Mentre i media continuano a veicolare l'idea che si tratta di un incidente di percorso, la crisi economica sta mettendo a nudo il progressivo declino dell'egemonia occidentale nel mondo
L'Occidente è in recessione, il che significa stagnazione e arresto della crescita. Di per sé potrebbe trattarsi di un semplice arresto ciclico, ed anzi buona parte dei media «ufficiali» cercano di veicolare questa idea. Uno, due anni di «vacche magre»; qualche modifica istituzionale nella regolamentazione del capitale finanziario; una nuova «Bretton Woods», come ormai si usa dire, e il modello capitalistico, fondato sulla liberal-democrazia, tornerà ad essere il miglior sistema possibile. Secondo altri osservatori, potremmo invece trovarci di fronte ad un crollo sistemico, paragonabile a quello che ha travolto il modello sovietico. Entrambe le prospettive sono compatibili con il fatto che la leadership dell'Occidente sia perduta e che il G8 sia soltanto un brutto ricordo (non si sa se ci attenderà un G20 o un G14).
Per l'Europa, la cui egemonia era stata già persa a favore degli Stati Uniti da molto tempo, si tratta di un nuovo trauma, cui si è giunti completamente impreparati in preda a divisioni e paure. Sotto la guida di leaders privi di qualsiasi credibilità culturale prima ancora che politica, si continua a vagheggiare di «patrimonio valoriale dell'Occidente», di «radici giudaico-cristiane» e di altre simili insulse amenità, che invano cercano di dare una patina di rispettabilità al razzismo dilagante. Una cosa è però certa: tutti i leaders europei non voglio accettare il fatto che gli equilibri del mondo sono mutati a sfavore dell'Europa e degli Stati Uniti.
Declino europeo
Per gli Stati Uniti, si tratta della prima macroscopica battuta d'arresto in una storia di costante crescita di influenza planetaria fin dalla propria nascita, mai in precedenza interrottasi, neppure nel periodo della guerra fredda. Un modello di superiorità occidentale radicato in Europa e potente veicolo di esportazione dell'arroganza dell'uomo bianco, ancorché sotto le diverse spoglie, non meno brutali, di privatizzazione, messa in vendita e dollarizzazione (strutturale a partire da Bretton Woods), piuttosto che della diretta colonizzazione. A differenza però che in Europa, dove gli ipocriti e velleitari volti di Gordon Brown, Nicolas Sarkozy, Manuel Barroso (meglio, forse, la figura di Angela Merkel, ma non parliamo di nostri provincialissimi e ininfluenti leaders) sono la dimostrazione ultima di una crisi irreversibile della politica europea, gli Stati Uniti riescono a sfoderare Barack Obama. Si tratta di un leader che, se non fosse esistito, doveva essere inventato, tanto incarna la logica della postmodernità: l'ibridazione culturale al servizio del libero mercato. Ma forse è troppo tardi affinché un buon presidente Usa (ammettendone la possibilità) potrebbe essere condizione necessaria ma certo non sufficiente per la salvezza, visto che la fiducia su un mercato finanziario del valore di 20 volte il Prodotto interno lordo mondiale annuo (ossia vent'anni di economia reale) è crollata al primo sussurro che «il re è nudo!», nonostante la retorica che accompagnava la possibilità di una sua crescita continua.
Invero, la catastrofe economica attuale non è gestibile attraverso strumenti compatibili con il capitalismo finanziario che l'ha prodotta e quindi non può certo essere risolta dal principale prodotto politico del capitalismo finanziario medesimo, ossia il Presidente degli Stati Uniti. L'impatto della catastrofe al di fuori degli Stati Uniti, (della cui economia, dopo Bretton Woods, tutto il mondo è succube), può essere attenuato, certo non evitato, soltanto con strumenti politici, culturali ed istituzionali fortemente antagonistici rispetto al modello statunitense. La speranza è che almeno la sinistra se ne renda conto. Occorre perciò combattere innanzitutto quella insopportabile retorica celebrativa della libertà, intesa come diseguaglianza sociale fondata sulla santificazione della proprietà privata e dell'impresa. Cosa che certamente l'Occidente, ipnotizzato da decenni di ciance mediatiche sulla competizione, sulla meritocrazia, sullo sviluppo, sulla crescita, sulla legalità astratta, sui diritti umani non è pronto a fare, a meno di non esservi costretto da forze e da movimenti sociali e politici capaci di produrre una vera rivoluzione copernicana che porti a rendere possibile ciò che oggi pare impossibile.
Istituzioni di lungo periodo
Bisogna cioè che l'elaborazione teorica sia pronta e sappia ripensare adesso alla socializzazione dei più importanti mezzi di produzione (con cogestione dell'impresa, qualora essa rimanga privata), alla ridistribuzione radicale delle risorse (tramite tassazione progressiva ed imposta patrimoniale), alla costruzione di un modello misto in cui l'interesse pubblico sappia davvero imporsi, con le buone o con le cattive, su quello privato e sul conflitto di interessi. Si tratta di metter mano adesso ad istituzioni democratiche «di lungo periodo», capaci di bonificare il nostro modello di sviluppo, creandone uno nuovo, imperniato sulla qualità della vita di tutti come comunità e non sulla quantità delle risorse che ciascuno, individualmente, compete per controllare e consumare.
Una simile trasformazione non può essere guidata dagli stessi leaders e dalle stesse forze che ci hanno portato a questo disastro sociale e politico, prodotto dell'individualismo consumistico. Può essere immaginata soltanto nel quadro di un'ascesa della «fantasia al potere», che abbia il coraggio di ridiscutere gli stessi spazi e gli stessi tempi del politico, schierandosi sistematicamente dalla parte dei perdenti dei processi sociali capitalistici. Non ovviamente una fantasia astratta ma, al contrario, il coraggio di saper scegliere, senza pregiudizi, dal ricco menù culturale che la civiltà umana anche oggi propone. Si tratta di disporsi con umiltà di fronte all'immensa ricchezza di culture rese vittime dallo sviluppo capitalistico, al fine di recuperarle in via dialogica ed accompagnarne la ricollocazione al centro delle istituzioni globali prima che sia troppo tardi per tutti. Ma se salvare l'Occidente da se stesso, dai suoi miti e dalle sue paure, appare un' impresa titanica, non c'è dubbio che si tratti pure di un'urgenza, che potrebbe comunque diventare molto presto una necessità assai più che una scelta.
La prudenza dei giganti
L'Africa affamata ed assetata dal continuo saccheggio, ed un mondo islamico rispetto al quale l'atteggiamento razzista di ingliustificata superiorità non sembra mutato a partire dall'XI secolo, stanno dando ampi segnali di come i cicli demografici finiranno per prevalere anche in Europa. D'altra parte essi offrono modelli di civiltà meno atomizzati e più aggreganti.
L'America Latina, già da qualche anno principale beneficiaria dell'annunciato crollo dell'impero americano, distratto dalle sue folli avventure belliche in Medio Oriente, costituisce in questo momento il più importante laboratorio politico di alternative «umane» al capitalismo finanziario, dall'Equador alla Bolivia, Argentina, compreso il Brasile di Lula e il Venezuela di Chavez. Essa non ha comunque smesso di premere sull'incivile muro lungo il Rio Grande, e di «ibridare» la società statunitense con milioni di lavoratori sfruttati, a loro volta spinti da fame e privazioni.
Cina e India non sono in recessione, sebbene la seconda sia stata ben più americanizzata della prima, e ne soffra le conseguenze. Al di là degli effetti ancora imponderabili dei tragici fatti di Mumbay, la crescita, sostengono molti analisti, potrebbe rallentare, scendendo sotto quell'incredibile 10% annuo dell'ultimo decennio. Ma si assesterebbe sul 6-7%. Fra mille contraddizioni, e con differenze notevoli, i due giganti asiatici riescono in qualche modo a cogliere i frutti della prudenza, della propensione al risparmio e del mantenimento in vita del primato dello stato e dell'elaborazione politica.
Lo sforzo in atto soprattutto in Cina di perequare finalmente campagne e città e di sviluppare un'economia meno fondata sull'esportazione di prodotti finiti a buon mercato, potrebbe far pensare ad una volontà di Pechino di chiedere il rendiconto agli Stati Uniti, rifiutando di continuare a finanziare le abitudini della cicala. Sarebbe una novità globale dalla portata immensa. Pechino detiene 2000 miliardi di riserve in dollari e 1200 miliardi in buoni del tesoro statunitensi.
Ma nel mondo post-occidentale ci sono molti altri protagonisti capaci di fornire modelli politici e culturali che, per scelta o per necessità, dovranno essere considerati. Il Giappone, in sofferenza da oltre un decennio, che tuttavia offre un modello di settore pubblico e di burocrazia altamente professionalizzata, fortemente armata sul piano politico e culturale, e capace di dialogare alla pari con il settore privato. Se ne avrebbe gran bisogno anche in Occidente, dove per l' assenza di un ceto professionale di civil servants, perfino il bailout americano costituisce un nuovo episodio di privatizzazione di funzioni pubbliche alle grandi law firms di Wall Street. E non parliamo della nostra Italia dove, senza pudore, il «nocchiero dell'economia», pur autore di mediocri libri antimercatisti, continua a proporre oscene privatizzazioni-saccheggio (compresa, da ultimo, l'acqua), purtroppo col sostegno di «opposizione» e governi locali, intenti a far affari con i servizi e le partecipate pubbliche.
E la vecchia protagonista della Guerra Fredda, quella Russia il cui crollo imperiale ha trascinato con sè il Welfare State in occidente? Recentemente, durante un incontro, Marcello Cini ha sostenuto che forse il modello Putin è quello su cui si sta fondando il «consenso» al crepuscolo dell'economia liberale di mercato: autoritarismo, nazionalismo, militarismo, saccheggio. Una chiave interpretativa condivisibile e che aiuterebbe a comprendere meglio la situazione europea attuale
Se l'«uomo flessibile» si concludeva con un capitolo che prendeva di mira il «lavoro in team», ritenendolo l'ultima frontiera del controllo e della «corrosione del carattere» della forza-lavoro, la nuova opera sull'Uomo artigiano di Richard Sennett propone la figura dell'artigiano per rispondere all'alienazione che caratterizza l'organizzazione del lavoro nel «capitalismo flessibile» ((Feltrinelli, traduzione di Adriana Bottini, pp. 320, euro 25). Lo studioso statunitense non crede, infatti, che il lavoro in team e il just in time consentono, come invece sostengono invece i loro cantori, la ricomposizione delle mansioni, chiudendo così l'era della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Ritiene, al contrario, che la produzione di massa, indipendentemente da come è organizzata, sia fondata sulla separazione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare. Per Richard Sennett un lavoro scandito dalla ricomposizione tra progettazione e esecuzione, tra pensare e fare va cercato nella vasta comunità di programmatori «open source, giungendo alla conclusione che sono questi produttori di software la contemporanea incarnazione della figura dell'artigiano.
Gli animali di Hannah Arendt
È da questa convinzione che è partito un progetto di studio che dovrebbe fornire una radiografia nitida e un'analisi altrettanto puntuale sulle forme di azione sociale che caratterizzano appunto il capitalismo flessibile. La pubblicazione de L'uomo artigiano è dunque da considerare il primo di tre saggi sulle strutture dell'azione sociale, sebbene Richard Sennett non indulge mai a una griglia d'analisi funzionalista, né è molto interessato a evidenziare le ambivalenze di alcuni processi sociali, come invece amava fare uno dei decani della sociologia statunitense, Robert K. Merton, che ha dedicato all'artigiano uno dei capitoli della sua opera maggiore, Teoria e struttura sociale. Ed è con il consueto stile elegante e tuttavia circostanziato che Sennett prende le distanze dal funzionalismo e alla teorie di Merton. Il suo obiettivo è di sottolineare come alcune forme del lavoro o di vita della società preindustriali non siano scomparse, ma come un fiume carsico stiano riemergendo, presentando tuttavia caratteristiche diverse dal passato.
In apertura di questo volume, all'interno di un capitolo che oscilla tra autobiografia e ricostruzione del clima culturale di un paese che prendeva faticosamente le distanze dal maccartismo, l'autore ricapitola la sua formazione intellettuale, individuando in Hannah Arendt la studiosa che più di altri influenzò la sua decisione di continuare sulla strada della ricerca sociale, cercando di coniugare la necessaria aderenza al principio di realtà a forte spinta etica. Sennett scrive di come fu colpito da Vita activa, il saggio dove Hannah Arendt ridimensiona il ruolo del lavoro nella società, considerando la politica l'attività principe dell'animale umano. E di come egli giovane studente con il sogno di lavorare alla formazione di una «buona società» cominciò a riflettere attorno alla distinzione tra animal laborans e homo faber proposta dalla filosofa tedesca per sottolineare il fatto che mentre l'animallaborans produce i mezzi per la riproduzione della specie, domandandosi tutt'al più come produrli, l'homo faber nello svolgere il proprio lavoro si pone la domanda del perché lo stia svolgendo.
In entrambi i casi, c'era una priorità fare rispetto al pensare, della necessità rispetto alla libertà. La denuncia del lavoro come attività degradata dell'essere umano avanzata da Hannah Arendt nulla aveva a che fare con la critica al lavoro salariato di marxiana memoria. Ma non era per questo motivo che non convinceva e non convince tuttora Sennett, che la considera segnata da dicotomie (il fare e il pensare, ad esempio) che nel lavoro invece convivono in un equilibrio scandito da un'altra dicotomia, quella tra autorità e autonomia. Ed è da allora che lo studioso statunitense ha cominciato a cercare di definire quale sia il posto occupato dal lavoro nella società contemporanea, cercando proprio nell'artigiano la figura che supera le dicotomie che hanno accompagnato, teoricamente e socialmente, la categoria del lavoro.
I demiurghi del presente
L'artigiano, infatti, per rimanere alla Vita activa di Hannah Arendt, risponde sia alla domanda del come svolgere lavoro, ma anche il perché svolgerlo, attraverso una maestria nel fare che consegna agli artigiani una sorta di missione civilizzatrice anche quando sono stati relegati ai margini della vita pubblica. Nel lavoro artigiano, infatti, non c'è solo abilità tecnica, attenzione alla qualità del manufatto da produrre, ma anche e soprattutto una cura delle relazioni sociali che accomuna sia il maestro che il discepolo; oppure la centralità del valore d'uso del manufatto rispetto al valore di scambio. Sebbene Richard Sennett sottolinei come l'artigiano non costituisca la semplice permanenza di una forma arcaica di lavoro nelle società contemporanee, il suo libro va considerato non solo come una critica dell'analisi di Hannah Arendt, ma anche come la sofistica e suggestiva proposta dei demiourgoi (così venivano chiamati gli artigiani nell'antica Grecia) come figura salvifica dall'alienazione e dall'anomia dell'attuale organizzazione produttiva capitalistica.
È il lavoro concreto che si contrappone al lavoro astratto, tanto per usare categorie marxiane. Ma anche l'incarnazione in una stessa persona o esperienza sociale di una ricomposizione di quei frammenti che la divisione del lavoro scandisce in termini di efficienza e produttività. La maestria tecnica di cui scrive Sennett è quindi da intendere come una pratica culturale che individua la soluzione dei problemi all'insegna di un «fare di qualità». Ma anche la cura con cui i maestri artigiani trasmettevano il mestiere all'epoca delle corporazioni medievali da intendere come una socializzazione del virtuosismo sviluppato dal singolo. È quindi il primato della qualità; ma anche di un «sapere semantico» che viene trasmesso sia per via orale che attraverso l'apprendimento per imitazione. Fattori che vanno a comporre una «coscienza materiale», che attraverso la manipolazione dei materiali, la presenza, in quanto garanzia del marchio d'autore, e l'antromorfismo impresso ai materiali stessi costituiscono le componenti di un'autonomia del lavoratore, ma anche l'esercizio dell'autorità da parte del «maestro» all'interno dei laboratori artigianali. Una gerarchia, dove il binomio tra autorità e autonomia convive in una organizzazione produttiva che ha come referente non il mercato, ma un committente talvolta capriccioso talvolta generoso mecenate. E sono una vera chicca le pagine de L'uomo artigiano che raccontano come i liutai Stradivari e Guarneri, l'orafo e scultore Cellini abbiano manifestato i medesimi sentimenti contraddittori rispetto la trasmissione delle loro abilità o il rapporto di amore e odio con i committenti, dai quali dipendevano per il pagamento del loro lavoro.
Il virtuosismo di Linux
Nessuna nostalgia, vale la pena ripetere, per il passato, quanto la convinzione che l'ordine dei problemi che gli artigiani hanno dovuto affrontare costituiscono il background strutturale del capitalismo «flessibile». In primo luogo, il superamento dell'organizzazione tayloristica del lavoro dettata dalla necessità, così recita la vulgata dominante, di reagire a una feroce competizione attraverso la migliore qualità delle merci prodotte e da una continua innovazione tecnologica, organizzativa e di prodotto. Elementi, tutti, che possono essere risolti appunto dalla riproposizione di quella poiesis che caratterizza il lavoro artigiano. Questo non significa tuttavia l'azzeramento o la rinuncia al sistema di macchine, ne tantomeno la riproposizione del piccolo laboratorio come dimensione ottimale per la produzione della ricchezza. L'artigiano a cui pensa Sennett è infatti l'uomo o la donna che sa usare con maestria le tecnologie digitali, ma che considera la qualità, l'innovazione e le cooperazione sociale come valori assoluti. Da qui l'individuazione nei programmatori del sistema operativo Linux come gli artigiani di cui ha necessità il capitalismo postfordista.
La proposta di Sennett va quindi presa sul serio, perché meglio di tanti altri studiosi critici della capitalismo contemporaneo, ritiene che il sapere, l'innovazione sono espressione di un'intelligenza collettiva che accidentalmente può essere meglio interpretata da un singolo o da una «comunità virtuale», come appunto quella dei programmatori di Linux. Dunque la consapevolezza politica di un «riformista radicale» che nel capitalismo l'autorità sul lavoro non debba cancellare l'autonomia dei lavoratori nel decidere la one best way, definita, a differenza di quanto accadeva nell'impresa fordista, di volta in volta proprio da quella cooperazione sociale dove la gerarchia è flessibile e nella quale l'autorità è data dalla maestria in un «fare intelligente» ma collettivo. Una tesi molto più aderente a un principio di realtà di quanti ancora propongono il lavoro di fabbrica come paradigmatico per comprendere il capitalismo flessibile. Non accorgendosi così che proprio al lavoro operaio vengono richieste attitudini tipiche dell'uomo artigiano proposto da Richard Sennett.
Un'intervista con Saskia Sassen, in Italia su invito de Il Mulino e alla vigilia dell'uscita del suo ultimo libro «Territori, autorità, diritti». Il mutamento dello stato nazionale e l'emergere di una terra di nessuno «né globale né locale» dove si sviluppa l'azione dei movimenti sociali
Un testo ambizioso quello di Saskia Sassen su Territorio, autorità, diritti tradotto da Bruno Mondadori (pp. 596, euro 42. Quando il libro uscì negli Stati Uniti ne scrisse Sandro mezzadra il 3 Febbraio 2007). Ambizioso perché l'autrice si pone due obiettivi: da una parte spiegare la formazione dello stato moderno; dall'altra cercare di definire i contorni e le forze operanti in quel processo che vede lo stato-nazione essere uno dei maggiori protagonisti della globalizzazione, all'interno però di un paradosso: rimanere un protagonista rinunciando ad alcuni aspetti della sovranità nazionale. Per la studiosa di origine olandese vanno quindi respinte le tesi che annunciano la prossima e irreversibile scomparsa dello stato nazionale, ma allo stesso tempo muove forti critiche verso le posizioni che considerano lo stato-nazione l'ultima trincea per respingere l'attacco del capitalismo neoliberista, salvaguardando così le specificità economiche, sociali e politiche «locali», che comprendono gli istituti del welfare state. Né crede, come afferma in questa intervista, che l'attuale crisi economica favorisca una brusca frenata alla globalizzazione. Anzi, considera i provvedimenti presi dai vari governi nazionali, dagli Stati Uniti all'Inghilterra, dalla Germania all'Italia, propedeutici al mantenimento dello status quo, accelerando tuttavia quelle forme di coordinamento sovranazionale che individuano nei governi nazionali lo strumento per applicare localmente decisioni prese a livello globale.
In Italia su invito dell'«Associazione di cultura e politica Il Mulino», Saskia Sassen ha tenuto la lectio magistralis che la casa editrice bolognese organizza ogni anno attorno all'emergere di uno spazio politico, giuridico e economico «Né globale, né nazionale» all'interno del quale alcune componenti dello stato moderno e dei i movimenti sociali favoriscono la costituzione di un ordine politico mondiale in cui l'esercizio del potere vede l'interazione, la negoziane e il conflitto tra istituzioni, imprese e movimenti locali, regionali, globali.
Saskia Sassen tiene però a precisare che in tutti i suoi libri, compreso quest'ultimo, si prende la libertà di offrire sì il sottofondo empirico della sue tesi, ma anche di fare «pura teoria». Una libertà che non sempre è apprezzata nel mondo universitario anglosassone. Con un sorriso sornione tiene comunque a a sottolineare che lei è una «nomade intellettuale», perché è nata in Olanda, ma che è stata influenzata della cultura latinoamericana, visto che ha vissuto la sua infanzia e adolescenza a Buenos Aires. Inoltre, per la sua crescita intellettuale è stata significativa la frequentazione della realtà intellettuale italiana,, dato che è vissuta a Roma, mentre la Francia è stata determinante per prendere familiarità con quel marxismo strutturalista che ha condizionato tantissimo il saggio The Mobility of Labor and Capital. Allo stesso modo, il pragmatismo statunitense ha mitigato la sua tendenza all'astrazione. «Sono una straniera che si sente a casa in ogni posto che visito», dice con ironia E alla affermazione che questa sensazione ricorda molto la figura dell'apolide di Edward Said, sorride divertita dal paragone.
Un nomadismo intellettuale, tuttavia, che viene gestito con rigore, come testimoniano i suoi libri sulle Città globali o sulla globalizzazione ( Fuori controllo, Globalizzati e scontenti, Sociologia della globalizzazione), dove Saskia Sassen dosa sempre sapientemente l'eterogeneità della sua formazione intellettuale. Una caratteristica che accompagna anche questo ultimo libro, dove la formazione dello stato moderno è vista come un «assemblaggio» di diversi territori retti da autorità spesso in conflitto le une con le altre. Un processo lungo secoli e assai contradditorio. Più o meno come la globalizzazione, considerata a ragione come un work in progress che vede diverse istituzioni, imprese, movimenti sociali che lavorano per assemblare ciò che è distinto per storie, tradizioni culturali, realtà produttive.
Sono molti gli studiosi che sostengono come la crisi finanziaria rappresenti il de profundis della globalizzazione e che Barack Obama sarà costretto a una politica più attenta allla dimensione nazionale che non il suo predecessore George W. Bush, attento invece ad affermare la supremazia imperiale americana nel mondo. Lei che ne pensa?
Non credo proprio che la crisi attuale coincida con la fine della globalizzazione. Penso infatti il contrario. Se guardiamo alle misure prese per reagire alla crisi finanziaria vediamo che c'è un attivo coordinamento dei diversi governi nazionali per affrontarla. L'obiettivo dichiarato è infatti salvare la globalizzazione, mica ritornare al passato.
Negli ultimi venti, trenta anni abbiamo assistito a una trasformazione profonda dell'attività economica, nel rapporto tra gli stati, nell'azione politica dei movimenti sociali. C'è chi dice che l'interdipendenza tra le diverse realtà nazionali è l'elemento che caratterizza la globalizzazione. Questo è indubbio, ma la globalizzazione è anche altro. Le imprese, ad esempio, progettano il processo lavorativo a livello globale, i capitali ignorano i confini nazionali, le migrazioni coinvolgono centinaia di milioni di uomini e donne, modificando il panorama delle società che lasciano e di quelle che accolgono i migranti. Le città diventano globali, cioè rispondono più a una dimensione sovranazionale che allo stato nazionali in cui sono collocate. Ci sono inoltre istituzioni sovranazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e il Wto che stabiliscono regole che ogni stato nazionale deve poi far sue.
Sono questi cambiamenti irreversibili, che non devono però alimentare una lettura lineare della globalizzazione. La globalizzazione è, infatti, un processo segnato da continuità, ma anche da forti discontinuità. Per queste ragioni non credo che Barack Obama privilegerà il cortile di casa, perché gli Stati Uniti sono parte integrante della globalizzazione. Obama è un leader politico intelligente e sa benissimo che se attuerà una politica «nazionalista» andrà incontro a un insuccesso. C'è ovviamente la pesante eredità che George W. Bush gli lascerà.
Durante la campagna presidenziale Obama ha detto che vuole favorire un grande cambiamento, che lo stato deve intervenire per attenuare le diseguaglianze sociali accentuate del libero mercato. Ma Obama non è un radical, né un roosveltiano; crede nel libero mercato, ma pensa che il mercato lasciato a se stesso è destinato a fallire. Nel vostro paese sarebbe definito un «centrista». Ciò che è importante, tuttavia, non sono i suoi programmi, quanto la diffusa mobilitazione sociale per la sua elezione a presidente. Gli invisibili, i senza potere, le minoranze, i migranti hanno preso la parola e hanno occupato la scena politica. È difficile che tornino a casa senza cercare di condizionare le scelte politiche che farà. Non ho il dono delle preveggenza, ma è abbastanza realistico affermare che Barack Obama dovrà fare i conti anche con loro.
Il suo ultimo libro è in realtà un libro su come sta cambiando il concetto di sovranità. Nel passato, i governi nazionali avevano il monopolio della decisione su un territorio ben definito. Ora non è più così. Spesso le decisioni vanno prese a livello sovranazionale e gli stati-nazionali eseguono. Mi sembra che lei punti a radiografare questo mutamento....
L'idea che io stia lavorando a sviluppare un nuovo concetto di sovranità mi piace. Allo stato attuale delle mie ricerche mi limito a dire la sovranità moderna prevedeva un monopolio della decisioni politica, ma che tale decisione doveva avere il consenso e la legittimazione dei sudditi del sovrano. Nella fase attuale tutto è molto più complesso, perché le decisioni prese dal Wto, dalla Banca mondiale, dal G8 o dal Fondo monetario non hanno né il consenso che la legittimazione dei popoli oggetto di quelle decisioni. Eppure questi organismi istituzionali o informali continuano a operare e che la legittimità avviene assemblando territori, autorità e diritti. Il problema che mi sono posta è quale ruolo possono svolgere gli stati nazionali in questo processo, giungendo alla conclusione che stiamo assistendo a un processo di denazionalizzazione che ha come protagonisti gli stati nazionali.
La globalizzazione non significa tuttavia fine dello stato-nazione, quanto una modificazione dell'equilibrio tra potere esecutivo, legislativo e giuridico. Il potere esecutivo, ad esempio, acquista un ruolo decisivo nel tradurre localmente le decisioni prese globalmente. Allo stesso tempo il potere giuridico deve armonizzare la legislazione nazionale alle norme internazionali. Inoltre, lo stato-nazione esprime un sofisticato know how indispensabile a sviluppare quelle Authority indispensabili a negoziare con gli attori nazionali le decisioni globali. In ogni paese europeo ci sono oramai le Authority per la concorrenza, per le telecomunicazioni, per la privacy o altro ancora. Spesso sono composte da uomini e donne molto competenti che provengono dalla burocrazia statale. Dunque, nessuna scomparsa dello stato-nazione, ma un cambiamento nel suo funzionamento.
Ci troviamo però di fronte a un paradosso: lo stato-nazione che lavora per cedere parte della propria sovranità a istituzioni sovranazionali; oppure uno stato-nazione che diviene il guardiano sul proprio territorio per conto sempre di organizzazioni sovranazionali....
È un paradosso come dice lei, ma che consente ai movimenti sociali di rafforzare la propria azione. Prendiamo la carta delle Nazioni Unite sui diritti umani: può essere impugnata dai movimenti sociali per contrastare delle politiche nazionali; oppure possono rivolgersi alla Corte internazionale di giustizia e chiedere che l'operato di un governo locale sia sanzionato. La globalizzazione è un processo all'interno del quale lo stato-nazione può anche rinunciare alla propria sovranità, ma questo non significa che sia una situazione che inibisce il conflitto sociale. Anzi, per molti aspetti l'aiuta. Prendiamo i forum sociali di Porto Alegre. Tutti ora dicono che sono finiti, che hanno perso la loro forza propulsiva. Sarà anche così, ma hanno favorito azioni globali, all'interno delle quali tanto le organizzazioni sovranazionali che gli stati nazionali hanno dovuto negoziare con i movimenti sociali globali. I conflitti che li hanno visti protagonisti non sono stati però conflitti antisistemici, per riprendere un'espressione cara a Immanul Wallerstein, bensì conflitti interni alla globalizzazione. Non puntavano cioè a uno sganciamento di questo o quello stato dall'economia e dall'ordine mondiale, quanto ad assumere che la globalizzazione era il contesto dove sviluppare la propria azione politica.
Prendiamo il movimento dei migranti negli Stati Uniti. Erano sans papiers che rivendicavano il fatto che erano loro, gli invisibili alla legge, uno dei motori propulsivi dell'economia statunitense. Erano dei «senza potere» che rivendicano il potere derivante dal loro fare, facendo leva proprio su quella terra di nessuno che non è né globale né nazionale.
Vuole dire che il potere non riesce a fare una mappa esaustiva della realtà sociale e che qualcosa gli sfugge?
Quello che mi preme sottolineare con la la tesi della «denazionalizzazione» è l'insufficienza dei linguaggi dominanti sulla globalizzazione. Negli anni passati abbiamo letto o sentito parlare di una omologazione culturale, dell'avvento di media globali, dell'egemonia di un pensiero unico. Ora abbiamo sì dei media globali, ma devono poi articolare forme locali nella produzione culturale. Il rap è considerato un altro esempio di omologazione culturale, visto che è suonato a Ramallah come a Los Angeles, a Parigi come a San Paulo. Ma, mentre il rap dei giovani palestinesi parla di autodeterminazione nazionale, a San Paulo descrive le favelas come una forma di vita «indipendente» dallo stato. Prendiamo Internet, il simbolo per eccellenza della globalizzazione.
Il web deve necessariamente essere globale e al tempo stesso locale. E tuttavia, nonostante tutti i tentativi di armonizzare le legislazioni nazionali, ci sono esperienze che non sono né globali, né locali e che hanno il potere di modificare la Rete, come testimoniano le esperienze di condivisione di informazione, musica e film. Quello che voglio dire è che nella globalizzazione ci sono appunto terre di nessuno né globali né locali all'interno delle quali i movimenti sociali sviluppano la loro azione che ha il potere di condizionare
Tra le molte leggende sprofondate il giorno della vittoria di Barack Obama, c’è quella della maggioranza silenziosa, che Nixon invocò nel 1969 per opporsi alle idee del Sessantotto e alla sua sete di mutamento. È una leggenda che faticava a morire, perché calmava le paure di una parte dell’America spesso inascoltata anche se estesa, e perché un elettorato che tace è sempre comodo per chi comanda.
La maggioranza silenziosa era contro le riforme brusche dei costumi, e in genere difendeva lo status quo. Negli Stati Uniti coltivava sogni di egemonia nazionale, per i quali tuttavia non voleva pagare prezzi economici. Il sogno era quello seicentesco della nazione eletta: la nuova Israele, la «città sopra la collina» proposta ai primi coloni americani da John Winthrop, governatore del Massachusetts. Il sogno era talmente spazioso che tutto il resto - quadrare i conti, ad esempio - pesava come piuma.
Qui è il cuore delle smisurate illusioni che ultimamente si sono infrante, prima nelle guerre di Bush, poi nel mondo della finanza, infine nel voto a Obama. Essere una superpotenza, o meglio l’unica potenza globale, significava precisamente questo: l’espansione dell’America - la sua natura di «nazione indispensabile» - esentava gli Stati Uniti dall’essere, oltre che indispensabile, solvibile. La maggioranza silenziosa, che per definizione non ha nulla da dire, consumava intanto soldi, petrolio, case e chimere. Il culmine lo raggiunse Dick Cheney, vicepresidente. Interrogato sulle guerre che Bush iniziò senza chiedere sacrifici ma anzi tagliando le tasse, replicò: «Deficits don’t matter». Che ce ne importa dei deficit.
Nell’era Bush i deficit erano addirittura benvenuti. Appena due settimane dopo l’11 settembre, il presidente incitava i cittadini a consumare di più: «Andate a Disney World in Florida, portatevi le famiglie, godetevi la vita!». La guerra contro il terrore diventava una condizione permanente dell’esistenza americana, il presidente ne profittava per indebolire giudiziario e legislativo, la Costituzione e le leggi internazionali venivano violate, la minaccia climatica ignorata, ma l’americano poteva continuare come se niente fosse, comprando a credito. La guerra illimitata e la presunzione della nazione eletta servivano a nascondere il fatto che l’America era ormai a corto di risorse, dipendente dall’estero per petrolio e finanze, senza i mezzi della sua mondiale supremazia. Lo storico Andrew Bacevich spiega con lucidità questa follia di grandezza fondata sull’insolvenza e il simulacro (The Limits of Power - The End of American Exceptionalism, New York 2008). Eisenhower riteneva che non c’è sicurezza senza solvibilità: una verità ricordata a Obama e McCain dal moderatore dell’ultimo dibattito televisivo. Nessuno dei candidati ha osato discuterla, osserva giustamente il commentatore del sito di Contropagina (www.contropagina.com).
La maggioranza silenziosa è stata d’un tratto svegliata dalla crisi finanziaria, fiutando l’immenso inganno. Ma per tanto tempo s’era autoingannata, e non sarà facile condurla a nuovi ragionamenti. Da questo punto di vista non è così vero che Wall Street ha tutte le colpe e Main Street nessuna. Main Street è stata per decenni incapace d’articolar verbo: è stata passiva, al tempo stesso impaurita e compiaciuta. Non meno di Cheney, ha ritenuto che il debito fosse un’opportunità, più che un imbarazzo. Ha accettato quel che il ministro della Difesa Rumsfeld disse sette giorni dopo l’11 settembre: «La scelta è questa: o cambiamo il nostro stile di vita, il che è inaccettabile, o cambiamo il modo in cui vivono gli altri, che è l’unica cosa da fare».
La grande menzogna (la bolla) comincia in America con l’abitudine a un’abbondanza sempre più ampia e fittizia: comprarsi un’abitazione senza avere i soldi era la stessa cosa che comprarsi un impero senza possedere capacità e mezzi. Così è avvenuto, secondo Bacevich, che cita lo storico Charles Maier, il passaggio degli Stati Uniti dall’Impero della Produzione all’Impero dei Consumi. Ci fu un momento in cui i politici sentirono scricchiolare il Titanic: accadde il 15 luglio ’79, quando Jimmy Carter fece un discorso sullo stile di vita che doveva cambiare, dipendere meno dal petrolio, risparmiare più che consumare. La risposta fu il discorso di candidatura di Reagan, il 13 novembre ’79, che venne eletto promettendo ben altro: prodigalità e primato imperiale sarebbero continuati, e anche deficit e sprechi. La maggioranza aveva scelto un cambiamento che assicurava, con altri metodi economici, un Impero dei Consumi ancor più smisurato.
La vittoria di Obama non significa per forza abbandono dell’inganno. La storia di Carter dimostra che denunciare il simulacro e l’insolvenza è avventura scabrosa. Ma il disastro odierno è vasto, e l’appello ripetuto al cambiamento lascerà tracce nelle menti, così come lasceranno tracce la speranza rimessa in moto da Obama, il senso che l’impossibile può divenire possibile, che il difficile va tentato: tutte cose cui la maggioranza silenziosa, oscillando fatalisticamente fra rassegnazione e presunzione, non era abituata. Oggi il vizio fatalista si stempera, e assieme a esso forse l’egoismo di chi non vuol dar soldi al bene comune: è il motivo per cui Paul Krugman chiede a Obama di «non pensare in piccolo», di osare l’assistenza sanitaria per tutti che l’America non possiede. Sarà costoso: non di più, tuttavia, delle somme abnormi spese in guerre fallite o impantanate.
La fede di Obama nell’eccezionalismo Usa è intensa, e ha le sue giustificazioni ma anche i suoi tranelli. Solo lì, è vero, un meticcio ha dimostrato di poter divenire capo dello Stato («un incrocio come me», ha scherzato venerdì coi giornalisti, paragonandosi al cane bastardo che vuol comprare). Ma la presunzione imperiale non è da lui denunciata e nei discorsi manca l’appello alla sobrietà dei consumi, anche se la dipendenza energetica è il suo cruccio. Al Gore è più sensibile all’appello, e sarà importante vedere se nella futura amministrazione avrà uno spazio. Il nuovo presidente ha criticato sin da principio l’intervento in Iraq, ma non sembra riconoscere che la guerra è uno strumento forse inadeguato: le guerre di Bush hanno provocato caos anziché ordine, non solo in Iraq ma in Afghanistan e Pakistan. Il risultato che dopo sette anni tarda a venire in Afghanistan inficia alle radici la scelta di militarizzare la lotta al terrore.
L’Europa è figlia dell’Impero dei Consumi. Non ha il vizio dell’indebitamento né la mania di grandezza, avendo abbattuto dentro di sé la bestia nazionalista, ma da quel modello d’impero è affascinata, e anch’essa ha trovato il modo di profittarne ricavandone sicurezza e autoinganni. Quel che rischia, oggi, è di esser trascinata nel gorgo, e di restare afasica il giorno in cui Washington dovesse cambiar politica sul serio. Dovrà trovarle dentro di sé, le parole per dire e fare quel che vuole, senza attendere un alleato intento a curare le proprie storture.
Dice ancora Bacevich che i grandi americani sono di rado ascoltati, perché dicono cose realiste e per questo sgradite. Non sarebbe male che quella tradizione rivivesse. Che Obama riscoprisse il realismo di Reinhold Niebuhr, il teologo profeta che nel secondo dopoguerra mise in guardia contro l’eccezionalismo e contro «il sogno di manipolare la storia, nato da una peculiare combinazione di arroganza e narcisismo: una minaccia potenzialmente mortale per gli Stati Uniti». Che consigliò ai Figli della Luce di non credersi votati alla luce, di non rispondere ai «figli di questo mondo» e al loro cinismo con la follia dell’immaginazione, il sentimentalismo e la stupidità. Niebuhr era un cristiano nemico del messianesimo politico: dopo anni di ubriacatura fondamentalista, l’America e anche l’Europa hanno bisogno di questa disintossicazione.
Anticipiamo un brano da Consumo, dunque sono (Laterza, pagg. 199, euro 15) in libreria da oggi.
Al giorno d’oggi la prassi manageriale di provocare un’atmosfera di urgenza o di presentare come stato di emergenza una situazione probabilmente normale è considerata un metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per persuadere chi viene gestito ad accettare tranquillamente anche cambiamenti drammatici che colpiscano al cuore le sue ambizioni e prospettive o il suo stesso stile di vita. «Dichiara lo stato di emergenza e continua a comandare», sembra essere la ricetta manageriale sempre più in voga per esercitare un dominio indiscusso e far passare gli attacchi più spiacevoli e devastanti al benessere dei dipendenti, o per liberarsi della forza-lavoro che non si vuol più tenere, lavoratori in esubero a causa delle operazioni di «razionalizzazione» o scorporo delle attività che si susseguono.
Forse nemmeno l’apprendimento e l’oblio sfuggono alle conseguenze della «tirannia del momento», favorita e istigata dal continuo stato di emergenza, e del tempo perso in una successione di «nuovi inizi» disparati e apparentemente (ma ingannevolmente) scollegati tra loro. La vita di consumo non può essere altro che una vita di apprendimento rapido, ma ha anche bisogno di essere una vita di oblio altrettanto rapido.
Dimenticare è importante come, se non più, che imparare. C’è un «non si può» per ogni «si deve», e quale di questi due aspetti riveli il vero obiettivo del ritmo vertiginoso di rinnovamento e rimozione, quale dei due sia invece solo una misura ausiliaria per assicurare che l’obiettivo sia raggiunto, è una questione cronicamente opinabile e irrisolta. (...)
Siamo di nuovo alla questione dell’uovo e della gallina... Devi «buttar via» il beige per preparare il viso a ricevere i nuovi, vivaci colori, oppure sono questi ultimi che stanno inondando il reparto cosmetici dei supermarket per garantire che le scorte inutilizzate di beige vengano effettivamente «buttate via, immediatamente»?
Molte delle donne che a milioni stanno buttando via il beige per riempire la borsetta di cosmetici a colori vivaci direbbero molto probabilmente che cestinare il beige è un effetto secondario, deprecabile ma inevitabile, del rinnovamento e miglioramento del make-up, un sacrificio triste ma necessario per stare al passo con il progresso. Ma tra le migliaia di direttori di negozio che stanno inviando ordini per il nuovo assortimento qualcuno ammetterebbe, in un momento di sincerità, che se gli scaffali dei cosmetici si sono riempiti di colori vivaci ciò è accaduto per la necessità di abbreviare la vita utile del beige, facendo in modo che il traffico nei grandi magazzini rimanga intenso, che l’economia continui ad andare avanti e che i profitti crescano. Il Pil, indice ufficiale del benessere della nazione, non si misura forse dalla quantità di denaro che passa di mano? La crescita economica non è for-se alimentata dall’energia e dall’attività dei consumatori? E il consumatore che non si dà da fare per liberarsi di cose consumate o obsolete (o, meglio, di tutto ciò che rimane degli acquisti di ieri) è un ossimoro: come un vento che non soffi o un fiume che non scorra...
Sembra che entrambe le risposte di cui sopra siano giuste: esse sono complementari, non contraddittorie. In una società di consumatori e in un’era in cui la «politica della vita» sta sostituendo la Politica con la iniziale maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo economico», quello che veramente fa andare avanti l’economia, è il ciclo del «compra, godi e butta via». Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla società dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua stupefacente capacità di auto-riproduzione ed espansione.
La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nel l’acquisire e possedere. E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era stato acquisito l’altro ieri e orgogliosamente ostentato ieri. Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto, nel rimanere in movimento.
Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di produzione era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione) il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di consumo (se l’etica di una vita simile può essere presentata sotto forma di un codice di comportamento prescritto) dev’essere il rimanere insoddisfatti. (...)
Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere spinti o trascinati per sentirci così e agire in base a questo sentire. Non è rimasto più niente da desiderare? Niente da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? Non c’è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il palcoscenico per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi? Una situazione di questo tipo ? di breve durata, si spera ? si può chiamare solo con il suo nome: «noia». Gli incubi che ossessionano l’Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre ? i ricordi delle cose, animate o inanimate ? che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la scena... (...)
L’economia dei consumi e il consumismo sono mantenuti in vita in quanto i bisogni di ieri sono sminuiti e svalutati, e i loro oggetti ridicolizzati e sfigurati come ormai obsoleti, e ancor più è l’idea stessa che la vita di consumo debba essere guidata dalla soddisfazione dei bisogni a essere screditata. Il trucco beige, che la scorsa stagione era segno di sicurezza, ormai è solo un colore che sta passando di moda, spento e brutto, e per giunta un marchio di disonore, segno di ignoranza, indolenza, inettitudine o complesso di inferiorità; l’atto che fino a poco tempo fa denotava generalmente ribellione e azzardo e confermava che si era «un passo avanti a chi fa tendenza» diventa ben presto sintomo di pigrizia o codardia («Non è trucco, è una coperta di sicurezza»), segno che ci si trova ormai in coda, che si è persino al verde...
Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli individui che si accontentano di avere un insieme finito di bisogni, che agiscono solo in base a ciò di cui pensano di avere bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che potrebbero suscitare un piacevole desiderio di soddisfazione sono consumatori difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici della società dei consumatori. La minaccia e la paura dell’ostracismo e dell’esclusione aleggiano anche su chi è soddisfatto dell’identità che possiede e su chi si accontenta di ciò che i suoi «altri che contano» lo portano a essere.
La cultura consumistica è contrassegnata dalla costante pressione a essere qualcun altro. I mercati dei beni di consumo sono imperniati sulla svalutazione delle loro precedenti offerte, in modo da creare nella domanda del pubblico uno spazio che sarà riempito dalle nuove offerte. Essi alimentano l’insoddisfazione nei confronti dei prodotti usati dai consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne scontento verso l’identità acquisita e verso l’insieme di bisogni attraverso i quali viene definita. Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere camuffato da privilegio.
L’economia si trova a dover combattere su due fronti. Da un lato la crisi minaccia la crescita che è considerata, oggi, l’irrinunciabile sostegno dell’economia. Dall’altro, la crescita minaccia la sopravvivenza, che si basa sui grandi equilibri ecologici. A questo dilemma si possono dare due risposte opposte. Ambientalisti rigorosi come Carla Ravaioli, che nel suo ultimo libro, “Ambiente e pace, una sola rivoluzione”, torna sul problema cui ha dedicato una instancabile e meritoria analisi, danno la risposta che è stata definita da Serge Latouche decrescita, e che più propriamente dovrebbe chiamarsi stabilizzazione. Questa risposta è contestata da chi la considera poco meno che una bestemmia ma anche da chi, più ragionevolmente (come Federico Rampini, Repubblica dell’8 novembre) considera la crescita come il presupposto degli stessi investimenti “ambientalistici”, come quelli destinati a sviluppare energie rinnovabili. Su posizioni più estreme si pongono i “crescitòmani” che negano pericoli ecologici imminenti e invocano, di fronte alla minaccia di recessione provocata dall’attuale gravissima crisi, di fare ogni sforzo per fare ripartire la crescita, con priorità assoluta su politiche ambientalistiche che possono frenarla. Si tratta di due posizioni inconciliabili? Credo di sì. E francamente non mi convincono i sostenitori del “green growth”, della crescita compatibile con l’equilibrio ambientale. Si possono certamente realizzare investimenti con tecniche che consentano costi ecologici minori. Ma, nell’insieme, la “green growth” appartiene alla categoria degli ossimori, del tipo “botte piena e moglie ubriaca”. Né è ragionevole la tesi del rinvio, di chi non nega la minaccia “ecologica” ma la ritiene meno imminente. Oggi, si dice con apparente ragionevolezza, il pericolo imminente è la recessione. Alle politiche ambientali si penserà dopo. Il fatto è che la drammaticità della minaccia ecologica sta proprio nella sua imminenza. Se la casa brucia è ragionevole voltare le pompe dell’acqua da un’altra parte? Qual è il rischio maggiore? quello della recessione o quello della sopravvivenza? Certo, le minacce, pure entrambe incombenti, hanno tempi di maturazione diversi. Il che non significa affatto che debbano essere ritardati gli interventi diretti a scongiurarle. Il fatto vero è che non c’è compatibilità tra equilibrio ecologico e crescita; mentre, invece, si può rendere compatibile l’equilibrio ecologico con l’equilibrio economico. Una economia prospera con una economia non distruttiva. Ciò richiede però un radicale mutamento di paradigma: culturale e morale prima che economico: il passaggio da una economia di crescita a una economia di equilibrio, di “stato stazionario”. Che non significa affatto stato statico. Un lago con immissari ed emissari è un sistema aperto e dinamico, non uno stagno; mentre, d’altra parte, un lago provvisto solo di immissari non può evitare l’inondazione. In altri termini, la crescita continua, senza fine, è insostenibile. E’anche una crescita senza fini. Oltre che insostenibile, insensata. Una economia ecologicamente equilibrata è possibile solo se al criterio della massimizzazione (di tutto di più, di beni e di mali, come nello slogan della Rai, che si adatta benissimo al Pil, prodotto interno lordo) si sostituisce quello della ottimizzazione: e cioè della distinzione, nella allocazione delle risorse, tra quelle ammissibili e quelle non ammissibili, quelle prioritarie e quelle non prioritarie. Questa scelta «suprema», questa programmazione, non la si può affidare al mercato. Anche i più fanatici liberisti concordano sul fatto che ci sono cose che non si possono vendere e comprare. Tra queste, e per prima, non può non esserci proprio la decisione su ciò che si può e su ciò che non si può vendere e comprare. Questa è decisione che spetta alla politica democratica. E’ all’interno di questo paradigma di scelte che il mercato, per ogni altro aspetto libero, ritrova la sua libertà: la quale, non si dovrebbe dimenticarlo, è assicurata dalla libera concorrenza: che a sua volta presuppone politiche di intervento antimonopolistiche. Solo in una condizione di equilibrio dinamico e di concorrenza libera il mercato può ritrovare la sua efficienza e la sua base morale.
Cos’hanno in comune il nuovo presidente degli Stati Uniti e il pianeta? Tutti e due rischiano di deluderci per mancanza d'idee. Senza una nuova teoria economica, Barack Obama non attuerà il programma di giustizia sociale che l'ha portato alla Casa Bianca e la Terra non riuscirà a soddisfare il nostro bisogno di risorse.
La prima frase del Nuovo testamento economico potrebbe essere: "E poi arrivò la Rivoluzione industriale". Tutte le teorie economiche moderne, da Adam Smith a Milton Friedman, incluse quelle di stampo marxista, hanno come epicentro questo fenomeno. Ecco perche il moderno capitalismo e il suo opposto, il marxismo, hanno un identico cuore: lo sfruttamento ad infinitum delle risorse, per produrre una crescita economica altrettanto infinita. Ma da Smith a Marx, da Keynes a Friedman, tutti analizzano un mondo che non esiste, un pianeta che possiede risorse illimitate.
Il problema di queste teorie é che sono costruite su ipotesi sbagliate. Per salvare il mondo ci vuole una rivoluzione teorica della stessa portata di quella scatenata dalla rivoluzione industriale. Il nuovo presidente degli Stati Uniti deve incoraggiare gli economisti a guardare al futuro immaginando il mondo del 2050, quando le risorse scarseggeranno ovunque. Fino a oggi nessuno l'ha fatto perche gli sforzi sono concentrati sul settore finanziario, dove negli ultimi vent'anni è successo di tutto e dove confluisce la ricchezza prodotta dalla globalizzazione. Il difficile compito di difendere il pianeta dalla devastazione prodotta dalla crescita economica é ricaduto sulle spalle degli scienziati, che possono solo continuare a denunciare la catastrofe ambientale provocata dall'economia globalizzata.
E inutile cercare la soluzione nelle teorie economiche del passato. Il presidente Obama se ne accorgerà quando dovrà farsi rieleggere: meglio indebitarsi ulteriormente o aumentare le tasse sulla benzina per finanziare il programma di assistenza sanitaria ai poveri? Neanche limitare lo sfruttamento delle risorse é sufficiente, perche il problema non é congiunturale, é di sistema. Anche se gli Stati Uniti diventassero improvvisamente ecologisti come i paesi scandinavi, il pianeta continuerebbe l'inesorabile discesa verso l'inquinamento globale. Il modello di sviluppo economico, per la Cina comunista come per l'India capitalista e per la Norvegia ecologista, poggia sullo sfruttamento illimitato delle risorse. Un modello alternativo non esiste. Per uscire dalla gabbia di questa teoria economica c'é bisogno di un gesto radicale: inventare una teoria nuova.
Neppure le soluzioni utopiche come quella che mette l'individuo al centro di un movimento globale ecologista o quella the vuole creare uno status speciale per chi inquina meno salverannoil mondo. Sono modelli prodotti in occidente, the presuppongono un livello di sviluppo economico molto avanzato. Al contadino indiano the finalmente può permettersi dei fertilizzanti nitrogenati interessa solo il guadagno prodotto dal raccolto più rigoglioso, che userà per meccanizzare la sua azienda.
Un mondo più giusto
Il problema insomma é globale e la soluzione deve essere globale. Ce ne siamo accorti durante la crisi del credito: l’intervento di una nazione, gli Stati Uniti, non é servito a nulla, e anche le nazionalizzazioni e i salvataggi in extremis degli altri paesi non hanno avuto i risultati previsti. Forse l'unico modo per spingere gli economisti a sviluppare una teoria nuova, the funzioni in un pianeta a risorse limitate, é partire proprio dalla crisi del credito, che é stata un pallido anticipo di quello the succederà quando si esauriranno le risorse del pianeta. Non possiamo permetterci di aspettare che la crisi peggiori per poterla risolvere. Oggi dobbiamo farci con la stessa urgenza belle domande scomode: come risolvere il problema dell'acqua? Gli economisti classici questo problema se lo sono posto e una soluzione l'hanno trovata: chi non si può permettere l'acqua morirà di sete, e la popolazione mondiale si ridurrà fino al punto in cui ci sarà acqua a sufficienza per i sopravvissuti.
Malthus non avrebbe problemi con questo scenario, l'aveva analizzato più volte nel corso della storia. Perchè la storia economica è scritta da due autori: abbondanza e carestia. La grande sfida di Barack Obama é la stessa del pianeta: trovare la teoria economica che interrompa il ciclo di ricchezza e povertà che ci intrappola, una teoria che produca uno sviluppo equo, equilibrato e sostenibile, e che lo faccia prima che sia troppo tardi. Bisogna aiutare il mondo a riprendersi dalle tragiche conseguenze dello sfruttamento irrazionale the distrugge più ricchezza di quanta ne produca.
Cosi sarà più facile ottenere la giustizia sociale.
In questi giorni è di gran moda tributare onori al vecchio Marx. La crisi del capitalismo incoraggia le palinodie. Ancora ieri era un reperto fossile, oggi è la mascotte di banchieri e economisti di radicata (e in realtà incrollabile) fede liberista. Lasciamo andare ogni considerazione sulla scarsa decenza di tanti improvvisi ripensamenti. Proviamo piuttosto a divertirci un po' immaginando lo spasso che procurerebbero a Marx tutti questi discorsi e quanto sta accadendo in queste turbolente settimane. A Marx e non soltanto a lui. C'è un altro grande vecchio, di cui nessuno parla, che si sta godendo una tardiva ma non imprevista rivincita. Un vecchio molto caro all'autore del Capitale. Insomma, questa crisi è un momento di riscatto anche per Hegel, il grande maestro di Marx. Attenti a quei due.
La rappresentazione prevalente descrive un movimento che va dalla crisi finanziaria («originata - recita la vulgata - dalla caduta dei mutui subprime») all'economia reale.
Le implicazioni di questa narrazione ideologica sono principalmente due. La prima è che l'«economia reale» (in sostanza, il capitalismo) sarebbe di per sé sana; la seconda, che ne consegue, è che si tratta in definitiva di un problema di «assenza di regole e controlli» in grado di prevenire (e adeguatamente reprimere) i comportamenti «devianti» degli speculatori troppo ingordi.
Tale descrizione omette il dato essenziale. Prima del movimento descritto, ne opera uno opposto (dall'economia reale alla finanza) che si fa di tutto per occultare. Si capisce perché.
In realtà è il modo in cui funzionano la produzione e la riproduzione (cioè il rapporto capitale-lavoro) a decidere il ruolo della finanza e le forme concrete del suo funzionamento. Nella fattispecie, è l'ipersfruttamento del lavoro (a mezzo di precarizzazioni, delocalizzazioni, bassi salari e tagli del welfare) a far sì che all'indebitamento di massa sia affidato il ruolo di fondamentale volano della crescita. Non stupisce allora che su questo si cerchi di instaurare un tabù. Non si può dire chiaramente - pena l'esplicita delegittimazione del sistema - che all'origine della crisi è la crescente povertà imposta alle classi lavoratrici da trent'anni a questa parte.
Ma che c'entra Marx con questo e cosa c'entra soprattutto Hegel?
Proviamo a vederla così. Se è vero che l'economia reale è sia il luogo originario del processo di crisi, sia il terreno del suo compiuto dispiegarsi, allora si può dire che la produzione si serve della finanza per sopravvivere. Nel concreto, la speculazione finanziaria fondata sull'indebitamento è il mezzo che il capitale usa per svilupparsi in costanza del vincolo-base del neoliberismo: la deflazione salariale a tutela del saggio di profitto.
Ora, questo schema è identico a quello su cui riposa la critica marxiana della valorizzazione capitalistica. In base a tale schema, com'è noto, la quantità di valore aumenta passando attraverso la produzione di merce. La quale - dal punto di vista del capitale - non è che lo strumento necessario per riprodursi e svilupparsi.
Non si tratta di un'analogia formale né, tanto meno, accidentale. La finanza oggi svolge, in rapporto alla produzione capitalistica, una funzione identica a quella che, nel processo di riproduzione del capitale, è assolta dalla merce. La finanziarizzazione dell'economia, cuore del neoliberismo, affianca alla sequenza D-M-D1 (beninteso, l'unica nel contesto della quale si realizza un effettivo aumento di valore) la sequenza produzione-speculazione-produzione, funzionale a drenare cospicue masse di ricchezza dal lavoro al capitale: una sequenza nella quale si rispecchiano a un tempo il ruolo-chiave svolto dal denaro e la funzione decisiva assolta dalla povertà del lavoro.
A sua volta, questo schema è identico a quello che struttura l'analisi dialettica del reale nelle pagine di Hegel, in particolare nella Scienza della logica. Non tanto per la sua struttura triadica (a-b-a1: tesi-antitesi-sintesi), che ne costituisce la veste esteriore. Quanto per il nòcciolo teoretico che contiene, cioè l'idea che il passaggio da un ente a un altro (il negarsi a vantaggio dell'«altro da sé») sia in realtà (al di là di ciò che appare sul piano fenomenologico) un transito necessario al primo ente per conservarsi. In questo senso il primo ente è il protagonista dell'intero movimento, nella misura in cui trasforma se stesso e, trasformandosi, sopravvive.
Ce n'è già abbastanza, forse, per dire che la filosofia ogni tanto si prende delle grandi soddisfazioni. Sembra a prima vista un catalogo di criptiche astrazioni, si rivela invece una potente chiave per penetrare la realtà e decifrarne le dinamiche. L'astrazione coincide così col massimo di semplicità e di concretezza. Ma c'è dell'altro. Anzi, il bello viene proprio adesso.
La dialettica mostra che l'ente da cui il movimento prende avvio (la produzione capitalistica) è il protagonista della storia (della crisi). Ma mostra anche che la trasformazione dell'ente (necessaria alla sua sopravvivenza) implica quel passaggio (la finanziarizzazione), quel suo negarsi nell'altro. Mostra cioè che non vi è persistenza senza conflitto, senza duro contrasto, senza negazione di sé. Solo venendo meno, passando attraverso la propria morte, la cosa persiste e si sviluppa.
Questo è il punto, evidentemente gravido di conseguenze. La produzione capitalistica si rivolge alla finanza speculativa per una sua inderogabile esigenza (per realizzare la riproduzione allargata del capitale). Alla base opera la necessità di impoverire il lavoro, pena l'estinguersi dei margini di profitto, cioè del capitale stesso. Dopodiché la speculazione finanziaria torna sulla produzione in forma distruttiva. È indispensabile al capitale, ma è altresì incompatibile con la sua sopravvivenza. In altre parole, la produzione capitalistica si serve della speculazione per conservarsi ma, nel far ciò, è costretta anche - paradossalmente - a negare se stessa, a autodistruggersi a mezzo dell'onda d'urto della crisi finanziaria, che agisce come formidabile moltiplicatore economico degli effetti socialmente distruttivi dell'ipersfruttamento del lavoro vivo.
In cauda venenum. La filosofia è come un fascio di raggi X puntato sui processi reali e sulle loro rappresentazioni ideologiche. La dialettica è una potenza dinamitarda. Hegel e Marx, quei due «cani morti» che già in passato turbarono i sonni delle borghesie europee, ancora se la ridono.
L'altalena delle borse non coincide con la fine del capitalismo, ma con un suo assestamento per riportare ordine e integrare così le periferie dell'impero. La crisi letta attraverso le tesi di Guy Debord sulle «società dello spettacolo»
Provare ad utilizzare le categorie di Guy Debord per riflettere sulle grandi trasformazioni in corso apre percorsi di ricerca che possono essere solo accennati in un articolo, ma sui quali occorrerà tornare in futuro. È noto come il «dottore in nulla» nella sua Società dello Spettacolo avesse introdotto due modelli contrapposti, lo «spettacolo concentrato» proprio delle società totalitarie e dittatoriali, e lo «spettacolo diffuso» proprio delle democrazie occidentali, dominate dal consumismo. Successivamente nei Commentari, scritti nel bel mezzo del terremoto che fece crollare la più spettacolare epifania dello spettacolo concentrato (l'Urss), Debord tracciò il percorso che avrebbe portato alla nascita di ciò che definì «spettacolo integrato». Il crollo del modello sovietico e l'apparente discioglimento dell'equilibrio del terrore avrebbero necessariamente trasformato le «democrazie occidentali», togliendo loro ogni incentivo alla virtù (o alla «moralità» per dirla con Laura Pennacchi). Il sistema si sarebbe così trasformato in una combinazione fra i due modelli precedenti, uno spettacolo integrato caratterizzato da cinque punti: «Il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico-statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente».
Difficile negare che il modello statunitense dominante dopo la caduta del Muro di Berlino e poi ancor più marcatamente a partire dall'elezione di George W.Bush abbia prodotto un ventennio di «spettacolo integrato». Nel capitalismo finanziario della ricchezza «inventata» per valori superiori decine di volte a quelli del prodotto interno lordo globale (12 volte considerando i soli derivati) «la forma di merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro nel quale si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica», come già stava scritto proprio in quella parte del Capitale che maggiormente infuenzò Debord (e anche Jean Beaudrillard).
Tra Cina e Europa
Oggi potremmo essere di fronte ad un crollo sistemico tanto violento quanto quello dell'impero sovietico o per lo meno possiamo ragionevolmente interpretare così diversi segnali. Il capitalismo finanziario, noto con tanti altri nomi da «turbo-capitalismo» a «super-capitalismo» a «modello neo-americano» o «neo-liberista», si sta effettivamente schiantando? Possiamo goderci in modo un po' meschino quel senso di giustizia inutile (o assai crudele se coinvolge innocenti) che magari abbiamo provato incontrando schiantata sull'orlo della strada due curve più avanti la vettura sportiva di un cretino che poco prima ci ha superato in curva a velocità folle? Come crolla uno «spettacolo» e che rimane dopo il crollo? Stiamo davvero assistendo al crollo dello «spettacolo integrato» effettivamente realizzatosi nell'ultimo ventennio, o semplicemente si tratta di una scossa di assestamento di un'«integrazione spettacolare» che ancora deve completarsi cancellando le specificità delle periferie? Se il capitalismo finanziario contemporaneo (corporate capitalism) corrisponde in modo impressionante ai sette punti debordiani, a che cosa corrispondono il capitalismo di stato cinese che attende sornione che le acque del fiume facciano transitare il cadavere del nemico americano? A che cosa corrisponde il modello europeo, che talvolta si sente invocare come alternativa anche sociale al modello anglosassone? Esiste un pensiero (o una prassi) alternativa desiderabile che non sia l'insopportabile riproposizione del keynesismo allegramente assolto dalle sue responsabilità belliche? Sono quello cinese ed europeo davvero modelli diversi o semplici differenze di stadio «evolutivo-involutivo», semiperiferie a volte riottose ma dominate in fondo dalla stessa logica accumulatrice del centro? È quella tecnocratica europea l'alternativa «sociale» che dovremmo desiderare? E l'alterità vera, quella di mondi che l'arroganza eurocentrica anche di sinistra considera «senza storia», «senza tecnologia», «senza diritto e diritti», «senza democrazia», «senza parità ed emancipazione dei sessi»? Lì vivono, certo non senza cultura, la maggior parte degli umani che maggiormente stanno in equilibrio con la natura. Dobbiamo necessariamente «inventare» questa alterità come un residuo arcaico, o potremmo finalmente cercare di conoscerla per una ragione diversa dal desiderio di depredarla?
In sintesi: ha senso utilizzare un modello interpretativo che si fonda su radicali discontinuità temporali (prima e dopo «il crollo») e spaziali (modello statunitense, cinese, europeo) oppure ancora una volta a prevalere sono gli elementi di continuità nell'espansione capitalistica, che hanno superato guerre, rivoluzioni, carneficine, decolonizzazioni, nazionalismi, e perfino qualche emancipazione e rara isola felice? E cosa sta dietro questa continuità destinata a finire forse solo con l'esaurirsi (prossimo) della pazienza della natura rispetto all'antropizzazione?
Nel regno del breve periodo
L'attività predatoria di questo modello economico legittimata dal diritto e dalla scienza non mostra significative soluzioni di continuità negli ultimi cinquecento anni in occidente dove, accoppiandosi con la tecnologia, crea un modello proprietario per cui la natura «appartiene» all'uomo mentre l'uomo, a differenza di ogni altro essere vivente, «non appartiene» alla natura ma ne sta al di sopra e la domina tramite le sue leggi. Così facendo le leggi umane, sovraordinate a quelle di natura, producono un'antropomorfizzazione e poi singolarizzazione delle comunità e delle organizzazioni sociali, che reduce la prospettiva istituzionale ad una distanza sempre più corta e a tempi sempre più brevi. Si sviluppa in un mondo conquistato dall'ideologia dell'efficienza economica un parossismo di fiducia collettiva nell'eternità delle risorse naturali da sfruttare dalla quale potrebbe svegliarci soltanto uno schianto apocalittico.
Di fronte alle attuali avvisaglie di crollo, (certo non solo la finanza, ma anche lo scioglimento dei ghiacci il riscaldamento globale, la distruzione delle risorse ittiche e l'esaurimento dell' acqua) un'umanità sotto l' effetto dell'oppio spettacolare (in tutte le sue impressionanti manifestazioni ideologiche e culturali) crede in formulette di breve periodo quali quelle di cui parlano i leader politici del G7.
E così facciamo pure il tifo affinché il bailout si trasformi in una nazionalizzazione di banche ed assicurazioni e perché magari si cominci a riparlare di socialismo. Ma non facciamoci troppe illusioni, perché strutturalmente siamo di fronte ad un'ennesima scorreria in colletto bianco travestita da legalità «democratica». Grandi risorse pubbliche vere o inventate sono trasferite a privati; la creazione di uno stato di emergenza «costruisce» la necessità del capitalismo finanziario e fa preoccupare perfino un comunista senza un soldo in borsa per le sorti di Wall Street! Sulle prime pagine dei giornali, gli stessi che l'anno scorso straparlavano sostenendo che il liberismo è di sinistra, al posto di vergognarsi oggi berciano che si tratta di una crisi della «regolamentazione» o di un crollo dell'«etica» della grande impresa (Anthony Giddens), concezione anche questa al limite dell'ossimoro, ma accettabile nella società dello spettacolo così come accettabile è chiamare la guerra operazione di pace. In più si continuano a tessere gli elogi e la necessità dell'«innovazione» anche finanziaria (l'economista e docente di Yale Robert Shiller).
Ma non è un problema di etica, né di regolamentazione. È un problema profondamente radicato nell'arroganza storica dell'occidente dominante con la sua tecnologia e la sua concezione proprietaria della legalità e del potere. Intorno a noi prendiamo coscienza delle vere continuità storiche: i pirati, gli schiavi, la tortura, l'esecuzione. Le fondamenta profonde del diritto occidentale sono complici se non direttamente protagoniste di quest' ergersi dell' uomo a domino della natura e a creatore di disordine cosmico.
Carla Ravaioli, Ambiente e pace una sola rivoluzione. Disarmare l’Europa per salvare il futuro. Edizioni Punto Rosso, Milano 2008, p. 192, € 12
Forse è il momento, questo il titolo di un capitolo nell’ultima parte (la quinta) del libro (pp.170-172). Che è uscito a maggio, dunque è stato scritto nei mesi precedenti l’incontenibile crisi strutturale e non solo finanziaria in cui sarebbe precipitato il “sistema mondiale dell’economia moderna” (per dirla col titolo di un famoso testo di Immanuel Wallerstein di oltre trent’anni fa), ossia il capitalismo liberistico duro e irragionevole, il whirl capitalism strangolatore del mondo. Sembrava già allora il momento “più propizio a un mutamento della politica mondiale” quando “a parlare di crisi… sono oramai i giornali di tutto il mondo” (p. 170).
La premonizione era presente da molti anni nel pensiero e nell’attività di Carla Ravaioli e degli studiosi che con lei guidano scientificamente e politicamente l’analisi critica del capitalismo individuando i punti d’attacco per ragionare di avvio a un possibile cambiamento. In un articolo dell’aprile 2005, Il giocattolo rotto (denominazione anche di un capitolo del saggio) Ravaioli smuoveva l’aria ferma e inquinata della politica riproponendo il wallersteiniano “bisogno di esplorare possibilità alternative” al mondo attuale. Non ci si può accontentare di aggiustare il giocattolo, invece si può credere, con Walden Bello, che una nuova economia mondiale deglobalizzata possa costituire il punto di partenza verso una trasformazione del mondo, una – pensavo e penso dinnanzi alla continuità della crisi e al fallimento del libero mercato – pura e semplice rivoluzione. Addirittura del 1966 è questa stupefacente intuizione di Kenneth Boulding (altro riferimento costante di Carla): “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un pazzo oppure un economista”. C’è come un filo rosso che unisce i critici dello sviluppismo, una concezione cui soggiace anche il centrosinistra in Italia condividendo lo stupido ossimoro sviluppo sostenibile. Il biologo fisiologo biogeografo Jared Diamond avvisava che il nostro habitat è minacciato di distruzione ravvicinata, che stiamo perdendo irreversibilmente le nostre limitate risorse, che noi abitanti dei paesi ricchi siamo diventati sconsiderati e ignoranti consumatori, devastatori di beni. Nel suo libro dal titolo ben chiaro, Collasso. Come le società scelgono di morire o di vivere (orig. 2004), mostrava che è la decrescita a essere sostenibile, non lo sviluppo economico capitalistico visto in chiave di Pil, prodotto interno lordo onnicomprensivo, tra l’altro pena di morte per i popoli vittime dello scambio ineguale. E in un’intervista Diamond, al consueto avvertimento di economisti e politici d’ogni specie di non cadere nell’effetto Cassandra rivolgendosi alla gente, sbottava “ma vedete, in primo luogo Cassandra aveva ragione…”.
Il famoso rapporto di trentasei anni fa del System Dynamic Group MIT per il Club di Roma, ci ricorda Carla Ravaioli, con la titolazione italiana “I limiti dello sviluppo”, infedele traduzione probabilmente in… buona fede di “Limits to Growth” (crescita), avrebbe generato nel corso del tempo l’identificazione del termine “sviluppo”, originariamente pensato di certo come rafforzativo, con “crescita” e la “naturale interscambiabilità dei due vocaboli” (p.116). “Crescita” riguarda merci e reddito, “sviluppo” invece deve concernere beni sociali, diritti civili, alta scolarità e buona salute, libera informazione, parità dei sessi, rispetto e conservazione dell’ambiente naturale e antropico storico, insomma tutto quanto provvede a una vita personale e sociale volta alla umanizzazione delle risorse e, perché non dirlo, alla felicità. Nel lontano 1996 l’Onu stessa, attraverso l’Human Development Report si scagliava contro l’aberrazione del Pil calcolato mediante la crescita di prodotti insensati come l’inquinamento e i congegni per mitigarlo, la criminalità e la polizia per combatterla, gli incidenti d’auto e le relative riparazioni e nuovi acquisti, gli armamenti e, aggiungo con Carla, le relative guerre, lo scambio ineguale e la ricchezza come reddito dei già ricchi (cfr. p.117). Di qui la rivendicazione della decrescita da parte di numerosi studiosi fra i quali Ravaioli è protagonista della lotta culturale guidata da Serge Latouche, l’economista filosofo antropologo francese avversario dell’occidentalizzazione del pianeta e fautore della “decrescita conviviale”, che, non coincidente semplicemente con crescita negativa, vorrebbe chiamarsi a-crescita, anzi acrescita, ugualmente a come si definisce ateismo la scelta di chi è libero totalmente da fedi religiose. Così, diciamo, è vero e proprio teismo oscurantista il culto del dio Pil intriso di fanatismo, il calcolo falsificato del prodotto da accrescere ad ogni costo oltre i limiti della sopportabilità per la terra, la natura e noi stessi che apparteniamo a due storie interrelate, storia naturale e storia sociale.
Ecco, tutto il libro è percorso da una straordinaria tensione politica e morale che da una parte rende assai efficace il sentimento di “ rifiuto della società così come l’abbiamo fabbricata” (p.13), da un’altra parte, proponendo fonti cristalline anche da altri autori oltre quelli citati (Karl Polanyi, Marcel Maus, Ivan Illich…) costruisce una potente macchina da battaglia contro il neoliberismo e i suoi feticci, vorrei dire tout court contro il modello capitalistico mondiale, storico e attuale, distruttore della natura e dell’uomo stesso in mille maniere, per prima quella di promuovere ad arte contrapposizioni insanabili e infine le guerre come folle metodo risolutore. Di qui l’”idea shock”, enunciata all’inizio del libro e argomentata a fondo nell’ultima parte: collegare la necessità di fermare la crescita, di cominciare a ridurre il Pil mondiale (giacché “sviluppo” è da convertire in esclusivi termini sociali) alla smilitarizzazione unilaterale dell’Unione europea siccome la produzione di armi è una componente rilevante del prodotto.
Per rispondere alla domanda “da dove cominciare” per istituire un nuovo modello economico sociale pacifista e, dinnanzi alla rovina naturale e artificiale della terra, ambientalista, all’idea della smilitarizzazione si deve associare l’affermazione di una politica ecologica effettiva. Bisogna, per Carla Ravaioli, riconoscere due verità: la prima, la crisi ecologica è connessa alla forma-capitale, la seconda, la guerra è inseparabile dall’obbligo di crescita produttiva. Lo “sviluppo sostenibile” è fallito, idem il preteso ordine mondiale fondato sulla diseguaglianza e sulla guerra. In definitiva, “fallimento del capitalismo tutto intero, macchine e idee”.
Ambiente e pace una sola rivoluzione, non poteva essere più chiaro il titolo. Un futuro felice dell’uomo nega la forma capitalistica perché responsabile della devastazione del pianeta e della violenza che lo sovrasta. Allora, “la dimensione potenzialmente eversiva della crisi ecologica non potrebbe non emergere e farsi attiva quando fosse avviata, mediante una scelta di disarmo, un’opzione di non violenza: a indicare la necessità non solo di un diverso ordine economico-sociale, ma di un ethos culturale e morale diverso” (cfr. pp. 179-171).
Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58.000 sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l’impennata dei costi del carburante, dell’elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi- Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia.
C’era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l’Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l’intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all’epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l’offerta seguiva l’andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l’obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell’offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l’offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi.
L’introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: «Perché aspettare per avere quello che vuoi?». Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l’appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l’ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere.
Questa era la promessa, ma sotto c’era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi? Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell’appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l’essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile? In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà.
Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l’unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del «prendi subito, paga dopo». Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po’ di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali.
Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l’incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori ? perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell’onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie.
L’odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell’uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l’industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l’industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare?
Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni ? anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L’ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L’insegnamento dell’arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali? Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile.
La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell’indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza.
Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest’occasione è che l’uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d’uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga.
Andare alle radici del problema non significa risolverlo all’istante. È però l’unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all’enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza.
(Traduzione di Emilia Benghi)
Titolo originale: Main Street Before Wall Street – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini [secondo l’Autore ovviamente Main Street è soprattutto immagine retorica e simbolica: mi piace però considerarla qui anche nel suo significato letterale quotidiano, di via urbana, di capitale investito localmente nella “danza del marciapiede” di Jane Jacobs(f.b.)]
Gli eventi delle ultime settimane hanno messo in luce i pericoli di un sistema finanziario totalmente devoto alla più spietata speculazione, che non produce assolutamente nulla che abbia valore e, come ci dicono ora, rappresenta un rischio per il complesso dell’economia globale. L’amministrazione Bush propone di mettere a disposizione del ministro del Tesoro Paulson 700 miliardi di dollari da elargire – senza alcun controllo o verifica – a coloro che hanno creato il pasticcio attuale. Spendere quello che molti analisti ritengono continuerà ad aumentare, fino ad almeno un milione di miliardi di dollari, a sostegno di questo sistema predatorio per alcuni mesi, o anni, non appare una grandiosa idea, e si spera che il momento possa insegnare qualcosa.
Possiamo partire col fatto che esiste un ruolo fondamentale per il governo. I fondamentalisti del mercato sostengono da lungo tempo che esso reso totalmente libero dall’interferenza governativa si autogoverni. Ora possiamo vedere come più Wall Street è liberata dalla supervisione, più i suoi potenti operatori manipolano mercati e politica a proprio beneficio personale. Più azzardati i rischi, maggiore l’instabilità del sistema finanziario, e la minaccia per il resto dell’economia.
E dunque come sarebbe un sistema finanziario sano? Iniziamo dai rapporti fra Main Street e Wall Street. Main Street è il mondo della attività locali e delle persone che lavorano, impegnate nella produzione e scambio di prodotti e servizi: un mondo di ricchezza reale. Wall Street com’è ora è un mondo di puro denaro nel quale l’unico gioco è quello di produrre denaro da altro denaro, da parte di chi ha denaro: un mondo di guadagni speculativi e indebite dichiarazioni di preminenza rispetto alla ricchezza reale di Main Street.
Il denaro, strumento essenziale di scambio, rende possibile la vita moderna. Secondo l’attuale sistema, il denaro da cui Main Street dipende per consentire scambi economici ed investimenti, nasce dai prestiti delle banche private di Wall Street. Si potrebbe dire che il lavoro di Wall Street è quello di creare denaro. Il che in sé non crea ricchezza.Il denaro è solo un pezzo di carta che ha valore in quanto media uno scambio.La creazione di ricchezza è lavoro di Main Street. Ciò indica come l’unico motivo valido di esistenza di Wall Street è quello di mettere a disposizione un regolare flusso di denaro per le necessità di Main Street.
Wall Street ha svolto in modo adeguato il proprio ruolo fin tanto che le autorità pubbliche di regolamentazione istituite dopo il crollo finanziario del 1929 l’hanno subordinata agli interessi di Main Street. Liberata dal controllo pubblico, però, Wall Street ha smesso di essere a servizio di Main Street e ha cominciato invece a depredarla, per generare spropositati guadagni ai propri maggiori operatori. Ha costruito una stupefacente varietà di giochetti finanziari del tipo “ testa io vinco, croce tu perdi”.
Utilizza pratiche ingannevoli per indurre le persone ad attivare carte di credito e accendere mutui molto oltre le proprie possibilità di copertura, poi colpiscono le proprie vittime con interessi usurai e costi aggiuntivi, finché cominciano a non essere più in grado di pagare. Per levare i mutui ad alto rischio dai propri documenti di bilancio, le banche li hanno venduti a brokers, che li hanno a loro volta inseriti in titoli scambiabili a tassi gonfiati. Le banche che avevano deciso crediti sbagliati hanno raccolto i propri introiti e passato ad altri il rischio. Il ricavato dalla vendita dei titoli gonfiati è stato utilizzato per finanziare altri prestiti a chi non poteva restituirli. Molti di questi titoli sono finite nei portfolio dei fondi pensione, scaricando il rischio sui lavoratori e pensionati di Main Street che non avevano nessuna voce nelle decisioni.
Wall Street ha anche ritenuto conveniente fondere le banche regolamentate con agenzie di investimenti che non lo erano, a favorire insider dealing e finanziare la proliferazione di hedge funds e private equity specializzati nel gioco d’azzardo coi soldi altrui, con l’uso di strumenti finanziari esotici di cui nessuno comprende appieno il funzionamento.
Gli operatori e i loro apologeti dichiaravano di creare ricchezza, mettendo liquidità a disposizione del mercato, incrementando l’efficienza economica, con effetti di stabilizzazione. In realtà, creavano e guadagnavano a partire da bolle finanziarie e immobiliari, da piramidi di debito che usavano denaro in prestito per costruire risorse cartacee, che poi diventavano sostegno ad altri prestiti, a giustificare per sé guadagni di centinaia di milioni di dollari. Tutto ciò potrà anche essere legale, ma non è certo creazione di ricchezza. É un furto reso possibile dall’abuso del potere legalmente sanzionato del sistema bancario private, per creare denaro dal nulla, e dirigerlo verso l’utilizzo da parte di predatori finanziari, che espropriano la vera ricchezza di Main Street, con profitti esorbitanti.
Nel 2007, il cinquantesimo fra i più pagati alti dirigenti dei fondi di investimento ha avuto compensi per 588 milioni di dollari: 19.000 volte la media degli stipendi dei lavoratori. Dicono che è giusto, visto che sono tanto bravi e produttivi. Ora che le loro puntate non appaiono più tanto vincenti, ritengono che il contribuente di Main Street debba farsi carico della copertura delle perdite di imprese create per produrre questi bei guadagni per il management.
Anziché cercare di rimettere in salute gli istituti private predatori di Wall Street, un piano adeguato dovrebbe cercare invece di liberare Wall Street dai suoi elementi di pura predazione, smontando e ricomponendo quelli utili a costruire un nuovo sistema adeguato alle necessità di Main Street. Eccone alcuni caratetri essenziali.
Hedge funds e private equity sono un grosso rischio per la società, senza alcun beneficio. Devono essere eliminati.
Come ha recentemente affermato il deputato Bernie Sanders, “Se una compagnia è troppo grossa per fallire, è troppo grossa per esistere”. Adam Smith, riverito da tanti come profeta fondatore del capitalismo, metteva in guardia contro qualunque concentrazione di potere economico che possa essere usata per schivare la disciplina del mercato, manovrare i prezzi, ricavare profitti non guadagnati.
É ora di resuscitare l’anti-trust per spezzare tutte le concentrazioni eccessive di potere, specie i conglomerati bancari che hanno alimentato la speculazione sui mercati finanziari globali. Per rispondere alle necessità finanziarie di Main Street, creare un sistema di banche regolamentate federalmente a svolgere la classica funzione da manuale, dia gire da intermediarie fra chi cerca una collocazione sicura ai propri risparmi, e chi ha bisogno di un prestito per comprarsi casa o finanziare un’attività.
Quanto ricavato dalle tasse sui profitti malevoli di chi ha costruito il disastro finanziario, può essere utilizzato a coprire pensionati, proprietari di case, titolari di carte di credito vittime del sistema.
Sono cresciuto nella convinzione che un forte ceto medio sia il fondamento della democrazia e dell’ideale americano. É un ottimo momento per affrontare seriamente il tema di una legislazione tale da ridare centralità alla middle class ripristinando un sistema di tassazione progressivo, alzando il salario minimo, verificando che tutti i cittadini possano avere i fondamenti di un’esistenza decorosa. E se costruiamo un sistema fiscale che favorisce Main Street rispetto a Wall Street, dobbiamo anche inserire norme che scoraggino proprietà assenteista e speculazione, rendendole non convenienti.
La riforma forse più importante di tutte, è quella di trasformare la creazione di denaro in una funzione pubblica, togliendo alle banche private la possibilità di costruire soldi dal nulla emettendo prestiti con interessi a fronte di depositi non sicuri.
Non si tratta certo di piccole riforme. Attuarle molto probabilmente sarà causa di notevoli sconvolgimenti temporanei, ma certo non più di quanto ci aspetta se rimane al suo posto l’attuale sistema di finanza predatoria. Usiamo quei milioni di miliardi di dollari per aiutare chi crea vera ricchezza, e lasciamo i grassi gatti speculatori a prendersi le proprie responsabilità. Solo un profondo ripensamento di Wall Street dà qualche prospettiva di vera soluzione. Qualunque altra cosa può essere soltanto un costoso cerotto destinato a non durare.
David Korten ha scritto il bestseller internazionale When Corporations Rule the Worlde The Great Turning: From Empire to Earth Community. É cofondatore e membro del direttivo di YES!
Credo che l’uragano passerà senza travolgere l’economia mondiale. Il segretario di Stato Paulson, quello cui, come dice l’Economist, si rizzano in testa i capelli che non ha, aveva fatto, finalmente, la cosa giusta. Aveva lasciato fallire una grande banca, evitando che gli rovinasse addosso con un altro salvataggio. Subito dopo però ha dovuto cedere alla pressione del mondo finanziario, intervenendo nel ben più costoso salvataggio del colosso assicurativo Aig. Così, una volta ancora, le voragini aperte nel libero mercato saranno colmate dai contribuenti. Quali saranno le conseguenze nessuno, neppure lui, lo sa. C’è chi teme che questo nuovo tremendo colpo possa coinvolgere l’intero sistema. Ma l’economia capitalistica è più forte della devastatrice finanza che ha generato. E tuttavia, questa crisi può essere fatale al capitalismo sotto un aspetto più generale e più profondo.
Dal punto di vista strettamente economico, dietro l’inestricabile groviglio delle tecnicalità, c’è una realtà inoppugnabile: la sproporzione dell’indebitamento americano (di tutti, privati, banche, Stato) rispetto al reddito, e della finanza rispetto all’economia reale. Sul perché e sul come abbiamo ragionato tante volte. Non ci torno. È diventato presente ciò che era evidente. Tranne che per gli estatici ammiratori delle tecnicalità finanziarie.
Vorrei parlare invece del colpo mortale che questa crisi di inizio secolo sta portando al «turbocapitalismo», minandone la credibilità morale. Ogni sistema storico di organizzazione della società ha bisogno di una base di legittimazione morale. Gli schiaccianti dominatori degli antichi imperi avevano bisogno di un dio che li sovrastasse, loro e le loro piccole regine. Quando i mercanti del Medioevo entrarono nella polis ebbero bisogno di un faticoso compromesso con la Chiesa, da loro abbondantemente finanziata, per superare tortuosamente lo scandalo dell’interesse. L’ideologia economica del nascente capitalismo ebbe origine nelle scuole di filosofia morale. La migliore legittimazione non gli fu offerta però dai dubbi princìpi delle virtù weberiane ma da quelli più pratici dell’utilitarismo che insegnavano a trarre dall’egoismo, e non dalla virtù, l’energia necessaria per promuovere la ricchezza, a vantaggio, si diceva, di tutti.
Insomma, il capitalismo si giustifica non con le sue premesse, ma con i suoi risultati. E non c’è dubbio che, fino a tutta la metà del secolo ventesimo, i suoi risultati in termini non solo di crescita economica, ma di progresso sociale, siano stati tali, non dico da compensare ma da sopportare gli enormi costi impliciti nella crescita.
Ciò che sta succedendo nel mondo ci dice che la promessa di una estensione universale del benessere è incrinata dall’esperienza di un mondo sempre più instabile e ingiusto. Il «miracolo» della finanza internazionale, che ha realizzato enormi spostamenti di ricchezza dai paesi più ricchi ai paesi più poveri si traduce, all’interno di quei paesi, in un gigantesco divario tra i gruppi sociali emergenti e quelli lasciati ai margini. In India l’estrema ricchezza e l’estrema povertà sono aumentate. La stessa cosa sta avvenendo in Cina.
Dall’ultimo rapporto della Banca Mondiale risulta che il livello di povertà è aumentato nel mondo a 1,4 miliardi di uomini e di donne, che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno. L’indice Gini della disuguaglianza relativo alla popolazione mondiale è aumentato negli ultimi quindici anni di sette punti, poco meno del 20 per cento. Ma è soprattutto negli Stati Uniti che la disuguaglianza tra classi medie impoverite ed élites arricchite si è imposta. Lo stesso indice Gini che era caduto al 41 per cento nel 1970, è aumentato negli ultimi trent’anni a 47. Ciò che sta succedendo, dice Robert Reich, dice David Rothkorpf, non è solo un aumento delle disuguaglianze, ma una vera e propria secessione sociale: un 1 per cento della popolazione che dispone del 40 per cento del prodotto nazionale.
Ma che c’entra tutto questo con i disastri finanziari di oggi? Moltissimo. Negli ultimi venti anni è proprio l’allocazione delle risorse della economia guidata dai mercati finanziari che si è tradotta in termini reali in un aumento delle disuguaglianze e in una devastante pressione sulle risorse naturali: in direzione opposta ai bisogni reali dell’umanità.
Nel più ricco e indebitato paese del mondo, gli Stati Uniti, la sproporzione tra i guadagni dei condottieri delle grandi imprese, anche quelli che le hanno portate al disastro, e la gente comune sono diventati sbalorditivi. Le risorse mondiali sono state indirizzate da un sistema finanziario poderoso verso un gigantesco indebitamento, sostenuto da un credito sfrenato. Il nome turbocapitalismo si adatta bene a questo sistema sventato. La spesa mondiale annuale della pubblicità che alimenta i consumi e l’inquinamento, ammonta a 500 miliardi di dollari, quella della ricerca sanitaria a 70 miliardi. A 62 miliardi quella destinata dai paesi ricchi ai paesi poveri.
Ripeto: non credo che siamo alla vigilia di un nuovo collasso capitalistico. L’economia mondiale dispone di immense risorse mobilitabili nell’emergenza. Siamo di fronte però al fallimento morale di una promessa. Quando un sistema perde la sua legittimazione etica, perde anche la sua vitalità storica. Un sistema fondato sulla dissipazione e sulla ingiustizia ha il futuro contato.
Poco meno di trent’anni fa un brillante economista inglese immaturamente scomparso, Fred Hirsch, scrisse un libro profetico: i limiti sociali allo sviluppo. Ciò di cui soprattutto il capitalismo soffre, egli affermava, era uno sbriciolamento della sua base morale. Ciò di cui soprattutto aveva bisogno, era «un rientro morale». Non se ne vedono le tracce.
NEOLIBERISMO. Effetto Cina-India,
saccheggio urbano per fare profitti
Le crescenti perdite delle imprese transnazionali, conseguenza della crisi economica sempre più acuta, fanno si che la nuova accumulazione del capitale sia sovvenzionata attraverso una politica di predazione dell'ambiente così pervasiva da deteriorare in modo quasi irreversibile le condizioni per la riproduzione della vita. Durante la gestione Bush, la politica sociale e ambientale del Messico é stata concepita per compensare il decadente capitale industriale statunitense delle perdite derivanti dalla maggiore competitività di Ciane India. Così al posto delle politiche pubbliche di pianificazione regionale e urbana, si sviluppano nuovi metodi di gestione dello spazio nazionale in funzione delle necessità delle industrie, delle infrastrutture strategiche statunitensi e del capitale finanziario internazionale. Il saccheggio indiscriminato di energia, minerali, acqua e spazio fisico, e il collasso ambientale che vive il Messico, sono il prodotto di queste esigenze. La nuova politica urbana neoliberista impone le proprie esigenze su tutto il territorio come mai in passato, mentre la classe dominante trasmette un'idea di un Messico vincente per dissimulare l'enorme malcontento sociale, la disoccupazione crescente, l'emigrazione e la perdita di potere d'acquisto. Se da un lato la classe medio-alta realizza i suoi nuovi consumi nelle grandi città imitando lo stile di vita statunitense, dall'altro il saldo negativo ambientale e sociale appare gigantesco. La politica urbana, invece di essere pensata per risolvere i problemi legati alla concentrazione di milioni di individui, punta a neutralizzare e occultare i costi dello sfollamento di decine di milioni di contadini verso le città. L'occupazione di terre e risorse energetiche da parte del capitale industriale statunitense in vaste aree del paese, insieme ad accordi commerciali come il Nafta, hanno infatti provocato non solo la distruzione delle imprese nazionali messicane e l'aumento dello sfruttamento del lavoro visibile nelle «maquiladoras», ma soprattutto la deruralizzazione e lo sfollamento delle campagne, con il conseguente aumento della popolazione delle grandi città.
La megalopoli di Città del Messico con i suoi 24 milioni di abitanti e le altri enormi città del paese producono un impatto ambientale insostenibile, traducendosi in ulteriore crisi sociale all'interno dei piccoli centri destinati a fornire le risorse necessarie all'espansione urbana. In cambio riceveranno inquinamento delle acque e una inimmaginabile quantità di rifiuti liquidi, solidi e tossici. L'espansione urbana genera nei paesini limitrofi delle megalopoli alcune delle più grandi discariche del mondo. Allo stesso tempo crescono lo sfruttamento minerario e e la deforestazione, necessari a sostenere la domanda di materiali delle imprese incaricate di gestire l'espansione delle grandi città. così come aumentano la costruzione di centri commerciali e distributori di benzina. A differenza della prima fase «nazionalista», lo sviluppo del capitalismo neoliberista in Messico si basa soprattutto sulla distruzione del tessuto sociale e comunitario che nel paese esisteva da secoli, obiettivo esplicito per rimuovere eventuali ostacoli sulla strada di un'urbanizzazione selvaggia. Questo spiega per esempio i tentativi di riformare l'articolo 27 della Costituzione (sancisce che la proprietà originaria del territorio è dello Stato, che decide se e come concederla in proprietà privata) e la legge agraria.
Il collasso ambientale dunque non é legato alla crescita demografica come in molti sostengono ma ai processi di sfollamento delle campagne, alla distruzione delle risorse naturali, allo smantellamento dell'industria nazionale prodotta dagli accordi commerciali di libero scambio e all'urbanizzazione selvaggia. La privatizzazione della gestione di acqua, rifiuti, case e servizi urbani collegati (energia, trasporti, telecomunicazioni, salute, educazione e sicurezza, tra gli altri) sono la continuazione della nuova politica ambientale e sociale neoliberista, che in Messico più che in altri paesi dell'America Latina mostra la sua virulenza.
MESSICO, CONTRO LA CRISI
6 MILIONI DI CATAPECCHIE
Scatole MESSICANE
Doña Luz guarda la foto di Zapata che ha appeso alla parete con il nastro adesivo, dopo che il chiodo che la reggeva è venuto via portando con sè un bel pezzo di muro. É preoccupata perchè sa già che a breve dovrà lasciare i 30 metri quadri scarsi di questa casetta cadente che - aveva pensato in qualche momento ottimista e ormai lontano - poteva essere un buon investimanto, un luogo dove appendere il cappello e invecchiare sereni.
Doña Luz è una delle migliaia di persone che hanno ceduto alle promesse dell'urbanizzazione «mordi e fuggi» alla messicana, indebitandosi fino al collo per comprare una di queste colorate e inquietanti scatole di cartongesso che i costruttori si ostinano a chiamare case. Ma da subito, da quando tre anni fa è venuta a vivere nell'insediamento alle porte di Cuernavaca, doña Luz ha capito che qualcosa non andava. La casa era minuscola. Lei e l'anziano marito, un maestro in pensione, con la figlia e due nipoti non riuscivano neppure a sedersi tutti assieme attorno al tavolo. I muri dell'unica camera da letto si sono riempiti di umidità sin da subito, e sulle quattro pareti sono comparse immediatamente crepe longitudinali. Il degrado del complesso, privo di qualsiasi spazio sociale o di servizio, è stato rapidissimo. Molti vicini hanno già abbandonato le piccole case, rendendo l'insediamento spettrale come un villaggio fantasma. «E' difficile muoversi di qui», si lamenta don Francisco, uno dei pochi rimasti. «Non c'è neppure un negozietto dove comprare il minimo indispensabile. Non c'è una piazza per ritrovarsi, né collegamenti per i centri abitati vicini. Prima vivevamo dei prodotti della terra che noi stessi coltivavamo - dice con gli occhi lucidi - ma ce l'hanno tolta, la nostra terra, in cambio di un tozzo di pane e della promessa di una casa nuova. E questo rudere è quello che ci resta. Abbiamo perso tutto».
Le chiamano casitas Auschwitz , sono l'ultima frontiera del capitalismo e della filiera dell'urbanizzazione selvaggia in Messico. Milioni di case di 32 metri quadrati in cui rinchiudere decine di milioni di famiglie. La speculazione incontrollata sulla terra, la gestione del suolo urbano e delle conche idrografiche affidata alle grandi imprese immobiliari, industriali e commerciali per la costruzione di milioni di cosiddette «case Auschwitz» rappresentano l'ultimo sviluppo dell'urbanizzazione e un grandissimo affare economico. Sia l'attuale presidente Felipe Calderon che il suo predecessore Vicente Fox, entrambi del Pan, partito di estrema destra, hanno dimostrato grande dinamismo nel mettere in piedi in tutto il paese programmi di costruzione di città completamente nuove e moderne. Per il bicentenario dell'indipendenza messicana nel 2012 si pensa di creare nuove città nelle contee di Atlacomulco, Huehuetoca, Zumpango, Tecàmac, Jilotepec, Almoyola de Juarez, nello Stato di Mexico. Sono state annunciate sei milioni di nuove case che saranno gestite completamente da privati, ai quali viene anche affidata la gestione di tutti i servizi annessi, con la conseguente distruzione ambientale che si aggiungerà a quella già in corso. Il solo Messico produce da solo più case dell'Argentina, del Brasile, del Cile, del Venezuela e della Colombia.
Vista peró la crisi economica e la perdita di potere d'acquisto dovuta all'aumento dei prezzi, difficilmente la classe media potrà terminare di pagare i mutui delle case, così come é già avvenuto negli Stati Uniti dove la crisi dei subprime (i mutui concessi a fronte di poche garanzie) ha travolto decine di migliaia di proprietari. D'altro canto l'aumento della tensione sociale provocato da un'ingiusta distribuzione delle abitazioni viene affrontato dal governo con un aumento della repressione e attraverso dei sussidi garantiti alle multinazionali e alle banche del settore immobiliare per consentire l'acquisto alle fasce più povere delle cosiddette «case Auschwitz». Nello stesso tempo vengono criminalizzati tutti quegli insediamenti irregolari e popolari che fino a poco tempo fa erano tollerati e considerati materia di negoziato politica con i gruppi più emarginati, ai quali era sostanzialmente consentito sopravvivere in abitazioni di fortuna.
Un altro degli aspetti più preoccupanti sul piano sociale e ambientale del processo di urbanizzazione selvaggia é quello della frode economica. Le abitazioni saranno vendute con mutui di trenta anni, con tassi tra l'8% e il 12%, a fasce di popolazioni di medio e basso reddito all'interno di una cornice urbana degradata e con materiali di pessima qualità, destinati a rovinarsi nel giro di cinque o massimo dieci anni. Le stesse unità abitative in realtà non sono non dotate di servizi di base e vengono costruite in luoghi in cui mancano completamente scuole, impianti di trattamento delle acque, centri culturali o sportivi, persino chiese. Case e complessi abitativi costruiti e disegnati senza tener conto di alcuna necessità di convivenza collettiva dei propri abitanti o delle loro necessità di lavoro, generando spazi urbani in cui si concentrano disoccupazione, frustrazione, insicurezza e violenza.
Un'enorme speculazione economica che distrugge le riserve di territorio intorno alle città, dove i terreni vengono comprati a prezzi bassissimi o addirittura espropriati per essere poi rivenduti dopo aver costruito unità abitative che arrivano sino a trenta o quarantamila case per volta. Dopo i primi anni di frodi, i cittadini iniziano a organizzarsi contro le imprese costruttrici, portando avanti proteste, mobilitazioni, blocchi stradali. Imprese come Ara, Geo, Urbi, Galaxy, Homex-Beta, Urbasol tra le altre, sono oggetto di nuove forme di lotte socio-ambientali che nonostante siano ancora disperse e frammentate, iniziano a essere sempre più diffuse. Movimenti che hanno generato in alcuni casi vere e proprie insurrezioni dopo che le «nuove» case avevano dimostrato in pochissimi anni di non reggere nemmeno alle piogge o di essere fatte di materiali scadenti o in alcuni casi tossici. É il caso delle abitazioni di Cerro de Xico, Las Americas, San Buenaventura de Ixtapaluca, Tecamac, dei tredicini paesini nel sud dello stato di Morelos e nel Valle de Toluca (stato di Mexico) dove 500mila indigeni si sono ribellati alla costruzione di migliaia di altre «casette Auschwitz». Una nuova geografia della resistenza all'interno della dinamica messa in moto dall'urbanizzazione selvaggia. Ormai sono circa cento le città che l'edilizia selvaggia ha seriamente compromesso in termini ambientali, e il prossimo 11 ottobre si daranno appuntamento a Città del Messico per dar vita a una Assemblea permanente delle comunità. Così come nei mesi scorsi a Nextlalpan (città nello stato di Mexico dal nome appropriato in tema di distruzione ambientale: in nahuatl significa «sopra un suolo di cenere») i gruppi del Movimento Urbano Popolare si sono incontrati per coordinare le lotte contro la costruzione delle città del bicentenario, veri e propri non-luoghi disegnati intorno ai centri commerciali con il solo scopo di incrementare i consumi e beneficiare le industrie costruttrici. La lotta per la casa e per i servizi di base, così come per il diritto umano all'abitare, costituiscono nella crisi verticale generata dall'urbanizzazione selvaggia una forma di resistenza organica e uno spazio in cui appaiono sempre più possibili le alleanze tra indigeni e contadini, che nelle campagne messicane continuano a difendere la Terra. www.asud.net
Ho l’impressione che la «casta degli oligarchi», la nuova élite di «mega-ricchi» - come li definisce Hervé Kempf – che governa l’economiamondiale abbiamesso a segno il più grande colpo della storia. Se non ho capito male, alla fine della giostra, un colossale flusso di denaro, da 600 a 1.000 miliardi di dollari, secondo le diverse stime, transiterà dalle casse delle banche centrali americane ed europee – cioè dalle riserve statali accumulate con i proventi fiscali dei cittadini - ai portafogli dei grandi investitori finanziari. In realtà i mutui degli americani poveri non c’entrano nulla.
Pensate a quale piano planetario di edilizia economica e popolare si sarebbe potuto realizzare con solo una parte delle somme sborsate! I mutui sono stati il veicolo con cui creare ad arte una esposizione debitoria inesigibile - drogando i prezzi di mercato degli immobili e, di conseguenza, sopravalutando i titoli ipotecari nelle mani degli istituti di intermediazione. Un gioco da ragazzi, una «shock economy», direbbe Naomi Klein, pianificata e provocata dalle stesse autorità monetarie «regolatrici » dei mercati e dalle agenzie di rating e di controllo. Basta seguire imovimenti di quel Alan Greenspan, già presidente della Federal Reserv, ritenuto l’inventore della linea dei «consumi in deficit» e accostato dal nostro Tremonti a Bid Laden come principale nemico dell’America, che è ora il consulente del più grande Hedge Fund (lo Jp Morgan) che sta comprando le banche in fallimento.
Ovviamente, con il sostegno in denaro della stessa Federal Reserv. Insomma, ci stanno turlupinando. Oggetto degli spettacolari salvataggi con i nostri soldi non sono né imutui dei «poveri» americani, né le «generose» banche di intermediazione che li hanno concessi, né le «sprovvedute» società di assicurazione che hanno stipulato polizze contro le bancarotte. Temo che i veri beneficiari, in ultima istanza, siano coloro che hanno preso nel loro portafoglio i «titoli spazzatura» e che pretendono comunque gli interessi e le rendite pattuite. Sono i grandi investitori istituzionali, i fondi pensione, le fondazioni, i fondi sovrani dei paesi orientali, gli sceicchi del petrolio… tutti coloro, insomma, che stanno finanziando gli investimenti produttivi, industriali, infrastrutturali, militari negli Stati Uniti. E non possono fallire perché lascerebbero a secco «la più grande economia del mondo», la nostra protettrice e il nostro faro di civiltà. La crisi finanziaria in corso non è altro che un giro tortuoso per saldare una tranche dei loro crediti. Sono sicuro che i maghi della finanza creativa (la «setta degli avidi » che dirigono il tavolo da gioco degli hedge fund) stanno già studiando quale dovrà essere la prossima «bolla speculativa» da gonfiare e far saltare – assieme alle casse degli stati – al momento buono. Il dubbio che mi tormenta è che a sinistra si creda ancora nella «patologia» della crisi, come eccesso speculativo dell’arciliberismo, e non si veda invece nella «sequenza delle crisi» (come ci dice cinicamente Cipolletta) la patologia del turbocapitalismo, insaziabile divoratore di risorse e di umanità.
Pensate al mondo in cui viviamo come a un viaggio aereo. Quel che dovete considerare è che la stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta non l´ha mai fatto e mai lo farà. A terra, a guardare i passeggeri che s´imbarcano. Tra quelli che volano i più (siete probabilmente tra quelli) hanno un biglietto di economy. Viaggerete, ma non troppo comodi. Vi capiterà, all´imbarco, di vedere altri passeggeri che non fanno la fila, arrivano riposati da comode lounge, scompaiono attraverso porte riservate.
Una tendina che le hostess premurosamente tireranno vi impedirà di vedere i privilegi di cui costoro (con un biglietto di business o first class pagato da chi li ingaggia) godranno. Qualche volta uno spiraglio vi concederà di ammirare, rosicando estasiati, poltrone che diventano letti, coperte di cachemere e schermi video personali con decine di film tra cui scegliere. Penserete di aver visto tutto, la punta dell´iceberg, il paradiso. Sbaglierete. Perché, come avrebbero dovuto mettervi nella testa a lezione di catechismo, il paradiso è qualcosa che non potete immaginare. Perché ci sono quelli che volano e non incrocerete mai. Non decollano e atterrano dai vostri comuni aeroporti. Non hanno un biglietto, hanno un aereo. Un "aereo verde". Li chiamano così perché questo è il colore che hanno tutti quanti prima di essere ripitturati con le tinte e le insegne dell´acquirente. Sono i Gulfstream che dagli hangar della casa madre in Georgia vengono spediti in aeroporti privati. A disposizione di chi? Dell´Elite. Della Superclasse. Dell´1% che possiede il 40% delle ricchezze del pianeta. Di uno dei 37 atleti che guadagnano, nel complesso, quanto tutte le altre decine di migliaia di sportivi messi insieme. Di uno dei 14 presidenti di banca che, chiusi in una stanza, possono risolvere qualunque crisi finanziaria. Dell´unica rockstar che può farsi fotografare con i leader del G8. Del solo scrittore che pranza al "Gentiana" di Davos con Bill Clinton, Bill Gates e non paga il "bill" (il conto).
L´unico modo che avete per avvicinarvi a questa remota, minuscola, esplosiva galassia è leggere Superclass di David Rothkopf, un libro che ha fatto discutere in America e ora arriva in Italia.
L´incipit è un patto chiaro: "Questo è un libro sul potere. E sul fatto che è concentrato nelle mani di un numero sorprendentemente ristretto di persone nel mondo". Rothkopf è convincente perché non è un giornalista, ma un "insider": lavora nella finanza, offre consulenze ai poteri forti, si aggira per Davos, è stato accanto a Henry Kissinger. Ci dice che il principio di Pareto, per cui l´80% dei risultati dipende dal 20% delle cause è superato. Basta molto meno del 20% dei suoi abitanti per far girare la Terra in un senso o nell´altro. Davvero bastò convocare 14 superdirigenti di banca (da Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Stati Uniti, zero italiani, zero asiatici) per risolvere la crisi dei derivati. E davvero un nucleo ristretto e saldamente collegato determina l´agenda mondiale. Non è una teoria del complotto, non si va a parare dalle parti di Bildeberg o del Nuovo Ordine Mondiale, qui si gioca con dati di fatto. Il potere è economia, la politica viene a ruota. I ruoli sono intercambiabili. Chi ha soldi entra in politica. Chi ha finito con la politica passa a incarichi economici.
Sono sempre gli stessi: dalla Casa Bianca al Carlyle Group, aguzzate la vista, cambia la foto di gruppo, non le facce che sorridono. Non è un´illusione ottica, ci governano gli stessi "happy few", i pochi felici e fortunati che stanno in cima, oltre le nuvole, dove né i nostri occhi né i nostri cannocchiali a buon mercato arrivano.
Chi sono? E´ abbastanza facile concordare con Rothkopf nei fondamenti. Per entrare nell´Elite devi essere maschio, avere tra i 50 e i 65 anni, una cultura classica, studi in una università che conta. Devi esserti fatto le ossa in una istituzione di rilievo. Essere ricco. E fortunato. Perché neppure tutti i requisiti aprono la porta. Perché l´iscrizione non è permanente. E attenzione: si può entrare anche da un ingresso laterale: quello degli artisti, dei predicatori, dei terroristi. Tutti dotati di un ascendente eccezionale. Fuori i nomi, allora. Ed è qui che potremmo discutere. La lista di Rothkopf comprende: ex presidenti come Clinton, ma non come Gorbaciov, include l´oligarca russo Abramovich che dinamicamente compra squadre di calcio e altri giocattoli, ma non l´83enne svedese Birgit Rausing che su un analogo monte di soldi si limita a stare seduta. E ancora: il presidente della Banca Popolare Cinese e quello della ExxonMobil, Osama bin Laden, il Papa e il Dalai Lama (valendo il principio che anche per le religioni tre su migliaia contano), i cantanti Bono e Shakira, lo scrittore Paolo Coelho. Unico italiano citato: Silvio Berlusconi. Sarebbe curioso fare una lista della élite italiana, individuare gli occulti rettori del gioco nostrano. E poi accorgersi che fuori dei confini non dettano l´agenda neppure di un giorno d´agosto, non figurano in nessuna rubrica.
Le recenti parole del Papa di compassione per le tragedie nelle quali sempre più spesso si concludono i tentativi degli immigranti di approdare alle nostre coste e di appello ai paesi occidentali affinché mettano in atto politiche di soccorso sono un invito a criticare le scelte di quei governi europei che come il nostro hanno imboccato la strada della criminalizzazione dell’immigrazione indesiderata (di quelle persone che provengono dai paesi più diseredati). Parole che dovrebbero stimolare i democratici a interrogarsi sulle contraddizioni delle politiche di chiusura delle frontiere e la necessità di prestare al fenomeno migratorio una maggiore e più qualificata attenzione. Queste migrazioni bibliche – il fenomeno forse più drammatico del nuovo secolo – mettono a nudo le tensioni nelle quali si dibattono la cultura liberale e quella democratica. Gli immigrati, senza dubbio quelli che aspirano a un lavoro e una vita dignitosa, prendono sul serio la promessa del liberalismo sulla quale le società che ora li respingono sono sorte: l’impegno individuale come condizione per la realizzazione sociale.
Le migrazioni transnazionali e l’interdipendenza globale sfidano il liberalismo dei paesi occidentali che si fa via via più nazionale e meno universalistico. Sfidano inoltre la sovranità e i confini degli stati, che ora vengono pattugliati non soltanto con leggi e polizia ma anche con una vergognosa ideologia xenofobica e razzista. La frizione tra universalismo e cultura morale dell’accoglienza, valori che la democrazia e il liberalismo coltivano naturalmente, e identità nazionalistica può avere effetti potenzialmente esplosivi se è vero che un continente come l’Europa, che aspira a diventare il faro della moralità cosmopolita e dei valori democratici, si fa quasi fortezza per difendere la propria civilizzazione contro i boat people, disperati che cercano di sopravvivere sfuggendo alla fame e agli abusi.
Le migrazioni mettono a nudo due problemi, uno dei quali chiama in causa questioni di giustizia distributiva e l’altro questioni di giustizia politica. Circa il primo problema, è un fatto che nessun codice internazionale e nessuna convenzione accorda a questi disperati lo status di rifugiati. I paesi democratici non riconoscono l’indigenza come forma di persecuzione che necessita di un impegno concreto, non soltanto morale, per attuare politiche di riequilibrio economico e di giustizia redistributiva a livello globale. Infine, è altresì vero che la definizione minimalista della democrazia alla quale ufficialmente si attengono le democrazie occidentali è cieca nei confronti di regimi che sono di fatto oligarchie rapaci anche se formalmente praticano elezioni politiche. In queste circostanze, ha scritto lo studioso australiano Robert Goodin, è inevitabile che fino a quando i beni non circoleranno equamente, saranno le persone a dover circolare per andarli a cercare laddove si trovano in abbondanza, poiché ogni persona ha il diritto di fare tutto quanto è in suo potere per poter sopravvivere. L’unica soluzione a questa che è una vera tragedia umanitaria è appunto che i paesi del primo mondo adottino politiche globali di giustizia redistributiva. Diversamente non possono stupirsi di essere la meta obbligata alla quale tendono tanti disperati della terra.
Ma c’è un problema ulteriore, questa volta relativo alle conseguenze che le politiche nazionalistiche possono avere sullo stato della nostra democrazia. Più che di un problema si tratta in effetti di un rischio, il quale non viene purtroppo messo in luce come dovrebbe: il rischio è che per perseguire politiche radicali di esclusione, e perfino di criminalizzazione, i paesi democratici finiscano fatalmente per fagocitare inoltre una cultura della violenza e della discriminazione che mette a repentaglio il loro stesso ordine politico. È per questo importante la proposta di Walter Veltroni di concedere il voto amministrativo agli immigrati residenti perché fa del tema dell’immigrazione un capitolo del problema dell’integrazione politica, non più solo della sicurezza.
È chiaro che nessun paese, nemmeno un paese autoritario, riesce a chiudere ermeticamente le proprie frontiere. Le frontiere sono di fatto sempre porose. La differenza fra regimi politici dipende da come la porosità viene ostacolata e regolata. Contrariamente ai paesi autoritari che non hanno grandi problemi a criminalizzare l’entrata (e molto spesso anche l’uscita) a loro discrezione, i paesi democratici non possono con la stessa arbitraria leggerezza adottare leggi liberticide per escludere (le pressioni dell’opposizione parlamentare e della Ue hanno indotto il governo italiano a moderare le norme sulla schedatura dei rom e degli extracomunitari). La democraticità degli stati democratici viaggia sul crinale di questa insanabile contraddizione, perché più un paese democratico irrigidisce le proprie politiche di accoglienza, più esso compromette i suoi propri principi e quindi anche il grado di libertà dei suoi cittadini. Come a dire che l’illibertà verso gli altri ricade su di noi perché ci rende immancabilmente illiberali verso noi stessi. Le politiche repressive creano più problemi di quanti non ne risolvono, anche se la loro spettacolarità può avere consenso d’opinione. Un progetto politico che si definisca democratico dovrebbe avere ben chiara questa contraddizione e comprendere che le strategie di giustizia redistributiva a livello globale e quelle di integrazione politica a livello nazionale sono la strada obbligata se vogliamo difendere il tenore delle nostre democrazie.
Ma l’appello del Papa all’Europa affinché accolga gli "irregolari" suggerisce un’ulteriore riflessione che si riallaccia a quanto ha scritto Ezio Mauro su questo giornale a proposito della funzione precettistica della chiesa. Sembra che la politica non abbia la forza di iniziare autonomamente un discorso di giustizia su questioni cruciali e controverse. Sembra che solo la cultura religiosa abbia il vocabolario che consenta a tutti noi di parlare di giustizia e di dignità. Eppure la cultura politica, quella democratica e liberale, ha principi, valori e parole capaci a sviluppare argomenti di giustizia altrettanto cogenti e forti. Il fatto è che chi opera nella sfera politica non usa questo linguaggio con altrettanta forza e autorevolezza di chi opera nella sfera religiosa. È forse una sbagliata nozione di opportunità politica più che la povertà del linguaggio politico ad entrare in gioco quando la politica resta muta o timida; l’idea che per parlare la politica abbia prima bisogno di sapere da quale parte sta l’opinione della maggioranza per seguirla o non scontentarla. Ma la politica è creazione di opinione non addomesticata adesione all’opinione corrente; è capacità e coraggio di influire sul giudizio politico dei cittadini, di operare affinché si determinino cambiamenti nell’opinione. Ecco perché insieme ai diritti di libertà e alla giustizia, dietro alla politica delle frontiere e dell’integrazione c’è in gioco la dignità della politica.
“Il capitale ha vinto, ripartiamo da qui”. Questo titolo, nel fitto dibattito postcongressuale in corso su Liberazione, mi ha particolarmente incuriosito. Tornavo da isole dove i giornali erano cosa rara, e in maniera un po’ casuale e certo incompleta, cercavo di aggiornarmi. Tra interventi per lo più dedicati a rapporti interni a Rifondazione e alle vicende del congresso, quel titolo che coronava l’intervista a Maurizio Zipponi firmata da Frida Nacinovich (7-08), mi pareva promettere uno sguardo più largo del consueto e forse nuove proposte. Promessa in verità delusa da un’analisi ancora una volta limitata alla realtà italiana (Fiat Telecom Alitalia Cgil ecc.) e di fatto priva di proposte per una “ripartenza”.
Poi però il discorso si è andato arricchendo. “Noi siamo di fronte a una crisi organica del capitalismo e della globalizzazione neoliberista, una crisi che rende chiaro come il capitalismo non sia in grado di chiarire le proprie contraddizioni sociali, economiche, ambientali, che alimentano il rischio di conflitti globali”, dice ad esempio Alberto Bugio intervisato da Romina Velchi (9-8). A questo modo sia pure a gran velocità mettendo a fuoco una realtà mondiale in cui certo il capitale è vincente, ma lo è in modo tutt’altro che fiorente e solido. Di “crisi della globalizzazione”, anzi di “crisi di civiltà, amplificata a casa nostra dal governo Berlusconi”, parla anche il neosegretario di Rifondazione Paolo Ferrero (10- 08), in qualche modo rieprendendo il discorso svolto pochi giorni prima (manifesto 6-08) da Alberto Asor Rosa, che analizza la “decadenza crescente del pianeta Italia”, come prodotto di una “lunga, insistita fortunata pratica della corruzione”, connessa alla progressiva decadenza del sistema liberaldemocratico.
Ma il più ampio giro d’orizzonte sugli innumerevoli interrogativi contraddizioni discontinuità che agitano il mondo, e le insicurezze le iniquità i pericoli che vi incombono, è Rossana Rossanda a compierlo (il manifesto, 10-08). Dicendo la necessità di leggere e dare un nome alla mappa di questa intricata realtà; per affermare che questo nome è “capitalismo“, e che “la mappa è quella dell’intero pianeta”; per concludere che l’Italia è solo una tessera di questo panorama. Dunque domandando: come pensare di risolvere una situazione di tale complessità “con i conflitti sociali dal basso o con l’adunata dei renitenti al veltronismo?” Una lettura attenta di “che cosa questo capitalismo è diventato” - dice - è la necessaria premessa per affrontarlo, forse cambiarlo, forse batterlo. E qua Rossanda cita una serie di cose di cui sono molto convinta: non può una fabbrica da sola combattere la delocalizzazione; così come non può un paese da solo battersi contro la recessione; non bastano le riforme istituzionali per “salvare la baracca”, occorre “un’inversione di tendenza”, che ridìa spazio alla politica oggi totalmente subalterna all’economia…
Rossana parla anche di “decrescita”, sia pure solo con una veloce citazione nominando quello che costituisce il “cuore” della crisi ecologica; problema fino a ieri ignorato dalla politica di sinistra non meno che di destra, ma che ormai tutti, o quasi, almeno ricordano. Lo fa Burgio, indicandolo tra le possibili cause di conflitti globali. Lo fa Ferrero, soprattutto in riferimento alle “grandi opere” che la sinistra ritiene inutili quanto distruttive. Lo fa Asor Rosa, proponendo di “comporre in un quadro unitario ‘questione sociale’ e ‘questione ambientale”; come già altra volta aveva fatto, affermando che “la sinistra o sarà rosso-verde, o non sarà”, con una felice sintesi, su cui però non mi consta sia poi tornato a impegnarsi. Ed è un peccato. Proprio una seria riflessione su questa materia (e una consapevole presa d’atto di come sfruttamento del lavoro e degrado dell’ambiente, questioni tradizionalmente considerate configgenti, abbiano radice comune) credo sarebbe esigenza prioritaria per le sinistre alla ricerca di una base da cui “ripartire”, mediante una non indulgente analisi della propria storia e dei propri errori .
Le sinistre sono nate contro il capitalismo: contro quella che Galbraith definiva “una macchina formidabile per la produzione di ricchezza, ma assolutamente incapace di distribuirla decentemente”. Combattere questa contraddizione di fondo in sostanza dovrebbe essere ancora la loro ragione di esistere. Contraddizione insuperabile, e infatti insuperata, pur attraverso quella gigantesca trasformazione del mondo, consentita dal progresso scientifico e tecnologico (prontamente messo a frutto dal capitale), che ha dato luogo a una sorta di mutazione antropologica, e in qualche momento è parsa rimettere in causa, nella sua forma storica, anche il conflitto capitale-lavoro. La rapida affermazione della società del consumi, il benessere che in occidente poco o tanto raggiungeva tutti i ceti, entro un orizzonte economico che per qualche decennio è parso promettere ricchezza per tutti, ha finito per imporre il capitalismo come un sistema economico privo di alternative, verso cui la funzione dei movimenti operai si riduceva all’impegno di ottenere le migliori condizioni possibili per i lavoratori. Così che il buon andamento dell’economia (del capitalismo cioè) finiva per diventare auspicio indiscusso di tutti, e (accantonata la rivoluzione per dare spazio al riformismo) efficienza, produttività, competitività, crescita, pil, poco a poco anche tra le sinistre si imponevano come indiscusse parole d’ordine per il bene comune.
E lo sono ancora, quando le sorti del capitalismo sempre più appaiono lontane da quelle trionfali certezze, e la parola “crisi”, a lungo scaramanticamente taciuta, è ormai su tutti i giornali e su tutte le bocche. Lo sono ancora, paradossalmente (anzi per me incomprensibilmente) anche tra le sinistre. In effetti che altro chiedono i sindacati se non “ripresa”, mediante efficienza, competitività, crescita? E non è dell’ arresto della crescita che ci si preoccupa anche a sinistra? Certo, si può capire che di questo tenore siano le politiche di “pronto intervento” in una situazione di occupazione sempre più insicura, precarizzazione diffusa, redditi taglieggiati dall’inflazione, impoverimento, disuguaglianze crescenti. Ma ciò che riesce difficile capire è la mancanza di idee di più ampio respiro anche da parte delle sinistre più radicalmente critiche, di ipotesi che partano dalla considerazione di una realtà mondiale in cui, certo, il capitale ha vinto, ma ha vinto a prezzi non più oltre sostenibili: non soltanto per le classi lavoratrici di tutto il mondo, ma per la società tutta intera, e per lo stesso sistema capitalistico.
Proprio a questi interrogativi (mi si perdoni l’autocitazione) era dedicato un mio pezzo apparso su queste pagine nel luglio scorso. S’era appena concluso l’ultimo G8, che clamorosamente aveva dimostrato la totale inanità dell’attuale leadership mondiale. La quale, invece di affrontare, o almeno denunciare, non solo l’iniquità, ma lo sfacelo, l’enorme disordine, la totale irrazionalità del nostro esistere, con tenacia insiste nella medesima linea politica che di tutto ciò è responsabile. Di fatto perseguendo unicamente la logica e i valori dell’economia capitalistica, ciecamente adeguandosi alla necessità di continua accumulazione di plusvalore, senza cui non esiste capitalismo; e ignorando che tutto ciò fatalmente confligge con i limiti del Pianeta Terra, dell’agire capitalistico inevitabile teatro e materiale supporto. Non importa che i poli si sciolgano e si moltiplichino le alluvioni da 150mila morti, che il 30 per cento dei decessi sia da attribuirsi ai più diversi inquinamenti, che intere popolazioni vadano migrando per il globo, e dovunque le maggioranze diventino sempre più povere, purché il Pil cresca.
Non importa ai signori del G8. Ma può non importare alle sinistre (a quello che resta delle sinistre, che però continuo a credere potrebbero trovare seguito e risposta se si dedicassero ad altro che la rivendicazione dei simboli o la nostalgia della vecchia forma-partito)? E - per tornare dove s’era partiti - non sarebbe il caso di analizzare seriamente la “vittoria” del capitale, e con oggettiva lucidità mettere a fuoco le tante indiscutibili ragioni per cui la vittoria del capitale, nel momento stesso in cui si affermava, iniziava il proprio declino? Perché (chiedo scusa, ma sono costretta a ripetere cose dette più volte) le dimensioni della Terra sono quelle che sono. E poiché tutto quanto la gran macchina industriale capitalistica produce è “trasformazione di natura”, così come dalla natura proviene tutto quanto usa e consuma nella propria attività, risulta fisicamente impossibile la continuità del capitale, in quanto sistema fondato su una crescita produttiva esponenziale. La crisi energetica già lo denuncia. E’ questa insuperabile contraddizione a generare il multiforme continuo terrificante squilibrio degli ecosistemi, di cui (perché lo si dimentica sempre?) a soffrire soprattutto sono i poveri.
E’ vero, per chi non si occupi specificamente della materia, mettere a fuoco le fila di questi eventi nella trama complicata della politica mondiale non è facile. Ma nemmeno impossibile. Forse può servire soffermarsi un momento a considerare i comportamenti di (quasi tutta) l’informazione. E domandarsi ad esempio perché la notizia della tromba d’aria che giorni fa a Grado ha fatto due morti, una settantina di feriti, settecento sfollati, decine di alberi abbattuti, vaste coltivazioni distrutte, non ha trovato che brevi menzioni all’interno dei giornali e pochi secondi in coda ai Tg? Perché nemmeno alluvioni con centinaia di vittime trovano mai spazio sulle prime pagine? Perché i ripetuti incidenti nucleari verificatisi di recente, un paio in Usa, uno in Slovenia, uno in Francia, sono praticamente passati sotto silenzio? Se questi fatti avessero avuto l’attenzione dedicata al pericolo costituito da rom, lavavetri, massaggiatori cinesi, forse sorgerebbero dubbi sulla solidità della vittoria del capitale. E, passando ad altra materia, perché l’informazione, anche quella più libera, anche quella di sinistra, non si interroga sul fatto che negli ultimi decenni, mentre il Pil poco o tanto costantemente aumentava, aumentavano le distanze tra ricchi e poveri, addirittura con un distacco che in Usa va da 1 a 460? Se si insistesse su queste verità, ignorate dai più, forse la certezza (senza eccezione più o meno da tutti data per scontata) che presto o tardi a ognuno toccherà una parte della ricchezza prodotta dal capitale, incomincerebbe a vacillare.
Per limitarmi a due delle innumerevoli tragiche incongruenze che segnano e rendono sempre meno solida la vittoria del capitale. Soltanto due: una “verde” e una “rossa”.
La legittimazione del progetto neocoloniale è stata resa possibile da Wto, Fmi e Banca Mondiale attraverso l'imposizione dei programmi di aggiustamento strutturale in nome dell'efficienza. In questo passaggio, il diritto è stato il custode di un ordine imperiale.
In attesa della traduzione, la lettura del volume di Ugo Mattei e Laura Nader Plunder. When the Rule of Law is Illegal (Blackwell, London-New York) alimenta la convinzione che, nonostante le sue difficoltà, il pensiero critico è ancora vivo. Ma intanto: di cosa si tratta? Plunder sta per rapina, saccheggio. Quella rapina e quel saccheggio materiale e simbolico praticati dagli Stati Uniti a scapito di buona parte del mondo e che oggi avrebbero trovato una sofisticata copertura giuridico-politica nell'onnivalente concetto di Rule of Law.
Mattei e Nader sono due giuristi che puntano a disarticolare il nesso tra Rule of Law e democrazia per lasciare emergere quello tra Rule of Law e Plunder. Per farlo sovvertono una linea di ricostruzione storica - rintracciabile per esempio nei lavori di Niall Ferguson tradotti anche in italiano - che cerca di contrabbandare la Rule of Law per il positivo lascito dell'esperienza coloniale britannica. I due studiosi non nascondono che la pertinenza di un discorso come quello avanzato da Ferguson possa dispiegarsi a partire dalla costitutiva ambiguità della Rule of Law: da un lato fragile copertura e legittimazione del più arrogante diritto di proprietà, dall'altro discorso universale sui diritti umani.
Tra forza bruta e consenso
Un'aporia concettuale che pone il quesito: si può uscire dalla Rule of Law? Per rispondere a questa domanda, va sottolineato che l'egemonia della Rule of Law è data proprio dalla sapiente combinazione di forza bruta e retorica consensuale. Per questo motivo ogni operazione tesa a decostruire tale dispositivo egemonico esige esercizi di immaginazione politica e creatività strategica. Il diritto, stretto tra un uso oppressivo e un'opportunità di empowerment, si presta infatti a invenzioni controegemoniche, rivelando la natura ambigua e potenzialmente sovversiva del pharmakon.
Uno dei tratti salienti della ricostruzione di Mattei e Nader è l'asserita continuità del ruolo svolto dal diritto tanto in epoca coloniale quanto nel tempo di decolonizzazione in cui siamo ancora immersi. Il libro è punteggiato da segnalazioni di luoghi di ricorrenza e elementi di ripetizione: oggi come allora è sempre di Plunder che si tratta. E certamente le ragioni addotte non mancano, sebbene la svalutazione implicita di molto del lavoro compiuto nel frattempo dagli studi postcoloniali - per altro in certo modo presenti in un libro dedicato alla memoria di Edward Said - potrebbe apparire forse frettoloso.
Se è vero che il Plunder si situa all'incrocio di più discipline messe all'opera nel quadro di un vasto progetto neo-imperialista, fornirne - come è intenzione di Mattei e Nader - un'anatomia critica implica la convocazione di saperi diversi: la storia, l'economia e il diritto. È infatti secondo questa costellazione disciplinare che il volume mette a tema il neoliberalismo, il «motore» dell'attuale Plunder. Le recenti vicende argentine fungono da caso esemplare. È sulla pelle degli argentini infatti che si sono prodotte modificazioni rilevanti dell'assetto istituzionale nato dagli accordi di Bretton Woods: il Wto, il Fmi e la Banca Mondiale si emancipano - in virtù di sapienti alchimie giuridico-politiche a firma statunitense - dal loro ruolo statutariamente neutrale di regolatori dell'economia per vestire i panni di ingerenti destabilizzatori della politica. Secondo il potente vettore retorico dello sviluppo si dà così avvio a una delle più ricche stagioni del Plunder. Quella segnata dai piani di aggiustamento strutturale: dispositivi in cui il collasso di un paese viene artificialmente sollecitato così da poter poi giustificare un salvifico intervento che - inutile dirlo - coincide ancora una volta con il più smaccato Plunder.
Il saccheggio delle élite
Ma se questa è ontologia dell'attualità bisognerà pure, come si conviene, rivolgersi all'archeologia del Plunder. Una storia che nasce con la vicenda coloniale europea e che trova un modo singolare di importazione e ricezione nel diritto americano. Singolare almeno per il fatto che vede un diritto nato sotto il segno di un rifiuto del colonialismo europeo trasformarsi nell'arma più potente di un vasto e rinnovato progetto neo-coloniale. Questa rapida ma efficace genealogia del diritto americano insiste sul processo di neutralizzazione che investe il diritto in virtù di un regime discorsivo capace di farlo transitare dall'ambito politico delle scelte e delle decisioni pubblicamente argomentabili a quello apparentemente neutrale di una ragione strumentale ordinata al calcolo e all'efficacia, i cui esiti sarebbero, proprio per ciò, immuni da dissenso e critica. Una teoria del difetto e della mancanza sostiene l'intero impianto: è perché i paesi in via di sviluppo mancano e difettano di cultura legale che opportunamente loro imposta la Rule of Law. Il paternalismo giuridico trova una soluzione davvero interessante - su cui Laura Nader aveva offerto un sguardo insuperato nella sua opera seminale del 1990 Harmony ideology: justice and control in a Zapotec mountain village - nell'ideologia dell'armonia, una strategia volta a prevenire il possibile uso critico dell'eccesso politico della Rule of Law implicato in ogni operazione di Plunder.
Ma la genealogia si approfondisce anche sul coté discorsivo. Mattei e Nader offrono un profilo attento dei nuovi costruttori di legittimità, ovvero di quelle élites culturali in grado - in virtù dell'efficacia sociale del loro presunto sapere - di legittimare, consegnando patenti ora di efficacia ora di moralità, l'imperialismo mascherato dei volenterosi propagatori della Rule of Law. Ugo Mattei aveva già lavorato a una genealogia critica di Law and Economics, qui riproposta e fatta reagire con la cornice teorica del Plunder. Si squadernano così le imposture che hanno tentato di naturalizzare l'idea di proprietà intellettuale, di fatto ignorata o attivamente contestata in scenari culturali che John Locke e i suoi vivaci epigoni hanno deciso di espellere da ogni quadro teorico. Non solo, viene anche descritto lo sconcertante passaggio di testimone che, dai missionari agli antropologi, consegna oggi nelle mani dei giuristi il potere di legittimare una politica di conquista e di prelievo in punta di diritto. Davvero straordinari, in questo senso, sono i riferimenti alle pratiche di governo cui sono stati sottoposti i nativi americani in forza di articolati discorsi antropologici.
Ipocrite sovranità
La prestazione esemplare di queste innovazioni sul piano della legittimazione a fronte della continuità del Plunder è offerta dalla guerra in Iraq e dal ruolo giocato in essa dal petrolio. Le nuove giustificazioni per la guerra sono costruite in virtù di una potenziale universalità della Rule of Law che, alla prova della comparazione, finisce col risultare assolutamente fittizia, provincializzando così le retoriche sul Sonderweg e restituendo il carattere relativo ed eccezionale a un principio che si vorrebbe trasformato in una universale «segnatura» di umanità. Piuttosto, è la costruzione artificiale di vuoti istituzionali a spianare la strada al Plunder, tanto più ipocrita laddove coperta da una politica del doppio standard secondo cui le ricette a base di privatizzazioni e liberalizzazioni sono ammannite soltanto ai paesi bisognosi di aggiustamenti. I paesi egemoni si prendono il lusso di difendersi dalla stessa situazione che creano, sicché la povertà diviene a un tempo l'effetto e la giustificazione del Plunder.
Mattei e Nader tentano quindi una formalizzazione, in termini di teoria giuridica, della genealogia precedentemente allestita. L'affresco che disegnano è il passaggio dalla Rule of Law alla Imperial Law. Gli autori offrono così una lettura alternativa a quanto la sociologia giuridica ha deciso di chiamare «globalizzazione giuridica» e lo fanno studiando attitudini e scelte dei soggetti, trasformazioni e usi degli istituti, per concluderne l'equivalenza tra diritto imperiale e diritto americano. I passaggi di questa conquista dell'egemonia sono molteplici e tutti studiati con attenzione. Ne deriva un catalogo capace di compendiare le caratteristiche del diritto americano che, globalizzandosi, costituiscono la koiné del diritto imperiale: la separazione tra i domini del diritto, della politica e della religione; l'alleanza tra diritto ed economia; il carattere decentrato del sistema giurisdizionale; la natura del processo; la riduzione della democrazia alla liturgia elettorale.
Questi fenomeni non sono stati senza effetti sul diritto internazionale, che ha subito nello stesso tempo una centralizzazione istituzionale e un generale indebolimento sul piano dell'efficacia e dell'autorevolezza. L'egemonia del diritto americano si è infatti nutrita di paradossi: procedure a tutela dei diritti attirano un volume vieppiù maggiore di cause verso le corti statunitensi, mentre una regolazione imperiale del diritto internazionale ne diffonde l'egemonia sul globo. Inoltre, in virtù di una profonda asimmetria tra regolazione amministrativa e pratiche giudiziali, l'egemonia statunitense è andata ulteriormente affermandosi, trasformando la sua ambigua flessibilità in un punto di forza e in un motivo di espansione. Infine, il tentativo di imporre l'equazione tra Rule of Law e Plunder sullo stesso territorio americano. Anche di questo fenomeno gli esempi non mancano e Mattei e Nader ne danno conto: il caso Enron; le elezioni - a tutti gli effetti vinte in forza di un'imposizione giudiziaria - che hanno assegnato la prima presidenza a G. W. Bush; la guerra al terrore, che, nella eloquente definizione di Nat Hentoff, è diventata la War on the Bill of Rights; la retorica patriottarda.
Ebbene, se tutto sembra congiurare verso una dichiarazione di avvenuto decesso della Rule of Law, che cosa può ancora, se può, il diritto? Le conclusioni di Mattei e Nader, nonostante il tentativo di catalogare qualche virtuoso esempio di resistenza dei diritti tradizionali al Plunder generalizzato, sembrano inclinare verso un profondo pessimismo: tra giustizia e Plunder, sembra quest'ultimo ad aver trionfato. E tuttavia. Le indicazioni su dove cercare per rinvenire alternative possibili non mancano. Un diritto consuetudinario dei poveri fu, in altre epoche, rivendicato e opposto al sopruso e all'ingiustizia. Certo, sarà necessario «rettificare i nomi». Certo, bisognerà aggiornare gli strumenti concettuali e le griglie interpretative. Certo, bisognerà innovare sul piano delle pratiche e della loro necessaria articolazione. Certo, bisognerà riprendere e radicalizzare il filo più robusto tessuto da Mattei e Nader: quella genealogia e quella decostruzione del diritto di proprietà già bollato dai giacobini come il «terribile diritto». Ma è una battaglia ancora aperta e merita di essere combattuta.
Movimenti nelle nuove mappe del neoliberismo
di Benedetto Vecchi
Sono passati pochi anni, eppure sembra un secolo da quando le piazze del mondo erano riempite dai movimenti sociali per chiedere la soppressione del Wto, del Fmi e della Banca mondiale. Eppure si può dire che, anche se quei movimenti oggi conoscono una crisi, quella partita l'hanno in qualche misura vinta. Non che la triade del pensiero unico sia scomparsa, ma è indubbio che i think-tank del neoliberismo sono da cercare altrove.
Il Wto è paralizzato a causa dei conflitti interni. Una coalizione di stati, tra cui Cina, India e Brasile, chiede di poter contare di più, mentre le scintille tra Unione Europea e Stati Uniti incendiano sempre più le sue sessioni. I programmi di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale passano attraverso estenuanti negoziati con i paesi che li devono poi applicare. Le «pagelle» del Fmi sono ormai agitate come volantini di propaganda per legittimare politiche neoliberiste definite tuttavia in palazzi diversi da quello del Fondo Monetario. La Banca mondiale, infine, deve vedersela con opposizioni tanto diffuse, quanto radicali ai suoi progetti di sviluppo.
Più semplicemente, il neoliberismo è in fibrillazione, mentre la recessione è diventata la realtà quotidiana per uomini e donne tanto nel Nord che nel Sud del pianeta. In questa crisi nulla rimane però uguale al passato e il capitale può sacrificare sull'altare della sua egemonia istituzioni importanti come il Wto, il Fmi e la Banca mondiale. In nome della continuità, ma innovando le procedure, le istituzioni che debbono garantirla. L'esito di tale innovazione è ancora incerto, ma alcune tendenze sono però chiare. Maggior rilievo hanno gli organismi sovranazionali su base regionale e le relazioni informali tra stati. Esempio di ciò è il comportamento della Cina in Asia e i rapporti di partnership stabiliti a Pechino con alcuni paesi diventati nodi importanti nell'economia mondiale perché produttori di petrolio o gas naturale (la Russia, l'Iran, il Venezuela).
Giovanni Arrighi nell'importante volume Adam Smith a Pechino ritiene che questa crisi, che vede il ritorno sulla scena mondiale della Cina, può diventare una chance per il Sud nel mondo per mandare in frantumi l'egemonia dei «paesi ricchi», senza che questo significhi un ritorno al nazionalismo economico. È in atto cioè un cambiamento nella geometria del neoliberismo, con alcuni nodi minori divenuti nel frattempo veri e propri «cluster», cioè snodi del capitalismo globale. Dunque un mutamento lontano anni luce da quella proposta di attivisti e studiosi come Walden Bello, che vedeva l'irruzione dei movimenti sociali nella stanza dei bottoni come l'unica possibilità di raddrizzare il legno storto dello sviluppo economico.
La tendenziale irrilevanza del Wto, del Fmi e della Banca mondiale costringe dunque a registrare le nuove mappe del neoliberismo, proprio per il perdurare della sua vocazione «globale». Mappe che possono essere definite a partire dagli atelier diffusi della produzione e delle contraddizioni di quella sovranità imperiale che si è affermata nel quindicennio passato. Mappe tuttavia «partigiane». Perché la crisi non è solo una chance per il capitale, ma anche per l'agire politico e sociale di quei movimenti che hanno accelerato la messa a nudo del neoliberismo solo pochi anni fa.
Se è difficile arrivare a fine mese
di Luciano Gallino
Il salario rappresenta il valore dei mezzi di sussistenza necessari al lavoratore per vivere, lavorare e procreare. Così lo intendeva verso il 1672 William Petty, di formazione medico, riqualificatosi come originale esperto di "aritmetica politica". Non era un concetto elaborato a tavolino. Petty era stato inviato dall’Inghilterra in Irlanda con il compito di stabilire quanto valessero la terra e il lavoro degli isolani, allo scopo di sottoporli ad una tassazione accurata. Per farlo occorreva fondarsi su misure obbiettive. I mezzi di sussistenza del lavoratore avevano tutti un prezzo; quindi si prestavano egregiamente alla bisogna di stabilire quanto valesse il lavoro.
Per quanto annosa, la nozione del salario come valore dei mezzi di sussistenza del lavoratore rimane realistica anche ai nostri giorni. Le famiglie che si lamentano di non arrivare a fine mese, visto il poco salario che entra in casa, sembrano avere in mente proprio tale nozione. Esse si chiedono anzitutto come mai, un tempo, il salario era sufficiente per vivere serenamente, lavorare e fare figli; mentre adesso quasi non basta più nemmeno per lo stretto necessario. Si chiedono anche se e quando il salario ritornerà ad essere abbastanza elevato da poter coprire, oltre ai costi della mera sussistenza, anche qualche modesto piacere della vita. Tipo comprare le rose, oltre al pane.
Nella stessa esperienza quotidiana delle famiglie lavoratrici è dunque ben presente l’idea che esistono tre gradini o livelli distinti di salario. Quello che non basta nemmeno per vivere, pur lavorando; il salario che permette invece di vivere e riprodursi, ma senza lasciare margini per alcun altro beneficio; infine quello che permette un tenore di vita appropriato al grado di sviluppo civile del paese in cui si abita. Le domande che le famiglie si fanno in merito sia alle cause che hanno permesso ai loro progenitori ed a loro stesse di collocarsi a un determinato livello, sia a quelle che spingeranno i figli ad occuparne uno che speravano più alto del loro, ma temono potrebbe risultare più basso, sono in fondo le stesse domande che gli studiosi di economia si sono posti da secoli. Così come rimangono valide, alla radice, le risposte che essi hanno formulato.
Alcune di esse possono leggersi nell’opera d’un filosofo scozzese, Adam Smith, apparsa un secolo dopo il soggiorno irlandese di Petty. Le sue Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) possono leggersi al tempo stesso come ricerche sulle cause della povertà e del benessere dei lavoratori, in quanto provocano il passaggio di tutti o parte di questi, all’insù o all’ingiù, da un livello all’altro di salario. Se i lavoratori che offrono la loro opera sono a lungo più numerosi di quelli che i padroni (master) son disposti a remunerare, i salari scendono «al più basso livello compatibile con un’esistenza semplicemente umana». Questa pressione verso il basso è accresciuta dal fatto che «i padroni sono sempre e ovunque uniti in una specie di coalizione tacita, ma costante e uniforme, avente il fine di non fare innalzare i salari del lavoro al disopra del loro livello attuale».
La coalizione naturale dei padroni (i proprietari di terra o di capitale, ma anche operai resisi indipendenti) per impedire l’elevamento dei salari può essere infranta sia dalla scarsezza di braccia, sia dal fatto che una volta provveduto all’acquisto dei materiali per la produzione, e al proprio sostentamento, molti di essi tenderanno a impiegare l’eccedenza per assumere altri lavoratori «allo scopo di trarre un profitto dal loro lavoro». Quando si verificano tali condizioni, i salari salgono verso il terzo livello, quello dove alla sopravvivenza e alla riproduzione si aggiunge qualche "comodo". Ed è giusto, nota Smith, che i lavoratori e gli operai i quali formano la gran maggioranza di ogni società, e «nutrono, vestono e pongono al riparo l’intero corpo sociale, debbano avere una quota del prodotto del loro proprio lavoro che li metta in grado di essere essi stessi discretamente ben nutriti, vestiti e alloggiati».
Questo terzo livello del salario, il livello di un certo benessere, ricompare in Marx come l’elemento storico o sociale del valore della forza-lavoro, l’altro essendo unicamente fisico. Quest’ultimo vuol dire quel che già diceva Petty: «per perpetuare la propria esistenza fisica», la classe operaia «deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente necessari per la sua vita e la sua riproduzione». Al tempo stesso essa richiede «il soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli esseri umani vivono e sono stati educati»; il cui insieme Marx definisce, usando termini singolarmente moderni, il tenore di vita tradizionale di ogni paese.
L’evoluzione dell’economia e l’indagine delle scienze sociali hanno così prefigurato ciò che sta accadendo oggi alla scala mondiale dei salari. Su una forza lavoro globale stimata dall’Oil in 2,8 miliardi di persone, circa un miliardo non ricava dalla fatica quotidiana nemmeno i mezzi di sussistenza necessari per sopravvivere a un livello minimo di umanità. Poco meno d’un miliardo e mezzo è rappresentato dai nuovi lavoratori globali, che in India e in Cina, in Brasile, Russia, Indonesia e decine di paesi minori stanno raggiungendo un livello salariale che arriva a coprire appena i costi di riproduzione dell’uomo. Come li definiva François Perroux, grande economista del Novecento, condannato all’oblio per le sue vedute eterodosse circa i compiti e le responsabilità delle scienze economiche nel mondo moderno. Il primo dei costi cui si riferiva sono quelli che impediscono agli esseri umani di morire, a cominciare dal lavoro. Infine, in cima alla scala dei salari, si collocano forse mezzo miliardo di lavoratori che nel corso di alcuni decenni sono stati – per usare ancora le parole di Smith - discretamente ben nutriti, vestiti e alloggiati. Oltre a godere delle varie forme di salario differito che sono l’assistenza sanitaria gratuita, la scuola pubblica per i figli, e pensioni dignitose.
Sul loro complessivo livello di salario, al gradino più alto della scala, premono ora il miliardo e mezzo di persone che stanno sul gradino intermedio, e il miliardo che sta sul gradino inferiore. Un’enorme concorrenza di braccia, e di cervelli, che consente alla attuale coalizione globale dei master di offrire salari diretti e differiti sempre più bassi. Il termine master non è più traducibile propriamente con "padroni", perché molti di essi, in realtà, diversamente da quelli di cui trattava Smith, non sono in senso stretto dei proprietari. Sono manager di grandi imprese e gestori d’ogni genere di enti finanziari che gestiscono nel mondo, in totale autonomia, ricavandone compensi inverosimili, decine di trilioni di euro di soldi degli altri. Gran parte dei quali sono costituiti dai risparmi e dai contributi previdenziali dei lavoratori già titolari d’un ragionevole benessere, e dei loro genitori, via via accumulatisi negli scorsi decenni. I lavoratori ad alto salario, comparativamente parlando, vedono così ergersi dinanzi a loro, e sul futuro dei figli, quasi fosse uno spettro ostile, la stessa massa di salario non speso su cui contavano per un destino migliore della semplice riproduzione di sé stessi.
SALARIO
Di John Kenneth Galbraith
Dal momento che i lavoratori venivano raccolti nelle fabbriche, diveniva altamente rilevante la questione di cosa ne determinasse la paga. Assumendo il capitalista il controllo della produzione, sorgeva la questione della sua remunerazione, di come questa venisse determinata e giustificata. Quando il fittavolo sostituì il mezzadro o il servo, la rendita diventò una faccenda importante. E si giunse a considerare i prezzi come legati da un palese rapporto con tutte queste componenti. Adam Smith diede alla scienza economica la sua struttura moderna... In linea generale, considerò i salari come il costo di portare all’esistenza l’operaio in quanto operaio e di mantenerlo nel suo lavoro. Questa idea, ossia la teoria dei salari di sussistenza, sarebbe in seguito stata trasformata da David Ricardo nella Legge bronzea dei salari, la quale vuole che il salario pagato alle classi lavoratrici si collochi al livello minimo compatibile con la loro sopravvivenza.
Quel mondo capitalista da cui è nato il salariato
di Giorgio Ruffolo
Salario era la razione di sale corrisposta ai legionari al tempo dei Romani. E Salaria era la via lungo la quale si trasportava il sale dalla Sabina a Roma. Essa incrociava vicino alla foce del Tevere la via Campana che collegava le genti etrusche con quelle greche, costituendo quel centro di traffici che divenne Roma. Del salario si parla però pochissimo nell’antichità. Le mansioni affidate oggi ai lavoratori manuali erano imposte agli schiavi e le attività libere erano svolte dalla famiglia, soprattutto dalle donne (filatura, tessitura eccetera). Non si parlava di salario perché non c’era una classe di salariati. Inoltre, il lavoro fisico e materiale era altamente disprezzato. Poteva essere molto apprezzato l’artigianato e l’attività intellettuale (poeti, traduttori) nonché quella ludica (giocolieri danzatrici, cantori): ma solo nell’ambito di relazioni individuali, non di un "mercato". I salariati sono una invenzione del capitalismo all’inizio della modernità. Si scopre che, anziché comprare e vendere uomini e donne, facendoli lavorare o usandone gratuitamente, ma anche accollandosi tutti i costi della loro, per quanto grama, esistenza, era molto più conveniente comprare la loro forza lavoro, pagandola il meno possibile e vendendo sul mercato il loro prodotto. È alla fine del Medioevo che nasce così il "mercato del lavoro", anche grazie a una rarefazione dell’offerta di lavoro provocata dalla peste.
Ma per vere e proprie teorie del salario bisogna aspettare gli economisti classici: Smith Malthus e Ricardo soprattutto. Le teorie classiche sul salario sono comprese in quella branca dell’economia politica che si occupa della distribuzione del reddito. Si tratta di spiegare il ruolo economico delle tre principali classi sociali: proprietari terrieri, imprenditori capitalisti, lavoratori e la natura dei loro redditi: rendita profitto e salario. La teoria classica parte dunque da una visione molto concreta della società e della sua divisione in classi. La versione più pertinente della teoria classica è quella che considera la rendita come una specie di tassa pagata ai proprietari per l’uso delle loro terre, legata alla loro fertilità; il salario come una remunerazione legata alle esigenze vitali elementari; e il profitto come il reddito dell’imprenditore che residua dopo aver pagato rendite e salari. Si può dire che essa riflette "brutalmente" i rapporti di forza tra le tre classi: proprietari (in parte aristocratici) imprenditori (borghesi) e lavoratori (proletari).
Ci sono altre versioni, anche in Smith e in Ricardo, della teoria classica, per qualche aspetto anticipatrici delle successive teorie neoclassiche; ma questo è il suo più caratteristico approccio. Se si può parlare delle simpatie degli economisti classici, non c’è dubbio che, nell’insieme, esse erano rivolte ai capitalisti imprenditori, con atteggiamenti compassionevoli nei riguardi dei proletari, e malcelato disprezzo per gli aristocratici proprietari. Non vi è traccia di riferimenti al concetto di "sfruttamento". L’aspetto normativo della teoria è esplicitamente conclamato: è la richiesta di una politica della più ampia libertà degli scambi che lasci ai capitalisti l’iniziativa delle loro imprese e al mercato la determinazione dei prezzi, senza intrusioni politiche e amministrative e con la sola garanzia della maggiore possibile concorrenza (liberismo). Concorrenza nella formazione dei prezzi e concorrenza nella determinazione dei salari, affidata alla "libera" contrattazione tra imprenditori e lavoratori.
Se c’è una forza attrattiva che influisce oggettivamente sulla determinazione del salario è quella del "valore lavoro" (la quantità di lavoro incorporata nella prestazione dei lavoratori). È proprio da questo concetto "ricardiano" che parte Carlo Marx per il suo "grande assalto", come lo chiama Galbraith, alla teoria classica, non tanto nelle espressioni dei suoi fondatori, ma nei riguardi di quei loro esegeti che definisce "economisti volgari" per le loro scoperte tendenze apologetiche nei riguardi delle nuove classi dominanti. Il nucleo forte dell’attacco è la teoria dello sfruttamento. Il salario è mantenuto, più o meno, al livello del valore-lavoro, grazie alla formazione di un’armata di riserva di disoccupati che preme attraverso la concorrenza tra i lavoratori. E il capitalista intasca tutta la differenza tra il prezzo del prodotto, venduto al suo valore nel mercato dei prodotti e il prezzo del lavoro, comprato al suo valore nel mercato del lavoro. Notare che Marx, diversamente da Proudhon non accusa i capitalisti di alcun "furto" (sottrazione di valore). Essi comprano forza lavoro al suo valore e vendono prodotti al loro valore. La differenza è data dal fatto che i lavoratori, una volta ingaggiati, lavorano per una durata superiore a quella che sarebbe necessaria a pagare il loro valore: un pluslavoro che genera sul mercato un plusvalore, che è l’essenza del profitto. Questo è l’"onesto" gioco di prestigio che si chiama "sfruttamento" e che genera un conflitto insanabile tra capitalisti e proletari.
Di tutt’altra natura è la spiegazione del salario offerta, nell’ambito di una teoria della distribuzione del reddito radicalmente diversa dalla teoria classica, dalla cosiddetta teoria (in realtà un complesso di teorie) neoclassica, fiorita tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, soprattutto in Austria e in Inghilterra. Il colpo di genio consiste qui nel rovesciamento della prospettiva epistemologica. Si parte non più da una visione storica oggettiva delle classi sociali, ma da assiomi psicologici soggettivi del comportamento individuale. E si rappresentano non più le forme concrete di appropriazione del reddito di quelle classi, in quella situazione storica, ma le forme astratte e astoriche di una distribuzione del reddito che si riferisce non a soggetti sociali concreti (lavoratori, capitalisti, eccetera) ma a "fattori produttivi" astratti (capitale, lavoro, eccetera). Si verifica quella rappresentazione distorta della realtà in base alla quale, come dice Maurice Dobb, «menti incorporee si confrontano con oggetti fantomatici di scelta».
La "rivoluzione keynesiana" ha smontato questa rappresentazione dimostrando come la spontanea dinamica del mercato, a seguito di propensioni diverse al risparmio e agli investimenti, proprie di soggetti diversi, possa condurre a livelli stabili di disoccupazione. In tale caso solo un intervento dello Stato attraverso politiche macroeconomiche, prevalentemente fiscali, può ristabilire l’equilibrio stimolando una crescita della domanda. La teoria keynesiana rifiuta sia l’automatismo mercatistico dell’equilibrio generale neoclassico, sia il catastrofismo palingenetico della teoria marxista, e assegna un compito riformistico equilibratore allo Stato, che incontra le esigenze di benessere collettivo sostenute dalla sinistra socialdemocratica, preservando la logica essenziale del mercato e la sopravvivenza del capitalismo, malgré lui. È questa la stagione del liberalsocialismo. Intanto, grazie all’aumento generale della produttività e al crescente potere dei sindacati, il salario si è elevato ben al di sopra della soglia della sopravvivenza e ha trovato, nel clima riformistico del secondo dopoguerra, un nuovo aggancio al saggio di aumento della produttività, nell’ambito di una politica dei redditi. Ma alla fine degli anni Sessanta l’egemonia keynesiana entrava a sua volta in crisi. Non si può negare che parte di questa crisi sia riconducibile a irrigidimenti salariali provocati dal potere conquistato dai sindacati nel mercato del lavoro, come pure all’eccessiva interferenza delle amministrazioni pubbliche nella sfera economica. La successiva globalizzazione dei capitali e finanziarizzazione della grande impresa va interpretata almeno in parte come una controffensiva capitalistica su larga scala. Sta di fatto che gli anni Settanta e Ottanta segnano il ritorno di un neoliberismo monetarista che pretende di riconsegnare il mercato del lavoro, e quindi il salario, alla "libera" contrattazione su base individuale e cioè, in pratica al gioco dei rapporti di forza originari tra capitale e lavoro.
La pretesa non ha successo che in parte; ma il "combinato disposto" globalizzazione-finanziarizzazione determina alla fine del secolo un deciso spostamento della distribuzione del reddito a favore dei profitti (più particolarmente, delle rendite finanziarie) e a svantaggio dei salari. Intanto l’intero assetto dell’economia è cambiato sotto l’impulso di una mercatizzazione dello spazio mondiale e di un progresso tecnologico che hanno favorito la libertà di movimento e di iniziativa delle grandi imprese. Oggi lo stesso significato di produzione e di produttività è in gioco. E con esso, lo stesso significato sociale del lavoro. È in gioco, insieme alla debolezza del salario, lo stesso senso della crescita, contestato dalla degradazione ambientale. Sul terreno dell’economia sociale, è in gioco l’antico venerato aforisma: crescere per "poi" distribuire. Di fronte all’eternizzazione di quel "poi" e alla crescente insignificanza della crescita, ci si può chiedere se per caso la sequenza dei due termini non debba essere invertita.
Un esercito di precari fragile e malpagato
di Aldo Nove
Prima che Bauman, nella sua inesausta pletora di libri "liquidi", ci consegni quello sul salario, possiamo provare a immaginarci cosa, nel nostro mondo liquido, vi corrisponda: il salario nel 2008 è indubbiamente speciale. Ha riflessi chimerici, è reso squassante dalla sua imprevedibilità, dalla sua incertezza. "Se mi pagano" è la chiave di volta (di un edificio pericolante da troppo) del discorso sul salario oggi. Mettiamo il lavoratore a termine, a progetto: un laureato, magari in materie umanistiche, magari giovane e dunque quarantenne, a cui viene commissionato un lavoro. In Italia parlare di salario equivale, per strana convenzione, a mettere in pubblico i propri panni sporchi: non è educazione, non si fa, ma cosa ti viene in testa. Quindi il "giovane" laureato quarantenne di cui sopra spesso non sa neppure quanto verrà pagato. È maleducazione. Chiederlo e saperlo. Valgono le approssimazioni allucinatorie del gioco televisivo a premi in denaro: "C’è una bella sommetta" (topos del linguaggio di Mike Bongiorno secondo Eco), "I soldi ci sono", fino al paramafioso "Non ti preoccupare" sono alcune delle risposte alle timide domande sulla consistenza del salario di chi il lavoro, per necessità, lo fa "alla cieca", o quasi.
C’è qualcosa di amorale, di atrocemente comico in tutto questo: modulandosi addirittura, per scherzo epocale, sul rapporto sentimentale: chi ti dà un lavoro in fondo ti sta facendo un grande favore. Lo fa quasi per amore, sceglie te tra migliaia di altri e dunque non è bello stare lì a parlare di cifre. Chi chiede informazioni su quanto verrà retribuito per un lavoro contravviene alle regole dell’etichetta del precario: se sapesse, che precario sarebbe? Così si sa che si dovrebbe essere pagati. Una certa cifra, in un certo modo, in un qualche tempo. "In un certo modo" significa che buona parte del tempo del neosalariato viene spesa inventando i modi (in rapporto al tempo, alle circostanze) attraverso i quali il lavoratore avrà ragionevoli speranze di recuperare quanto gli è dovuto o meglio e forse generosamente elargito: si tratta di inventare le forme di recupero di crediti che, per reattività pavloviana, spesso perdono credibilità, riducendo l’intero mondo del lavoro (la sua percezione soggettiva) a una sorta di stagismo universale.
Condizione sfibrante e involutiva. Sono in tanti, a quarant’anni, a sentirsi sotto la pressione delle ugge della "mancetta": benevoli datori di lavoro chissà se benevoli lo saranno davvero, al momento dell’erogazione, posto che un’erogazione vi sia. I bamboccioni sono in fondo adulti obbligati a restare adolescenti se non bambini dall’assoluta mancanza di serietà retributiva in un mercato del lavoro che scherza con i rapporti umani e lo scherzo, da un’intera generazione, non si capisce se avrà fine domani o tra vent’anni o mai. Ho sentito dire (tante volte, troppe) che il lavoro "retribuito", spesso, è articolato in due poderose fasi, la seconda delle quali, fondamentalmente inedita, è la principale, più delicata e sostanziosa. La prima consiste nel lavoro, la seconda nell’attuazione della difficile retorica di telefonate, sapientemente (e nevroticamente) studiate per far sì che il lavoro volontario si trasformi in lavoro salariato. Generalmente si attende la scadenza effettiva del tempo massimo di pagamento (supposto che sia stato stabilito: altrimenti è tutto più complicato, si procede per approssimazione) e allora si inizia a telefonare per ricordare che si dovrebbe essere pagati. Nella mia esperienza di non specialista del lavoro ma di semplice quarantenne a contatto con altre persone sento ogni giorno persone lamentarsi di questa difficile, esasperante realtà lavorativa. È umiliante elemosinare quello che ti spetta. Ti fa sentire davvero un bamboccione. Una strana commistione tra assenza di autostima e voglia di riscatto per riuscire a porsi in una "dialettica lavorativa" che possa semplicemente, realmente definirsi tale. Nella prassi quotidiana, uno stillicidio di aspettative sotto forma di inutili attese al telefono, di appuntamenti mancati, di verifiche quotidiane del proprio conto corrente per vedere se magicamente "quei soldi" sono poi arrivati. "Quei soldi" (e dunque non altri) sono la formula del frastagliamento di chi, per arrivare a un salario degno di essere definito tale, e che garantisca quindi la sopravvivenza, deve sommare diversi micro salari. Come delle caricature di imprenditori al gradino più basso della scala gerarchica, i lavoratori di questo tipo (spesso laureati) accumulano ansie inaudite in un vissuto del tutto probabilistico della propria realtà salariale. Questa è la cifra principale del precariato: aver fatto un lavoro (una serie di lavori), dover avere di conseguenza una certa cifra sul conto corrente e ritrovarsi a chiedere prestiti (generalmente, ovviamente ai genitori) perché quella cifra (quella somma di cifre) non c’è, va "sollecitata", forse arriva domani e così per mesi. Il pericolo maggiore è che nell’Italia del 2008 si arrivi a un’assuefazione. Psicologicamente è già avvenuto. Ma solo psicologicamente e per fortuna. C’è un margine di resistenza oltre il quale non è possibile andare, ed è quello della corporeità: detto in altre parole, fino a che si mangia si può scherzare. Si può scherzare con la dignità spazzata via del lavoratore, con la sua riduzione d’ufficio a pedina insignificante della contrattazione. Ma oltre un certo livello non si scherza più. Quel livello è quello della fame. La fame vera. In Italia non ci siamo ancora arrivati. Ci si "arrangia": a scapito della propria dignità, in un sogno guasto riempito di telefonini e distrazioni a basso costo da mondo incantato per adulti. Ma appena i "bamboccioni" (è la terza volta che lo scrivo: scusatemi, ma è un termine di una violenza, di un’ottusità micidiale, a suo modo, satanicamente, geniale) cominciassero a stare davvero male, a non avere di che mangiare, salta tutto. Si chiama rivoluzione e la fanno direttamente le pance. Prima c’è il limbo dell’attuale condizione salariale.
Viviamo in un mondo che ha conosciuto una radicale mutamento delle forme di vita, dei modi di produzione e delle forme politiche e di governo. Viviamo cioè in un'epoca postmoderna, che occorre interpretare per potere trasformare, mettendo a dura critica le categorie della modernità capitalista. È questo uno dei temi ricorrenti della Fabbrica di porcellana (Feltrinelli, pp. 156, euro 16, traduzione di Marcello Tarì), un volume che raccoglie dieci lezioni tenute da Toni Negri al Collège International de Philosophie di Parigi tra il 2004 e il 2005 e che costituiscono al tempo stesso una messa a fuoco dei nodi teorici emersi nella discussione attorno ai noti Impero e Moltitudine (entrambi pubblicati negli anni scorsi da Rizzoli), i due volumi scritti da Negri assieme a Michael Hardt. Ma la fabbrica di porcellana è da intendere anche come un deposito di materiali da sviluppare ulteriormente in un lavoro di ricerca più organico di quanto possa essere un ciclo seminariale. Eppure è proprio questo carattere «provvisorio», seminariale, dialogico che rende questo libro un utile strumento per comprendere meglio il laboratorio culturale di Toni Negri.
Un mondo unificato
In primo luogo la scelta della lezione come forma di socializzazione dei materiali teorici costringe l'autore a una continua precisazione dei concetti presentati. Così, l'illustrazione dell'impero deve tener presente delle critiche a cui è stato sottoposto tale concetto e anche degli eventi che hanno segnato il presente. L'attentato alle Torri gemelle e la strategia della guerra preventiva attuata dall'amministrazione statunitense diventano due momenti che cambiano il corso della storia, nel senso che più che rallentare il processo di costruzione dell'impero, l'accelerano, modificando tuttavia la sua traiettoria. Allo stesso modo le prove di guerra bassa intensità contro il movimento no-global, che ha avuto il suo apice a Genova nel 2001, non bloccano lo smottamento politico in America latina, continente che Negri guarda con attenzione per quel rapporto di condizionamento e di autonomia che i movimenti sociali hanno stabilito con i «governi amici». Infine, la perdurante recessione economica non coincide con la fine della globalizzazione neoliberista: semmai ne mette in evidenza come le situazioni di crisi abbiano sempre il carattere costituente di un nuovo ordine economico e politico. Ed è per questo motivo che l'autore non nega che continuino a vigere i rapporti di sfruttamento, appropriazione delle risorse, di creazione di nuovi mercati tipico dell'imperialismo. E tuttavia Negri sostiene che, a differenza del passato imperialista, nell'impero viene a scomparire la distinzione tra mondo capitalista e società non capitaliste. L'impero è dunque una realtà unificata caratterizzata dal capitalismo globale che, come in un work in progress, modifica incessantemente le gerarchie di poteri e una nuova divisione internazionale del lavoro al suo interno. Emerge così una lettura meno lineare dello sviluppo capitalistico. Individuare la tendenza in atto non significa quindi chiudere gli occhi sulle contraddizioni, le aporie, le controtendenza che caratterizzano i processi storici.
La tendenza dell'impero è sostenuta tuttavia non solo dalle logiche interne al capitale, ma anche da quella costellazione di singolarità, di forme di vita definita da Negri, è ormai noto, come moltitudine. Anche in questo caso, l'autore chiarisce che la discontinuità operata con la tradizione marxiana sulle classi sociali non va interpretata come una negazione dei rapporti di sfruttamento che qualificano il capitalismo contemporaneo. La moltitudine diviene quindi il termine per indicare tutte le figure lavorative presenti nella realtà contemporanea che ha come elemento dominante il lavoro cognitivo. Ma più che parlare di elemento dominante, credo sia più aderente parlare di una pluralità di forme lavorative accomunate tuttavia dalla centralità della dimensione relazionale, dialogica, della messa in comune del sapere e della conoscenza in quanto fattori innovativi del processo lavorativo: fattore strategico, quest'ultimo del capitalismo contemporaneo. La forza-lavoro deve cioè alimentare quella macchina dell'innovazione che è la cooperazione produttiva.
È però partendo da una torsione della categoria marxiana di lavoro vivo che Negri risponde alla critiche che i filosofi francesi Etienne Balibar e Pierre Macherey hanno rivolto al concetto di moltitudine. Il primo ha espresso il dubbio che la moltitudine possa essere presentata come forza antisistemica, mentre Macherey ha sostenuto che la moltitudine difficilmente possa passare all'azione proprio per quella resistenza che presenta a manifestarsi come soggetto collettivo. Negri sostiene invece che la moltitudine è lavoro vivo che esprime resistenza al capitalismo cognitivo. Da qui le lezioni dedicate al «politico», che spaziano da una rilettura critica del pensiero di Max Weber, Carl Schmitt, Lenin, Michael Foucalt e Gilles Deleuze.
La democrazia assoluta
Vengono così introdotti e approfonditi i temi del biopotere, della biopolitica e della governance, con interessanti incursioni negli studi postcoloniali, intesi in questo volume come griglia analitica con cui analizzare proprio i processo di «soggettivazione politica» della moltitudine. E se il biopotere è inteso come strategie di governo della vita da parte del potere costituito attraverso strategie di governance, la biopolitica diviene l'orizzonte in cui collocare l'azione della moltitudine nel suo processo di defezione e esodo dal potere costituito.
Un libro, dunque, che presente tutti i temi della riflessione di Toni Negri negli ultimi anni. E che ha l'indubbio pregio nel carattere seminariale che lo contraddistingue. La lezione che problematizza meglio di altre le tesi del filoso italiano è quella che porta il titolo «Dal diritto di resistenza al potere costituente». È noto che il diritto di resistenza è elemento fondante del pensiero politico moderno. Ma Negri non è un democratico liberale. La sua prospettiva è una democrazia radicale. Meglio: spinozianamente assoluta che ha nel potere costituente della moltitudine il suo viatico. È su questo crinale che l'insistenza sulla cesura del postmoderno acquista consistenza. La presa di congedo dal pensiero politico della modernità è quindi da intendere non tanto come la constatazione di una evoluzione della società capitalistica, quanto come l'affermarsi di un capitalismo che ha trasformato l'attività intellettuale in mezzo di produzione. Viviamo dunque in un'epoca che vede il capitale come elemento parassitario della cooperazione produttiva sviluppata dalla forza-lavoro, dato che il sapere e la riflessività, direbbe il sociologo tedesco Ulrich Beck, «appartiene» al singolo. La rilevanza del capitale finanziario non è quindi da intendere come «squilibrio temporaneo», ma come fattore qualificante l'attuale capitalismo. Il capitale perde così le caratteristiche produttive, imprenditoriali e si presenta come un elemento parassitario del lavoro vivo. Il puzzle del moderno va così in pezzi e con esso il pensiero politico moderno.
Il potere costituente
La moltitudine e il potere costituente sono quindi da intendere come le coordinate indispensabili per un'azione politica radicale che punti al superamento del capitalismo stesso. La moltitudine per la sua resistenza a qualsiasi processo di eterodirezione della volontà politica; il potere costituente come un potere che non si cristallizza in istituzioni basate sul meccanismo della rappresentanza, bensì su istituzioni che hanno la capacità di prendere decisioni, di attuarle e di modificare se stesse rispondendo così al mutare delle azioni della moltitudine. Una lezione, questa settima, squisitamente politica, quasi una proposta di vademecum per i movimenti sociali che da Seattle in poi hanno prospettato l'altro mondo possibile. Ma visto che ci troviamo di fronte a un work in progress, è indubbio che alcuni elementi problematici vanno comunque sottolineati. La fabbrica di porcellana, cioè la possibilità di un'azione politica radicale, deve misurarsi con una crisi del capitalismo che ha la capacità di trarre comunque linfa vitale proprio dai suoi limiti.
Così l’impero vede un doppio movimento: da una parte il ruolo dirimente di alcune economie e stati nazionali - gli Stati Uniti e la Cina, ad esempio -, dall’altra l’accresciuta influenza di organismi sovranazionali e regionali come l’Unione europea, l’Asean e il tanto bistrattato Nafta, l’accordo di libero commercio tra Canada Usa e Messico, e il nascente Mercosur in America latina. È quindi un impero che ha si nella governance il dispositivo per dirimere i conflitti geopolitici e geoeconomici al suo interno, delegittimando talvolta l’operato del Wto, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, cioè le istituzioni principe della «prima» globalizzazione. Inoltre, il carattere parassitario del capitale deve essere misurato alla luce di quel regime della proprietà intellettuale che garantisce innovazione e un ruolo non residuale al sistema di macchine dell’organizzazione capitalistica della produzione. Per questo, il sistema della formazione, università compresa, diviene il campo dove l’addestramento di una forza-lavoro flessibile si accompagna a una «messa in produzione» di un sapere tecnico-scientifico mediata dal sistema di macchine. Ma ciò che è davvero rilevante è la crisi dei movimenti sociali. Crisi a geometria variabile, ovviamente. In America latina è difficile parlare di crisi radicale, ma in Europa, negli Stati Uniti e in Asia la recessione economica alimenta il lessico politico della destra populista. Allo stesso tempo, «l’unità d’azione della moltitudine corrisponde alla molteplicità delle espressioni di cui essa è capace» di cui parla Negri rimane imbrigliata in una ambivalenza che il conflitto non riesce a sciogliere. E forse ciò che indica l’autore come problema irrisolto - quello dell’organizzazione politica della moltitudine - è il nodo teorico su cui misurare le capacità di un pensiero politico che assume la cesura p
Nel 2050 il più giovane degli “8 di Toyako”, il russo Medvedev, avrà 85 anni. Sarkosi ne compirà 95. Angela Merkel e il canadese Stephen Joseph Harper saranno sui 96. Bush ne avrà (se li avrà) 103. Per i quasi coetanei Yasuo Fukuda e Berlusconi (di 2 mesi più anziano) l’aritmetica ne prevederebbe 114. Insomma, fissare per il 2050 il taglio dei gas serra responsabili del totale sconquasso del clima, senza in alcun modo definirne mezzi e teniche, né indicarne termini d’impegno e verifiche intermedi, sembra un bel modo di cavarsela a buon mercato per questi 8 signori. E forse a pensarlo non si fa nemmeno peccato.
A lungo, di fronte alla massiccia disattenzione dei politici per i guai dell’ ambiente, ho pensato a greve ignoranza della materia, a totale mancanza di sensibilità per i fenomeni che le appartengono, a così intensa esclusiva concentrazione sulle vicende della politica (o di ciò che i politici ritengono essere la politica) da non consentire alcuna residua disponibilità per altri temi. In seguito, di fronte al perdurare di questo atteggiamento, nonostante l’aggravarsi e moltiplicarsi dei problemi, il ripetersi di catastrofi sempre più frequenti e più disastrose, e gli allarmi di continuo lanciati dalla scienza di tutto il mondo, ho pensato a una sorta di “rimozione” collettiva di fronte alla tremenda magnitudine della questione: cioè al ricorso da parte dell’intera classe politica (e anche degli economisti che ne sono ascoltatissimi mentori) a quell’ inconscio comportamento psicologico di autodifesa, illustrato dalla psicoanalisi, che appunto “rimuove” dalla coscienza il pensiero di fatti talmente angoscianti da riuscire insopportabili. E sarebbe ancora comprensibile, anche se non proprio il massimo auspicabile da parte di chi ha il compito di governare il mondo.
Oggi non più. Nessuna scusa né indulgenza può essere concessa a questi otto signori che rimandano alla loro più tremebonda vecchiaia, e assai oltre, una non precisata soluzione per le questioni più drammatiche dell’umanità. Che, con l’eterno sorriso stampato in faccia, una palettina da giochi infantili in una mano e un gracile arbusto verde nell’altra, dichiarano di essere impegnati nel rimboschimento del pianeta; e (prima di dedicarsi a banchetti di rare e costosissime squisitezze) solo rilancio del nucleare e estrazione intensiva - ancorché sempre più improbabile - di petrolio sanno annunciare: al fine di tenere in vita, anzi accelerare, gli attuali ritmi di produzione e crescita. Tralasciando ogni menzione relativa ai poli in liquefazione e, men che mai, agli incidenti occorsi proprio in coincidenza col G8 a ben tre centrali nucleari, in Usa, Francia e Moldavia. Qualcuno li ha definiti ”piccoli esseri, avari e ipocriti”. Concordo pienamente.
E d’altronde non serviva un altro G8 per convincersene. A dare un’occhiata tutt’attorno sul nostro globo, e soffermarsi a considerare con qualche attenzione quanto vi accade, l’impressione è quella di clamorose contraddizioni di fatto accettate, dell’assurdo in qualche modo eletto a sistema, di un enorme disordine vissuto come ineluttabile. Tumulti in India, Filippine, Corea, Egitto: tumulti di gente che ha fame, perché la crisi petrolifera e il conseguente boom dei biocarburanti ha causato un rialzo dei prezzi alimentari insostenibile per i più. Ma affamare intere popolazioni per tenere attiva l’industria automobilistica non sembra poi troppo scandaloso, se è normale distruggere deliberatamente il 35 per cento del cibo prodotto in Occidente, per tenere alti i dazi doganali e difendere i propri mercati, o favorire questa e quella categoria di produttori; se è normale, come accade in Usa, considerare malattia sociale l’obesità da iperalimentazione, mentre i sottoalimentati del mondo sono circa ottocento milioni. E se dovunque dagli anni Ottanta i profitti sono aumentati annualmente dal 23,6 al 33 per cento, mentre ogni salario subiva una contrazione calcolabile mediamente in 500 euro all’anno. Se i migranti sono oggi circa 200 milioni, cioè il 3 per cento della popolazione mondiale (ma il calcolo riguarda solo quelli regolarmente censiti, la somma è pertanto da ritenersi in forte difetto): gente che fugge da estreme povertà, da disoccupazione in gran parte causata dall’industrializzazione dell’ agricoltura, oppure da alluvioni, cicloni, desertificazioni, perdita di pescosità di laghi e fiumi inquinati, da paesi e vallate sommersi per dar luogo a dighe gigantesche capaci di garantire energia all’esplosione produttiva dei paesi “emergenti”. Se la crisi ecologica planetaria (che, come si vede, si può accantonare per un momento, ma fatalmente subito la si ritrova tra i fattori determinanti della condizione umana attuale) ha già causato un milione e mezzo di vittime: cifra da tutti valutata enormemente inferiore alla realtà.
Se la nostra è di fatto una società ricca, che sarebbe pertanto in grado di garantire una vita decente a tutti i suoi membri (lo dice la FAO, che non è proprio un organismo antisistema) ma in realtà le disuguaglianze sociali continuano ad accentuarsi, non solo tra il Nord e il Sud del mondo, ma all’interno stesso dei paesi più affluenti, con un forte impoverimento anche dei ceti medi che avevano raggiunto condizioni di relativa agiatezza. Se è una società scientificamente progredita, capace di far vivere tutti a lungo e in buona salute, nella quale però si muore di aids perché i medicinali hanno costi per molti inaccessibili, e sempre più si muore di tumori causati da vario inquinamento (in Italia, ad esempio, secondo l’OMS il 30 per cento dei decessi è di questa natura). Se è una società tecnologicamente avanzata, che potrebbe soddisfare i propri bisogni con quantità limitate di lavoro, ma al contrario sistematicamente va aumentando gli orari e imponendo sempre più alti straordinari, per produrre quantitativi sempre più massicci di merci sempre più scadenti, per gran parte destinate nel giro di qualche settimana a finire in discarica, aumentando cumuli sempre meno gestibili di rifiuti.
Clamorose contraddizioni, generale disordine, l’assurdo praticato e accettato come normale. Così parrebbe. Ma, a pensarci su un attimo, l’apparente follia risponde a una precisa razionalità: quella dell’economia capitalistica cui la nostra società obbedisce, con la quale anzi si identifica, interamente assumendone la logica e i valori. In effetti il quadro qui rapidamente schizzato dell’umana condizione attuale appare determinato dalle “leggi”
del sistema economico capitalistico oggi attivo in tutto il mondo: il quale fonda i suoi meccanismi, la sua prosperità, e la sua stessa esistenza, sull’ accumulazione di plusvalore. Ciò che a lungo ne ha consentito la fortuna, e ha prodotto anche un oggettivo miglioramento nelle condizioni dei popoli industrializzati, ma che oggi inesorabilmente si scontra con “i limiti del Pianeta”, costretto a confrontarsi con l’insuperabile aporia di una crescita produttiva illimitata e un globo terrestre che illimitato non è. A questo sono riconducibili tutte le apparenti assurdità rapidamente citate sopra, dall’allungamento degli orari di lavoro, alla rincorsa di fonti energetiche anche di sicura pericolosità, all’uso distruttivo della natura che della produzione stessa è base imprescindibile.
Il fatto è che non esiste capitalismo senza accumulazione. E la crisi attuale del capitalismo (che un numero crescente di esperti qualificati ormai ammette senza più mezzi termini) non può non sfociare in una sorta di “accanimento autoterapeutico”, nell’inseguimento inesausto della produzione di non importa che cosa né per quale fine o con quali conseguenze, purché il Pil aumenti. Di che altro parlano tutti i potenti del mondo, mentre i poli si sciolgono, le alluvioni da 1500 morti si ripetono, i mercati registrano uno dopo l’altro crolli di colossi bancari, e i meno ricchi diventano poveri? Efficienza, produttività, competitività, crescita, Pil, pervicacemente continua ad essere invocazione comune. Invocazione reiteratamente risuonata anche all’ultimo G8. E non stupisce.
Ciò che davvero invece a me pare incredibile è che lo stesso auspicio di ripresa, di aumento del prodotto, di nuove invenzioni capaci di sostituire i carburanti fossili così da poter mantenere in vita l’economia attuale, con pertinacia e convinzione risuonino anche tra le fila delle sinistre (di quello che ne rimane). Che non ci si avveda che un’ulteriore crescita non sarebbe di alcuna garanzia per il mondo del lavoro, se negli ultimi decenni mentre il Pil poco o tanto continuava ad aumentare, i salari diminuivano, dilagava la precarietà, addirittura tra gli immigrati nascevano nuove forme di schiavismo. Che nulla insomma il lavoro può sperare da una società che solo nel danaro riconosce i suoi valori, e in questa logica promuove e premia l’individualismo più spregiudicato, l’aggressività più esplicita, la violenza di ogni tipo, di fatto dividendo l’umanità in vincenti e perdenti. Una società che , con perfetta coerenza, quando l’economia è in affanno, puntualmente inventa una nuova guerra, capace di rilanciare la produzione di armi e di materiale bellico di ogni sorta, e così far ripartire la crescita, oltre a promettere quella che con sereno cinismo viene definita “la torta del dopoguerra”, la ricostruzione di quanto si è distrutto cioè.
Perché le forze di Rifondazione, impegnate nel dibattito precongressuale, non si fermano a porsi questi interrogativi, a riflettere su una realtà che la sinistra non può più accettare, e non soltanto perché le condizioni del suo popolo vanno peggiorando? Perché non trovano il coraggio di credere che oggi la crisi del capitalismo è reale, e che proprio alle sinistre toccherebbe usarla: non certo per recuperare vecchi slogan, e riproporre itinerari oggi non più percorribili, ma per ripensare la rivoluzione, per inventare una nuova rivoluzione possibile. Il comunismo non è un modello, è una domanda, ha detto di recente Nichi Vendola. Sono d’accordo. E’ una domanda presente e pressante, che attende nuove risposte.
la Repubblica
La sicurezza calpestata
di Gad Lerner
QUANDO gli operai muoiono in troppi alla volta come ieri a Mineo, fulminati o asfissiati letteralmente nella melma, resi massa irriconoscibile dal colore del fango, allora l'Italia è costretta a ricordare. Benvenuto il clima nuovo che si respira nel Palazzo. Ma fuori, intorno? La società sregolata vede precipitare, insieme ai redditi da lavoro, anche le normative più elementari di una dignitosa convivenza. Si crepa di nuovo nelle stive, nelle autocisterne, nei depuratori, sulle impalcature, sulle linee di lavorazione a caldo, come un tempo si crepava nelle miniere.
Subiamo il contrasto scandaloso fra la retorica di una sicurezza ideologica, con cui viene drogata la politica, e poi la sicurezza effettiva sacrificata magari con la scusa che la produttività si migliori facendo senza gli scafandri, gli estintori, i respiratori, i caschi. L´umiliazione del lavoro manuale, la retrocessione della vita operaia a destino sfortunato, spesso vengono giustificate in nome di una virtuosa concordia interclassista, perché il conflitto fra legittimi interessi altro non sarebbe che "invidia sociale".
Venerdì scorso, nello stesso convegno dei giovani di Confindustria che suggeriva per la prima volta nel dopoguerra l´idea dei contratti di lavoro individuali, la relazione introduttiva lamentava «la fretta con cui il precedente governo ha licenziato il Testo Unico sulla sicurezza dei luoghi di lavoro».
In effetti, il 5 marzo scorso, all´indomani della morte di cinque operai alla Truckcenter di Molfetta, benché dimissionario il governo Prodi varò fra i suoi ultimi atti il decreto attuativo della legge 123 sull´antinfortunistica, a ciò sollecitato dallo stesso presidente Napolitano. Lungi da me voler attribuire alla Confindustria una responsabilità morale nelle stragi che si susseguono, tanto più che a Mineo quattro delle sei vittime erano dipendenti pubblici. Ma come potremmo accettare l´obiezione avanzata a Santa Margherita? «Rendere ancora più complesse e difficili le norme che presidiano la sicurezza sul lavoro impone costi crescenti agli imprenditori che già seguono il dettato della legge mentre non sfiora neppure chi dell´illegalità fa una prassi».
Costi crescenti? Metteteli a bilancio per tempo, invece di stanziare oltre dieci milioni di euro per l´indennizzo delle vittime della ThissenKrupp, oltretutto ponendo la condizione vessatoria che rinuncino a costituirsi parte civile nel processo. Chiediamoci perché la stessa Confindustria, che giustamente approva l´espulsione degli associati che pagano il pizzo, non disponga la medesima linea di severità nei confronti delle aziende inadempienti violano le normative sulla sicurezza. Riconoscerebbe così il principio etico secondo cui la salvaguardia dell´incolumità dei dipendenti – il primato della vita umana – va inderogabilmente considerato un bene superiore rispetto al profitto.
Le parti sociali si sono date un orizzonte di tre mesi per modernizzare le regole della contrattazione e affrontare una "questione salariale" riconosciuta come non più rinviabile, dopo dodici anni di costante diminuzione dei redditi da lavoro. Il pericolo che l´ideologia della deregulation, simboleggiata dalla provocazione dei "contratti individuali", apra nuove voragini di incuria nella tutela dei lavoratori, non può essere ignorato. Perché l´Italia delle morti bianche sta ritornando all´antico. In troppe aziende i sindacati hanno già sopportato deroghe mortificanti, magari in nome della salvaguardia dell´occupazione. E un mondo del lavoro in cui divenga norma non scritta la rinuncia alla sicurezza, lungi dal rendere più competitiva la nostra economia, la condanna all´arretratezza strutturale che già in altre epoche storiche abbiamo sofferto.
Il lutto degli operai siciliani, piemontesi, veneti, liguri, pugliesi – il susseguirsi delle stragi al ritmo insopportabile di dieci morti in un solo giorno – rivela il tragitto di un paese nel quale i lavoratori tornano a essere plebe. Come tale indotta magari a ricercare protezioni clientelari, occasionali padrini politici, ma inadeguata a proporsi motore di uno sviluppo fondato sulla professionalità e sull´innovazione. Il nostro rimpianto boom economico, al tempo della ricostruzione, scaturì dal concorso fra talento imprenditoriale e ritrovata dignità del lavoro, dall´orgoglio di una comunità nazionale capace di valorizzare anche la fatica fisica che oggi invece viene rimossa, imposta per bisogno, sopportata come vessazione.
Quei lavoratori di Mineo andati cinque metri sotto terra senza attrezzature e prevenzioni adeguate, rappresentano una quotidianità italiana vergognosa, l´abitudine dilagante al pressappochismo. Feriscono la coscienza di chi ce l´ha ancora. Promettono rabbia e violenza, altro che "clima nuovo".
il manifesto
Omicidio europeo
di Loris Campetti
C'è un nesso terribile tra la decisione dell'Unione europea di liberalizzare l'orario di lavoro e l'ennesima strage di ieri nella quotidiana guerra italiana sul lavoro, che ha lasciato sul campo almeno nove operai, nove persone. Il nesso si chiama liberismo.
Nella seconda metà dell'Ottocento, lotta dopo lotta, strage dopo strage, prese corpo la Festa dei lavoratori, il 1° Maggio. Il movimento partì negli Stati uniti e in Canada, sbarcò in Europa nel 1889, quando la festa venne ufficializzata dai delegati socialisti della Seconda internazionale. Il 1° Maggio aveva al centro un grande obiettivo strategico: la conquista delle otto ore. Nella primavera del 1906, novemila mondine sfilarono nelle strade di Vercelli insieme ai metallurgici cantando «Se otto ore/ vi sembran poche...». Il XX secolo è segnato dalla lotta per le 40 ore settimanali. Una battaglia di civiltà che segnò un salto epocale.
Chissà se i 27 ministri del lavoro dell'Ue hanno studiato la storia del Novecento, e se l'hanno capita? Due giorni fa, 22 di loro hanno votato una normativa che sentenzia la fine non delle 40 ma delle 48 ore, conquistate dall'Ilo nel lontano 1917. Del «secolo breve», della sua ferocia e delle sue conquiste, sappiamo ormai tutto. Cosa dobbiamo aspettarci da questo secolo, se ai suoi albori ci ributta indietro di 120 anni?
Se Strasburgo voterà il testo licenziato dall'Unione europea, la deregulation del lavoro andrà oltre le speranze dei peggiori governi liberisti. Tra i più entusiasti quelli italiano e francese, che hanno suggellato la loro vittoria schierandosi con il fronte della «modernità», cioè del mercato e del profitto come unici regolatori delle relazioni sociali, della vita delle persone. Si potrà lavorare anche 60, 65 ore a settimana, se solo il padrone lo vorrà. Sarà ancora più facile morire in fabbrica, nei cantieri, nei campi, o dentro le cisterne avvelenati come topi. Liberalizzare l'orario di lavoro è un crimine, un'istigazione a delinquere. Almeno ci risparmino, signori ministri e portaborse, le lacrime per gli ultimi omicidi di ieri, a partire dai sei operai siciliani uccisi dentro una vasca di depurazione dalle esalazioni tossiche. Così si moriva nell'Ottocento, così si muore nel Duemila. E le sopravvissute conquiste del Novecento? Bruciate sui banchi di Strasburgo, se non verrà fermata la marcia liberista.
Grazie alla nuova normativa si potrà persino cancellare ogni forma di contrattazione collettiva, sostituita dai rapporti di lavoro individuali, «fatti dal sarto su misura» come sogna la Confindustria che interpreta la vittoria della destra, l'evaporazione della sinistra e la «modernizzazione» del Pd, come un viatico per piegare ogni diritto alla logica d'impresa. Costi quel costi, fossero anche vite umane. Del resto, non hanno già detto padroni e ministri che le nuove leggi sulla sicurezza sono troppo onerose e vanno ammorbidite?
È vero, in Italia comunisti e socialisti non hanno più rappresentanza politica. Ma non c'è solo il Parlamento, non è scritto che le forze democratiche siano morte. La domanda è se esistano forze sociali, sindacali, civili e culturali, qui e in Europa, in grado di battere un colpo, di difendere una conquista di civiltà. Se non altro, in nome del diritto alla vita di chi lavora. Se la risposta fosse negativa, avrebbe vinto chi accusa di ideologismo ogni critica allo stato di cose presenti. Non sarebbe la fine della Storia, ma dovremmo prendere atto che bisognerà ripartire da molto lontano. Dalla fine dell'Ottocento.
«I grandi filosofi del passato non vivevano fuori dal mondo, al contrario cercavano risposte ai problemi più concreti e urgenti dei loro contemporanei. Oggi i filosofi che si rifugiano nella metafisica parlano di un mondo che non c’è, si ritirano dalle loro responsabilità». Guido Rossi non perde mai il gusto della provocazione e della polemica. A pochi giorni dall’uscita del suo nuovo libro, Perché filosofia (Editrice San Raffaele, pagg. 122, euro 14), l’autorevole giurista è visibilmente divertito: proprio la casa editrice di don Verzé gli pubblica questo ciclo di lezioni tenute all’università San Raffaele su un tono radicalmente laico. Non mancano le critiche a papa Benedetto XVI, compresa una provocatoria negazione delle radici cristiane dell’Europa.
In questo libro lei non si cimenta solo con la filosofia del diritto. È anche un atto di accusa verso quegli intellettuali che sembrano incapaci di dare risposte agli interrogativi pressanti del cittadino.
«In positivo, è un appello ai filosofi, ai teologi, agli scienziati, a tutti i, perché si occupino di diritto e di economia: cioè le materie che vanno al cuore dei problemi dell’umanità. Una delle ragioni fondamentali per cui ho accettato l’invito a insegnare filosofia del diritto, è l’interesse a trattarla raccogliendo l’ispirazione di John Rawls e la sua "Teoria della Giustizia". Il diritto e l’economia devono avere al centro la questione della giustizia sociale. È valido più che mai il "pregiudizio" in favore dei più deboli che Rawls affermò con il celebre principio del velo d’ignoranza. Quando una società deve darsi delle regole, nel dubbio ogni attore deve decidere dietro un velo d’ignoranza, senza sapere cioè se egli sarà dalla parte dei privilegiati o dei diseredati: è l’unico criterio che garantisce una equità universale».
Un tema tutt’altro che astratto. È proprio un deficit di equità che oggi sembra far vacillare il consenso verso la globalizzazione, anche nei paesi più forti e tradizionalmente liberisti come gli Stati Uniti.
«Infatti è su questo che si svolge un dibattito acceso e appassionante, con i contributi degli economisti americani più lucidi: Paul Krugman, Robert Reich, Larry Summers. Quest’ultimo ha aperto di recente una discussione cruciale sulle colonne del Financial Times. Summers sostiene giustamente che la globalizzazione rischia di entrare in una crisi drammatica, se non riesce a conquistare il consenso delle fasce più deboli: ivi compresi i colletti blu e la middle class americana che è attraversata da angosce e paure nuove».
Lei affronta il fenomeno del Supercapitalismo: un’economia dove le élites hanno perso i legami con la maggioranza delle popolazioni. Perfino nei paesi più sviluppati le diseguaglianze fra i chief executive delle multinazionali e i loro dipendenti raggiungono livelli mai visti nella storia. Si rompe ogni legame di solidarietà, perfino il concetto di cittadinanza si svuota quando la classe dirigente si isola da ogni rischio, non partecipa più dei destini della società.
«All’arricchimento si accompagna la deresponsabilizzazione. Altro che etica protestante del capitalismo. Un tempo i dirigenti delle aziende incassavano un premio economico che era sorretto da una legittimità: la loro ricchezza era commisurata ai risultati che offrivano agli azionisti, ai dipendenti, all’insieme della società che beneficiava della creazione di benessere e occupazione. Oggi lo spettacolo che offre il nuovo capitalismo è ben diverso. I dirigenti uccidono le aziende, distruggono valore azionario, gettano sul lastrico i dipendenti, e se ne escono dopo essere stati premiati con buonuscite sempre più generose. Si arricchiscono dopo aver impoverito la collettività. Il fenomeno va ben oltre la sfera dell’economia, spezza una regola fondamentale della democrazia rappresentativa. C’è un tradimento dei doveri della classe dirigente, una rottura fra rappresentanti e rappresentati».
Lei scrive che oggi nei mercati globali le grandi corporation possono legare le loro attività alla manipolazione dei mercati, alla frode, alla corruzione, all’evasione fiscale e al narcotraffico. Complici il segreto bancario, i paradisi fiscali offshore, e una interpretazione mistificante del diritto alla privacy. La mancanza di un quadro giuridico all’altezza dell’economia globale, nel suo libro è indicata come un arretramento perfino rispetto alla globalizzazione medievale, quando almeno la presenza della cosiddetta lex mercatoria rappresentava una sorta di regolazione per gli scambi tra mercanti.
«Il richiamo al Medioevo ci riporta alle origini di alcuni istituti del diritto. La legge fallimentare che in Italia usa il termine di bancarotta, in inglese bankruptcy, si rifà alle regole delle fiere medievali: quando un venditore non era più in grado di pagare i debiti, i commissari della fiera gli "rompevano" fisicamente il banco per segnalare e sanzionare la sua insolvenza. Oggi la regolazione non si è adeguata alle nuove dimensioni dei mercati. Molte emergenze dell’economia globale possono sfociare in un conflitto tra ordinamenti. Basti pensare alla crisi alimentare, alla emergenza di una nuova fame mondiale di cui si è discusso in questi giorni al vertice di Roma della Fao: non esistono regole all’altezza della dimensione di questa calamità, che chiama in causa le multinazionali dell’agroalimentare e della biogenetica, i protezionismi sovranazionali di americani ed europei, le strategie energetiche, la finanziarizzazione del capitalismo che ha invaso anche i futures dei generi alimentari necessari per la sopravvivenza. Mentre i grandi poteri dell’economia si muovono in questo orizzonte globale, mancano le autorità pubbliche capaci di proiettarsi nella stessa dimensione. Dovremmo cominciare dall’Europa, per esempio con la costruzione di una vera agenzia europea con poteri sui mercati finanziari del continente».
Nella rivalutazione dei grandi filosofi di un tempo, che si confrontavano con le sfide politiche più concrete, non poteva mancare Adam Smith. Che fu un filosofo etico prima di essere il fondatore della moderna scienza economica. Un grande pensatore, secondo lei travisato profondamente.
«Uno dei suoi concetti più equivocati è quello della mano invisibile. Nella vulgata si è imposta l’idea che Adam Smith con la mano invisibile abbia inteso dire che il mercato deve essere lasciato a se stesso perché raggiunge automaticamente un equilibrio virtuoso. La mano invisibile è diventato l’argomento principe in favore di politiche di laissez-faire, fino ai neoliberisti. In realtà Adam Smith prende a prestito l’immagine della mano invisibile, con molta ironia, dal terzo atto del Macbeth di Shakespeare. Macbeth parla della notte e della sua mano sanguinolenta e invisibile che gli deve togliere il pallore del rimorso prima dell’assassinio. Smith ha preso in giro ferocemente quei capitalisti che credevano di avere il potere di governare i mercati. Tra l’altro Adam Smith capì allora che la Cina sarebbe tornata ad essere una grande potenza dell’economia mondiale, e auspicò una sorta di Commonwealth universale per governare il nuovo ordine internazionale».
Lei è reduce dal Festival dell’Economia di Trento che quest’anno ha messo al centro delle sue discussioni il rapporto fra mercato e democrazia. Di fronte all’ascesa di nuovi capitalismi autoritari e illiberali è entrato in crisi un determinismo economico: l’idea che lo sviluppo porta automaticamente alla libertà politica.
«Quella illusione fu smentita anche in tempi più lontani. Nel marzo del 1975 il profeta del neoliberismo economico, Milton Friedman, andò in Cile per convertire il dittatore Pinochet al mercato, perché aprisse il suo paese al commercio mondiale e agli investimenti stranieri. Subissato di critiche da parte dei liberal americani, Friedman sostenne che il mercato era il presupposto della democrazia e dei diritti umani. In realtà la dittatura di Pinochet durò per altri 15 anni».