinata a non averne più. Possiamo stare tranquilli?
Proviamo a guardare la questione dal punto di vista degli stranieri che stanno dalla parte debole e oggi si riversano nei nostri paesi. Essi sono alla ricerca di quelle condizioni di vita che, nei loro, sono diventate impossibili, spesso a causa delle politiche militari, economiche, energetiche e ambientali dei paesi più forti. Si riconoscerebbero costoro in quella "famiglia umana" di cui parlano le convenzioni internazionali sui diritti umani? Concorderebbero nel giudizio che la parola straniero non comporta discriminazione?
La trappola sta nella distinzione tra straniero "regolare" e "irregolare". Ciò che è irregolare, per definizione, dovrebbe trovare nella regola giuridica il suo antidoto: quando è possibile, per impedire; quando è impossibile, per regolarizzare. Invece, nel caso degli stranieri migranti, la legge promuove, anzi amplifica l’irregolarità, invece di tentare di ricondurla nella regola. Così facendo, è legge criminogena.
Fissiamo innanzitutto un punto: il flusso migratorio non si arresterà con misure come quote annue d’ingresso, permessi e carte di soggiorno, espulsione degli irregolari. Questi sono strumenti spuntati, che corrispondono all’illusione che lo Stato sia in grado di fronteggiare un fenomeno di massa con misure amministrative e di polizia. Esse potevano valere in altri tempi, quando la presenza di stranieri sul territorio nazionale era un fenomeno di élite. Oggi è un fatto collettivo che fa epoca, mosso dalla disperazione di milioni di persone che vengono nelle nostre terre, tagliando i ponti con la loro perché non avrebbero dove ritornare. Li chiamiamo stranieri "irregolari", ma sono la regola.
Siamo in presenza di una grande ipocrisia, che si alimenta della massa degli irregolari, un’ipocrisia che va incontro a radicati interessi criminali. Non ci sarebbe il racket sulla vita di tante persone che muoiono nei cassoni di autotreni, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva e in fondo al mare; non ci sarebbe un mercato nero del lavoro né lo sfruttamento, talora al limite della schiavitù, di lavoratori irregolari, che non possono far valere i loro diritti; non ci sarebbe la facile possibilità di costringere persone, venute da noi con la prospettiva di una vita onesta, a trasformarsi in criminali, prostituti e prostitute, né di sfruttare i minori, per attività lecite e illecite; non ci sarebbe tutto questo, o tutto questo sarebbe meno facile, se non esistesse la figura dello straniero irregolare, inerme esposto alla minaccia, e quindi al ricatto, di un "rimpatrio" coatto, in una patria che non ha più.
La prepotenza dei privati si accompagna per lui all’assenza dello Stato. Per la stessa ragione, per non essere "scoperto" nella sua posizione, l’irregolare che subisce minacce, violenze, taglieggiamenti non si rivolgerà al giudice; se vittima di un incidente cercherà di dileguarsi, piuttosto che essere accompagnato in ospedale; se ammalato, preferirà i rischi della malattia al ricovero, nel timore di una segnalazione all’Autorità; se ha figli, preferirà nasconderne l’esistenza e non inviarli a scuola; se resta incinta, preferirà abortire (presumibilmente in modo clandestino).
In breve, lo straniero irregolare dei nostri giorni soggiace totalmente al potere di chi è più forte di lui. I diritti valgono a difendere dalle prepotenze dei più forti, ma non ha la possibilità di farli valere: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute, all’integrazione sociale, al lavoro, all’istruzione, alla maternità…
Davvero, allora, la parola straniero, nel mondo di oggi, è priva di significato discriminatorio?
Possiamo da qui tentare una sintetica conclusione, molto parziale, sul tema della sicurezza e della legalità, oggi così acutamente avvertito. Quella sacca di violenza che è il mondo degli irregolari è una minaccia non solo per loro, ma per tutta la società. La condizione dello straniero irregolare, su cui incombe la spada di Damocle dell’espulsione, sembra essere studiata apposta per generare insicurezza, violenza e criminalità che contagiano tutta la società. Quando si metterà mano alla legge n. 189 del 2002 (la cosiddetta Bossi-Fini) sarà utile rammentarsi di queste connessioni.
Non credo sia errato, e neppure azzardato, affermare che George Bush sia ormai sul viale del tramonto (nonostante il bagno di folla in Albania) e che anche gli Stati Uniti non stiano tanto bene o, addirittura, in una crisi di egemonia; ripeto di egemonia e non di potenza militare. Tutto questo dovrebbe confortare, ma anche preoccupare perché la crisi di egemonia dell’impero più potente del mondo (anche militarmente) può dare brutte sorprese.
Bush è andato in minoranza al Senato e al Congresso e ancora è in corso di disfacimento il suo gruppo di potere, i suoi uomini di governo, e anche il vecchio Powell gli dà contro.
Il fatto è che la politica di «esportazione della democrazia» con la forza delle armi non ha funzionato. Il dato di fatto, abbastanza nuovo, è che gli Usa hanno vinto le guerre d’Afghanistan e Iraq ma non riescono a concluderle. Per un certo verso è peggio della sconfitta in Vietnam: in Iraq e Afghanistan gli Usa continuano a dover essere presenti e a perdere uomini. A proposito di queste due guerre Stefano Silvestri sul Sole 24 Ore del 12 giugno scrive: «Una cosa è certa: le operazioni in Medio Oriente e in Afghanistan hanno dimostrato l’efficacia altissima delle nuove tecnologie e delle nuove impostazioni operative, ma poi hanno anche rivalutato il ruolo centrale dell’uomo, del singolo soldato e della stessa quantità di soldati necessari per esercitare un effettivo controllo del territorio, nonché della migliore strategia per prevalere nei nuovi conflitti.
Siamo ancora lontani da una soluzione a questi problemi». Negli Usa il bilancio della Difesa è salito a 481 miliardi di dollari, ma pochi uomini legati al loro popolo riescono a tenere in scacco la superpotenza, che è obbligata a inviare altri soldati.
Ma non si tratta solo delle guerre che non finiscono, c’è anche la crisi di due istituzioni fondamentali dell’impero americano: la crisi della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale come ben documenta Antonio Lettieri sul sito di «Eguaglianza e Libertà» (www.eguaglianzaeliberta.it). La Banca mondiale non riesce più a fare prestiti in grado di dare un rendimento di almeno un miliardo di dollari per pagare i suoi 13 mila funzionari. Analoga crisi patisce il Fondo monetario internazionale, quello nato per iniziativa di Keynes. Dopo che Brasile e Argentina hanno scelto, con sacrifici certamente, di liberarsi del debito nei confronti del Fondo.
Questi due strumenti del potere Usa sull’intero mondo ormai appartengono al passato, ai tempi della globalizzazione unipolare, cioè Usa. Ora - cito sempre Lettieri - «L’unipolarismo cede il passo alle nuove potenze regionali. Per rappresentare questa nuova realtà è stato coniato un acronimo: i BRICS vale a dire Brasile, Russia, India e Cina. La globalizzazione va avanti ma non c’è più una “guida suprema”, in grado di imporre le sue regole e il suo credo».
E c’è da aggiungere ancora qualcosa su come vanno le cose all’interno degli Usa. Due, mi pare, sono i fenomeni più rilevanti.
Innanzitutto la crisi del ceto medio che è stato il fondamento del modo americano di vita e della relativa pace sociale. Il ceto medio è sempre più indebitato. La bolla edilizia è scoppiata e sono in molti quelli che non riescono più a pagare il mutuo e che vanno in malora.
In secondo luogo c’è la crescita del debito americano con l’estero e l’acquisizione di titoli di stato Usa da parte di altri paesi (credo che in testa ci siano Cina e Giappone). Il punto è che la grande America sta diventando il più grande debitore del mondo. Ma anche questa grande debolezza è grandemente pericolosa. Faccio un esempio assai semplice: supponete di avere un grande debitore, che vi deve un sacco di soldi e non paga. Dovrebbe essere ai vostri piedi, ma si dà il caso che quel debitore è armato, molto ben armato. E allora a voi che cosa resta da fare?
Per Bush non va bene, ma anche noi siamo un po’ preoccupati.
Finché la crescita del prodotto sarà l’obiettivo primo del nostro agire economico, anzi dell’intera nostra esistenza, è inutile sperare uguaglianza, o anche solo meno disuguaglianza: più sfruttamento, più povertà, più esclusione, sono i soli strumenti che ancora (non sappiamo per quanto) possono garantire aumento del Pil. E’ inutile sognare un ambiente risanato o anche solo un po‘ meno inquinato e dissestato, perché l’attività produttiva non può cessare di crescere, e insieme alla produzione cresce la quantità di rifiuti ch’essa rovescia sul mondo mentre diminuiscono le risorse non rinnovabili. E’ inutile illudersi che ogni scoperta scientifica e tecnologica venga debitamente testata e controllata nella sua possibile nocività prima di trovare applicazione industriale e diffusione commerciale, perché questo andrebbe a lederne la capacità competitiva e l’immediato aumento della profittabilità. E’ inutile attendere una reale parità tra uomini e donne perché l’organizzazione industriale planetaria non può rinunciare all’attività di “produzione e manutenzione della forza lavoro” dovunque erogata a costo zero dalle donne e integrata nei meccanismi di accumulazione. E’inutile auspicare pace: nell’attuale situazione di crisi dell’accumulazione come categoria portante del sistema, le guerre, grandi e piccole, sono necessarie per far quadrare i conti del mondo.
Questo, semplificato e concentrato con schematicità volutamente apodittica, è ciò che in queste pagine ho cercato di sostenere, e di cui d’altronde non pochi altri si dicono convinti. E non mi riferisco soltanto a un certo numero di ambientalisti, ai rari economisti fuori dal coro, agli intellettuali di varia estrazione già più volte citati. Penso ad esempio al folto gruppo di studiosi dell’Undp (United Nations Development Programme), che valendosi anche di collaborazioni altamente qualificate, ha dato vita a partire dal 1990 alla preziosa serie dei Rapporti annuali sullo Sviluppo Umano, in cui si analizzano e si affrontano i problemi delle società del mondo con una chiarezza di giudizio, un’ampiezza di sguardo, e soprattutto un coraggio che non ha confronti con altri istituti e raramente anche con singoli osservatori indipendenti; non a caso trovando pochissimo ascolto negli ambienti che “contano”, accademici e politici.
Esemplare in questo senso è il Rapporto del 1996, specificamente dedicato alla crescita, che - si afferma - si è imposta nei rapporti economici e sociali come fine a se stessa, e che come tale, nella sua mera dimensione quantitativa, politici e responsabili di governo perseguono ciecamente, senza preoccuparsi della sua qualità né delle sue conseguenze, anche quando ne sia già accertata la negatività, senza “sforzarsi di evitare una crescita senza lavoro, senza equità, senza libertà, senza radici e senza futuro.” Quando invece sarebbe dovere di chi detta la linea politica ed economica di un paese “domandarsi via via dove la crescita lo sta conducendo, e chi ne trarrà beneficio. La crescita sta creando lavoro? Sta aprendo opportunità per le future generazioni? Risponde alla cultura locale? La gente è partecipe di questo processo?” Insomma - si insiste - che senso ha auspicare crescita senza indicarne fini, contenuti, conseguenze? Senza in sostanza porsi le domande che gli stessi fatti dell’economia dovrebbero suggerire: “Crescita di che cosa, e per chi? Crescita di inquinamento che richieda altri dispositivi antinquinamento? Crescita di criminalità che impieghi schiere di poliziotti? Crescita di incidenti d’auto che comporti tante riparazioni? Crescita di reddito solo per i più ricchi? Crescita di armamenti militari? Non è proprio questo che la gente vuole, e però tutto questo è parte della crescita del Pil.” (1)
Critiche alla crescita come fine primo e irrinunciabile dell’ economia sono state d’altronde formulate in tempi non sospetti - sia pure in termini più moderati, anche perché rapportate a situazioni molto lontane dalla nostra - addirittura dai padri fondatori della disciplina economica. A partire da Adam Smith il quale, pur usando il reddito individuale come indicatore sintetico dello sviluppo economico, non considerava affatto il dato economico strettamente determinante della realtà di un paese sotto tutti gli aspetti. Lo ha notato nel suo lavoro più recente Paolo Sylos Labini: “In tutta ‘La ricchezza delle nazioni’ - scrive - scorre l’idea che lo sviluppo economico è un obiettivo desiderabile solo se serve a promuovere lo sviluppo civile, che è un concetto ben più importante e più ampio, giacché include non solo la ricchezza, la salute e l’istruzione, ma anche la libertà culturale e politica.”(2) E, a conferma di questa posizione che oggi tutti giudicherebbero economicamente eretica, cita un brano tratto dalla “Teoria dei sentimenti morali”: “Che cosa si può aggiungere alla felicità di un uomo in salute, privo di debiti e con la coscienza a posto? In tale situazione ogni ulteriore fortuna può appropriatamente essere detta superflua, e se egli si esalta per tale superflua aggiunta, ciò deve essere l’effetto della più frivola leggerezza”. (3)
Ma a riprendere il discorso di Smith, e a spingerlo su una linea ben più radicale, è John Stuart Mill. Non solo elaborando la nota teoria dello “stato stazionario”, che necessariamente dovrebbe succedere allo “stato così detto progressivo”, in quanto - come, a suo avviso, tutti gli economisti dovrebbero “più o meno distintamente” vedere - “l’incremento della ricchezza non può essere illimitato”, ma con coraggio intelligenza e ironia illustrandone i pregi rispetto al mondo in cui si ritrova. Non gli piace, dichiara, “l’ideale di vita di coloro che pensano che la condizione normale degli uomini sia quella di una lotta per andare avanti; che l’urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che rappresenta il modello esistente della vita sociale, sia la sorte maggiormente desiderabile per il genere umano, e non piuttosto uno dei più tristi sintomi di una fase del processo produttivo”; teme il rischio che la bellezza della Terra “venga distrutta dall’aumento illimitato della ricchezza e della popolazione” e che più “nulla sia lasciato all’attività spontanea della natura”; si scusa pertanto per essere tra quelli che “rimangono relativamente indifferenti al tipo di progresso economico che suscita di solito le congratulazioni dei politici: il semplice incremento della produzione e della accumulazione”. (4)
Non accetta tuttavia che il “modo di pogresso umano” del suo tempo debba essere definitivo. E insiste: “spero sinceramente che i nostri discendenti si accontenteranno di essere in uno stato stazionario molto prima di trovarsi costretti ad esso dalla necessità”. Precisando però che “condizione stazionaria del capitale e della poplazione non implica affatto uno stato stazionario del progresso umano”, ma al contrario signfica più spazio per il progresso umano e sociale, e per “perfezionare l’arte della vita”, ciò che sarebbe molto più facile se le menti umane “non fossero più assillate dalla gara per la ricchezza”. Nel frattempo concedendosi di sognare qualcosa di simile a quello che i “No glob” invocano come “un mondo diverso”: freno della crescita demografica, niente enormi fortune, lavoratori ben pagati, orari di lavoro più brevi, tempo libero sufficiente per dedicarsi alle cose amene, e soprattutto migliore distribuzione, leggi che favoriscano l’uguaglianza. Auspicando che per lo meno “finché la ricchezza continuerà a rappresentare il potere, e il diventare più ricchi possibile continuerà ad essere oggetto della ambizione universale, la via per giungere alla ricchezza sia aperta a tutti.”(5)
Come si vede, i primi teorici del capitalismo non sembrano concepirlo come un sistema economico così necessariamente fondato sulla propria ininterrotta esponenziale valorizzazione, alla maniera in cui oggi viene rappresentato; al contrario mostrano di ritenere possibile, e desiderabile, una società in cui l’accumulazione di richezza non si ponga più, né per i singoli nè per la collettività, come l’obiettivo supremo, e in cui vengano privilegiati altri valori e altri piaceri; in cui soprattutto la ricchezza non sia più appannaggio di pochi. Con accenti che parrebbero pensati come la più calzante e puntuale critica del nostro mondo.
Queste idee sono poi destinate a trovare il loro più completo e ricco dispiegamento nel pensiero di Keynes, autore celeberrimo della cui opera però – e davvero non senza motivo – sono note e ampiamente seguite solo quelle parti che, prese a sé stanti, potevano risultare omogenee all’economia dominante e quindi utilizzabili al sostegno delle sue politiche; come ci fa notare Giorgio Lunghini nel poporre e commentare la pubblicazione italiana di un prezioso gruppo di suoi saggi “minori”, apparsi tra le due guerre. In realtà tutta la sua opera è pervasa non solo da una netta severità di giudizio, ma perfino da una sorta di aristocratica insofferenza nei confronti del capitalismo. “Non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo”(6), scriveva nell’ immediato dopoguerra; e se lo sopportava, e anzi si impegnava ad aggiustarlo in qualche modo, era solo perché non vedeva come sostituirlo, almeno per qualche tempo ancora, fermamente rifiutando però di credere alla ineluttabilità delle sue “leggi”. E di questo ampiamente ci parla in “Prospettive economiche per i nostri nipoti”. Dove, riflettendo sul “processo di accumulazione secondo l’interesse composto” verificatosi a partire dal XVI secolo - una quantità “da far vacillare la fantasia” - si dice convinto che “l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico”.
Quando ciò avverrà, quando cioè “l’accumulazione della ricchezza non sarà più un importante problema sociale”, e potremo considerarci “fuori dal tunnel della necessità economica”, la vita umana potrà trasformarsi. Allora “dovremo avere il coraggio di assegnare alla ‘motivazione’ danaro il suo vero valore. L’amore per il danaro come possesso, e distinto dall’amore per il danaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche, che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.” Fino allora dovremo accettare usura, avarizia, amore del danaro fine a se stesso, e conservare tutte quelle pratiche economiche che, per quanto turpi e ingiuste in sé, sono però “utilissime nel produrre e accumulare capitale” e nel “determinare la distribuzione della ricchezza”. “Ma il momento non è ancora giunto,” diceva. “Per almeno altri cent’anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no.” (7)
Correva l’anno 1930. Cento anni non sono ancora trascorsi. Keynes, morto nel 1946, non ha assistito a quella rivoluzione tecnologica che ha scardinato l’organizzazione del lavoro, spalancato voragini nelle statistiche dell’impiego, buttato all’aria regole da sempre date per indiscutibili; non è stato testimone di quello sconvolgimento planetario che l’informatica ha consentito e che abbiamo chiamato globalizzazione; non si è trovato di fronte al tremendo guasto dell’ambiente, lui che prima della guerra si preoccupava di proteggere i monumenti e la bella campagna inglese, ma già allora aveva capito che “le bellezze naturali non hanno valore economico”; non ha visto lo sfrenarsi del consumismo, il moltiplicarsi di vite divorate tra produzione e consumo, cui solo le merci (da fabbricare vendere acquistare possedere usare gettare) sembrano dare ragione e senso, lui che invitava il suo prossimo a dedicarsi a impegni “non economici” una volta soddisfatti i bisogni essenziali, e a “coltivare l’arte della vita”. Soprattutto non ha saputo come clamorosamente e beffardamente la storia avrebbe smentito la sua convinta previsione secondo cui “l’umanità stava procedendo alla soluzione del suo problema economico”; come la soluzione si sia in realtà avverata ma solo per una minoranza, e come l’enorme quantità di ricchezza prodotta non sia riuscita a sconfiggere l’iniquità del mondo. Forse, se avesse avuto vita, molto prima che trascorressero i cent’anni previsti Keynes avrebbe deciso che “l’accumulazione della ricchezza non riveste più un significato sociale importante”. (8)
Oggi politici, economisti, e quanti con l’economia hanno rapporti attivi e decisionali, non debbono affatto “fingere con sè stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no”, come Keynes riteneva - per qualche tempo ancora - inevitabile. Semplicemente sono convinti che solo l’utile sia giusto, e identificano l’utile con l’accumulazione, incredibilmente ancora fiduciosi del suo “significato sociale”. O quanto meno si comportano e si esprimono come se così fosse. Con qualche eccezione. Che non riguarda solo i non molti economisti ecologisti, già sopra citati, e i rari economisti su posizioni di radicale condanna dell’ordine oggi imperante, essi pure più volte menzionati, ma anche alcuni altri del tutto privi di propensioni estremizzanti e però con uno spiccato interesse verso i problemi sociali, i quali nei loro ultimi lavori hanno assunto posizioni decisamente critiche nei confronti della valutazione della crescita come un fatto in sé innegabilmente positivo.
E’ il caso di Giorgio Fuà il quale, nel suo libro intitolato appunto “Crescita Economica”, dopo un’ampia analisi della scarsa validità del Pil come indicatore di benessere e la proposta di usare in sua vece “una nozione di prodotto sociale”, giunge a “domandarsi se l’oggetto studiato – la crescita della produzione di merci – meriti davvero tutta l’attenzione che economisti, politici e pubblico in generale continuano a dedicargli”. Perché, sostiene, ciò che aveva ragion d’essere in una situazione storica in cui la produzione era certo “uno dei fattori principali (anche se non l’unico) da cui dipendeva il benessere”, non vale più oggi, soprattutto nella “parte ricca del mondo”, dove la vastità dei mercati e la quantità di merce prodotta “hanno raggiunto dimensioni tali che ulteriori aumenti non presentano più connotati così nettamente positivi dal punto di vista del benessere della popolazione”: oggi, dice, “dobbiamo smettere di privilegiare questo tema e dedicare maggiore attenzione ad altri temi”. E non accetta il riferimento alla povertà dei paesi terzi come alibi all’inseguimento della crescita, affermando che occorre “contrastare la concezione imperante per cui un singolo modello di sviluppo e di vita (oggi quello centrato sulla crescita delle merci) viene proposto ed accettato come l’unico valido; e apprezzare che ogni popolazione cerchi la via meglio corrispondente alla sua storia, ai suoi caratteri, alle sue circostanze, e non si senta inferiore ad un’altra per il solo fatto che quella produce più merci.” (9)
E’ il caso anche di Paolo Sylos Labini. Fedele a quello che chiama “l’approccio smithiano”, cioè alla necessità per la scienza economica (necessità oggi ampiamente disattesa) di aprirsi alle altre discipline sociali e utilizzarne le analisi, più volte nella sua vasta opera si è trovato a considerare la gravità delle ricadute negative del sistema industriale e della crescita produttiva, in particolare per quanto attiene il dissesto dell’ambiente (10). Ma di recente ha assunto posizioni di dichiarata condanna nei confronti dello sviluppo economico “visto come un bene assoluto”, anche in rapporto ai paesi più poveri. Certo “Lo sviluppo rappresenta un obiettivo socialmente fondamentale fino a quando il reddito individuale della maggioranza della popolazione non raggiunge un certo livello critico. Dopo che la gente in generale è in grado di soddisfare i bisogni essenziali, e di ottenere un certo ammontare di comodità, lo sviluppo economico diviene sempre meno importante e il consumismo tende a diffondersi e ad assumere connotati patologici (…) e cresce in modo tumultuoso il fiume di beni frivoli e perfino dannosi.” Insomma “per i paesi progrediti – circa un quinto dell’umanità – lo sviluppo non è più un obiettivo importante sotto l’aspetto della disponibilità dei beni.” Non si deve inoltre dimenticare che lo sviluppo “Nel suo corso distrugge molti valori tradizionali e determina mutamenti profondi nei modi di vita e nei sistemi di idee: l’ininterrotto processo di adattamento non può svolgersi senza gravi pene”. (11)
Già parecchio prima anche Claudio Napoleoni si era posto domande su questo tema cruciale, e nell’86 - a un paio d’anni dalla sua morte, avvenuta nell’88 - senza esitazioni affermava: “La crescita produttiva materiale, da un certo punto in poi, è sempre creatrice di malessere, anziché di benessere”; e aggiungeva che la crescita non è difendibile nemmeno a favore dei paesi poveri, che vengono costretti ad adeguarsi a “modelli improponibili”, e “condannati a una rincorsa nella quale essi sono sempre e necessariamente perdenti.” (12) E nell’87 ribadiva: “E’ dimostrato che la crescita indefinita di beni materiali da un lato incontrerebbe limiti invalicabili nella esauribilità delle risorse, dall’altro comporterebbe crescenti costi ambientali.” (13).
Un’altra bocciatura drastica e senza attenuanti della crescita viene formulata da uno di coloro che ho indicato come i “critici-complici” del sistema economico attuale, cioè Edward N. Luttwak. Con il pragmatismo al limite della brutalità che gli è proprio, dopo avere ripetuto che l’iniquità è intrinseca alla struttura stessa del “turbocapitalismo”, attacca quanti si dicono convinti che il sistema abbia la soluzione anche per questo problema, e la proponga anzi come “panacea di ogni male”: essa dovrebbe consistere “in una crescita economica perenne e sempre più sostenuta, grazie a nuova teconologia, nuova liberalizzazione e nuova globalizzazione” . Ma non si vede a che serva “il precetto di una crescita più rapida”: in realtà “nessuno spiega né come mantenere elevata nel tempo tale crescita, né perché dovrebbe ridurre le disuguaglianze anziché farle aumentare ancor più (…) E’ illogico ritenere che un processo che si è tradotto in un determinato risultato, in questo caso l’aumentare delle disuguaglianze, solo perché ulteriormente accelerato possa improvvisamente iniziare a generare il risultato contrario”. E conclude affermando “il ricorso ai poteri dello Stato” per “una politica di ridistribuzione del reddito” come “l’unico rimedio possibile all’incessante gonfiarsi delle disparità”, e in sostanza “la necessità di superare questo modello economico”. (14)
Le citazioni potrebbero continuare. Ma, al di là delle non poche posizioni critiche nei confronti della crescita come precetto di un’economia dimentica della propria funzione di servizio e sempre più lontana dalla sua stessa identità di disciplina sociale, si avverte ormai insistente l’insofferenza della realtà quotidiana che per tutti ne consegue. E’ una sorta di insostenibilità culturale, ma anche pratica, sperimentata nella ferialità quotidiana, di un’accumulazione che da astratta categoria economica si fa cumulo concreto di oggetti, sopraffattorio totalitarismo delle cose, inevitabilità della merce; e che trova qua e là voce, anche se spesso incerta, inadeguata, espressione di generico malessere magari affidata alle parole di un cantautore o alle gag di un comico, segnale comunque da non ignorare. Non mancano d’altronde, e si fanno frequenti, anche voci consapevoli e perspicue, a dirne il disagio e la irrimediabile insensatezza.
Esemplare in questo senso è il discorso pronunciato l’aprile scorso, in non so quale occasione celebrativa svoltasi a Roma nella sede del Senato, da Vaclav Havel, presidente della Repubblica Ceca. Ne riporto alcuni brani tra i più significativi: “Quanto è liberatorio, bello e salutare saper dire che non si capisce il mondo, che ci si tormenta per questo, che ci si stupisce di fronte ad esso e non lo si comprende! (…) Perché non stupirci osservando i giovani che non sanno più trascorrere neanche un minuto della loro vita senza i telefoni cellulari? Perché non stupirci vedendoli stare ore e ore a contatto quotidiano con una macchina piuttosto che con un essere umano? Perché non stupirci di fronte al fatto che produciamo energia atomica e poi non sappiamo come smaltire le scorie nucleari? Perché non stupirci vedendo scomparire i boschi, riflettendo sull’aria sempre più inquinata, sul fatto che la gente vive in enormi agglomerati senza il senso della comunità e senza alcuna regola morale? Perché non stupirci della crescita continua della produzione di automobili che ormai paralizzano il traffico in ogni capitale europea? Perché non stupirci del nostro proprio stupore di fronte alla constatazione di quanto e con quale facilità l’arma biologica riesca a distruggere continenti interi, quando siamo noi stessi a costruire queste armi nei nostri laboratori? Perché non stupirci che sempre meno persone – in Europa, in America, in Asia – producano valori concreti e sempre più persone nel contempo si occupino solo di speculazione, diventando ancora più ricchi di chi è in grado di produrli?”( 15) Non riesco a immaginare le reazioni dei presenti. Scandalo, sdegno contenuto, freddi sorrisi di circostanza, pochi doverosi applausi, la cinica indifferenza di sempre? Forse soltanto disattenzione, carte sfogliate, qualche pettegolezzo sussurrato al vicino, ostentata noia. Bisogna pur difendersi da discorsi insoliti e disturbanti.
Non con la sensibilità scoperta e un poco ingenua di un prezioso intellettuale prestato alla politica, ma con solidi argomenti scientifici, dice cose molto simili il fisico teorico Luigi Sertorio nella sua recente “Storia dell’abbondanza”. In essa percorre la vicenda del rapporto tra specie umana e natura, nei millenni svoltosi in condizioni di equilibrio obbediente alle leggi biologiche, fino alla rottura segnata dall’avvento dei motori termici azionati dai combustibili fossili, che ha dato il via all’era tecnologica con “la creazione di strumenti tanto potenti da modificare l’ecosistema proprio nella direzione dannosa per l’uomo”, aprendo all’economia prospettive senza precedenti e consentendo al capitale di accrescere a dismisura se stesso; moltiplicando la produzione di oggetti destinati rapidamente a trasformarsi in rifiuti, e riducendo ogni essere umano a mero consumatore, cioè un canale che collega “un contenitore di risorse, sempre più vuoto, a un contenitore di scorie, sempre più pieno”; incidendo sulla collettività fino a modificarne senso comune e principi etici: “Il benessere è divenuto crescita dei consumi (secondo gli economisti), il consumo è divenuto sinonimo di benessere, e quindi il consumo è divenuto etica”.(16)
In questa critica all’insensatezza della generale ubriacatura efficientistica produttivistica consumistica, a stupirci ancora una volta è Luttwak, da una vita fedele servitore dello Stato americano. “Il libero commercio come ideologia”, “Il danaro come religione”, “Lo shopping come terapia”: così si intitolano tre capitoli del suo libro qui più volte citato, e bastano pochi brani a illustrarne i contenuti. “Molti economisti contemporanei ignorano semplicemente l’eventualità che alcuni preferiscano vivere in un paese dall’economia un po’ meno efficiente (….) danno implicitamente per scontato che le società esistano allo scopo di servire le esigenze della propria economia, anziché l’esatto contrario, e non attribuiscono quindi alcuna importanza alla stabilità dell’occupazione (contano i livelli di profitto), alla preservazione delle tradizioni o alla necessità di evitare che le disparità in termini di reddito e di benessere divengano enormi” (17). “L’essenza politica (del turbocapitalismo) consiste nel trasferimento del potere dalle pubbliche autorità agli interessi economici privati e istituzionali. Ciò riduce inevitabilmente lo spazio di manovra del controllo democratico (…) L’ambiente sociale è sempre più lasciato alla terra di nessuno degli affari privati. Ciò rispecchia la caratteristica più sorpredente di questa nostra epoca turbocapitalistica: il progressivo deteriorarsi del primato della democrazia sull’economia.” (18) “Gli americani si rendono schiavi dei debiti per accumulare ogni sorta di articoli inutili, da potenti autocarri utilizzati come autovetture a statuine di porcellana acquistate in qualche televendita notturna (…) Per pagarsi la loro propensione all’acquisto lavorano ogni anno per un numero di ore superiore a quello di qualunque altro popolo (…) E’ vero che alcuni traggono dal proprio lavoro una soddisfazione tale da vivere per lavorare, ma fra coloro che invece lavorano solo per vivere, molti sono a caccia di straordinari, o perfino di un secondo lavoro, sacrificando la libertà personale e la vita privata pur di poter consumare di più.” (p.19)
George Soros dal canto suo accusa “il malessere e l’instabilità costitutivi di un orientamento di mercato che tutto compenetra”, e spiega: “Incerte sul loro stesso essere, le persone si appoggiano sempre più sul danaro come criterio di valore. E’ considerato migliore ciò che costa di più. Il valore di un’opera d’arte è stabilito in base al prezzo. Le persone meritano rispetto e ammirazione perché sono ricche. Quello che è sempre stato un mezzo di scambio ha usurpato il posto dei valori fondamentali, rovesciando il postulato della teoria economica. Quelle che sono sempre state delle professioni si sono trasformate in affari. Il culto del successo ha preso il posto della fiducia nei principi. La società ha perso il suo punto di riferimento.” (20)
Ma a scrutare in profondità l’”apocalisse culturale” verificatasi sul pianeta Terra nel secolo scorso, in sintonia con la ragione economica e in sua funzione, è Marco Revelli con “Oltre il Novecento”. Cercandone le cause più lontane e all’interno di un’analisi complessa, tra violenze, contraddizioni, catastrofi politiche, cogliendole nel “senso dell’illimitato”, nella “totale assenza di limiti posti alla produzione” fino all’”idea di una totale fabbricabilità” della natura, che qualificano il paradigma socio-economico dell’ultimo capitalismo. Accusandone la costante incongruenza tra mezzi e fini, per cui i fini vengono sopraffatti dall’ ingovernabile potenza dei mezzi, lo strumento tecnologico prevale su ogni scopo e idea, distruttività e produzione obbediscono alla stessa razionalità, e trovando nell’archetipo dell’ “Homo faber” il protagonista e il simbolo della volontà prometeica che lo muove. “Il peccato capitale del XX secolo – il luogo genetico del ‘mostruoso’ che in esso si è rivelato e, insieme, dell’irresponsabilità nei confronti di esso, dell’ incontrollato e dell’eticamente inerte – non sta tanto (o comunque non sta solo) nel delirio dell’ ‘homo ideologicus’, nelle dinamiche visionarie di una volontà malata di irrealismo, di mito e di utopia, ma piuttosto nella pratica smodata e incapace di limiti dell’ ‘homo faber’. Nel ‘realismo’ della sua razionalità irragionevole, trabordante, onnivora. Nella totalizzazione di quella ‘creatività distruttrice’ che connota appunto lo statuto del lavoro senz’opera, del lavoro resosi autonomo da ogni determinazione di contenuto e di senso del suo uso che non sia la mera efficienza, la pura e semplice assolutizzazione del ‘fare’.” (21)
Cose molto simili pensava Claudio Napoleoni. E’ soprattutto in un’ampia e complessa intervista apparsa nell’87 su “Palomar”, che a lungo si sofferma sul tema dei rapporti tra economia e società, con il tono discorsivo e frantumato di chi pensa a voce alta: “La centralità dell’economico…. non si può che prenderne atto, non possiamo chiudere gli occhi di fronte a questa realtà. Però … questa centralità va negata. Con questa avvertenza tuttavia… che sembra solo terminologica, ma le questioni teminologiche non sono mai in realtà solo nominali… Cioè ‘economico’ è una parola molto equivoca.. ‘economico’, ‘economia’, ‘economicità’, sono parole tutte equivoche per una ragione sostanziale. Il complesso di categorie, di discorsi, di ragionamenti, di leggi, di modelli, che appartengono a questo linguaggio sono stati pensati ed elaborati con riferimento ad una realtà sociale determinata, che è quella capitalistico-borghese. Il discorso economico prende consistenza e autonomia proprio in corrispondenza del prender consistenza e dell’autonomizzarsi della vita produttiva, del momento produttivo come dimensione predominante e prevaricante sulle altre.” E allora interrogarsi sulla centralità dell’economico diventa una domanda tautologica, dato che l’economia è questa. “Resta il problema se l’economia possa essere concepita in altro modo,” dice, e continua a riflettere: “Bisognerebbe probabilmente pensare ad un’economia in cui il momento dell’abbondanza – perciò della quiete in qualche modo, della tranquilla fruizione di ciò che si è conseguito – non si configura solo come necessaria base per andare avanti, ma come pacificazione, almeno relativa, rispetto ad una certa condizione storica”. E cita Keynes e Stuart Mill, l’ipotesi di uscita dallo stadio della crescita per entrare nello stato stazionario. Ma occorre tener presente che “uscire dal mondo della produzione significa in fondo uscire dal mondo dell’aggressione”, secondo “una linea in cui l’affermazione della soggettività non solo non coincide con l’affermazione del dominio, ma se ne distingue radicalmente”, e “diventa un’operazione che non si svolge più sotto il segno del soggettivismo”. E ciò significa in definitiva “recepire, confermare, accettare, tenere conto fino in fondo che l’uomo è un finito. Quindi accettare la finitezza non come negatività. Che però, diciamo, è il contrario dell’intera cultura occidentale”. (22)
Note
1)Undp. Human Developpment Report 1996, p. 5
2)Paolo Sylos Labini, Sottosviluppo. Una strategia di riforme, Laterza, Roma-Bari 2001, p.27;
3) Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1991 p. 58, citato da P. Sylos Labini, Adamo Smith, Relazione, op. cit.
4)John Stuart Mill, Principi di Economia Politica, UTET, Torino 1980, cap.VI, pp. 997-1003, passim.
5) Idem. pp. 1001-1002.
6) John Maynard Keynes, Esortazioni e profezie, Il Saggiatore, Milano 1983, p.12.
7) John Maynard Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, in John Maynard Keynes, La Fine del Laissez-faire e Altri Scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp.57-68, Passim.
8) Ibidem.
9) Giorgio Fuà, Crescita economica – Le insidie delle cifre, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 106-108, passim.
10) Cfr. Paolo Sylos Labini intervistato in: Carla Ravaioli, Il pianeta degli economisti, op. cit. pp.106-107, 119-122, 156, 185; Paolo Sylos Labini, I limiti della crescita, in Carla Ravaioli (a cura di) Lettera aperta agli economisti, op. cit. pp. 135-139.
11) Paolo Sylos Labini, Sottosviluppo, op. cit. p.142
12) Claudio Napoleoni, Come vorrei il 1987, in “Atti del Forum economico di Saint Vincent”, Supplemento a “I libri del Mondo”, n.1-2, gennaio 1987, pp. 91-93.
13) Cfr. Carla Ravaioli, Tempo da vendere, tempo da usare, op. cit. in appendice alla 2° e 3° edizione, La politica degli orari di lavoro, dialogo con Claudio Napoleoni.p.161
14) Edward N. Lutwak, La dittatura del capitalismo, op. cit. pp. 269-270.
15) Vaclav Havel, L’occidente e l’ossessione del nulla, in “La Repubblica” 5 – 4- 2002, p. 1-14.
16) Luigi Sertorio, Storia dell’abbondanza, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, p. 140.
17) Edward N. Lutwak, La dittatura del capitalismo, op. cit., p.214
18) Idem, p.219.
19) Idem, p.240
20) George Soros, La società aperta rivisitata, in “Reset”, n.34, Febbraio 1997, p.33.
21) Marco Revelli, Oltre il Novecento – La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001, p.57
22) La libertà del finito nel “Discorso sull’economia” di Claudio Napoleoni, Conversazione con Claudio Napoleoni, op. cit. pp.15-17
«La globalizzazione è la possente rivoluzione passiva del capitale della nostra epoca, capace di inglobare elementi di socialità, di mondo simbolico e di valori. A questa trasformazione non è sufficiente opporsi solo sul terreno del controllo dello Stato e della gestione del potere. Il riformismo si propone come una forma temperata di questo processo. La riforma della rivoluzione aspira a trascendere questo orizzonte». Concisa ma chiara «piattaforma» del convegno su «la riforma della rivoluzione» che si chiude oggi a Roma, organizzato da Transform, una rete europea di gruppi di movimento, associazioni culturali, riviste, intellettuali, prossima a (ma non coincidente con) la Sinistra europea. Il punto è rimettere a fuoco «cosa è per il nostro tempo la questione della trasformazione», passando però obbligatoriamente attraverso la riformulazione del concetto e della pratica di quella parola, «rivoluzione», tanto cruciale per la sinistra di ogni tempo e paese quanto carica della zavorra di esperienze fallimentari. E non inganni la coincidenza delle date del convegno con il novantesimo anniversario della Rivoluzione d'ottobre: se indietro guarda Transform, non è a Lenin ma semmai a Gramsci. Non solo perché, genericamente, si tratta oggi di pensare la forma della rivoluzione nel capitalismo globale come Gramsci pensò ai suoi tempi la forma della rivoluzione in Occidente. Ma anche, specificamente, perché di Gramsci può tornare oggi attuale la contrapposizione della «riforma morale e intellettuale» alla «rivoluzione passiva» di cui il capitalismo si avvale per rinverdire continuamente i propri consensi.
Questa almeno è l'ipotesi, in apertura del convegno, di Giuseppe Prestipino, che di Gramsci enfatizza «la concezione 'revisionista' della rivoluzione», ovvero il passaggio da una visione della trsformazione incentrata sulla presa del potere (pur da Gramsci non disdegnata) a un'altra incentrata sulla lotta per l'egemonia: «tras-formare il mondo è meglio che ri-voltarlo, mettendolo sottosopra per lasciarlo, nella sostanza, qual era prima», sintetizza Prestipino. Che legge la globalizzazione nella chiave di una rivoluzione passiva particolarmente efficace, in quanto fa leva su una spoliticizzazione delle masse aiutata e supportata dai grandi apparati massmediatici, il che rende la «riforma intellettuale e morale» più che mai prioritaria. Non solo. Tornare a Gramsci è cruciale, secondo Prestipino, anche per affrontare la questione del rapporto fra «il conflitto originario» capitale-lavoro e i conflitti che oggi si danno attorno all'ambiente, al sesso, all'identità culturale: l'antitesi gramsciana fra dominio e subalternità è in grado di comprenderli tutti (da cui la fortuna odierna di Gramsci nei cultural e post-colonial studies), sì da «congiungere», e non semplicemente sommare o giustapporre, diverse soggettività nel progetto comunista.
Il che però non si dà nella pratica, com'è noto dalla cronaca che non smette di mostrarci le contraddizioni, più che i congiungimenti, fra soggetti e soggettività differenti. Ne offre una prova del resto la sezione del convegno dedicata all'analisi del lavoro, anzi del rapporto fra lavoro e vita. Qui la fenomologia di partenza è la stessa, ma la sua interpretazione diverge considerevolmente non appena entra all'opera un'ottica sessuata. Per Mimmo Porcaro, l'intreccio sempre più compenetrato di lavoro e vita nel capitalismo di oggi va tutto e solo a detrimento della vita: il lavoro la invade e tende a «formalizzare» tutto ciò che in essa alla formalizzazione resiste; in particolare, «quando la vita 'entra' nel lavoro, non sono le capacità relazionali a trasformare positivamente il lavoro, ma è quest'ultimo a imporre le sue logiche alle prime». A tutt'altre conclusione arriva però Lia Cigarini, a partire dall'analisi del lavoro femminile. «Il parziale superamento della divisione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva non ha annullato lo specifico legame che le donne hanno con la vita e il lavoro di cura», sottolinea Cigarini, e questo legame, e relative capacità relazionali, le donne lo portano nel lavoro, modificandolo. Di più, le donne non si consegnano in toto alla misura dei soldi e della competizione, e questo può fare barriera contro l'alienazione. Non più segmento marginale ma ormai protagoniste centrali nel mondo del lavoro (ma Antonella Picchio dà a sua volta una lettura diversa e meno ottimista del mercato del lavoro femminile), le donne obbligano a ripensare l'organizzazione del lavoro per tutti, e la pratica femminista del partire da sé può funzionare da precedente per la necessità oggi pressante di incoraggiare la narrazione dell'esperienza di lavoro, passaggio ineludibile - ma complicato, secondo Marco Berlinguer, dalla difficoltà di mettere in contatto narrazioni diverse - per una nuova stagione di conflitto.
La cui immaginazione continua a dover fare i conti con l'osso duro della crisi delle forme politiche moderne, la rappresentanza in particolare, e con l'impermeabilità delle sedi politiche tradizionali al portato dei movimenti e delle culture di movimento: Hilary Wainwright chiude oggi il convegno ragionando di questo. Potere, autonomia, conoscenza, network sono le parole chiave elaborate, o rideclinate, dai movimenti nell'arco lungo di tempo che va dagli anni Sessanta del Novecento a oggi. Scollare il potere dal dominio e abbandonare la tradizionale visione di un'azione politica che cala dall'alto della leadership su una società oggettivata e passiva a favore di una pratica della trasformazione in cui il soggetto del cambiamento mette in gioco e cambia se stesso nel cambiare la realtà, resta «il» punto su cui la «riforma della rivoluzione» deve misurarsi. Pena il capovolgersi della rivoluzione nel suo contrario, di cui la storia ci fornisce troppi esempi.
Da: Giorgio Ruffolo, Lo specchio del diavolo. La storia dell'economia dal Paradiso terrestre all'inferno della finanza , Torino, Einaudi 2006, pp. 131, 9,00 €
Il capitalismo privo di mura
Alla parola globalizzazione, ormai inflazionata, si danno molti, troppi significati. Ne sottolineiamo uno che ci sembra cruciale: la controffensiva capitalistica. Perché? E contro chi ?
Abbiamo già raccontato l'inizio di questa offensiva, quando, nei primi anni Settanta, gli Stati Uniti di Nixon si sottrassero alla disciplina monetaria di Bretton Woods, imponendo di fatto al mondo il dollaro come moneta universale.
Verso la fine degli anni Settanta si scatena la seconda parte della controffensiva, contro lo Stato sociale. Il capitalismo «avanzato» si sottrae alla pressione del lavoro organizzato e dello Stato, esercitata nel quadro del compromesso socialdemocratico.
Quella pressione, effettivamente, era aumentata d'intensità. Il riformismo aveva accentuato la sua pressione sul capitalismo: le sue istanze economiche, la spesa sociale e le istanze salariali, insomma i suoi costi; senza essere capace di aprire alla società nuove prospettive extraeconomiche ideali, nuove forme di gratificazione sociali e culturali. Era rimasto entro un contesto materialistico. Si era appannato cosí il suo carisma, mentre si erano appesantite le sue strutture e le loro conseguenze inflazionistiche.
L'aumento dei costi interni si accompagna con un aumento della pressione competitiva esterna che, nel nuovo clima di instabilità mondiale, spinge le imprese a recuperare la flessione dei profitti con forti aumenti della produttività. Questa è l'origine della «controffensiva», che si sviluppa in tre direzioni.
La prima è una nuova rivoluzione tecnologica. Una applicazione massiccia e sistematica delle innovazioni immateriali (elettronica e informatica) al processo produttivo consente non solo di aumentare la produttività rispetto all'occupazione, ma, soprattutto, di trasformare il lavoro di fabbrica, omogeneo e massiccio, dell'epoca fordista, adattandolo alle esigenze di flessibilità di una produzione altamente differenziata e «istantanea» (come si dice, just in time). 11 che significa sciogliere la falange del proletariato in un ventaglio di gruppi diversificati e mobili fortemente soggetti ai mutamenti capricciosi della domanda; e quindi privati di quella solidarietà e continuità che costituivano la forza del proletariato tradizionale. Ciò rafforza enormemente il potere contrattuale del capitale e indebolisce di altrettanto quella del sindacato.
La seconda è la liberazione dei movimenti di capitale. Ne abbiamo già parlato. È evidente che la possibilità di spostare capitali ingenti in un batter d'occhio (un clic elettronico) da una parte all'altra del mondo attribuisce al capitale un immenso potere discrezionale rispetto alle scelte politiche «democratiche» dei governi: una capacità di ricatto che ne frustra le politiche.
La terza è una controrivoluzione culturale. Il compromesso socialdemocratico si fondava sulla base ideologica del pensiero keynesiano, favorevole all'intervento pubblico sulla domanda e sulla distribuzione delle risorse. La controffensiva capitalistica cavalca la riscossa del pensiero neoliberista, «monetarista» (se vogliamo una personalizzazione alternativa possiamo dire friedmaniano, dal nome di Milton Friedman) che respinge nettamente l'interferenza dello Stato nel Mercato e riporta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella sua capacità di autoregolazione.
Questa controffensiva assicura al capitalismo due fondamentali vittorie: la riconquista di un rapporto di forze vantaggioso rispetto al lavoro organizzato, disorganizzandolo; la conquista di una posizione di forza rispetto allo Stato nazionale.
Si può dire che nel caso degli Stati Uniti, della ormai sola Superpotenza mondiale, quest'ultimo evento non si verifica? Apparentemente sí. Ma se ne verifica uno altrettanto carico di cambiamento: la compenetrazione simbiotica tra l'élite capitalistica e il sistema politico, mai realizzatasi nel passato in una forma cosí estrema. L'America di Bush non è certo quella di Roosevelt. Somiglia piú a quella guidata da un presidente, generale e conservatore, come Eisenhower, che aveva anticipato profeticamente il predominio del «complesso militare industriale» (oggi dovremmo dire militare-finanziario) sul governo democratico. Inoltre, l'America non è solo la piú forte potenza politica e militare del mondo. È anche il Quartier Generale della finanza mondiale.
La «controffensiva» ha un altro effetto paradossale. La stessa Grande Impresa Industriale, quella cheGalbraith aveva definito la Tecnostruttura, viene invasa dal Mercato. La sua formidabile struttura gerarchica è disarticolata in una rete di centri di decisione largamente dotati di autonomia e collegati da rapporti di «convenienza», piú che di autorità. Il vero fulcro decisionale della grande impresa non è piú quello industriale, ma quello finanziario.
E finalmente, la rappresentante suprema del capitalismo globalizzato, nella società, la sua élite di classe, non è piú la borghesia nazionale, quella esaltata da Marx e da Schumpeter, ma una plutocrazia cosmopolita e apolitica. Il bisticcio si risolve se al termine «apolitica» sostituiamo quello «ademocratica».
INDICE
Doppio Spot (Preambolo)
Parte I – I “fondamentali”
1 - Beni § Servizi
2 - L’anima del sistema
3 – L’informazione-mercato
4 – I servizi-merce
Parte II – I fatti
1 – Globalizzati
2 – Il capitale di sempre?
3 – Il fallimento della sostenibilità
4 – L’inquinamento sociale
5 – Il dolore degli altri
6 - Liberazione a rischio
7 - L’artificializzazione del mondo
8 – I consumi e la guerra
9 – I conti sbagliati
Parte III – Le domande
1 - Il modello mancante
2 – Una crisi diversa
3 – Vecchie sinistre
4 – L’insostenibile crescita
Parte IV – Risposte?
1 – Quali valori
2 – L’accumulazione sociale
3 – Il mondo
4 – Forse l’Europa
Doppio spot ( Preambolo)
“Interrompiamo per qualche minuto di pubblicità,” annuncia il conduttore. E allo schianto delle Twin towers, indefinitamente riproposto e sempre inesorabilmente portatore della stessa carica di insopportabile tragedia, succede una levigata ragazza golosamente intenta a succhiare un cono gelato. Allo strazio di cadaveri e di viventi fatti a pezzi segue il gruppo gioiosamente ciarlero di un villaggio-vacanza, la desolazione di miserabili capanne in macerie dà spazio alla giovanissima coppia abbracciata in groppa a un motorino, il lutto di gente in fuga da ordigni mortali stacca su una bellissima pronta al fascino di una superveloce iperaccessoriata automobile e del suo possessore. La guerra cede alla felicità del consumo. L’ottimismo facile e dozzinale del mercato si alterna all’apocalisse.
E’ accaduto dall’11 settembre in poi, e continua ad accadere, da noi e dovunque, in tv pubbliche semipubbliche private. A volte senza neppure l’annuncio dell’ interruzione pubblicitaria. Come sempre d’altronde: spezzare un film un telegiornale un concerto un dibattito politico con lunghi intervalli di promozione commerciale è stata ed è la regola, e non vuole esitazioni nè pudori. Quella data che a giudizio di tutti avrebbe cambiato il mondo e la storia, e che senza dubbio non poche cose ha cambiato, non ha spostato minimamente la supremazia della merce. Sui televisori di tutto il pianeta continuano a scorrere in sequenza immediata immagini violentemente dissonanti. Nella disattenzione generale, o piuttosto nell’assuefazione a un mezzo che omologa tutti i messaggi, ci raggiunge la rappresentazione di una realtà scissa in due facce opposte ma in sostanza equivalenti, quasi i due termini di un’endiadi, in una sorta di narrazione allegorica, addirittura una metafora, della nostra realtà. Dopotutto perché mai separare merci e guerra? Non sono merci anche le armi? E non è la guerra il luogo del loro consumo?
La domanda mi era presente fin dal primo abbozzo di queste pagine destinate alla riflessione su un tema che senza retorica può definirsi “l’impero delle merci”. Ma dopo l’11 settembre mi si è posta sempre più perentoria, fino a situarsi al centro della materia, e a dettarne una lettura forse di radicale pessimismo, ma temo non lontana dalla verità.
Una volta che si rinuncia alle grandi cause ideologiche, ciò che resta è solo l’amministrazione efficiente della vita... o quasi solo questo. In altre parole, quando il livello di base della politica è costituito dalle attività depoliticizzate e socialmente oggettive di un’amministrazione competente e di un coordinamento degli interessi, l’unico modo per introdurre passione in questo campo, per mobilitare attivamente la gente, è la paura, costituente fondamentale dell’odierna soggettività. Per questa ragione la biopolitica è in definitiva una politica della paura, incentrata sulla difesa contro potenziali persecuzioni o molestie.
E’ questo che distingue una politica di emancipazione radicale dal nostro status quo politico. Qui non stiamo parlando della differenza tra due visioni, o tra due insiemi di assiomi, ma tra la politica basata su una serie di assiomi universali e una politica che rinuncia alla dimensione costitutiva stessa di ciò che è politico, affidandosi alla paura come ultima risorsa di mobilitazione: paura degli immigrati, del crimine, dell’empia depravazione sessuale, di un eccesso di Stato, con il suo fardello di tasse pesanti, delle catastrofi ecologiche, paura delle molestie. Il politicamente corretto è la forma progressista esemplare della politica della paura. Una siffatta (post) politica si basa sempre sulla manipolazione di un ochlos, o moltitudine, paranoide: è la terrorizzante mobilitazione di un popolo terrorizzato.
Così il grande evento del 2006 è stata l’adozione generalizzata delle politiche contro l’immigrazione, con il taglio del cordone ombelicale che le legava ai piccoli partiti dell’estrema destra. Dalla Francia alla Germania, dall’Austria all’Olanda, nel nuovo spirito di un’orgogliosa rivendicazione di identità culturale e storica, ora i partiti più importanti trovavano accettabile sottolineare che gli immigrati sono ospiti, e come tali devono adattarsi ai valori culturali che definiscono la società che li ospita: «E’ il nostro Paese, o lo ami o te ne vai».
L’odierna tolleranza progressista verso gli altri, il rispetto della diversità e l’apertura verso di essa, è contrappuntata da una paura ossessiva di essere molestati.
In breve, l’Altro va benissimo, a patto che la sua presenza non sia invadente, a patto che questo Altro non sia veramente un altro, la tolleranza coincide con il suo opposto. Il mio dovere di essere tollerante verso l’altro significa di fatto che non dovrei avvicinarmi troppo a lui, invadere il suo spazio. In altre parole, dovrei rispettare la sua intolleranza verso un mio eccesso di prossimità. Ciò che emerge sempre più come il diritto umano fondamentale nella società tardo-capitalistica è il diritto a non essere molestato, che è il diritto a rimanere a una distanza di sicurezza dagli altri.
Nella biopolitica postpolitica ci sono due aspetti che non possono che appartenere a due aree ideologiche opposte: quella della riduzione degli essere umani a "nuda vita", a Homo sacer, il cosiddetto essere sacro, l’oggetto delle competenze specialistiche di chi se ne occupa ma è provo, come i prigionieri di Guantanamo e le vittime dell’Olocausto, di qualsiasi diritto; e quella del rispetto per l’Altro vulnerabile, un rispetto portato all’estremo attraverso un atteggiamento di soggettività narcisistica che percepisce il sé come vulnerabile, costantemente esposto a una quantità di potenziali "molestie"». Può esistere un contrasto più netto di quello tra il rispetto per la vulnerabilità dell’Altro e la riduzione dell’altro a "nuda vita" regolata da una competenza amministrativa? Ma se questi due atteggiamenti scaturissero nientemeno che da un’unica radice? Se fossero due aspetti di un unico atteggiamento di fondo? Se coincidessero con quello che si ha la tentazione di definire la versione contemporanea di quel "giudizio infinito" hegeliano che afferma l’identità degli opposti?
Ciò che accomuna questi due poli è proprio il sottostante rifiuto di una qualsiasi causa superiore, l’idea che il fine ultimo della vita sia la vita stessa. E’ per questo che non c’è contraddizione tra il rispetto per l’Altro vulnerabile e l’essere disposti a giustificare la tortura, espressione estrema del trattamento degli individui come Homines sacri.
Nella Fine della fede, Sam Harris difende il ricorso alla tortura in casi eccezionali (ma ovviamente chiunque difenda la tortura lo fa come misura estrema; nessuno sosterrebbe seriamente che si può torturare un bimbo affamato che ha rubato una barretta di cioccolata). La sua difesa si basa sulla distinzione tra l’istintiva avversione che proviamo all’idea di assistere con i nostri occhi alla tortura o alla sofferenza di un individuo e la conoscenza astratta di una sofferenza di massa; per noi è molto più difficile torturare un individuo che ordinare a distanza lo sgancio di una bomba che provocherebbe la ben più dolorosa morte di migliaia di persone.
Dunque tutti noi siamo intrappolati in una sorta di illusione etica, analoga alle illusioni sensoriali. La causa ultima di questa illusione è data dal fatto che, nonostante la nostra capacità di ragionamento astratto si sia sviluppata enormemente, le nostre reazioni etico-emotive sono ancora condizionate da antichi e istintivi moti di compassione di fronte alla sofferenza e al dolore di cui siamo testimoni diretti. E’ questa la ragione per cui molti di noi trovano più ripugnante sparare a qualcuno a bruciapelo che non provocare la morte di mille persone che non possiamo vedere premendo un bottone.
Non sorprende che Harris faccia riferimento ad Alan Dershowitz e alla sua legittimazione della tortura. Per porre fine a questa sensibilità, condizionata dall’evoluzione alla manifestazione fisica della sofferenza altrui, Harris immagina un’ideale "pillola della verità", una tortura efficace equivalente al caffè decaffeinato o alla Diet-Coke: «un farmaco in grado di fornire sia gli strumenti per torturare che quelli per nascondere perfettamente la tortura» –introducono la logica tipicamente postmoderna della cioccolata lassativa. La tortura immaginata da Harris è come il caffè decaffeinato: ci dà il risultato voluto senza doverne subire gli spiacevoli effetti collaterali. Al famigerato istituto Serbskj di Mosca, la struttura psichiatrica del Kgb, fu inventato proprio un farmaco di questo tipo per torturare i dissidenti: un’iniezione vicino al cuore che rallentava il battito e provocava un terrificante senso d’angoscia al prigioniero. A un osservatore esterno sembrava che il prigioniero sonnecchiasse, mentre in realtà stava vivendo un incubo.
Per il povero Marx è proprio una nemesi. Lo hanno crocifisso per quel suo determinismo economico: che vergogna, ridurre tutta la lussureggiante fioritura delle idee al cieco brancolare degli interessi! Engels si provò a spiegare che non era proprio così: che bisognava intendere la cosa con un po' più di un grano di sale. Ma invano. E la vulgata staliniana del marxismo finì poi, compitando in modo barbarico la lezione dei maestri, per ribadire quella versione semplificata. Ma poiché la storia, come il buon Hegel sapeva, si vendica, il goffo catechismo deterministico di Stalin battezzò la più colossale e disumana impresa volontaristica della modernità: l'Unione Sovietica.
Ma ora, che succede? Che il determinismo economico risorge dalle sue ceneri: però, da destra. Una nuova vulgata neoliberista (pare che la nostra epoca non ci lasci che dei nei!) si afferma sotto forma di quello che potremmo chiamare un determinismo mercatistico. A dire la verità, più che di una teoria si tratta di una fede: perché - così come il complesso pensiero marxiano fu pietrificato nelle litanie staliniane - anche la lucida aritmetica degli economisti classici e le geometrie eleganti dei marginalisti sono state immerse in un brodo mistico.
Mercato e Mercati non sono più modelli di scuola, ma divinità imperscrutabili. Così, le società più ricche e più potenti della storia si paralizzano all'inizio di ogni settimana, nell'attesa trepidante dell'apertura delle Borse, le nuove ambigue Pizie del turbocapitalismo.
Quest'ansia è però controllata da una incrollabile certezza. Per sottrarsi allo stress, bisogna essere e mantenersi competitivi. Questo è il Verbo del nostro tempo turbinoso: correre come Alice sul tappeto perverso. Sacrificare ogni lusso - l'educazione, la salute, l'aria pulita, la sicurezza della vecchiaia e una decente prospettiva di lavoro stabile - all'esigenza di stare al passo. E questo passo si misura ormai alla stregua del mondo intero: la competitività è internazionale, o non è.
Ma che cos'è questa competitività internazionale che sola può propiziare la grazia imperscrutabile dei Mercati? Il fatto sorprendente è che nessuno l'ha mai definita. Proprio come Dio. Secondo Paul Krugman, insigne economista americano, che ha scritto nel 1997 un libro brillante sull'argomento, è "un'ossessione pericolosa". E prima ancora, è un concetto vuoto di senso. Non significa niente se applicata, come si fa spesso del suo proprio campo - che è quello del mercato in senso stretto - ai paesi, alle nazioni. Non c'è, del resto, metafora più fuorviante e melensa insieme di quella che rappresenta una economia nazionale come una impresa. L'azienda Italia diventò di moda nei tardi anni Settanta, anche tra gli allora giovani socialisti rampanti: li faceva sentire più moderni, più fichetti. Poi si è banalizzata, è diventata un must del linguaggio politico-manageriale. Più che una moda, però, questa metafora costituisce, dice Krugman, una vera ossessione: pericolosa, se la si prende sul serio. Se davvero si pensa che le nazioni competono tra loro come le imprese; e che ci siano imprescrittibili vincoli dettati da questa gara alla allocazione delle risorse tra usi pubblici e privati o alla distribuzione del reddito tra gruppi sociali.
Il fatto è che un paese non è un'azienda, non è mosso dalle sue motivazioni, non è sottoposto ai suoi limiti. Certo, sono entrambe forme di organizzazione sociale. Ma anche la gallina e l'uomo sono entrambi bipedi. L'impresa è un'attività strumentale promossa e diretta da soggetti precisi rivolti al fine del profitto. Ciò le impone dei vincoli, violati i quali fallisce; e la pone in concorrenza con altri soggetti rivolti allo stesso fine. La comunità nazionale è una collettività esistenziale dalla formazione e dai fini largamente indeterminati. Non ha una posta specifica da perseguire.
Non ha una linea di galleggiamento precisa da mantenere. Le nazioni, ovviamente, possono scomparire in una guerra o in una rivoluzione, ma non in un'Opa. Le società possono disgregarsi, ma non portano i libri in tribunale.
Insomma, le nazioni non corrono su una pista, testa a testa, per massimizzare una performance, perché non c'è nessuna misura di quella performance. Qual è la misura della competitività? A prima vista, sembrerebbe ovvio: il saldo della bilancia dei pagamenti correnti. Ma se così fosse l'economia americana, con il suo deficit esterno mostruoso, sarebbe la meno competitiva del mondo, mentre l'Europa, col suo rilevante avanzo commerciale, se la caverebbe brillantemente.
Non c'è dunque un concorso internazionale che ci obbliga a correre tutti nella stessa direzione. C'è - meglio, ci dovrebbe essere - una gara tra le nazioni per conseguire livelli sempre più alti di benessere. E per concorrere a questa gara, un'alta produttività, garantita da un elevato tasso di innovazione tecnologica, è vitale. Ma questa esigenza, che deve ovviamente tener conto dei risultati del mercato, deve essere armonizzata con le altre che assicurano la coesione sociale: la formazione, la salute, il lavoro, la sicurezza, oggi l'ambiente. Ora, lo stabilire i termini di questa combinazione - questo è il punto - è responsabilità politica della collettività. Essi non possono essere dettati dalle imperscrutabili leggi del mercato: anche perché ci sarebbe - come dire? - un grosso conflitto d'interessi.
Facciamo una congettura. Suppose that, (come diceva il grande Ricardo, per spiegarsi): supponiamo che gli economisti, stanchi di perseguire la cometa fuorviante del Pil (o Pirl che dir si voglia) inventino un metodo nuovo di contabilità sociale, che permetta ad ogni paese di costruire e di scegliere democraticamente la sua propria - diciamo così - WWW (Welfare Wishful Way, un indicatore desiderabile di benessere): una combinazione, necessariamente diversa per ogni paese, di obiettivi riguardanti lo stato auspicabile della ricchezza, della fiscalità, della disuguaglianza, della protezione sociale, della salute, dell'educazione, dell'ambiente. Coerente e, naturalmente, aggiornabile. Il successo di un paese sarebbe misurato non dalla sua capacità di crescere come Frankenstein, senza sapere perché e verso dove; ma dalla misura in cui si avvicina a quell'indice. La sua competitività reale con gli altri paesi sarebbe misurata dallo scarto relativo rispetto a quell'indice. Finalmente sapremmo davvero chi è il più bravo. E gli economisti recupererebbero pienamente la "degnità" sociale di una scienza che è sorta al servizio dell'uomo e non dei ricchi e potenti.
Finalmente, è proprio il caso di dire, un dibattito televisivo ha interrotto il monologo liberista. Non solo presentando il punto di vista scandaloso di Serge Latouche, la «decrescita», ma anche stabilendo nessi con due vicende che con il «pensiero unico» e le sue conseguenze hanno molto a che fare: la lotta della Val di Susa e la rivolta delle banlieues. E' accaduto mercoledì sera nella trasmissione di Gad Lerner, «L'infedele», su La 7, dove ci si è potuti rendere conto che «sviluppo» e «crescita» non sono idoli indiscutibili e ad una dimensione; di più, che «decrescita» non è un equivalente di «declino», e cioè che chi trova insopportabile l'adorazione del Prodotto interno lordo non necessariamente esulta se - come succede in Italia - questo indicatore truffaldino precipita.
Si tratta di altro: del fatto che l'economia non è una misura del benessere sociale, e che anzi venticinque anni di liberismo e le sue conseguenze globali, sociali e ambientali, hanno rovesciato questo presupposto, per cui si deve cercare un modo di vivere in cui l'economia torni al servizio della società. Questo dibattito, in giro per il mondo, in Francia, è molto ampio (come dimostra, ad esempio, la pagina che Le Monde ha dedicato poco tempo fa a «Il progetto locale», il libro di Alberto Magnaghi). In Italia invece è pressoché ignoto ai grandi media e a quasi tutti i politici, che ripetono come un mantra «crescita» e «sviluppo», oltre a scagliare anatemi e poliziotti contro le comunità che si ribellano, in Val di Susa e in centinaia di altri «cortili di casa», tanto da fare dell'intero paese un «cortile» da difendere dai Lunardi e dalle Bresso.
Nella trasmissione di Lerner, a sostenere con diverse sfumature queste tesi erano lo stesso Latouche, Luciana Castellina e Aldo Bonomi, di fronte ad alcuni economisti, i quali parevano stupefatti: Michele Salvati, che proponeva «indennizzi» per i valsusini (e Latouche chiedeva: quanto vale una montagna, un paesaggio?), o uno Zingales che, dagli Stati uniti, rispondeva invariabilmente «più mercato»: i problemi ambientali? Facile, basta «prezzare» l'aria, le foreste dell'Amazzonia... E quando Omeya Seddik, del Mib (Mouvement immigration banlieues), ha spiegato quel che sembra incomprensibile agli economisti, e cioè che l'alta velocità, ad esempio, non offre più movimento, ma provoca selezione sociale ed emarginazione (facendo salire i prezzi delle case, come a Marsiglia, e creando ghetti che prima non esistevano), la risposta è stata l'imbarazzo.
Di questa prima rottura del monologo liberista non possiamo che rallegrarci, qui a Carta. Per anni, in solitudine, abbiamo proposto le tesi di Latouche, cercando in ogni modo di allargare il dibattito anche da noi, e il numero del nostro mensile, Carta Etc. in edicola fino a domenica e intitolato «Prodotto locale pulito», lo testimonia: attorno alla «decrescita», alla storia di questa proposta e alle sue applicazioni scrivono Tonino Perna, Paolo Cacciari, Maurizio Pallante, Mauro Bonaiuti, Giulio Marcon e Alessandro Messina, insomma i principali interpreti italiani della critica allo sviluppo. E non è per caso che ai nostri abbonati, quest'anno, regaliamo l'ultimo libro di Latouche, «Sopravvivere allo sviluppo» (Bollati Boringhieri), più uno a scelta tra i precedenti libri del nostro amico francese. Ps. Per la precisione, agli abbonati regaliamo anche uno a scelta tra i libri di Luigi Pintor (pubblicati sempre da Bollati), fatto di cui andiamo particolarmente orgogliosi e che dovrebbe essere una buona ragione per fare l'abbonamento abbinato ai due giornali: 292 euro (Carta settimanale e mensile più manifesto postale) e 270 (Carta più manifesto coupon).
IL PROFLUVIO di immagini dell´orrore e le molte terribili storie individuali spezzano il cuore collettivo del mondo. Eppure, il realista sociologico che è in me chiede: fra un anno, chi saprà e vorrà sapere della catastrofe dello tsunami che oggi tiene tutti in suo potere? Questa domanda non è oziosa o peregrina. Porta, invece, al centro del tema.
Le catastrofi naturali non sono affatto pure e semplici catastrofi "naturali", ma merce da informazione molto effimera. Sono in tutto e per tutto eventi politici, moments of decision.
Ma nel rapido mutamento dei tipi di catastrofe (per fare solo tre esempi: "Chernobyl" sta per i pericoli globali della tecnologia moderna, "11 settembre" simboleggia i pericoli globali del terrorismo e "tsunami" ha ora rinnovato il ricordo della natura come colpevole, che, indifferente a tutti i tentativi di controllo tecnico-scientifico minaccia la vita sul pianeta) si può riconoscere il fatto che, con la violenza del pericolo percepita su scala globale, lo stato d´eccezione rischia di diventare la regola.
Ora come in passato vengono combattute guerre per il territorio e le risorse. Le guerre tra stati erano la più classica situazione di minaccia della prima modernità, ma nella seconda modernità, dopo la fine della Guerra fredda, le devastazioni e i pericoli simili a quelli generati dalle guerre, che preoccupano l´opinione pubblica mondiale e che turbano e angustiano ogni singolo individuo fin nell´intimo della sua esistenza, devono essere intesi in modo fondamentalmente diverso. Essi non corrispondono affatto al modello della guerra tra stati nazionali, bensì allo schema dell´alternativa tra gli effetti collaterali non intenzionali dei successi scientifici e della modernizzazione (il cui paradigma è Chernobyl, ma anche il vaso di Pandora scoperchiato dalle promesse dell´ingegneria genetica, della genetica umana, della nanotecnologia) e il modello della catastrofe intenzionale (il cui paradigma è il terrorismo di al-Qaeda, che mira alla vulnerabilità universale della società civile); oppure rientrano nel genere delle catastrofi naturali mass-medializzate, che hanno luogo in qualsiasi appartamento - come dire: il mondo nella condizione dell´osservatore coinvolto, senza via di scampo -. Questo nuovo capitolo della società mondiale del rischio si distingue da quelli precedenti per il fatto che le catastrofi naturali non vengono attribuite - come gli esiti collaterali catastrofici dell´agire tecnico o come le catastrofi intenzionalmente prodotte dalle reti terroristiche - a decisioni e attori umani (il governo, l´economia, la scienza), perlomeno non in primo luogo, ma appunto alla "natura assassina" o a "Dio punitore". La domanda politicamente esplosiva su colpa ed espiazione, errore e responsabilità, sollevata dai terremoti politici dopo Chernobyl e l´11 settembre, raramente cade nel vuoto.
Ciò significa che sull´onda della compassione mondiale stati e governi, traballanti per i loro insuccessi, possono svincolarsi dal poco confortevole ruolo dell´accusato e del briccone e assumere quello del soccorritore caritatevole e dell´eroe che organizza gli interventi di solidarietà dopo il disastro (aiuti umanitari, sistema di allarme, ricostruzione). Paradossalmente, le catastrofi naturali rappresentano per i politici ciò che per gli assetati è un´oasi nel deserto: essi possono ristorarsi alla fonte di una legittimazione che zampilla fresca. Magari, chissà, a qualcuno verrà in mente il cancelliere tedesco Schroeder (non sarebbe per la prima volta che si salva da un incombente crollo elettorale grazie a un´inondazione catastrofica); oppure il presidente americano Bush, che spera, nelle vesti di Superman dei soccorsi, di trasformare in fiducia la diffidenza che soprattutto il mondo mussulmano nutre nei suoi confronti.
Le catastrofi tecniche, terroristiche e naturali hanno una cosa in comune: il pericolo non è diretto, non ha indirizzi, non porta un´uniforme, è anonimo, non calcolabile, non prevedibile. Spesso non è nemmeno immaginato e rappresentabile ? fino a quando avviene la catastrofe. Il 10 settembre 2001 chi avesse preso sul serio il rischio terroristico sarebbe stato considerato un pazzo isterico; dopo il 12 settembre 2001 chi non lo prende sul serio è considerato un vile irresponsabile, fuori dal mondo. Questo effetto di conversione dell´esperienza della catastrofe spiega perché spesso chi nega il pericolo virtuale e ipotetico diventi, post hoc, un fondamentalista della difesa preventiva dal pericolo.
Dobbiamo confrontarci con la "diversità" di rischi che non solo sono costati la vita a migliaia di persone e hanno messo davanti agli occhi del mondo la vulnerabilità della civiltà. Essi hanno nello stesso tempo anche reso manifesta la generale mancanza di concetti e di orientamento. Le premesse sulle quali sono costruiti, da un lato, il sistema della sicurezza militare ? il principio della deterrenza ? e, dall´altro, il sistema della sicurezza tecnica ? la padronanza scientifica della natura ? non valgono più. Qui non soccorrono le formule probabilistiche sul rischio, e nemmeno l´arte discreta dello spionaggio militare o la pretesa di dominio della civiltà orientata verso le scienze naturali. Per quanto riguarda le minacce globali prevale la non-conoscenza, forse il non-poter-conoscere; peggio ancora: il non-sapere privo di consapevolezza. Un esempio a questo proposito è offerto dal mutamento climatico. All´inizio nessuno aveva, in senso letterale, alcun sentore del fatto che proprio l´impiego industriale dei cloro-fluoro-carburi (Cfc) come refrigeranti avrebbe contribuito al riscaldamento della terra e quindi al danneggiamento dello strato protettivo di ozono. Si trattò, appunto, di un "non-sapere privo di consapevolezza", che però proprio per questo ha dato un apporto non irrilevante al catastrofico, strisciante effetto collaterale del mutamento climatico.
Parliamo di "società mondiale del rischio" in un senso post-sociale, in quanto nella politica e nella società sia nazionali che internazionali mancano regole che indichino il modo in cui queste minacce indeterminate e non circoscrivibili vanno affrontate e quale strategia di risposta bisogna seguire. Pertanto, ogni nuova catastrofe diventa anche il luogo di svolgimento di un gioco di potere globale attorno alle regole future della politica mondiale. Gli interventi d´aiuto nelle situazioni di crisi possono servire agli Stati Uniti per indebolire agli occhi del mondo le Nazioni Unite sul loro stesso terreno, quello degli interventi umanitari? Oppure ? come in questo caso ? gli Usa lasciano la regia all´Onu?
Si dice che la speranza è l´ultima a morire. Con le nuove minacce, si può affermare che la distanza è la prima a morire. Finora i terremoti erano sempre avvenuti altrove. Anche adesso hanno scosso l´Asia, ma l´Asia è diventata improvvisamente Europa, è ovunque, è vicinissima: non esiste più la categoria degli altri! Non solo le placche terrestri si sono spostate, ma anche i continenti sociali - Asia ed Europa, America e Africa - si sovrappongono. Come è possibile? Non ultimo, perché si è diffusa sottobanco una nuova forma di vita transnazionale: la poligamia di luogo del turista medio. È stato il cosmopolitismo banale del turismo di massa - poco notato e ancor meno considerato - a far sì che negli ultimi vent´anni il terzo e il primo mondo si compenetrassero anche se con scandalosi contrasti ricco-povero. Questa mobilità diffusa - reale ma anche immaginaria e virtuale - ha conferito al disastro una peculiare valenza personale, al di là di tutti i confini geografici e sociali. In questa esperienza di crisi, di vulnerabilità personale, di mancanza di confini e di scambiabilità della propria situazione con quella degli altri il cosmopolitismo - in origine un´idea sublime dei filosofi - comincia, per quanto in modo distorto, a mettere radici nella prassi quotidiana di una solidarietà operativa. Anche la grande inondazione ha i suoi effetti collaterali inattesi: essa fonda la sfera pubblica mondiale. Essa fa dell´"altro", finora escluso, il nostro vicino nella trappola che il mondo è diventato. Costringe a costruire ponti comunicativi e fattivi al di là di tutte le frontiere linguistiche e di tutti i contrasti tra gruppi etnici, nazioni, religioni. Mondi separati cercano le vie della collaborazione. L´abuso ideologico è sempre in agguato, ma una cosa o l´altra potrebbe anche riuscire: un´isola separata, Sri Lanka, cerca di superare le ferite prodotte dalla guerra civile. Un altro stato che soffre di un grave dissidio interno, l´Indonesia, ha ceduto e ora apre ai soccorritori internazionali la provincia di Aceh, dove da decenni è in corso un sanguinoso conflitto con i separatisti. La ragione pragmatica otterrà forse una chance e gli stati vittime sperimenteranno la cooperazione permanente - massimizzando il loro vantaggio nazionale?
Questo sguardo cosmopolita stenta però a farsi largo nelle cronache. Le statistiche sui morti sono un macabro esempio a questo riguardo. Qui domina pressoché incontrastato lo sguardo nazionale. I morti tedeschi sono contati individualmente, "gli altri", invece, sono calcolati a cifre tonde, a migliaia. Il numero dei dispersi e dei feriti rimane imprecisato. Il ministro degli Esteri svedese è addolorato per il "trauma nazionale". Quale trauma? Quello degli indonesiani, degli indiani, dei thailandesi? No, quello degli svedesi! In questo modo viene disconosciuta la quintessenza cosmopolita di questa catastrofe globale e locale nello stesso tempo, dove hanno perso la vita svedesi e italiani e indiani e inglesi e tedeschi e thailandesi e danesi e americani e africani, e? e? e?.
Questo, però, non significa affatto che tutti accettino la stessa definizione del pericolo. Sostenere questo sarebbe un errore sostanziale. Quanto più chiaro diventa che i nuovi pericoli non possono davvero essere calcolati, pronosticati e controllati scientificamente, tanto maggiore è l´importanza delle percezioni culturali che possono differire radicalmente, in relazione ai retroterra storici del primo e del terzo mondo: "Ciò che gli uomini definiscono come reale è reale nelle sue conseguenze" (William Thomas).
E non ci sono nemmeno catastrofi "puramente" naturali. In esse è sempre implicato anche l´agire - o il non-agire - umano. Le barriere coralline che proteggevano dall´inondazione sono frantumate dall´industria edile per farne materia prima, le foreste di mangrovie vengono indecentemente disboscate, i sistemi di allarme non sono installati, il livello del mare si innalza a causa del mutamento climatico, i paradisi promessi al turismo di massa vengono messi in scena a ridosso delle coste, sicché il maremoto si trasforma in un´onda omicida, nel "trauma nazionale" dei paesi del Nord. Mentre nel primo mondo la "natura feroce" è indicata come principale responsabile e quindi viene rimosso l´apporto del proprio agire, nel terzo mondo si sta facendo strada la convinzione che la definizione del pericolo debba includere la minaccia recata dall´Occidente. Perciò, le prime colpevoli del riscaldamento della Terra, del conseguente innalzamento del livello dei mari e quindi, in ultima analisi, di questo disastro sono le nazioni industrializzate con il loro immenso consumo di energia. Questa volta per il presidente americano Bush sarà difficile chiamare alla "guerra contro la natura feroce", ma i movimenti fondamentalisti si potranno vedere confermati nella loro scelta di "terrore contro l´Occidente". La definizione del rischio potrebbe suonare così: per difenderci dalla prossima inondazione mortale dobbiamo proteggerci dalla globalizzazione portata avanti dagli stranieri infedeli e ricordarci delle nostre radici islamiche.
È questa l´ambivalenza politica che emerge con la catastrofe dell´inondazione: essa può contribuire all´affermarsi di uno sguardo cosmopolita, oppure può dare impulso al fondamentalismo antimoderno (non soltanto nell´Islam).
Dopo il terremoto di Lisbona del 1755 gli illuministi convocarono Dio davanti al tribunale della ragione umana. Dopo la catastrofe del reattore di Chernobyl finì sul banco degli imputati la promessa di sicurezza della civiltà tecnico-scientifica. Dopo la catastrofe dell´inondazione asiatica nei paesi colpiti direttamente e più duramente verrà chiamato in causa l´imperialismo della globalizzazione occidentale? Oppure si riuscirà a rendere credibile con aiuti duraturi la promessa occidentale di responsabilità cosmopolita per la sofferenza degli altri?
Traduzione di Carlo Sandrelli