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Il supercapitalismo inizierebbe verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando l’America aveva creato un capitalismo democratico, inteso come un’economia pianificata, sia pur diretta dalle grandi corporation. Le famiglie americane, che in quegli anni erano prevalentemente composte da operai e impiegati, godevano di salari decenti, di garanzie sindacali del posto di lavoro, di stabilità economica, di assicurazione sulla malattia e sui diritti alla pensione. In queste ultime situazioni, favorite da uno stabile sviluppo economico, garantito da poche grandi imprese, come la General Motors, in un’America abbastanza chiusa e protezionista, si potevano riconoscere i principi fondamentali di una democrazia sostanziale che, d’altra parte, non aveva politicamente mai avvertito incertezze o vocazioni antidemocratiche. Non era proprio l’età dell’oro. Ma si trattava comunque del capitalismo democratico.

La rivoluzione, o comunque il grande cambiamento, si verifica sul finire appunto degli anni Settanta, quando l’economia americana si apre a mercati più concorrenziali e il potere si sposta dai cittadini verso i consumatori e gli investitori e così gli aspetti democratici del capitalismo declinano. L’affermazione è tassativa, sicché gli spocchiosi nostrani adepti del libero mercato e della concorrenza dovrebbero forse avere oltre che un sussulto alla lettura delle pagine di Robert Reich, – professore a Berkeley, già ministro del lavoro sotto la presidenza Clinton e attualmente uno dei consiglieri economici di Barack Obama – anche qualche spunto di umile autocritica. Insomma, il libero mercato e la concorrenza spietata fra le imprese, cioè il supercapitalismo, hanno minato, se non distrutto, una parte assai importante della democrazia e dei diritti dei cittadini. La tecnologia, la globalizzazione, la deregolamentazione hanno dato potere ai consumatori e agli investitori e i cittadini l’hanno perduto. Tutto questo ha creato una concorrenza spietata fra le industrie americane e straniere per cui, per attrarre i consumatori, si abbassano i prezzi e il metodo più semplice è quello di tagliare salari e diritti dei lavoratori. Il cittadino ha perso, non il consumatore, che con la deregolamentazione dei mercati finanziari diventa alla fine investitore nelle nuove potenti istituzioni, i fondi pensione e quelli di vario genere, oltre alle continue invenzioni di nuove strutture per attivare il risparmio da parte del sistema bancario. E anche qui, con i rischi che abbiamo appena vissuto, è la concorrenza l’unica responsabile.

E’ allora il momento di trarre qualche conclusione. La prima e più inquietante è che è pur vero che la globalizzazione e il supercapitalismo riducono la differenza fra i vari paesi – prendiamo ad esempio Cina e Stati Uniti –, ma all’interno di ciascun paese aumentano vertiginosamente le disuguaglianze, con conseguenze politiche ancora imprevedibili. E con esse aumentano l’insicurezza (non solo del posto di lavoro) e la paura del futuro, alle quali si accompagna l’unico potere dello Stato, quando non gli è tolto o col quale collude qualche grande corporation nel controllo sulle comunicazioni, sui movimenti, sulle opinioni. Gli Stati supercapitalisti arretrano continuamente fino a mettersi a disposizione di un nuovo padrone: la concorrenza nel libero mercato che soddisfa, facendo scendere i prezzi, il consumatore (e l’investitore, ma qui Reich sbaglia) che ormai si è dimenticato di essere un cittadino con dei diritti.

Il libro è rivoluzionario: al centro del supercapitalismo c’è la concorrenza che uccide la democrazia. Così scompare la tanto amata tesi – il luogo comune degli economisti – che il libero mercato è prodromico alla democrazia. E puntualmente alla prima pagina del libro l’autore ricorda questa tesi sbandierata dall’economista Milton Friedman nel marzo del 1975 a sostegno di Pinochet, la cui dittatura brutale durò ben altri quindici anni. Strano destino: i due morirono a poche settimane di distanza verso la fine del 2006. Infine, la concorrenza necessaria a soddisfare il consumatore e l’investitore diventa un male inesorabile e incurabile.

E come libro rivoluzionario l’autore invita indirettamente a una rivolta: il cittadino schizofrenico è inconsciamente esortato a far rientrare lo Stato a garantirgli i diritti di varie generazioni, secondo la terminologia di Bobbio, e a limitare il ruolo delle corporation, soprattutto nella loro operatività e struttura. Ma le ricette predisposte sono poche sicché personalmente non so neppure quanto l’autore si sia reso conto che aver sottolineato la dissociazione consumatore-cittadino, l’aver indicato nella concorrenza e nel libero mercato la caduta senza ritorno della democrazia, sia un manifesto rivoluzionario. Se identifichiamo la classe medio-alta con la nuova borghesia, a partire dalla fine degli anni Settanta la trasformazione è evidente: da lavoratori e impiegati a professionisti e dirigenti, con un’indagine spietata sui lobbisti e sugli avvocati che condizionano a Washington sia l’operato del governo, sia del potere legislativo, c’è ovviamente l’assimilazione borghesia-corporations.

Un’osservazione finale mi appare necessaria per inquadrare e valutare, entro i suoi giusti limiti, un libro che deve essere letto da chiunque voglia capire il mondo in cui viviamo e non si lasci affascinare dai falsi sacerdoti che vanno noiosamente, ma insistentemente predicando che tutto si può risolvere con la concorrenza e il libero mercato. Un libro, tuttavia, che tradisce un difetto di certa cultura americana, in base alla quale le crisi finanziarie sono delle malattie temporanee che in qualche modo si risolvono. Di conseguenza il sistema americano non è e non può essere oggetto di discussione, perché è il solo che può garantire sviluppo economico e globalizzazione. Questa è la tesi sottostante.

L’impostazione non regge, prima di tutto perché il supercapitalismo è soprattutto un capitalismo finanziario, e qui invece la finanza non appare quasi neanche come comprimaria. È mai possibile, mi chiedo, che un attento studioso come Robert Reich non si sia reso conto che solo la concorrenza sfrenata che ciascuno di noi vuole come consumatore non sia l’unica origine del deficit di democrazia, ma che dalla fine degli anni Settanta nella struttura stessa delle corporation e dei mercati è apparso un vero e proprio malanno che ha minato l’intero sistema e ha oltraggiato spesso la stessa concorrenza: cioè il conflitto di interessi, neppure nominato nel libro. Così, come ho già detto, è assente qualunque critica al sistema bancario e finanziario. Quindi non si è neppure accorto che il vero deficit di democrazia sta nella nuova lex mercatoria, di medievale memoria, la quale è imposta dalle multinazionali, dai suoi studi legali, dalle sue private corti arbitrali, e che esclude spesso le norme fissate dai legislatori e certamente non tiene in minimo conto i diritti del cittadino o i più elementari principi di democrazia.

Quel che a me pare, in definitiva, è che il deficit grave di democrazia debba essere invece affrontato mettendo sotto accusa l’intero sistema, perché la colpa sempre più grave di quel deficit non siamo noi, anzi ciascuno di noi nel suo schizofrenico sdoppiamento fra consumatore vincente e cittadino perdente. Non credo che siamo noi che abbiamo bisogno di uno psicanalista per diventare meno consumisti e più cittadini, ma sono le società per azioni, le banche e i mercati finanziari che, come del resto ho scritto nel mio ultimo libro, abbisognano di un legislatore, magari sovranazionale, severo ma né improvvisato, né prodigo di troppe inutili norme. Ma ciò vale anche per il clima, l’ambiente, per la lotta alla povertà, per il diritto cosmopolitico dei popoli ad avere asilo e una vita decente.

E’ purtroppo una scelta alternativa, condizionante per il resto del mondo, sapere se gli Stati Uniti vorranno continuare a pensare che il supercapitalismo è ineluttabile o che la democrazia dei diritti di varie generazioni, secondo le classificazioni di Norberto Bobbio, sia il valore prioritario da perseguire per tutti.

Più ci penso più mi convinco che la ormai evidente crisi della sinistra (parlo soprattutto di quella europea) è dovuta, molto più che a gravi errori politici, pure evidenti, a fattori culturali e morali.

In una intervista ripubblicata da Lettera Internazionale, la bella rivista diretta da Federico Coen e Biancamaria Bruno, Cornelius Castoriadis ricordava che i filosofi politici di oggi «ignorano alla grande l´intima solidarietà tra un regime sociale e il tipo antropologico necessario per farlo funzionare».

È un fatto che nel nostro tempo, diciamo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è profondamente mutato non soltanto il regime sociale (la struttura della economia e delle classi sociali) ma anche il «tipo antropologico» rappresentativo della società. Della prima mutazione i partiti della sinistra (parlo dei grandi partiti «riformisti») si sono, anche se a stento, accorti e hanno tentato di adeguarsi, prevalentemente in modo passivo, e cioè subendo l’iniziativa di un capitalismo vittorioso. Non hanno invece neppure percepito la seconda, il profondo mutamento culturale che la accompagna e che determina i cambiamenti dell’umore politico e del comportamento elettorale.

Parlo di cambiamenti che si rivelano più con manifestazioni apolitiche e apparentemente irrilevanti, ma significative del modo di sentire e di pensare; dei valori esistenziali; degli "attrattori" del comportamento: tutte "spie" di mutamenti antropologici.

Nell’ultimo mezzo secolo, certo, la natura umana profonda, quella che contraddistingue le caratteristiche strutturali costituenti della specie, è cambiata di poco. Essa cambia sì, ma assai lentamente nello spazio dei millenni, anzi dei milioni di anni. Le caratteristiche culturali, che riguardano i comportamenti estrinseci, cambiano invece radicalmente e talvolta rapidamente. Chi potrebbe dire che l’Uomo medievale o l’Uomo del Rinascimento sono vicini al nostro modo di considerare la vita? (con sorpresa constatiamo, talvolta, che ci è molto più vicina la cultura degli antichi romani! il che prova che la nostra non è una evoluzione lineare).

Ora: un cambiamento antropologico radicale è intervenuto tra la società occidentale dell’Ottocento e della prima metà del Novecento e quella attuale. Quella accoppiava un forte materialismo progressista e scientifico con una altrettanto perentoria esibizione di valori etici trascendenti (Dio, Patria, Famiglia); un accoppiamento che ne costituiva insieme la contraddizione e la forza. Questa ha abbandonato la fede nelle magnifiche sorti e progressive ripiegando dal materialismo progressista allo psicologismo scettico; e al tempo stesso ha annegato i valori trascendenti, cui tributa una deferenza sempre più formale e superstiziosa, in una esplosione di edonismo e di egoismo davvero trascendentale. Il che la rende, magari, più coerente, ma intrinsecamente più vulnerabile.

La forza attrattiva della sinistra stava nella sua decisa denuncia delle contraddizioni della società borghese; della sua ipocrisia e della sua ingiustizia: dell’impossibilità di coniugare i suoi valori trascendenti esibiti, con la pratica della sopraffazione e dello sfruttamento. La sinistra di oggi si trova di fronte a classi dirigenti che, grazie al formidabile progresso tecnologico, non hanno più bisogno sistematico di sfruttamento del lavoro (sebbene questo sia tutt’altro che scomparso) essendo in grado di produrre masse enormi di beni di consumo. Viene meno dunque, almeno in parte, la sua missione di denuncia dello sfruttamento del lavoro. Si ingigantisce invece lo sfruttamento della natura, praticato in cambio di utilità sempre più frivole e al costo di distruzione di risorse irreversibili. D’altra parte, le nuove classi dirigenti rinunciano a presentarsi come portatrici di valori trascendenti per identificarsi con quelli decisamente immanenti dell’edonismo materialistico. Sul terreno economico, la virtù ascetica del risparmio è sostituita dalla incentivazione pubblicitaria dell’incontinenza consumistica; e l’ammirazione per i grandi imprenditori costruttori per quella dei grandi maghi speculatori. Di fronte a questa vera e propria conversione a U del vangelo capitalistico, la sinistra, da una parte si trincera combattendo un capitalismo che non c’è più; dall’altra, manca di percepire le nuove contraddizioni del nuovo capitalismo: che sono soprattutto ecologiche e morali.

Ecologiche: l’insostenibilità di una economia basata sul consumo del capitale naturale: una distruzione chiamata crescita.

Morali: l’orientamento della potenza creatrice della tecnica verso le finalità frivole del consumo, anziché verso la realizzazione di una società più giusta, di bisogni collettivi più urgenti, di scopi culturali realmente trascendenti.

La sinistra, da una parte, quella "radicale", recita un vecchio copione inattendibile. Dall’altra, quella "riformista", insegue una rispettabilità politica basata sull’imitazione di un modo di produzione irresponsabile e di un modo di consumo immorale. Perché, in tali condizioni, dovrebbe essere in grado di contrastare efficacemente i richiami edonistici della destra e di acquistare consensi senza essere in grado di esprimere una alternativa economica ed etica alla deriva ecologica e morale, Dio solo lo sa.

Da alcuni anni i geografi tedeschi vanno sottolineando i pericoli connessi a quella che chiamano la «terza fase» della globalizzazione. In particolare la «scuola della frammentazione», così è definita questa generazione di studiosi, sostiene che gli aspetti distruttivi della globalizzazione non sono stati adeguatamente considerati, e che distanze sempre più grandi si vanno scavando tra realtà territoriali spazialmente vicine o addirittura immediatamente contigue. Nella grande kermesse dei territori «che vincono» e di quelli «che perdono» linee di separazione inedite si vanno disegnando, nuove differenze si creano e si approfondiscono tra mondi un tempo prossimi e in sostanza in passato storicamente analoghi.

La strategia delle barriere

L'architettura dei muri e l'urbanistica della separatezza che hanno costituito una delle novità più eclatanti degli ultimi decenni parrebbero dare almeno in parte ragione ai teorici della frammentazione, o quantomeno costituire un elemento di conferma delle loro tesi. In questa direzione procede il recente lavoro di Alessandro Petti, Arcipelaghi e enclave. Architettura dell'ordinamento spaziale contemporaneo, (con prefazione di Bernardo Secchi, Bruno Mondadori, euro 18).

Nella intenzione dell'autore vi è più limitatamente l'idea di mettere in luce come l'erezione di nuove barriere faccia parte di una più generale strategia di disciplinamento sociale e come i dispositivi utilizzati in sede locale per finalità di marginalizzazione, separazione ed esclusione debbano necessariamente rinviare ad un piano geopolitico generale.

Tra le maglie dell'Impero si aprono dunque linee di frattura che vanno «ricomposte» con modalità di esercizio della violenza del tutto nuove. In particolare i concetti di stato di eccezione e di «campo», che fanno da filo conduttore agli ultimi lavori di Giorgio Agamben, rappresenterebbero le possibili chiavi esplicative delle trasformazioni territoriali in corso. Il tutto andrebbe quindi letto in una prospettiva di mutamenti di paradigmi del controllo. In particolare da queste inedite modalità di esercizio del potere emergerebbero due modelli applicativi: quello dell'arcipelago e quello della enclave.

La differenza fondamentale tra le due realtà consiste nel fatto che l'arcipelago è collegato alle altre realtà insulari che lo compongono, mentre la enclave rimane un universo separato, racchiuso in se stesso. Il modello proposto è particolarmente efficace nelle pagine che vengono dedicate alla vicenda dei territori palestinesi e all'edificazione del muro. Dalla dettagliata ricostruzione si evince come la situazione attuale sia il risultato di un lungo lavorio della politica e dell'urbanistica israeliana, l'esito di un disegno mirato fin dall'inizio a istituire delle relazioni di connessione (tra l'arcipelago delle colonie e dei nuovi insediamenti) e simultaneamente a introdurre degli elementi di disconnessione, trasformando i territori palestinesi in enclave non comunicanti tra loro. In questo senso il muro viene letto come il coronamento simbolico e la concretizzazione materiale di un progetto più complesso, di un divide et impera condotto con mezzi più sofisticati della semplice erezione di barriere.

Sotto questo profilo le pagine in cui Petti tratta dei territori rappresentano uno stimolo importante a comprendere meglio la questione, rintracciandone le origini nell'urbanistica e nelle scienze del territorio israeliane.

L'autore rende inoltre estremamente efficace e vivida la ricostruzione della genesi della frammentazione dei territori interpolando sue vicende personali (ha sposato una ragazza palestinese) e descrivendo nel dettaglio il funzionamento dei check-point e delle frontiere interne. Meno convincente appare il tentativo di applicare la coppia concettuale arcipelaghi/enclave ad altre realtà contemporanee, quali le gated communities e l'urbanesimo off shore negli Emirati. Qui il modello sembra funzionare meno, sia perché sfuma in parte la doppia funzione dei muri così ben illustrata nelle parti che riguardano i territori: da una parte quella di limitare e di escludere, dall'altra quella di favorire invece i collegamenti altrui, proteggendo un determinato ordine politico, economico e sociale.

Il recinto di Falluja

Nel caso della autosegregazione delle gated communities, del «gran rifiuto» che esse oppongono ad un intero mondo circostante i meccanismi sono più complessi e che il parallelo regge solo limitatamente su di un piano prettamente «fenomenologico». Diversa è anche la questione delle enclave di lusso quali i paradisi off-shore, di cui forse la componente economica andrebbe più energicamente sottolineata. Ma rimane da scrivere un capitolo del libro di Petti, quello sull'Irak. Qui il modello del muro, per altro già applicato a Falluja e a Samarra, circondate da mura mirate non a difendere, ma a rinchiudere, e trasformate in carceri a cielo aperto, sta trovando a Baghdad una sua realizzazione mai vista in precedenza su grande scala urbana.

È un muro che viene rafforzato da misure di controllo tecnologicamente avanzate e che non si limita a circondare una zona della città, ma si articola al suo interno individuando quali sono le aree da «circondare» a seconda della pericolosità maggiore o minore della popolazione che ci vive. Finora sono state individuate dieci zone.

Se il muro di Baghdad verrà completato ci troveremo di fronte allo smembramento di una metropoli e alla sua scomposizione in una serie di spazi frammentati e ipercontrollati, a volte anche tra loro ostili, tali da far impallidire il ricordo di Belfast. Da queste enclave emerge sì prepotentemente il paradigma agambeniano del campo esteso alla città intera. Ma chi avrà il coraggio di studiarle?

Un giorno imprecisato dell'anno prossimo, la popolazione urbana avrà superato per numero quella che vive in aree rurali. Saremo (noi abitanti umani di questo pianeta) più cittadini che campagnoli, e questo dovrebbe spingere a «riconsiderare le priorità globali dello sviluppo», sostiene il WorldWatch Institute di Washington, l'istituto di analisi ambientale che pubblica un rapporto annuale sullo stato del pianeta in cui guarda alle grandi questioni ambientali insieme alle trasformazioni delle società umane, perché le due cose non sono separabili.

Il rapporto State of the World 2007, diffuso ieri, ha dunque come sottotitolo Our Urban Future, «Il nostro futuro urbano». Fa notare che le città coprono appena lo 0,4% della superfice della Terra, ma consumano risorse in modo sproporzionato e generano la gran parte delle emissioni di anidride carbonica (gas «di serra»): «le città sono chiave nell'affrontare la crisi del clima», fa notare il WorldWatch.

La crescita urbana non è una novità, ma le cifre fanno sempre impressione: nell'ultima metà secolo la popolazione urbana è cresciuta di quasi quattro volte, da 732 milioni nel 1950 a oltre 3,2 miliardi nel 2006. Oggi l'Africa ha 350 milioni di abitanti urbani, più di Canada e Stati uniti insieme. Entro il 2030 l'Asia e l'Africa, secondo le previsioni più accreditate, raddoppieranno ancora la loro popolazione urbana fino a 3,4 miliardi. Si calcola che circa 60 milioni di persone (poco più dell'intera popolazione italiana) si aggiungano ogni anno agli abitanti delle città mondiali. E gran parte di queste persone vanno nelle zone urbane più povere di paesi in via di sviluppo.

Il punto, secondo il WorldWatch, è proprio questo: aumento della popolazione urbana significa aumento della povertà urbana. Le città crescono soprattutto per l'arrivo di persone espulse dalle campagne per vari motivi (in cui il rapporto non entra: ambientali, economici, sociali) riassumibili nella fuga dalla povertà e la ricerca di lavoro e opportunità; vanno a ingrossare le zone più povere delle città, dove mancano o sono insufficenti i servizi essenziali come acqua potabile e fognature (e luce, e poi istruzione, assistenza sanitaria...). Per questo il rapporto fa notare che «l'urbanizzazione caotica e non pianificata ha un bilancio pesantissimo sulla salute umana e sulla qualità dell'ambiente, e contribuisce all'instabilità sociale, ecologica ed economica in molti paesi». Dei 3 miliardi di abitanti delle città, circa un miliardo vive in slum, definiti come zone dove gli abitanti non hanno garanzia di beni di prima necessità come acqua potabile, servizi igienici (cessi), alloggi stabili.

Così si stima che circa 1,6 milioni di abitanti urbani ogni anno muoiano a causa della mancanza di acqua pulita e servizi igienici - circa un milione sono neonati e bambini. Ecco la prima priorità da riconsiderare, commentava ieri Molly O'Meara Sheehan, che dirige il progetto dello State of the World: «I decisori politici devono affrontare la 'urbanizzazione della povertà' aumentando gli investimenti in istruzione, assistenza sanitaria e infrastrutture».

Il rapporto considera vari aspetti della vita urbana, dal cibo (che in città costa fino a un terzo in più che nelle aree rurali), all'energia e i trasporti urbani: le automobili usano il doppio dell'energia usata dagli autobus, 3,7 volte più delle ferrovie leggere o tram, 6,6 volte più dei treni elettrici - e sono la maggiore fonte di inquinamento urbano. Ma il WorldWatch Institute non si limita descrivere. Analizza alcune delle grandi aree urbane del pianeta anche per cercare se e come enti locali e gruppi di cittadini possono rendere più sostenibile la vita comune. E trova casi assai interessanti, nel sud in via di sviluppo o nel nord industrializzato.

Parla di «agricoltura urbana», fenomeno tutt'altro che marginale: almeno 800 milioni di persone in tutto il mondo ne sono coinvolte. O di tentativi di riscatto degli slum: un esempio è Orangi, enorme slum di Karachi, Pakistan, dove un Progetto Pilota («curato» dagli esperti in Sviluppo umano da oltre una ventina d'anni) ha permesso di collegare centinaia di migliaia di case in agglomerati informali a un buon sistema di fognature: gli abitanti si fanno carico della manutenzione, e così riescono a tagliare i costi a un quinto di ciò che dovrebbero pagare l'equivalente servizio municipale. Casi «pilota», beninteso, ma abbastanza ragionevoli da indicare alternative possibili.

Nota: su Mall disponbile anche la traduzione della prefazione al Rapporto dell'ex sindaco di Curitiba Jaime Lerner (f.b.)

Difficile trovare un termine del gergo politico Italiano contemporaneo, più diffusamente utilizzato di «riformismo». Difficile trovare pure un'ideologia politica maggiormente responsabile della recente catastrofe elettorale delle forze democratiche di questo paese, simboleggiata dallo striscione con scritto «Veltroni santo subito» esposto dai fascisti nuovi padroni del Campidoglio.

Che sia proprio dal recente utilizzo a sinistra del termine «riformismo» che si debba partire nella necessaria analisi della sconfitta di tutto il centrosinistra è fuori discussione. La necessità di «fare le riforme» è stata invocata in campagna elettorale sia dai leaders politici di destra che di sinistra, tanto da costituire il minimo comune multiplo della politica italiana contemporanea: la riforma elettorale, la riforma della scuola, la riforma della sanità, la riforma dell'università, la riforma delle professioni, la riforma del mercato del lavoro.

Che cosa si nasconde dietro alla nuova diffusa ideologia? È abbastanza ovvio che il termine riformista trasmette un tranquillo messaggio di moderazione, che tuttavia nasconde una feroce determinazione securitaria. Il riformista, a differenza del rivoluzionario, non distrugge, non sconvolge, non rivoluziona lo status quo. Egli è sempre dalla parte dell'autorità costituita che garantisce sicurezza alla sua proprietà. Egli è insoddisfatto di alcuni aspetti del sistema e, sposandone la logica di fondo, intende migliorarlo, ripensarlo, favorirne lo sviluppo, trasformarlo in modo magari radicale ma armonico, progressivo, in ogni caso compatibile con fondamenti ed assetti proprietari consolidati.

Il termine mette a fuoco il processo trasformativo piuttosto che il contenuto della trasformazione, ed implica la necessità di ridisegnare alcuni aspetti del sistema istituzionale per ottenere crescita e sviluppo. È questo il messaggio bipartisan dichiarato tanto dalla maggioranza quanto dall'opposizione nel loro competere secondo le regole elettorali di una «moderna democrazia liberale occidentale». Questo tranquillo messaggio subliminale pone il termine «riformismo» in una luce di generale favore, bollando ad un tempo di estremismo e di velleitarismo qualunque voce alternativa.

Da Bentham a Carlo Rosselli

Nell'era del riformismo bipartisan, l'antica opposizione fra conservatore e riformista affonda perché il primo è inevitabilmente condannato di fronte all'«inevitabile» e «naturale» accelerazione storica e tecnologica dell'era postmoderna. D'altra parte, per ragioni in larga misura analoghe ma speculari, affonda pure la contrapposizione fra rivoluzionario e riformista.

Infatti, se il termine reformist fu coniato da Jeremy Bentham nel 1811, esso venne posto al centro della riflessione politica del movimento operaio a metà Ottocento da parte di quell'Eduard Bernstein che, per primo, mise in discussione l'imminenza della rivoluzione proletaria sostenendo la necessità di alleanze strategiche con i partiti borghesi. Il riformismo socialista, teorizzato in Francia da Alexandre Millerand in un famoso libro dal titolo omonimo, conquistò alcuni dei più prestigiosi dirigenti del Partito Socialista Italiano all'inizio del secolo breve, tra i quali bisogna ricordare Turati, Treves, Bissolati, Bonomi, Carlo Rosselli, Matteotti e Gaetano Salvemini, in gran parte espulsi al congresso di Livorno del 1912, proprio in quanto tacciati di revisionismo, un termine che nel frattempo aveva contaminato il riformismo di connotazioni negative.

In ogni caso la corrente riformista, che ebbe notevole peso all' interno della Seconda Internazionale (1889-1914) condivideva sicuramente il progetto di uguaglianza e giustizia sociale del movimento socialista ma si distingueva per il metodo legalista e gradualista piuttosto che rivoluzionario con cui l'obiettivo finale doveva essere raggiunto. In definitiva dunque l'idea di riformismo era sottesa ad un grande progetto internazionalista, ridistributivo e di emancipazione delle classi sociali più disagiate, un'essenza completamente perduta nella attuale concezione bipartisan.

Il terremoto reaganiano

Nella sua luce storica, il termine riformista, calato nella dimensione di politica economica, si manifesta nelle grandi trasformazioni del modello liberale propugnata dagli assertori del welfare state, in particolare quella visione keynesiana che venne travolta, a seguito della crisi petrolifera di fine anni Settanta dalla «rivoluzione» reaganiana e tatcheriana, che doveva contribuire significativamente di li a pochi anni, al crollo dell'esperienza del socialismo realizzato. È proprio nel quadro delle trasformazioni del contesto politico-culturale globale che vide i natali l'attuale ideologia del riformismo, una teorica non più sorretta da un disegno primario di giustizia sociale ma al contrario volta principalmente alla ricostruzione di un sistema capitalistico il più possibile efficiente.

In quest'ambito, l'ordinamento giuridico, lungi dal proporsi come strumento di limitazione degli impulsi acquisitivi individuali, si propone di favorirne il libero dispiegarsi, sull'assunto che essi, incanalati soltanto da un processo privatistico a mano invisibile, avrebbero finito per favorire, seppure indirettamente, anche i soggetti più deboli tramite una «ricaduta verso il basso» (il cosiddetto trickle down effect) dei benefici di una sostenuta crescita economica. Il progetto reaganiano e tatcheriano non sposò alcun aspetto del modello contro cui si rivoltava ma, visto in prospettiva globale, effettivamente ne travolse, con violenza «rivoluzionaria», ogni contenuto politico e di civiltà. Sono infatti proprio i presupposti della costituzione economica di un modello misto (pubblico e privato) che il riformismo del welfare state aveva prodotto e costituzionalizzato a partire dall'esperienza della Repubblica di Weimar e poi, in Italia, nella Costituzione italiana del 1948 col grande compromesso fra Togliatti, Dossetti ed Einaudi, a crollare insieme al Muro di Berlino, riportando indietro di quasi due secoli il significato di riformismo.

Dal punto di vista contenutistico, nel nuovo ordine globale in cui la crescita economica viene considerate prioritaria indipendentemente da ogni preoccupazione distributiva, il riformista si propone solo di mitigare gli aspetti più estremi e disumani del modello dominante, in un'accezione del termine non diversa da quella che ci può far vedere come riformisti sovrani «illuminati» quali Maria Teresa d' Austria, Leopoldo di Toscana, Federico II di Prussia, Carlo III di Napoli o Caterina II di Russia. Una visione profondamente incardinata nella disuguaglianza sostanziale dei diritti di proprietà e che anzi fa di un modello autoritario, classista, etnocentrico, ma tuttavia preoccupato del proprio «volto umano» (emblematico è a questo proposito il piano per l'Africa di Toni Blair o la Fondazione di Bill e Melinda Gates) la sua cifra caratterizzante.

Questo riformismo della «terza via», che con i lavori di Anthony Giddens cerca di espugnare il fronte intellettuale e politico che almeno in Europa separava la Destra e la Sinistra, trova in Tony Blair e Bill Clinton, i due eroi eponimi capaci dei naturalizzare e rendere bipartisan le ricette del neoliberismo confezionate nel decennio precedente dai loro predecessori nell'interesse degli attori forti dei mercati finanziari globali (Istituzioni Finanziarie Internazionali, Banche, Compagnie di Assicurazione, Edge Funds). Due eroi che non restano isolati in Occidente. In Germania Schroeder, con l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale, emargina Oskar Lafontaine. In Italia sono Massimo D'Alema (primo ministro post-comunista ansioso di partecipare alle guerre globali) e poi Romano Prodi a sdoganare il riformismo neoliberale come pensiero «di sinistra» aprendo la via alla grande convergenza bipartisan.

La creazione di un ideologia riformista, come strumento che aliena la distribuzione a favore della produzione e dell'accumulo concentrato di ricchezza, sposa questo modello di sviluppo interamente «mercatista» (fondato sull' oligopolio reale accompagnato dalla retorica della competizione) che a casa nostra si è continuato a celebrare nel Partito Democratico, proprio mentre la destra sociale neocorporativa lo scaricava giusto in tempo attraverso l'impressionante piroetta di Giulio Tremonti, già campione di privatizzazioni e finanza creativa (La paura e la speranza, Mondadori 2008 è stato un bestseller in campagna elettorale vendendo antimercatismo, sicuritarismo e xenofobia).

Anche a sinistra, non soltanto le periodiche drammatiche convulsioni nei contesti di produzione (crisi dei mercati asiatici del '97, crisi subprime e recessione attuale) ma anche, soprattutto, il progressivo allargamento del baratro fra ricchi e poveri che strutturalmente condanna l'Africa e gli altri paesi periferici subalterni alla sete e alla fame dovrebbero suggerire un ripensamento onesto dei termini della questione «riformista». L'economista austriaco Joseph Shumpeter una volta scrisse che così come sono i freni che consentono ad un veicolo di poter avanzare spedito, senza incidenti, altrettanto avviene per un modello economico capitalistico. Quest'idea fu ripresa da Michel Albert nel suo famoso saggio sui due capitalismi, ed è stata sviluppata nella letteratura giuridica ed economica più avveduta (ancorchè minoritaria) ma ha ottenuto scarsa eco nella discussione sulla politica economica italiana. Al contrario, il riformismo a casa nostra si misura con il metro delle «lenzuolate» di bersaniana memoria, e fa proprio della crociata contro i «lacci e lacciuoli» (espressione che risale ad un maestro della grande destra come Guido Carli) la sua bandiera. Le riforme volte alla liberalizzazione denigrano così sistematicamente il controllo giuridico pubblico (i lacciuoli appunto) nel rivolgersi contro taxisti, farmacisti e notai nell'ambito dei lavoratori autonomi (particolarmente attivi qui i professori Giavazzi e Alesina) e in quello dei dipendenti prendono di mira, in nome della flessiblità le garanzie ottenute dai lavoratori attraverso le lotte sindacali degli anni Sessanta e Settanta (il nome che va citato qui è quello di Pietro Ichino).

Finanzieri d'assalto

Questo riformismo neoliberale presenta evidente l'imprimatur economico, politico e culturale del centro attuale del capitalismo internazionale, quegli Stati Uniti d'America che, seppure in profonda crisi, hanno colonizzato l' immaginario postmoderno dell'Europa e delle altre paesi periferici e semiperiferici, secondo la geoeconomia tracciata da Immanuel Wallerstein. Il cosiddetto capitalismo statunitense, subito dopo aver determinato la fine del socialismo reale in Unione Sovietica, ha sferrato un attacco durissimo contro il capitalismo sociale europeo, denigrandone come «lacci e lacciuoli» che ne impediscono il decollo nell'empireo alato dei mercati finanziari (ma che forse ne impediscono pure il precipitare nel vortice dei fondi sub-prime), quelli che invece sono i suoi freni istituzionali.

Sono queste le questioni che si nascondono dietro la desiderabile e rassicurante bandiera del riformismo postmoderno. Una religione della crescita e dello sviluppo sostenuta anche culturalmente dagli oligopolii globali. Una radicale sovversione di quell'ideale riformista che, frutto di un pensiero emancipatorio socialista ed internazionalista, non poteva che porre l'eguaglianza, la giustizia sociale e la ridistribuzione delle ricchezze per mezzo del diritto al primo posto fra le preoccupazioni di una politica che voglia dirsi civile e che sappia farsi carico delle esigenze non più procrastinabili di tutto il pianeta. L'attuale riformismo eurocentrico quando non localista altro non è che un'ideologia di resistenza dell'Occidente opulento che disperatamente difende (con toni più o meno insopportabili) il frutto della sua pluricentenaria predazione. Che sia una politica suicida lo ha sperimentato per ora il Partito Democratico. La demografia ed i nostri fratelli affamati ci mostreranno presto che se non si inverte la rotta c'è soltanto la catastrofe annunciata.

«Dell'acqua per favore, ma non nella bottiglia di plastica», chiede Chris Jordan (San Francisco 1963, vive a Seattle). Davanti al museo dell'Ara Pacis, il fotografo americano presenta Running the numbers (2007), grandi visioni caleidoscopiche, che innescano una serie di riflessioni. L'occasione è la Giornata della Terra, organizzata dai canali National Geographic e inserita nel circuito del festival FotoGrafia. Un'anticipazione del progetto sul tema della speranza che porterà a Milano, all'Hangar Bicocca, nell'aprile del prossimo anno. Gli oggetti fotografati sono bottiglie vuote, cellulari, scie di aerei, Barbie, buste di plastica, risme di carta... multipli di relitti del quotidiano. Numeri che Chris Jordan traduce in immagini, proprio perché lo spettatore possa visualizzare - dando forma all'entità sfuggente del numero - l'insidia della poetica del consumo. «Il mio parametro di scelta rappresentativa è sempre l'atto inconscio della massa come cultura - spiega il fotografo -. Mi riferisco alla devastazione che crea l'atto incondizionato che la gente compie quotidianamente».

Il dito è puntato sulla società materialistica per eccellenza, quella americana. Spiritualità e consumismo sono i due poli opposti, come gli Stati Uniti e il Tibet. Le società che consumano di più sviluppano meno consapevolezza delle proprie azioni e dei danni che producono, insiste l'artista. Forse - ma di questo Jordan non può esserne certo - le società più spirituali conoscono ancora il significato della felicità. «Durante la mia carriera di avvocato pensavo che la cosa importante fosse apparire felice. Andare in palestra per essere bello, ridere alle battute dei colleghi, bere liquori costosi... Invece, ero sempre più solitario, arrabbiato e depresso. Una condizione generale nel mio paese dove ci viene inculcato che il successo materiale equivale alla felicità. Questa è l'immagine che vendiamo in tutto il mondo. Piuttosto non si dice che in America c'è il più alto numero di persone che prende antidepressivi, che abusa di alcool e droghe, che divorzia... La tragedia è che ci sono paesi che stanno prendendo a modello la nostra società consumistica, prima fra tutti la Cina. Stiamo insegnando loro a consumare a livelli insostenibili, un processo che uccide l'individualità».

Roma è la tappa conclusiva, dopo Taipei e Lisbona, del tour presentato dai canali National Geographic. Come si sente in qualità di eco-ambasciatore per l'Earth Day 2008?

È un grandissimo onore, soprattutto in un momento così critico del movimento ambientalista. Credo nel ruolo determinante della gente per una sensibilizzazione sui problemi dell'ambiente. L'idea è che la massa critica di persone - unite in un movimento spontaneo - possa determinare un cambiamento a favore dell'atteggiamento ecosostenibile.

Trova che ci sia differenza nella reazione del pubblico americano, di fronte al suo lavoro, rispetto ad altre parti del mondo?

La reazione è identica ovunque. È scattata una scintilla di consapevolezza, di risveglio nei confronti di tematiche ambientalistiche, ovunque nel mondo.

Quando è scattata questa scintilla di consapevolezza?

Il processo è stato lungo e lento. Fino a cinque anni fa sono stato avvocato nel settore commerciale. Contemporaneamente fotografavo, pensando però solo alla luce, ai colori e alla composizione. Non ero interessato ad altri contenuti. Mio padre è fotografo e collezionista, tra l'altro possiede una libreria con cinquemila libri fotografici e quando ero studente universitario, mi regalava manuali tecnici sull'uso della macchina fotografica. C'è stato un momento in cui lavoravo alla mia teoria del colore basata sul caos, incomprensibile come certi testi critici che si trovano nei cataloghi delle mostre. Le mie foto erano la messa in pratica di quella teoria. Ritrovavo spesso quello che cercavo nella zone industriali di Seattle.

Un giorno, ho scoperto una massa di coloratissime ecoballe, provenienti da un supermercato. Tutto quello che compriamo è molto colorato, dall'involucro al contenuto. Fui attratto dai colori e scattai la fotografia pensando che fosse bellissima. Poi la feci ingrandire e la appesi nel mio studio. I miei amici guardandola parlavano di consumo di massa, ma in chiave personale. Si chiedevano se quella data bottiglia di vino, o qualsiasi altro prodotto, fosse stata la loro o meno prima di andare a finire nella spazzatura. Questo mi procurava fastidio, perché nessuno sembrava attento alla mia immagine, né dal punto di vista estetico né teorico.

Un mio amico mi fece notare che c'era stato un punto di svolta nel mio lavoro. Era la prima volta che la ricerca si spostava dalla semplice forma astratta a qualcosa di reale. Così ho iniziato a cercare intorno a me i luoghi di degrado e, contemporaneamente, a leggere tutto ciò che riguardasse la cultura del consumismo e l'impatto ambientale che il consumismo ha sulla società non solo a livello materiale, ma anche spirituale. Dagli anni '50 ad oggi è stato scritto moltissimo su questo argomento. Il mio risveglio è avvenuto allora. Questo momento di lucidità mi ha fatto capire che in tutti gli anni della mia carriera di avvocato non ero mai stato felice. Non avevo fatto che seguire la ricetta per raggiungere il sogno americano. Guadagnavo bene, avevo la casa piena di cose bellissime, ma dentro sentivo che stavo morendo. Fotografare l'immondizia è stato un portale per ritrovare me stesso.

Il lavoro è proseguito con «Intolerable Beauty»...

L'intenzione era mostrare la vasta scala del consumismo negli Stati Uniti. Ma, fotografando l'oggetto in sé, mi sono reso conto che non rappresentavo l'idea della quantità. Durante le mie conferenze usavo slide show con dati statistici per rinforzare il concetto. Mostravo, ad esempio, la foto di un cellulare, dicendo che ogni giorno, negli Stati Uniti, buttiamo 426mila cellulari. Leggendo le statistiche mi dicevo che avrei voluto realizzare opere che rappresentassero proprio quelle cifre, senza che fosse necessaria la mediazione verbale. Un altro problema che avevo riscontrato, poi, è che quando parlavo di numeri così grandi la gente - ed io per primo - non arrivava a capire veramente il senso. Solo cambiando la tecnica fotografica sarei riuscito a raggiungere il mio obiettivo. Fino all'autunno 2006 fotografavo con il banco ottico, in piena tradizione fotografica, è stato allora che sono passato al digitale. Pur essendo molto combattuto ho venduto tutta la mia attrezzatura fotografica analogica, subito dopo è nato Running the numbers.

Negli Stati Uniti è diverso l'approccio al consumismo, a seconda delle classi sociali?

Penso che questo concetto stia cambiando. Prima più eri ricco e più lo mostravi, soprattutto per esternare la felicità. Adesso chi si è arricchito raggiungendo il successo si è anche accorto di non essere necessariamente felice. Questa consapevolezza trasforma quegli uomini in filantropi, come Bill Gates che dopo anni e anni passati ad essere un commerciante egoista ha avuto un risveglio, diventando una persona che vuole salvare il mondo!

Pensa che l'atteggiamento di Bill Gates sia solo di circostanza?

È la moglie che l'ha influenzato...

La consapevolezza di cui parla sembra rientrare in un discorso elitario. Chi ha raggiunto il successo può permettersi il «risveglio», ma invece chi combatte quotidianamente per la sopravvivenza?

C'è qualcosa di paradossale in quello che sta succedendo in questo momento in America, perché le persone con un alto reddito stanno scoprendo la saggezza portata da Gesù, Buddha, Confucio... che a grandi linee dicono tutti la stessa cosa, esortando a vivere una vita meno materialistica e ad essere gentili con il prossimo. Sembra ipocrita che un ricco vada a dire ad un povero, o a chi possiede di meno, che non è bello essere ricchi. Non è un argomento che riesce a persuadere.

Paradossalmente, però, consuma di più chi è meno ricco...

In America c'è molto spreco a tutti i livelli. Anche chi è al limite della sopravvivenza possiede le carte di credito e si indebita per acquistare prodotti tecnologici o l'automobile. Malgrado ciò detestano il loro lavoro, la propria vita. Al lato opposto della ricchezza, quindi, è esattamente la stessa cosa. C'è una specie di anestesia generale, la gente ha perso la propria rabbia. Ma c'è una minoranza di persone che si sta risvegliando. È dall'epoca del movimento degli hippies che non si assisteva ad una simultanea presa di coscienza a tutti i livelli, insegnanti, scrittori, documentalisti, attivisti... È come l'erba che spunta in un parcheggio abbandonato. Non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo senza distinzione di etnia, lingua, cultura di appartenenza.

Lei è ottimista?

Tutto quello che sta succedendo sul pianeta, dal riscaldamento globale all'estinzione delle specie, alla desertificazione delle foreste... non può che spaventare a morte. Siamo al punto critico, basta poco perché l'ago della bilancia penda dalla parte della salvezza o da quella della distruzione totale. È un momento incredibile per rendersi consapevoli di quello che sta succedendo.

In alcuni suoi lavori, sono citati espressamente Van Gogh o Seurat; inoltre, guardandoli, vengono in mente le reiterazioni delle immagini proprie della pop art. Ci sono autori, in particolare, a cui si è ispirato?

Mi ha influenzato il lavoro di un fotografo tedesco, Andreas Gursky, che si basa sull'anonimato dell'individuo nella società contemporanea, ma personalmente mi sento più un traduttore che un artista. Prendo i numeri e le statistiche e li sposto sul piano del linguaggio visuale: è un messaggio universale.

Sul sito web inhabitat.com un filmato nel quale Chris Jordan mostra e illustra la sua opera

I capi delle corporation e dei governi occidentali hanno imposto al mondo la globalizzazione promettendo pace e prosperità. E invece ci troviamo alle prese con la guerra e la crisi economica. La prosperità si è rivelata effimera, e le sicurezze economiche di base per popoli e paesi stanno rapidamente scomparendo. Cominciano a verificarsi casi di morte per fame in paesi come l’Argentina, dove questo problema non era mai esistito. La fame è tornata a colpire paesi come l’India, che aveva superato carestie - come quella che nel 1942, sotto il regime coloniale, uccise due milioni di persone - e garantito la sicurezza alimentare attraverso politiche di intervento pubblico elaborate democraticamente. Persino le economie ricche di Stati Uniti, Europa e Giappone stanno vivendo una fase di declino. La globalizzazione ha chiaramente fallito l’obiettivo di migliorare le condizioni dei cittadini e dei paesi. Se è vero che la globalizzazione ha aiutato alcune corporation ad ampliare i loro profitti e i loro mercati, molte altre aziende, tra cui Aol Time Warner ed Enron, hanno fatto bancarotta o hanno perso valore. La via della globalizzazione si è rivelata una ricetta insostenibile per i ricchi e causa di impoverimento e disgregazione sociale per i poveri.

L’altra promessa della globalizzazione era la pace, e invece ne abbiamo ereditato solo terrorismo e guerra. La pace sarebbe dovuta scaturire da una accresciuta prosperità globale ottenuta attraverso la globalizzazione. La realtà che si dispiega sotto i nostri occhi, invece, è quella della povertà; l’insicurezza economica e l’esclusione creano le condizioni per lo sviluppo del terrorismo e del fondamentalismo. L’esclusione economica e politica, insieme allo sgretolamento della sovranità economica dei singoli stati, sta spingendo molti giovani verso il terrorismo e la violenza quali strumenti per conseguire i loro obiettivi. Il venir meno dell’autodeterminazione economica degli stati nazionali e l’estendersi dell’insicurezza economica finiscono per trasformarsi in un terreno fertile per la crescita di gruppi politici fondamentalisti di estrema destra che sfruttano la realtà dell’insicurezza economica per attizzare il fuoco dell’insicurezza culturale. Questi, come mostra il caso dei sostenitori dell’hindutva nel Gujarat, riempiono il vuoto lasciato dal crollo del nazionalismo economico e della sovranità economica con un programma pseudonazionalista improntato al "nazionalismo culturale". A livello globale, la retorica dello "scontro di civiltà" proposta da Samuel Huntington, insieme alla guerra contro l’islam, svolge la stessa funzione assolta a livello nazionale dai programmi politici fondati sul nazionalismo culturale e sull’ideologia fondamentalista. Analizzando la crescita delle ideologie fondamentaliste, se ne osservano due forme che paiono convergere, rafforzandosi e sostenendosi a vicenda. La prima è il fondamentalismo liberista della globalizzazione. Questo tipo di fondamentalismo ridefinisce ogni forma di vita in termini di merce, la società in termini economici, e il mercato come mezzo e fine dell’iniziativa umana. Per essi, il mercato è l’unico strumento adatto alla distribuzione di cibo, acqua, salute, istruzione e altre necessità essenziali. Il mercato diventa l’unico criterio organizzativo e amministrativo e si trasforma in metro della nostra umanità. L’appartenenza al genere umano non conferisce più i fondamentali diritti scolpiti in tutte le costituzioni nazionali e nella Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu.

Il fatto di venir considerati come esseri umani dipende dalla nostra capacità di "acquistare" ciò di cui abbiamo bisogno per vivere. In questo tipo di mercato, tutte le cose necessarie alla sopravvivenza - acqua, cibo, salute e sapere - si sono trasformate in merci controllate da una manciata di corporation. Per effetto della globalizzazione, tutto è merce, tutto ha un prezzo. Nulla è sacro. Non esistono più i diritti fondamentali del cittadino né i doveri fondamentali dei governi.

Il fondamentalismo del mercato si fonda, a sua volta, su altri due tipi di fondamentalismo: quello tecnologico e quello del commercio, che si caratterizzano sempre più chiaramente come gli strumenti essenziali di questo nuovo totalitarismo. Storicamente, l’uso della tecnologia è sempre stato in contrasto con i fini e le dottrine della religione. Eppure, la tecnologia e l’ideologia religiosa avulse dal loro contesto sociale ed ecologico e da un sistema di regole finiscono per diventare entrambe strumenti di guerra e militarizzazione. In questo senso, la guerra all’Iraq è stata, al contempo, il dispiegarsi di una nuova crociata religiosa in nome del fondamentalismo cristiano e una prova di forza fondata sulle "bombe intelligenti" e sulle tecnologie digitali. I neocon di Washington sono allo stesso tempo fondamentalisti religiosi e tecnologici. Il fondamentalismo rende irrilevanti le categorie di tradizione e modernità; come principio organizzativo, le ideologie fondamentaliste scelgono piuttosto un criterio di esclusione/inclusione.

Il fondamentalismo di mercato della globalizzazione - con l’esclusione economica che comporta - dà origine a una politica di esclusione. Questa viene rafforzata e sostenuta da partiti politici fautori del fondamentalismo, della xenofobia, della pulizia etnica e del rafforzamento del patriarcato e delle caste. La cultura della mercificazione ha portato a un aumento della violenza contro le donne in ogni sua forma, da quella domestica a quella sessuale, dall’aborto selettivo per i feti femminili alla tratta vera e propria. La globalizzazione, che nasce come progetto patriarcale, ha perciò rafforzato l’esclusione patriarcale. Le atrocità commesse dalle caste superiori ai danni dei dalit (gli "intoccabili") si sono intensificate per via del nuovo potere conferito dalla globalizzazione alle caste superiori che hanno ottenuto l’accesso al mercato globale e puntano a usurpare i poveri e gli emarginati - soprattutto dalit e popolazioni tribali - per sfruttare le loro risorse a fini commerciali. Le leggi di riforma agraria che avevano reso inalienabile il diritto dei dalit alla terra, sono state revocate. Il devastante impatto sociale ed economico della globalizzazione colpisce in primo luogo le donne, i dalit, le popolazioni tribali e le minoranze in genere. Benché nuovi movimenti di solidarietà - come quello del popolo indiano contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) - stiano forgiando alleanze tra movimenti politici diversi, questi sono sottoposti al violentissimo attacco della politica dell’esclusione.

L’insicurezza e le inevitabili ricadute della globalizzazione accrescono la vulnerabilità dei cittadini nei confronti delle politiche che teorizzano l’esclusione. Per chi esercita o cerca il potere, la politica dell’esclusione sta diventando una necessità politica: va a colmare il vuoto creato dalla crisi della sovranità economica, del welfare state e di una politica fondata sui diritti economici per tutti, sostituendovi una politica dell’identità. Per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi della globalizzazione - la mancanza di lavoro, di mezzi di sostentamento e di beni essenziali - il fondamentalismo e la xenofobia intervengono come strumento della globalizzazione capitalista. Dividono, distolgono e distraggono la gente garantendo al progetto di globalizzazione una sorta di immunità. Una forma di nazionalismo culturale, brandito a sostegno della globalizzazione economica e della dittatura del capitale, va così a sostituire la sovranità economica e le idee di nazionalismo economico e di democrazia a essa collegate.

Gli indiani si sono ripetutamente espressi contro la globalizzazione e contro la liberalizzazione del commercio che crea dieci milioni di nuovi disoccupati ogni anno, impoverisce i contadini e toglie diritti a chi è già emarginato. Tuttavia, nella campagna elettorale del 2002 in Gujarat, dopo il massacro di duemila musulmani, i politici hanno trascurato del tutto i problemi fondamentali dei cittadini per insistere sul conflitto tra maggioranza e minoranza. L’aritmetica ha garantito la vittoria al partito che aveva creato un solco tra maggioranza e minoranza e seminato odio e paura tra la popolazione civile con stupri e omicidi. Questo programma violento e settario è attualmente in fase di sviluppo in vista di tutte le future consultazioni elettorali.

E mentre erano in corso i massacri, e l’attenzione nazionale era concentrata sulle contromisure per frenare il conflitto tra comunità e il fondamentalismo, il processo di globalizzazione ha subito una forte accelerazione. Si è dato il via libera agli organismi geneticamente modificati; sono state modificate le leggi sui brevetti per consentire di brevettare gli esseri viventi; è stata adottata una nuova politica dell’acqua basata sulla privatizzazione delle risorse, mentre altre politiche mirate sono andate a smantellare la sicurezza del lavoro e alimentare delle popolazioni. La legge finanziaria indiana del 2001 ha ulteriormente promosso gli obiettivi della globalizzazione sfruttando il diversivo del conflitto tra comunità e fedi religiose per dare scacco all’opposizione democratica.

Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, la guerra contro l’Iraq è diventata un ottimo diversivo per distogliere l’attenzione da temi quali la crescita della disoccupazione e dell’insicurezza economica e ha promosso una politica dell’odio utile quale indiretto sostegno al fallimentare progetto della globalizzazione.

Abbiamo bisogno di una nuova politica di solidarietà e di pace, che affronti al contempo la violenza e l’esclusione prodotte dalla globalizzazione, la violenza del terrorismo e del fondamentalismo e quella della guerra. Queste diverse forme di violenza e di fondamentalismo hanno radici comuni e richiedono perciò una risposta comune. La globalizzazione è refrattaria al decentramento economico, alla democrazia economica e alla diversità economica. Il terrorismo e il fondamentalismo non tollerano la diversità culturale. E la macchina della guerra non ammette l’"altro" né la risoluzione pacifica dei conflitti.

La nostra risposta alla globalizzazione deve proteggere le nostre diverse economie a livello nazionale e locale. La risposta al fondamentalismo consiste nel valorizzare le nostre diversità culturali. La risposta alla guerra sta nel riconoscimento dell’"altro" non in quanto minaccia, bensì come precondizione del nostro stesso essere.

Immaginate quanto sarebbe diverso il mondo se si basasse su una filosofia di reciproca interdipendenza, invece che sulla filosofia attualmente dominante per cui l’esistenza dell’altro è vista come minaccia alla propria.

Se il presidente Bush riuscisse a vedere il Tigri, l’Eufrate e la civiltà mesopotamica come il luogo d’origine della sua stessa civiltà, se solo riconoscesse le nostre comuni radici e la necessità di un’evoluzione comune, non si darebbe così tanto da fare per cancellare queste radici storiche con bombe teleguidate e armi di distruzione di massa. Se chi controlla il capitale riuscisse a capire che la propria ricchezza incorpora la creatività della natura e la forza-lavoro umana, non stabilirebbe regole di mercato che distruggono la natura e le possibilità di sopravvivenza delle persone. Il fondamentalismo del mercato, però, e quello delle ideologie basate sull’odio e sull’intolleranza affondano le loro radici nella paura: paura dell’altro, delle sue capacità e creatività, della sua autonomia e sovranità.

Attualmente assistiamo ai peggiori esempi di violenza organizzata dell’umanità contro se stessa. E ciò accade perché abbiamo perso di vista le filosofie che promuovono l’inclusione, la compassione e la solidarietà. È questa la conseguenza più grave della globalizzazione: la distruzione della nostra capacità di essere umani. Recuperare la nostra umanità è indispensabile se vogliamo sperare di contrastare e sovvertire questo progetto inumano. Il dibattito sulla globalizzazione, in definitiva, non ha per tema il mercato né l’economia, bensì la nostra coscienza di appartenere tutti all’umanità, nonché il rischio di dimenticare quel che significa essere umani.

Traduzione di Gianni Pannofino

© il Saggiatore S. P. A., Milano 2008

Berlinguer, con il suo discorso sull'austerità, c'era andato molto vicino alle teorie di Serge Latouche. «Ma a quei tempi predicava come un profeta nel deserto. Oggi però lo scenario è maturo. Il mondo rischia la catastrofe ambientale. Non ci sono alternative: o abbandoniamo la fede in una crescita illimitata o sarà la barbarie».

Latouche è un intellettuale eclettico: economista, sociologo e filosofo, autore di libri che hanno avuto fortuna, ad esempio Giustizia senza limiti e Come sopravvivere allo sviluppo ma anche militante appassionato, partecipe in prima persona di lotte e movimenti locali. In Italia esce proprio in questi giorni il suo nuovo libro, Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri, pp. 135, euro 9), appena presentato a Siena con Giacomo Marramao, Ugo Pagano e Pier Giorgio Solinas.

La tesi è più o meno nota. Siamo a un passo dal baratro. L'economia capitalistica, spinta dal suo dna a produrre senza limiti quantità crescenti di merci, sta distruggendo l'ambiente. Dovremo dunque rassegnarci a produrre di meno o, peggio ancora, a diminuire i nostri consumi? Latouche non lo nasconde, sa che lo slogan della decrescita è anche una provocazione per smuovere le acque - «sarebbe meglio dire a-crescita». Ma ogni modo infrange un tabù: l'accumulo di ricchezza privata non è più il massimo di felicità desiderabile. Latouche mette sotto accusa il consumismo: un imperialismo invisibile che colonizza dall'interno le nostre menti, che ci ossessiona al punto da ritenere indispensabile cambiare telefonino o automobile a ogni pie' sospinto. Ai nostri occhi le cose diventano vecchie e inservibili in un volgere di tempo sempre più breve. Ma quale automobilista ha quelle elementari cognizioni per decretare l'inutilizzabilità della propria auto? E, intanto, un cumulo di macerie ipertecnologiche si accumula: elettrodomestici, computer obsoleti, lamiere di veicoli. Come se esce? Produrre meno e consumare meno? Bella provocazione, ma un qualsiasi marxista potrebbe obiettare a Latouche che ad abbassare il livello dei consumi si rischia di intaccare lo standard di vita delle classi popolari, già messo a dura prova dal calo di potere d'acquisto dei salari. E anche quell'idea di produrre di meno assomiglia a un velleitario desiderio di far girare all'indietro le lancette della storia, a ritroso verso l'età della pietra. Da queste obiezioni Latouche si difende, dice che sono un fraintendimento della decrescita, che non è affatto sua intenzione mettere fra parentesi le disuglianze di classe nella società capitalistica. E, soprattutto, non negache esiste un gigantesco problema di redistribuzione della ricchezza impossibile a farsi fino a che non si intacca il potere delle multinazionali nel mondo.

La proposta di mettere una moratoria sull'innovazione tecnologica non è stata digerita. L'hanno accusata di essere un nemico della scienza. Sul serio se ne può fare a meno?

Ci mancherebbe altro. Certo che questi oggetti ci sono utili. Quello che contesto è che si debbano sprecare all'infinito tante ricerche scientifiche semplicemente per fare un modello più sofisticato e più alla moda. Qual è la necessità? Un cellulare con qualche funzione in più non fornisce quasi mai un servizio davvero utile.

La prospettiva di consumare meno non è che sia allettante per quelle classi popolari che già hanno visto immiserirsi il potere d'acquisto dei salari. Siamo in tempi di crisi e si profilano tagli alla spesa. Non sarebbe bene tenerne conto?

Vero. Ma non dico "consumiamo di meno". Questo è un fraintendimento. Io propongo di ridurre l'impatto ecologico del sistema e questo, semmai, inciderebbe sul consumo intermedio non sui consumi finali. L'impatto ecologico dell'Italia dal 1960 ad oggi si è triplicato. Ma questo non significa che ognuno consuma tre volte di più. Quello che è cresciuto è il consumo di tutto il sistema, lo spreco. Dopo sei mesi buttiamo via un elettrodomestico solo perché diventa obsoleto. Si dovrebbero imporre delle norme che garantiscano una durata minima dei prodotti. Ma la cosa grave è soprattutto il consumo che comporta la globalizzazione, lo spreco di energia, di imballaggi, di celle frigorifere, di condizionatori. La carne nei nostri piatti viene da bestiame che non mangia più l'erba dei prati ma mangimi ottenuti dalla soia coltivata in Brasile. Non si tratta di diminuire il consumo o il reddito dei più poveri. Semmai è ora di redistribuire la ricchezza. Sono i ricchi, i grandi predatori di risorse naturali, che distruggono il pianeta.Tocca ai responsabili, ai partiti politici di sinistra far capire questo. E la gente lo capisce abbastanza.

Per fare tutte le cose che lei dice non occorre un intervento forte dello Stato e l'introduzione di un'economia di piano?

No, non penso alla pianificazione. E' più complicato. Un po' di pianificazione non farebbe male, certo. Dobbiamo reincastrare l'economia dentro il sociale. E' più difficile. Non è il mercato in sé ad essere perverso. E' la logica del mercato quando diventa imperialista. I piccoli mercati nella Siena medievale funzionavano bene perché erano incorporati dentro un sistema sociale del buon governo. Erano subordinati alla felicità pubblica. Il problema è che è stato deciso volontariamente di scatenare la dismisura, la hybris della logica mercantile che dovrebbe invece essere sempre inquadrata. E' il segno della colonizzazione dell'immaginario, di un cambiamento di mentalità. Penso che una bella crisi potrebbe aiutarci. La mucca pazza in Francia ha cambiato abitudini alimentari. Ora la gente mangia meno carne. Le crisi sono delle opportunità per rompere con lo strapotere di multinazionali e finanza.

Lei pensa a un'economia mista, sotto controllo pubblico per i settori strategici e privata per la produzione di beni secondari?

In un modo o nell'altro dobbiamo distruggere le grandi imprese transnazionali. Sono diventate troppo potenti. Più potenti degli Stati. Dobbiamo sottoporle a limiti di varia natura, ambientali e sociali, perché non continuino a consumare risorse naturali e a sfruttare lavoro umano. Non si deve fissare solo il reddito minimo, dobbiamo fissare anche il reddito massimo. Non ha senso parlare di cittadinanza se qualcuno guadagna un milione di volte in più rispetto a un operaio. La politica deve porsi questi problemi.

"Produrre meno" è uno slogan. Forse è meglio dire "produrre beni di qualità": cultura, sanità, aria migliore, città vivibili, una vita migliore. O no?

Sì. Non è sovversivismo. Il programma della socialdemocrazia tedesca dell'89 prevedeva di produrre meno in certi settori, a partire da quello automobilistico. Non ha senso produrre beni, anche quelli necessari, sempre di più all'infinito. Perché produrre così tanto cibo per poi distruggerlo? La crescita ha senso solo nella misura in cui soddisfa dei bisogni. Sennò serve solo a far aumentare profitti e rifiuti. Mangiare meno carne farebbe bene alla nostra salute. Pensiamo a mangiare meglio, a produrre cibi freschi di stagione senza sprecare energia per trasportarli da un luogo all'altro del pianeta. Meglio cibi di qualità ottenuti con l'agricoltura biologica.

Cambiare modo di produrre significa anche lavorare meno e lavorare meglio. Ono?

Certo. E' stato calcolato che negli ultimi anni la gente dorme in media un'ora in meno. L'insonnia aumenta. Questa è la crescita del malessere, non del benessere. In Francia Sarkozy ha vinto le elezioni con lo slogan: "lavorare di più per guadagnare di più". E' un'assurdità dal punto di vista dell'economia classica. Lavorare di più significa aumentare l'offerta di lavoro. E se aumenta l'offerta, il prezzo del lavoro, cioè il salario, scende. La gente si è accorta che lavora di più e guadagna di meno. Dal punto di vista della decrescita si tratta di lavorare meno non solo per lavorare tutti, ma per vivere meglio. Per ritrovare il senso della vita e avere più tempo per la cura di sé e per le relazioni con gli altri.

In un libro suggestivo di Luigi Zoja i concetti di hybris, di arroganza (verso gli dei) e di nemesis, di vendetta (degli dei) sono espressi come metafore della crescita capitalistica e delle sue contraddizioni. Metafore attinte al mito di quella Grecia classica che per prima ha suscitato l’inquietudine creativa, ma anche i complessi di colpa dell’Occidente.

Quell’inquietudine è forse un virus che la Grecia ha trasmesso all’Occidente e che dopo un lungo letargo è riemerso nella modernità, alimentando gli «spiriti animaleschi» del capitalismo.

Quel virus ha proliferato grazie a una felice combinazione, propria e specifica dell’Occidente, di due fattori: la tecnica e il mercato. Questa formidabile ricetta ha permesso di estrarre da società stagnanti una fonte di crescita, prima della popolazione, poi della produzione, e di realizzare una condizione di netta superiorità delle economie dell’Europa e delle sue colonie bianche sul resto del mondo in termini di produttività e di benessere. Ma ha anche suscitato condizioni di insostenibilità. Insostenibilità fisica ed ecologica rispetto ai limiti posti dalla legge dell’entropia crescente. Insostenibilità politica rispetto ai vincoli che devono essere osservati per assicurare la coesione della società.

Per la prima volta nella storia l’Occidente ha generato una società priva del senso del limite, «illimitata», anzi, propriamente, sterminata. Ciò vale non soltanto per la crescita della produzione, ma per l’uso dello spazio, congestionato, e del tempo, sovraccarico. Nonché della parola, sempre più frenetica e urlata a riempire il silenzio, come accade negli show televisivi, o nei film, dove il dialogo è diventato un precipitato maniacale. E vale per l’estremo limite, quello della morte, scongiurata per quanto possibile dal discorso e dalla presenza.

Ora, una civiltà che pretende di abolire il limite è perduta, non solo perché non riconosce i confini ecologici e sociali della sua avventura, ma perché smarrisce il senso che solo il limite può attribuirle. È quello che viene a mancare nell’insensatezza della crescita, generando una instabilità e un’aggressività endemica. Di qui l’esigenza di arrestare la crescita in una condizione di «stato stazionario» retta dai due principi fondamentali dell’equilibrio ecologico e della correlazione sociale.

Il virus della hybris umana non si manifesta però solo «negativamente», accelerando localmente, nel mondo dominato dall’uomo, la tendenza universale all’aumento del disordine: dell’entropia.

L’uomo costituisce anche il punto più alto di un processo simmetrico a quello della crescente entropia: il processo dell’evoluzione.

Simmetrica rispetto alla seconda legge della termodinamica c’è infatti quella che alcuni scienziati hanno definito la legge della organizzazione. Se esistesse solo la legge dell’entropia ci sarebbe solo il caos. Invece, a partire dal big bang il caos cede spazio a strutture ordinate: molecole via via più complesse, stelle, galassie. Pianeti, formazioni geologiche, oceani, metabolismi autocatalitici: e poi vita, società, intelligenza…

Insomma: all’aumento complessivo di entropia fa da contrappunto una disposizione sempre più ordinata della materia. Quest’ordine non è il frutto né del caso né di un progetto divino. È la capacità insita nella materia di autoorganizzarsi, da forme semplici a forme sempre più complesse, attraverso la selezione naturale. In questo processo antientropico l’uomo occupa la posizione di punta. Nel processo di selezione naturale emerge infatti, attraverso la sterminata proliferazione di possibilità sanzionate dal successo, un’organica intenzionalità, che nell’uomo diventerà intelligenza.

A quel punto, la selezione naturale è affiancata da una selezione culturale.

L’intelligenza dell’uomo, frutto supremo di quella selezione, può impadronirsi, attraverso la scienza, della logica di quel processo evolutivo per guidarla sulla via di una trasformazione della specie umana in una specie più complessa, capace di ampliare i limiti che la natura le ha assegnato: le sue colonne d’Ercole; quelle che Dante fa varcare al suo Ulisse in nome dell’umana trascendenza: «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e canoscenza».

Mentre, restando all’interno della produzione materiale e della sua crescita l´uomo incontra i limiti insuperabili dell´entropia, procedendo nella conoscenza l´uomo non incontra che i limiti della produzione di idee e delle capacità ideative del suo cervello che sembra sia tuttora utilizzato in minima parte.

Possiamo allora immaginare di impossessarci del meccanismo della legge dell’organizzazione, dell’evoluzione, per raggiungere gradi sempre più elevati di conoscenza e di potenza. Invece di inseguire la potenza sulla via della crescita materiale, dell’avere, sbarrata dalla legge dell’entropia, perseguire l’autotrasformazione del nostro essere, sia quanto al suo aspetto fisico (la durata della vita) sia nel suo aspetto spirituale (il senso della vita). In altri termini, renderci padroni della seconda legge dell’organizzazione, e quindi dell’evoluzione di noi stessi. Non era questo il significato di quei due alberi (non uno solo) ai cui frutti era fatto divieto di accedere nel giardino dell’Eden, per non diventare simili a Dio (l’albero del bene e del male, e l’albero dell’immortalità)?

In questa trascendenza della condizione umana, fisica e spirituale, bisogna saper vedere, come fa Aldo Schiavone nel suo piccolo libro ispirato, Storia e destino, il senso e il destino della avventura umana. E l’improbabilità di una condizione economica e sociale che ha i secoli contati. (...)

Non è già questa, della trascendenza umana, la via sulla quale sta procedendo, nel seguire la sua vocazione al sapere, la scienza? Non è questo il senso di quella grande impresa dell’intelligenza artificiale in cui scienziati «pazzi e geniali» come Doyne Farmer, come Daniel Hillis, e tanti altri, stanno investendo la loro pazzia e la loro genialità? Dovremmo avere più paura di supercomputer in grado di pensare secondo regole logiche e morali dettate da noi di quanta ne abbiamo dei demagoghi e dei paranoici che guidano oggi popoli interi?

Lungo questa linea non incontriamo altri limiti di quelli che ci poniamo noi stessi in nome di una religio che ci relega in una condizione di tanto superstiziosa quanto presuntuosa ignoranza.

Se così stanno le cose, le filosofie che contestano la scienza e la tecnica come idoli della nostra servitù ci portano sulla strada opposta a quella segnata dalla legge dell’organizzazione che regola l’evoluzione dell’essere. Ci portano nelle fumosità del misticismo, mentre la scienza e la tecnica, al servizio della conoscenza, non del mercato, sono le vie aperte al nostro sviluppo creativo. (...)

Non è il progresso tecnico la causa del venir meno dei fini, ma è il suo asservimento all’accumulazione capitalistica. Quella sintesi di tecnica e di mercato che ha costituito il segreto del trionfo capitalistico ne rappresenta oggi la prigione. Non è vero che la tecnica prescrive di fare tutto ciò che è fattibile. Essa prescrive di fare tutto ciò che è profittevole. Il problema, allora, non è quello di sottrarsi alla tecnica, ma di sottrarre la tecnica alle leggi del mercato, ponendola al servizio della conoscenza. In questo senso l’equilibrio ecologico, l’arresto della crescita economica dell’avere, sterile e autodistruttiva, è la premessa necessaria di un umanesimo trascendente inteso allo sviluppo esistenziale della specie umana.

Presso il Centro interuniversitario di Bari Uni.Versus, per iniziativa del consorzio di imprese Apulia e del Movimento per la decrescita felice, è stato ricordato con un convegno il quarantennale di un famoso discorso di Robert Kennedy (il manifesto l'ha ripubblicato di recente) sulla fallacia del Pil come indicatore di benessere. Nel pieno '68, pochi mesi prima di essere assassinato, il candidato presidente fece un discorso abbagliante: «Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Down-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (...) Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». A risentirlo oggi (sul sito www.depiliamoci.it) c'è da scoraggiarsi due volte: per la regressione culturale, che ha subito il riformismo democratico a tutte le latitudini; per la distanza che ancora ci separa da quei principi - il primato della politica sull'economia - e da quei valori: benessere sociale, pubblico, collettivo. In questi anni è prevalsa la ragione economica (la crescita degli indici borsistici, dei dividendi azionari ecc.) su ogni altra considerazione d'ordine sociale, ambientale, civile e umana. I risultati sono evidenti: inequità insopportabili, disastri naturali, disgregazione delle relazioni sociali, aggressività, stress, infelicità. La crisi finanziaria internazionale è solo l'ultima prova della fisiologia del funzionamento della «megamacchina termoindustriale»: crisi e guerre, shock e violenza sono gli elementi ordinatori permanenti del nostro mondo.

Modificare alla radice gli apparati tecnici e statali di questa società è il solo compito che si può dare una sinistra. «Noi non proponiamo correttivi, ma l'alternativa a questo modello economico e sociale» - ha affermato Fausto Bertinotti. In questo siamo d'accordo. Un modo per incominciare a farlo seriamente sarebbe quello di dismettere categorie di pensiero irriformabili. A cominciare dal Pil.

Gli economisti vorrebbero farci credere che esso è solo un indicatore neutro della quantità di denaro in circolazione. Non è affare loro (degli economisti) se poi questa massa di soldi viene spesa per fabbricare armi o coltivare fiori. L'economia - dicono - è indifferente e non responsabile rispetto alle «preferenze» che la società attribuisce sull'utilizzo della sua ricchezza. Peccato che le cose non stiano affatto così:

1. perché i «consumatori» non sono liberi di scegliere cosa fare dei loro soldi, condizionati dalle necessità e manipolati nei loro desideri e nei loro sogni (potenza delle tv!).

2. Perché non appena si inserisce nel calcolo del Pil una qualsiasi materia, una qualsiasi attività, esse diventano merci. Risorse naturali, relazioni sociali, saperi e prodotti dalla cooperazione lavorativa escono dalla categoria dei beni comuni disponibili, si separano dal mondo della vita attiva e entrano nel circuito delle cose morte, privatizzabili, accumulabili, monetizzabili. Il Pil in realtà ha la funzione di prezzare i beni comuni, li sottrae ai loro produttori e li rende disponibili solo a chi è solvibile sul mercato. Insomma, snatura la produzione e disumanizza il consumo. Una politica davvero riformatrice non dovrebbe limitarsi a limare gli eccessi (lotta agli sprechi, risparmio, equa distribuzione, sostenibilità...). In gioco non ci sono solo misure, temperanze (Ogm no, concimi chimici sì; mine antiuomo no, pistole sì; nucleare no, turbogas sì...), ma logica intrinseca. I beni e i servizi utili, durevoli, prodotti e distribuiti con il minimo impegno di materie prime e di energia, riciclabili, fruibili collettivamente, relazionali, scambiabili gratuitamente sulla base di libere e reciproche convenienze, autocentranti in cicli produttivi corti, locali, sgravati dai costi della pubblicità, senza copyright e brevetti... non fanno parte del Pil; lo fanno decrescere. Con soddisfazione dei produttori e dei consumatori. I primi lavorano meno, i secondi guadagnano in qualità e serenità. La decrescita (del Pil) è quindi molto più di una semplice provocazione che ci aiuta a destrutturate la logica incrementale del capitalismo, essa indica una direzione di senso da dare alla vita e alla politica. Parlare oggi di decrescita in mezzo a una crisi dei mercati finanziari è quindi più che mai obbligatorio, se non vogliamo che siano ancora una volta i lavoratori (precarizzazione), i risparmiatori (perdita di valore dei fondi pensioni) e i consumatori (inflazione) a pagare per tenere alti i rendimenti azionari e i capitali accumulati dalla classi capitaliste.


Il capitalismo globale se la passa male e, per l'ex presidente della Fed Alan Greenspan, quella attuale è la peggiore crisi del dopoguerra. Ma in Italia nessuno sembra accorgesene. Basta guardare i programmi elettorali. Il comunismo non sarà all'ordine del giorno, ma in questa fase di crisi di sistema c'è un vuoto di idee e proposte.

Circa 90 anni fa Rosa Luxemburg fece una analisi straordinaria di quella fase di globalizzazione, dell'apertura ai mercati di approvvigionamento di materie prime da parte dei paesi industrializzati e della creazione di mercati di sbocco per la sovraproduzione degli stessi paesi. Negli ultimi anni la situazione si è modificata: i paesi emergenti sono diventati, oltre a un enorme serbatoio di domanda, un fornitore straordinario di prodotti per i paesi del primo mondo. A questo punto la contraddizione della sovraproduzione si è riprodotta.

Con una aggravante: mentre ai tempi dell'Urss il proletario occidentale beneficiava (con il boom dello stato sociale) dei vantaggi della guerra fredda, da anni con l'Urss sparita, lo stato sociale si è progressivamente ridotto, fino quasi ad annullarsi in alcuni paesi nei quali (come gli Usa) regge solo un po' di flexsecurity sotto forma di sussidi di disoccupazione. La crisi attuale nasce proprio dal trionfo della globalizzazione e del liberismo. E non a caso il primo paese nel quale è esplosa sono gli Stati uniti, mentre per ora - a fatica - la vecchia Europa regge.

Collateralmente è esplosa la crisi della finanza che dovrebbe garantire tra l'altro - con i fondi pensione - anche il futuro di centinaia di milioni di persone. Negli ultimi 10 anni la finanza creativa ha conosciuto - senza controlli - un autentico boom: il giro d'affari che movimenta è centinaia di volte superiore al Pil mondiale. Lo è praticamente esentasse con un meccanismo diabolico che consente con pochi spicci di muovere miliardi. La finanza esalta il ciclo economico: quando le cose vanno bene le fa andare ancora meglio, ma quando qualcosa non va, l'economia reale subisce contraccolpi micidiali. Di organismi di controllo ne esistono decine (dalla banche centrali, alle varie autorità tipo la Sec e la Consob) ma la speculazione è andata liscia, negli ultimi anni ha fatto quello che voleva e i risultati sono ora sotto gli occhi di tutti. Insomma, parlare di finanza, significa parlare - più o meno direttamente - di economia reale, della vita delle persone costrette ad accettare i mutui subprime a tassi altissimi per poter comprarsi casa. Senza contare che la crisi della finanza porterà un vecchiaia grama per una moltitudine di futuri pensionati.

Ma torniamo ai programmi e alla politica: si può anche abolire (Berlusconi) l'Ici sulla prima casa, si può ridurre (Veltroni) la pressione fiscale ai lavoratori dipendenti. Ma è inutile se dalla crisi attuale non si matura un'ipotesi «riformista»: questo mondo com'è, è destinato ad andare sempre peggio se non si mettono al primo posto i bisogni fondamentali dei più e non si rilancia un'ipotesi di controllo della produzione e della distribuzione del reddito.

Nonostante gli inasprimenti degli ultimi giorni, questa campagna elettorale sembra accomunare Berlusconi e Veltroni nello sforzo di presentarsi ciascuno come il vero interprete di una stagione a pieno titolo post-ideologica: nella quale il conflitto non avrebbe più bisogno di essere «rappresentato», in quanto appartenente a un'idea novecentesca, dunque superata, della società. Chiediamo al filosofo della politica Giorgio Agamben di fornirci una cornice teorica per leggere questa crisi.

Il leader del Partito Democratico - ispirandosi, persino negli slogan, a Barack Obama - fa appello alla possibilità concreta, a portata di mano, di superare l'emergenza della politica e i recenti fallimenti della sinistra attraverso una volontà di coesistenza «oltre ogni conflitto», un po' new age. Quel che sembra definitivamente in crisi, allora, è il principio di rappresentanza...

L'idea che la politica sia la rappresentazione - e, quindi, la mediazione - dei conflitti sociali ha certamente dominato la tradizione recente della sinistra. Ma non basta assolutamente a definire la politica e la democrazia. Occorre precisare qual è il rapporto fra la mediazione e il conflitto. Di fatto ormai da molti decenni l'idea dominante - e non solo in Italia - è che ogni conflitto possa essere governato, che non c'è conflitto che non possa trovare la sua mediazione. In questo senso si può dire che almeno a partire dalla fine della seconda guerra mondiale vi è soltanto socialdemocrazia. E questa non poteva che incontrarsi prima o poi col modello liberale, che era per eccellenza portatore di un'istanza di mediazione dei conflitti. Il modello di pensiero che oggi domina la politica è quello della governamentalità. Dev'essere chiaro, però, che governare (il termine deriva dal greco kybernes, il pilota di una nave) non significa determinare despoticamente gli eventi; al contrario, si tratta di lasciare che gli eventi si producano, per poi orientarli nella direzione più opportuna. È in questo senso che oggi tutto può essere governato, gestito e normalizzato. Di qui il primato dell'economia e del diritto sulla politica: dove tutto è normalizzabile e tutto è governabile, lo spazio della politica tende a scomparire. La democrazia è così diventata sinonimo di una gestione razionale degli uomini e delle cose, cioè di una oikonomia. Questo implica una trasformazione radicale della concettualità politica: le guerre diventano operazioni di polizia, la volontà popolare un sondaggio di opinione, le scelte politiche una questione di management, i cui modelli di riferimento sono la casa e l'impresa, e non la città.

Dunque una 'silente' messa a morte del modello democratico occidentale...

Sì, perché la tradizione democratica riposa, invece, sul principio che la politica è possibile solo se vi è da qualche parte un conflitto che non può essere mediato e governato. Non si tratta in alcun modo di un modello di disordine o di guerra civile permanente, al contrario: in questione sono i principi stessi che rendono possibile la democrazia. Nicole Loraux ha mostrato così che ad Atene la stasis, la guerra civile, funziona come una sorta di esteriorità, la cui possibilità fonda e mantiene la democrazia. Ma anche la tradizione della democrazia moderna si fonda sull'idea di un potere costituente che deve essere necessariamente esterno al potere costituito, e senza il quale la vita politica perde vitalità. Si ha democrazia quando il sistema giuridico-politico si mantiene in relazione dialettica con una esteriorità, che non è semplicemente esclusa. Se il potere costituito pretende, invece, di governare il potere costituente e di includerlo in sé, la base stessa della democrazia viene meno. Un caso flagrante è quello della costituzione europea, che, respinta dai popoli, è stata di recente approvata quasi di nascosto a Lisbona in forma di un accordo fra governi. Una costituzione senza potere costituente è del tutto priva di legittimità; ma, nella prospettiva governamentale, legittimità e legalità tendono a confondersi.

La crisi di rappresentanza comporta sempre di più, dunque, una 'dislocazione' dei conflitti: i quali, inevitabilmente, finiscono per assumere forme altre - o di aperta ribellione o di chiusure corporative o anche di derive spiritualiste; mentre all''interno', nel ceto politico, si afferma la cultura del «voto utile». Comunque a vincere sono sempre più gli spiriti animali del Mercato. C'è ancora un modo per ridare centralità alla politica?

La tendenza inarrestabile della macchina governamentale, sia essa nelle mani della destra o della sinistra, è che l'attività della macchina non incontra altri limiti che quelli interni alla macchina stessa. Anzi, nella prospettiva della governamentalità, destra e sinistra non possono che perdere i loro caratteri distintivi e tendere, come di fatto è avvenuto dovunque in occidente, verso una zona di indifferenza e di opacità. Che questo prenda la forma di una grande coalizione, com'è avvenuto in Germania e come si annuncia in Italia, o di un'alternanza fra due partiti quasi indistinguibili, non fa molta differenza. La cultura del «voto utile» si iscrive in questa prospettiva. Naturalmente, la negazione dell'esteriorità lascia un'ombra, o, come voi dite, produce una dislocazione dei conflitti. Queste ombre inassimilabili sono il terrorismo da una parte e l'integralismo religioso dall'altra, che tendono idealmente a coincidere. Benché il terrorismo si presenti a prima vista come qualcosa di assolutamente ingovernabile, esso non è esterno al sistema governamentale, ma ne costituisce, per così dire, il centro segreto. Credo che un'analisi della politica interna italiana durante gli anni di piombo e della politica estera degli Stati Uniti dopo l'11 settembre ne fornirebbe una prova eloquente. Il governo del terrorismo - cioè l'inclusione dell'ingovernabile - è, in questo senso, la forma-limite del sistema governamentale. L'ossessiva insistenza sulla sicurezza, divenuta oggi quasi l'unico slogan politico, va vista in questa prospettiva. Ed è significativo che l'ombra del terrorismo finisca col ricoprire lo stesso corpo sociale nel suo complesso, nel senso che i governi tendono oggi a trattare ogni cittadino come un terrorista in potenza, assoggettandolo in modo normale a quei dispositivi di sicurezza di tipo biometrico che erano stati inventati per i criminali recidivi.

La sinistra, politicamente rappresentata di fatto dal solo Bertinotti, come può rispondere sul piano strategico a quello che lei chiama il problema della governamentalità? A quali riserve culturali 'buone' dovrebbe attingere?

Bisogna che sia chiaro che il processo che ha portato le società occidentali verso il modello governamentale è ormai un fatto compiuto, che di questo processo la sinistra è stata parte essenziale e non sorprende che oggi lo accetti senza riserve. D'altra parte, il potere governamentale è qualcosa di cui sappiamo poco e che dobbiamo ancora imparare a conoscere. La tradizione del pensiero politico occidentale aveva preferito concentrarsi sui grandi temi della sovranità, dello Stato, del popolo, e ha liquidato il problema del governo sotto la rubrica «potere esecutivo», la cui importanza è unicamente strumentale, e che in sé non pone grandi problemi teorici. Le mie ricerche, come del resto quelle di Foucault, mostrano invece che il vero arcano della politica non è la sovranità, ma il governo; non il re, ma il ministro; non Dio, ma l'angelo; non la legge, ma la polizia.

Professor Agamben, lei nel corso degli anni ha teorizzato quel genere di trasformazioni che portano in primo piano la «nuda vita», abbattendo ogni tipo di mediazione: scusi, ma come la mette Veltroni con la biopolitica? Cosa aspettarsi, in fin dei conti, da un governo light della 'trasformazione' della vita?

Per quel che riguarda la biopolitica, cioè il fatto che in senso lato la posta in gioco nel potere sia oggi la gestione della vita biologica dei cittadini e non la loro vita politica, le cose non cambiano. La biopolitica si iscrive perfettamente nel paradigma governamentale, anzi acquista il suo vero senso proprio in questa prospettiva. Il fatto che il governo attuale abbia emanato leggi che prevedono la costituzione di un archivio del Dna va in questa direzione. È un errore credere che la nuda vita significhi soltanto Auschwitz e lo stato di eccezione; molto più interessante è che essa diventi oggi un'esperienza e un'economia quotidiana, e che una dimensione politica debba essere riguadagnata anche attraverso un corpo a corpo con essa.

Il pontificato di Benedetto XVI ha lanciato una precisa sfida filosofica sui principi dell'organizzazione della società: e esercita una certa egemonia, almeno in Italia, anche per la mancanza di un profilo di pensiero 'forte' laico. Cosa comporterà questa disparità di valori in campo, sul piano non tanto politico-istituzionale, quanto proprio della filosofia politica?

Occorre a questo proposito chiarire un equivoco della tradizione laica. Il vero problema non è che la Chiesa intervenga nella vita pubblica, ma che lo faccia troppo poco, e che si sia per così dire specializzata nella tutela della vita biologica e della famiglia (due cose, fra l'altro, che secondo la tradizione cristiana delle origini il cristiano deve essere pronto a sacrificare senza riserve). Invece di indignarsi perché il papa interviene nella sfera pubblica - cosa che è suo dovere fare -, gli si deve chiedere perché non prende posizione con la stessa energia per le infamie quotidiane, le guerre, le ingiustizie, la miseria, per le quali si limita a delle dichiarazioni generiche. È significativo che proprio quando lo Stato ha abbandonato la dimensione politica per la biopolitica, anche la Chiesa sembri voler limitare l'esercizio del potere spirituale alla sfera biologica.

Biobibliografia

Moderno e postmoderno in un allievo di Heidegger

Giorgio Agamben (Roma 1942) insegna Iconologia presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. È uno dei più acuti pensatori italiani della politica, sulla base soprattutto di Heidegger, Foucault, Benjamin, Warburg, Schmitt: lignée che indica il carattere preminente di una riflessione orientata alle emergenze socio-culturali del mondo moderno e post-moderno, lette attraverso categorie come «bio-politica» e «stato d'eccezione». Curatore della edizione italiana di Benjamin, tra i suoi libri: «La comunità che viene», Einaudi, 1990; «Homo sacer», Einaudi, '95; «Quel che resta di Auschwitz», Bollati Boringhieri, '98; «Lo stato di eccezione», Bollati Boringhieri, 2003; «Il Regno e la Gloria», Neri Pozza, '07. In uscita da Einaudi «Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività».

L'immagine è tratta dall'archivio E.Salzano

Due saggi per comprendere un fenomeno irreversibile che continua a destrutturare le forme di vita contemporanee «Il pessimismo della ragione» dello studioso polacco alle prese con la paura, mentre un sorvegliato «ottimismo della volontà» porta l'autrice di Città globali a guardare ai movimenti sociali come risorsa per fronteggiare il neoliberismo

La recessione che sta coinvolgendo gran parte delle economie nazionali si sta diffondendo come un virus e ha come vettore i flussi del capitale finanziario. Per questo è impossibile prevedere le coordinate della diffusione del «contagio». Ma uno degli effetti certi della recessione è l'aumento dell'incertezza e della precarietà, che a loro volta alimentano la paura, il sentimento dominante nelle società capitaliste da alcuni lustri, da quando cioè il neoliberismo ha preso il posto del welfare state. Mettere però la paura, che generalmente viene considerato un sentimento individuale, in relazione con un modo di regolazione della vita sociale è un'operazione che necessita di alcune chiarimenti preliminari, come sottolinea con la consueta chiarezza lo studioso di origine polacca Zygmunt Bauman nel suo ultimo saggio Paura liquida (Laterza, pp. 233, euro 15).

Non è certo la prima volta che Bauman scrive sul welfare state come la forma più avanzata di stato che si prende cura dei propri sudditi. E se il Levitano di Thomas Hobbes altro non era che il necessario mostro posto a guardia del vivere in società, lo stato sociale doveva porre, secondo Bauman, la società al riparo delle tendenze distruttive dell'economia di mercato. I trent'anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale sono quindi il periodo in cui la paura viene al fine «addomesticata», attraverso una relativa stabilità del lavoro, la possibilità di accedere a un servizio sanitario nazionale, e affrontare l'«autunno» della propria vita con relativa tranquillità grazie alla pensione.

Ma il welfare state non doveva consentire solo di poter ragionevolmente prevedere e programmare il proprio futuro, ma doveva intervenire allorché impreviste contingenze - un terremoto, un'inondazione o altri disastri dovuti alla «manipolazione umana» della natura - potessero essere affrontate. Il welfare state doveva cioè socializzare il sentimento della paura. Così facendo, lo stato sociale portava a compimento quel progetto di «buona società» che, abbozzato da Thomas Hobbes appunto nel Leviatano, è stato il demone con cui le società capitalistiche hanno dovuto sempre fare i conti.

Un virus ingovernabile

La ricostruzione dello sviluppo welfare state svolta da Zygmunt Bauman pecca sicuramente di una concezione storicista che lo porta a tracciare una linea di continuità tra la formazione dello stato moderno e la formazione del welfare state, relegando in secondo piano i momenti di discontinuità nella modernità capitalistica - in primis il conflitto operaio -, ma coglie con acume nell'«addomesticamento» della paura il maggiore fattore di legittimità dello stato sociale in quelle società uscite terrorizzate dalla seconda guerra mondiale, dalla Shoah e dalla prima esplosione di un'arma, la bomba atomica, che poteva cancellare la vita sull'intero pianeta.

Paura liquida non è però l'ennesimo trattato sul declino del welfare state. Il suo pregio maggiore è quando svela la relazione di causa ed effetto tra la crisi di quella costituzione materiale è la rinnovata «privatizzazione» della paura, sentimento che chiede tuttavia di essere nuovamente socializzato attraverso la costituzione di una «società del controllo» per prevenire le minacce alla vita privata. Così, mentre vengono demolite uno dopo l'altra le istituzioni del welfare state, gli strumenti per difendersi dall'incertezza e dalla precarietà vanno acquistati al mercato della protezione sociale. Altro elemento condivisibile di questo saggio è quando l'autore pone la fonte dell'incertezza, e dell'accresciuta precarietà delle condizioni sociali, al di fuori dei confini nazionali, lo spazio entro il quale invece si è sviluppato il welfare state.

Zygmunt Bauman ritorna quindi a guardare alla globalizzazione come il virus che diffondendosi, alimenta la paura e la conseguente impotenza nell'affrontarla, visto che è quasi impossibile individuare la sua fonte primaria, dato che ogni volta che si pensa di averla individuata ci si trova persi in un labirinto di specchi che riflettono l'immagine di un uomo o di una donna soli di fronte a se stessi.

Libro amaro, disincantato, vero e proprio esercizio di «pessimismo della ragione e della volontà», questo di Bauman, che ha come un contraltare il saggio Sociologia della globalizzazione (Einaudi, pp. 304, euro 21,50) scritto da Saskia Sassen è da considerare un sorvegliato «ottimismo della ragione» per quanto riguarda la stato delle cose, individuando nei movimenti sociali globali il contesto in cui la paura può trovare risposte.

Due libri opposti, anche nello stile: pacato, riflessivo, «narrativo» quello di Bauman, assertivo e algido quello della Sassen. Ma sono tuttavia analisi e riflessioni complementari per comprendere lo stato dell'arte della globalizzazione, che continua in quella opera di destrutturazione della vita associata, tanto nel Nord che nel Sud del pianeta, nonostante la recessione faccia emergere aspetti contraddittori, come la cosiddetta «rinazionalizzazione» dell'economia, che rendono l'enfasi sul «mondo piatto» neoliberista del saggista statunitense Thomas L. Friedman un'espressione priva di fondamento. La globalizzazione è infatti un fenomeno contraddittorio, che presenta tendenze tra loro configgenti, ma comunque irreversibile. I saggi di Bauman e Sassen sono, rispettivamente, un'accurata analisi di come l'economia mondiale trasformi profondamente i «sentimenti» e un affresco delle tendenze sul piano globale, assumendo con questo termine le gerarchie, i legami e i flussi tra il piano sovranazionale, nazionale, regionale e locale.

Una lotta di lunga durata

Dunque, le società capitaliste trasudano paura con la conseguente paralisi del «fare». Paura di non riuscire più a prevedere cosa accadrà nell'immediato futuro, sia che si tratti della perdita del lavoro che un rapporto amoroso. Ma anche timore che il fragile equilibrio che viene faticosamente conquistato sia mandato in frantumi dall'arrivo di «stranieri», una presenza percepita come aliena e ostile. Infine, l'impossibilità di prevedere ragionevolmente gli effetti dell'azione umana sulla natura, che torna a mostrare il suo volto ferigno, come ha dimostrato l'uragano Katrina negli Stati Uniti. Infine, la paura di aver paura. Tutti fattori che vanno a comporre quella tassonomia di sentimenti che si accompagnano ad essa: disincanto, cinismo, opportunismo e rancore.

Nelle società moderne, ma come è noto Bauman preferisce parlare di modernità liquida, «la vita è ormai diventata una lotta, lunga e probabilmente impossibile da vincere, contro l'impatto potenzialmente invalidante delle paure, e contro i pericoli, veri o presunti, che temiamo». Questa guerra permanente alla paura riflette, va da sé, le diseguaglianze sociali e di classe presenti nelle società. Le strategie di contenimento della paura sono infatti diversificate a seconda dei livelli di reddito che seguono rigorose differenze di classe, che alimentano a loro volta un'altra paura, quella di essere esclusi. Tutto ciò provoca, più che uno «stato di emergenza» un terrore di un generalizzato «stato di incolumità personale». Da qui il successo dei messaggi tranquillizzanti, seppur minacciosi verso le fonti di volta in volta individuate della paura lanciati dai movimenti politici su base religiosa o di quelli xenofobi e razzisti. Ma è questo anche il contesto che consente il dispiegarsi di «politiche della vita», che oscillano tra misure prescrittive e normative dei comportamenti individuali stabilite dallo stato e una complementare cancellazione dei diritti sociali della cittadinanza, ritenendo la protezione di fronte all'economia di mercato un fatto privato.

Un vecchio adagio sosteneva che con il capitalismo industriale la pietà è morta. Nella modernità liquida di Bauman c'è solo spazio per la sussidiarietà, cioè l'acquisto al mercato degli strumenti per quei servizi, beni, protezioni che possono rendere tollerabile la convivenza con la paura. E, sebbene la paura sia un sentimento globale, il suo «addomesticamento» avviene ancora su scala locale.

Paura liquida termina là dove prende avvio il saggio sulla globalizzazione di Saskia Sassen. Nonostante il tono apodittico che lo contraddistingue è un libro utile a dipanare appunto la matassa del rapporto tra globale e locale. In primo luogo, la studiosa respinge decisamente la tesi secondo la quale con la globalizzazione lo stato-nazione viene cancellato. Semmai, è il suo operato che viene modificato, perché lo stato-nazione diventa il «dominio strategico nel quale si compie un lavoro fondamentale per lo sviluppo della globalizzazione». Non quindi cancellazione, ma mutamento del concetto di sovranità. Saskia Sassen propone quindi una lettura molto articolata tanto del globale che del locale, arrivando a sostenere che la globalizzazione è da considerare una matrice in cui si strutturano le gerarchie, i flussi, i legami all'interno del quale l'operato dello stato nazionale non solo favorisce la globalizzazione, ma diventa protagonista nel creare le condizioni affinché si strutturi una geografia della globalizzazione, caratterizzata da reti di città globali, di regioni specializzate in determinate produzioni di merci, relazioni interstatali su basi continentali, flussi di capitali e di informazione attraverso veicolati da Internet. Lo stato-nazione lavora cioè a un inserimento istituzionale e localizzato della globalizzazione attraverso la «cessione» di alcune sue prerogative in materia di diritto - dalla proprietà intellettuale ai contenzioni tra imprese transnazionali - a organismi internazionali o a factory law private. Dunque non fine della sovranità nazionale, ma una sua metamorfosi che vede il locale fortemente segnato dal globale e viceversa.

Piccole apicalissi

Un processo fortemente contraddittorio e conflittuale, che può conoscere momenti di crisi, come ad esempio questa attuale recessione, considerata da molti studiosi una sorta di fine della spinta propulsiva della seconda ondata di globalizzazione, dopo l'esaurirsi della prima con la crisi della net-economy. Ed è in questo contesto che la paura sia da considerare, per usare le parole di Zygmunt Bauman, l'effetto diretto di quella irruzione del «possibile» - il timore di essere esclusi, la perdita del posto di lavoro - nell'«impossibile», cioè quella «apocalisse personale» fino ad allora considerata una eventualità remota rispetto la propria condizione esistenziale. In altri saggi lo studioso di origine polacca ha parlato spesso della necessità di un welfare state globale, un esito che in Paura liquida diviene sempre più lontano nel tempo visto l'accentuarsi delle caratteristiche del neoliberismo. Prospettiva invece che viene proposta con forza da Saskia Sassen, articolata secondo le gerarchie, i flussi, le reti che caratterizzano la globalizzazione.

Proposta politica certamente condivisibile. La possibilità di «addomesticare» nuovamente la paura senza accentuare le differenze di classe va tuttavia cercata nei contemporanei movimenti sociali, vista la loro capacità di politicizzare i rapporti sociali. La posta in palio, infatti, non è la tollerabilità dell'irruzione del possibile nell'impossibile, ma di riuscire a far irrompere l'impossibile nel possibile. In altri termini, pensare alle proposte, all'azione dei movimenti sociali come l'impossibile che lacera la tela impregnata di paura del possibile. In fondo, per essere realisti occorre chiedere ancora l'impossibile.

Vivere nel reality show del neoliberismo

Uno degli fattori ricorrenti nelle opere di Zygmunt Bauman è l'analisi dei reality show. Dalla dovizia di aneddoti, di titoli citati si può dire che lo studioso polacco è un loro partecipe spettatore. Non solo li guarda alla televisione, ma legge attentamente le reazioni del pubblico nei siti Internet a loro dedicati. I reality show diventano, di volta in volta, la rappresentazione della «pubblicizzazione» della vita privata, del consumo come fattore costitutivo di identità pret-à-porter . Ma soprattutto come espressione di quel darwinismo sociale che vede la vita in società come una lotta di tutti contro tutti. Il loro successo è dovuto al fatto che raccontano una verità nota a tutti: nella modernità liquida l'esclusione non è una remota eventualità, quanto l'esperienza vissuta che accomuna sempre più il manager della grande corporation al giovane precario. Un grande spettacolo nazional-popolare e interclassista, quindi, che andrebbe studiato attentamente per comprendere le forme di vita di vita nella mdernità liquida. Ma quello che colpisce di più nell'analisi di Bauman non è il rifiuto di una attitudine snob verso questo tipo di intrattenimento, ma ciò che accade nell'unverso concentrazionario che viene creato. Tutto è precario e a tempo determinato nella casa di un grande fratello o in una isola dove sopravvivere. Precari e contingenti le amicizie o gli amori che nascono. Precarie e contingenti solo le alleanza stabilite per non essere esclusi. Tutto è fluido e transitorio al fine di sopravvivere. I reality show sono quindi da considerare come l'esemplificazione soft, ma estremamente glamour dell'ideologia sul singolo che diventa imprenditore di se stesso. Così allo stesso tempo anche gli spettatori, chiamati a votare chi deve essere escluso, possono avere percezione di come le strategie di sopravvivenza al di fuori dello schermo abbiano o meno possibilità di successo. La pubblicizzazione della vita privata consente loro di attenuare le ansie, i timori che caratterizzano il lavoro o le relazioni sentimentali. Rinforzando, però, la convinzione che solo facendo leva sulla proprie capacità possono arrivare alla fine del gioco. Da qui, il processo di identificazione con questo o quel partecipante al reality show . E se il giocatore scelto come «modello» viene squalificato, vuol dire che la strategia di sopravvivenza non era adeguata. Il passo successivo è di accentuare l'opportunismo dei propri comportamenti, perché l'universo concentrazionario del neoliberismo è un lager dove non guardare in faccia a nessuno. (B.V.)

Difficile immaginare una locuzione del lessico politico angloamericano più diffusa e prestigiosa a livello planetario della mitica rule of law. Sulla sua data di nascita le opinioni sono discordi, ma non sul luogo dove ha preso inizialmente forma: l'Inghilterra. Ci sono studiosi che indicano la Magna Charta come primo esempio di rule of law; altri, invece, spostano il calendario a quelache secolo dopo, quando il leggendario giudice Edward Cook «vieta» a Re Giacomo I (1603-1625) di sedere nella «sua» Corte, ritenendolo carente di quel bagaglio tecnico e non politico su cui si deve fondare la legittimazione di un giudice. Secoli dopo, un'icona del diritto costituzionale inglese, Albert V. Dicey condannava come irrimediabilmente autoritaria la tradizione amministrativa continentale (napoleonica) proprio perché carente di rule of law, visto che, nei paesi europei, a differenza del mondo anglo-americano, i giudici ordinari hanno infatti giurisdizione molto limitata sui pubblici poteri. Una fondamentale iniezione di prestigio è venuta alla rule of law dall' esperienza costituzionale statunitense, dove i Federalist Papers la ritennero il solo modo per garantire politicamente una società di disuguali, in cui i proprietari sono pochi e devono essere difesi da quelli che non hanno, che sono tanti. La rule of law, affidando ad una Corte dotata di sapienza giuridica la tutela della proprietà privata, indipendentemente dai cambi di umore politico, deve restare, secondo i «federalisti» statunitensi, una garanzia essenziale anche nel nuovo ordine costituzionale post-rivoluzionario, destinato all'attuale egemonia planetaria.

Un concetto bipartisan

In Italia Rule of law è a volte tradotta come «principio di legalità», altre volte come «stato di diritto» o come «governo della legalità»: traduzioni così insoddisfacenti da suggerire il mantenimento dell'originale. Quasi impossibile, in presenza del coro celebrativo che la invoca come panacea per la soluzione di ogni problema di prepotenza del potere, trovare qualcuno disposto ad argomentare contro un sistema politico fondato sulla rule of law, nonostante le sue origini chiaramente conservatrici. Ogni argomento critico nei suoi confronti è considerato una critica a un sistema giuridico «giusto», un sistema economico «efficiente» o un pasto «appetitoso». Si tratta insomma di una di quelle idee che la storia ufficiale ha saputo collocare con successo su un piedestallo di sacralità, tutelato e difeso quasi da ogni parte politica. Una nozione «bipartisan», cara sia alla cultura conservatrice che a quella liberal più devota al cambiamento; icona tanto della monarchica costituzionale inglese quanto delle rivoluzione statunitense.

Qualche anno fa, Niall Ferguson, uno storico inglese di grande successo vicino alla terza via blairiana e clintoniana, ha pubblicato un libro portatore del medesimo ritolo, Impero, reso celebre da Michael Hardt e Toni Negri. Ferguson sosteneva che l'espansione dell'impero inglese aveva certamente prodotto nefandezze quali guerre, genocidi, espropriazioni e deportazioni, ma aveva anche beneficiato le sue prede di un lascito di inestimabile valore: la rule of law appunto, capace di trasformare sistemi (come quello indiano), che altrimenti si sarebbero sviluppati secondo un modello autocratico di dispotismo orientale, in moderne democrazie. In qualche modo, spiegava il giovane storico, successivamente, non per caso assurto ai fasti della cattedra harvardiana ed oggi autorevole firma del New York Times, il gioco era valso la candela.

Infine, non c'è occasione di incontro internazionale in cui la rule of law non diventi il concetto che mette tutti d' accordo. Nel luglio del 2005, ad esempio, in chiusura del vertice del G8 di Londra, Toni Blair ancora scosso dalle bombe che avevano portato il terrore nella capitale inglese, presentava il suo «piano per l'Africa», promettendo (nella generale commozione e approvazione) che la successiva remissione del debito sarebbe dipesa unicamente dalla volontà degli Africani di sviluppare la rule of law. Due anni dopo, la promessa cancellazione del debito non si è verificata, ma in compenso l'ultimo vertice G8, ha organizzato un importante convegno proprio dedicato alla rule of law. Del resto, quale concetto potrebbe mettere d'accordo in piena campagna elettorale, le due donne più potenti del pianeta, Hllary Clinton e Condoleeza Rice? Sfogliando l' ultimo fascicolo del Berkeley Journal of International Law si trova la risposta. Entrambe hanno infatti parlato di rule of law ad un seminario organizzato dalla potentissima American Bar Association (un paio di milioni di avvocati iscritti). Mi sono divertito a cancellare il nome delle autrici e a far circolare i due contributi fra gli studenti di un mio seminario in California, chiedendo di indovinare quale delle due «statiste» avesse scritto quale pezzo. È risultato del tutto impossibile indovinare. Avevano articolato esattamente le stesse (trite) riflessioni!

Quando il Puntland (estemo nord-est somalo) sul finire degli anni Novanta, cercando di consolidare una situazione di relativa pace dovuta al fatto che i macelli (a partecipazione italiana) dell'intervento Restore Hope non si erano spinti così tanto a nord, chiese alle Nazioni Unite di finanziare la ricostruzione di un edificio parlamentare dove far riunire l'assemblea politica di capi tradizionali, non ricevette una lira per la ricostruzione ma, al posto, ottenne la partecipazione di un (ben pagato) team internazionale di esperti incaricati di vegliare sul rispetto delle rule of law da parte della «carta transitoria» che i somali stavano cercando di negoziare. Non si trattava di un facile test per la cultura politica somala. Infatti, la rule of law, come mostra la sua storia tutta occidentale, altro non è che un modello in cui il potere decisionale dei micro-conflitti viene assegnato principalmene a un giurista (il giudice appunto), legittimato da un sapere tecnico-giuridico. Legittimato a decidere non è quindi un soggetto, dotato di un sapere religioso, filosofico-morale o tradizionale come per esempio il quadi islamico, né un uomo politico (come nel principio di legalità socialista) che pure potrebbe vantare in molti casi ben maggior legittimazione democratica.

Non è difficile a questo punto scorgere le principali ragioni del successo planetario della curiosa idea secondo cui la cultura professionale «espropria» quella religiosa e quella politica di gran parte del potere decisionale. Rule of law è infatti una di quelle «nozioni plastiche» in cui ciascuno vede i valori in cui crede. Così, quando la Banca Mondiale, dando ascolto a qualche guru dell'Università di Chicago, impone la rule of law come parte degli «aggiustamenti strutturali» ai quali condiziona il credito, essa vi legge la garanzia per gli investimenti esteri sotto forma di rispetto della proprietà privata e della «sacralità» dei contratti economici. Quando invece un giovane cooperante pieno di buone intenzioni partecipa ad un programma sulla rule of law (ce ne sono centinaia) finanziato da un' università americana, una Ong o un governo (come per esempio quello Italiano in Afghanistan o quello Canadese in Mali) egli legge nella rule of law la tutela dei «diritti umani fondamentali» e pensa così di fare del bene proteggendo qualche minoranza oppressa. Il punto è che fra queste due idee fondamentali c'è antinomia storica a dispetto della comune espressione semantica.

L'ostacolo dei diritti umani

Il Perù di Fujimori, il Cile di Pinochet o la Colombia di Uribe sono stati o sono sicuramente governati dalla rule of law, nella sua accezione di garanzia degli investimenti economica e sicurezza dei diritti proprietari. Dal medesimo punto di vista, la Bolivia di Morales, il Venezuela di Chavez o la Cuba di Fidel sono generalmente considerati carenti di rule of law, perchè gli investitori stranieri sono sottoposti a severi controlli e rischiano nazionalizzazioni: possibilità che suonano come una bestemmia alle istituzioni finanziarie internazionali. Dal punto di vista della tutela dei diritti umani (seconda accezione del termine rule of law), sicuramente si possono tuttavia trovare molti sistemi in cui i diritti umani sono assai più rispettati rispetto a quelli economici, perchè la proprietà privata e la libertà contrattuale vedono (giustamente) severe limitazioni ad opera della mano pubblica. Basti pensare, per un esempio storico, al Cile di Salvator Allende, ma anche a molte socialdemocrazie europee. Anzi, se si vuol dar credito a quanto scrive Naomi Klein (ma molti altri prima di lei) nel suo ultimo libro, il rispetto della rule of law nel primo senso (quello economico) ne rende impossibile il rispetto nel secondo (le ricette neoliberali richiedono la violenza di Stato per essere imposte), mentre il rispetto della rule of law come rispetto dell' effettività dei diritti umani è incompatibile con la sua accezione economica, perchè lo sviluppo dei diritti umani fondamentali non può prescindere dalla ridistribuzione delle risorse.

L'epifania del politico

Occorre peraltro osservare che l'idea stessa di rule of law pone le proprie radici nella più profonda autocoscienza della civiltà occidentale ed è quanto mai remota all'esperienza politico giuridica degli «altri». L'«orientalismo», che tuttora domina il discorso politico del potere occidentale, alimenta la percezione dell'«altro» (il non occidentale) come carente di rule of law. In questa prospettiva, lo stravolgimento della storia giuridica di popoli considerati «senza storia» non ha limiti: alcuni paesi islamici avrebbero conosciuto la rule of law soltanto grazie agli sforzi di modernizzazione giuridica di inizio ventesimo secolo (mentre molti sono ancora nell'oscurità della sharia).

Allo stesso tempo i paesi dell'America Latina dovrebbero ringraziare la colonizzazione e S. Ignazio di Loyola, mentre in molti paesi africani, che nel recente passato avevano rifiutato la colonizzazione e i suoi benefici giuridici di cui ci parla Ferguson, con la caduta del Muro di Berlino le organizzazioni finanziarie internazionali sono intervenute sul diritto, non più visto come una epifania del politico ma come una semplice infrastruttura del sistema economico. Inoltre, anche la Cina, dovrà prima o poi riuscire a capire l'importanza della rule of law. Infine, anche la Russia va aiutata ad aprire gli occhi, vista la continuità, a dispetto delle rivoluzioni, fra l'autocrazia zarista, gli orrori del socialismo reale e il personalismo revanchista di Putin.

Insomma, Solo l'Occidente è padrone della rule of law, e quindi in generale della legalità. Di questo concetto vago, universalizzato in scorrerie coloniali in cui i giuristi sempre legittimano i potenti, non si narra la storia. Piuttosto ne viene «naturalizzato» e «depoliticizzato» il contenuto, per celarne l'essenza: quella di principale ideologia di legittimazione etnocentrica e neo-coloniale, utilizzata tanto dagli ideologi del mercato quanto dai professionisti dei diritti umani.

Nel labirinto delle leggi in difesa dell'Occidente

Dalla conquista coloniale alla globalizzazione economica

Sulla storia del concetto A Concise History of the Common Law di T.F.T. Plucknett, (Little, Brown & Co., Boston), Oltre lo Stato di Sabino Cassese (Laterza), Common Law. Il diritto Anglo-Americano di Ugo Mattei (Utet), Impero di

Niall Ferguson (Mondadori). Un recente importante lavoro che insiste sull' importanza del diritto nella costruzione della dominazione coloniale è Ultramar, L' invenzione europea del nuovo mondo di Aldo Andrea Cassi (Laterza). Il saggio fondamentale sulla dominazione coloniale in Americana Latina resta Le vene aperte dell' America Latina di Eduardo Galeano (Giunti). Un classico del rapporto tra Occidente e il resto del mondo è Europe and the People Without History di Eric R. Wolf (University of California Press). Da segnalare sullo stesso tema anche il volume di William Woodruff The Impact of Western Man: a Study of Europe's Role in the World Economy, 1760-1960 (Macmillan). Particolare attenzione critica agli aspetti giuridici della globalizzazione è data dal saggio di Laura Nader Le forze vive del diritto (ESI). Sulla diffusione del modello giuridico dominante, i libri di Danilo Zolo Globalizzazione. Una mappa dei problemi (Laterza), Imitazione e Diritto. Ipotesi sulla circolazione dei modelli di Elisabetta Grande (Giappichelli); Il diritto sconfinato di MariaRosaria Ferrarese (Laterza), nonché Plunder. When The Rule of law is Illegal di Ugo Mattei-Laura Nader (Blackwell-Viley).

Nella cartella Il capitalismo d'oggi altri articoli di Ugo Mattei

Un formidabile incentivo per comportamenti virtuosi tesi a accumulare ricchezza. La proprietà privata ha assunto una sacralità che la pone al riparo da ogni critica. Eppure gran parte delle costituzioni pongono tutt'ora precisi limiti alla sua diffusione.

Negli Stati uniti è stata emanata una legge per prorogare a settantacinque anni i diritti d'autore della Walt Disney, mentre la Corte federale ha consentito alla Pfizer Corporation di sfruttare alcuni beni comuni in nome dello sviluppo economico

In due precedenti scritti apparsi su queste pagine sono state descritte le trasformazioni soggettive ed oggettive della proprietà privata nell'attuale fase del capitalismo globale. Dal primo punto di vista, la trasformazione più rilevante è stata quella del passaggio dall'individuo proprietario (sovrano dei suoi beni) alla corporation proprietaria, a tal punto potente da contendere allo Stato la sovranità politica (il manifesto, 1/12/07). Dal secondo punto di vista, la cifra della trasformazione è stata quella di una smisurata crescita dei beni occupabili e riducibili alla logica proprietaria del mercato (il manifesto, 28/12/07). Si tratta ora di interrogarsi sul senso politico e giuridico di tali trasformazioni, di verificarne la compatibilità con il contenuto della Costituzione vigente oggi in Italia, per avviare una riflessione critica sulle strade da percorrere nell'elaborare un programma di riforma dotato di una qualche sostenibilità di lungo periodo.

Sul ponte del Titanic

Difficile negare che le recenti trasformazioni della proprietà privata siano da considerarsi processi sociali che hanno lasciato una moltitudine di vinti accanto ad un esiguo numero di vincitori. Poiché tuttavia la storia viene narrata dai vincitori, è difficile sfuggire all'offuscamento generato dall'ideologia dominante da essi prodotta. Ne consegue che pochi programmi politici sarebbero destinati a più sicura sconfitta di quelli che dovessero attaccare il più amato e popolare fra i diritti patrimoniali dell'individuo. Si sprecano infatti le biblioteche volte ad elogiare il diritto dominicale, ed i toni apologetici, hanno nel corso dei secoli accreditato alla proprietà somme virtù, fra cui la capacità di stimolare il lavoro e la produttività, la difesa della libertà e della personalità umana, l'incentivo a comportamenti virtuosi di accumulo e risparmio in vista della trasmissione intergenerazionale delle ricchezze. Si è così prodotto uno spesso strato ideologico dietro al quale si è cementata l'alleanza fra piccola borghesia proprietaria e ceti privilegiati sempre più ricchi, i quali, tramite stili stravaganti di consumo e di ostentazione della ricchezza, dettano i modelli comportamentali che caratterizzano l'attuale danza collettiva sul ponte del Titanic.

Da ormai molto tempo, anche a causa del fallimento del socialismo «realizzato», non ci si sofferma più sul ricco filone di ricerca che vede nella proprietà privata uno dei principali responsabili della povertà e dello sfruttamento. Il riferimento non è soltanto alla critica frontale della proprietà privata prodotta dal socialismo utopista di Jacques Proudhon, raccolta nel celebre aforisma «la proprietà è un furto». Né al materialismo storico di Marx, che pur è prezioso per aver indicato quella netta diversità strutturale fra proprietà privata dei mezzi di produzione ed altre forme di proprietà personale. Una distinzione che la retorica dominante è riuscita a celare, assoldando così la piccola borghesia a baluardo dei privilegi dei super-ricchi. Il riferimento semmai può essere anche a personaggi come Tommaso Moro, niente meno che Lord Cancelliere di sua maestà il quale, nella sua «Utopia», immagina la società ideale come priva di proprietà privata. Anche fra i padri della chiesa non è poi difficile trovare un florilegio di citazioni critiche: «Il ricco è un ladrone» (San Basilio); «L' opulenza è sempre il prodotto di un furto» (San Gerolamo); «La natura ha stabilito la comunità; l'usurpazione la proprietà privata» (Sant Ambrogio); «Nella buona giustizia tutto deve appartenere a tutti. È l'iniquità che ha fatto la proprietà privata» (San Clemente). Parole non distanti da «estremisti» come François Noël Babeuf, secondo cui «Tutto ciò che possiedono coloro che hanno più della loro quota parte individuale nei beni della società è furto e usurpazione».

Occorre oggi recuperare chiarezza sui presupposti teorici delle riflessioni volte a sostenere l'illegittimità di un eccessivo accumulo di proprietà privata (che oltre una certa soglia andrebbe impedito tramite apposite misure fiscali patrimniali). Si potrà allora fondare il coinvolgimento di tutti i lavoratori (per esempio tramite una parte del salario sotto forma di stock options) e delle moltitudini titolari dei beni comuni nei benefici del processo produttivo. È noto che qualsiasi forma di produzione richiede diversi input: gli economisti parlano di capitale e lavoro. A questo binomio vanno aggiunti diversi beni comuni, in particolare «i luoghi» in cui la produzione avviene. Dobbiamo realisticamente accettare che lo sfruttamento del suolo e del sottosuolo siano stati sostanzialmente «privatizzati» in modo irreversibile se non legittimo: gli economisti infatti considerano la terra uno «strumento» per il cui utilizzo il proprietario (ancorché fannullone) può chiedere un prezzo (canone di locazione).

Tuttavia fra i beni che si trovano in natura strutturalmente comuni e necessari per la produzione si trovano ancora (sempre più contesi) acqua, aria e luce del sole. Nessuno fra questi fattori (capitale, lavoro e beni comuni) è di per se capace di produzione. La produzione li richiede sempre tutti presenti simultaneamente. Il capitale non produce assolutamente nulla senza il lavoro che sfrutta ed i beni comuni che consuma. Il lavoro senza il capitale può dar vita all'artigianato, ma a sua volta non produce senza sfruttare beni comuni. I beni comuni non sono produttivi se non «sfruttati» dal lavoro e dal capitale. Ne segue che la produzione è sempre un progetto cooperativo, gran parte dei cui imput non sono proprietà dell'imprenditore (abbiamo abolito la schiavitù) e spesso appartengono a tutti (beni comuni).

Il parassita di Axum

La «proprietà» di quanto collettivamente prodotto, non dovrebbe appartenere perciò al solo capitalista ma anche in parte ai lavoratori (proprietari del lavoro) ed in parte a tutta la collettività (proprietaria dei beni comuni). La scienza economica dominante è per lo più responsabile dell'illusione ottica per cui il capitale è di per sè produttivo. Essa fonda così l'argomento utilizzato dal capitalista per appropriarsi dell'intero prodotto collettivo una volta liquidato, sotto forma di salario, il singolo input lavorativo. Il capitalista che acquista la proprietà del prodotto finito, infatti, non paga né i beni comuni né quello che potremmo chiamare «surplus della cooperazione». Infatti, secondo un celebre esempio, un uomo da solo in cento giorni di lavoro non riuscirà ad issare l'obelisco di Axum, mentre cento uomini ci riusciranno in un sol giorno. È questo surplus o premio cooperativo, dotato di straordinario valore, che il proprietario non paga retribuendo separatamente 100 unità lavorative. Naturalmente per la produzione del surplus risulta necessario un coordinamento. Il lavoro del coordinatore, tuttavia, ai fini della produzione non è più necessario di qualsiasi altro. In una buona organizzazione produttiva infatti tutti gli input sono necessari e sufficienti, sicchè tutti i partecipanti devono partecipare alla divisione del premio e certo non soltanto il proprietario.

La Costituzione italiana stabilisce, con l'articolo 42, che la proprietà è pubblica o privata e che la Repubblica deve rendere quest'ultima accessibile a tutti al fine di garantirne la «funzione social». Inoltre, l'articolo 43 afferma che l'iniziativa economica privata è libera, ma che non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza alla libertà o alla dignità umana. Quanto al lavoro, su cui si fonda la Repubblica, esso deve dar diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa» (articolo 36). Anche i beni comuni sono tutelati in modo ampio (articolo 9).

Difficile alla luce di questo fraseggio considerare la proprietà privata privilegiata rispetto al lavoro o ai beni comuni. Eppure «il capitalismo realizzato» privilegia pochi proprietari o managers, a scapito dei molti, piccoli proprietari o proletari che siano. Infatti, le trasformazioni soggettive della proprietà, che sostituiscono sul piano paradigmatico il vecchio e odioso latifondista con un entità astratta quale la corporation che scherma i suoi gruppi di controllo (formalmente proprietari) ed il suo management (a sua volta proprietario grazie alle stock options) non lasciano indenne il lato oggettivo.

La legge di Topolino

La crescita drammatica della capitalizzazione rende la corporation talmente potente da potersi «comprare» tanto il processo politico quanto quello giudiziario. Alcuni esempi: nell' imminenza di ogni scadenza di copyright appartenente alla Walt Disney Corporation, che comporterebbe il rientro fra i beni comuni di Topolino, Pippo o il mago di Oz, viene fatta passare al Congresso statunitense una legge di proroga della proprietà intellettuale. L'ultima, ribattezzata significativamente Micky Mouse Extension Act, fa oggi durare l'esclusiva proprietaria creata dal diritto d'autore per settantacinque anni dopo la morte dell' inventore. Nel 2004 la Corte Suprema Federale ha approvato questa estensione sebbene la Costituzione Statunitense giustifichi il diritto d'autore come premio per stimolare la creatività.

Controllando i poteri dello Stato, il «latifondo» della corporation travolge perfino la piccola proprietà che vi si contrappone. Il requisito della «pubblica utilità» necessaria per espropriare la proprietà privata viene così travolto dalla necessità delle corporations di accaparrarsi inputs produttivi da sfruttare al fine di profitto. Progressivamente, dietro la spinta delle teorie economiche dominanti, proprio negli Stati Uniti, si insinua l'idea per cui la proprietà può essere forzatamente trasferita da un soggetto privato ad un altro soggetto privato sulla base di un'analisi costi-benefici capace di dimostrare che il nuovo uso (privato) è «più efficiente» di quello precedente.

Le case del viagra

Nel 2005, la Corte Suprema Federale statunitense scardina il postulato dell'uso pubblico come giustificazione dell'espropriazione. Beneficiaria di questa clamorosa svolta è quella Pfizer Corporation famosa in tutto il mondo per il Viagra. Viene infatti considerata legittima l'espropriazione di alcune abitazioni private per consentirle di costruire un laboratorio. Si sostiene che lo «sviluppo» del territorio sia da considerarsi nell'interesse pubblico anche se portato avanti da un privato a scopo di profitto. Si inaugura così una stagione globale in cui le proprietà piccole non godono più di fronte alla legge della stessa tutela delle proprietà grandi: recentemente, simili espropriazioni, accompagnate da inaudita violenza, hanno infatti colpito contadini indiani e cinesi. In Italia la sola rete capillare di telecomunicazione, realizzata negli anni attraverso investimenti di capitale pubblico, è oggi in proprietà di una corporation privata, la Telecom Italia. Anche qui siamo di fronte ad una notevole sovversione di principi fondamentali in materia di appropriabilità privata di beni aventi caratteristiche pubbliche. Così, anche da noi lo strapotere finanziario riesce a «comprare» il processo politico e con esso i beni pubblici.

«Che queste vendite si moltiplichino - scriveva Proudhon nel lontano 1840, di fronte alla vendita di terre coltivabili in Francia -. Fra non molto il popolo che non ha potuto né voluto vendere, che non ha riscosso il prezzo della vendita, non avrà più dove riposare, dove rifugiarsi, dove fare il raccolto: andrà a morire di fame alla porta del proprietario, ai bordi di quella proprietà che fu la sua eredità; e il proprietario vedendolo spirare dirà: Così muoiono i fannulloni e i deboli».

È un momento molto triste per il Kenya, specialmente per chi vive nelle zone colpite dalla violenza. Ci sono già stati delitti e distruzioni: è ora che i leader di questo paese trovino una soluzione per riportare la pace. Sono loro, Mwai Kibaki e Raila Odinga, che hanno le chiavi della pace, anche se avranno bisogno di una mediazione internazionale. L’attuale situazione di violenza può ancora essere fermata, ma se si fa passare troppo tempo i rischi sono altissimi. Le elezioni, da cui questi scontri sono nati, sono state in linea di massima libere e corrette.

Ma è evidente che ci sono stati problemi nel conteggio dei voti presidenziali. Credo davvero che la commissione elettorale non abbia soddisfatto le aspettative dei kenyani. E adesso porta gravi responsabilità per i problemi che il paese attraversa. Il presidente della commissione elettorale, Samuel Kivuitu, doveva essere più rigoroso, più attento agli interessi del Paese. E’ vero che la tensione etnica non è un vulcano che erutta all’improvviso, è una spinta che si stava accumulando già dopo le elezioni del 2003. Ma è esplosa perché la commissione elettorale ha fatto un pessimo lavoro.

Da questo possiamo imparare una prima lezione: bisogna intervenire in anticipo, alla radice dei problemi. In questo caso, tutto è nato dalle promesse legate al Memorandum of Understanding, concordato subito dopo le elezioni. Questo accordo è stato ignorato, il movimento politico che oggi è diventato Orange Democratic Movement è rimasto deluso nelle sue aspettative legittime. E questa è la seconda lezione: noi politici dobbiamo mantenere la parola data. Se non siamo convinti di un accordo, dobbiamo respingerlo dall’inizio, non fare promesse che non vogliamo mantenere. Dobbiamo essere responsabili e degni di fiducia. So che questo spesso non succede, e non parlo solo dell’Africa. Per me la fiducia e il senso di responsabilità sono valori universali: quando non vengono tutelati in maniera adeguata, nascono crisi come questa che attraversa il Kenya.

Ora la preoccupazione importante è fermare gli omicidi, riportare a casa gli sfollati. La paura più grande però è che i nostri leader non si mettano d’accordo per fermare le violenze. Devono arrivare al negoziato, ma ci stanno mettendo troppo tempo. L’unica soluzione possibile a questa crisi passa attraverso un loro accordo, con l’aiuto di negoziatori internazionali. E’ indispensabile un intervento esterno, perché l’opposizione non si fida dell’attuale presidenza. In passato è stata imbrogliata, così perché Odinga dovrebbe fidarsi dell’amministrazione Kibaki, che non ha mantenuto le sue vecchie promesse. Ma servono due diversi livelli di intervento: è bene anche che la comunità internazionale faccia pressioni sul presidente e sull’opposizione, perché da soli non riescono ad accordarsi. Insomma, sono due i ruoli: il primo è quello della persuasione. In questo ho fiducia, so che è al lavoro una persona come l’arcivescovo Desmond Tutu, arrivato a Nairobi per parlare con i due contendenti, so che anche l’Unione africana sta facendo la sua parte, come tutti gli amici del Kenya. Poi c’è la necessità di pressioni vere e proprie: e penso che debbano essere rivolte soprattutto al partito che ha vinto le elezioni.

Qualsiasi accordo dovrebbe prevedere una revisione di questo risultato: le opzioni sono tante, nuove elezioni, o un nuovo conteggio, o comunque una spartizione del potere. Per ora Kibaki invita l’opposizione a ricorrere ai tribunali, ma è lo stesso presidente che nomina e licenzia i giudici: se Odinga andasse in tribunale, il procedimento potrebbe durare cinque anni... non accetterà mai.

Infine c’è un’altra lezione che si può imparare. La democrazia è un processo delicato e richiede leader all’altezza. Politici che mettano da parte le ambizioni personali, per seguire l’interesse comune. Ora è importante che facciano in fretta, per fermare l’assassinio di innocenti. Lo ribadisco: tocca ai due leader fermare le violenze dei loro sostenitori, perché hanno la responsabilità morale di proteggere la vita di tutti i kenyani.

Postilla

Non si può non concordare con la “prima lezione” suggerita dalla dirigente keniana: “bisogna intervenire in anticipo, alla radice dei problemi”.

Ma che cosa c’è davvero “alla radice dei problemi” di una realtà economica e sociale come quella del Kenya?

Pochi la ricordano in questi giorni sui media italiani. E' una realtà di cui si celebra lo “sviluppo”, misurato dalle bilance delle corporations ed espresso dalla crescita economica di alcune limitate enclaves territoriali e sociali (i quartieri direzionali di Nairobi e i villaggi turistici della costa), dimenticando la “normalità” delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, abbandonata alla miseria tradizionale dei villaggi o a quella feroce degli slums, sinistramente funzionali al sistema globalizzato.

Mentre in America è appena uscito l'ultimo libro del critico marxista, titolato «The Modernist Papers», approda finalmente alle nostre librerie la traduzione integrale dello storico saggio che Jameson scrisse oltre quindici anni fa, «Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo», con una postfazione dialettica scritta da Daniele Giglioli Nella sua più recente raccolta di saggi Fredric Jameson conferma uno sguardo analitico che, nel denunciare gli eccessi ideologici, le rigidezze e gli orrori della modernità, coincide per tanti versi con quello fornito dalle tesi del sociologo Zyegmunt Bauman

Remo Ceserani

Il postmoderno a infinite dimensioni

Meglio tardi che mai. La pubblicazione dello storico libro di Fredric Jameson Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (Fazi, 2007, euro 39,50) nella traduzione scorrevole e precisa di Massimiliano Manganelli, accompagnata da una prefazione dell'autore scritta per l'edizione italiana e da una postfazione molto acuta di Daniele Giglioli, arriva dopo quindici anni dall'edizione americana, dopo altrettanti dalla pubblicazione presso Garzanti del primo capitolo, dopo che altri e successivi saggi di Jameson sono stati tradotti e i dibattiti sul postmoderno - sia come periodo storico (la postmodernità) che come movimento dei costumi, delle idee e del gusto (il postmodernismo) - si sono ampiamente complicati e approfonditi.

Da noi, per la verità, molte discussioni non ci sono state e le idee sono rimaste incerte e sfocate. Un paio di anni fa Romano Luperini poteva pubblicare, ancora una volta confondendo postmodernità e postmodernismo, un libro intitolato La fine del postmoderno (Guida 2005) e scrivere: «Il postmoderno, con il suo disincanto e il suo manierismo giocoso e disimpegnato, in agonia già da tempo, è morto, definitivamente crollato con le due torri di New York. Ma nessuno in Italia sembra essersene accorto». Intendeva, probabilmente, il postmodernismo e certi suoi prodotti letterari. Ma non sembrava tener conto, per esempio, dell'opera di un grande scrittore americano come Don DeLillo, il quale si è lucidamente impegnato a rappresentare, con una scrittura nitida (tutt'altro che giocosa e disimpegnata) i cambiamenti profondi della postmodernità.

Immagini dall'11 settembre

Proprio all'evento rappresentato dalla caduta delle torri gemelle ha dedicato il suo ultimo, arduo romanzo, The falling man (Scribner, 2007) presentando quel crollo non come un fatto isolato, di portata epocale, ma come la realizzazione simbolica e mediatica di scenari apocalittici che aveva affrontato in tante sue opere precedenti. E captando, così, con le sue antenne sensibili, i movimenti minacciosi che agitavano, sotto la superficie levigata e splendente, gli strati profondi delle società postmoderne.

Quegli scenari erano già comparsi nel suo primo libro, Americana che aveva per tema - era il 1971 - la disfatta delle realizzazioni orgogliose del capitalismo trionfante e del «sogno americano». Sei anni dopo, fondali simili erano comparsi in Giocatori, e avevano la forma di trappole crudeli capaci di sconvolgere la vita quotidiana di un agente finanziario, che lavorava proprio in una delle torri. E, ancora, DeLillo ambientava I nomi fra complotti e terrorismi del vicino oriente, e immaginava - in Mao II - il fondamentalista Abu Rashid auspicare che il «terrore» potesse rendere possibile un nuovo futuro. Finalmente, in Underworld l'intero continente americano veniva trasformato in una colossale produzione di massa, e in Cosmopolis il protagonista attraversava tutta Manhattan sotto l'ombra profetica delle due torri, sei mesi prima del crollo.

Domande rilanciate

L'11 settembre va preso, a me pare (e credo che tanto Jameson quanto DeLillo sarebbero d'accordo) come uno dei tanti eventi catastrofici che si sono avvantaggiati di quella ripetizione all'infinito resa possibile dal grande mercato postmoderno delle immagini, che hanno segnato e confermato i cambiamenti profondi avvenuti nelle strutture economico-sociali del mondo globalizzato. Accanto ai trionfi della tecnologia, agli arricchimenti favolosi, ai tanti piccoli paradisi in terra, si sono sviluppate e moltiplicate le guerre neocoloniali, le espansioni delle multinazionali - anche del terrore - la politica di prepotenza, le deviazioni dei servizi segreti, lo sfruttamento fuori controllo delle fonti energetiche e i suoi pericolosi effetti sugli equilibri ecologici del mondo.

Al valore simbolico della caduta delle torri accenna anche Giglioli nella sua intelligente postfazione, in cui si impegna con logica stringente a chiarire molti punti dei densissimi discorsi di Jameson, ad aggiornare i problemi e a rilanciare molte domande. Inoltre, con una mossa finalizzata a dare voce alle critiche avanzate dagli studiosi a questo libro, fa l'elenco dei fatti che hanno spinto il mondo in direzioni diverse da quelle a suo tempo previste da Jameson: il ritorno dei nazionalismi, delle guerre e delle fedi religiose, le tendenze essenzialiste e sostanzialiste e, appunto, lo sconvolgimento provocato dall'atto terroristico del 2001. Dunque, pur mantenendo una posizione non del tutto coincidente con quella di Jameson, Giglioli prova dialetticamente a mettersi dal suo punto di vista e, tenendo conto del grande lavoro svolto dopo la stesura, nel 1991, di Postmodernismo non ha difficoltà a riconoscere la correttezza delle scelte di metodo del critico americano e la sostanziale tenuta della sua tesi storiografica principale. Tesi secondo la quale un cambiamento profondo e strutturale, avvenuto in particolare nei modi della produzione e nell'organizzazione dei mercati, compresi i mercati dei prodotti culturali, avrebbe determinato, almeno nei paesi a capitalismo avanzato, una spaccatura profonda negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento e determinato la fine delle ideologie e dell'immaginario della modernità.

Contraddittoria com'è, la cultura italiana ha mostrato a lungo un forte sospetto per le tesi di Jameson, del resto poco note o mal masticate; e, per contro, ha elargito una grande apertura di credito a Zygmunt Bauman, in particolare da quando ha proposto di sostituire al termine postmodernità quello di modernità liquida, sfornando in quantità libri di accattivante lettura. Eppure, i suoi saggi, sebbene muovendosi sul piano sociologico anziché su quello teorico e della critica culturale, sostengono interpretazioni del moderno e del postmoderno non molto diverse da quelle di Jameson. Come si spiega? Certo i libri di Fredric Jameson non soltanto sono densi di pensiero e saturi di inaspettate svolte interpretative, ma impiegano una quantità disorientante di strumenti euristici. C'è, in lui, una vera ingordigia intellettuale, che ha un parallelo soltanto in una altrettanto smisurata ingordigia materiale, mai davvero appagata: prima lo studio della filosofia marxista e delle rielaborazioni di Lukács, Adorno, Marcuse e Althusser; poi Heidegger, poi l'immersione dentro lo strutturalismo linguistico sia di ambiente francese che est-europeo, poi il decostruzionismo, il poststrutturalismo, le idee di Gramsci, Benjamin, Foucault, Negri, e chi più ne ha più ne metta.

La sua grande forza, in tanta abbondanza di stimoli, sta in una genuina capacità di vedere come sia provvisoria, ogni volta, la scelta del punto di osservazione assunto davanti alla complessità dei fenomeni culturali studiati; così come nella capacità di individuare, in ogni fenomeno, sia l'aspetto immediatamente percepibile sia il suo opposto, l'altra faccia nascosta.

Chi si sofferma soprattutto a rilevare, di Jameson, l'insaziabile curiosità e la prodigiosa, a volte non del tutto controllata, capacità di riflessione e di scrittura, rischia di non accorgersi della coerenza di fondo del suo lavoro di storico e di critico della cultura, fermamente ancorato ad alcuni principi di metodo che non abbandona mai, e fra questi la dialettica marxista interpretata in modo non rigido bensì continuamente aggiornata.

Uno sguardo retrospettivo

Uno degli aspetti più interessanti del percorso intellettuale di Jameson sta nel fatto che, dopo avere applicato la sua griglia interpretativa della postmodernità ai più diversi esempi della produzione culturale - dalla architettura al romanzo alla storiografia alla fantascienza al cinema alla televisione ai video alla fotografia alle installazioni al ready-made e così via - con una mossa teoricamente coerente ha spostato la sua attenzione sulla modernità. Per descrivere efficacemente un periodo storico e le culture che lo hanno segnato è utile, infatti, distaccarsene. Sono nati così libri come Una modernità singolare, sul quale si è ingannato non solo Luperini, che vi ha letto segnali di abbandono del postmodernismo e di ritorno al modernismo, ma anche Carla Benedetti, autrice di una premessa alla traduzione italiana che fornisce una interpretazione tendenziosa delle posizioni di Jameson.

Del resto, una conferma dell'itinerario intrapreso dal critico di Duke viene anche dal suo nuovo libro, appena giunto dagli Stati Uniti, che sotto il titolo The Modernist Papers (Verso, 2007) raccoglie i saggi che negli anni ha dedicato ai problemi della modernità e a scrittori come Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Mann, Joyce, Proust, Gertrude Stein, Williams, Soseki, Oe, Kafka, Céline, Stevens, Weiss; e a pittori come Cézanne, o De Kooning, affrontando molte altre questioni ancora. La descrizione che - in questi saggi - viene data della modernità, rivela uno sguardo critico, che nel denunciarne gli eccessi ideologici, le rigidezze e gli orrori, in più punti coincide con l'ottica di Bauman.

Giudizi da rivedere

Dopo avere elencato i giudizi tradizionali e stereotipati solitamente proiettati sui movimenti modernisti - la presunta apoliticità, il ripiegamento sul soggetto, la psicologia introspettiva, l'esteticismo e le teorie dell'arte per l'arte - Jameson osserva: «nessuna di queste caratterizzazione mi sembra ormai persuasiva; sono parte di un vecchio bagaglio ideologico modernista, che qualsiasi teoria contemporanea del moderno ha il compito di sottoporre a scrutinio e di demolire». E allora, a forza di energia distruttiva e di spirito dialettico, Jameson si mette all'opera: modernizzazione e tecnologia, reificazione consumistica, astrazione monetaria, generale perdita di significato, frammentazione del tempo e dello spazio, casualità del dettaglio e «contingenza» delle esperienze esistenziali, dereificazione della città e della vita sociale, accentuato interesse per gli stili e le poetiche, formazione della cultura di massa, e così via. Pochi scrittori si salvano. Forse Joyce, perché «Dublino non era esattamente una matura metropoli capitalista, ma, come la Parigi di Flaubert, aveva un carattere regressivo, era ancora in certo modo simile a un villaggio, non abbastanza sviluppata, grazie al dominio esercitato da padroni stranieri, e perciò era ancora rappresentabile». Che ci sia, a questo punto, da dare un giudizio meno drasticamente negativo della condizione postmoderna?

Benedetto Vecchi

Un pensiero critico che ha colto nel segno

Strano destino quello del Postmodernismo, il volume di Fredric Jameson che Fazi ha mandato alle stampe nella sua edizione integrale. Un'opera che aveva preso le mosse da alcuni saggi apparsi sulla «New Left Review» quando il Muro di Berlino sembrava una presenza destinata a durare ancora per secoli, ma che era stata pubblicato negli anni in cui le macerie di quel muro venivano vendute come souvenir di un'era lontana nel tempo. Una manciata di anni, giusto il tempo per inscrivere Jameson tra le schiere osannanti il nuovo ordine mondiale. Una vera e propria beffa per uno studioso che riteneva il postmoderno niente altro che la logica culturale del capitalismo maturo, invitando a cercare tra le righe dei testi lukacsiani o della dialettica negativa di Adorno il grimaldello per scardinarla. Jameson non mostrava infatti nessuna indulgenza verso la retorica sulla fine delle grandi narrazioni che un filosofo francese a lui contemporaneo, Jean-François Lyotard, distribuiva a piene mani attraverso i suoi saggi.

Il capitalismo maturo, argomentava Jameson, è una totalità che all'interno dell'oscillazione tra omologazione e differenza, preferisce quest'ultima per alimentare un pluralismo degli stili di vita e la presenza di identità prêt-à-porter. E per meglio esemplificare la sua riflessione sceglieva di sezionare manufatti culturali tra loro eterogenei, dalle opere architettoniche che devono ostentare il potere delle multinazionali, o la gentrification delle metropoli americane, ai romanzi di Thomas Pynchon, che destrutturano la progressione lineare del tempo storico. Per Jameson, lo sviluppo del capitale mina infatti alla radice il progetto del Moderno, radicalizzando però alcune tendenze già presenti nella modernità. Una miniera di suggestioni la sua, che hanno aperto filoni di ricerca fino ad allora ignoti, arrivando a presentare le opere dell'ultimo Derrida o di Michel Foucault non come testi filosofici, bensì come espressioni, seppur sofisticate, di una sociologia del capitalismo maturo.

Poi la storia ha seguito il suo corso e le tesi di Jameson sono state liquidate come un sofisticato esercizio accademico. Al posto del pastiche postomoderno sono subentrate le identità forti basate sulla religione o sul sangue, un pensiero liberaldemocratico che sceglie come sua radice un illuminismo depurato della sua dialettica e che punta l'indice contro i postulati egualitari della democrazia, mentre la risacca plumbea dello tsunami della globalizzazione ha aperto la strada alla guerra infinita al terrorismo. Insomma, il postmoderno di Jameson poteva essere lasciato alla «critica roditrice dei topi». Ma a differenza di quanto sostengono i passati e attuali critici era sì giusto archiviare la sua riflessione, ma perché aveva colto nel segno. Postmodernismo è stata infatti un'opera seminale senza la quale sarebbe stato impossibile pensare a un pensiero critico all'altezza della grande mutazione del capitalismo mondiale. Il problema, semmai, è continuare la sua esplorazione del presente, considerando il revival liberaldemocratico o la retoriche attorno alle identità forti come varianti di quella condizione postmoderna che Jameson ha insegnato a guardare senza rimanerne pietrificati.

Il potere delle grandi imprese transnazionali si esprime nella capacità di legittimare la proprietà privata. In Italia, dopo il tramonto della stagione riformista degli anni Settanta, il modello giuridico dominante è quello che proviene dagli Usa Le trasformazioni in atto nel capitalismo possono essere meglio comprese a partire dai cambiamenti avvenuti nel diritto di proprietà

Ripercorrere le trasformazioni e gli itinerari culturali intorno ad un istituto giuridico-politico centrale come il diritto di proprietà, per cogliere il senso delle trasformazioni radicali dell'attuale contesto capitalistico, impone drastiche scelte. Il regime dell'appartenenza delle risorse aventi valore economico è infatti la spina dorsale di ogni economia politica in qualsivoglia stato di sviluppo. Per questo motivo, ogni trasformazione sociale è prodotta da e a sua volta produce mutamenti, formali o informali, nel regime della proprietà. A causa dell'interdipendenza dei sistemi economici, e delle grandi trasformazioni della sovranità possiamo assumere il modello interpretativo del «sistema-mondo» offerto da Immanuel Wallerstein e considerare così l'Italia come una «semiperiferia». Le questioni politicamente rilevanti in Italia sono dunque da un lato determinate da quanto si sviluppa al «centro» (che possiamo assumere, ancora forse per poco tempo, coincidente con gli Stati Uniti d'America); dall'altra, esse sono capaci di determinare mutamenti sociali nella «periferia», ossia in contesti di più limitato potere (soprattutto nel Sud del mondo), con tutte le responsabilità che ciò comporta.

Un privilegio rinnovato

Discutere di proprietà oggi richiede dunque un'impostazione «internazionalista». Impostazione che ha il pregio di delimitare la prospettiva temporale al periodo di più intensa trasformazione delle coordinate giuridiche del capitalismo contemporaneo, quello che va dalla crisi e conseguente caduta del sistema bipolare della guerra fredda fino ai nostri giorni. Un periodo in cui si sono prodotte trasformazioni tanto profonde quanto quelle che nei secoli passati hanno portato all'abbandono in Occidente di sistemi di appartenenza collettiva a favore della proprietà individuale borghese, trionfante, come noto, nei codici napoleonici (1804). Tuttavia le tendenze trasformative oggi in atto possono apparire contraddittorie (ad esempio, la grande società di capitali che oggi domina la scena è soggetto collettivo). Per coglierne il senso, bisogna quindi rinunciare a modelli interpretativi monistici, cercando di cogliere l'istituto della proprietà nella sua viva storicità.

Scriveva Censor nel suo Rapporto veridico sulle ultime possibilità di salvare il capitalismo in Italia, (Mursia), pamphlet situazionista attribuito alla destra più prestigiosa, addirittura a Guido Carli: «La Costituzione della Repubblica Italiana aveva abolito tutti i secolari privilegi e distrutto tutti i diritti esclusivi, lasciandone sussistere uno fondamentale, quello della proprietà privata nella prospettiva utopistica di estenderla a tutti. Ma non bisognava che i proprietari, in un'epoca in cui gli stati di mezza Europa dovevano affrontare un crescente malcontento dei lavoratori e della giovane generazione in genere, si facessero troppe illusioni sulla forza della loro situazione...... oggi che il diritto di proprietà a molti sembra essere l'ultimo resto di un mondo aristocratico distrutto de iure et de facto, ...appare con maggior evidenza come l'unico privilegio isolato in una società livellata, allorchè tutti gli altri... ben più contestabili e giustamente odiosi, non gli fanno più da paravento, lo stesso diritto di proprietà si trova ad essere messo in discussione con maggior pericolo e con violenza contagioisa: non più chi lo attaccava ma chi lo difendeva sembrava chiamato a giustificarsi».

L'alleanza tra rendita e profitto

Sono parole lontane anni luce dalla realtà contemporanea. Chi contesta più oggi, in Italia ed in generale nell'Occidente opulento, la proprietà privata? Chi discute più i privilegi dei «padroni»? Quale potente forza sembra aver spazzato ogni dissenso di fronte al Terribile diritto, come ancora poteva essere descritto da Stefano Rodotà agli albori della rivoluzione reaganiana e tatcheriana? Che fine ha fatto oggi la matrice comunitaria di quell'Altro modo di possedere cui dedicò pagine indimenticabili il decano degli studi sul diritto medievale e moderno Paolo Grossi? Sembra quasi che a partire dai primi anni Ottanta il dibattito sull'appartenenza, individuale o collettiva, privata o pubblica, si sia spento, soffocato dall'irresistibile ideologia dominante che fa della privatizzazione la propria bandiera sventolante a destra e a sinistra.

Eppure in Italia la discussione sulla legittimazione della proprietà privata, sulla responsabilità dervianti dal detenere risorse a titolo individuale e sui limiti giuridici che vanno apportati ai poteri del proprietario è stata «alta» e ha oltrepassato la sede costituente, vedendo all'opera protagonisti illustri, tanto sul versante «accademici» (Pietro Rescigno, Ugo Natoli, Pietro Barcellona, Stefano Rodotà fra gli altri) che giudiziario (Corte Costituzionale) che, soprattutto, politico, se si pensa alla quantità di significative riforme volte a «limitare» la proprietà privata per adempiere il mandato costituzionale (gli articoli 41 e 42) di immaginare un modello a capitalismo misto, sociale e responsabile. Uno sforzo ancora assai vivo negli anni Settanta. Dal cosiddetto equo canone alla riforma agraria, dalla legge urbanistica alla legge sulla casa, gli interventi di uno stato sovrano, basato sì sul modello di proprietà privata individuale e borghese, questi interventi legislativi erano caratterizzati da una «matrice» nettamente ridistributiva.

Iniziative legislative ottenute, va ricordato, a dispetto di resistenze significative. Così annotava il leader socialista Riccardo Lombardi, commentando la prima importante conquista del secondo decennio delle riforme sociali, la «Legge sulla casa» del '71: «La resistenza (alle riforme) ha visto permanentemente associati i settori così detti avanzati del capitalismo con quelli arretrati e con quelli agrari, cioè l'alleanza del profitto con la rendita». Un'alleanza peraltro ricorrente in Italia (e non solo) dove, in una certa fase dello sviluppo capitalistico, come si può leggere nella prefazione al libro di Michele Achilli Casa: vertenza di massa (Padova, Marsilio Editore 1972) «la interconnesione fra posizioni di rendita e posizioni di profitto, fra forme tecnologicamente avanzate e forme arretrate di sfruttamento singolo e collettivo, interno ai luoghi di produzione ed esterno, è tale da aver costituito fino ad oggi la base più solida di unità delle clasi dominanti, sia durante il fascismo che nel pre-fascismo e nel post-fascismo».

Un fraseggio costituzionale non ambiguo e largamente favorevole ad un modello solidaristico e sociale (caro tanto al cattolico Dossetti quanto al cominista Togliatti) non consegna alla proprietà privata praterie illimitate di accumulo capitalistico. Cerca semmai di «civilizzare» gli «umani» rispetto ai propri appetiti acquisitivi, limitando la proprietà privata con attribuzioni molto significative al settore pubblico tanto in funzione di godimento collettivo quanto di impresa di stato (ed è fin troppo ovvio evocare qui i nomi di Beneduce, Menichella e Mattei).

A dispetto di ciò, abbiamo assistito a partire dagli anni Ottanta al trionfo anche ideologico di un processo di privatizzazione «all'anglo-americana», accompagnato da una crociata contro lo Stato proprietario e alla conseguente insofferenza per i «limiti costituzionali» alla proprietà privata. Questo mutamento di clima culturale, che ha travolto l'intero Occidente, ha partorito in Italia perfino la damnatio memoriae della proprietà sociale, simboleggiata dall'ambizioso progetto delle «case Fanfani» dileggiate come un esempio degli sprechi e dei privilegi ingenerati dallo Stato proprietario.

Passata la ventata riformista, a partire dai primi anni Ottanta, la questione proprietaria è stata dunque accantonata nella riflessione italiana e, nella disattenzione generale degli addetti ai lavori (prigionieri di gabbie disciplinari incrollabili), un altro soggetto collettivo e potentissimo, la corporation, ha potuto occupare gran parte degli spazi pubblici dismessi dallo Stato. In pochi anni, il ritardo culturale accumulato a causa di questo abbandono e dell'accettazione di uno status quo di primazia del capitale sul lavoro (in gran parte spiegabile con la resa al padronato simboleggiata dalla famosa marcia dei 40.000 a Torino) ha reso la riflessione di casa nostra del tutto sprovvista di strumenti critici (necessariamente pluridisciplinari) volti a filtrare l'onda di ricezione proveniente dagli Stati Uniti.

L'Italia, messa in ginocchio dallo shock petrolifero e dall' inflazione a due cifre, è piombata in una crisi di sovranità politica da cui non si è ancora ripresa. A causa dell'indebitamento (oggi detenuto per oltre metà da corporate interests stranieri) ha così dovuto insistere per oltre vent'anni, senza porsi troppe domande, su quel processo di privatizzazione degli spazi pubblici che ha trovato nel pensiero economico dominante la potente retorica di legittimazione, al di là dei suoi evidenti e drammatici costi sociali.

Le conquiste dei decenni precedenti, anche a causa dei limiti nella capacità pubblica di implementarle senza sprechi ed in modo imparziale, sono state in gran parte travolte ed il diritto di proprietà privata sui mezzi di produzione (ritrasformato in una retorica di libertà) ha potuto risorgere ed essere «ri-naturalizzato» nella sua concezione ottocentesca, senza tener conto della differenza abissale che intercorre fra l'individuo proprietario (piccolo o grande poco importa) e la corporation proprietaria, dotata di una forza economica e politica oggi ben più forte di quella di uno Stato, sempre meno proprietario e quindi sempre meno sovrano (mancandogli i mezzi economici per l'esercizio della sovranità stessa).

L'accumulo illimitato di risorse

La proprietà privata, con il suo contenuto di potere illimitato sui fattori di produzione (e quindi anche sul lavoro) è tornata ad essere la struttura fondamentale ed indiscutibile di un modello capitalistico sempre meno sociale e sempre più fondato sulla «scienza dello sfruttamento».

Vale la pena di interrogarsi su questa vicenda e sulle ragioni della paralisi di una discussione politico-culturale che aveva conosciuto punte di eccellenza a livello internazionale, anche per riaprire, in una nuova stagione di emergenza globale senza precedenti, la questione della legittimità della proprietà privata e dell'accumulo indiscriminato di risorse che essa consente. In sintesi: è giusto e legittimo che di fronte all'esaurirsi delle risorse energetiche (e dei costi umani del loro accaparramento) e all'emergenza ambientale, una minoranza possa disporre senza limiti di beni quali aerei, auto di lusso, yachts grandi quanto traghetti, godendo della protezione ideologica della proprietà privata e della crociata contro il comunitarismo? È possibile che un istituto giuridico quale la proprietà privata non debba portare alcuna responsabilità di una situazione globale in cui un miliardo di umani non lascia quasi nulla agli altri sei miliardi, con conseguente tragico destino per tutti? Non è proprio questo l'istituto giuridico che ha appiattito, dietro una forma comune (sono entrambi proprietari!), la situazione del piccolo-borghese e quella della grande corporation che controlla più risorse dello stesso Stato? E ancora: non è proprio il matrimonio di interesse fra la retorica della libertà proprietaria e la logica del profitto trimestrale della corporation ad aver eclissato qualsiasi capacità di programmazione di lungo periodo nell'attuale fase del capitalismo globale?

Sono domande che cominciano a riemergere nel dibattito critico più avvertito e che mettono sempre più vistosamente in crisi l'idea per cui la democrazia (politica) possa aver senso al di fuori dell'uguaglianza (economica).

L'articolo successivo è uscito sul manifesto il 28 dicembre 2007. In eddyburg è qui

Scaffali. Il terribile diritto

Un testo classico sul tema della proprietà privata all'interno della riflessione giuridica italiano resta la raccolta di Stefano Rodotà «Il terribile diritto» (il Mulino). Per gli successivi sviluppi, si vedano «La proprietà» di Antonio Gambar (Giuffrè) e «Il diritto di proprietà» di Ugo Mattei (Utet). Per una ricostruzione del clima culturale dell' ultimo periodo delle riforme progressiste, si veda il volume collettivo «Gli anni Settanta del diritto privato» curato da Luca Nivarra (Giuffrè). Un classico sulla questione della proprietà collettiva è il volume «Un altro modo di possedere» di Paolo Grossi (Giuffrè). Per qualche importante dato su alcune trasformazioni del contesto economico, va segnalato il volume di Gianmaria Gros Pietro, Edoardo Reviglio e Alfio Torrisi «Assetti proprietari e mercati finanziari europei» (Il Mulino). I riferimenti classici nella tradizione giuridico-politica sono P. J. Proudhon «Che cos'è la proprietà» (Zero in Condotta), nonché «Le origini della famiglia, della proprietà e dello stato» di Friedrich Engels (Editori Riuniti).

Nota - La questione della proprietà, dei suoi limiti e dei suoi attributi è sempre stata centrale per il destino della città, e presente nel dibattito urbanistico nei suoi momenti migliori. Si veda in proposito, oltre ai testi suggeriti dallo "Scaffale" del manifesto , il libro di Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano , si cui in eddyburg trovate anche la prefazione all'edizione italiana integrale (2006).

L'icona nella Homepage è la locanbdina del film The Corporation, di Mark Achbar, Jennifer Abbott e Joel Bakan

La scoperta del «Nuovo mondo» non fu benedetta solo dai rappresentanti della fede cattolica. A legittimare la conquista delle Americhe furono i custodi della legge, che imposero l'appropriazione privata delle terre Il diritto che sancisce la proprietà privata entra in campo ogni volta che un prodotto dell'attività umana deve sottostare ai principî dello sfruttamento commerciale. È stato così per il colonialismo. È così per quei territori di confine come la manipolazione genetica e il world wide web

Il classico esordio di un corso universitario sul diritto di proprietà consiste nel chiedere agli studenti di sforzarsi nella descrizione innanzitutto esemplificativa e poi concettuale dell'argomento che sarà trattato. Invariabilmente gli studenti, basandosi sulla propria esperienza quotidiana, tendono a porre al centro della definizione un esclusivo potere dell'individuo su un bene materiale, sia esso un appartamento, un libro o un altro oggetto. Qualcuno identificherà poi la proprietà come l'oggetto su cui il titolare può vantare un diritto, come nella «roba» di verghiana memoria. A questo punto, il docente inviterà a non confondere il diritto con il suo oggetto. Altri studenti si spingeranno a parlare di proprietà di un'impresa, (gli stabilimenti di Mirafiori sono «proprietà» della Fiat), evocando il classico conflitto fra proprietà e lavoro, ma il docente interverrà prontamente per spiegare che, tecnicamente, le azioni non sono forme di proprietà ma semplici titoli di credito e che esiste una differenza profonda fra proprietà, impresa e azienda. Similmente, qualcuno dirà di avere la proprietà del proprio conto in banca o del proprio denaro, per scoprire anche qui che, tecnicamente, noi non siamo proprietari del denaro che depositiamo in banca. Godiamo di un semplice diritto alla restituzione dello stesso. Da questo momento in poi seguiranno domande alquanto problematiche.

Posso essere proprietario ed entro quali limiti di un altro essere vivente? Sono o posso essere proprietario del mio corpo o delle sue parti? Una coppia sterile è proprietaria delle uova congelate? (Fingiamo che la legge 40 non esista per carità di patria) Sono proprietario del mio posto di lavoro qualora assunto e garantito contro il licenziamento? Sono proprietario della mia immagine? La schiavitù è davvero finita o un'organizzazione carceraria privata è proprietaria degli ergastolani?

Potere assoluto sul mondo

Il test serve a mostrare la natura profondamente polisemica del termine e al contempo a spiegare agli studenti che il significato tecnico-giuridico, prodotto dal lavorio secolare della cultura giuridica academica notarile o giudiziaria, secondo le diverse tradizioni, ha poco o nulla a che fare con quello comune. Per ciascuna di queste e di altre domande simili, il giurista delle diverse tradizioni offrirà diverse risposte e utilizzerà un bagaglio tecnico che a forza di distinguere, farà perdere interamente il senso e il significato profondamente politico dell'«appropriabilità» privata delle risorse.

In Occidente siamo partiti dal diritto romano e dalla sua definizione di proprietà (dominium nella lingua latina) come potere assoluto (di «usare ed abusare» un bene) esercitabile su ogni oggetto del mondo fisico tangibile, compresi mogli, figli e schiavi su cui, come noto, il dominus aveva potere di vita o di morte. Per il giurista occidentale contemporaneo, dopo le lotte ottocentesche per l'abolizione della schiavitù, il diritto di proprietà (che ancora può esercitarsi su esseri viventi, ancorchè non più, legalmente, su esseri umani) ha oggi struttura variabile insieme alla molteplicità potenzialmente infinita delle forme dell'esperienza sensibile, e costituisce un insieme di poteri, facoltà e qualche obbligo (la Costituzione tedesca contiene il celebre enunciato: «la proprietà obbliga») che possono insistere su qualsiasi oggetto qualora il diritto «sovrano» stabilisca che esso è privatamente appropriabile. Il mondo appropriabile privatamente naturalmente varia, nello spazio e nel tempo, ed in modo anche molto netto, a seconda di quanto gli ordinamenti giuridici stabiliscono.

Un'espansione inarrestabile

La vicenda dell'abolizione della schiavitù - abbandonata in Occidente quando la struttura della produzione capitalistica l'ha ritenuta inefficienti rispetto ai suoi obiettivi - ha costituito l'ultimo arretramento significativo dell'appropriabilità privata di intere categorie di «oggetti» (per l'appunto gli esseri umani). Per il resto, la proprietà privata, celebrata come istituzione fondamentale di una società libera nelle «carte» dei diritti prestigiose come il bill of rights americano o la declaration universale dei diritti dell'uomo e del cittadino francese, ha sempre progressivamente conquistanto nuovi spazi alla logica del dominio individuale. Tolta la parentesi sovietica e quella degli gli altri (pochi) paesi in cui ancora i mezzi di produzione non sono oggetto di proprietà privata, la storia dei sistemi capitalistici ci mostra un processo apparentemente inarrestabile di espansione dell'appropriabilità privata dei beni, al fine di garantire giuridicamente lo sfruttamento economico di tutte le utilità che man mano, diventano appropriabili.

Man mano che avanza la frontiera (geografica o tecnologica) delle potenziali utilità, avanza dunque la struttura guridica del loro sfruttamento. Si tratta di un fenomeno espansivo documentato tanto dalla letteratura critica quanto da quella apologetica del capitalismo e delle sue istituzioni fondamentali di cui la proprietà privata, è la vera regina. Alcuni esempi, storici e contemporanei, renderanno l'idea in modo concreto di questo processo. La scoperta del nuovo mondo, all'origine dell'era moderna, conferisce alla proprietà privata una grande frontiera geografica di espansione. Un notaio viaggia sulla Santa Maria insieme a Cristoforo Colombo e documenta, con la precisione di tipica di questa professione dotta, i riti formali giuridicamente necessari attraverso cui il navigatore genocida può rivendicare legalmente la proprietà «scoperta» in nome della corona di Castiglia. Nella parte nord del continente nuovo, saranno i giuristi-filosofi più sapienti, seguaci della Scuola del diritto naturale (che a partire dal tardo quindicesimo secolo affina ed elabora in chiave di libertà la nozione romanistica del dominio), da Vittel a John Locke, a legittimare, sulla base della teoria della terra nullius abbandonata, selvaggia e quindi appropriabile per occupazione (come oggi le conchiglie sulla spiaggia), l'usurpazione delle terre abitate dai nativi.

In nome dell'efficienza

Risulta del tutto evidente che la proprietà privata ed individuale della terra non è un diritto in alcun modo naturale ed universale, né tanto meno l'essenza della libertà umana, ma un sempliche requisito istituzionale del suo «efficiente» sfruttamento economico in una logica di breve periodo quale quella tipica dello sviluppo capitalistico. Al più può leggersi come il presupposto della libertà di accumulazione borghese rispetto all'antico ordine feudale, il che è evidentemente un discorso del tutto storico e politicamente contingente. Infatti, i nativi americani, fossero essi al nord come al sud del nuovo continente, non essendo giuridicamente figli del dominio «romanista», non concepivano affatto l'appropriabilità privata della terra. Nella loro concezione, ancor oggi condivisa da molte popolazioni alla periferia dell'Occidente capitaista (si pensi alla festa boliviana della pacha mama o a gran parte del diritto fondiario africano) ma anche dal pensiero critico ed ecologista più avanzato, il binomio è semplicemente invertito. La terra non può appartenere ad un uomo proprio perchè l'umanità appartiene alla terra, sicchè la sottrazione e la violenza modernizzatrice sulla terra madre non può che causare la distruzione e la rovina dei suoi figli che con essa vivono in equilibrio.

Le grandi frontiere di possibile espansione per la proprietà privata capitalistica non sono prodotte soltanto dalla conquista politico-militare di nuovi territori fisici (quasi superfluo menzionare le frontiere contemporanee dell'espansione in Afghanistan e Iraq ecc.) ma anche dalle conquiste della tecnologia. Certe tecnologie sono infatti necessarie per sfruttare determinate utilità, anzi sono proprio costitutive delle utilità stesse. Per esempio, ai tempi dell'impero romano non avrebbe avuto senso immaginare una proprietà sull'etere elettromagnetico o radiotelevisivo, o ancora sulle profondità marine (è di qualche mese fa la notizia della conquista formale degli abissi del polo nord da parte della Russia) o, con l'avvento dell'«era internet», sull'informazione e quindi sui domain names dei siti, attribuiti oggi in proprietà privata sulla base del principio della prima occupazione, proprio come le terre nullius delle Americhe. È quasi superfluo notare che il principio dell'appropriabilità per prima occupazione è soltanto apparentemente neutrale. Esso infatti è a disposizione soltanto di chi abbia mezzi sufficienti per implementare le procedure dell'impossessamento ritualizzato necessarie per acquisire la proprietà. Solo i conquistadores infatti avevano sufficienti mezzi per occupare le terre americane (anche sconfiggendo le resistenze), ed erano sempre accompagnati da un giurista oltre che da un sacerdote per dar legittimità alla presa.

Oggi soltanto una minoranza (occidentale) di individui ha a disposizione i quindici dollari e l'accesso a Internet necessari per acquistare la proprietà di un domain name. Ed è per questo motivo che già sappiamo che determinate etnie sino state legalmente depredate perfino della propria presenza nel mondo virtuale, visto che, per esempio, Yanoumani.com è di proprietà di una compagnia statunitense. Per non parlare dei mezzi economici, tecnologici e politici necessari per occupare uno spettro di frequenze.

La difesa del bene comune

È assai interessante osservare come l'avanzamento tecnologico sia capace di restituire alla proprietà privata perfino spazi che essa aveva precedentemente perduto a causa dell'avanzamento della frontiera della civiltà. Nel corso del complicato processo di abolizione della schiavitù si era saputa imporre una visione del mondo per cui mai più il terribile diritto avrebbe potuto avere ad oggetto l'umano. Oggi la tecnologia consente l'espianto cadaverico, il congelamento degli embrioni, e l'utilizzo del Dna per la ricerca, tutti progressi utili ed affascinanti. Queste innovazioni tecnologiche vanno governate con strumenti pubblici al fine di trarre massimo giovamento sociale dalle utilità che producono. Nei fatti tuttavia è la proprietà privata, sempre più spesso concentrata nelle mani di potenti corporations, ad avere la meglio rispetto alle sue alternative pubblicistiche di governo della nuova frontiera del sapere.

In molti stati americani è la sua logica, sostenuta dai poteri economici e politici forti, a governare ormai le utilità che si possono trarre da cadaveri, embrioni e (la partita è soltanto all' inizio ma quanto mai aperta) genoma umano. Sicchè gli spazi pubblici si riducono a favore del profitto privato.

Sanno bene i boliviani a proposito dell'acqua, un altro bene comune assai attraente per il dominio privato, che quanto avviene al centro prima o dopo contagia la periferia. E la semiperiferia italiana farebbe bene per una volta ad abbandonare il miraggio culturale del centro (da cui sempre più massicciamente importiamo modelli giuridici e culturali) ed imparare anche dai modelli subalterni. La lotta per difendere i beni comuni se vuole essere vittoriosa deve essere lunga e continuativa. Non basta certo una giornata di sciopero e protesta ancorchè assai partecipata così come una giornata non è mai bastata per contrastare alcun altro orrore del capitalismo, a cominciare dalla guerra.

Il precedente articolo dedicato alla proprietà privata è stato pubblicato il 1 dicembre. In eddyburg è qui

Titolo originale: The Ave and the Ave Not – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

IN CIRCA UN MESE, l’influenza a viaria ha fatto la sua comparsa in un numero apparentemente allarmante di nuovi paesi. La malattia è già endemica nella popolazione dei polli di gran parte dell’Asia. Di fronte alla marcia inarrestabile del virus H5N1 per il mondo, il fatalismo non è una risposta adeguata. Meglio guardare attentamente a quello che sta succedendo.

L’arrivo dell’influenza dei polli in Europa e dintorni ha causato gran parte dell’agitazione, ma i vari casi in Azerbagian, Bulgaria, Grecia, Italia, Slovenia, Iran, Austria, Germania, Francia, Ungheria e Croazia riguardano solo uccelli selvatici. In Nigeria, Egitto e India, il virus è stato scoperto ampiamente distribuito nella popolazione dei polli.

Se la presenza del virus in qualunque forma è un problema, Nigeria, Egitto e India hanno di fronte rischi maggiori con popolazioni allevate in modo intensivo, e sono meno attrezzate ad affrontarli. Più significativo, appare sempre più evidente che la questione vera e più immediata è sino a che punto possano essere gli animali selvatici, o gli stessi esseri umani, i responsabili della diffusione delle infezioni nei polli.

Un rapporto di ricerca pubblicato online il febbraio su Proceedings of the National Academy of Sciences, mostra che il virus H5N1 persiste nel luogo di nascita, la Cina meridionale, da quasi dieci anni, ed è stato introdotto in Vietnam in almeno tre occasioni e in Indonesia. Gli autori suppongono che questa trasmissione venga perpetuata soprattutto dal movimento di polli e prodotti correlati, anziché da uccelli migratori.

Si tratta di un’ipotesi di grande significato, sostenuta da chi protegge la fauna aviaria, e che sostiene come la maggior parte delle comparse della malattia in Asia sud-orientale possano essere collegate allo spostamento di polli e prodotti correlati, o di materiale infetto da allevamenti, come fango sui veicoli o scarpe delle persone. I conservazionisti sostengono anche che i mercati degli animali vivi hanno giocato un ruolo importante nella diffusione del H5N1. Sono stati questi mercati la fonte del primo manifestarsi noto a Hong Kong nel 1997 quando 20% dei polli vivi sul mercato risultavano infetti.

BirdLife International, gruppo conservazionista, giudica esistano tre probabili forme di trasmissione di H5N1: scambi commerciali e spostamento di pollame; commercio di uccelli selvatici; uso di letame infetto da polli come fertilizzante in agricoltura. I coservazionisti aggiungono che nonostante gli uccelli migratori possano portare e trasmettere il virus, spesso non è chiaro dove, abbiano contratto l’infezione dai polli.

In Nigeria, c’è l’idea che sia stato il commercio, e non gli uccelli migratori, a causare la diffusione. Per cominciare, l’infezione è stata rilevata dapprima in un allevamento commerciale con 46.000 polli e non fra gli animali da cortile che rappresentano il 60% della produzione nazionale: e che si ritiene abbia maggiori probabilità di contatti con gli uccelli selvatici.

La Food and Agriculture Organisation (FAO) delle Nazioni Unite stima che la Nigeria importi circa 1,2 milioni di pulcini di un giorno all’anno. In più, corre voce che molti di questi pulcini continuino ad arrivare da paesi con infezioni interne da H5N1, come Cina e Turchia. Joseph Domenech, capo del servizio mortalità animale alla sede centrale FAO di Roma, dice che l’importazione di polli da paesi contaminati è proibita.

Il governo nogeriano ora sta intraprendendo azioni per eliminare il virus. La sfida è quella di far passare il messaggio alla popolazione comune, sull’urgente bisogno di abbattere gli uccelli, impedire il trasporto e disinfettare gli allevamenti. Dick Thompson, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato in una intervista che sono stati visti nigeriani prelevare polli morti da una discarica di uccelli abbattuti, e che si tratta di una “attività spaventosa, qualcosa che non si era mai visto prima”.

Anche i paesi confinanti si stanno muovendo. Questa settimana è stato tenuto un incontro in Senegal per tentare di fissare una strategia regionale di contenimento. I fondi dovrebbero essere disponibili. Lo scorso mese si sono impegnati 1,9 miliardi di dollari da parte di vari paesi e gruppi internazionali per la lotta all’influenza aviaria: mezzo milione in più di quanto previsto, il che sottolinea quanto l’infezione sia valutata come rischio globale. La diffusione in Africa aumenterebbe la probabilità che il virus si trasformi per diventare trasmissibile fra esseri umani. Ma c’è un’altra dimensione vitale: la perdita di reddito da attività di allevamento, e di proteine essenziali, che potrebbero essere devastanti per l’Africa. È questo che dovrebbe far pensare gli europei, preoccupati per qualche cigno morto.

here English version

Non va ogni giorno un po' meglio ma ogni giorno molto peggio. Peggiorano le cifre delle vittime, le previsioni delle epidemie, il bilancio dei danni materiali, le immagini dei cimiteri a cielo aperto, dei cadaveri nudi e gonfi rigettati dal mare, dei rossi falò crematori sullo sfondo nero della notte indiana. Logica mediatica del disastro invertita: di solito si fa fatica a «tenere alta» la notizia, dopo i primi giorni. Stavolta niente si abbassa, a partire dal nostro sgomento. Certo, è già tempo di ponderare ciò che poteva essere fatto e non lo è stato per arginare l'onda assassina; o di interrogarsi sulle conseguenze sociali, economiche, politiche e geopolitiche di una catastrofe destinata a cambiare il volto del pianeta globale e il corso della globalizzazione, nonché i suoi dividendi fra le potenze occidentali, la Cina, l'India. Ma non è ancora tempo di distogliere lo sguardo da quei centoventimila morti: uno per uno, storia per storia, caso per caso fin dove è possibile ricostruirli, senza permettere che la spietata contabilità delle cifre occulti la singolarità e la comune umanità di ogni vita travolta. Nude e disperse, esse ci guardano a loro volta come uno specchio muto e ci rinviano le nostre domande su di loro capovolgendole in questa: chi siamo diventati noi, i sopravvissuti?

Era solo quattro anni fa quando, in Occidente, festeggiammo l'avvento del 2000, nel disprezzo di altri calendari e altre culture, all'insegna dell'ottimismo tecnologico, della volontà di potenza sulla vita nostra e altrui, della fine della storia e della pacificazione dei conflitti nel trionfo acclarato della democrazia e del capitalismo. Da allora, come per risposta, la storia si è rimessa a girare secondo il caso, l'incidente e l'imprevisto, e l'immaginario apocalittico si è impadronito della nostra realtà quotidiana, dagli aerei-cyborg che perforano le Torri gemelle all'onda anomala che divora i paradisi tailandesi.

Non sembri blasfemo il paragone fra l'11 settembre 2001 e il 26 dicembre 2004. Certo, lì i morti furono tremila e qui non hanno fine; lì c'era un attentato politico e qui un accidente naturale; lì fu colpito il cuore del mondo ricco e qui un'arteria di un mondo povero che da poco aveva trovato il suo accesso a un benessere squilibrato e precario. Ma lì e qui, la catastrofe ha mostrato il suo volto ineluttabilmente globale. Lì e qui, nelle torri di Manhattan e sulle spiagge di Khao Lac, vittime di etnie, nazioni, culture le più diverse, mescolate in vita e non identificabili in morte, cadaveri nudi senza certificati né certificazione possibile. Lì e qui, la stessa percezione di noi spettatori sopravvissuti: il mondo globale si è fatto piccolo piccolo, più nulla che non ci riguardi e non ci tocchi, dovunque accada. E l'umanità globale si è fatta fragile, nuda vita esposta al caso e all'imprevisto, «politico» o «naturale» che sia.

La politica andava e va reinventata di conseguenza, dalle fondamenta: una politica della precarietà, della vulnerabilità, dell'esposizione al caso e dell'interdipendenza con l'altro, per un'antropologia globale fatta di vite precarie, esposte al caso e dipendenti dagli altri. Così poche e accorte voci, Judith Butler per prima, dall'interno della stessa società americana. Dai vertici della potenza americana, invece, è stata ribadita una politica di potenza e di guerra, all'insegna di quel delirante «we'll prevail» che oggi George W. Bush torna a impugnare anche contro lo tsunami. Nella sua ingiudicabile casualità e nella sua sconfinata energia, quell'onda anomala è venuta a ricordarci quant'è debole e insensata la nostra piccola e ritornante volontà di potenza.

Tutt’altro che facile da mettere in opera, anche pensata solo in funzionedell’Occidente, l’ipotesi qui abbozzata si presenta come un’impresa al limite dell’inconcepibile, quando la si confronti, si tenti di confrontarla, con i problemi di quelli che vengono indicati, con una litote di burocratica ipocrisia, come “Paesi in via di sviluppo”.

Ma più esatto sarebbe parlare dei problemi del mondo. Perché - come rifletteva Arnold Toynbee nel lontano ’52, in un prezioso libretto significativamente intitolato “Il mondo e l’Occidente” (1) - l’Occidente non è che una piccola parte del pianeta, circondata dal vasto Mondo, anzi da una serie di mondi, alcuni di storia e cultura più antiche e prestigiose della sua. Ciò che non impedisce all’ Occidente di porsi con convinta determinazione come il depositario di tutto il meglio prodotto nei millenni, democrazia, sapere, progresso, efficienza, ricchezza, come il centro dinamico del sistema-umanità, pertanto autorizzato a padroneggiarlo.

Ma notoriamente il Mondo, il non-Occidente, è costituito in effetti da una moltitudine di mondi, estremamente diversi dal punto di vista economico, sociale, culturale, storico, antropologico, in cui convivono miseria assoluta e livelli di consumo assai prossimi ai nostri, tassi altissimi di analfabetismo e notevoli quote di popolazione di avanzata e sofisticata professionalità scientifica, rigidità di costumi inalterati da secoli e consuetudininon dissimili da quelle di qualsiasi paese occidentale, rapporti intersessuali fermi alle norme non di rado criminali di un dispotico patriarcato e libertà non troppo lontane da quelle volute dal femminismo. Sono terre rimaste pressocché le stesse da sempre (poche, per la verità, e in via di sparizione) e città in trasformazione continua e rapidissima, irriconoscibili da un anno all’altro, in gara per somigliare tutte al più presto a Manhattan; paesaggi dominati dalle torri degli impianti petroliferi e spiagge sterminate ancora senza traccia di interventi umani, o quasi (e fino a quando?); grandi foreste ancora vive ma di una vita artificiale curata a beneficio dei safari turistici, grandi foreste invece abbattute per fare spazio agli allevamenti zootecnici di proprietà McDonald’s e affini, intere vallate sommerse con le loro culture e i loro vilaggi dalle acque di dighe giganti. Sono nazioni rapidamente arricchite, ma con immancabili larghissime fascie di indigenza, nazioni tradizionalmente povere ma divenute poverissime negli ultimi decenni, in cui sempre però crescono favolose ricchezze di pochi, nazioni in guerra da generazioni, con eserciti armati e addestrati nei modi più moderni e costosi e gente che muore di fame; alberghi a cinque stelle e favelas, grattacieli e capanne di lamiera e cartone, lussuosi quartieri residenziali e ghetti, shopping centers traboccanti di merci e percentuali di sieropositivi che sfiorano la metà della popolazione; borghesie pienamente assimilate ai nostri costumi e consumi, nuove miserabili classi operaie improvvisate al comando di imprese straniere, caotiche irrespirabili megalopoli in costante espansione tra folle in fuga da catastrofi ecologiche, guerre, industrializzazione forzata delle campagne, masse di disperati di ogni sorta attratti dalle luci della città.

Più volte è stata notata l’incongruenza di nominare tutto questo, e il molto altro contenuto in così tante e disparate comunità umane, in un unico modo: “Paesi in via di sviluppo” secondo la formula imposta dalla moderna diplomazia, “Terzo mondo” secondo la denominazione che in epoca di guerra fredda lo contrapponeva agli altri due mondi, il “Primo” capitalista e il “Secondo” socialista, oppure “Sud del mondo”, secondo la più recente dizione che lo distingue dal “Nord”. E certo, a considerare le caratteristiche dei singoli paesi, l’incongruenza è clamorosa. Ciò che tuttavia non impedisce a tutti noi, quando sentiamo parlare di Terzo mondo, Sud del mondo, Paesi in via di sviluppo, di capire a che cosa ci si riferisce, né ci impedisce di usare le stesse parole per riferirci a quei paesi nel loro complesso. Le parole non nascono a caso: indicare una massa di realtà tanto diverse con una dizione unica significa riconoscere ad esse una qualità comune; ed è una qualità che si definisce in rapporto e in contrapposto a quella del “Primo mondo”, del “Nord del mondo”, dei “Paesi sviluppati”, insomma dell’Occidente. Perché sul modo di essere attuale di tutte e di ciascuna di queste realtà pesa un passato, lontano ma anche recente e recentissimo, di cui l’Occidente dai più remoti ricordi della storia fino ad oggi è stato, è, responsabile e protagonista: le imprese di Alessandro il Grande, la penetrazione cristiana, la sfida delle potenze marinare, le grandi “scoperte”, il colonialismo, la tratta dei neri, fino alla “cooperazione” e allo “sviluppo” a stelle e striscie gestito da Fmi, Bm, Omc. Questa storia firmata dall’Occidente è presente nella memoria e nell’attualità di tutto il Mondo, dei tanti diversissimi mondi che lo costituiscono: nelle spettacolari ma già in crisi esplosioni economiche dei “dragoni” asiatici,nelle disuguaglianze che crescono dovunque, negli inestinguibili conflitti che massacrano intere popolazioni, nei fondamentalismi che rinascono e si diffondono in funzione antioccidentale e cercano vendetta.

E allora, alla domanda che ponevo sopra, se quel rifiuto dei valori dominanti nel Nord del mondo, che ritengo necessario a una sinistra che voglia operare come tale, possa valere come orizzonte strategico, come base propedeutica per politiche utili anche per il Sud, la risposta mi pare possa essere positiva. Sono di conforto in questo senso le tante voci critiche che ci raggiungono direttamente da quei paesi: da comunità contadine, che si battono per la difesa delle agricolture locali e delle culture tradizionali contro la diffusione degli ogm, come i Sem Terra brasiliani o la Via Campesina del Chapas, da movimenti che protestano contro la scarsità idrica causata dall’uso crescente d’acqua nell’ industria, come i Navdanya indiani guidati da Vandana Shiva, o che chiedono la cancellazione del debito e raccolgono firme a favore della Tobin tax; da organizzazioni non governative del Sud-Est asiatico, impegnate in analisi inesorabilmente critiche dello “sviluppo” guidato da Bm-Fmi-Omc, oppure da studiosi tornati nei loro paesi d’origine dopo aver frequentato prestigiose università occidentali, come l’indiana Anuradha Mittal, condirettrice del “Food First”, qualificato centro di ricerca sulle cause della fame nel mondo. Sono tutte voci non solo di netta condanna della globalizzazione neoliberista, dei criteri e valori che la guidano, degli istituti che ad essa presiedono; voci di “Globalizzati e scontenti”, secondo il titolo del recente libro della sociologa americana Saskia Sassen, (2), ma anche di interi paesi ormai attestati su fermi propositi di “deglobalizzazione”.

In questo senso la parola più netta e documentata è ancora quella dell’ economista filippino Walden Bello: “Il modello della crescita ad alta velocità alimentata dal capitale straniero in favore dei mercati esteri, ha lasciato dietro di sé poco altro che distruzione dell’ambiente,”(3) dice ; e fermamente ritiene giunto il momento di cambiare rotta: “L’attuale crisi che sta distruggendo la vita delle persone in tutto il Sud, ci offre anche la migliore opportunità per riesaminare alle fondamenta il nostro modello e la nostra strategia di sviluppo” (4). A questo scopo sostiene necessario recuperare il vecchio proposito di un modello economico autonomo, che il dominio dei capitali stranieri ha frustrato;rivalutare gli stati nazionali, riorientare l’economia verso un modello non più mutuato dal Nord ma diretto dall’interno dei singoli paesi, preferibilmente su base regionale, che garantisca le massime opportunità ai produttori locali, che sposti il proprio asse “da produzione per l’esportazione a produzione per il mercato interno”. Secondo un programma fondato sulla constatazione che esiste un “eccesso di capacità produttiva” e un’’“offerta eccessiva di quasi tutto”, e sulla convinzione che sovente “l’espansione non è segno di buona salute quanto sintomo di malattia”, per una politica capace di “togliere enfasi alla crescita e massimizzare l’equità… e collegare l’agenda sociale a quella ambientale”. Soprattutto - insiste Bello - il Sud del mondo non deve più affidare decisioni economiche strategiche al mercato neoliberista, ma basandosi sulla scelta democratica e sottoponendo sia l’economia privata che l’iniziativa statale al costante controllo della società civile, deve puntare su “un programma globale di distribuzione delle risorse e del reddito”. A questo fine è necessaria l’eliminazione della “santa trinità di Bretton Woods”, cioè Fmi, Bm, Omc, istituti senza i quali “il mondo starebbe molto meglio”(5), e la loro sostituzione con un sistema pluralistico di istituzioni sovranazionali che si completino e controllino a vicenda, lasciando spazio ai Paesi in via di sviluppo per seguire liberamente i percorsi scelti in piena autonomia.

Come si vede, una parte significativa del Sud del mondo, che pure a lungo si è lasciata sedurre dal sogno occidentale, va ora ravvedendosi e ritirando il consenso in passato largamente attribuito al sistema neoliberistico. Ciò che appare d’altronde inevitabile, e perfino tardivo, di fronte alle aberrazioni che ha prodotto: vedi ad esempio la Thailandia analizzata da Bello, e la descrizione di ciò che dodici anni di “sviluppo” capitalistico hanno fatto di Bangkok, con “impianti industriali che verranno messi in disuso tra alcuni anni…, centinaia di grattacieli vuoti…, un traffico orrendo che è soltanto leggermente modificato dall’espropriazione di migliaia di automobili ultimo modello nei confronti dei proprietari falliti, … un rapido declino del capitale naturale del Paese e un ambiente compromesso in modo irreversibile, se non irreparabile...” (6)

E’ un ravvedimento condotto con una consapevolezza e una chiarezza di proposte da cui le voci antagoniste che si levano dal Nord avrebbero non poco da imparare. Anche per loro – come appare evidente dai brani riportati – sono oggetto della critica più dura non solo i paradigmi dell’economia oggi imperante, ma appunto quei “valori” che, prevalenti nella nostra società, vengono esportati e imposti in tutto il mondo; quei “valori” che anche le sinistre hanno più o meno inconsciamente assimilato e che dovrebbero finalmente disconoscere e separare da sé, per recuperare il loro “essere sinistra”. Le stesse proposte formulate da questi Paesi per il loro futuro politico avrebbero davvero molto da insegnare a noi Occidentali. Se ad esempio le sinistre facessero propria unadirettiva come “collegare l’agenda sociale a quella ambientale”, e agissero di conseguenza, non si troverebbero di fronte ad alternative tra salvare fabbriche orribilmente distruttive dell’ambiente e della salute dei lavoratori, oppure accettare la disoccupazione per un intero paese. E finalmente assumere come “programma globale” la “distribuzione delle risorse e del reddito”, tenendo ferma l’esigenza di “togliere enfasi alla crescita e insieme massimizzare l’equità”, significherebbe privare di fondamento l’eterna obiezione-alibi che proprio dalle sinistre viene più spesso brandita : “E quelli che muoiono di fame, quelli che vivono con un dollaro al giorno, come chiedergli di ridurre i consumi?”

Già, perché il Sud del mondo, o meglio il Mondo, il non-Occidente, questo enorme agglomerato di culture diverse, contraddizioni e disuguaglianze, è per larghe estensioni miseria senza aggettivi e senza confronti, miseria allo stato puro. E per chi a stento ci sopravvive, con pochissimo cibo, qualche straccio addosso, senza casa, senz’acqua, non solo non è pensabile ridurre i consumi, ma è indispensabile prevedere una crescita economica anche materiale: di case, di acquedotti, di scuole, di ospedali, di merci di prima necessità. Ma se tutto ciò viene attuato con il massimo possibile rispetto per l’ambiente, non in funzione dell’aumento del Pil ma dei bisogni reali, e quindi in quantità congrua e controllata, magari attingendo alle enormi riserve inutilizzate dell’Occidente, perseguendo appunto un programma di “distribuzione delle risorse e del reddito” e non interessi privati, allora anche la produzione di beni materiali può dar luogo a qualcosa di assai diverso dall’accumulazione capitalistica: non solo lasciando massimo spazio allo sviluppo di “beni sociali”, ma facendosi “bene sociale” essa stessa, partecipe della qualità di quelle ricchezze che, messe in comune, si accrescono, per trasformarsi così in “accumulazione sociale”.

Note

1) Arnold Toynbee, Il mondo e l’Occidente, Sellerio Editore, Palermo 1992.

2) Saskia Sassen, Globalizzati e scontenti, Il Saggiatore, Milano 2002.

3) Walden Bello, Il futuro incerto, op. cit. p. 229.

4) Id. p. 27

5) Id. pp. 325-6

6) Id. p.189

7) Giuseppe Prestipino, Narciso e l’automobile, op. cit.

Forse l’Europa

“Sembrano sogni e forse lo sono. Ma resto convinta che, come diceva Napoleoni, ‘Posti a livello minore, i problemi non hanno risposta’”. Così Carla Ravaioli conclude il suo libro Un nuovo mondo è necessario, Editori Riuniti, 2002 (introvabile in libreria)

Sono pienamente consapevole che tutto ciò possa essere recepito come la vanità dell’ultima favola imbastita in funzione autoconsolatoria. Oppure non essere recepito affatto, venire ignorato non tanto per sprezzante disinteresse, ma per totale mancanza di quel minimo di sintonia, di affinità mentale, che l’atto del conoscere, o anche la semplice disponibilità a conoscere, richiede.

Sono pienamente consapevole degli immani ostacoli che si frappongono tra un mutamento come quello qui sommariamente tracciato e anche solo l’ipotesi della sua attuazione. Ostacoli che non sono soltanto quelli cui immediatamente si pensa: i grandi poteri economici attivi a livello transnazionale; un’America che risponde interamente della loro prosperità, e di questo fine ha fatto corpo e anima della sua politica mondiale, ad esso inchinandosi come a una fede; le alte sfere del management politico, moderni capitani di ventura che si muovono tra i massimi istituti-guida dell’economia mondiale, alla loro continuità prestando saperi e spregiudicatezza; la grande maggioranza degli economisti, ascoltati “consiglieri del principe”, che alle teorie neoliberiste forniscono il loro sofisticato supporto; i milioni di imprenditori di ogni sorta, grandezza, nazionalità, che anche loro caparbiamente si dedicano a mercato, crescita, competitività, Pil, e ne vivono, non solo materialmente, ma con l’appassionato fervore di una religione.

Accanto a tutti costoro ci sono anche le popolazioni della Terra intera che a questa religione sono state iniziate, convinte dal potere seduttivo delle cose e dalla loro capacità di sopperire a identità sempre più precarie; sono gli ex-poveri che non solo sacrosantamente difendono il raggiunto benessere, ma strenuamente rifiutano di distinguerlo dai vizi dell’iperconsumo; sono i poveri che il sistema-mondo con i suoi onnipresenti poteri massmediatici ha nutrito di sogni sbagliati, e di quelli soltanto. Quanti, di tutti costoro, sono disponibili a un’operazione che non può più ignorare i limiti fisici del pianeta, e di conseguenza non può prescindere da un drastico contenimento del dispendio di natura, vale a dire dalla riduzione della produzione materiale complessiva, che non può non tradursi in un forte taglio dei consumi dell’Occidente? Quanti sono disposti a credere che la lotta contro la povertà passa necessariamente attraverso la lotta contro gli sprechi dell’Occidente, che sono anzi le due facce di un’unica battaglia, perché la quantità di natura di cui disponiamo non consente l’allargamento del livello di consumo occidentale a tutta l’umanità? Quanti sono disposti a convincersi che insistere su questa strada significa correre verso un futuro di catastrofi, di cui i poveri come sempre saranno i primi a soffrire? Quanti sono disposti a rinunciare ai loro sogni sbagliati?

Messi a confronto con questo sconfinato panorama di umanità più o meno conquistata dal credo neoliberista, quanto pesano i soggetti del dissenso e della protesta? Il movimento “No glob” costituitosi in World Social Forum, e via via in Forum continentali nazionali locali, va crescendo, è presente e attivo con le sue molteplici voci, provenienti da tutto il globo; e sempre più numerosi sono i sindacati che vi aderiscono, i movimenti pacifisti, le associazioni femministe, le unioni ambientaliste, le Organizzazioni non governative, le formazioni del “Terzo settore”, i gruppi di volontariato, nei modi più vari impegnati a porre qualche riparo alle nequizie del mondo. E accanto a loro vanno annoverati i non pochi mondi del Sud che hanno sperimentato crescita e sviluppo e oggi li rifiutano più nettamente di quanti non sono mai emersi dall’ indigenza. Nè mi pare improprio mettere in conto anche dubbi e interrogativi circa i miracoli del neoliberismo che da qualche tempo (lo accennavo sopra, portando al proposito diverse testimonianze) vanno affacciandosi in numero non trascurabile anche da tribune in piena sintonia con l’establishment, o addirittura appartenenti ad esso: da un lato l’impressionante susseguirsi di catastrofi ecologiche, dall’altro l’intensificarsi delle rivendicazioni “antisistema”, oltre all’incombere del rischio terrorismo, hanno creato un clima per cui tra le fila dell’alta imprenditività del mondo si parla più o meno abitualmente ormai di impatto ambientale e perfino di impatto sociale, mentre non lievi perplessità vanno emergendo circa l’operato degli istituti internazionali preposti allo “sviluppo”. Secondo orientamenti e umori fino a qualche tempo fa del tutto desueti, che l’impressionante catena di scandali e fallimenti contribuisce ad alimentare, e che anche la stampa più “conforme” non manca di registrare. E però – insisto – quanto può valere tutto ciò quando sull’altro piatto della bilancia pesano i massimi poteri economici, militari, culturali, mediatici, con gli Stati Uniti in testa, e al seguito il Canada, l’Australia, buona parte dell’Asia, l’Europa?

Ecco, l’Europa. Sempre per l’Unione europea sono gli Stati uniti il termine di paragone, il modello da invidiare e impegnarsi ad eguagliare, il referente cui rapportare e valutare il proprio operato. Ed è sempre il confronto con gli Usa il pretesto dei continui rimbrotti che da ogni parte le vengono rivolti, per inadeguatezza economica scientifica e tecnologica, scarsa competitività, incapacità di protagonismo, e delle conseguenti sollecitazioni a darsi maggiore efficienza e coraggio, ad imporsi nella gara a chi arriva primo sui mercati della globalizzazione, e così via. Valga ad esempio un brano scelto nel modo più casuale tra mille altri equivalenti e intercambiabili, apparso sul “Corriere della sera” in occasione del Summit Nato svoltosi in Italia lo scorso maggio: “Gli europei piangono lacrime di coccodrillo sulla loro emarginazione. La loro tecnologia diventa ogni giorno meno compatibile con quella americana, i loro bilanci della difesa stentano a raggiungere il 2 per cento del Pil, mentre quello Usa viaggia verso il 3,7. Raccogliere la sfida o diventare comparse, questo è il dilemma atlantico degli europei che investe anche l’Unione.” (1)

Eccezioni a queste posizioni esistono. Ho citato sopra René Passet, il quale affermando la necessità di sottrarre al mercato la gestione di tutti i settori di interesse collettivo, e a tal fine riaprire una prospettiva di intervento statale nell’economia, indica l’Unione europea come un blocco di paesi in grado di avviare una politica di questo tipo e proporla al resto del mondo. Considerazione più che plausibile non solo per la forza economica che complessivamente l’Unione rappresenta, e dunque per il potere nel senso più comunemente inteso e di solito concretamente attivo (l’Euro ad esempio già dimostra di poter sostenere il confronto con il dollaro), ma per la tradizione culturale e sociale che può vantare. Dopotutto in Europa è nata la cultura che ha conquistato e costruito l’intero Occidente, e che oggi paradossalmente il vecchio continente reimporta e fa propria, per lo più in forma depauperata, scaduta e involgarita, accettando la cosa (le eccezioni sono rarissime e deboli) come un fatto del tutto ovvio, legittimato dalla supremazia del paese di provenienza. E sempre in Europa, patria del capitalismo ma anche del socialismo, ha avuto origine e sviluppo una reazione sociale che in qualche misura ha saputo tener testa all’arroganza padronale, dando spazio e diritti anche alle ragioni del lavoro, fino alla conquista del welfare state. Tutto ciò parrebbe fare dell’Europa un soggetto capace di contrapporsi a un sistema come il neoliberismo, indiscusso impero delle merci che tutto, lavoro sapere persone, riduce a merce, e di contrastarne almeno gli aspetti più perversi.

In maniera del tutto inattesa un contributo a questa ipotesi ci giunge, sia pure in termini diversi, da un personaggio famoso quanto discusso come Francis Fukuyama, filosofo e politologo che ha lavorato a lungo e in vario modo per l’amministrazione americana. Aveva asserito e con la massima convinzione comunicato al mondo che la conclusione della guerra fredda, con la vittoria dell’Occidente e dei suoi valori di libertà e democrazia, segnava “La fine della storia”(2). Ma a quanto si rileva da una sua conferenza recentemente tenuta a Melbourne, oggi ritiene la situazione decisamente mutata: dopo la guerra in Afganistan che ha suscitato, soprattutto tra i ceti intellettuali ma non solo, non poche prese di posizione antiamericane, “si è smarrita la nozione di una percezione unificata del mondo”: al punto che è lecito domandarsi se “ha ancora un senso parlare di ‘Occidente’ nel secolo XXI”, e se “la linea di rottura” che divideva “l’Occidente dal Resto del mondo”, non divida oggi “gli Stati Uniti dal Resto del mondo”.(3)

Il centro più sensibile di questa svolta è l’Europa. In effetti, sostiene Fukuyama come sempre con gli accenti di chi non conosce dubbi, “si è aperto un abisso tra Europei e Statunitensi”. A suo avviso gli Europei tendono a un mondo “privo di scontri ideologici forti e di rivalità militari su vasta scala”, e “aborriscono l’idea di una dottrina della guerra aperta ai terroristi e agli stati che sponsorizzano il terrorismo, in cui soltanto gli Stati Uniti decidono quando e dove adoperare la forza”. Ed ecco ciò che a suo avviso prova questa tesi: “L’Unione Europea ha una popolazione di 375 milioni di persone e un Pil di circa 10 milioni di miliardi di dollari. Gli Stati Uniti hanno 280 milioni di abitanti e un Pil che ammonta a 7 milioni di miliardi di dollari. L’Europa potrebbe avere un bilancio della difesa simile a quello degli Stati Uniti, ma ha deciso di non averlo…” Esisterebbe insomma tra Europa e Usa una divergenza di base nell’approccio alla politica estera, derivante da due diverse risposte alla “domanda su quale sia la sede della legittimità democratica”(4), che gli Usa riconoscono nello Stato nazionale costituzionale, l’Europa in una comunità internazionale più vasta di qualsiasi singola nazione.

Purtroppo la storia non sembra dar ragione a Fukuyama. Perché a connotare nel modo più negativo l’Unione europea, e a proporne un’immagine di sostanziale debolezza, è stata in particolare proprio la completa subalternità agli Stati Uniti nelle scelte di politica estera, strategica e militare. Cosa che ne ha determinato la diretta partecipazione, o il supporto in varie forme erogato, a guerre (dal Golfo al Kosovo all’Afganistan) volute solo dall’America, e ciò in base a decisioni per lo più assunte al di fuori della norma democratica, aggirando le competenze dei vari parlamenti, con procedure addirittura incostituzionali per alcuni paesi (è il caso dell’Italia). Mentre ha impedito interventi diplomatici e prese di posizione che avrebbero potuto risultare grandemente utili in situazioni di alta conflittualità, come il Medio oriente e i Balcani, con iniziative che d’altronde avrebbero trovato ragione e legittimità in non poche vicende pregresse della storia europea. In pratica finora l’Unione non si è discostata da una funzione di piatta sussidiarietà atlantica.

E’ vero che la presa di distanza da parte di diversi leader europei nei confronti dei programmi americani di intervento militare in Iraq, sembrano indicare il delinearsi di una valutazione critica dell’attuale linea Usa in politica estera. Ed è vero che questo in qualche modo si salda con il giudizio negativo, diffuso nei nostri paesi su una serie di arroganti gesti di unilateralismo dell’amministrazione americana sempre in materia militare: il ritiro dal Trattato sui missili, il rifiuto a bandire le mine antiuomo e a firmare la convenzione sugli armamenti biologici, la posizione ostile assunta nei Confronti della Corte Penale Internazionale; gesti che denotano sprezzante distacco verso importanti atti del sistema giuridico internazionale, cui l’Unione europea ha viceversa aderito. E’ vero anche che la pace di cui da oltre mezzo secolo godono i grandi Paesi d’Europa, frutto di una scelta di collaborazione e integrazione, e di abbassamento degli antagonismi, parrebbe dar ragione in qualche modo a Fukuyama, come pure ad alcuni altri esponenti dei ceti intellettuali americani (come Robert Kagan, Stanley Hoffman, Stiglitz) che sembrano guardare alla tradizione europea come a una positiva premessa per una “governance” sovranazionale, quale con tutta evidenza l’evoluzione del mondo sembra esigere. Sono segnali indubbiamente interessanti. Tanto più che indubbiamente il rifiuto della guerra dovrà darsi come la base prima e imprescindibile per un futuro accettabile. Ma in una società globalizzata, dove sempre più “tutto si tiene”, per dire “no alla guerra” è indispensabile dire anche altri “no”, che riguardano la macchina economica e sociale nella sua interezza. E in questa prospettiva purtroppo l’idea del vecchio continente come soggetto capace di contrapporsi in qualche misura all’egemonia neoliberista, non trova nella sua storia troppi motivi di speranza.

Nata come unione economica, comunità pattuita in funzione del mercato, inizialmente addirittura limitata alla gestione di carbone e acciaio, la nuova Europa non ha certo perduto nel crescere l’anima economicistica del suo concepimento, che anzi è stata via via rafforzata e a Maastricht racchiusa entro i rigori di ferree regole monetarie; in ciò del resto allineandosi su quella deriva che sempre più dovunque andava imponendo la dimensione economica come indiscussa centralità politica e sociale: non è un caso se la moneta unica si è presto imposta quale obiettivo prioritario, poi tenacemente perseguito. In un processo che ha goduto il pieno avvallo delle sinistre, anch’esse - come ho ripetutamente notato - più o meno dichiaratamente conquistate da mercato, produttività, competitività, crescita, e impegnate a prodursi in affannate gare di rincorsa verso il centro.

Non è da stupire pertanto se quella felice congiuntura storica che sul finire dello scorso secolo ha visto le sinistre al governo nella quasi la totalità degli stati europei, non ha prodotto molto più che modesti tentativi di riforme all’interno di un impianto economico che tali politiche non prevede né tollera più: per cui era fatale che esperimenti di qualche maggiore impegno, come quelli messi in campo da Lafontaine e Jospin, non andassero lontano. E di nuovo non è da stupire se il panorama politico europeo si è pochi anni dopo capovolto, portando al potere quasi dovunque le destre (è dubbio se l’eccezione Blair sia davvero un’eccezione) e garantendo crescente fortuna ai populismi parafascisti dei vari Le Pen, Haider, Fortuyn, Bossi; e se da un vertice all’altro, da Laeken a Lisbona a Barcellona, passando per decine di incontri sussidiari, i documenti prodotti testimoniano un generale spostameno verso destra, tra aziendalismo imperante, netta prevalenza delle autorità monetarie in politica economica, insistite privatizzazioni di servizi e beni di interesse collettivo, provvedimenti sull’ immigrazione improntati a non celata xenofobia, senza mai un cenno di critica nei confronti del dettato neoliberistico.

La peculiarità del vecchio continente, il suo passato che in qualche modo ne fa una realtà antropologica del tutto particolare, la sua non ancora totale assimilazione alle regole predatorie della competitività, sembrano insomma vissuti dai suoi stessi popoli, e soprattutto dai governanti dei medesimi, come un freno, un dato negativo, più che come un bagaglio di civiltà da usare positivamente e attivamente. E anche in questo si può misurare il rischio di un’assimilazione planetaria e senza riserve a quello che è stato definito “pensiero unico”, il cui indiscusso predominio e la cui celebrata validità hanno gioco facile nel vuoto di un pensiero alternativo.

E tuttavia forse è ancora possibile da parte dell’Europa uno scatto d’orgoglio per il recupero della propria storia migliore e il rilancio di un’identità autonoma, per l’avvio di una seria critica al modello economico sociale e culturale oggi trionfante, magari nel tentativo di immaginare “un altro mondo possibile”. Qualcosa di simile sembra pensare il presidente della Repubblica ceca, Vaclav Havel, e lo ha ampiamente illustrato nel discorso che ho già citato in altro contesto. Deplorando appunto l’eterna tensione dell’ Unione europea ad accrescere la propria forza economica fino a raggiungere e possibilmente superare gli Stati Uniti, ponendosi accorati interrogativi sulla qualità e il senso stesso della vita quando viene scambiata per una gara su chi produce più automobili o elettrodomestici, ricordando l’esistenza di altri valori oltre al profitto e all’aumento del Pil, che pure hanno avuto una funzione determinante nella nostra storia; e su questa base invita l’Europa ad abbandonare la rincorsa dell’America e a “sostituire questa idea con un proposito più modesto, ma più difficile da perseguire: iniziare a cambiare il mondo partendo da se stessa.” (5)

D’altronde su un’ Europa capace di farsi protagonista di un salutare mutamento del mondo, da qualche tempo si trovano a scommettere persone molto diverse per formazione, ruolo attivo, collocazione politica. Cosa che a prima vista può sconcertare e perfino apparire di pessimo auspicio, configurandosi come una sorta di confuso “pio desiderio”, privo di solide fondamenta da cui muovere e su cui lavorare. Ma forse non è così, forse il fatto che anche da posizioni notevolmente lontane si avverta il bisogno di un cambiamento profondo, e se ne indichi nello stesso soggetto l’agente più accreditabile, prospetta un’ipotesi di “fattibilità” ben più ampia di quella, quanto mai esigua, di cui dicevo sopra: quando sulla bilancia, a fronte di tutti i massimi poteri del mondo, vedevo i “No glob” e poco altro. E ci dice che forse le contraddizioni, le iniquità, i pericoli, hanno raggiunto nella società attuale un livello che molti ormai ritengono non più tollerabile. Faccio l’esempio di due personaggi per mille versi lontanissimi l’uno dall’altro: Fausto Bertinotti, segretario del Partito della Rifondazione Comunista, e Tommaso Padoa-Schioppa, membro del comitato esecutivo della Banca centrale auropea.

“L’Europa, per la storia delle sue culture, e per ciò che resta di un modello sociale non totalmente liberistico, è il naturale luogo di interlocuzione col nuovo movimento di critica alla globalizzazione”, scrive Bertinotti. Ne consegue la sua convinzione che “non possa esserci Europa senza rifondazione della sinistra, e non c’è rifondazione della sinistra – e futuro – se non in una dimensione europea.” L’Europa, per il leader della “sinistra antagonista” italiana, si pone dunque come terreno fertile quanto necessario per la nascita di una nuova sinistra “unitaria e plurale”, che aggredisca e sconfessi tutte le ambiguità dei vari centro-sinistra, che anche a questo modo cancelli le cause profonde della continua frantumazione delle sinistre in mille schegge minimali e perdenti, e si faccia portatrice di “un nuovo progetto politico”. Il rifiuto della guerra e del neoliberismo, la sconfitta della globalizzazione, la combattività del conflitto di classe recentemente rinato in vari paesi europei, che per Prc sono parte imprescindibile di questo progetto, non sono pensabili senza l’Europa: “Tra Europa e costruzione di una soggettività politica della sinistra alternativa c’è una precisa relazione di reciprocità.”(6)

Padoa-Schioppa, pur affermando che “mercato ed economia non bastano”, non mette in discussione il modello economico vigente; non ama i “no glob”, anzi critica in termini assai duri il loro rifiutare interamente, “ottusamente” dice, l’eredità occidentale, anche con tutto il positivo che contiene. Ma ciò non gli impedisce di parlare lui stesso di un Occidente che “ignora e nega le proprie contraddizioni, responsabilità, incoerenze… crede che la forza delle armi e quella della moneta siano sufficienti a produrre sicurezza… nello stesso tempo pensa che se la guerra ci dev’essere essa deve fare morti da una parte sola”; che “sembra non avvertire il risentimento, l’invidia, il disprezzo che circondano l’homo occidentalis, quando esce dal circuito dei grandi alberghi e dell’aria condizionata”; quasi che “né due guerre mondiali, né la terribile parabola dell’imperialismo coloniale, né la sofferta esperienza del comunismo, né gli atroci genocidi - tutti mali nati dall’Occidente e da esso trasmessi ad altri sulla terra - ” non abbiano insegnato nulla. Gli Usa, argomenta Padoa-Schioppa, sono certamente una democrazia (7) dotata di una solida e collaudata struttura, ma non se ne può ignorare “il pericoloso senso di innocenza…la tentazione imperiale, il rifiuto di riconoscere un potere mondiale a sé superiore.” E conclude: “Solo l’Europa può condizionare gli Stati Uniti”. L’Europa non è temuta o odiata nel mondo come gli Usa, ha la saggezza di antichi scambi e contatti con culture religioni civiltà altre, ha una consuetudine secolare di rapporti con focolai di crisi, e sia pur faticosamente e in modo parziale è riuscita nella “edificazione di un ordine sovranazionale”: “La relazione speciale con l’America, con cui la Gran Bretagna si illude di condizionare la sua ex-colonia, l’Europa può instaurarla davvero, in modo da cambiare il corso della storia”. (8)

Due persone diversissime, da diverse posizioni e con progetti diversi, sono dunque concordi nel guardare all’Unione europea come al potenziale agente di un nuovo e migliore ordine mondiale. E’ un fatto molto importante che (a prescindere dallo specifico delle persone) in qualche modo rimanda e allude a quella molteplicità di voci che da qualche tempo risuonano nelle città del continente: che non sono soltanto quelle dei “No glob” contestatori di potenti riuniti in “summit” blindati, ma che si levano da enormi scioperi in difesa dei diritti del lavoro, da gigantesche marce per la pace, da vasti composti e decisi cortei di extracomunitari, da consistenti pezzi di società “civile” che manifesta contro il susseguirsi di impudenti attacchi alla democrazia. Un panorama variegato e complesso, di sensibilità offese, reazioni indignate, rifiuti rabbiosi, a volte magari solo di inquietudini e angoscie imprecisate; ma al quale appartiene anche la chiarezza mentale di chi vede necessario rompere i vincoli dell’ atlantismo europeo, di chi cerca ancoraggio democratico nelle costituzioni ancora attive in varie nazioni del continente, di chi non può assistere in silenzio alla cancellazione della Palestina, di chi si ribella contro il numero crescente di poveri in paesi ricchi e spreconi, di chi in un primo tempo non contrario alla guerra in Afganistan in seguito ne ha preso decisamente le distanze (e sono molti, in questo ha ragione Fukuyama).

Messi insieme rappresentano un buon numero di persone scontente del mondo così com’è. Per ragioni anche molto lontane, alcune radicate entro un preciso orientamento politico, magari a dimensione sovranazionale, altre legate soltanto a situazioni contingenti e circoscritte: ragioni che certo non è possibile immaginare coincidenti, ma sì insieme confluenti entro una formazione politica complessa, cospicua massa critica capace di affiancare e integrare il “movimento dei movimenti”, e insieme ad esso sostenere l’Europa nella ricerca e nell’impegno per un mutamento non più rinviabile. Dopotutto che altro è la “sinistra plurale” da tante parti invocata, se non una unione di forze diverse, forse incapaci di una “unità” organica come tale operante, ma accumunate da una critica più o meno radicale e variamente motivata dell’esistente?

Ma appunto - qui ha ragione Bertinotti - tutto dipenderà dalle sinistre. Che dovranno innanzitutto saper superare le angustie degli interessi di gruppo e di partito, o peggio i particolarismi e le miserabili rivalità tra correnti e leader, liberandosi da antichi vizi da cui nessuna formazione si dimostra esente e che - ciò che è davvero triste - non sembrano risparmiare interamente nemmeno i rapporti interni al movimento “No glob”. Forse d’altronde anche errori e debolezze di questo tipo sono in gran parte conseguenza inevitabile della povertà di idee, della mancanza non solo di un chiaro progetto “di sinistra”, ma di una approfondita lettura della realtà da condurre poi a sintesi politica: a partire dall’abbandono di scelte economiche e sociali ossequienti alle “leggi” dell’ impresa e del mercato, per l’avvio di un cammino che (come suggerivo sopra) progressivamente si allontani dall’imperativo di un’espansione ormai non solo insostenibile ma con tutta evidenza autodistruttiva; sapendo che ciò significa muovere verso un traguardo che tocca le intollerabili disparità tra ricchi e poveri come lo squilibrio dell’ambiente naturale saccheggiato dagli umani, l’attacco ai diritti del lavoro come la perdurante asimmetria del rapporto tra i sessi, l’assimilazione al mercato del progresso scientifico e tecnico come le relazioni tra centro e periferia dell’Impero, che ormai sembrano saper comunicare solo con la guerra: contraddizioni nuove e antichissime, oggi tutte riconducibili alla razionalità iperproduttivistica che guida l’ordine vincente.

Questo è un compito che – insisto – non spetta al movimento, il quale assolve la propria funzione “guastatrice” con un’azione provocatoria e traente, capillarmente diffusa e sostenuta dal suo fertilizzante entusiasmo. E’ un compito che invece compete d’obbligo alle sinistre istituzionali di tutto il continente. Innanzitutto proprio un serio impegno in questo senso, per un’idea che vada oltre le angustie dei confini nazionali, potrebbe costituire la premessa al superamento di rivalità e personalismi, che spesso si ammantano di motivi ideologici per mascherare l’irresponsabilità di frazionismi e scissioni; inoltre un obiettivo come quello di spingere l’Europa ad uscire dall’inerzia della sua neghittosa acquiescenza verso l’America e a costituirsi come soggetto autonomo, potrebbe offrire una buona base non diciamo per l’unità delle sinistre (vecchio e mai realizzato sogno, che gli stessi fantasmi della storia rendono impensabile) ma almeno per una loro unione programmatica, tale da esorcizzare almeno il rischio di frantumazioni assurde, come quelle che hanno portato Italia e Francia a sconfitte tanto più dure in quanto evitabili.

Ma un’operazione di questo tipo potrebbe avere anche un’altra ricaduta di grande portata. Penso all’esplosione del populismo di destra, che di recente ha raggiunto in Europa proporzioni allarmanti, come dimostrano le ultime consultazioni elettorali di Danimarca, Portogallo, Olanda, oltre che di Italia e Francia. Esiste già una vasta letteratura sul tema, e varie sono le letture del fenomeno e delle sue origini. I dati dicono comunque chiaramente che una quota tutt’altro che trascurabile di coloro che votano oggi Le Pen, Hayder, Fortuyn, Berlusconi, Bossi, appartengono alla borghesia minima, a ceti operai, addirittura agli strati più poveri, tutti per buona parte in passato elettori di sinistra, che la crescente insicurezza economica e sociale, e lo scontento nei confronti di politiche troppo moderate seguite dai governi di centro-sinistra, hanno polarizzato in parte verso le sinistre estreme, ma soprattutto verso le destre populiste, oltre che per quote non trascurabili verso l’astensione. Non c’è dubbio che l’assunzione da parte delle sinistre europee di una decisa linea critica del neoliberismo imperante e del militarismo Usa che lo impone, con l’avvio di politiche interne conseguenti, potrebbe recuperare una buona parte del consenso perduto: e tanto meglio se saprà imporre, come lucidamente argomenta Giuseppe Chiarante, “una sua idea d’Europa, una sua proposta sulla funzione mondiale del vecchio continente.”(9)

Allora, sperare nell’Europa come possibile “madre” di “un mondo diverso”? L’ipotesi è sconfinatamente azzardata quanto ambiziosa. Tanto più se si guarda con realistico distacco all’Unione qual’è oggi, ancora in fieri per tanti aspetti, priva di istituzioni capaci di scelte chiare e condivise, travagliata da rivalità e dissensi interni, tra euroscetticismi e arroccamenti in difesa delle singole identità nazionali, soprattutto viziata da una linea economica in sostanza adagiata sulla fattispecie neoliberistica. E tuttavia il momento attuale è il primo dopo molti decenni in cui l’ipotesi possa apparire non del tutto impensabile: e ciò per via di un certo numero di circostanze concomitanti, forse casualmente (o forse no?) ma comunque convergenti nel configurare una sorta di insolita freddezza nei confronti degli Stati uniti e, a tratti, una qualche presa di distanza da ciò che gli Stati uniti rappresentano nel mondo. Sono fatti e sintomi in parte già segnalati in queste pagine, in parte legati a eventi recentissimi, in nessun modo riconducibili a un nesso organico, che però considerati insieme, anche semplicemente giustapposti l’uno all’altro, mi sembra rivelino la presenza di un denominatore comune, in base al quale la compatta assoluta solidità dell’asse atlantica potrebbe non apparire più così assoluta e compatta. Provo a enumerarli.

1. Di recente una serie di più o meno dichiarati dissensi e risentite incomprensioni si sono prodotti nelle relazioni tra Usa e Ue: dai limiti all’importazione di acciaio, voluti dagli Usa e pochissimo graditi al vecchio continente; alla pretesa americana di imporre sui mercati europei - come su quelli di tutto il mondo - cibi geneticamente modificati; a una vera e propria offensiva diplomatica scatenata dall’amministrazione Bush nel tentativo di ottenere dai singoli paesi membri l’immunità americana nei confronti della Corte penale internazionale, con minaccia di rivedere i rapporti interni alla Nato in caso di mancato assenso. Si aggiungano le divergenze di valutazione e di comportamento in fatto di materie ambientali, che toccano la ratifica europea del protocollo di Kyoto stracciato invece da Bush, l’attenzione e la partecipazione europea al Summit di Johannesburg disertato dal Presidente americano, la sia pur relativa e discontinua cautela europea nei confronti degli Ogm, insistentemente promossi dagli Usa. Ma il fatto di maggior rilievo, sebbene ancora estraneo alla diplomazia ufficiale, è la posizione dell’Europa nei confronti dell’annunciato intervento americano in Iraq: posizione fin dall’inizio (come ho già accennato) molto reticente, e anche di dichiarato dissenso da parte di alcuni leader, poi a tratti rafforzatasi in aperta contrarietà, anche in seguito alla esplicita condanna dell’impresa da parte del mondo arabo e di alcune potenze non occidentali, e alla crescente critica dei ceti intellettuali, anche americani.

2. Sempre più di frequente e spesso da voci del tutto inattese si parla di crisi degli Stati uniti: crisi economica innanzitutto, evidenziata (come ho cercato di dire sopra) sia dalla persistenza di una recessione che non accenna a risolversi, sia da una finanza sempre più instabile e imprevedibile, sia dalla catena di gravissimi scandali che hanno profondamente scosso la credibilità del grande management; ma crisi da molte parti indicata anche nella povertà di leadership e soprattutto di strategia politica mondiale, cui inutilmente si tenta di sopperire con l’insolente ostentazione della forza e con l’uso più spregiudicato e brutale della medesima; mentre il fallimento delle istituzioni economiche internazionali, in particolare Bm, Fmi, Wto, è ormai platealmente riconosciuto all’interno stesso della classe politica americana. Ne fanno fede alcuni libri appena usciti, uno firmato dal qui più volte citato, notissimo e ricchissimo finanziere George Soros (10), un secondo da Joseph S. Nye (11) che fu sottosegretario alla difesa nell’ amministrazione Clinton, un terzo dal Nobel per l’economia Josef E. Stiglitz (12) già Vicepresidente senjor della Banca Mondiale: tutti, con argomenti diversi ma con pari durezza, critici del loro paese.

3. Nell’Agenda 21, il piano d’azione adottato nel ‘92 al Vertice di Rio, si legge: “La principale causa del deterioramento dell’ambiente globale consiste nei modelli insostenibili di produzione e consumo, in particolare delle nazioni industrializzate.” Da allora siamo stati in pochissimi, e inascoltati, a ricordare e coltivare questo tema, e magari a precisarlo con la rimessa in causa del primato economico e culturale della razionalità iperproduttivistica; mentre l’Agenda 21 rimaneva praticamente lettera morta, e anzi i modelli in essa denunciati pervenivano alla loro massima espansione. Oggi a interrogarsi sulla sostenibilità del nostro modo di produrre e consumare, o addirittura a criticarlo senza mezzi termini, sono – sia pure solo per singoli interventi che non incidono sulla linea generale – organi di stampa più meno dichiaratamente conservatori, come il “Times”, il “Washington Post”, il “Corriere della Sera”, “Il Sole-24 Ore”, “L’Economist”. Mentre un famoso giornalista come Eugenio Scalfari (13), certo su posizioni progressiste ma lontano da ogni estremismo, e – ch’io sappia – mai finora particolarmente preoccupato delle condizioni ambientali, parla della “crisi di un modello di sviluppo che si alimenta pompando risorse dalle sue periferie senza riuscire a diffondere equamente la ricchezza prodotta”, e che insieme “mette a rischio la sostenibilità geofisica e l’equilibrio del sistema ecologico”, in quanto “la crescita quantitativa della ricchezza avviene a detrimento delle risorse naturali”; per concludere con l’esortazione a “puntare su un modello di felicità che non si misuri soltanto sull’aumento del prodotto ma sulla qualità della vita individuale e sociale e sul rispetto dell’ecosistema”.

4. Tutto questo accade a poco più di metà di un’annata che ha visto l’intero emisfero boreale devastato da gigantesche alluvioni con tremila morti e milioni di senza casa, quindi sovrastato da nubi tossiche che promettono molti altri milioni di morti, e così via. E si trova a coincidere anche con il summit di Johannesburg, un evento accompagnato da mesi di attenzione mediatica, dedicata alla sua lunga preparazione, poi alle molte linee del suo svolgimento, infine agli echi e ai commenti d’obbligo, ma anche da analisi della questione ambientale, spesso approfondite, seriamente documentate e corredate dai terrificanti dati del guasto finora prodotto, che le distratte orecchie della pubblica opinione in qualche misura non può non aver recepito. Ho accennato sopra ai modestissimi risultati concreti del vertice, e in tanti ne hanno ampiamente e motivatamente parlato. Innegabile. E tuttavia non credo che l’occasione sia andata sprecata, nonostante le sue esplosive contraddizioni, anzi forse proprio grazie ad esse: Kofi Annan che diceva la necessità di riflettere sul nostro “dissoluto modo di vivere” e la Bmw che reclamizzava l’ultimo vistosissimo modello di auto “ecologica”; i movimenti africani che chiedevano acqua per i loro assetati paesi e scienziati che adducevano sofisticati argomenti per asserire che, dopo tutto, non abbiamo certezze sulle cause del global warming; i “sem terra” che gridavano la distruzione delle loro agricolture ad opera dello sviluppo targato Fmi-Wto, e i rappresentanti di governi africani acquisiti al modello vincente che cercavano di assicurarsi commesse e affari; l’Organizzazione mondiale della sanità che sceglieva il palcoscenico del Vertice per pubblicare le spaventose cifre, passate presenti e future, della mortalità da smog, e le più famose associazioni ambientalistiche che si accordavano con le multinazionali del petrolio pur di ottenere qualche promessa; il vecchio Mandela che pubblicamente piangeva i famigliari morti per aids, e la delegazione Usa che si limitava a largire un po’ di dollari per la cooperazione (la metà di quelli offerti dieci anni fa a Rio), sottraendosi ad ogni serio impegno per ridurre le aggressioni all’ambiente, e una volta ancora rifiutando di firmare il trattato di Kyoto, benché ora ratificato anche da Cina, Russia e Giappone. Mai forse è stata sotto gli occhi di tutti una rappresentazione più complessa e completa della intollerabile realtà del mondo, agita dai suoi principali attori, che ne recitavano le principali ragioni. Mentre lo spettro di una seconda guerra del Golfo si aggirava su Johannesburg e sul mondo.

Un mondo con il quale sembra davvero sempre più difficile identificarsi, e di fronte al quale la necessità e anche la possibilità di cambiarlo, secondo il credo “No glob”, parrebbe doversi porre come un progetto affascinante per un paese come l’Europa. Difficile? Difficilissimo. Anche, ripeto, a causa dell’ incompiutezza dell’Unione, delle sue tante debolezze, istituzionali e non solo, della sua perenne tentazione di totale cedimento alla dottrina imperante (però anche via via trasgredita e negata, come gli iperliberisti rimbrottano). A meno che proprio l’idea di bilanciare lo strapotere Usa, e di impegnarsi nel tentativo di un possibile modo diverso di produrre consumare operare pensare vivere, non possa risultare per l’Europa stessa lo stimolo necessario a cercare la sua migliore definizione: che in nessun modo somigli al temuto “super stato”, che non schiacci le singole identità nazionali, ma le riconduca alla complementarità e alla ricchezza di una “identità plurale”, all’interno di una forma autenticamente federalista. E potrebbe essere il punto di partenza per “iniziare a cambiare il mondo partendo da se stessa”.

Sembrano sogni e forse lo sono. Ma resto convinta che, come diceva Napoleoni, “Posti a livello minore, i problemi non hanno risposta.”(14)

Note

1)Franco Venturini, Pratica di storia, in “Il Corriere della Sera”, 28 maggio 2002, pp.1-18.

2) Francis Fukuyama, Disuniti contro il terrore, in “La Stampa”, 10 agosto 2002, p.4.

3) Ibidem

4) Ibidem

5) Vaclav Havel, L’occidente e l’ossessione del nulla, op. cit.

6) Fausto Bertinotti, Per un nuovo soggetto politico, in “la rivista del manifesto” n. 30, luglio-agosto 2002, pp.8-10.

7) Tommaso Padoa-Schioppa, Dodici settembre, Rizzoli, Milano 2002, p.115-119, passim.

8) Idem, p.120-122, passim

9) Giuseppe Chiarante, Francia chiama Italia, in “la rivista del manifesto”, n.29, giugno 2002, pp.7-11.

10) George Soros, Globalizzazione, Le responsabilità morali dopo l’11 settembre, Ponte alle Grazie, Milano 2002

11) Joseph S. Nye, Il paradosso del potere americano, Mondadori, Milano 2002

12) Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2002

13) Eugenio Scalfari, Il cinismo dei governi e le piaghe del pianeta, La Repubblica, 25 agosto 2002, pp. 1-17

14) Claudio Napoleoni, Lettera ai comunisti italiani, in “Cercate ancora”, a cura di Raniero La Valle, Editori Riuniti, 1990, p.154.

Nel contesto delle relazioni internazionali, il segnale del passaggio da un ordine mondiale basato sul consenso tra gli stati-nazione a un mondo basato sulla coercizione praticata da una singola superpotenza si è avuto nel giugno del 2002, quando il presidente George W. Bush jr rese pubblica la sua nuova politica per la sicurezza nazionale. Per la maggior parte degli americani, l'11 settembre 2001 il mondo era cambiato in modo irrevocabile: Bush alimentò questa convinzione quando, nel suo discorso sullo stato dell'Unione del febbraio 2002, affermò che di fronte a un nemico senza stato gli Stati Uniti non avrebbero più potuto fare affidamento sugli strumenti di deterrenza tradizionali per prevenire attacchi contro la propria popolazione e il proprio territorio.

Dopo la fine della guerra fredda

Gli Stati Uniti avrebbero pertanto dovuto prevedere in quali luoghi tali attacchi potevano essere preparati e assumere azioni preventive per impedire l'attuazione degli attacchi stessi. Ma un esame più approfondito del modo in cui si è evoluta la politica estera e militare americana dopo la guerra fredda dimostra come il passaggio dagli interventi finalizzati alla difesa del sistema degli stati-nazione agli interventi tesi a minare tale sistema sia iniziato molto tempo prima.

L'evento scatenante fu la fine della guerra fredda, nel 1989. Nei quindici anni successivi, quella che era iniziata come una serie di tentativi di intervento militare finalizzati all'ingerenza negli affari interni di altri paesi si trasformò in un assalto frontale all'istituzione dello stato-nazione e all'ordine westfaliano. I primi interventi militari dell'era successiva alla guerra fredda, finalizzati alla riorganizzazione di uno stato-nazione attraverso un intervento decisivo nei suoi affari politici interni, sono stati attuati in Bosnia, nella Somalia e a Haiti tra il 1992 e il 1994, e sono stati interventi minori che hanno coinvolto dalle 3000 alle 25.000 unità di truppe terrestri statunitensi. Tutti questi interventi furono portati avanti sotto il mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu.

Un cambiamento irreversibile

C'è poi voluto meno di un decennio perché gli Stati Uniti, sostenuti dal Regno Unito, passassero a un'invasione non provocata dell'Iraq con 200.000 uomini, nonostante la forte opposizione dell'opinione pubblica mondiale, senza le autorizzazioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con gli espliciti obiettivi messianici di abbattimento del regime di Saddam Hussein e successivo insediamento di un governo amico degli Stati Uniti, dell'Occidente e di Israele, e di trasformazione dell'Iraq in una democrazia modello e in un esempio per il resto del mondo arabo.

Pertanto, è difficile non concludere che qualcosa sia cambiato irreversibilmente a partire dalla fine della guerra fredda, un cambiamento che ha esercitato una pressione senza tregua sulla potenza egemone spingendola all'attuazione di interventi sempre piú diffusi e frequenti e sempre piú invasivi negli affari interni degli stati membri delle Nazioni Unite. Questa pressione stava rendendo sempre piú difficile il mantenimento del sistema westfaliano configurato dalla carta costitutiva delle Nazioni Unite.

Quel cambiamento irreversibile fu l'avvento del capitalismo globale, che a partire dagli anni Settanta iniziò a minare le fondamenta economiche dello stato-nazione allo scopo di creare un unico sistema globale di commercio e produzione. Negli anni Novanta, questo processo iniziò a rimodellare il sistema politico e quello internazionale per adeguarli ai propri scopi. In un saggio scritto all'inizio degli anni Novanta, Jürgen Habermas aveva sottolineato che, poiché la democrazia era stata creata per sostenere le finalità degli stati-nazione, la sua sopravvivenza avrebbe potuto essere messa in serio pericolo in caso di crollo di queste istituzioni.

I timori di Habermas si rivelarono ben fondati. La prima vittima dell'attacco alla democrazia fu il sistema di stati-nazione nato con il trattato di Westfalia e il Congresso di Vienna, e consacrato, nella sua piú recente espressione, dalla Carta delle Nazioni Unite. Il trattato di Westfalia fu firmato nel 1648 dalla Francia e dai suoi alleati con il re Ferdinando II di Spagna, per porre fine alla guerra dei trent'anni che aveva devastato l'Europa. Per raggiungere tale scopo, il trattato legittimò i governi esistenti, ricompose le loro dispute territoriali e stabilì le regole di base per i futuri rapporti reciproci tra gli stati. Questo processo stabilizzò le frontiere e diede vita al concetto di sovranità nazionale, i due attributi essenziali del moderno stato europeo.

-I princìpi che governavano le relazioni tra gli stati emersi dal trattato di Westfalia furono poi formalizzati dal Congresso di Vienna. Sebbene i confini tracciati da questi trattati siano stati alterati piú volte dalle ambizioni egemoniche dell'una o dell'altra potenza europea, i princìpi fondamentali che li avevano ispirati vennero invariabilmente riaffermati, e l'ordine del trattato di Westfalia ripristinato, ogniqualvolta la pace si riaffermava. Quei princípi erano il rispetto della sovranità e dei confini nazionali e il rifiuto di intervenire negli affari interni di un altro stato sovrano, perché qualsiasi intervento del genere sarebbe stato considerato alla stregua di un atto ostile.

Gli strumenti attraverso i quali fu mantenuto il nuovo ordine furono la diplomazia e la strategia militare. Lo scopo della diplomazia era quello di mantenere un equilibrio di potere nell'ambito della comunità delle nazioni, mentre la strategia militare agiva come deterrente contro le aggressioni. Nella pratica, il sistema westfaliano non riuscì a prevenire le guerre: nel Seicento e nel Settecento le principali nazioni europee combatterono tra loro 60-70 conflitti durante ciascun secolo. Tuttavia, riuscì a instillare in tutte le nazioni una profonda avversione per le azioni di disturbo dello status quo, e nel contempo la disapprovazione per le aggressioni non provocate di un paese ai danni di un altro. L'ordine westfaliano raggiunse l'apice della sua efficacia durante la pace dei cent'anni, tra il 1815 e il 1914.

Dopo la sconfitta della Germania nella seconda guerra mondiale, l'ordine westfaliano riprese vigore ottenendo poi una definitiva consacrazione nella Carta costitutiva delle Nazioni Unite. L'Articolo 1 limitava la partecipazione esclusivamente agli stati sovrani. L'Articolo 2(4) imponeva agli stati di «astenersi, nell'ambito delle relazioni internazionali, dalla minaccia o dall'uso della forza ai danni dell'integrità territoriale o dell'indipendenza politica di qualsivoglia stato, o comunque da qualsiasi iniziativa in contrasto con le finalità delle Nazioni Unite». L'Articolo 2(7) proibiva non solo agli stati membri ma alle Nazioni Unite nel loro complesso di intervenire negli affari interni degli altri stati: «Nessuna disposizione del presente statuto potrà autorizzare le Nazioni Unite a intervenire nell'ambito di questioni essenzialmente di pertinenza della giurisdizione nazionale di qualsivoglia stato». Rafforzato dalla minaccia di «distruzione reciproca garantita», che emerse con lo sviluppo delle armi nucleari, il sistema delle Nazioni Unite impedì l'esplosione di guerre di grandi dimensioni durante i cinquant'anni di guerra fredda. Solo quando l'avvento del capitalismo globale iniziò a minare gli stessi stati-nazione, il sistema iniziò a essere sottoposto a serie tensioni. Come potenza egemonica del XX secolo - il cosiddetto «secolo breve» - intenta a estendere la propria egemonia nell'era del capitalismo globale, gli Stati Uniti hanno guidato l'attacco al sistema degli stati-nazione e all'ordine westfaliano internazionale. I critici di area liberal dell'espansionismo statunitense escludono l'ipotesi di un cambiamento rapido e ritengono che la fine della guerra fredda abbia fatto riaffiorare una tendenza imperialista nella politica estera statunitense le cui origini risalgono alla dottrina Monroe. (...)

La vittoria nella guerra fredda e la successiva «Rivoluzione degli affari militari» di fatto rimossero solo l'ultimo ostacolo al consolidamento dell'impero americano. La debolezza di questa ipotesi sta nella sua presunzione di continuità. Indubbiamente, la creazione di una rete di basi militari e l'acquisizione del territorio su cui costruirle sono state un processo continuo. I primi passi furono compiuti nel decennio successivo alla guerra ispanoamericana del 1896, quando l'America installò basi militari in luoghi distanti tra loro come Guam, Hawaii, Filippine, il canale di Panama, Porto Rico e Cuba. Ma furono la seconda guerra mondiale e poi la guerra fredda a consentire agli Stati Uniti di ampliare la loro rete di basi in Europa occidentale, Okinawa, Giappone, Corea, Tailandia, Australia e Nuova Zelanda. L'espansione della presenza militare degli Stati Uniti continuò anche dopo la fine della guerra fredda. Dopo la prima guerra del Golfo, nuove basi americane sorsero in Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrain, Oman, Egitto e Gibuti. La disgregazione della Jugoslavia divenne il pretesto per la creazione di basi in Bosnia e Kosovo e quella dell'Unione Sovietica condusse alla creazione di basi in Uzbekistan, Kazakistan, Turkmenistan e Kirghizistan. Dopo l'11 settembre, gli Stati Uniti costrinsero il Pakistan, di fatto con la minaccia delle armi, a unirsi alla nuova guerra globale contro il terrorismo: il Pakistan concesse agli Stati Uniti l'uso delle basi aeree di Jacobabad, Pasni e Quetta. Infine, dopo la guerra afghana, gli Stati Uniti hanno acquisito tre ulteriori basi aeree in Afghanistan: a Bagram, nei dintorni di Kabul, a Mazar-i- Sharif, a nord della catena dell'Hindu Kush e a Kandahar, nel sud del paese.

Ma questa continuità maschera, e quindi impedisce di riconoscere, una differenza molto importante nel modo in cui le basi furono create. Alcune lo furono attraverso la coercizione, e cioè l'invasione o la minaccia di invadere un territorio appartenente a un altro stato sovrano. Le restanti, e si tratta comunque della maggior parte, furono create con il pieno consenso delle nazioni interessate. Inoltre, la scelta del metodo per ampliare la potenza e la sfera di influenza americana non fu casuale.

I cicli del capitalismo

Gli Stati Uniti ricorsero alla coercizione per acquisire territori o basi in due periodi distinti: il primo nell'ultima decade del XIX e nella prima decade del XX secolo, il secondo dopo la guerra fredda, e in particolare dopo l'11 settembre. A cavallo dei due periodi, con rare eccezioni, l'ampliamento della potenza militare e dell'influenza degli Stati Uniti è stato tollerato o, addirittura, accolto con favore dalle nazioni interessate. La ragione di questa differenza va ricercata nell'espansione ciclica del capitalismo. Il primo ricorso alla forza coincise con l'avvento del caos sistemico che contrassegnò la fine del terzo ciclo di espansione e, di conseguenza, dell'egemonia britannica. Il secondo ricorso alla forza è una risposta al caos sistemico che è stato innescato dalla fine del quarto ciclo di espansione del capitalismo e dall'avvento del quinto, cioè la globalizzazione. Questo è il riflesso del tentativo americano di forgiare il nuovo ordine mondiale e di stabilire la propria egemonia sopra di esso. L'esteso e pacifico ampliamento della rete di basi americane tra queste due epoche rispecchiava invece il consolidamento dell'egemonia americana durante il quarto ciclo di espansione del capitalismo.

Allarme a livello mondiale

Il processo fu reso più semplice dall'assunzione da parte degli Stati Uniti del ruolo di stato amico e protettore durante la seconda guerra mondiale e la guerra fredda, e dal fatto che l'espansione del capitalismo che innescò la crescita degli Stati Uniti ebbe luogo nel quadro del sistema westfaliano degli stati-nazione. Di contro, l'espansione della potenza americana dopo l'11 settembre, soprattutto in Afghanistan, Pakistan e Iraq, rivela il palese disprezzo per la sovranità nazionale ed evidenzia l'intento di sostituire il sistema westfaliano con un impero americano costruito sulla supremazia militare e sulla costante minaccia del ricorso alla forza. Questo ha innescato un allarme a livello mondiale e ha costretto i paesi che in precedenza avevano accettato di ospitare le basi e l'egemonia militare americana a riconsiderare l'opportunità di continuare a ospitarle. Ha inoltre già spinto l'Arabia Saudita a chiedere agli Stati Uniti di chiudere le basi sul proprio territorio e convinto Francia, Germania e Belgio a rilanciare la proposta per la creazione di una forza difensiva europea al di fuori dell'ombrello della Nato. Ha inoltre allarmato i liberal americani non solo perché trovano ripugnante l'idea di un impero americano, ma anche perché questa strategia sta distruggendo l'egemonia creata, in modo prevalentemente pacifico, duran

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